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di SamuelCostaRica
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Biblioteca ***
Capitolo 2: *** I Morti ***
Capitolo 3: *** L'Agenzia ***
Capitolo 4: *** Il cieco ***
Capitolo 5: *** Il reclutamento ***
Capitolo 6: *** Il viaggio ***
Capitolo 7: *** Siltbliss ***
Capitolo 8: *** Il labirinto ***
Capitolo 9: *** L'arrivo alla biblioteca ***
Capitolo 10: *** Spazio profondo ***
Capitolo 11: *** Notizie ***
Capitolo 12: *** Prigione ***
Capitolo 13: *** Ordine e ordini ***



Capitolo 1
*** La Biblioteca ***


Il cielo era grigio, carico di acqua.

Non che gli interessasse molto, lì, al coperto, sotto una delle cupole perimetrali, completamente in vetro temperato resistente ricoperto di più strati di tecno­polimero, della biblioteca.

La biblioteca: era l’unica cosa di cui gli importava.

Era stata costruita secoli prima, su quella penisola, lunga circa duecento chilometri, posta a nord di un lago, che veniva chiamato, nella lingua locale, Punainenmeri.

La biblioteca distava cinquanta chilometri dal punto di attacco della penisola con la terra ferma.

Più che un lago quello era da tutti considerato un mare, dato che l’acqua ne aveva la stesa composizione, che superava la superficie di seicentomila chilometri quadrati, che le sponde non erano tra loro visibili, con parecchi affluenti posti a est e ovest della penisola, ma con un unico accesso dal vicino oceano, uno stretto posto a sud, lungo alcuni chilometri, chiuso, per tutto il suo percorso, tra altissimi vulcani in attività, alcuni dei quali avevano le pareti a strapiombo e formavano lo stretto medesimo.

L’accesso al mare era interdetto da un una rete elettromagnetica, posizionata tra le due pareti vulcaniche poste   all’inizio dello stretto, che non consentiva a nes­sun veicolo marino, sia sopra che sotto la superficie dell’acqua,  di attraversare lo stretto e di entrare nel mare.

Inoltre, all’interno del mare, vi erano delle posta­zioni automatiche sottomarine che, a mezzo di sonar e boe acustiche sommerse, tenevano sotto controllo il mare.

Dal cielo, invece, l’accesso era controllato da varie stazioni militari con radar ad apertura sintetica a scansione tridimensionale, installate sulla terra ferma, posi­zionate vicino a campi di aviazione militare, che proteggevano la biblioteca da qualsiasi veicolo non autorizzato al sorvolo che potesse giungere dal cielo o dallo spazio.

L’attuale imperatore, un tipo malfidente, aveva anche fatto posare, recentemente, dei sensori sotto terra, per l’ascolto di qualsiasi vibrazione del terreno dovuto a veicolo che avessero viag­giato sotto la superficie del pianeta.

Quei sensori servivano anche per tenere sotto controllo i movimenti tellurici della terra, volgarmente chiamati terremoti, provocati dai vulcani posti sullo stretto e che formavano una catena montagnosa che, partendo dallo destra dello stretto, dopo aver formato il medesimo, seguiva una direttrice sud-est nord-ovest.

Ma per anni, anzi secoli, nessuno aveva mai cercato di avvicinarsi alla biblioteca senza permesso.

Permessi che non venivano distribuiti facilmente alla popola­zione.

Per la popolazione vi erano biblioteche più piccole, distribuite sui vari pianeti che costituivano l’impero, i cui libri non erano in formato carta, ma in formato informatico: la censura sui libri era molto più facile se erano in formato informatico, dato sulla carta, o qualsiasi altro tipo di materiale, non era possibile tirare righe per cancellare frasi senza che qualcuno non si ribellasse o protestasse, rompendo la pace imperiale.

Alla quella biblioteca, quindi, dove i libri erano in carta e altri materiali, accedevano soltanto studiosi e ri­cercatori, autorizzati da un numero limitato e ben conosciuto di persone.

L’elenco comprendeva l’imperatore, l’imperatrice, il capo gabinetto dell’imperatore, alcuni funzio­nari e burocrati di vari dipartimenti e alcuni ret­tori delle più importanti università del pianeta e di quella parte dell’universo governata dall’imperatore.

La persona stava guardando il mare, o meglio il faro posto su uno spuntone di roccia posto a circa un chilome­tro dalla terra che, con intermittenza, lanciava la sua luce a illuminare il buio, davanti ad un porto vuoto, sul mare sconfinato nel suo limite, di quello strano colore grigio, in burrasca, sotto quel cielo plumbeo, mentre sulle finestre si rispecchiava la stanza che era dietro di lui.

Una stanza arredata in maniera sfarzosa.

I mobili erano dei più rari e belli che fossero stati costruiti in tempi remoti, lavorati a mano da persone esperte.

Il tavolo, dietro a lui, era di forma rettangolare, di colore nero con riflessi blu: le sei gambe, che sostenevano il tavolo, due poste verso le finestre e quattro dall’altra parte, rappresentavano strani animali, mai visti da persona su quel pianeta, colorati di oro.

La sedia era dello stesso colore del tavolo, con seduta e schienale imbottiti e rifiniti in pelle nera: le gambe erano anch’esse di color oro, dotate di rotelle per consentire, a chi si fosse seduto su di essa, di girarsi di trecentosessanta gradi intorno al suo centro di gravità.

Gli altri mobili, di diversi gradazioni dei colori marrone e nero, di diversa forma ed altezza, sembravano distribuiti, all’interno della stanza posta in cima alla cupola, in modo casuale, senza seguire una ben precisa dislocazione.

In realtà, una precisa dislocazione ce l’avevano: chi fosse salito dalle scale, poste dall’altra parte della stanza, entrandovi, con i mobili in quella posizione, non avrebbe visto chi era seduto alla scrivania.

Mentre ammirava il panorama, dietro a lui si sentirono alcuni passi sulle scale, indecisi.

Si sedette immediatamente sulla sedia e si avvicinò alla scrivania, ponendo la mano sinistra sotto di essa.

L’uomo, zoppicante, che saliva gli ultimi scalini, scrutò la cupola in cerca di chi era presente.

«Bibliotecario?». Chiese l’uomo, con fare sommesso.

«Perché mi disturbi?». Gli rispose il bibliotecario, sfiorando con le dita la micidiale arma posta sotto il tavolo.

