Lettore Indipendente Pensiero libero di SamuelCostaRica (/viewuser.php?uid=913334)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Biblioteca ***
Capitolo 2: *** I Morti ***
Capitolo 3: *** L'Agenzia ***
Capitolo 4: *** Il cieco ***
Capitolo 5: *** Il reclutamento ***
Capitolo 6: *** Il viaggio ***
Capitolo 7: *** Siltbliss ***
Capitolo 8: *** Il labirinto ***
Capitolo 9: *** L'arrivo alla biblioteca ***
Capitolo 10: *** Spazio profondo ***
Capitolo 11: *** Notizie ***
Capitolo 12: *** Prigione ***
Capitolo 13: *** Ordine e ordini ***
Capitolo 1 *** La Biblioteca ***
Il cielo era grigio, carico di acqua.
Non che gli interessasse molto, lì, al
coperto, sotto una delle cupole perimetrali,
completamente in vetro temperato resistente ricoperto di più
strati di tecnopolimero,
della biblioteca.
La biblioteca: era l’unica cosa di cui
gli importava.
Era stata costruita secoli prima, su quella
penisola, lunga circa duecento
chilometri, posta a nord di un lago, che veniva chiamato, nella lingua
locale, Punainenmeri.
La biblioteca distava cinquanta chilometri dal
punto di attacco della
penisola con la terra ferma.
Più che un lago quello era da tutti
considerato un mare, dato che l’acqua
ne aveva la stesa composizione, che superava la superficie di
seicentomila
chilometri quadrati, che le sponde non erano tra loro visibili, con
parecchi
affluenti posti a est e ovest della penisola, ma con un unico accesso
dal
vicino oceano, uno stretto posto a sud, lungo alcuni chilometri,
chiuso, per tutto
il suo percorso, tra altissimi vulcani in attività, alcuni
dei quali avevano le
pareti a strapiombo e formavano lo stretto medesimo.
L’accesso al mare era interdetto da un
una rete elettromagnetica,
posizionata tra le due pareti vulcaniche poste
all’inizio
dello stretto, che non
consentiva a nessun veicolo marino, sia sopra che sotto la
superficie
dell’acqua, di
attraversare lo stretto e
di entrare nel mare.
Inoltre, all’interno del mare, vi erano
delle postazioni automatiche
sottomarine che, a mezzo di sonar e boe acustiche sommerse, tenevano
sotto
controllo il mare.
Dal cielo, invece, l’accesso era
controllato da varie stazioni militari con
radar ad apertura sintetica a scansione tridimensionale, installate
sulla terra
ferma, posizionate vicino a campi di aviazione militare, che
proteggevano la
biblioteca da qualsiasi veicolo non autorizzato al sorvolo che potesse
giungere
dal cielo o dallo spazio.
L’attuale imperatore, un tipo malfidente,
aveva anche fatto posare,
recentemente, dei sensori sotto terra, per l’ascolto di
qualsiasi vibrazione
del terreno dovuto a veicolo che avessero viaggiato sotto la
superficie del
pianeta.
Quei sensori servivano anche per tenere sotto
controllo i movimenti
tellurici della terra, volgarmente chiamati terremoti, provocati dai
vulcani
posti sullo stretto e che formavano una catena montagnosa che, partendo
dallo destra
dello stretto, dopo aver formato il medesimo, seguiva una direttrice
sud-est
nord-ovest.
Ma per anni, anzi secoli, nessuno aveva mai cercato
di avvicinarsi alla
biblioteca senza permesso.
Permessi che non venivano distribuiti facilmente
alla popolazione.
Per la popolazione vi erano biblioteche
più piccole, distribuite sui vari
pianeti che costituivano l’impero, i cui libri non erano in
formato carta, ma
in formato informatico: la censura sui libri era molto più
facile se erano in
formato informatico, dato sulla carta, o qualsiasi altro tipo di
materiale, non
era possibile tirare righe per cancellare frasi senza che qualcuno non
si
ribellasse o protestasse, rompendo la pace imperiale.
Alla quella biblioteca, quindi, dove i libri erano
in carta e altri
materiali, accedevano soltanto studiosi e ricercatori,
autorizzati da un
numero limitato e ben conosciuto di persone.
L’elenco comprendeva
l’imperatore, l’imperatrice, il capo gabinetto
dell’imperatore, alcuni funzionari e burocrati di
vari dipartimenti e alcuni
rettori delle più importanti università
del pianeta e di quella parte
dell’universo governata dall’imperatore.
La persona stava guardando il mare, o meglio il
faro posto su uno spuntone
di roccia posto a circa un chilometro dalla terra che, con
intermittenza,
lanciava la sua luce a illuminare il buio, davanti ad un porto vuoto,
sul mare sconfinato
nel suo limite, di quello strano colore grigio, in burrasca, sotto quel
cielo
plumbeo, mentre sulle finestre si rispecchiava la stanza che era dietro
di lui.
Una stanza arredata in maniera sfarzosa.
I mobili erano dei più rari e belli che
fossero stati costruiti in tempi
remoti, lavorati a mano da persone esperte.
Il tavolo, dietro a lui, era di forma rettangolare,
di colore nero con
riflessi blu: le sei gambe, che sostenevano il tavolo, due poste verso
le
finestre e quattro dall’altra parte, rappresentavano strani
animali, mai visti
da persona su quel pianeta, colorati di oro.
La sedia era dello stesso colore del tavolo, con
seduta e schienale
imbottiti e rifiniti in pelle nera: le gambe erano anch’esse
di color oro,
dotate di rotelle per consentire, a chi si fosse seduto su di essa, di
girarsi
di trecentosessanta gradi intorno al suo centro di gravità.
Gli altri mobili, di diversi gradazioni dei colori
marrone e nero, di
diversa forma ed altezza, sembravano distribuiti, all’interno
della stanza
posta in cima alla cupola, in modo casuale, senza seguire una ben
precisa
dislocazione.
In realtà, una precisa dislocazione ce
l’avevano: chi fosse salito dalle
scale, poste dall’altra parte della stanza, entrandovi, con i
mobili in quella
posizione, non avrebbe visto chi era seduto alla scrivania.
Mentre ammirava il panorama, dietro a lui si
sentirono alcuni passi sulle
scale, indecisi.
Si sedette immediatamente sulla sedia e si
avvicinò alla scrivania, ponendo
la mano sinistra sotto di essa.
L’uomo, zoppicante, che saliva gli ultimi
scalini, scrutò la cupola in
cerca di chi era presente.
«Bibliotecario?». Chiese
l’uomo, con fare sommesso.
«Perché mi
disturbi?». Gli rispose il bibliotecario, sfiorando con le
dita
la micidiale arma posta sotto il tavolo.
«Chiedo scusa, ma serve la vostra
presenza alla camera dei libri proibiti.
C’è stato un accesso non autorizzato. Non sappiamo
cosa fare». Disse l’uomo, con
voce rispettosa e tremante, alquanto preoccupato abbassando la testa.
«Nessuno può accedervi senza
il mio permesso!». Disse il bibliotecario con
un tono di voce profondo, che dimostrava tutta la sua furia per quanto
gli era
stato detto.
L’uomo, appena arrivato, si volse e scese
frettolosamente le scale, senza
aspettare la risposta del bibliotecario, quasi rischiando di cadere.
Il bibliotecario, sfilando l’arma da
sotto il tavolo, si
alzò e si diresse verso le scale.
Come l’uomo, che lo aveva avvisato
dell’improvviso problema, indossava una
tonaca lunga fino ai piedi, di color grigio perla, lavorato con dei
disegni di
color nero, che rappresentavano un labirinto.
Un enorme cappuccio copriva la sua testa e ne
nascondeva i lineamenti del
viso.
Infilandosi le mani delle larghe maniche della
tonaca, nascondendo l’arma
in una tasca nascosta dentro alle maniche, incominciò, con
passo fermo, a
scendere i gradini della scala, che lo portarono due piani
più in basso, sempre
all’interno della cupola.
Nella zona centrale dell’enorme stanzone,
completamente vuoto, vi era una
cabina circolare, completamente di vetro, con una luce bluastra che lo
illuminava.
L’uomo vi entrò, di
malavoglia, ma l’unico modo di uscire dalla cupola era
quella maledetta cabina: non gli era mai piaciuto il teletrasporto, ma
non
poteva farne a meno.
Vi salì e, a chiara voce,
dichiarò il luogo ove voleva andare.
«Stanza 1111 codice di accesso
tequila!». Disse il bibliotecario.
Il suo corpo di smaterializzò, apparendo
in una cabina simile parecchi
metri sotto terra, vicino ad una porta blindata.
Vi erano presenti, al suo arrivo, sette persone,
tutti vestiti di una
tonaca uguale alla sua: solo tre di essi avevano il cappuccio alzato.
Gli altri si avvicinarono al bibliotecario: tra
loro c’era la persona che lo
aveva avvisato dell’intrusione.
Le persone con il cappuccio calato sulla testa
rimasero fermi, guardando da
lontano quel chiacchiericcio, intorno al nuovo venuto, delle persone
che cercavano
di giustificarsi, dichiarando che non sapevano assolutamente nulla su
cosa
fosse successo.
Il bibliotecario estrasse la mano destra dalla
manica e fece un gesto per
quietare le persone che lo circondavano.
Guardò gli altri incappucciati, fermi,
immobili, dietro a quel muro di
uomini i quali, capendo la situazione, si spostarono, lasciandoli
passare.
Il bibliotecario e gli altri fecero capannello,
incominciando a parlare con
fare sommesso, senza farsi sentire dai presenti.
Dietro a loro vi era una porta blindata, chiusa,
che era di forma ovale,
senza cardini e senza serratura, alta più di cinque metri.
La stanza, che forse avrebbe dovuto contenere la
porta, era più alta della
porta e lunga almeno venti metri, imbiancata di color bianco, con un
pavimento
di color grigio chiaro, formato da enormi lastre quadrate di materiale
composito.
Di fianco alla porta blindata, sulla sinistra, era
posizionato una piastra
metallica di forma rettangolare.
Il bibliotecario, dopo aver discusso con gli altri,
si avvicinò alla
piastra togliendo, con la mano sinistra, uno strano aggeggio di color
bianco da
una tasca nascosta esterna della tunica, dallo stesso lato della manica.
Gli uomini senza cappuccio si allontanarono,
correndo, mentre gli altri si
spostarono sul lato destro, lungo il muro perimetrale del locale.
Il bibliotecario appoggiò
l’apparecchio alla piastra e un rumore metallico,
forte, rimbombò nella stanza.
I chiavistelli, nascosti, che tenevano la porta
chiusa, incominciarono a
cedere, facendo sì che l’enorme porta si muovesse
verso il locale, smuovendo
polvere e calcinacci, come se la porta non fosse stata aperta da tempo.
Ma la porta, stranamente, non cadde nel locale.
Man mano che i cardini liberavano la porta, questa
si mosse, prima verso il
locale, poi verso il basso.
Alla fine incominciò a scivolare in un
buco sul pavimento, sparendovi.
Gli uomini senza cappuccio, che si erano
allontanati e posizionati davanti
alla porta blindata, furono investiti da un vento freddo e
maleodorante, proveniente
dal nero che si vedeva dietro all’enorme passaggio lasciato
libero dalla porta.
I quattro incappucciati sorrisero, vedendo le facce
schifate degli uomini
fermi davanti alla porta.
Il bibliotecario, dopo che il vento
cessò, si spostò davanti alla porta,
guardandovi dentro.
L’uomo avanzò nel passaggio
lasciato libero dalla porta: appena vi si
infilò, una piccola luce, sulla destra, si accese.
Poi, una dopo l’altra, altri luci
incominciarono ad accendersi, in basso,
illuminando, discretamente, quello che sembrava un lungo salone.
Poi incominciarono ad accendersi altri luci, a
varie altezze, illuminando
un corridoio enorme, alto decine di metri.
Poi altri luci si accesero, illuminando corridoi
che partivano
perpendicolarmente dal corridoio principale.
Una seconda fila di luci, sopra a quelle che si
erano già accese,
incominciarono ad illuminare la scena, rompendo il buio in cui i
locali, da
tempo, erano stati
lasciati.
Più le luci si accendevano,
più la biblioteca dei libri proibiti mostrava
il suo vero volto.
Era alta più di cinquanta metri, lunga a
perdita d’occhio, con enormi
scaffali, in pietra e il legno, che
contenevano libri, fatti solo di carta o materiali simili, di diverse
grandezze
e spessori.
Non si vedeva videolibro o schede di memoria su
nessun scaffale.
Il bibliotecario e gli altri incappucciati si
misero l’uno di fianco
all’altro, rimirando quello spettacolo.
Gli uomini, rimasti indietro, emisero dei rumori
sommessi, di meraviglia,
nei confronti di quanto vedevano.
Il bibliotecario, girandosi verso i suoi
interlocutori posti alla sua
destra, disse sommessamente: “Peccato che il resto sia stato
separato dalla frana”.
«Per fortuna!». Disse
l’ultimo interlocutore.
«Già. Per fortuna!».
Replicò quello di fianco al bibliotecario.
Il terzo si incamminò
all’interno della vecchia biblioteca.
Gli uomini non incappucciati si mossero per
seguirli, ma un muro invisibile
si frappose tra loro e la porta.
Il bibliotecario si girò e fece loro
cenno di non muoversi.
Gli uomini rimasero lì a rimirare quello
spettacolo, mentre il
bibliotecario e gli altri si incamminarono all’interno delle
biblioteca.
Mentre avanzavano le luci, lasciate dietro a loro,
si spegnevano, lasciando
accese solo quelle davanti a loro, per illuminare il loro cammino.
Gli uomini rimasti fuori videro, improvvisamente,
la porta risalire e rimettersi
al suo posto.
Spaventati scapparono, infilandosi uno alla volta
nel teletrasporto e
ritornando alle loro faccende.
Se qualcuno era entrato nella zona dei libri
proibiti non era un problema loro.
Avevano così tante cose da fare, in
quell’enorme biblioteca che, anche se
qualcuno si fosse introdotto in quel posto, non gli interessava.
Il bibliotecario e gli altri non si videro per
tutto il giorno e nessuno se
ne preoccupò.
Alla sera, nella mensa della biblioteca, dove si
raccoglievano tutti i
dipendenti, il bibliotecario e i suoi avventurosi amici apparvero, con
il cappuccio
abbassato e senza proferir parola.
Il rumore di fondo, che si era improvvisamente
fermato al loro arrivo,
riprese, senza dar molto peso al fatto che né il
bibliotecario né gli altri
prendessero parola per chiarire cosa fosse successo.
Non era abitudine del bibliotecario giustificare
certe cose ai suoi
sottoposti: ignorare ciò che succedeva nei luoghi
più nascosti delle biblioteca
era necessario, se si voleva continuare a lavorare e vivere in quel
posto.
All’esterno della biblioteca pioveva
ormai da parecchie ore, accompagnata
da tremendi lampi di luce e rombi di tuono, mentre il buio la faceva da
padrone
e, dopo cena, tutto il personale si diresse verso le proprie stanze per
dormire
quella notte, come la precedente e quella successiva, sperando che si
fosse
visto, il giorno seguente, la luce del sole.
La
biblioteca era come
una monastero, sempre liberi, chi vi fosse dentro, di uscire e di
rientrare
quando voleva, ma decisamente scoreggiato dal bibliotecario e dagli
altri: la
biblioteca pretendeva devozione dai suoi addetti e non dava tanto
facilmente
confidenza, come il bibliotecario.
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Capitolo 2 *** I Morti ***
Tutti vorrebbero evitare di andare ai funerali.
L’imperatrice non ne era da meno.
Ma a quello proprio non poteva evitare di andarci.
La sua più cara amica era morta, in un
misterioso incidente, alcuni giorni
prima, su un pianeta del sistema solare XXX, lontano non molti anni
luce dal
pianeta ove vi era la capitale dell’impero.
Era una burocrate onesta e laboriosa, fedele
più all’imperatrice che
all’imperatore, ma comunque fedele ai principi morali che
l’imperatore voleva
che ogni buon burocrate seguisse.
Il funerale avvenne, su ordine
dell’imperatrice, nelle immediate vicinanze
della capitale e la donna fu sepolta in un cimitero privato, con tutti
gli oneri
dovuti ad un burocrate di alto rango, anche se la donna non lo era.
Il corpo, quando arrivò sul pianeta, fu
identificato personalmente
dall’imperatrice, che ne verificò personalmente lo
stato.
I suoi accompagnatori ebbero da ridire del modo di
fare dell’imperatrice,
ma lei non era tipo di ascoltare molto i pareri degli altri,
specialmente se
non richiesto.
Il corpo dell’amica non mostrava affatto
i danni provocato dall’incidente
di cui si leggeva sui verbali dei poliziotti giunti per primi sul posto.
L’imperatrice, da un po’ di
tempo, seguiva i casi di morte improvvisa dei
burocrati di basso rango, di solito morti per incidenti casuali, i cui
corpi,
se non bruciati nell’incidente dei loro autoveicoli, venivano
cremati immediatamente,
dopo un sommario riconoscimento delle identità.
La cosa l’aveva alquanto sospettata,
perché i burocrati erano tutti
passacarte, gente che seguiva pratiche non molto importanti.
Ma gli incidenti erano sempre accaduti lontano
dalla capitale, su pianeti
insignificanti, ove i burocrati erano andati a seguire cose di poco
conto.
Perché l’imperatrice se ne
interessante così tanto non era dato a sapere a
nessuno, ma la cosa aveva, invece, interessato l’imperatore.
Non vivendo molto spesso insieme,
l’imperatore e l’imperatrice parlavano solo
di quello che erano le cose normali di cui si parla in coppia: figli,
amicizie,
malattie, parenti defunti o troppo pressanti per soldi o potere che
volevano e
a cui non avevano diritto.
Una sera l’imperatore di
presentò, solo, negli appartamenti privati della
moglie, che stava, insieme alla baby sitter, curando personalmente i
due figli,
una bambino di dieci anni e una bambina di sei, avuti
dall’imperatore.
L’uomo aveva una vestaglia lunga, di seta
trapuntata, di color rosso scuro,
sopra un pigiama di color marrone.
La donna lo guardò per alcuni secondi,
preoccupata, mentre i figli
correvano incontro al padre.
Lui si abbassò ad abbracciarli e
baciarli, parlando con loro del più e del
meno, della giornata passata a scuola e poi in giro per il palazzo a
giocare.
L’uomo li accarezzò con
benevolenza, dandogli una leggera sculaccia sul
sedere e rimandandoli dalla madre.
Essi si avviarono verso di lei, che li bacio e li
lasciò alle cure della
baby sitter.
Lei e l’imperatore si allontanarono dalle
stanze dei figli, entrando nella
camera da letto dell’imperatrice.
«Un altro figlio, caro?».
Chiese lei, sedendosi sul bordo del letto.
Lui si sedette su una comoda poltrona, di fronte
alla moglie.
«No, cara. Ma mi è giunta voce
che ti stai interessando ci cose che non ti
competono!». L’imperatore, seduto su quella
poltrona in cui si sprofondava facilmente,
ma con la schiena ben dritta, guardava dritto negli occhi grigi della
moglie,
che aveva un viso lungo, con gli zigomi leggermente sporgenti, una
bocca
piccola, un nasino con la punta verso l’alto, dandogli una
espressione da
persona superficiale
«Non sono a conoscenza di ciò
he mi stati dicendo, caro!». Disse lei,
voltando il viso verso destra, evitando di guardarlo negli occhi.
L’imperatore sapeva bene che
l’imperatrice aveva, come lui, studiato il
linguaggio del corpo e della voce, del suo controllo e di come
utilizzarlo a
proprio vantaggio.
Perché l’imperatrice, allora,
si comportava così.
La donna fece uno strano movimento con il viso
verso l’alto e l’imperatore,
che stava per parlare, seguì lo sguardo di lei.
In alto, un foro nella parete, nascosta da un
riloga delle tende, dava
l’impressione che vi fosse nascosta una mini telecamera.
L’uomo capì.
I due incrociarono i loro sguardi in modo languido.
L’imperatrice inizio a fare le fusa come
una gattina e l’imperatore decise
di assecondarla.
Lei si alzò e andò verso il
bagno, facendo cadere la vestaglia di seta di
color pesca e, un attimo dopo, la lunga camicia di notte, sempre di
seta di
color bianco, mostrandosi nuda.
Era una donna alta e flessuosa e le due gravidanze,
anche con l’aiuto di un
buon allenamento in palestra e di massaggi fatti da mani esperte, non
avevano
modificato il suo meraviglioso corpo.
L’uomo segui l’esempio della
donna, lasciando cadere la sua vestaglia e
infilandosi, subito dopo di lei. Nel bagno.
Dopo aver chiuso la porta, i due tirarono un
sospiro di sollievo: lui tentò
lo stesso un approccio amoroso con la donna, che corse a mettersi
l’accappatoio
bianco appeso vicino alla doccia.
«Stavano dicendo, caro?». Disse
lei, con fare seduttivo.
Lui sbuffò e si sedette su uno sgabello,
vicino alla vasca del bagno
incassata nel pavimento.
«La mia risposta, caro»,
continuò lei «e sì, mi sto interessando
di cose
che non mi competono, dopo la morte della mia più cara
amica. Ma non è la sola
che è morta in circostanze tanto strane!»
«Lo so!», gli fece eco
l’imperatore. «So che qualcuno sta uccidendo
burocrati di basso livello. Non sono a conoscenza del
perché, ma comunque è una
cosa a cui verrò a capo in poco tempo!»
Il fare dell’imperatore era deciso, ma la
moglie scosse il capo.
«No. Non hai neanche idea di cosa stia
succedendo. Secondo te, quanti
burocrati sono morti?». Chiese la moglie.
«Non credo che siano più di
una decina». Disse deciso l’imperatore.
«Centodieci, mio caro. Il tuo conto
è impreciso e alquanto approssimativo!»
L’imperatrice era decisa e
l’imperatore ne rimase sconvolto, come se
qualcuno lo avesse tenuto all’oscuro di tutto.
«Dire che sei nei guai, mio caro,
è dir poco. Li hanno sostituiti senza
dirti niente, con ordini imperiali completi di firme false. Ho paura
che
qualcuno ti abbia preso la mano. Mi sa che il tuo prossimo compleanno,
i tuoi
prossimi quarant’anni, sarà anche
l’ultimo che festeggerai. Da uccidere dei
burocrati a uccidere un imperatore la strada è
breve!»
L’uomo si sentiva scomodo su quello
sgabello, più scomodo che sul trono.
Guardò la donna e cercò in
lei un cenno di compiacimento.
La donna, invece, lo guardo con fare superiore.
«La vita dei miei figli è
più importante della tua, mio caro. Se cerco da
sola risposte è perché temo per la loro vita. E
tu non stati facendo niente per
tappare tale falla!»
«La falla, mia cara, l’ho
voluta io! Non posso scoprire il tentativo di
colpo di stato o di uccisione dell’imperatore, se non do un
po’ di corda a coloro
che complottano contro di me.»
L’uomo si alzò e
cominciò a camminare nel bagno a lunghi passi, a testa
bassa, pensoso.
«Come posso fare, come?».
Continuò «Devi stare attenta, non posso difendere
il trono e l’impero da tutti, se anche tu ti metti in mezzo a
fare domande a destra
e a manca su tutti coloro che sono morti, che non sono tornati dai
viaggi futili
per controllare pratiche inutili! Alcuni li ho mandati io di persona,
per
verificare se la cosa era vera. La tua amica si è offerta
volontaria ed è
morta. E la cosa dispiace più a me che a te!»
La donna stava piangendo, con le mani che gli
coprivano il viso.
L’uomo se ne accorse e gli corse
incontro, ma lei lo allontanò urlandogli
contro.
«Tu, maledetto! Hai mandato Clare a
morire! Non meriti alcuna pietà da me!»
«E tu, mia cara, con il tuo amico
Alfonse, che forse è a capo di tutto ciò,
cosa fate quando lo vedi?»
«Niente. Alfonse è da
più di un mese che non lo vedo. È partito per il
suo
pianeta e non so quando tornerà!»
«Mai! Mi sa tanto che l’hanno
ucciso!»
La donna guardò l’uomo ed
esplose ad urlare, sedendosi per terra, scalciando
contro il marito.
Le urla attirarono le dame di compagnia
dell’imperatrice e alcuni
servitori, che bussarono alla porta del bagno.
L’urlo dell’imperatore sembrava
quello di un leone ferito.
«Andate via tutti! Non abbiamo bisogno di
nessuno!»
La voce, come un tuono, arrivo da dietro la porta,
coprendo per un attimo
le urla e i pianti della donna.
I servitori si allontanarono subito, mentre le
dame, preoccupate, rimasero
ancora un attimo, allontanandosi poi in silenzio.
I figli della coppia, sentite le urla, si erano
affacciati alla porta della
camera della mamma, ma la baby sitter li ricondusse nelle loro stanze.
La donna urlò e pianse fino allo
sfinimento.
Dopo più di un’ora la donna si
assopì e l’uomo la mise nel letto.
L’indomani,
di sicuro,
la donna avrebbe smosso mare e monti per scoprire cosa succedeva e lui
non lo
avrebbe potuto, o voluto, fermarla.
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Capitolo 3 *** L'Agenzia ***
L’Agenzia per il Controllo e lo Sviluppo
delle Lingue Arcaiche
(A.Co.De.L.A.) era una agenzia voluta dall’imperatrice, che
doveva occuparsi
della conservazioni delle lingue non più studiate a scuola,
ma di cui si
trovavano antiche iscrizioni sui pianeti dell’impero.
In realtà era l’agenzia di
spionaggio privato dell’imperatrice, che, come
dicevano spesso il marito, “infilava il suo bel nasino, con
il rischio che
glielo tagliassero, dove non doveva!”.
L’imperatrice chiamò a palazzo
il responsabile dell’agenzia, un ex
militare, alto, rigido come uno stecchino, con una gamba di legno,
regalo di
qualche guerra su un pianeta che si era ribellato
all’imperatore.
L’uomo aveva cinquant’anni
standard, un volto ovale, naso schiacciato,
occhi incassati color marrone scuro, bocca normale con le labbra
strette, barba
leggermente incolta, capelli brizzolati e un solco sulla guancia
destra,
residuo di una vecchia cicatrice.
Indossava un vestito color blu scuro, con giacca a
un petto, pantaloni
dello stesso colore, camicia bianca e cravatta color rosso mattone, con
uno
stemma ben visibile sul nodo.
Il cappello era del tipo borsalino, inclinato da
una parte.
L’uomo di presentò alla
segretaria dell’imperatrice.
La donna lo annunciò
all’imperatrice e lo introdusse nell’ufficio.
Entrando, l’uomo non vide subito la
donna, che era seduta su un divanetto
rivolto verso l’enorme finestra, che dava sul giardino
interno del palazzo imperiale,
chiuso dentro una enorme cupola.
L’uomo si tolse il cappello e, vista che
l’imperatrice non si voltava, tossì
per attirarne l’attenzione: lei lasciò andare un
meraviglioso animale a quattro
zampe, con un pelo morbido e vaporoso, che aveva in braccio e stava
accarezzando
tranquillamente.
L’animale guardò
l’uomo scocciato e se ne andò su una mensola del
muro
opposto.
L’imperatrice fece cenno
all’uomo di sedersi di fianco a lei.
L’uomo si sedette rigido, con la schiena
ritta.
«Generale, come va?». Chiese
dolcemente la donna.
«Bene, grazie mia imperatrice.»
«Non la tratterrò molto.
Voglio che assuma del personale per alcune
ricerche in biblioteca. Queste devono essere le loro
caratteristiche». E la
donna consegnò dei fogli all’uomo, che li prese e
incominciò a leggere.
«Ex militari ben addestrati?».
Chiese l’uomo.
«Addestrati
a cosa, generale?»
«La missione, da come leggo qui, non
è certo per gente inesperta o alle
prime armi!»
«Lo so, ma un ex militare, con un
addestramento specifico, lo noterebbero
subito, in quel posto. E poi, generale, non mi vorrà dire
che agli ex militare
piace leggere?»
«Mia imperatrice, conosco alcune persone,
ben addestrate, a cui piacciono
molto i libri. Sono dei tipi strani, ovviamente, ma sono ben preparati.
Sono
uomini e donne giovani, che hanno una istruzione superiore, ma che
nell’esercito non hanno trovato una loro ben precisa
collocazione. Ma adesso,
potrebbero essere usati per questa missione. Ne avrei subito
disponibile tre o
quattro. Per gli altri ci vorrà un po’
più di tempo, dovendo farli arrivare
da…»
L’imperatrice fece un cenno con la mano
al generale.
«Non importa, mio caro amico.
L’importante è che la missione venga eseguita
nel miglior modo possibile. Nessuno, e sottolineo nessuno, neanche
l’imperatore, deve sapere di questo progetto. I suoi uomini
non devono sapere uno
dell’altro. Ognuno deve avere un proprio singolo obiettivo.
Deve consegnare
sistematicamente relazione su ciò che accade, in modo
criptato, usando il
codice descritto nei fogli. Se necessario, devono uccidere, senza
esitazione,
senza ordine e senza preavviso. Nel caso fossero scoperti, solo la
morte può
essere considerata una via di fuga onorevole. Se presi vivi, devono
essere
disposti a sopportare le torture più immaginabili a cui
potranno essere sottoposti.
Il mio nome non deve apparire su nessun documento. E se fosse
necessario, la sede
dell’agenzia deve essere distrutta, con tutto e tutti quelli
che vi sono presenti!»
Dopo questa ultima frase, il generale
guardò dritto negli occhi
l’imperatrice: i suoi occhi erano imperscrutabili e il
generale non proferì parola.
L’uomo si alzò, si
avvicinò al tavolo e bruciò i fogli dategli
dall’imperatrice.
«Siete sicuro di aver capito bene le mie
istruzioni, generale?». Chiese
l’imperatrice.
«Sono tutte in un luogo sicuro: nella mia
mente. Lei si preoccupi, per un
po’ di tempo, di procurarsi alibi a prova di bomba. Si faccia
vedere in giro
con l’imperatore, con i suoi più fidati
funzionari, partecipi a riunioni e
faccia viaggi per i pianeti, non troppo lontano dalla qui. Potrei avere
improvvisamente notizie da riferire e avere risposte in tempi brevi.
Per il
resto, sarà mia cura scegliere persone affidate e fedeli
agli ideali che lei e
l’imperatore avete per anni cercato di diffondere
nell’impero. È l’ultima volta
che ci vediamo. La prossima potrebbe non essere così
gradevole.»
L’uomo fece l’inchino
all’imperatrice, si rimise il cappello storto in
testa e uscì.
L’imperatrice guardò
l’uomo uscire e l’animale ritornò dalla
sua padrona,
accovacciandosi sul suo grembo.
La donna passò la mano su quella
pelliccia così morbida, mentre una
segretaria entrava nella stanza.
La donna la guardò.
«Hai preparato il programma di
viaggio?». Chiese l’imperatrice.
«Sì, mia signora!».
Disse la donna, inclinando la testa verso l’imperatrice.
«Bene. Facciamo i bagagli e andiamocene.
Per un po’ la mia presenza a
palazzo sarà inutile.»
L’imperatrice si alzò di
scatto, mentre l’animale scivola giù dal grembo
della donna, lagnandosi.
L’imperatrice lo guardò e gli
tirò un calcio, cacciandolo via.
L’animale si allontanò, ma un
raggio di luce rossa lo colpi, uccidendolo
sul posto.
«Era necessario!». Gli disse la
segretaria, che teneva in mano una penna
fumante.
«Sì, lo so. Spero che tu
sappia a chi consegnava i suoi maledetti messaggi!»
«Si, mia signora!»
«Bene. Uccidetelo, dopo che vi
avrà detto quello che voglio sapere.»
La donna guardò l’animale, che
aveva una bruciatura all’altezza del petto e
puzzava di bruciato.
L’imperatrice uscì dalla
stanza.
Fuori vi erano già degli uomini con
vestiti da lavoro.
«Fate quello che dovete fare!».
Gli ordinò l’imperatrice, tirando dritta.
Gli uomini si precipitarono nella stanza e in
quelle adiacenti,
smantellando tutto, dai mobili alle pareti, dagli impianti elettrici a
quelli
idraulici.
Il tutto fu portato via e distrutto
nell’inceneritore che del palazzo reale,
compreso l’animale ucciso dalla segretaria
dell’imperatrice.
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Capitolo 4 *** Il cieco ***
L’imperatore, in fatto di spie, non era
meno dell’imperatrice.
Ogni agenzia statale aveva un reparto che si
occupava di spiare tutto e
tutti, in primis il personale dell’agenzia e quelli delle
altre agenzie con cui
venivano in contatto.
Ma vi era un uomo, un tipo veramente fuori
dall’ordinario.
Era cieco, così si diceva.
Ma di lui nessuno ne sapeva molto di più.
Nessuno ne conosceva l’età, la
stazza, i lineamenti, gli studi o i
passatempi.
L’imperatore lo incontrava raramente,
solo in caso di necessità.
Ma lui lavorava continuamente, in modo discreto, e
recuperava informazioni
a cui nessuno faceva caso.
Quando l’imperatrice partì,
lui si incontrò con l’imperatore in una dei
sotterranei del palazzo.
«L’imperatrice, a quanto si
dice, è partita!». Disse l’uomo.
«Sì. Una breve vacanza e poi
un giro tra i pianeti più leali
all’impero.»
«Ho saputo che è stata una
cosa dell’ultimo minuto …»
«Già. Dell’ultimo
minuto …». Disse l’imperatore pensieroso.
«Mi sono permesso, mio signore, di
verificare quelle informazioni giunte da
diverse voci e qui vi sono i nomi che, sembra, siano le persone che
fanno parte
del progetto …». L’uomo porse, mentre
parlava, all’imperatore una asta
metallica, lunga circa quindici centimetri, dall’aria innocua.
L’imperatore sfioro l’astina ed
un foglio sottilissimo, in metallo dorato, usci
da esse: sul foglio apparvero subito dei nomi con i rispettivi volti.
L’uomo stava per continuare a parlare, ma
l’imperatore lo fermò, con un
cenno della mano.
«Sei sicuro dei nomi, che proprio loro
hanno comandato la morte dei più di
duecento burocrati?»
«Sì, mio signore. Ma la
pregherei di notare il nome all’inizio della lista
e quello seguente …»
«Li ho visti. E ad uno ho già
provveduto personalmente!»
Così dicendo l’imperatore si
avvicinò ad una balaustra, che si trovava tra
due colonne, che davano su una grotta di una vastità
immaginabile, così poco in
profondità nel terreno, sotto il palazzo reale.
L’uomo seguì
l’imperatore e ammirò l’estensione della
grotta e la sua
profondità. Ma lì, vicino alla balaustra, la
grotta non era così profonda, non
vi era acqua, ma solo roccia, e sul fondo, a circa venti metri sotto di
loro,
un corpo inanimato giaceva su uno spunto di roccia.
L’uomo riconobbe il paggio reale, con il
vestito azzurro macchiato di
sangue e il bel cappello con le piume.
Sembrava lamentarsi ma, all’improvviso,
alcuni animali a sei zampe
sbucarono fuori dal buio della grotta: erano bassi, lunghi, con dei
musi
appuntiti e la bocca piena di denti aguzzi.
Si avvicinarono al poveretto, annusando
l’aria.
Uno guardò il alto, verso i due uomini
affacciati ad una delle balaustra
che coprivano l’emiciclo della grotta in quel punto.
Il cieco si ritrasse, spaventato, nascondendosi
dietro ad una colonna che
separava le varie balaustre, coprendosi la bocca con la sciarpa che
portava
alla gola, nel tentativo di non vomitare.
L’imperatore rimase lì, ritto,
impassibile, a rimirare lo spettacolo di
quegli animali che sbranavano le membra dell’uomo e se le
mangiavano. Le urla,
che provenivano dal fondo della grotta, indicavano che l’uomo
non era morta
nella caduta, ma che era rimasto immobilizzato sul fondo.
Il cieco si allontanò
dall’imperatore, sul cui volto era apparso un ghigno
maligno.
L’uomo aveva visto poche volte il viso
dell’imperatore così e tutte le
volte, dei nemici dell’imperatore, non era rimasto niente.
L’imperatore, si riprese, si
sistemò la divisa e si voltò verso
l’uomo.
«Non ti sarai spaventato per
così poco, caro amico!»
«E’ sempre meglio non farti
saltare la mosca al naso, fratello. Hai un
pessimo carattere e questo lo ha appena dimostrato, anche se nessuno
saprà mai
cosa è successo al paggio o lo immaginerà
appena!»