«Chiedo scusa, ma serve la vostra presenza alla camera dei libri proibiti. C’è stato un accesso non autorizzato. Non sappiamo cosa fare». Disse l’uomo, con voce rispettosa e tremante, alquanto preoccupato abbassando la testa.

«Nessuno può accedervi senza il mio permesso!». Disse il bibliotecario con un tono di voce profondo, che dimostrava tutta la sua furia per quanto gli era stato detto.

L’uomo, appena arrivato, si volse e scese frettolosamente le scale, senza aspettare la risposta del bibliotecario, quasi rischiando di cadere.

Il bibliotecario, sfilando l’arma da sotto il tavolo,  si alzò e si diresse verso le scale.

Come l’uomo, che lo aveva avvisato dell’improvviso problema, indossava una tonaca lunga fino ai piedi, di color grigio perla, lavorato con dei disegni di color nero, che rappresentavano un labirinto.

Un enorme cappuccio copriva la sua testa e ne nascondeva i lineamenti del viso.

Infilandosi le mani delle larghe maniche della tonaca, nascondendo l’arma in una tasca nascosta dentro alle maniche, incominciò, con passo fermo, a scendere i gradini della scala, che lo portarono due piani più in basso, sempre all’interno della cupola.

Nella zona centrale dell’enorme stanzone, completamente vuoto, vi era una cabina circolare, completamente di vetro, con una luce bluastra che lo illuminava.

L’uomo vi entrò, di malavoglia, ma l’unico modo di uscire dalla cupola era quella maledetta cabina: non gli era mai piaciuto il teletrasporto, ma non poteva farne a meno.

Vi salì e, a chiara voce, dichiarò il luogo ove voleva andare.

«Stanza 1111 codice di accesso tequila!». Disse il bibliotecario.

Il suo corpo di smaterializzò, apparendo in una cabina simile parecchi metri sotto terra, vicino ad una porta blindata.

Vi erano presenti, al suo arrivo, sette persone, tutti vestiti di una tonaca uguale alla sua: solo tre di essi avevano il cappuccio alzato.

Gli altri si avvicinarono al bibliotecario: tra loro c’era la persona che lo aveva avvisato dell’intrusione.

Le persone con il cappuccio calato sulla testa rimasero fermi, guardando da lontano quel chiacchiericcio, intorno al nuovo venuto, delle persone che cercavano di giustificarsi, dichiarando che non sapevano assolutamente nulla su cosa fosse successo.

Il bibliotecario estrasse la mano destra dalla manica e fece un gesto per quietare le persone che lo circondavano.

Guardò gli altri incappucciati, fermi, immobili, dietro a quel muro di uomini i quali, capendo la situazione, si spostarono, lasciandoli passare.

Il bibliotecario e gli altri fecero capannello, incominciando a parlare con fare sommesso, senza farsi sentire dai presenti.

Dietro a loro vi era una porta blindata, chiusa, che era di forma ovale, senza cardini e senza serratura, alta più di cinque metri.

La stanza, che forse avrebbe dovuto contenere la porta, era più alta della porta e lunga almeno venti metri, imbiancata di color bianco, con un pavimento di color grigio chiaro, formato da enormi lastre quadrate di materiale composito.

Di fianco alla porta blindata, sulla sinistra, era posizionato una piastra metallica di forma rettangolare.

Il bibliotecario, dopo aver discusso con gli altri, si avvicinò alla piastra togliendo, con la mano sinistra, uno strano aggeggio di color bianco da una tasca nascosta esterna della tunica, dallo stesso lato della manica.

Gli uomini senza cappuccio si allontanarono, correndo, mentre gli altri si spostarono sul lato destro, lungo il muro perimetrale del locale.

Il bibliotecario appoggiò l’apparecchio alla piastra e un rumore metallico, forte, rimbombò nella stanza.

I chiavistelli, nascosti, che tenevano la porta chiusa, incominciarono a cedere, facendo sì che l’enorme porta si muovesse verso il locale, smuovendo polvere e calcinacci, come se la porta non fosse stata aperta da tempo.

Ma la porta, stranamente, non cadde nel locale.

Man mano che i cardini liberavano la porta, questa si mosse, prima verso il locale, poi verso il basso.

Alla fine incominciò a scivolare in un buco sul pavimento, sparendovi.

Gli uomini senza cappuccio, che si erano allontanati e posizionati davanti alla porta blindata, furono investiti da un vento freddo e maleodorante, proveniente dal nero che si vedeva dietro all’enorme passaggio lasciato libero dalla porta.

I quattro incappucciati sorrisero, vedendo le facce schifate degli uomini fermi davanti alla porta.

Il bibliotecario, dopo che il vento cessò, si spostò davanti alla porta, guardandovi dentro.

L’uomo avanzò nel passaggio lasciato libero dalla porta: appena vi si infilò, una piccola luce, sulla destra, si accese.

Poi, una dopo l’altra, altri luci incominciarono ad accendersi, in basso, illuminando, discretamente, quello che sembrava un lungo salone.

Poi incominciarono ad accendersi altri luci, a varie altezze, illuminando un corridoio enorme, alto decine di metri.

Poi altri luci si accesero, illuminando corridoi che partivano perpendicolarmente dal corridoio principale.

Una seconda fila di luci, sopra a quelle che si erano già accese, incominciarono ad illuminare la scena, rompendo il buio in cui i locali, da tempo,  erano stati lasciati.

Più le luci si accendevano, più la biblioteca dei libri proibiti mostrava il suo vero volto.

Era alta più di cinquanta metri, lunga a perdita d’occhio, con enormi scaffali, in pietra e il legno,  che contenevano libri, fatti solo di carta o materiali simili, di diverse grandezze e spessori.

Non si vedeva videolibro o schede di memoria su nessun scaffale.

Il bibliotecario e gli altri incappucciati si misero l’uno di fianco all’altro, rimirando quello spettacolo.

Gli uomini, rimasti indietro, emisero dei rumori sommessi, di meraviglia, nei confronti di quanto vedevano.

Il bibliotecario, girandosi verso i suoi interlocutori posti alla sua destra, disse sommessamente: “Peccato che il resto sia stato separato dalla frana”.

«Per fortuna!». Disse l’ultimo interlocutore.