«Non è affare tuo come tratto
certe cose! Ognuno di noi ha deciso per
proprio conto come servire l’impero. Io comandando e mandando
la gente a morte
…»
«… E io spio la gente per
evitare di trovarti morto lungo un marciapiede!
Ma non è questo il motivo della nostra rimpatriata
familiare. Cosa devo fare
con il progetto dell’imperatrice? E di quello?».
Disse, indicando il foglio con
i nomi.
«A questo ci penso io!».
L’imperatore ritocco l’astina e il foglio dorato
vi spari all’interno. L’imperatore mise
l’astina in un tasca della manica.
«Tu trova qualcuno fedele a me, non a
lei, che esegue il compito che
l’imperatrice gli darà.»
«Dei tipi tosti, pronti ad
uccidere?»
«Per quanto ne so, ad uccidere o ad
essere uccisi. Comunque, trova gente
che, in caso di necessità, sappia levarsi dai guai da sola.
Non posso mettermi
a curare anche quelli che mia moglie manda a morire. Ne ho
già troppi da curare
…»
«Non ti preoccupare. Seguirò
personalmente tutte le loro mosse e cosa
dovranno fare per l’imperatrice. Ma mi sa che
dovrò trovare qualcuno a cui
piace leggere …»
«Perché?». Chiese
l’imperatore sbigottito.
«Pare che la missione consista nel tenere
sotto controllo i tuoi funzionari
che sono alla biblioteca e che stanno cercando tracce di quella cosa
…»
«Un modo come un altro
per mettere
fuori pista i soliti rompiscatole. E mia moglie vuole curare quegli
inutili …».
L’imperatore scoppiò a ridere e con lui il cieco.
Di certo qualcuno erano riusciti ad imbrogliare, ma
mai avrebbe pensato l’imperatore
che proprio l’imperatrice
sarebbe stata
la sua prima vittima.
Le risa dei due uomini rimbombarono dentro la
grotta, mentre uno degli
animali, dopo aver pasteggiato con il corpo del paggio, annusava
l’aria e
rivolgeva lo sguardo verso un punto della grotta lontano e in alto, per
lui
irraggiungibile.
Qualcuno era sceso fin lì e si era messo
ad ascoltare.
L’animale emise un sonoro grugnito, che
attirò l’attenzione dei due uomini.
«Meglio che vada!». Disse il
cieco, sparendo nel buio del colonnato.
L’imperatore
cercò con
lo sguardo chi avesse avuto il coraggio di seguirlo, ma la figura,
incappucciata,
sparì improvvisamente e l’animale, sul fondo della
grotta, si calmò.
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Capitolo 5 *** Il reclutamento ***
Il generale attese la partenza
dell’imperatrice per reclutare il personale
necessario all’operazione.
Il generale aveva sempre un elenco di persone
disponibili da altre agenzie,
disponibili al trasferimento per vari e privati motivi.
Aveva sempre diffidato da quelle persone, ma per
quell’operazione sarebbero
andati bene.
Aveva una rosa di cinquanta nomi: esclusi quelli
non laureati, ina
malattia, in permesso per fine missione e altre scuse più o
meno verosimili,
gli rimase un elenco risicato di sei persone.
Pochine, pensò: gliene servivano almeno
dieci.
Qualcuno gli venne in aiuto.
Il suo telefono privato, nascosto nel cassetto
della scrivania, suonò
mentre era immerso nei suoi pensieri.
Quel telefono suonava più volte al
giorno e sentirlo non produsse in lui
alcun effetto.
Fu quando alzò il telefono e rispose che
rimase interdetto.
«Pronto?». Disse il generale
«Sono a conoscenza che avete bisogno di
personale specializzato, per un po’
di tempo. Pensavo che sei, sette persone fossero sufficiente.»
La voce dell’interlocutore
ricordò qualcosa al generale, che conosceva bene
la famiglia reale, i vari fratelli, sorelle, concubine e parenti vari.
«Sì. Ma le persone sono
già a conoscenza del nuovo lavoro o ...»
L’interlocutore bloccò il
generale.
«Uno solo. Gli altri dovranno essere
istruiti sull’operazione, i loro ruoli
e i referenti per i collegamenti e la trasmissione delle
notizie.»
«Uno solo?», chiese il
generale. «Per quale motivo uno dovrebbe sapere il
perché di quello che deve fare?»
«Quanto sa lei della biblioteca e di
quanto vi gravita intorno?»
«Poco. Ma le istruzioni non parlano di
controllare la biblioteca?»
«Le altre sì. Dovrebbe essere
un controllo sull’operato del
bibliotecario…»
«Adesso non esageri!». Disse,
con voce ferma, il generale, alzando anche il
volume della voce. «Non rientra in nessuna richiesta di
chissà chi il controllo
dell’operato del bibliotecario, del personale della
biblioteca o chi altro
lavori lì o per chi lì vi abita. Che cosa avete
in mente voi e vostro…»
«Ssssst!». La voce
dall’altra parte del telefono sembrò preoccupata
al
generale. «Non al telefono. Comunque, la persona che
verrà da voi ha ricevuto istruzioni
precise. Le vostre istruzioni, ovviamente, vengono prima, ma solo in
caso che
il secondo obiettivo eclissi l’altro!»
«Troppo complicato! E chi lo spiega
all’imperatrice le modifiche al piano
originale!»
«Nessuna modifica. Tutto come prima. Solo
che cambiano le priorità.
Vedrete, ognuno avrà ciò che vuole!»
Il generale pensava alla sua testa tagliata dalla
lama del boia o caduto
nella grotta e sbranato dagli tiikerit.
«Allora, generale ?» Chiese
l’interlocutore.
«Non sono d’accordo. Ma
provvederò in merito. Sia ben inteso che uno dei
miei sarà a conoscenza di tutto, escluso il suo
interessamento, ovviamente.»
«Ovviamente!» Concluse
l’interlocutore.
Il click della fine della comunicazione vide il
generale con ancora la
cornetta dell’apparecchio telefonico all’orecchio,
pensieroso, mentre in
sottofondo il segnale della linea caduta suonava insistentemente.
Una voce femminile riportò il generale
al presente.
«Generale … generale
… ci sono qui delle persone per lei!» La sua
segretaria lo scosse violentemente.
«Calma, Jiolie. Non
c’è premura. Fai prima passare chi ha un ciondolo
a
forma di labirinto.»
La segretaria, senza capire, uscì e fece
passare una ragazza con un
ciondolo circolare, che ricordava un labirinto.
Il generale depose la cornetta e chiuse il
cassetto, mentre una ragazza
superava la soglia.
Il generale la squadrò e rimase
sconcertato: non pensava che il suo
interlocutore potesse arrivare a tanto.
La ragazza di sedette e salutò il
generale.
«Ciao, zio, come stai?»
Le ciglia delle palpebre di quegli occhioni azzurri
sbatterono, tentando di
corrompere chi gli stava davanti.
«Hai capito male, mia cara Nikolj. Sei
stata mandata per fare un lavoro,
non per corrompermi. Cosa ti ha detto uno o l’altro non
è affare mio, ma se
l’imperatrice capisce chi sei o chi ti ha mandato, siamo
tutti nei guai. Io
posso assecondare il volere di tutti, ma ci tengo alla mia vita. E non
vorrei
essere il prossimo morto. E comunque, cosa ti è stato detto
di fare deve venire
dopo quello che io ti dirò di fare. Questi sono gli accordi.
Ai capito?»
«Sì, signore!»
Rispose secca la ragazza.
Aveva trent’anni, ma ne dimostrava
venticinque.
Era alta un metro e settanta, muscolosa ma non
troppo, un bel visino ovale,
naso piccolo ma con larghe narici, bocca grande, denti bianchi, zigomi
piccoli,
occhi grandi con pupille azzurro grigio, capelli neri corvino lungi con
frangetta quasi davanti agli occhi, con un leggero trucco sul viso e
sugli
occhi.
Metteva quasi sempre minigonne in pelle, magliette
tipo canotta bianche
aderente, giacche in pelle, gambe lisce, sempre depilate, senza calze e
stivali
a tutto polpaccio, di color nero, con tacchi alti sugli otto centimetri.
Il generale si alzò dalla sedie e venne
a sedersi sulla scrivania, davanti
alla ragazza.
«Hai capito?»
Ridomandò il generale.
La ragazza sbuffò, come se fosse stato
scoperto il suo gioco.
«Zio … ho chiesto io di venire
qui per la biblioteca, per entrarci, per
vederla e studiarla. Lo so che non sei d’accordo, che ci sono
alti rischi per
via di quello che succede, ma sai anche che sono in grado benissimo di
difendermi! Le arti marziali sono il mio pane …»
«E l’essere una donna ti
dovrebbe aiutare? L’imperatrice teme che la setta
sia invischiata nella cosa!»
«Lo so. È da anni che mi
occupo di loro, su tutti i pianeti dove hanno
accoliti. Non sono stati loro. A quest’ora i nostri cari
reali erano belli che
morti! A loro non interessa questo. Hanno un loro ministro
…»
«Nikolj! Lo sai che i nostri scienziati
non ci credono!»
«Sì. Lo so. Ma io li ho visti
farlo! Li ho visti agire senza mezzi termini
contro loro simili che li avevano traditi! No, mio caro zio, quelli non
scherzano! Ah, ti posso dire di sicuro che se ti mettono le mani
addosso sei
fatto! No, credo di essere l’unica che può capirci
qualcosa, ed è per questo
che sono qui!»
La ragazza fini quella frase puntando il dito
indice della mano destra
verso di se, mettendo il dito in messo ai seni.
Il generale si alzò, emise un sospiro e
guardò la ragazza.
Una cosa che pochi sapevano era che aveva preso la
sua prima laurea a
quindici anni, la seconda a diciotto, entrata nei servizi segreti a
venti anni,
occupandosi di furti di identità via rete informatica.
Nella sua prima missione operativa, a ventidue
anni, aveva preso una
pericolosa banda di pirati dello spazio profondo da sola, facendogli
credere
chissà cosa. Al generale veniva ancora da ridere a come
trovarono la ragazza,
quando posteggio la nave pirata presso la stazione orbitale del pianeta
imperiale: uscì in topless, con un tanga, stivali da pirati
fino alle cosce e
una fucile laser nella mano destra e il capitano della nave pirata
nell’altra,
tenuto per il bavaro.
Il resto della ciurma era tutta pesta, piena di
lividi, chiusi a chiave nel
locale mensa: cento pirati in cinquanta metri cubi!
Tirarli fuori fu una vera impresa.
Nikolj divenne famosa e dovette per un
po’ nascondersi, ma poi riprese a
fare la spia per l’imperatore.
Ma ora non si parlava di pirati o ladri di
identità: le sue maestà reali
erano in pericolo, qualcuno dei burocrati era in combutta con
chissà chi, un
colpo di stato avrebbe destabilizzato l’impero e non si
sarebbero contate le
rivolte sui vari pianeti, in cerca di secessione dall’impero
centrale.
Nikolj capì e si alzò,
guardando negli occhi il generale.
«Non si preoccupi, generale. Ho imparato
abbastanza, durante i miei anni di
spia, da vedere i nemici dove ci sono e non dove qualcuno glieli fa
vedere. Io
sopravvivrò all’inferno, non si ricorda
generale?»
Sì. Il generale si era sentito
rinfacciare il suo motto.
«Va bene. Questo è il tuo pass
per la biblioteca. Non lo perdere, portalo
sempre con te. Sai già come funziona. Per arrivare alla
biblioteca c’è un treno
pieno di ricercatori che parte dalla stazione riportata su questo
biglietto di
viaggio, che riporta anche la data e l’ora della partenza.
Buon lavoro, nipote!»
Disse in tono sarcastico.
Le porse la mano, ma la ragazza lo baciò
sulla guancia, lasciandogli il
segno delle labbra con il rossetto rosso fuoco.
Lui sorrise e la ragazza uscì dalla
stanza.
La segretaria entrò per sentire chi
doveva far entrare e vide il generale,
con faccia trasognata e il rossetto sula guancia.
Prese un fazzolettino di carta da un contenitore
sul tavolo e pulì il
rossetto, mentre il generale se la rideva.
La segretaria rimase lì, indecisa sul da
farsi.
«Lasci stare. Ci penso io. Ne faccia
entrare un altro.»
La
segretaria uscì e
fece entrare un uomo di mezza età.
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Capitolo 6 *** Il viaggio ***
L’imperatrice era al suo sesto giorno di
viaggio nello spazio ed incomincia
ad annoiarsi.
Sì, è vero, alcune sue dame
di compagnia erano riuscite a far salire sulla
nave, in gran segreto, dei bei ragazzi con cui trastullarsi, ma gli
spogliarelli e le pacche su quei glutei così sodi gli erano
venuti a nausea.
Oltre tutto a sculacciare quei glutei
così sodi ci si faceva male alle mani
e l’imperatrice odiava qualsiasi dolore proveniente dal suo
corpo, se non era
strettamente necessario.
Mentre il quarto ragazzo, per l’ennesima
volta, si spogliava, tra le urla
delle dame di corte, l’imperatrice, coricata su un divano
vestita di una
sottoveste di seta color bianco avorio, senti un cicalino provenire da
una
piastra biancastra, appoggiata sul divano.
Mosse la mano destra mollemente e toccò
la piastra, che si illuminò.
«Il solito inutile messaggio di
chissà chi!» pensò tra sé e
sé.
Il mittente non gli era sconosciuto (vi era una
icona che identificava la
persona con la faccia di una gioviale ragazza con in testa un cappello
da cuoco).
L’imperatrice si mise a sedere, prese la
piastra e cominciò a leggere.
Parlava di focacce fatta con la ricetta ricevuta
dall’imperatrice, che una
torta era stata informata e il suo profumo era inebriante e cuoceva in
modo
meraviglioso, ma che la cioccolata non si addensava abbastanza per
riempire i
bomboloni.
L’imperatrice rise a gran voce,
sovrastando la musica che accompagnava lo
spogliarello: tutti i presenti si girarono a guardarla.
Lei buttò la piastra sul divano, si
alzò togliendosi la sottoveste e buttandola
per terra, unico vestiario che la copriva, si avvicinò al
ragazzo, in piedi
sopra un piedistallo, gli mollò una sonora sculacciata con
la mano destra sul
gluteo destro e si avviò, sempre ridendo rumorosamente,
verso la piscina, posta
in un locale adiacente.
Vi si tuffò e rimase sotto il pelo
dell’acqua per alcuni minuti.
Le dame abbandonarono il modello nudo sul
piedistallo e si diressero alla
piscina.
Alcune vi si tuffarono dentro, anch’esse
nude, altre si sedettero sul bordo
vasca.
Quando l’imperatrice emerse
dall’acqua, senza ricomporsi i lunghi capelli
che la coprivano fino al seno, disse in modo imperioso.
«Dite al comandante di cambiare rotta.
Ditegli di inserire le coordinate
del punto 417!»
Una delle dame chiamò via interfono il
comandante e gli diede l’ordine.
La nave spaziale cambiò rotta
immediatamente.
***
Nikolj era salita al treno alle ore 14.00 ora
locale della capitale, con
gli altri studiosi.
Dire che era una accozzaglia di persone messe
insieme per errore era dir
poco.
Non ve n’era uno vestito in modo adeguato
né al viaggio né al luogo dove
dovevano andare.
Pur essendo degli uomini e donne dotati di
intelletto superiore, sembravano
degli hyppi usciti da qualche tendopoli, lasciati liberi di sciamare
per la
città.
Il treno era di ultima generazione, con la forma
fortemente aerodinamica e
basso, del tipo a lievitazione magnetica, di color bianco panna.
Nokolj continuava a guardarsi intorno anche quando
si sedette sul treno al
suo posto numerato, con tutti quegli studiosi che facevano gazzarra,
come una
scolaresca in gita.
Il treno, la cui unica e sola meta era la
biblioteca, parti in orario e si
lanciò alla velocità di quattrocento chilometri
orari verso la sua
destinazione.
Nikolj guardò fuori dal finestrino,
vedendo passare velocemente la città e
l’avanzare, altrettanto celere, dei campi intorno ad essa.
Il viaggio sarebbe durato almeno un giorno, senza
sosta.
Nokolj si mise comoda, socchiuse gli occhi e si
addormentò.
Un sonno ristoratore, ma vigile: sentì a
poco a poco che gli schiamazzi
smisero, le persone si addormentarono e il silenzio cadde sul treno.
Verso l’ora della cena, aprì
gli occhi, affamata.
Si diresse verso il vagone ristorante, con calma,
scrutando i vari
personaggi che, a mano a mano, gli venivano incontro.
Non era sicura, ma un uomo di mezza età,
seduto vicino ad un finestrino, lo
aveva forse visto nell’ufficio della segretaria del generale.
Il vagone ristorante incominciò a
riempirsi, a poco a poco, di quelle
strane persone, che ordinavano i cibi più strani che vi
erano sul menu, se non
addirittura a chiedere che il cuoco preparasse qualcosa di particolare.
Nikolj prese le cose più semplici che
trovò sul menu: non voleva riempirsi
troppo lo stomaco per poi addormentarsi come una vecchia zitella e
risvegliarsi
solo all’arrivo alla biblioteca.
Il cibo era ottimo e la comitiva si
abbuffò fino all’inverosimile.
I liquori fecero la loro parte.
I professori tornarono al loro posto, ubriachi,
cantando strane canzoni,
sorreggendosi l’un l’altro: le donne erano quelle
che davano il peggior spettacolo
di sé.
Nikolj attese nel vagone bar che la comitiva di
dotti spegnesse i suoi
bollori.
Il sonno giunse velocemente, con tutti quei
dottoroni che russavano e
riempivano l’aria di un forte odore di alcool.
Nikolj scrutò, mentre andava dal bar al
suo posto, tutte le persone.
Non ne era certa, ma pensava che, visto
l’uomo di mezza età, forse non era
l’unica in viaggio verso la biblioteca con una missione non
proprio propedeutica
agli studi che stava facendo.
Passò lentamente tra i sedili del treno,
e notò, oltre all’uomo, altre sei
persone che non avevano partecipato all’abbuffata, ma che
facevano finta di
avere i postumi della sbornia.
Nikolj li osservò uno ad uno,
imprimendosi bene in mente i loro volti.