«Già. Per fortuna!». Replicò quello di fianco al bibliotecario.

Il terzo si incamminò all’interno della vecchia biblioteca.

Gli uomini non incappucciati si mossero per seguirli, ma un muro invisibile si frappose tra loro e la porta.

Il bibliotecario si girò e fece loro cenno di non muoversi.

Gli uomini rimasero lì a rimirare quello spettacolo, mentre il bibliotecario e gli altri si incamminarono all’interno delle biblioteca.

Mentre avanzavano le luci, lasciate dietro a loro, si spegnevano, lasciando accese solo quelle davanti a loro, per illuminare il loro cammino.

Gli uomini rimasti fuori videro, improvvisamente, la porta risalire e rimettersi al suo posto.

Spaventati scapparono, infilandosi uno alla volta nel teletrasporto e ritornando alle loro faccende.

Se qualcuno era entrato nella zona dei libri proibiti non era un problema loro.

Avevano così tante cose da fare, in quell’enorme biblioteca che, anche se qualcuno si fosse introdotto in quel posto, non gli interessava.

Il bibliotecario e gli altri non si videro per tutto il giorno e nessuno se ne preoccupò.

Alla sera, nella mensa della biblioteca, dove si raccoglievano tutti i dipendenti, il bibliotecario e i suoi avventurosi amici apparvero, con il cappuccio abbassato e senza proferir parola.

Il rumore di fondo, che si era improvvisamente fermato al loro arrivo, riprese, senza dar molto peso al fatto che né il bibliotecario né gli altri prendessero parola per chiarire cosa fosse successo.

Non era abitudine del bibliotecario giustificare certe cose ai suoi sottoposti: ignorare ciò che succedeva nei luoghi più nascosti delle biblioteca era necessario, se si voleva continuare a lavorare e vivere in quel posto.

All’esterno della biblioteca pioveva ormai da parecchie ore, accompagnata da tremendi lampi di luce e rombi di tuono, mentre il buio la faceva da padrone e, dopo cena, tutto il personale si diresse verso le proprie stanze per dormire quella notte, come la precedente e quella successiva, sperando che si fosse visto, il giorno seguente, la luce del sole.

La biblioteca era come una monastero, sempre liberi, chi vi fosse dentro, di uscire e di rientrare quando voleva, ma decisamente scoreggiato dal bibliotecario e dagli altri: la biblioteca pretendeva devozione dai suoi addetti e non dava tanto facilmente confidenza, come il bibliotecario.

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Capitolo 2
*** I Morti ***


Tutti vorrebbero evitare di andare ai funerali.

L’imperatrice non ne era da meno.

Ma a quello proprio non poteva evitare di andarci.

La sua più cara amica era morta, in un misterioso incidente, alcuni giorni prima, su un pianeta del sistema solare XXX, lontano non molti anni luce dal pianeta ove vi era la capitale dell’impero.

Era una burocrate onesta e laboriosa, fedele più all’imperatrice che all’imperatore, ma comunque fedele ai principi morali che l’imperatore voleva che ogni buon burocrate seguisse.

Il funerale avvenne, su ordine dell’imperatrice, nelle immediate vicinanze della capitale e la donna fu sepolta in un cimitero privato, con tutti gli oneri dovuti ad un burocrate di alto rango, anche se la donna non lo era.

Il corpo, quando arrivò sul pianeta, fu identificato personalmente dall’imperatrice, che ne verificò personalmente lo stato.

I suoi accompagnatori ebbero da ridire del modo di fare dell’imperatrice, ma lei non era tipo di ascoltare molto i pareri degli altri, specialmente se non richiesto.

Il corpo dell’amica non mostrava affatto i danni provocato dall’incidente di cui si leggeva sui verbali dei poliziotti giunti per primi sul posto.

L’imperatrice, da un po’ di tempo, seguiva i casi di morte improvvisa dei burocrati di basso rango, di solito morti per incidenti casuali, i cui corpi, se non bruciati nell’incidente dei loro autoveicoli, venivano cremati immediatamente, dopo un sommario riconoscimento delle identità.

La cosa l’aveva alquanto sospettata, perché i burocrati erano tutti passacarte, gente che seguiva pratiche non molto importanti.

Ma gli incidenti erano sempre accaduti lontano dalla capitale, su pianeti insignificanti, ove i burocrati erano andati a seguire cose di poco conto.

Perché l’imperatrice se ne interessante così tanto non era dato a sapere a nessuno, ma la cosa aveva, invece, interessato l’imperatore.

Non vivendo molto spesso insieme, l’imperatore e l’imperatrice parlavano solo di quello che erano le cose normali di cui si parla in coppia: figli, amicizie, malattie, parenti defunti o troppo pressanti per soldi o potere che volevano e a cui non avevano diritto.

Una sera l’imperatore di presentò, solo, negli appartamenti privati della moglie, che stava, insieme alla baby sitter, curando personalmente i due figli, una bambino di dieci anni e una bambina di sei, avuti dall’imperatore.

L’uomo aveva una vestaglia lunga, di seta trapuntata, di color rosso scuro, sopra un pigiama di color marrone.

La donna lo guardò per alcuni secondi, preoccupata, mentre i figli correvano incontro al padre.

Lui si abbassò ad abbracciarli e baciarli, parlando con loro del più e del meno, della giornata passata a scuola e poi in giro per il palazzo a giocare.

L’uomo li accarezzò con benevolenza, dandogli una leggera sculaccia sul sedere e rimandandoli dalla madre.

Essi si avviarono verso di lei, che li bacio e li lasciò alle cure della baby sitter.

Lei e l’imperatore si allontanarono dalle stanze dei figli, entrando nella camera da letto dell’imperatrice.

«Un altro figlio, caro?». Chiese lei, sedendosi sul bordo del letto.

Lui si sedette su una comoda poltrona, di fronte alla moglie.

«No, cara. Ma mi è giunta voce che ti stai interessando ci cose che non ti competono!». L’imperatore, seduto su quella poltrona in cui si sprofondava facilmente, ma con la schiena ben dritta, guardava dritto negli occhi grigi della moglie, che aveva un viso lungo, con gli zigomi leggermente sporgenti, una bocca piccola, un nasino con la punta verso l’alto, dandogli una espressione da persona superficiale

«Non sono a conoscenza di ciò he mi stati dicendo, caro!». Disse lei, voltando il viso verso destra, evitando di guardarlo negli occhi.

L’imperatore sapeva bene che l’imperatrice aveva, come lui, studiato il linguaggio del corpo e della voce, del suo controllo e di come utilizzarlo a proprio vantaggio.

Perché l’imperatrice, allora, si comportava così.

La donna fece uno strano movimento con il viso verso l’alto e l’imperatore, che stava per parlare, seguì lo sguardo di lei.

In alto, un foro nella parete, nascosta da un riloga delle tende, dava l’impressione che vi fosse nascosta una mini telecamera.

L’uomo capì.

I due incrociarono i loro sguardi in modo languido.

L’imperatrice inizio a fare le fusa come una gattina e l’imperatore decise di assecondarla.

Lei si alzò e andò verso il bagno, facendo cadere la vestaglia di seta di color pesca e, un attimo dopo, la lunga camicia di notte, sempre di seta di color bianco, mostrandosi nuda.

Era una donna alta e flessuosa e le due gravidanze, anche con l’aiuto di un buon allenamento in palestra e di massaggi fatti da mani esperte, non avevano modificato il suo meraviglioso corpo.

L’uomo segui l’esempio della donna, lasciando cadere la sua vestaglia e infilandosi, subito dopo di lei. Nel bagno.

Dopo aver chiuso la porta, i due tirarono un sospiro di sollievo: lui tentò lo stesso un approccio amoroso con la donna, che corse a mettersi l’accappatoio bianco appeso vicino alla doccia.

«Stavano dicendo, caro?». Disse lei, con fare seduttivo.

Lui sbuffò e si sedette su uno sgabello, vicino alla vasca del bagno incassata nel pavimento.

«La mia risposta, caro», continuò lei «e sì, mi sto interessando di cose che non mi competono, dopo la morte della mia più cara amica. Ma non è la sola che è morta in circostanze tanto strane!»

«Lo so!», gli fece eco l’imperatore. «So che qualcuno sta uccidendo burocrati di basso livello. Non sono a conoscenza del perché, ma comunque è una cosa a cui verrò a capo in poco tempo!»

Il fare dell’imperatore era deciso, ma la moglie scosse il capo.

«No. Non hai neanche idea di cosa stia succedendo. Secondo te, quanti burocrati sono morti?». Chiese la moglie.

«Non credo che siano più di una decina». Disse deciso l’imperatore.

«Centodieci, mio caro. Il tuo conto è impreciso e alquanto approssimativo!»

L’imperatrice era decisa e l’imperatore ne rimase sconvolto, come se qualcuno lo avesse tenuto all’oscuro di tutto.

«Dire che sei nei guai, mio caro, è dir poco. Li hanno sostituiti senza dirti niente, con ordini imperiali completi di firme false. Ho paura che qualcuno ti abbia preso la mano. Mi sa che il tuo prossimo compleanno, i tuoi prossimi quarant’anni, sarà anche l’ultimo che festeggerai. Da uccidere dei burocrati a uccidere un imperatore la strada è breve!»

L’uomo si sentiva scomodo su quello sgabello, più scomodo che sul trono.

Guardò la donna e cercò in lei un cenno di compiacimento.

La donna, invece, lo guardo con fare superiore.

«La vita dei miei figli è più importante della tua, mio caro. Se cerco da sola risposte è perché temo per la loro vita. E tu non stati facendo niente per tappare tale falla!»

«La falla, mia cara, l’ho voluta io! Non posso scoprire il tentativo di colpo di stato o di uccisione dell’imperatore, se non do un po’ di corda a coloro che complottano contro di me.»

L’uomo si alzò e cominciò a camminare nel bagno a lunghi passi, a testa bassa, pensoso.

«Come posso fare, come?». Continuò «Devi stare attenta, non posso difendere il trono e l’impero da tutti, se anche tu ti metti in mezzo a fare domande a destra e a manca su tutti coloro che sono morti, che non sono tornati dai viaggi futili per controllare pratiche inutili! Alcuni li ho mandati io di persona, per verificare se la cosa era vera. La tua amica si è offerta volontaria ed è morta. E la cosa dispiace più a me che a te!»

La donna stava piangendo, con le mani che gli coprivano il viso.

L’uomo se ne accorse e gli corse incontro, ma lei lo allontanò urlandogli contro.

«Tu, maledetto! Hai mandato Clare a morire! Non meriti alcuna pietà da me!»

«E tu, mia cara, con il tuo amico Alfonse, che forse è a capo di tutto ciò, cosa fate quando lo vedi?»

«Niente. Alfonse è da più di un mese che non lo vedo. È partito per il suo pianeta e non so quando tornerà!»

«Mai! Mi sa tanto che l’hanno ucciso!»

La donna guardò l’uomo ed esplose ad urlare, sedendosi per terra, scalciando contro il marito.

Le urla attirarono le dame di compagnia dell’imperatrice e alcuni servitori, che bussarono alla porta del bagno.

L’urlo dell’imperatore sembrava quello di un leone ferito.

«Andate via tutti! Non abbiamo bisogno di nessuno!»

La voce, come un tuono, arrivo da dietro la porta, coprendo per un attimo le urla e i pianti della donna.

I servitori si allontanarono subito, mentre le dame, preoccupate, rimasero ancora un attimo, allontanandosi poi in silenzio.

I figli della coppia, sentite le urla, si erano affacciati alla porta della camera della mamma, ma la baby sitter li ricondusse nelle loro stanze.

La donna urlò e pianse fino allo sfinimento.

Dopo più di un’ora la donna si assopì e l’uomo la mise nel letto.

L’indomani, di sicuro, la donna avrebbe smosso mare e monti per scoprire cosa succedeva e lui non lo avrebbe potuto, o voluto, fermarla.

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Capitolo 3
*** L'Agenzia ***


L’Agenzia per il Controllo e lo Sviluppo delle Lingue Arcaiche (A.Co.De.L.A.) era una agenzia voluta dall’imperatrice, che doveva occuparsi della conservazioni delle lingue non più studiate a scuola, ma di cui si trovavano antiche iscrizioni sui pianeti dell’impero.

In realtà era l’agenzia di spionaggio privato dell’imperatrice, che, come dicevano spesso il marito, “infilava il suo bel nasino, con il rischio che glielo tagliassero, dove non doveva!”.