Era sicuro che la missione che le era stata
affidata non fosse solo quella
di controllare quella banda di matti, ubriaconi e rumorosi e
controllare i risultati
delle loro ricerche.
No la sua missione era un’altra.
La aveva capito subito che il suo coinvolgimento
non era dovuto solo al
fatto che fosse la cugina di primo grado dell’imperatrice,
fidata e pronta a
tutto per difendere l’impero e chi lo comandava.
Lo sapeva che era stata scelta per le suo
particolarissime doti, sviluppate
con gli anni, che gli sarebbero servite in quella missione.
Tornò
al suo posto,
sorrise sommessamente e si addormentò cullata dal russare
rumoroso ed alcolico
dei suoi nuovi amici.
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Capitolo 7 *** Siltbliss ***
Comandare un impero, specialmente se è
sparso in uno spazio tridimensionale
che occupa anni e anni luce, è sempre un problema.
Devi sempre demandare ad altri il controllo del
territorio, sia esso un
pezzo di terra, un sistema solare, un pianeti o un asteroide.
I vassalli, anche se persone corrette, con
l’andar del tempo, lontani da
una mano ferma come quella dell’imperatore, con burocrati
corrotti e disposti a
tutto per il loro interesse, cedono alle lusinghe e, adagiandosi nel
lusso e
nello sfarzo, perdono il senso del loro giuramento all’impero
e all’imperatore,
non rispondendo più a quanto prefissatosi
all’inizio del loro incarico.
Anche perché, per evitare che la
corruzione arrivasse fino ai piani più
alti dell’impero, i vassalli venivano spesso sostituiti,
anche se su quel
pianeta vi erano stati poco tempo.
Quelli che arrivavano dopo cercavano di rimettere
in sesto le cose, ma i
burocrati corrotti e le varie lobby rimettevano tutto come prima.
O quasi.
Il fatto che l’imperatore e
l’imperatrice andassero spesso in giro per i
vari pianeti, serviva a far sentire ai vassalli la vicinanza del loro
imperatore alla loro vita lontana dalla corte, in mezzo ai pericoli
alle volte
visibili, alle volta invisibili.
Spesso era successo che certi vassalli, troppo
propensi a sostituire i
burocrati corrotti, erano stati uccisi, in modo sbrigativo.
Ma un altro problema, ancora più grave,
preoccupava l’imperatore.
Le sette, di qualsiasi tipo, erano una vera piaga.
Avevano idee spesso radicali, e pretendevano che
zone, o alle volte interi pianeti,
si sottomettessero al loro volere.
L’imperatore, quando una setta
incominciava ad uscire dal seminato, la
metteva in riga: alcune volte bastava accettare alcune loro richieste,
altro
volte era necessario imporsi con la forza alla loro voglia di potere.
Alcune di quelle volte vi erano state delle vere e
proprie stragi, ma
l’imperatore aveva sempre evitato di calcare la mano,
lasciando in vita chi
aveva accetto di esiliarsi su pianeti desolati, ove avrebbero potuto,
in pace,
sviluppare le loro idee e la loro setta.
Alcuni pianeti erano off-limits per qualsiasi nave
spaziale, escluse
ovviamente quelle militari, che andavano sovente a controllare i
progressi
delle varie colonie (dopo tutto erano pur sempre all’interno
del suo impero e
potevano, in qualche modo, produrre o procurare, ad altri pianeti
dell’impero,
materiali o materie prime necessari alla sussistenza di altri popoli).
Ma alcune sette, quelle solitamente culturalmente
evolute e i cui adepti
erano letterati, ben comprendendo i rischi che una divulgazione delle
loro idee
in modo aggressivo o radicale avrebbe dato una impressione sbagliata
all’imperatore, operavano in maniera occulta, anche se le
loro sedi erano
diffuse per l’impero ed era possibile, per chiunque,
parteciparvi e ascoltare
le conferenze dei capi di queste sette, senza alcun problema.
Una di queste era stata, per parecchio tempo,
controllata molto da vicino
dall’imperatore, fino al punto di infiltrare Nikolj in quella
organizzazione.
Nikolj era arrivata fino alla cima della piramide
di comando di quella
setta, non scoprendo altro che delle persone intente a salvare libri,
scritti
su carta o qualsiasi altro materiale, che parlavano di tutto e di
tutti, senza
censura.
Era la censura il vero problema
dell’imperatore: le idee che dovevano
circolare nell’impero dovevano essere pianificate e dovevano
portare il
pensiero di tutti i cittadini verso una cooperazione attiva,
affinché l’impero
potesse sussistere e vivere che l’imperatore fosse
appiccicato o lontano da
ogni singolo cittadino.
Ma quella setta aveva lasciato il segno in Nikolj.
Aveva partecipato alle loro strane iniziazioni,
aveva vissuto sul pianeta
natale ove erano nata quelle strane idee e aveva anche partecipato al
furto di
libri destinati alla distruzione.
Le azioni non erano mai violente: entravano nelle
biblioteche periferiche,
rispetto a quella presente vicino alla capitale, e rubavano i libri,
prima che
venissero bruciati.
Rubavano specialmente quelli proibiti, chiusi nelle
segrete delle
biblioteche, che l’imperatore continua a giurare che non
sarebbero mai stati
distrutti.
Ma il bibliotecario, come altri burocrati, non dava
molto ascolto al suo
imperatore e dava ordini contrari al pensiero del suo capo.
Ma l’imperatore non poteva sostituire il
bibliotecario senza un vera
motivazione, rischiando di provocare dissapori tra gli altri burocrati,
con il
rischio della paralisi dell’impero.
Per cui, anche se sempre di reati contro
l’impero si trattavano, chiudeva
un occhio a quei furti tanto strani quanto incomprensibili.
Ma Nikoljn aveva sempre saputo la verità
su quella setta e aveva avvisato
l’imperatrice della sua vera natura.
Il fatto che fosse stata iniziata ai loro riti e
che lei stesa potesse
utilizzare i mezzi che la setta metteva a disposizione dei suoi adepti
più
preparati, aveva incuriosita l’imperatrice, che aveva visto
personalmente
Nokolj utilizzare quei mezzi nei modi più strani e
inverosimili.
Ora, quando alcuni dei capi della setta scoprirono
la vera identità di
Nikolj, erano sicuri che gli avrebbe aiutati nella loro missione.
Ma Nikolj aveva abbandonato la setta e le sue idee,
in modo inspiegabile,
anche se continuava a praticare i loro strani usi e il loro modo di
vivere.
Uno dei capi della setta, un certo Paul Sederta,
teneva stretti contatti
con Nikolj, la incontrava in posti strani, quali grotte, sotterranei,
labirinti
naturali o altri siti introvabili, sparsi sul pianeta della capitale e
altrove,
e di cui la setta ne
faceva uso per i suoi
scopi.
Della partenza di Nikolj per la biblioteca, Paul
non ne era informato: lo
venne a sapere solo quando Nikolj era partita, da una delle dame di
compagnia
dell’imperatrice rimasta a corte.
Lo stesso Paul era rimasto stupito sul fatto che
una dama, così vicina
all’imperatrice, gli facesse sapere una cosa così
delicata.
Ma Paul era un esperto della corte: era uno dei
burocrati che si occupava
dei fondi ai servizi segreti, e vedeva tutti i movimenti del personale
e
l’affidamento delle loro missione.
Il fatto che tale confidenza gli fosse stata fatta
da una dama di corte,
significava che i fondi per tale missione non usciva dal suo
dipartimento, ma direttamente
dai fondi privati dell’imperatrice.
E quei fondi erano privati in tutti i sensi.
L’imperatore e l’imperatrice
aveva uno stanziamento annuale di soldi per i
loro usi privati, che andavano dai vestiti ai gioielli, dal
mantenimento di un
piccolo personale privato fino a sovvenzionare opere di beneficienza.
Alle volte, però, i soldi venivano usati
per altri usi, più sovversivi.
Ma nessuno se n’era mai troppo
preoccupato: i burocrati avevano assunto del
personale a servizio delle loro maestà che gli riferivano
quanto succedeva
negli appartamenti privati.
Ovviamente, fino a che quel momento, nessuno si era
fatto male, ma la morte
del paggio forse era solo l’inizio di un cambiamento pericolo
e mortale.
Paul aveva assistito all’uccisione del
paggio e per poco non faceva la
stessa fine.
Ormai aveva capito cosa l’imperatore e la
sua famiglia voleva fare: mettere
in campo il fratello presunto cieco, la prima cugina
dell’imperatore, lo zio
della medesima e chissà chi altro si stava muovendo
significava che l’azione
dell’imperatore era decisa e pericolosa, e chi non si fosse
messo dalla parte
dell’imperatore rischiava di sicuro la morte.
Ormai era questione di tempo, ma Paul decise che
era tempo di muoversi.
Molti adepti della sua setta si mossero, in gran
segreto, e lo raggiunsero
a palazzo.
Difendere l’imperatore era il loro
compito primario.
L’imperatrice, fino a quando fosse stata
nello spazio, non correva
pericolo.
Ora bisognava aspettare le mosse dei congiurati,
senza sapere, però chi
essi fossero.
Paul decise di dedicarsi anima e cuore a
quell’impresa, che di certo
avrebbe cambiato il volto dell’impero.
La sua setta, chiamata
“Siltbliss”, avrebbe partecipato in prima linea a
quella missione, senza che nessuno sapesse il come e il
perché.
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Capitolo 8 *** Il labirinto ***
Edificio,
struttura, zona in cui, per l'intrico delle
costruzioni, dei passaggi o delle strade, sia difficile orientarsi.
Era
un esercizio in voga secoli fa, quello di costruire
tali costruzioni per far sì che i nemici sparissero senza
troppo rumore.
Ovviamente
fiumi di letteratura citano i vari labirinti
costruiti nei secoli, più o meno importanti.
Di
certo, se una persona entra per la prima volta in un
edificio senza conoscerne la conformazione, dire che è
entrato in un labirinto
è un eufemismo.
L’imperatore
aveva pensato più di una volta di costruire
un edificio del genere, anche solo per divertire i suoi ospiti o
nascondersi
con la moglie, lontano da occhi indiscreti, ma la paura di perdersi lo
aveva
trattenuto.
Di
certo non aveva trattenuto Gordiy Georghi, dirigente
dei servizi segreti civili.
Ne
aveva fatto costruire uno sotto la sua villa, una favolosa
villa, costruita fuori città, verso l’oceano in
cui si tuffava lo stretto del
mare che proteggeva la biblioteca.
La
villa era protetta, in modo marginale, da uno dei
radar a protezione della villa.
L’uomo
sapeva che porre la casa sotto la difesa di una
struttura militare era la cosa migliore da fare per lui, uomo
così in vista.
La
villa era una copia del palazzo reale, ma in miniatura.
Il
labirinto era costruito per una parte sotto la villa e
il resto in una grotta che sfociava nell’oceano.
Era un vero gioiello di architettura: si sviluppava
in tre dimensioni, con
scale o corridoi che riportavano spesso alla stanza di partenza.
La parte nella grotta era stata ricavata scavando
nella roccia basaltica
formatasi per la presenza, nei secoli precedenti, dei vulcani.
Tutti color che avevano partecipato alla sua
costruzione erano stati
lasciati al suo interno a morire.
Ovviamente, architetto e operai, avendolo
costruito, ne conoscevano le vie
di uscita.
Ma il buon Gordiy
aveva provveduto
personalmente, durante la costruzione, a modificare i disegni di notte,
senza
che nessuno se ne accorgesse.
Erano
modifiche da poco: parete aperta, poi chiuso, una
via aperta, chiusa e riaperta, scale scavate e poi chiuse e poi
riaperte.
Cose
che avevano mandato in tilt il progettista e gli
operai, che alla fine si ritrovarono chiusi in una stanza senza via di
uscita.
Gordiy
era lì quando rimasero incastrati in quel cubicolo
e provvide, di persone, a far esplodere una carica di esplosivo che
chiuse
definitivamente l’acceso a quella parte del labirinto.
Gli
uomini all’interno morirono, alcuni subito, durante
l’esplosione, altri dopo per la mancanza di assistenza
sanitaria, di cibo e di
acqua.
Dopo
un mese, un gruppo di mercenari entrò nel labirinto,
caricò i cadaveri su una barca ormeggiata vicino
all’uscita delle grotta e se
ne andò, così come erano arrivati, in silenzio,
senza proferire una parola.
Il
loro viaggio e quello dei cadaveri durò poco: una
improvvisa esplosione distrusse la barca e tutto quello che conteneva.
Gordiy
vide l’esplosione dal promontorio sopra la grotta,
tenendo in mano un piccolo parallelepipedo nero.
Un
sorriso, o meglio, un ghigno gli solcò il viso.
Gordiy
era un uomo di bassa statura, sovrappeso, che
spesso, nel camminare, ansimava.
Portava
occhiali con l’appoggio solo sul naso, che spesso
si toglieva per pulirli.
Aveva
un viso tondo, occhi piccoli di color nero, ciglia
prominenti, naso aquilino, bocca piccola, come le sue labbra, collo
corto e
spesso nascosto dal collo della camicia completo di una cravatta a
farfalla, di
solito di color rosso, ma a lui non dispiaceva anche il color viola.
Di
solito portava pantaloni e giacca con panciotto, ma
era un vestito desueto per quel tempo.
Ma
a lui poco importava: era il capo dei servizi segreti
civili, chi mai lo poteva contraddire, senza rischiare il collo?
Gordiy
era uno dei primi della famosa lista
dell’imperatore, cosa ovviamente a lui sconosciuta.
Come
era sconosciuta la fine del paggio reale.
Lui,
come altri funzionari e burocrati, non aveva fatto
molto caso alla scomparsa del paggio e, pur facendo parte del completo
contro
l’imperatore, la sua scomparsa parve più una fuga
per paura che altro.
Mentre l’imperatrice era in viaggio,
Nikolj diretta alla biblioteca e
l’imperatore occupato con i soliti, insormontabili problemi
di gestione
dell’impero, Gordiy
e altri funzionari, alcuni
presenti nel famoso elenco dei cospiratori, si ritrovarono a casa sua.
Gordiy
accolse ognuno degli invitati di persona,
attendendoli sul fronte della casa, su cui dava il magnifico giardino
fiorito:
la primavera era appena iniziata in quell’emisfero del
pianeta e i fiori del
giardino davano del loro meglio per lasciare senza fiato gli ospiti di
Gordiy.
Gli
invitati, in tutto una quindicina di persone, erano
giunti alla villa portate dalla loro vetture a quattro ruote,
decisamente
superate ma unico mezzo di trasporto che poteva arrivare alla villa,
dove
nessun satellite poteva guidare quelle comunemente in uso nel resto del
pianeta.
Gordiy
giudò gli ospiti in una sala riservata, posta
nell’interrato
della villa, protetta con ogni genere di sistema di sicurezza
conosciuto.
Gordiy
non voleva che quella riunione fosse, in qualche
modo, ascoltata da orecchie indiscrete.
O
almeno, era quello che sperava.
«Bene
signori. Sedetevi pure. Per chi vuole ho fatto
preparare un piccolo buffet». Per piccolo Gordiy intendeva
almeno trenta
piatti, suddivisi tra carni, pesci, verdure e dolci.
Gli
invitati iniziarono a servirsi utilizzando i piatti
più grandi, cosa che Gordiy notò subito: erano
uomini meschini, a cui bastava
offrire la possibilità di avere più di
ciò che gli serviva per renderli amici o
schiavi.
Anche
i liquori iniziarono a scorrere a fiumi, cosa che
rese subito l’atmosfera gaia.
Quanto
tutti, con i piatti e i bicchieri pieni, si
sedettero sulle poltrone o sui divani presenti nel salone, Gordiy
ricominciò a
parlare.
«Come
ben sapete è necessario muoversi con cautela.
L’improvviso interessamento dell’imperatore e
dell’imperatrice non ha senso. E
di certo provocherà in loro solo una grande perdita di
tempo. Non troveranno
certo là il sistema per salvarsi la vita dopo che avremo
provveduto alla loro …
diciamo rimozione!»
Una
risata echeggiò nella sala, con seguito di alzati di
calice ed ennesima bevuta dei presenti.
Gordiy
noto solo dopo che uno degli invitati si era
appartato in piedi, vicino ad una parete lontana dal buffet.
«Siroi,
non partecipi?» Chiese Gordiy
Tutti
si girarono a guardare l’uomo, scuro in volto.
Siroi
era uno dei burocrati incaricati dei collegamenti
tre la capitale e i vari vassalli, sparsi nello spazio.
«Ho
saputo di un altro incidente di un funzionario in
visita in uno dei possedimenti ai confini con la nube di Noire. Una
morte non
prevista e una morta non ritenuta accidentale. Era uno dei nostri,
morto in circostanze
strane. Come mai non ci hai avvisato di ciò?»
La
voce di Siroi era tremolante.
«Ma
cosa dici, Siroi?» Chiese uno dei commensali seduti
vicino a Gordiy, verso cui si girò lui e un parte degli
altri presenti.
«Ti
posso assicurare che io …».
La
frase di Gordiy non fu terminata, con Siroi che
avanzava verso di lui.
«Dici,
dici! Ma tu ci vuoi nella congiura solo perché ti
diamo una mano dove tu non puoi arrivare e poi, chi ce lo dice che non
facciamo
la fine dell’imperatore in qualche grotta o in mezzo
all’oceano, mangiati dai
sharks? Tu sei furbo, ma ci dobbiamo fidare della tua sola parola.
Allora, che
ci dici?»
Gordiy
guardò i presenti preoccupato.
Il
pensiero di eliminare i congiurati, dopo il colpo di
stato gli era venuto, il labirinto sarebbe stato un ottimo sistema, ma
gli
occhi che lo guardavano in modo interlocutorio erano più
pericolosi di quanto
aveva previsto.
A
quanto pare aveva sottovalutato il gruppo.
«Signori,
come potrei mai fare una cosa del genera ai mie
amici!»
La
voce di Gordiy era decisamente teatrale, ma gli occhi
lo scrutarono ancora di più.
Doveva
trovare un modo di calmarli e poi avrebbe pensato
al da farsi.
«Va
bene. Vi verrò incontro. Farò in modo che ognuno
di
voi abbia un incentivo …»
«Del
tipo?» Chiese una voce alla destra di Gordiy, su un
divano in fondo alla stanza.
«Già.
Siamo tutti dirigenti dei nostri settori. Cosa ci
puoi dare di più di quello che abbiamo?» La voce,
stavolta, giungeva a
sinistra, vicino a Gordiy.