L’imperatrice chiamò a palazzo il responsabile dell’agenzia, un ex militare, alto, rigido come uno stecchino, con una gamba di legno, regalo di qualche guerra su un pianeta che si era ribellato all’imperatore.

L’uomo aveva cinquant’anni standard, un volto ovale, naso schiacciato, occhi incassati color marrone scuro, bocca normale con le labbra strette, barba leggermente incolta, capelli brizzolati e un solco sulla guancia destra, residuo di una vecchia cicatrice.

Indossava un vestito color blu scuro, con giacca a un petto, pantaloni dello stesso colore, camicia bianca e cravatta color rosso mattone, con uno stemma ben visibile sul nodo.

Il cappello era del tipo borsalino, inclinato da una parte.

L’uomo di presentò alla segretaria dell’imperatrice.

La donna lo annunciò all’imperatrice e lo introdusse nell’ufficio.

Entrando, l’uomo non vide subito la donna, che era seduta su un divanetto rivolto verso l’enorme finestra, che dava sul giardino interno del palazzo imperiale, chiuso dentro una enorme cupola.

L’uomo si tolse il cappello e, vista che l’imperatrice non si voltava, tossì per attirarne l’attenzione: lei lasciò andare un meraviglioso animale a quattro zampe, con un pelo morbido e vaporoso, che aveva in braccio e stava accarezzando tranquillamente.

L’animale guardò l’uomo scocciato e se ne andò su una mensola del muro opposto.

L’imperatrice fece cenno all’uomo di sedersi di fianco a lei.

L’uomo si sedette rigido, con la schiena ritta.

«Generale, come va?». Chiese dolcemente la donna.

«Bene, grazie mia imperatrice.»

«Non la tratterrò molto. Voglio che assuma del personale per alcune ricerche in biblioteca. Queste devono essere le loro caratteristiche». E la donna consegnò dei fogli all’uomo, che li prese e incominciò a leggere.

«Ex militari ben addestrati?». Chiese l’uomo.

 «Addestrati a cosa, generale?»

«La missione, da come leggo qui, non è certo per gente inesperta o alle prime armi!»

«Lo so, ma un ex militare, con un addestramento specifico, lo noterebbero subito, in quel posto. E poi, generale, non mi vorrà dire che agli ex militare piace leggere?»

«Mia imperatrice, conosco alcune persone, ben addestrate, a cui piacciono molto i libri. Sono dei tipi strani, ovviamente, ma sono ben preparati. Sono uomini e donne giovani, che hanno una istruzione superiore, ma che nell’esercito non hanno trovato una loro ben precisa collocazione. Ma adesso, potrebbero essere usati per questa missione. Ne avrei subito disponibile tre o quattro. Per gli altri ci vorrà un po’ più di tempo, dovendo farli arrivare da…»

L’imperatrice fece un cenno con la mano al generale.

«Non importa, mio caro amico. L’importante è che la missione venga eseguita nel miglior modo possibile. Nessuno, e sottolineo nessuno, neanche l’imperatore, deve sapere di questo progetto. I suoi uomini non devono sapere uno dell’altro. Ognuno deve avere un proprio singolo obiettivo. Deve consegnare sistematicamente relazione su ciò che accade, in modo criptato, usando il codice descritto nei fogli. Se necessario, devono uccidere, senza esitazione, senza ordine e senza preavviso. Nel caso fossero scoperti, solo la morte può essere considerata una via di fuga onorevole. Se presi vivi, devono essere disposti a sopportare le torture più immaginabili a cui potranno essere sottoposti. Il mio nome non deve apparire su nessun documento. E se fosse necessario, la sede dell’agenzia deve essere distrutta, con tutto e tutti quelli che vi sono presenti!»

Dopo questa ultima frase, il generale guardò dritto negli occhi l’imperatrice: i suoi occhi erano imperscrutabili e il generale non proferì parola.

L’uomo si alzò, si avvicinò al tavolo e bruciò i fogli dategli dall’imperatrice.

«Siete sicuro di aver capito bene le mie istruzioni, generale?». Chiese l’imperatrice.

«Sono tutte in un luogo sicuro: nella mia mente. Lei si preoccupi, per un po’ di tempo, di procurarsi alibi a prova di bomba. Si faccia vedere in giro con l’imperatore, con i suoi più fidati funzionari, partecipi a riunioni e faccia viaggi per i pianeti, non troppo lontano dalla qui. Potrei avere improvvisamente notizie da riferire e avere risposte in tempi brevi. Per il resto, sarà mia cura scegliere persone affidate e fedeli agli ideali che lei e l’imperatore avete per anni cercato di diffondere nell’impero. È l’ultima volta che ci vediamo. La prossima potrebbe non essere così gradevole.»

L’uomo fece l’inchino all’imperatrice, si rimise il cappello storto in testa e uscì.

L’imperatrice guardò l’uomo uscire e l’animale ritornò dalla sua padrona, accovacciandosi sul suo grembo.

La donna passò la mano su quella pelliccia così morbida, mentre una segretaria entrava nella stanza.

La donna la guardò.

«Hai preparato il programma di viaggio?». Chiese l’imperatrice.

«Sì, mia signora!». Disse la donna, inclinando la testa verso l’imperatrice.

«Bene. Facciamo i bagagli e andiamocene. Per un po’ la mia presenza a palazzo sarà inutile.»

L’imperatrice si alzò di scatto, mentre l’animale scivola giù dal grembo della donna, lagnandosi.

L’imperatrice lo guardò e gli tirò un calcio, cacciandolo via.

L’animale si allontanò, ma un raggio di luce rossa lo colpi, uccidendolo sul posto.

«Era necessario!». Gli disse la segretaria, che teneva in mano una penna fumante.

«Sì, lo so. Spero che tu sappia a chi consegnava i suoi maledetti messaggi!»

«Si, mia signora!»

«Bene. Uccidetelo, dopo che vi avrà detto quello che voglio sapere.»

La donna guardò l’animale, che aveva una bruciatura all’altezza del petto e puzzava di bruciato.

L’imperatrice uscì dalla stanza.

Fuori vi erano già degli uomini con vestiti da lavoro.

«Fate quello che dovete fare!». Gli ordinò l’imperatrice, tirando dritta.

Gli uomini si precipitarono nella stanza e in quelle adiacenti, smantellando tutto, dai mobili alle pareti, dagli impianti elettrici a quelli idraulici.

Il tutto fu portato via e distrutto nell’inceneritore che del palazzo reale, compreso l’animale ucciso dalla segretaria dell’imperatrice.

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Capitolo 4
*** Il cieco ***


L’imperatore, in fatto di spie, non era meno dell’imperatrice.

Ogni agenzia statale aveva un reparto che si occupava di spiare tutto e tutti, in primis il personale dell’agenzia e quelli delle altre agenzie con cui venivano in contatto.

Ma vi era un uomo, un tipo veramente fuori dall’ordinario.

Era cieco, così si diceva.

Ma di lui nessuno ne sapeva molto di più.

Nessuno ne conosceva l’età, la stazza, i lineamenti, gli studi o i passatempi.

L’imperatore lo incontrava raramente, solo in caso di necessità.

Ma lui lavorava continuamente, in modo discreto, e recuperava informazioni a cui nessuno faceva caso.

Quando l’imperatrice partì, lui si incontrò con l’imperatore in una dei sotterranei del palazzo.

«L’imperatrice, a quanto si dice, è partita!». Disse l’uomo.

«Sì. Una breve vacanza e poi un giro tra i pianeti più leali all’impero.»

«Ho saputo che è stata una cosa dell’ultimo minuto …»

«Già. Dell’ultimo minuto …». Disse l’imperatore pensieroso.

«Mi sono permesso, mio signore, di verificare quelle informazioni giunte da diverse voci e qui vi sono i nomi che, sembra, siano le persone che fanno parte del progetto …». L’uomo porse, mentre parlava, all’imperatore una asta metallica, lunga circa quindici centimetri, dall’aria innocua.

L’imperatore sfioro l’astina ed un foglio sottilissimo, in metallo dorato, usci da esse: sul foglio apparvero subito dei nomi con i rispettivi volti.

L’uomo stava per continuare a parlare, ma l’imperatore lo fermò, con un cenno della mano.

«Sei sicuro dei nomi, che proprio loro hanno comandato la morte dei più di duecento burocrati?»

«Sì, mio signore. Ma la pregherei di notare il nome all’inizio della lista e quello seguente …»

«Li ho visti. E ad uno ho già provveduto personalmente!»

Così dicendo l’imperatore si avvicinò ad una balaustra, che si trovava tra due colonne, che davano su una grotta di una vastità immaginabile, così poco in profondità nel terreno, sotto il palazzo reale.

L’uomo seguì l’imperatore e ammirò l’estensione della grotta e la sua profondità. Ma lì, vicino alla balaustra, la grotta non era così profonda, non vi era acqua, ma solo roccia, e sul fondo, a circa venti metri sotto di loro, un corpo inanimato giaceva su uno spunto di roccia.

L’uomo riconobbe il paggio reale, con il vestito azzurro macchiato di sangue e il bel cappello con le piume.

Sembrava lamentarsi ma, all’improvviso, alcuni animali a sei zampe sbucarono fuori dal buio della grotta: erano bassi, lunghi, con dei musi appuntiti e la bocca piena di denti aguzzi.

Si avvicinarono al poveretto, annusando l’aria.

Uno guardò il alto, verso i due uomini affacciati ad una delle balaustra che coprivano l’emiciclo della grotta in quel punto.

Il cieco si ritrasse, spaventato, nascondendosi dietro ad una colonna che separava le varie balaustre, coprendosi la bocca con la sciarpa che portava alla gola, nel tentativo di non vomitare.

L’imperatore rimase lì, ritto, impassibile, a rimirare lo spettacolo di quegli animali che sbranavano le membra dell’uomo e se le mangiavano. Le urla, che provenivano dal fondo della grotta, indicavano che l’uomo non era morta nella caduta, ma che era rimasto immobilizzato sul fondo.

Il cieco si allontanò dall’imperatore, sul cui volto era apparso un ghigno maligno.

L’uomo aveva visto poche volte il viso dell’imperatore così e tutte le volte, dei nemici dell’imperatore, non era rimasto niente.

L’imperatore, si riprese, si sistemò la divisa e si voltò verso l’uomo.

«Non ti sarai spaventato per così poco, caro amico!»

«E’ sempre meglio non farti saltare la mosca al naso, fratello. Hai un pessimo carattere e questo lo ha appena dimostrato, anche se nessuno saprà mai cosa è successo al paggio o lo immaginerà appena!»

«Non è affare tuo come tratto certe cose! Ognuno di noi ha deciso per proprio conto come servire l’impero. Io comandando e mandando la gente a morte …»

«… E io spio la gente per evitare di trovarti morto lungo un marciapiede! Ma non è questo il motivo della nostra rimpatriata familiare. Cosa devo fare con il progetto dell’imperatrice? E di quello?». Disse, indicando il foglio con i nomi.

«A questo ci penso io!». L’imperatore ritocco l’astina e il foglio dorato vi spari all’interno. L’imperatore mise l’astina in un tasca della manica.

«Tu trova qualcuno fedele a me, non a lei, che esegue il compito che l’imperatrice gli darà.»

«Dei tipi tosti, pronti ad uccidere?»

«Per quanto ne so, ad uccidere o ad essere uccisi. Comunque, trova gente che, in caso di necessità, sappia levarsi dai guai da sola. Non posso mettermi a curare anche quelli che mia moglie manda a morire. Ne ho già troppi da curare …»

«Non ti preoccupare. Seguirò personalmente tutte le loro mosse e cosa dovranno fare per l’imperatrice. Ma mi sa che dovrò trovare qualcuno a cui piace leggere …»

«Perché?». Chiese l’imperatore sbigottito.

«Pare che la missione consista nel tenere sotto controllo i tuoi funzionari che sono alla biblioteca e che stanno cercando tracce di quella cosa …»

«Un modo come un  altro per mettere fuori pista i soliti rompiscatole. E mia moglie vuole curare quegli inutili …». L’imperatore scoppiò a ridere e con lui il cieco.

Di certo qualcuno erano riusciti ad imbrogliare, ma mai avrebbe pensato l’imperatore che proprio  l’imperatrice sarebbe stata la sua prima vittima.

Le risa dei due uomini rimbombarono dentro la grotta, mentre uno degli animali, dopo aver pasteggiato con il corpo del paggio, annusava l’aria e rivolgeva lo sguardo verso un punto della grotta lontano e in alto, per lui irraggiungibile.