«La
nomina a vassalli dei sistemi solari più importanti
del nostro impero! E ve la darò subito, da poter, da parte
vostra, presentare
come pagamento del vostro operato!»
Gordiy
si accorse di essersi spinto troppo in là, che
qualcuno lo avrebbe certamente redarguito, ma doveva portare a casa un
punto a
suo favore, e quello, al momento, gli parve il sistema migliore.
Tutti
i presenti rumorosamente accettarono la proposta di
Gordiy, brindando e bevendo alla loro e sua salute.
Siroi
decise che ne aveva troppo, e si diresse verso
l’uscita.
Nessuno
se ne accorse della sua uscita di scena, men che
meno Gordiy.
Prese
il suo veicolo dal parcheggio e si allontanò.
Uscito
dal cancello, posteggiò l’auto di lato dalla
strada
e scese.
Uno
strano rumore del veicolo lo preoccupava e controllo
sotto al pianale.
Una
strana scatola nera, con una lucina rossa accesa era
lì, vicino alle batterie dell’autoveicolo.
La
luce era lampeggiante ad intermittenza.
Sapeva
cosa significava: la bomba sarebbe esplosa appena
la luce fosse diventata fissa.
Era
stata applicata in modo approssimativo, ma non poteva
sapere se solo alla sua macchina era stata applicato quel rumoroso
regalo o anche
alle altre.
Decise
di fare uno scherzo a Gordiy e a chiunque tirasse
le fila da dietro le quinte.
Programmò
il pilota automatico affinché guidasse
l’autovettura fino al deposito del suo ministero e
avviò il sistema.
La
macchina si mise in moto, senza Siroi, e si diresse
lungo la strada, silenziosamente e velocemente.
Era
sera tardi e il buio avanzava velocemente.
Si
era alzato anche un vento dall’oceano, fastidioso e
freddo.
Se
pioveva, i suoi compagni, di sicuro, si sarebbero
fermati da Gordiy, per non viaggiare con quel tempaccio: non si sa ma
cosa può
succedere per strada.
Siroi
estrasse dal suo zaino, da cui non si separava mai,
una tuta protettiva contro la pioggia e incominciò ad
incamminarsi verso una
collina lì vicina.
Estrasse
anche una placca metallica grigia grande come la
sua mano, che al riconoscimento tattile si accese.
Siroi,
dal menù, scelse “mappa” e
verificò dove fosse la
più vicina postazione militare: sapeva che era oltre la
collina che aveva di
fronte, ma aveva paura di perdersi.
Seguendo
le istruzioni della placca, salì sulla collina e
la ridiscese verso est, seguendo una stradina sterrata.
Risalì
un’altra collina, e la ridiscese.
Il
vento era aumentato, l’erba dei campi era sferzata
dall’acqua e dal vento, così come Siroi, che era
comunque al caldo dentro la
tuta.
La
fatica, dopo alcuni chilometri, incominciò a farsi
sentire, ma quando vide l’enorme antenna radar della stazione
militare, il
morale gli si risollevò subito.
I
militari all’ingresso fecero un po’ di storie, ma
alla
presentazione di un tesserino lo fecero passare senza problemi.
In
lontananza una esplosione, preceduta da una forte
luce, si mischiò ai rombi dei tuoni e ai bagliori dei lampi
dei fulmini, che
incominciavano a illuminare il cielo.
I
militari non si fecero caso, ma Siroi notò che
l’esplosione era avvenuta fuori dalla zona di controllo del
radar militare.
Sorrise
tra sé e si diresse verso il comando.
Un
mezzo per portarlo alla capitale era disponibile solo
il mattino dopo, se quel fortunale se ne fosse andato.
Ma
Siroi sapeva che vi era un altro sistema per andarsene
da lì.
Il
comandante della base gliele concesso l’uso solo su
ordine diretto di qualcuno di grado superiore a Siroi.
«Pensa
che un ordine dell’imperatore sia sufficiente?»
Il
comandante non credette ai suoi occhi, quando l’uomo
estrasse una scheda nera da sotto la tuta e
l’infilò nel lettore magnetico degli
ordini di servizio.
Sul
video apparvero le credenziali dell’uomo e
l’ordine,
filmato di persona dall’imperatore, sul fatto che
l’uomo eseguiva i suoi ordini
e che qualsiasi sua richiesta doveva essere soddisfatta.
Il
comandante accompagnò l’uomo nel sotterraneo della
base e lo lasciò di fronte ad una porta metallica, di
dimensioni normali di
color lilla, di cui non si vedevano cardini, maniglie o serrature per
l’apertura.
Siroi
aveva sempre pensato che l’imperatore fosse strano,
ma una porta di color lilla in una base militare l’avrebbero
notata tutti, ma
di certo non avrebbero potuta aprirla.
Appoggio
la tessera alla altezza della maniglia sul lato
sinistro.
Si
udì un clack e la porta si aprì.
L’uomo
superò la porta e il buio lo avvolse.
La
porta si chiuse alle sue spalle, con un sonoro clack, e
una luce si accese.
Di
fronte a lui vide il muso di un treno superveloce, a
lievitazione magnetica, non più lungo di una
carrozza, con il muso affusolato davanti e didietro, che avrebbe corso
dento un
tubo prefabbricato in cemento, del tipo a vuoto spinto.
Ma,
improvvisamente, altri luci si accesero e i treni
divennero molti, ognuno di diversa lunghezza.
Siroi
sapeva che per emergenza potevano essere necessario
trasferire in breve tempo più persone, aveva visto alcune
volte quei treni, ma
non sapeva che ne esistessero così tanti sotto una sola base
militare.
La
porta di quello di fronte a lui si apri.
Siroi
salì e immise la scheda in un lettore posto
all’interno del cruscotto del treno.
Il
cruscotto si accese e Siroi appoggiò la piastra grigia
su una zona del cruscotto inclinata, che, date le dimensioni, poteva contenere vari tipi
di piastre.
Dopo
alcuni minuti, un video uscì da sopra il cruscotto e
un viso familiare apparve.
«Vedo
che sei ancora vivo?» Disse l’imperatore.
«Per
un pelo. Avevano messo una bomba sotto
l’autovettura. Spero che tu sia contento di quello che ti ho
trasmesso!»
«Mio
caro Siroi, sei sicuro che domani tutte quelle
persone saranno vive?»
«No.
Forse sono già morte ancora prima di arrivare alla
villa. Ma questo non mi importa. L’importante, caro zio,
è che la cosa sia
sotto controllo.»
«La
cosa deve comunque succedere, nipote. E sai già cosa
devi fare.»
«Ma
perché proprio io! Non potevi scegliere
…»
«Mi
fido di te! Adesso vai e ricordati di tornare per il
giorno e l’ora che ti ho detto. Per una volta tanto nella
vita renditi utile,
invece di fare sempre lo scansafatiche in ufficio!»
L’imperatore sorrise
all’ultima frase.
Sapeva
bene che Siroi non era il tipo di burocrate che si
girava i pollici per quasi tutto il tempo e che faceva finta di
lavorare una o
forse due ore al giorno.
Siroi
spense la comunicazione, sbuffando, e immise i dati
per il suo spostamento verso la nuova destinazione.
Si
mise comodo e aspettò che vi fosse il via libera per
la sua destinazione.
Il
treno era completo di bagno, camera da letto, cucinotto
e dispensa.
Il
visore indicava che il treno sarebbe partito tra tre
ore, pertanto Siroi decise di farsi una doccia, mangiare qualcosa e
fare una
dormita.
L’arrivo
alla sua destinazione era prevista almeno dopo
più di ventiquattro ore e il treno avrebbe viaggiato sotto
la superficie del
pianeta per tutto quel tempo.
Siroi
aveva già fatto alcuni viaggi con quel sistema, e
non gli era mai piaciuto.
Non
per il fatto che fosse sotto terra (le pareti del
treno mostrava il paesaggio della superficie che si stava percorrendo),
non per
la velocità, ma per il fatto che i tubi, alcune volte,
cedevano sotto la spinta
della terra, dei vulcani o degli smottamenti o delle frane sotterranee.
Aveva
saputo di persone morte per quel evento, ma sapeva
che i sistemi di sicurezza del treno avrebbero funzionato egregiamente.
Dopo
la doccia e il pranzo, visto che da Gordiy non aveva
mangiato nulla, si sedette sul divano, in attesa del segnale di
partenza.
Il
segnale di partenza non lo sentì neanche, visto che si
era già addormentato.
Si
svegliò dopo alcune ore, accese gli schermi laterali
del treno e vide una panorama squallido, pieno di cenere che scendeva
dal
cielo.
Cercò
il vulcano che stava eruttando, ma non lo vide.
Ringraziò
il cielo di essere sotto terra, ma la cosa lo
preoccupava.
L’eruzione
provocava terremoti che si ripercuotevano sul
tubo di cemento sotto vuoto.
Segnali
di pericolo dai sensori non giungevano, per cui
si mise comodo e continuò a guardare il panorama in cerca
del vulcano.
All’improvviso
lo vide.
Un
bollore strano in mezzo al mare di Punainenmeri,
dove si affacciava la biblioteca.
Sapeva che la sua meta era la biblioteca, o almeno
una stazione di transito
posta nella immediate vicinanze della biblioteca, in cui si sarebbe
nascosto
per un po’ di tempo, spacciandosi per morto, ma quel
paesaggio non lo rendeva
tranquillo.
Non poteva mettersi in comunicazione con nessuno,
ma un segnale di pericolo
poteva sempre lanciarlo alla biblioteca, sempre che già i
bibliotecari non
fossero a conoscenza del problema o
fossero
già stati avvisati.
Il treno arrivò in orario alla stazione
e Siroi si diresse verso alcune
porte, poste nell’enorme caverna che racchiudeva la stazione
di smistamento,
piena anch’essa di treni di varie lunghezze e dimensioni.
La porta dava accesso ad un appartamento, del tutto
arredato, con un
dispensa ben fornita
Siroi si sistemò nella casa sotto terra,
con tutte le comodità del caso, e
attese il momento di agire.
Da
lontano giungevano i
borbottii sommessi dei vulcani e dei terremoti da loro provocati.
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Capitolo 9 *** L'arrivo alla biblioteca ***
Prima di arrivare alla biblioteca, il treno, che
trasportava Nikolj, si
infilò sotto terra.
Il buio avvolse il treno, al cui interno furono
accese le luci con un
valore di lux maggiore del normale.
Gli occupanti incominciarono a svegliarsi.
I postumi della sbornia si facevano vedere e
sentire.
Alcuni vomitarono nei vari bagni del treno, facendo
corse con una della
mano poste sulla bocca.
Tre dei sei bagni si intasarono, l’odore
del vomito incominciò a
diffondersi nelle carrozze.
All’arrivo, in una stazione sotto terra,
le persone uscirono di corsa dalla
carrozze del treno, appena questo si fermò.
Nikolj scese con le dita della mano destra che gli
tappavano il naso.
Alcuni viaggiatori vomitarono giù dal
treno.
Quei dottoroni sapevano tutto sui libri, un
po’ meno di un certo tipo di
vita.
Quando la comitiva finì di scendere dal
treno, cercando di riprendersi da
quel viaggio, apparve uno degli assistenti della biblioteca.
Non disse una parola, ma comprese quanto era
successo.
Attese qualche attimo, poi parlò.
«Benvenuti alla biblioteca.
Sarà meglio che vi riposiate dal lungo viaggio.
Nelle vostra stanze troverete gli abiti idonei per entrare nella
biblioteca.
Prego, seguitemi.»
Si girò e i vari dottori e laureati lo
seguirono, in silenzio, alcuni
tossendo.
Nikolj seguì con lo sguardo le presunte
spie: nessuno degli altri era
sicuramente stato mandato per controllare il nulla.
Le stanze erano allo stesso piano della stazione.
Erano ben ammobiliate,
linde, con
pochi mobili, tutto di un color bianco panna.
Nikolj si sistemò con calma.
Dentro l’armadio trovò un
contenitore di vestiti appeso.
L’aprì e tolse
l’abito.
Era dello stesso colore del vestito portato
dall’assistente bibliotecario.
Noto che non vi era, sul vestito, la modifica per i
seni delle donne.
Si spogliò e lo provo.
In effetti, i seni erano pressati sotto quel
vestito.
Nikolj decise di togliersi il reggiseno, e il
vestito gli calzò a
meraviglia.
Quei sporcaccioni dei bibliotecari
l’avevano pensata bene.
Un seno prominente avrebbe distratto chi
lì vi lavorava e visto la vita
monastica a cui erano sottoposti i dipendenti della biblioteca, la cosa
era
ovvia.
Ma Nikolj sapeva che vi erano anche delle donne in
biblioteca, ma forse le
loro abitazioni erano separate da quelle degli uomini.
Nikolj fece spallucce a quel pensiero, mise in
ordine le sue cose e usci.
Notò he la porta era senza serrature e
provò la porta quando uscì.
Niente privacy: ci mancava solo che ci fossero
delle mini telecamere
nell’appartamento, magari anche nel bagno.
Nokolj guardò il soffitto del corridoio.
Non vide niente di strano, ma di natura era
sospettosa.
Proseguì per il corridoio, tendendo ben
le orecchie.
I rumori di fondo delle luci coprivano dei rumori
che ogni tanto si
sentivano, rumori di motorini passo a passo che muovevano, quasi
sicuramente,
delle telecamere, piccole ma potenti.
E il rumore di colpo si smorzava quando Nikolj si
fermava.
Aveva addosso un rilevatore di posizione!
Accidenti ai bibliotecari!
Continuò verso l’ascensore che
portava alla biblioteca.
Davanti alla porta dell’ascensore
ritrovò l’assistente della biblioteca che
stava distribuendo, ai vari compagni di viaggio, dei pass per i vari
piani
delle biblioteca.
Ogni studioso presentava le sue credenziali e il
facente funzione
bibliotecario programmava i loro pass in base a ciò che era
riportato sul
foglio presentato.
Nikolj si era dimenticata in camera le sue
credenziali e tornò indietro.
Quasi tutti gli studiosi erano davanti
all’ascensore: gli altri li incontrò
che uscivano dalle stanze e si stavano dirigendo verso
l’assistente della
biblioteca.
Quando arrivò in vista della sua stanza,
notò uno strano movimento in fondo
al corridoi.
Entrò nella stanza, ma non chiuse del
tutto la porta.
Vide alcune persone, vestite come
l’assistente bibliotecario, che entravano
nelle stanze, perquisendole: poi ritiravano il materiale degli studiosi
(vestiti e quant’altro) li infilavano in scatole di plastica,
ognuna
etichettata con il nome dello studioso, e le portavano via.
Nikolj raccolse le sue credenziali e tutti quegli
oggetti che non voleva
che quegli uomini trovassero.
Uscì dalla stanza nel momento in cui gli
uomini entravano in un’altra
stanza, correndo lungo il muro del corridoio, nella speranza che le
telecamere,
per un attimo, la perdessero di vista, e raggiunse gli altri studiosi,
decisamente
degli imbranati quando si trattava di pass e cose del genere.
Alcuni protestarono perché alcune zone
della biblioteca gli venivano
proibite, solo perché sulle credenziali non era specificato,
ma che a loro
serviva per le ricerche.
Ci volle più di un’ora prima
che tutti gli studiosi e non avessero il loro
pass.
Per ultimi rimasero Nikolj e l’uomo di
mezza età.
L’uomo presentò
all’assistente le sue credenziali ed ebbe il suo pass,
senza troppi problemi.
L’uomo entrò
nell’ascensore e attese che Nikolj avesse il suo pass.
L’assistente bibliotecario
guardò dal basso in alto la donna, leggendo più
volte le credenziali, prima di digitare le cifre sul computer.
Il pass che uscì era di un colore
rosso fuoco.
L’uomo nell’ascensore la
guardò di tralice.
L’assistente, comprendendo lo stupore
dell’uomo, disse: «Lettore
indipendente. Hanno accesso a tutta la biblioteca, in modo illimitato.
Mi
sembra strano che uno come lei non sappia ciò.»
«è
vero. Lettore indipendente
pensiero libero. Era da tempo che non citavo quel detto.»
Disse l’uomo
sull’ascensore.
L’assistente fece segno a Nikolj di
salire sull’ascensore.
Nikolj salì e l’uomo,
distrattamente, gli mostrò il suo pass, su cui era
visibile il suo nome, l’incarico e l’ufficio di
appartenenza: una volta
indossato, il pass avrebbe mostrato solo la foto e il nome proprio
della
persona, celando ad altri il resto del contenuto del pass.
Nikolj abbassò gli occhi e
notò il nome.
Non era possibile che uno degli uomini
più fidati della security
dell’imperatore fosse lì.
L’uomo indossò il pass e tutto
sparì.
Nikolj mostrò all’uomo il suo
pass e poi lo indossò: anche il suo, dopo
averlo indossato, mostrò solo la sua foto e il nome.
L’uomo non fece una piega:
l’aveva già riconosciuta sul treno e non era il
caso di discutere i loro ordini in pubblico e men che men in tutta la
biblioteca: anche lui aveva sentito quei rumori soffusi nascosti dalle
luci un
po’ troppo rumorose.
L’ascensore incominciò a
salire, velocemente.
La cabina era di vetro ed appena uscirono dal
sottosuolo videro la
biblioteca nel suo splendore.
Il piano terra, che comprendeva
l’ingresso e delle sale minori, più che
altro utilizzate per le scolaresche o i visitatori occasionali che
provenivano
dallo spazio.
Il piano era alto circa dieci metri, sufficienti
per stupire qualsiasi
visitatore, con gli scaffali che arrivavano fino in cima ai locali.
Passato quel piano, si presentarono ai visitatori
il primo e il secondo,
che erano della stessa altezza del piano terra.
Il terzo piano era il più alto.
Più di trenta metri d’altezza,
per tutta la superficie occupata dalla
biblioteca.
Scaffalature enormi riempivano il salone principale
e quelli laterali.
Come in tutta la biblioteca, non vi erano libri in
carta ma videolibri,
archivi informatici o altri supporti elettronici.
Non che in commercio non ne esistessero, ma una
selezione così grande di tutta
la conoscenza umana non esisteva in tutta la galassia conosciuta.
Chi voleva poteva leggere i videolibri direttamente
da delle piastre
portatili, oppure farsi dare l’originale, riportante le noti
di tutti quelli
che l’avevano letto.