Qualcuno era sceso fin lì e si era messo ad ascoltare.

L’animale emise un sonoro grugnito, che attirò l’attenzione dei due uomini.

«Meglio che vada!». Disse il cieco, sparendo nel buio del colonnato.

L’imperatore cercò con lo sguardo chi avesse avuto il coraggio di seguirlo, ma la figura, incappucciata, sparì improvvisamente e l’animale, sul fondo della grotta, si calmò.

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Capitolo 5
*** Il reclutamento ***


Il generale attese la partenza dell’imperatrice per reclutare il personale necessario all’operazione.

Il generale aveva sempre un elenco di persone disponibili da altre agenzie, disponibili al trasferimento per vari e privati motivi.

Aveva sempre diffidato da quelle persone, ma per quell’operazione sarebbero andati bene.

Aveva una rosa di cinquanta nomi: esclusi quelli non laureati, ina malattia, in permesso per fine missione e altre scuse più o meno verosimili, gli rimase un elenco risicato di sei persone.

Pochine, pensò: gliene servivano almeno dieci.

Qualcuno gli venne in aiuto.

Il suo telefono privato, nascosto nel cassetto della scrivania, suonò mentre era immerso nei suoi pensieri.

Quel telefono suonava più volte al giorno e sentirlo non produsse in lui alcun effetto.

Fu quando alzò il telefono e rispose che rimase interdetto.

«Pronto?». Disse il generale

«Sono a conoscenza che avete bisogno di personale specializzato, per un po’ di tempo. Pensavo che sei, sette persone fossero sufficiente.»

La voce dell’interlocutore ricordò qualcosa al generale, che conosceva bene la famiglia reale, i vari fratelli, sorelle, concubine e parenti vari.

«Sì. Ma le persone sono già a conoscenza del nuovo lavoro o ...»

L’interlocutore bloccò il generale.

«Uno solo. Gli altri dovranno essere istruiti sull’operazione, i loro ruoli e i referenti per i collegamenti e la trasmissione delle notizie.»

«Uno solo?», chiese il generale. «Per quale motivo uno dovrebbe sapere il perché di quello che deve fare?»

«Quanto sa lei della biblioteca e di quanto vi gravita intorno?»

«Poco. Ma le istruzioni non parlano di controllare la biblioteca?»

«Le altre sì. Dovrebbe essere un controllo sull’operato del bibliotecario…»

«Adesso non esageri!». Disse, con voce ferma, il generale, alzando anche il volume della voce. «Non rientra in nessuna richiesta di chissà chi il controllo dell’operato del bibliotecario, del personale della biblioteca o chi altro lavori lì o per chi lì vi abita. Che cosa avete in mente voi e vostro…»

«Ssssst!». La voce dall’altra parte del telefono sembrò preoccupata al generale. «Non al telefono. Comunque, la persona che verrà da voi ha ricevuto istruzioni precise. Le vostre istruzioni, ovviamente, vengono prima, ma solo in caso che il secondo obiettivo eclissi l’altro!»

«Troppo complicato! E chi lo spiega all’imperatrice le modifiche al piano originale!»

«Nessuna modifica. Tutto come prima. Solo che cambiano le priorità. Vedrete, ognuno avrà ciò che vuole!»

Il generale pensava alla sua testa tagliata dalla lama del boia o caduto nella grotta e sbranato dagli tiikerit.

«Allora, generale ?» Chiese l’interlocutore.

«Non sono d’accordo. Ma provvederò in merito. Sia ben inteso che uno dei miei sarà a conoscenza di tutto, escluso il suo interessamento, ovviamente.»

«Ovviamente!» Concluse l’interlocutore.

Il click della fine della comunicazione vide il generale con ancora la cornetta dell’apparecchio telefonico all’orecchio, pensieroso, mentre in sottofondo il segnale della linea caduta suonava insistentemente.

Una voce femminile riportò il generale al presente.

«Generale … generale … ci sono qui delle persone per lei!» La sua segretaria lo scosse violentemente.

«Calma, Jiolie. Non c’è premura. Fai prima passare chi ha un ciondolo a forma di labirinto.»

La segretaria, senza capire, uscì e fece passare una ragazza con un ciondolo circolare, che ricordava un labirinto.

Il generale depose la cornetta e chiuse il cassetto, mentre una ragazza superava la soglia.

Il generale la squadrò e rimase sconcertato: non pensava che il suo interlocutore potesse arrivare a tanto.

La ragazza di sedette e salutò il generale.

«Ciao, zio, come stai?»

Le ciglia delle palpebre di quegli occhioni azzurri sbatterono, tentando di corrompere chi gli stava davanti.

«Hai capito male, mia cara Nikolj. Sei stata mandata per fare un lavoro, non per corrompermi. Cosa ti ha detto uno o l’altro non è affare mio, ma se l’imperatrice capisce chi sei o chi ti ha mandato, siamo tutti nei guai. Io posso assecondare il volere di tutti, ma ci tengo alla mia vita. E non vorrei essere il prossimo morto. E comunque, cosa ti è stato detto di fare deve venire dopo quello che io ti dirò di fare. Questi sono gli accordi. Ai capito?»

«Sì, signore!» Rispose secca la ragazza.

Aveva trent’anni, ma ne dimostrava venticinque.

Era alta un metro e settanta, muscolosa ma non troppo, un bel visino ovale, naso piccolo ma con larghe narici, bocca grande, denti bianchi, zigomi piccoli, occhi grandi con pupille azzurro grigio, capelli neri corvino lungi con frangetta quasi davanti agli occhi, con un leggero trucco sul viso e sugli occhi.

Metteva quasi sempre minigonne in pelle, magliette tipo canotta bianche aderente, giacche in pelle, gambe lisce, sempre depilate, senza calze e stivali a tutto polpaccio, di color nero, con tacchi alti sugli otto centimetri.

Il generale si alzò dalla sedie e venne a sedersi sulla scrivania, davanti alla ragazza.

«Hai capito?» Ridomandò il generale.

La ragazza sbuffò, come se fosse stato scoperto il suo gioco.