Il tutto sembrava un enorme magazzino
informatizzato, con sistemi di
recupero di libri a mezzo di bracci fissati alle scaffalature, con mani
meccaniche
che recuperavano i videolibri o le piastre e gli addetti alla
biblioteca che li
seguivano con in mano piastre nere che mappavano il materiale
informatico necessario
agli studiodi.
L’ascensore si fermò al terzo
piano e l’assistente indicò all’uomo di
scendere.
L’uomo scese e Nikolj si mosse anche lei.
Nikolj rimase sbigottita quando
l’assistente la fermò, passando quindi la
mano su di un lato dell’ascensore, e questi salì
ancora.
Passarono altri quattro piani, alti quanto il primo
piano ed estesi come il
terzo.
Alla fine l’ascensore si fermò
all’inizio di una delle enormi cupole che
coprivano la biblioteca.
L’assistente bibliotecario fece scendere
Nikolj e ripartì verso il basso.
Nikolj si guardò intorno e una persona,
con indosso la tonaca del personale
della biblioteca, guardava fuori dalla cupola.
Tra Nokolj e l’altra persona vi erano
più di cinquanta metri, che lei
percorse con calma, guardandosi intorno, in quello spazio enorme e
vuoto.
La figura guardava il vulcano, in lontananza, che
saliva dal mare, con un
continuo borbottio, con il mare che ribolliva, il lancio per aria di
ceneri e
bolidi e con la terra che tremava continuamente.
La persona si tolse il cappuccio e
mostrò il viso a Nikolj.
Era un viso femminile, giovane, decisamente
più giovane di Nikolj.
«Io sono il bibliotecario!»
Così si presentò a Nikolj,
che la guardò dritta in quegli occhi profondi e
azzurri.
«Vedo
che la biblioteca continua a
nascondere egregiamente i suoi segreti!» Disse Nikolj, con
una punta di
sarcasmo.
«Potevi evitare di venire qui. Non
è il momento di certa azioni. Forse il
non fare è il modo sicuro di vivere!»
«Di sopravvivere, mia cara. Lo sai che i
vulcani sono in continua
evoluzione, e il fatto che, casualmente, proprio mentre succedono
queste cose,
uno sorga dal mare, non è che possa cambiare il volto a
quello che realmente
succede!»
«E casa succede, di grazia,
signora?» Il bibliotecario schernì la ragazza.
«Ti basta un disegno, o preferisci un
intero quadro?»
«Nessuno è in pericolo, men
che meno la biblioteca. Nessuno la toccherà. Le
persone che qui vi vivono sono disposte a morire per lei
…»
«Non essere così precipitosa
sulla fedeltà dei tuoi sottoposti. Al primo
cambio di vento la loro fedeltà cambierà bandiera
e tu non servirai più a
niente.»
«Ma solo io possiedo il segreto dei libri
proibiti!» Ribatté il
bibliotecario.
«Non è così
necessario. Qualcuno potrebbe anche fregarsene e lasciarli
lì
ad ammuffirsi, per i prossimi secoli. No, mio caro bibliotecario, non
è tempo
di tirarsi indietro. O con l’impero o contro di lui. La
neutralità è, ormai per
te, passata di moda e potrebbe essere vista come un segno di debolezza,
non di
fortezza. Forse molti dei tuoi ti abbandoneranno, ma tu devi
dimostrarli la tua
fortezza nella tua fermezza nel prendere posizione in quello che
succede.»
«Fai in fretta, tu, non è il
tuo collo in pericolo!»
“«Il mio collo e già
sul ceppo e la scure è già in mano al boia,
alzata al
cielo, pronta a scendere e a dividere la mia testa dal mio corpo! Non
dire,
quindi, eresie! Finché nessuno sa chi sei, non corri
pericoli. E i tuoi avatar
ti salveranno cento volte dalla forca!»
«I miei avatar non sono così
coraggiosi di fronte alla morte, e potrebbero
parlare! Questa discussione è inutile e sterile e, come al
solito, mio padre
non capisce …»
«Ma tua madre sì! È
lei che mi manda! Sei solo una sciocca! È il momento di
unirci, non di separarci. uniti nessuno ci potrà toccare. E
ricordati che nessuno
sa che posti noi occupiamo. Solo l’imperatore e
l’imperatrice sono in bella
vista, sotto gli occhi di tutti! Noi siamo dei fantasmi, ricordati,
solo dei
fantasmi, ma è proprio per questo che adesso serviamo!
Nessuno sa di noi, ma
noi sappiamo di loro!»
Il bibliotecario non era convinto di quel discorso.
Per lei, o lui che fosse, la biblioteca veniva
prima di tutto e di tutti,
anche di padri, madri, sorelle e fratelli, parenti tutti, amici e
nemici, più o
meno conosciuti.
Il bibliotecario si girò e si
allontanò da Nikolj, che non tentò neanche di
fermarla.
Nikolj
rimase lì, a
guardare il vulcano che eruttava a più non posso, facendo
tremare la terrà e,
in modo minore, la biblioteca, che, data la zona, era stata costruita
tenendo
conto della zona tellurica in cui si trovava.
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Capitolo 10 *** Spazio profondo ***
Il nulla.
Erano finiti nel nulla.
Erano in un punto della galassia dove non vi era
niente.
Non un sole, un pianeta, un asteroide o una cometa.
Nulla.
Il comandante guardava le coordinate impostate
automaticamente dopo aver
digitato il punto richiesto dall’imperatrice.
Neanche il radar tridimensionale dava notizie di
qualsiasi cosa persa in
quel punto.
Il comandante della nave imperiale aveva sempre
evitato di fare domande sui
punti di ritrovo prefissati dall’imperatrice, per educazione,
rispetto,
fiducia, ma stavolta l’imperatrice aveva esagerato.
Erano le due del mattino ora capitale
dell’impero e non se la sentiva di
svegliare l’imperatrice per dirgli che erano arrivati nel
nulla.
Ma il comandate delle navi di scorta non era della
stessa idea e chiamò via
teletrasmissione.
«Cosa ci facciamo qui? Perché
non sveglia sua signoria e gli chiede cosa
dobbiamo fare?» Il volto rotondo e paonazzo, per niente
sorridente, del
comandate della navi di scorta riempiva il video.
«Cosa volete che vi dica. Mettetevi a
difesa tipo globo e aspettate.»
Il comandante della scorta chiuse malamente la
comunicazione, mentre il
comandante delle nave imperiale, cercava, a quell’ora, al
citofono, di chiamare
una delle dame per
avvisare che erano
giunti al punto prefissato.
Proprio mentre stava digitando il codice di una
della dame, la porta della
sala comando si aprì di colpo e l’imperatrice fece
il suo ingresso.
Era vestita con gonna lunga e larga, corpetto,
collo e maniche, il tutto in
velluto nero.
La testa era cinta da una coroncina che teneva
saldo sulla testa un lungo
velo nero liscio, che la copriva completamente fino ai piedi.
Il comandante stava per parlare, quando
l’imperatrice si avvicinò al video
trasmettitore e chiamò il comandate della navi di scorta.
Il comandate apparve sul video contrariato, ma
quando vide l’imperatrice
scatto sull’attenti, sbattendo i tacchi degli stivali.
L’imperatrice guardò il video
e poi il suo comandante.
«Arriverà, tra cinque minuti,
una veicolo. Non dovete chiamarlo, non dovete
chiedere codici di riconoscimento, non dovete fare nulla per fermarli.
Saliranno
sulla mia nave dal portello di carico 05. Nessuno deve essere presente
quando
lo sportello del veicolo di aprirà e le persone scenderanno.
Niente e nessuno
deve disturbarci. Avete capito?»
I due comandanti, con un cenno della testa,
risposero affermativamente.
L’imperatrice chiuse la comunicazione con
la scorta, guardò fisso negli
occhi il suo comandante e poi si girò, andandosene come era
arrivata.
Aveva detto di non disturbare, non che le
telecamere non potessero vedere
quello che succedeva.
La zona di carico 05 era piena di telecamere, per
controllare l’andirivieni
delle persone durante il carico di vettovagliamenti per il viaggio e lo
scarico
dei materiali di risulta.
Il comandante non era sicuro, ma si diresse verso
la cabina di controllo
dell’interno della nave e cacciò in malo modo gli
addetti che vi erano presenti:
voleva essere sicuro che nessuno fosse testimone di
quell’incontro, tranne lui,
l’imperatrice e i nuovi venuti.
Il veicolo arrivò in orario: nessuno
chiese, nessuno domandò, nessuno rispose.
Il veicolo, lungo e affusolato, si
infilò sotto la nave ed entrò nella zona
di carico 05.
Il comandate vide chiudersi il portello e
accendersi la luce, mentre la
zona veniva compensata e stabilizzata con aria respirabile.
Alla fine della compensazione, una porta laterale
della zona cargo si aprì
e l’imperatrice entrò.
Dal veicolo si aprì un portello, da cui
si allungo una scaletta.
Scese per prima una donna, un poco più
bassa l’imperatrice, con un viso
lungo e chiaro, capelli biondi tagliati alla maschio, vestita di una
tuta
aderente grigio chiaro, che si guardò attorno e si
affiancò alla scaletta.
Dopo di lei scese quello che sembrava un uomo,
completamente nascosto da una
tonaca con cappuccio di color marrone.
I due si guardarono senza parlare.
Il comandate aveva sentito di strane storie
raccontate sul fatto che
l’imperatrice, alle volte, davanti a certi interlocutori, non
aprisse bocca e
gli altri capissero cosa lei diceva.
E, a quanto pare, non era una legenda.
L’imperatrice si girò verso il
portellone da cui era entrata, affiancata
dall’uomo e seguita dalla donna.
Nell’incedere dell’uomo il
comandante riconobbe, forse, non ne
era certo, un traditore.
Ma sì, era lui.
Come poteva non riconoscerlo, anche con i vestiti
così smessi che lo
coprivano: era Lord More.
Il comandate trasalì.
Era sparito da anni, nessuno ne aveva
più sentito parlare ed ora era lì, a
portata di mano, quel traditore che aveva, durante una battaglia contro
uno
degli imperatori di una vicina galassia, battuto in ritirata, lasciando
milioni
di anime (uomini, donne, bambini, anziani e soldati posti a loro
difesa), in
mano a quel terribile nemico, che fece una strage di quella povera
gente e non
ne pagò le conseguenze.
L’uomo zoppicava: anzi, gli mancava una
gamba.
Il comandante rimase pensieroso.
Si lasciò andare sulla poltrona e
meditò.
Sapeva bene che l’ira
dell’imperatore e dell’imperatrice verso i
traditori
era tremenda.
Lo aveva visto di persona l’imperatore
infilare il coltello nel petto di un
uomo che aveva spudoratamente tradito l’impero, che aveva
passato piani di
difesa a qualche oscuro nemico e l’imperatrice, a mani nude,
uccidere
un’ancella che aveva passato informazioni private
dell’imperatrice a certi
loschi individui che diffondevano notizie, più o meno vere,
di persone
altolocate tramite videogiornali.
La notizia non era molto importante, non vi erano
foto, ma il solo fatto di
aver fatto trapelare un fatto così personale e privato
dell’imperatrice costò
la vita all’ancella.
Da allora, chi era a diretto contatto
dell’imperatore e dell’imperatrice
teneva la bocca ben cucita e gli occhi chiusi.
Il comandante, dopo tutte queste riflessioni,
attese che l’incontro
finisse, tolse gli archivi di memoria delle telecamere e se li mise in
tasca.
Uscì dal locale, guardò torvo
i presenti e se ne andò nella sua cabina.
Mise le memorie nella cassaforte, ben sapendo che
prima o poi qualcuno,
forse anche l’imperatrice, glieli avrebbe chiesti.
In mezzo al nulla le navi si lasciarono cullare dal
vento solare residuo di
alcune stelle vicine.
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Capitolo 11 *** Notizie ***
Le cattive notizie viaggiano più veloci
delle buone.
È un dato di fatto.
E di certo, l’imperatrice e Nikolj
avevano a che fare, in luoghi diversi,
proprio con quelle terribili notizie troppo veloci per poterle
rincorrerle e
fermarle.
La prima notizia brutta la ricevette
l’imperatrice da Lord More: la
biblioteca, così come era conosciuta sul pianeta capitale
dell’impero era
destinata ad essere distrutta dai vulcani nel giro di poco tempo.
Tutto ciò che vi era contenuta sarebbe
stato distrutto.
I calcoli, che prevedevano la distruzione della
biblioteca da parte dei
vulcani che circondavano il mare, erano stati fatti da diversi geologi
e
vulcanologi, che conoscevano bene il pianeta, dopo elaborati studi e
rilevamenti satellitari.
Non era un problema.
I libri erano in realtà memoria di
massa, che erano neanche sì depositate
fisicamente nella biblioteca, ma che potevano, in pochi minuti, essere
trasferiti in altri siti.
Il problema vero era che la biblioteca era
collegata con il mondo esterno,
solo che le informazioni poteva entrare e non uscire e la modifica ai
sistemi
richiedeva parecchio tempo, non essendo stati aggiornati da parecchio
tempo.
Ma anche questo era un problema superabile.
Ma i libri, quelli veri, quelli di carta, legno,
ceramica, plastica, che
erano stati incisi, modellati, dipinti per secoli da gente a cui il
libro era,
solo per il fatto di esistere, un dono prezioso, quelli erano
insostituibili e
non potevano essere spostati con un battito di ciglia.
L’imperatrice disse a Lord More che la
biblioteca non aveva libri di carta
o di chissà quale altro materiale.
«Dici, mia cara. E i libri della sezione
proibiti, a cui tanto ci tengono
il bibliotecario e i suoi accoliti? Pensi che non si sappia, per la
galassia,
che tengono libri nei cosiddetti scantinati delle biblioteca?»
L’imperatrice guardò fisso
negli occhi l’uomo.
Lord More, dopo un attimo, fece una faccia
stupefatta.
Non era possibile.
La ragazza, che era con lui, trasalì.
Erano tutti e tre in una stanza della nave, ben
protetta da occhi e
orecchie indiscrete, tranne, ovviamente, da quelli del comandante che
stava registrando
tutto.
Vi erano solo due divani a tre persone e quattro
poltrone, di color cenere,
ben imbottite, tutte intorno ad un tavolino basso, rotondo, di un solo
pezzo di
marmo rosa non lavorato.
More guardò la ragazza.
Il silenziò che segui sembrò
quasi interminabile.
L’imperatrice era sicura che i suoi
ospiti sarebbero rimasti sconvolti
della notizia data loro.
«Bene.» Disse
l’imperatrice. «Non credo che sia necessario
prolungare
ulteriormente la vostra sosta presso la mia nave. Il viaggio
è lungo e le
notizie devono essere necessariamente trasmette nel più
breve tempo possibile.
Vedrete che tutto si sistemerà!»
«Come sempre, mia imperatrice!»
Disse Lord More, inchinandosi.
La ragazza fece lo stesso e ritornarono, da soli,
al loro veicolo spaziale,
che partì immediatamente.
L’imperatrice tornò nella sua
camera, si cambiò e si preparò ad andare a
dormire.
Per sicurezza, affinché nessuna la
svegliasse troppo presto, chiuse a
chiave le porte della sua stanza.
Inviò, poi, via computer, al comandante
della sua nave e a quello della
scorta, un nuovo punto di arrivo con le coordinate.
Il comandante, prima di partire,
verificò che non fosse un altro posto
perso nel nulla.
Il nuovo punto di arrivo, anche se non era proprio
perso nel nulla, era in
un posto non molto piacevole.
Era il pianeta prigione di Icestar.
Il comandante, dopo aver controllato, diede
l’ordine di partire.
L’imperatrice, quando sentì il
rumore di sottofondo della nave che mutava,
si mise a letto e si addormentò, sorridendo.
Nikolj, intanto, come lettore indipendente, aveva
accesso a tutte le
informazioni che gli interessavano, senza dover necessariamente
lasciare
traccia.
Per sicurezza, comunque, seguì uno
schema poco logico
nella sua ricerca.
Non voleva che si capisse che cercava
l’accesso ai libri proibiti o di
quella parte delle biblioteca dove essi si trovavano.
Le informazioni sulla costruzioni della biblioteca
erano in memorie di
masse recentemente revisionate, pur essendo i disegni originali datati
secoli
prima.
Nikolj capì che erano state, da
qualcuno, recentemente modificate.
Ma da chi e il perché era ancora da
scoprire.
I disegni, digitali, pur essendo stati modificati,
avevano ancora le informazioni
primarie in essi contenuti, ma erano stata nascosti in modo maldestro.
Nikolj ci impiegò alcuni giorni a
scoprire come funzionava il programma e a
far venire alla luce quello che cercava.
Se le notizie cattive hanno le ali ai piedi, quello
che scoprì Nikolj
aveva, ai piedi, dei missili: la biblioteca, quella sotto terra, era
più grande
di quella dove lei si trovava, non solo come dimensione, ma anche come
volumetria.
E non solo.
La maggior parte della vecchia biblioteca,
interrata, con una strana forma
ovale, con parecchi corridoi disposti, a quanto sembrava, in modo
casuale, era
sulla terra ferma, lontano dalla nuova biblioteca.
I disegni mostravano che
l’uovo era
collegato con la biblioteca da un dedalo di passaggi, a vari livelli
nel sottoterra.
Questo dedalo di passaggi finivano in un enorme
corridoi nel sotterraneo
della biblioteca, pieno, sembrava, di libri.
Nikolj non poté azionare il software
tridimensionale nella sala degli
ologrammi, rischiando che tutti i presenti vedessero lo scherzo dei
costruttori.
La nuova biblioteca, pur enorme nel suo insieme,
era forse una decima parte
della vecchia biblioteca.
Nikolj trasferì i disegni nei suoi
personali banchi di memoria, che portava
sempre con sé, per ogni evidenza.
Avrebbe studiato con calma i disegni in un altro
momento.
I giorni alla ricerca dei disegni della biblioteca,
e del suo passato,
erano passati tutti uguali, con una cadenza mortale, con gli orari
imposti dai
bibliotecari, con gli orari per la colazione, la cena, il pranzo, il
riposo: una
vera vita monacale, a cui Nikolj non era per niente abituata.
L’unica distrazione, il vulcano, aveva
smesso di borbottare cinque giorni
dopo il loro arrivo, così come era iniziato,
improvvisamente, sparendo nel mare
da cui era sorto.
Comunque, quella scoperta avrebbe permesso a Nikolj
di movimentare un poco
la sua vita in quel mausoleo di sapere.
I suoi amici di viaggio passavano i giorni sui
libri e ben presto, scaduto
il loro permesso, se ne sarebbero andati via, lasciando lei e
chissà chi delle
altre spie lì, a continuare quella vita.
Spie.
Era l’unica cosa che girava per la mente
di Nikolj.
Poi arrivò il tempo di partenza degli
studiosi.
Abbracci, baci, strette di mano, un sacco
“ci vediamo!”, scambi di numeri
di telefono…
No, non erano studiosi: erano gli studenti di una
gita scolastica.
Ma uno degli studiosi si avvicinò a
Nikolj, stringendogli la mano e
baciandola sul viso.
Ma sussurrò a Nikolj qualcosa ad un
orecchio.
«C’è una fornace,
sulla terra ferma. Una di quelle per fare mattoni. È in
disuso. Non mi chieda come, ma su questa memoria di massa
c’è l’accesso al
belvedere!»
L’uomo diede una scheda di memoria nella
mani di Nikolj e se ne andò.
Che tipo strano.
No.
Nikolj trovò nella sua mente, in un lato
della memoria, persa nel tempo, il
volto di quell’uomo.
Era uno della setta!
Accidenti all’imperatrice!
Si era mossa su un po’ troppi fronti, la
cugina!
Era meglio sistemare la cosa in modo diretto.
Nokolj decise di tagliare corto con la storia del
lettore indipendente.
Tanto valeva passare all’azione.
Non aveva molte scuse per allontanarsi dalla
biblioteca.
Decise, però di non restituire il pass:
non aveva termini di scadenza, per
cui le sarebbe diventato utile più tardi.
Dato che aveva deciso di andarsene dopo
l’allegra combriccola dei
ricercatori, doveva trovare un proprio mezzo di locomozione per
allontanarsi
dalla biblioteca.
Avviso gli assistenti del bibliotecario, si fece
portare i suoi effetti
personali nella stanza che aveva occupato all’arrivo in
biblioteca, si cambiò,
lasciò sul letto la tunica, prese le sue cose e
andò verso la stazione ferroviaria.
Un qualsiasi mezzo per lasciare la biblioteca non
c’era: neanche un muuli,
pensò Nikolj.
Si diresse verso la destra della stazione, in una
zona senza luce.
Sapeva che vi era l’accesso alla stazione
ferroviaria di emergenza, quella
dove vi era nascosto Siroi.
Nella zona buia, un piccolo anfratto nascondeva un
piccolo corridoio, che
finiva con una porta lilla.
Le idee balzane della cugina.
Che senso aveva colorare le porte di accesso alle
zone di emergenza di color
lilla?
Nikolj fece passare la sua memoria di massa sulla
porta, all’altezza della
maniglia, sul lato destro, e la porta si aprì.
Le scale!!!
Quando al luce si accese le si presentò
davanti una scala a chiocciola che
scendeva nel nulla.
Non contò i gradini, ma gli ci volle
più di mezz’ora per arrivare alla
stazione di emergenza.
Vi erano vari treni, tra i quali quello con cui era
arrivato Siroi.
Nikolj notò che uno dei treni aveva una
sigla diversa da quelli presenti e
si preoccupò.
Chi era arrivato lì da
un’altra stazione di emergenza?
Evitando di far accendere le luci della stazione
sotterranea, Nikolj fece
il giro della stazione, costeggiando il muro.
Notò che da sotto di una delle porte
degli appartamenti usciva della luce,
che si spense subito poco dopo.
Nikolj rimase in attesa di sentire il rumore della
porta che si apriva, ma,
nel buio, non giunse nessun rumore.
Rimase in attesa, quando, all’improvviso,
una mano gli bloccò la bocca e
una lama di coltello gli sfregava la parte affilata sulla gola.
«Cugina … non si fa
così! Che ci fai qui?»
Siroi lasciò andare la bocca di Nikolj e
rimise il coltello nel fodero
appeso alla cintura.
Nikolj si sfregò la gola con la mano
sinistra e passò il braccio destro
sulla bocca.
«Bel modo di fare. Dovresti vergognarti,
trattarmi così!»
Siroi rise a gran voce.
«Taci!» gli urlò
Nikolj. «Qualcuno potrebbe sentirci!»
«Chi, mia cara? Nessuno è a
conoscenza di questi posti. Tranne noi della
famiglia!» Gli rispose Siroi, a voce alta.
Lei guardò in giro scrutando il buio.
Siroi si avvicinò ai treni e la luce
illuminò la stazione.
Da dietro una delle carrozze apparve
l’uomo che gli aveva consegnato le
memorie di massa da parte dell’imperatrice.
«Ma che bella comitiva!»
Esclamò.
«E tu chi sei?» Disse Nikolj,
estraendo un’arma dalla borsa.
«Calma, cugina. È un
amico!» Disse Siroi.
«Ciao, Siroi, come stai?»
Chiese l’uomo.
«Ciao, Duke! Vedo che
l’imperatrice ti fa ancora correre?» Disse Siroi
«Ah! Il Duca Gemini. È un
po’ che non la si vedeva in giro. La corte le era
così stretta o il tentativo di mia cugina di trovarle moglie
le da fastidio?”
Chiese Nikolj.
«Cara Nikolj! Vorrei sposare chi mi piace
e che amo, non una delle
maledette dame di compagnia dell’imperatrice che preferiscono
certi tipi di uomini
a quelli veri!» Disse sarcasticamente Duke.
«Quali tipi di uomini?» Disse
Nikolj, civettando.
«Finitela!» Disse
Siroi.«Qui incominciamo ad essere troppi. Una piccola
folla!»
Risero tutti e si diressero verso
l’appartamento occupato da Siroi.
Avrebbero pensato al giorno dopo sul da farsi.
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Capitolo 12 *** Prigione ***
Un pianeta ricoperto di ghiaccio, in una galassia
così grande, non è una cosa
rara.
Che poi avesse una eclittica molto allungata, per
cui si avvicinava al sole
solo per 6 mesi standard dei tre anni che ci impiegava a percorrerla,
non era
difficile trovarne.
Che avesse anche una atmosfera e una
gravità naturale quasi simili al
pianeta dell’imperatore era cosa quasi normale.
Non era normale la sua dimensione: pur essendo il
terzo pianeta di quel
sole, la sua dimensione era il triplo del pianeta
dell’imperatore.
Non che il pianeta dell’imperatore fosse
un pianeta particolare e diverso
dagli altri, ma era consuetudine fare riferimento, nei confronti tra
pianeti, a
quello.
Icestar era così grande, immenso, che
era considerato il posto peggiore
dove far vivere chi aveva mancato alle leggi che ogni singolo pianeta,
o la
galassia, aveva emesso per la difesa delle persone e delle cose.
Di certo, mettere tutte le mele marce in
un’unica cesta era gran cosa, ma
le mele, se ve ne erano di meno marce, marcivano subito, in quel posto,
dove
sopravvivere era il solo modo di vedere l’alba del giorno
dopo.
Il lavoro, non ben remunerato, era
l’estrazione di ogni tipo di metallo che
ci fosse sulla crosta bel spessa di quel pianeta.
Oro, diamanti, platino e ogni tipo di materiale che
risultava raro su
qualsiasi altro pianeta, lì ve n’era in abbondanza.
I macchinari per l’estrazione erano gli
stessi prigionieri, che, se non per
sfamarli e vestirli, non erano controllati dalle guardie, poche,
più
indaffarate a controllare che nessuno entrasse senza permesso
più che uno cercasse
di scappare.
Vi era, infatti, un luogo, su quel pianeta,
chiamato il cimitero degli
elefanti. Nessuno aveva mai capito perché, ma lì
vi era la più alta concentrazione
di morti di tutto il resto del pianeta, tranne, ovviamente, nel
cimitero della
prigione.
Molti tecnici di varie commissioni imperiali
avevano studiato il problema, più
per salvare la faccia all’imperatore che altro, ma non erano
giunti a nessuna
conclusione.
Ma il comandante delle guardie, un tipo alto,
grosso, con poco cervello,
losco, completamente pelato, con un facciotto rotondo, ben lo sapeva.
Le bussole che i prigionieri rubavano per poter
scappare, seguendo una
certa rotta, forse la più sicura, tramandata da generazioni
di ladri, puttane e
quant’altro su quel pianeta vi era arrivato, non sapeva che
sotto a quel punto
vi era un potente magnete, che formava, con altri, una rete di difesa
passiva
contro gli intrusi.
Il magnate era vicino ad una uscita laterale della
miniera di oro, quella
meno controllata, perché la più profonda.
I più coraggiosi rubavano le bussole,
salivano in superficie per una scalda
di emergenza, non allarmata e non controllata, e si trovavano a 125
°C sotto
zero.
Anche con una tuta termica, di cui i prigionieri ne
erano sprovvisti, su
quel pianeta si poteva resistere al massimo ventiquattrore in quel
freddo, per
poi morire di assideramento.
I prigionieri, che avevano solo pellicce, e neanche
tanto di prima scelta,
seguivano l’ago della bussola e finivano lì, a
morire di assideramento dopo
neanche due ore, tanto era il tempo che ci voleva a piedi da
quell’uscita al
magnete.
Il comandante e le sue guardie registravano,
tramite le videocamere di
sicurezza, l’uscita della persona da quella porta, con numero
e nome, e
mettevano automaticamente la scritta “Deceduto”.
Nessuno era uscito vivo da quella prigione.
O almeno uno c’era.
Ma vi era stato riportato dopo alcuni anni di
latitanza tra un pianeta e
l’altro.
Lo avevano messo a lavorare nella miniera
più profonda del pianeta, a
cercare diamanti.
Era diventato cieco, o così si diceva, e
muto e sordo, dal rumore dei
picconi che rimbombava in quel tunnel e a furia di urlare per
sovrastarlo.
A lui non gli interessava molto di coloro che
tentavano la fortuna,
scappando da lì sotto.
Ma ogni volta che ne vedeva uno tentar la fuga, un
tremendo ghigno gli si
formava sulla bocca, con la faccia che, per un attimo, sorrideva.
Poi gli tornava la solita faccia dura, contrita,
imperturbabile e lui continuava
a scavare.
L’imperatrice, per quell’uomo,
nutriva una curiosità innaturale.
Non era un bell’uomo, non era alto, non
raccontava storielle buffe o declamava
poesie, non era filosofo di vita, eppure l’imperatrice, del
prima giorno che lo
aveva visto al tribunale per la sua condanna definitiva, a vita, su
quel
pianeta, gli era parso interessante e spudorato.
Era stato necessario buttare per aria tutta una
parte dell’impero, quando
era scappato, per trovarlo e cercarlo di punirlo.
Lui era un fantasma: un giorno su un pianeta, il
giorno dopo in viaggio su
di un cargo, poi ancora fermo su un pianeta, fino a che non arrivavano
legioni
di militari a cercarlo e lui si spostava.
L’imperatrice andava qualche volta a
controllare che fosse ancora lì,
incatenato nel pozzo a scavare con quel piccone di ferro, con un manico
di
legno che sembrava rompersi ad ogni colpo dato alla roccia.
L’imperatrice scese su Icestar nel porto
principale, unico attracco per
qualsiasi nave andasse su quel pianeta.
Ve n’erano di più, una volta,
ma dato l’impossibilità di controllarli tutti
in maniera adeguata, era stato deciso da una commissione che un porto,
ben
attrezzato e ben controllato, per quel pianeta, era più che
sufficiente.
Era un porto non molto trafficato.
Vi arrivava una o due navi spaziali alla settimana.
Più che altro portavano cibo, alle volte
dei prigionieri.
L’imperatrice giunse sul pianeta in coda
ad una nave, che quel giorno
portava un certo numero di prigionieri da un pianeta a confine con
l’impero di
un nemico giurato di suo marito.
L’imperatrice salì sul ponte
di comando mentre le due navi, una dietro
all’altra, si avvicinavano al porto e incominciò a
scrutarla, mentre alcune
delle sue navi di scorta seguivano a poca distanza.
La donna si avvicinò al comunicatore e
chiamò il capo scorta.
Il capo scorta non fece in tempo a parlare, quando
vide nel video
l’imperatrice.
«Il resto della scorta
dov’è?» Chiese in modo energico.
«E’ rimasta fuori
dall’atmosfera …» il capo scorta non
finì la frase.
«Fateli entrare nell’atmosfera
e che si precipitino subito al porto. Quella
nave che sta di fronte a noi non è un cargo, ma una nave da
battaglia
camuffata. Fate presto!» L’imperatrice chiuse il
comunicatore e si girò verso
il comandante.
«Manovra elusiva, presto, e avvisate il
porto che sta arrivando una nave
non invitata!»
Il comandate diede ordini ai suoi sottoposti e
chiamo il porto, dichiarando
le sue generalità e avvisandoli del problema.
Il comandate del porto rise.
«E chi volete che venga qui con una nave
da battaglia a portar via cosa?»
L’imperatrice tolse il comandante dal
comunicatore e guardò truce il
responsabile del porto.
«Se vedete la mia faccia sapete ben chi
sono! Ho dato un ordine diretto e
pretendo che lo eseguita immediatamente! L’uomo è
ancora al suo posto?»
Il comandate del porto divenne rosso.
«Obbedisco,
signora. Il suo … l’uomo è ancora nel
tunnel sotterraneo!»
L’imperatrice si alzo dal comunicatore
spegnendolo in malo modo.
Non era il suo.
Era uno dei prigionieri più pericolosi
che ci fossero su quel pianeta, e
non era da sottovalutare.
La nave che precedeva quella
dell’imperatrice, in prossimità del porto,
perse il camuffamento, mostrando la sua vera faccia.
Sul ponte superiore due torri contenevano, ognuna,
quattro cannoni laser,
mentre torrette di ogni dimensione, contenenti diverse armi, facevano
bella
mostra di se sui fianchi.
Sotto, la nave aveva altre quattro torri con una
serie di quattro cannoni
ognuna.
Sula parte superiore vi era anche una torre comando
e varie infrastrutture,
alcune di lancio missili, altre di comunicazione.
Il comandante della nave, intento con tutto il suo
personale nella manovra
di atterraggio sul porto, ad una velocità inusuale per una
nave in quella angolazione
di discesa, non fece caso ai segnali di allarme che provenivano dai
radar della
nave che annunciavano l’avvicinarsi delle navi di scorta
dell’imperatrice che
aprirono il fuoco contro i motori, posti sulla coda della nave.
I colpi andarono a segno senza troppa fatica e la
nave perse stabilità.
Prima si girò verso sinistra, poi si
buttò a destra, nel tentativo di
evitare i colpi che provenivano dalle altri navi di scorta
dell’imperatrice,
uscite dall’orbita ed entrate nell’atmosfera, che
gli venivano incontro.
La nave non riuscì immediatamente a
rispondere al fuoco e quando giunse ad
alcuni chilometri dalla superficie, i cannoni, a protezione del porto,
aprirono
il fuoco, investendo la nave come un gancio che un pugile scaglia
contro il suo
avversario.
Il colpo fu tremendo: la nave rallentò,
fin quasi a fermarsi, tanto era la
velocità che perse in poco tempo, e la coda
precipitò sul pianeta, tirandosi,
poi, dietro il resto della nave.
L’esplosione fu tremenda e fece vibrare
la nave dell’imperatrice, che nel
frattempo si era allontanata dal combattimento e ne aspettava
l’esito.
Il ghiaccio, in quel punto del pianeta, si sciolse,
per parecchi metri di
profondità, sopra la superficie rocciosa, formando un fiume
in piena di acqua
calda per alcuni chilometri, diretto verso un abbassamento del ghiaccio.
Il fiume riempi quell’abbassamento e
rimase liquido per alcuni momenti.
Poi l’acqua si ghiacciò,
formando una strana configurazione nel terreno.
Chiunque aspettasse quella nave non ebbe molto
tempo per compiangere chi
era morto in quell’impresa.
Sotto la superficie dei ghiaccia parecchie
gallerie, sotto l’effetto
dell’urto e dell’esplosione della nave, crollarono,
coinvolgendo centinai di
prigionieri, che perirono sul colpo.
Le guardie, infuriate per quello che era accaduto,
sguinzagliarono i
mastini, affamati, che si misero sulle tracce dei probabili rivoltosi.
Di certo gli animali avrebbero colpito a casaccio,
ma questo era
sufficiente a tenere buone le persone che avevano ideato quel disastro.
I resti della nave bruciarono per alcune ore.
La nave dell’imperatrice, con tutta la
sua scorta, scese nel porto.
Il comandante del porto fece mettere in fila la
guardia d’onore per
l’arrivo dell’imperatrice, che non volse nemmeno
uno sguardo a quegli uomini e
non li passò nemmeno in rassegna.
Agli uomini della guardia la cosa non fece molto
piacere, ma si sapeva che
l’imperatrice era una a cui non piaceva molto
l’etichetta militare.
All’interno degli uffici del porto
giunse, correndo, il comandante delle
guardie, che salutò, tutto trafelato,
l’imperatrice.
«L’uomo ...
dov’è?» Chiese senza indugi
l’imperatrice.
«Sempre al suo posto!» Rispose
secco il comandate.
«Quella nave era per lui, lo sapete,
vero?»
Il comandante guardò
l’imperatrice stupefatto della frase che aveva appena
sentito.
«Ma voi non potete credere
…»
La frase fu subito interrotta da un gesto della
donna.
«Dov’è …
l’uomo?»
L’imperatrice si stava già
agitando.
Non adorava venire contraddetta da certe persone,
men che meno da un
comandate delle guardie di una prigione.
«Da questa parte, mia
imperatrice.» Disse infine l’uomo, ossequioso.
L’uomo uscì dalla stanza
seguito dall’imperatrice e dalla sua scorta.
Il comandante delle guardie era già
stanco di vederla l’imperatrice, venuta
lì, come al solito, a vedere quel tizio che non aveva niente
di particolare,
tranne l’essere scappato da quella prigione e che quel fatto
era costato caro
al suo predecessore.
Una telecamera, nella zona 1 di controllo della
prigione (su tutto il
pianeta ve ne erano più di cinquemila di quelle zone,
presidiate continuamente
da guardie) controllava i movimenti dell’uomo, spostandosi
ogni volta che egli
si muoveva nel tunnel.
L’imperatrice scosto brutalmente
l’uomo che guardava il video che
controllava il detenuto e vi si avvicinò, fissando il
prigioniero.
L’uomo fece uno strano movimento, poi si
fermò e guardò la telecamera, come
se sapesse che qualcuno, non la solita guardia, lo stava guardando.
«Andate a prenderlo, gli voglio
parlare!» Disse secca l’imperatrice.
Il comandante, a cui l’imperatrice non
aveva mai dato quel’ordine, era sul
punto di rimostrare, ma il volto dell’imperatrice, quando lo
guardò, quasi
domandandosi cosa il comandante stesse ancora aspettando, non gli diede
molta
scelta.
Si girò sbuffando, prese alcuni uomini,
ben armati, alcuni mastini,
affamati, e si diresse verso il tunnel.
Nell’attesa l’imperatrice si
diresse verso alcune sale interrogatorio e
attesa il detenuto.
Ci volle un po’ prima che il capo guardia
e gli uomini portassero di peso
l’uomo.
Lo sbatterono a terra e lo lasciarono ai piedi
dell’imperatrice, nella sala
interrogatorio.
L’uomo, coprendosi gli occhi per la
troppa luce, vide degli stivali in
pelle, con la parte appuntita rivola verso di lui, con dei tacchi alti
e
stretti, che sbucavano da una gonna in pelle, tutto di colo nero.
Girò il volto verso l’alto e
vide il volto dell’imperatrice che lo scrutava
e sentiva una strana vocina nella mente.
Una maledetta strega!
Lo sapeva bene e gli rispose con tutte le forze che
la sua mente potesse
sprigionare in quel momento.
La donna rise e di alzò in piedi,
facendo cadere la sedia su cui si era
seduta nell’attesa del prigioniero.
Lui iniziò a digrignare i denti e lei
gli girava in tonto, alla volte
ridendo, alle volte muovendo il frustino che aveva in mano, facendo
muovere
l’aria con sonori fischi.
La strana danza durò alcuni minuti, ma
nessuno capì costa stava succedendo.
Alla fine la donna colpì il sedere
dell’uomo, lasciandogli un livido di un
bel colore blu e, ridendo, uscì dalla stanza.
Passò davanti al capo guardia senza dire
nulla e si diresse verso la sua
nave, inseguita, di corsa, da alcune dame di compagnia, scese
dall’astronave
per sgranchirsi le gambe, e che si coprivano il naso con fazzolettini
di stoffa
ricamati, per il forte olezzo che saliva da sotto la stazione di
controllo.
Anche il comandante della nave imperiale e della
scorta la seguì a rotta di
collo.
Le navi lasciarono il pianeta prigione in meno di
un’ora, ma non se ne
allontanarono molto.
L’imperatrice comandò di
rimanere in orbita del pianeta successivo ad
Icestar ed attendere i suoi ordini, mentre si faceva una doccia
ristoratrice.
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Capitolo 13 *** Ordine e ordini ***
Un impero ha sempre bisogno di ordine e ordini.
Ordine, regolamenti, leggi che permettono agli
abitanti di coesistere, pur
avendo idee, essendo di razze e pregando dei diversi.
Alcune di queste leggi sono emesse dagli stessi
pianeti, affinché la
popolazione che vi abita possa coesistere nella legalità.
Altre sono emessi dall’impero, per
conciliare le diverse leggi emesse dai
diversi pianeti, che potrebbero essere, tra di loro, in contraddizione.
Ordini e comandi vengono emessi da chi dirige
pianeti, zone della galassie
o l’intera galassia.
Ordini e comandi vengono dati anche alle truppe, ai
militari di stanza sui
vari pianeti, più o meno abitati, asteroidi o su tutto
quello che può permettere
ad un esercito di difendersi in caso di attacco.
Il punto dolente di tutto quell’ordine e
di tutti gli ordini emessi erano
le persone che li ricevevano, che dovevano comprenderli ed eseguirli.
Di certo, un ordine militare è un ordine
militare: spostare le truppe da un
pianeta all’altro non era certo come andare a fare un pic-nic.
Ma gli ordini o le leggi per i civili, per i
burocrati, dovevano andare
capiti ed interpretati.
Di certo la fantasia ai burocrati per interpretare
una legge, a loro modo
di vedere, non mancava e l’imperatore, troppo spesso, era
costretto ad emettere
specifici editti circa una interpretazione più o meno lesiva
per una parte o
l’altra.
I tribunali, ovviamente, erano spessi presi
d’assalto da quelli che
credevano che una legge fosse stata emessa a loro discapito.
Ma la cosa che l’imperatore odiava erano
le riunioni fiume con i burocrati
quando la legge, norma o editto doveva ancora essere emendato.
L’imperatore aveva deciso che il metodo
dei suoi predecessori, quello di
partecipare a quelle riunioni fiumi di persone, non andava proprio bene.
O almeno non si confaceva con il suo indomito
spirito.
L’imperatore aveva deciso di evitare che
la sua persona fosse messa in
pericolo abitando sul pianeta capitale dell’impero.
Ai tempi dei fatti che narriamo, l’impero
occupava la maggior parte di una
galassia a spirale, e la capitale dell’impero era un pianeta
di media grandezza
e come diceva, divertito, un famoso scienziato filosofo, “con
le cosine tutte
al loro posto”.
Il pianeta capitale era in un braccio della
galassia verso l’esterno.
Di certo la mutabilità delle stagioni, i
poli ghiacciati o le zone
desertiche vi erano come su qualsiasi altro pianeta e la concentrazione
delle
persone in molte aree aveva quasi riempito il pianeta di palazzi di
ogni
grandezza e forma, strade, case, sobborghi, favelas e altro ancora.
L’andirivieni di navi spaziali e persone
da quel pianeta era quasi al
collasso.
Gli oltre centro astroporti pubblici e
più di mille privati non bastavano a
sopperire alla richiesta di navi che vi arrivavano e gli incendi, tra
navi e navette,
era una realtà giornaliera.
Non vi era comandate di nave che fosse giunto al
pianeta capitale almeno
cinque volte di fila che in una non avesse fatto un incidente, magari
lieve, ma
pur sempre incidente, che rallentava la partenza o l’arrivo
di altre navi.
Il pianeta dell’imperatore, invece, era
sì in un braccio vicino, ma verso
l’interno, nascosto dai gas galattici.
Tutte e due i pianeti ruotavano intorno a dei soli
gialli, belli e caldi.
E questa era l’unica cosa che li
accumunava.
Il pianeta dell’imperatore, su cui vi era
la biblioteca, era poco abitato:
anziché alcuni miliardi di individui, ne vivevano alcune
milioni, che vivevano
solo per servire l’imperatore e la sua corte.
L’imperatore, dato che odiava spostarsi
inutilmente e passare tempo in
riunioni fiumi, aveva fatto costruire sul suo pianeta e su quello della
capitale due sale ologrammi, con una circonferenza di circa cento metri.
Erano in un’ala del palazzo reale verso i
giardini invernali, posti a est
dell’ingresso principale del palazzo, chiusi dentro ad una
enorme cupola, che
si estendeva per ettari e si alzava verso il cielo per più
di cinquecento metri.
Sulla capitale le sale erano poste
all’interno del palazzo dei giudici,
delle stesse dimensioni.
L’imperatore, in caso di riunioni, andava
in una delle due sale e
partecipava alle riunioni fiumi, qualche volta addormentandosi se la
discussione proseguiva senza giungere a qualche decisione, la qual cosa
faceva
arrabbiare i burocrati: che non partecipasse di persona alle riunioni
era una
cosa, che si addormentasse durante, quasi sbeffeggiandoli, questo non
lo sopportavano.
Se non addirittura, durante la riunioni, camminare
su è giù per la stanza,
sparire dalla vista delle telecamere dell’ologramma per poi
apparire con un
vestito diverso, sorseggiando una bevanda, se non addirittura vedersi
apparire
un servitore che gli portava da mangiare.
Più volte i burocrati si erano lamentati
con il gran ciambellano di corte,
ma l’imperatore non se ne interessava.
Anzi, più volte, in riunione, ebbe di
lamentarsi del loro atteggiamento.
Dopo tutto era l’imperatore a cui
obbedivano civili e soldati.
Se i burocrati non avessero sviato i suoi ordini.
E questo era successo con la nave camuffata che era
caduta su Icestar.
Era entrata da una parte del confine
dell’impero con l’altro impero,
piccolo, comandato da un imperatore folle e guerrafondaio.
Un burocrate l’aveva fatta passare, anche
se gli ordini giunti ai militari
era quello di fermare qualsiasi nave proveniente da quel quadrante
della galassia.
Ma i soldati, ben sapendo che avere a che fare con
i burocrati era una
pessima cosa, aveva avvisato dell’incidente il loro
comandante e rimasti lì, in
attesa di ordini.
E l’ordine giunse.
Non muoversi.
E i militari non si mossero, guardando la nave, ben
camuffata, passare il
confine e andare chissà dove.
Quando si seppe che quella nave era precipitata sul
pianeta prigione, i
militari guardarono torvo il burocrate di confine, che
sparì, improvvisamente.
Ma l’imperatore, che di solito non veniva
avvisato di queste inezie, lo
venne a sapere, anche per il fatto che la moglie era sul pianeta.
L’imperatore andò su
è giù dalla sala ologrammi, pensieroso, proprio
durante una di quelle riunioni fiume.
No, pensava, non era possibile!
Era andata ancora su quel pianeta a guardare il
prigioniero.
I burocrati lo guardarono in
quell’atteggiamento strano.
Lui, quando era pensieroso, metteva una mano, di
solito la sinistra, dietro
alla schiena e l’altra, in particolare modo con il mignolo,
giocherellava con
le sue labbra.
Era solito camminare a grandi falcate, entrando ed
uscendo dalle
telecamere.
Il primo ministro tossì,
tossì e ritossì.
Inutile.
L’imperatore stava pensando a qualcosa.
Poi improvvisamente si fermò.
No, non era possibile.
Il suo viso cambiò espressione e
guardò i burocrati, di sottocchio.
Dovevano ringrazia che non fossero lì
con lui, di persona.
La loro morte sarebbe stata lunga e dolorosa.
Schioccò le dita e l’ologramma
sparì.
I burocrati fecero strane facce, ma non potevano
farci niente.
Una giornata inutile, per loro, inconcludente,
anche se, a sera, non
avrebbero comunque concluso nulla, come sempre facevano con
l’imperatore,
ovviamente per ripicca nei suoi confronti.
Spariti gli ologrammi dei burocrati dalla stanza,
l’imperatore emise un
urlo animale, terribile.
I pochi presenti rimasero stupefatti da quanto
successo e scapparono.
L’imperatore di diresse a grandi passi
fuori della sala, salì su un veicolo
elettrico e si diresse verso la stazione radio, guidando personalmente
il
veicolo.
La stazione radio era posizionata nella zona
più lontana del palazzo
imperiale, a destra rispetto all’ingresso principale.
Molte persone della corte, che stavano
passeggiando, videro letteralmente
schizzare la macchina sulle strade, rischiando di travolgere molte
persone.
Arrivò all’edificio destinato
alla sala radio frenando di colpo e
abbandonando il veicolo sul prato di fronte all’ingresso
principale.
Entrò nella stanza dei servizi segreti,
posta al piano seminterrato, ove alcune
persone stavano controllando diversi pannelli di controllo, con le
cuffie ben posate
sulle orecchie, per meglio sentire tutto ciò che stavano in
quel momento
intercettando.
L’operatore capo si girò di
colpo, imprecando con chi fosse entrato
sfondando la porta.
Ma quando vide la faccia dell’imperatore
indiavolato, il capo si mise
sull’attenti, mentre gli intercettatori non se ne accorsero
di nulla.
Ma non poterono fecero finta di niente quando
l’imperatore fece scattare
l’allarme perché tutti gli dessero retta.
Il palazzo non fu svuotato per miracolo.
Il capo degli intercettatori era impietrito davanti
all’uomo.
Gli ordini che gli vennero dati erano a dir pochi
folli, ma gli
intercettatori ubbidirono senza aspettare che il loro capo desse quei
comandi.
I generali delle zone interessate, quella di
confine e quella vicina al
pianeta prigione, passarono ore nelle loro sale oleografiche delle lori
basi
militari, a discutere con l’imperatore e lo stato maggiore.
I due generali, diversamente dal solito,
all’interno delle sale oleografiche
erano soli. I loro attendenti e i loro stati maggiore rimasero fuori,
in
silenzio, preoccupati: non era cosa di tutti i giorni una riunione con
l’imperatore, lo stato maggiore e un comandante di
un’altra zona.
L’imperatore, nella sala, era con i suoi
più stretti collaboratori
militari: tre persone. Uno era il capo di stato maggiore, un cugino di
secondo
grado, a lui molto fedele, un altro era il responsabile
dell’intelligence
militare, fratello di una sua zia, un tipo strano, troppo intelligenze
per i gusti
dell’imperatore, e l’ultimo era il suo segretario
personale, un fratellastro,
di cui si fidava poco, ma che gli serviva lì, in quel
momento, per vedere la
sua faccia alle sue rivelazione ai generali: il nome
dell’uomo era sul famoso
elenco.
La discussione durò ore, quasi una
riunione fiume come con i burocrati,
solo che questa volta l’imperatore era ben sveglio e deciso a
sistemare la
questione velocemente.
Il generale della zona di frontiera uscì
dalla riunione sconvolto.
Il suo stato maggiore lo guardò
preoccupato.
«Qual è la nave più
vicina alla frontiera, verso l’esterno della
galassia?»
chiese ai suoi uomini.
«C’è la flotta C,
quella di Grovin. È lì da una settimana, che
pattuglia la
zona. Ma non è una nave sola …»
«Bene. Passatemelo in sala ologrammi e
venite pure voi.» Disse al suo stato
maggiore.
Il comandante Grovin era un tipo piccolo, con i
capelli rossi, la barba
rosso, la pelle rossa: tutti lo chiamavano “il
rosso” e lui ne andava fiero.
Il generale, quando il comandate si presento
nell’ologramma, si rivolse a
lui in modo amichevole.
«Salve, Rosso, come va?»
Il comandate Grovin si meravigliò, ma
decise di non rispondere allo stesso
modo.
«Bene , Generale. Grazie del suo
interessamento. Come posso esserle utile?»
«Devo darle un ordine che lei non ha mai
ricevuto. Superi la frontiera e
sconfini nella zona vietata dall’esterno della
galassia.»
Le persone presenti rumoreggiarono e il rosso
divenne ancora più rosso.
«Devo, se ho capito bene, uscire dalla
galassia, andare nel vuoto più
assoluto, e rientrare nella galassia dalla zona vietata? E
l’ordine non mi è
stato mai dato, ma sarà una mia iniziativa, senza ricevere
aiuto in caso di bisogno,
e per cosa?»
Il generale si passò la mano sotto il
mento.
«Deve scoprire chi, in questo momento,
comanda la zona vietata.
L’imperatore ha idea che il nostro vicino non sia in casa, ma
che sia a spasso
da qualche parte nel nostro impero.»
«Ah. Una visita di cortesia. E come spera
che io scopra se in casa c’è
qualcuno o no?»
«Si ricorda, Grovin, quel famoso
asteroide che passa vicino alla frontiera,
che esce dalla galassia e, rientrando, si avvicina al pianeta impero e
che abbiamo
più volte usato per i nostri viaggi ….»
«Certo. Ma ci vorrà tempo
…»
«No, mio caro, meno di quello che lei
pensa. Ultimamente il pezzetto di
roccia è stato fatto avvicinare ad un pianeta e ha preso
velocità, molta
velocità. Nessuno se ne accorgerà se lo userete
come nascondiglio. Lo sai,
Rosso, che quella è stata la tua migliore idea. E
l’imperatore ha deciso di
darti il comando dell’operazione, concedendoti il grado di
ammiraglio.»
«Oh, bene. Ammiraglio di niente. Va bene.
Ma ricordati che quella maledetta
bottiglia che tiene nel cassetto destro della tua scrivania
è mia. Che tu lo
voglia o no. E non svuotartela tutta da sola, se no faccio attaccare
dai miei
la tua cantina privata!»
«Va bene, maledetto! Ma datti da fare.
Hai solo due giorni prima del
rendez-vous con l’asteroide fuori della galassia!»
«Ah. Scusa,
generale, ma l’asteroide, ovviamente …»
«Lo sai benissimo come deve svolgersi il
piano C, capo D. Non fare inutili
domande!»
Il generale chiuse la comunicazione e il Rosso se
la rise come un matto.
Il suo piano era stato approvato
dall’imperatore.
Bene. Una visitina a quel maledetto cugino
rompiscatole non gli dispiaceva.
Dopotutto, con lui morto, il comando di quella zona
spettava a lui.
Si, era la volta buona che, anche se non
imperatore, un certo titolo
nobiliare gli sarebbe caduto tra le braccia e l’odioso cugino
sarebbe finito
nel fango.
Uscì dalla sala ologrammi e diede ordine
di partire alle sue navi.
La sua mini flotta era costituita dal suo
incrociatore spaziale, che vista
dall’esterno non dava l’impressione di essere in
gran forma, due porta caccia
stellari, due navi rifornimenti, dieci navi di scorta e alcune
più piccole che precedevano
in avanscoperta o seguivano la flotta in copertura.
La flotta parti a velocità luce verso il
confine della galassia.
Una delle navi di scorta attraverso velocemente il
confine e atterrò
sull’asteroide.
La flotta, intanto, trascinava un asteroide, della
stessa forma e
dimensione di quello che doveva coprire la loro piccola invasione.
La nave di scorta atterrata
sull’asteroide aveva a bordo circa cinquanta
uomini.
Il comandante si chiamava Gregorovich, statura
media, non troppo muscoloso,
viso con dei lineamenti marcati.
Per essere una donna era un po’ troppo
maschiaccio, ma i suoi uomini non ci
facevano caso: a bordo donne e uomini avevano gli stessi diritti e
doveri e obbedire
non era certo n optional.
Il comandante, dopo l’atterraggio, diede
ordine per piazzare dei motori
ausiliari che avrebbero spinto l’asteroide lontano, nello
spazio infinito,
mentre il sostituto avrebbe preso il suo posto, nascondendo al suo
interno la
flotta, che sarebbe giunta a destinazione senza dar troppo
dell’occhio.
Michel
Gregorovich
sapeva che il piano avrebbe funzionato: erano anni che studiava quel
piano e
che attendeva la sua vendetta.
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