«Zio … ho chiesto io di venire qui per la biblioteca, per entrarci, per vederla e studiarla. Lo so che non sei d’accordo, che ci sono alti rischi per via di quello che succede, ma sai anche che sono in grado benissimo di difendermi! Le arti marziali sono il mio pane …»

«E l’essere una donna ti dovrebbe aiutare? L’imperatrice teme che la setta sia invischiata nella cosa!»

«Lo so. È da anni che mi occupo di loro, su tutti i pianeti dove hanno accoliti. Non sono stati loro. A quest’ora i nostri cari reali erano belli che morti! A loro non interessa questo. Hanno un loro ministro …»

«Nikolj! Lo sai che i nostri scienziati non ci credono!»

«Sì. Lo so. Ma io li ho visti farlo! Li ho visti agire senza mezzi termini contro loro simili che li avevano traditi! No, mio caro zio, quelli non scherzano! Ah, ti posso dire di sicuro che se ti mettono le mani addosso sei fatto! No, credo di essere l’unica che può capirci qualcosa, ed è per questo che sono qui!»

La ragazza fini quella frase puntando il dito indice della mano destra verso di se, mettendo il dito in messo ai seni.

Il generale si alzò, emise un sospiro e guardò la ragazza.

Una cosa che pochi sapevano era che aveva preso la sua prima laurea a quindici anni, la seconda a diciotto, entrata nei servizi segreti a venti anni, occupandosi di furti di identità via rete informatica.

Nella sua prima missione operativa, a ventidue anni, aveva preso una pericolosa banda di pirati dello spazio profondo da sola, facendogli credere chissà cosa. Al generale veniva ancora da ridere a come trovarono la ragazza, quando posteggio la nave pirata presso la stazione orbitale del pianeta imperiale: uscì in topless, con un tanga, stivali da pirati fino alle cosce e una fucile laser nella mano destra e il capitano della nave pirata nell’altra, tenuto per il bavaro.

Il resto della ciurma era tutta pesta, piena di lividi, chiusi a chiave nel locale mensa: cento pirati in cinquanta metri cubi!

Tirarli fuori fu una vera impresa.

Nikolj divenne famosa e dovette per un po’ nascondersi, ma poi riprese a fare la spia per l’imperatore.

Ma ora non si parlava di pirati o ladri di identità: le sue maestà reali erano in pericolo, qualcuno dei burocrati era in combutta con chissà chi, un colpo di stato avrebbe destabilizzato l’impero e non si sarebbero contate le rivolte sui vari pianeti, in cerca di secessione dall’impero centrale.

Nikolj capì e si alzò, guardando negli occhi il generale.

«Non si preoccupi, generale. Ho imparato abbastanza, durante i miei anni di spia, da vedere i nemici dove ci sono e non dove qualcuno glieli fa vedere. Io sopravvivrò all’inferno, non si ricorda generale?»

Sì. Il generale si era sentito rinfacciare il suo motto.

«Va bene. Questo è il tuo pass per la biblioteca. Non lo perdere, portalo sempre con te. Sai già come funziona. Per arrivare alla biblioteca c’è un treno pieno di ricercatori che parte dalla stazione riportata su questo biglietto di viaggio, che riporta anche la data e l’ora della partenza. Buon lavoro, nipote!» Disse in tono sarcastico.

Le porse la mano, ma la ragazza lo baciò sulla guancia, lasciandogli il segno delle labbra con il rossetto rosso fuoco.

Lui sorrise e la ragazza uscì dalla stanza.

La segretaria entrò per sentire chi doveva far entrare e vide il generale, con faccia trasognata e il rossetto sula guancia.

Prese un fazzolettino di carta da un contenitore sul tavolo e pulì il rossetto, mentre il generale se la rideva.

La segretaria rimase lì, indecisa sul da farsi.

«Lasci stare. Ci penso io. Ne faccia entrare un altro.»

La segretaria uscì e fece entrare un uomo di mezza età.

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Capitolo 6
*** Il viaggio ***


L’imperatrice era al suo sesto giorno di viaggio nello spazio ed incomincia ad annoiarsi.

Sì, è vero, alcune sue dame di compagnia erano riuscite a far salire sulla nave, in gran segreto, dei bei ragazzi con cui trastullarsi, ma gli spogliarelli e le pacche su quei glutei così sodi gli erano venuti a nausea.

Oltre tutto a sculacciare quei glutei così sodi ci si faceva male alle mani e l’imperatrice odiava qualsiasi dolore proveniente dal suo corpo, se non era strettamente necessario.

Mentre il quarto ragazzo, per l’ennesima volta, si spogliava, tra le urla delle dame di corte, l’imperatrice, coricata su un divano vestita di una sottoveste di seta color bianco avorio, senti un cicalino provenire da una piastra biancastra, appoggiata sul divano.

Mosse la mano destra mollemente e toccò la piastra, che si illuminò.

«Il solito inutile messaggio di chissà chi!» pensò tra sé e sé.

Il mittente non gli era sconosciuto (vi era una icona che identificava la persona con la faccia di una gioviale ragazza con in testa un cappello da cuoco).

L’imperatrice si mise a sedere, prese la piastra e cominciò a leggere.

Parlava di focacce fatta con la ricetta ricevuta dall’imperatrice, che una torta era stata informata e il suo profumo era inebriante e cuoceva in modo meraviglioso, ma che la cioccolata non si addensava abbastanza per riempire i bomboloni.

L’imperatrice rise a gran voce, sovrastando la musica che accompagnava lo spogliarello: tutti i presenti si girarono a guardarla.

Lei buttò la piastra sul divano, si alzò togliendosi la sottoveste e buttandola per terra, unico vestiario che la copriva, si avvicinò al ragazzo, in piedi sopra un piedistallo, gli mollò una sonora sculacciata con la mano destra sul gluteo destro e si avviò, sempre ridendo rumorosamente, verso la piscina, posta in un locale adiacente.

Vi si tuffò e rimase sotto il pelo dell’acqua per alcuni minuti.

Le dame abbandonarono il modello nudo sul piedistallo e si diressero alla piscina.

Alcune vi si tuffarono dentro, anch’esse nude, altre si sedettero sul bordo vasca.

Quando l’imperatrice emerse dall’acqua, senza ricomporsi i lunghi capelli che la coprivano fino al seno, disse in modo imperioso.

«Dite al comandante di cambiare rotta. Ditegli di inserire le coordinate del punto 417!»

Una delle dame chiamò via interfono il comandante e gli diede l’ordine.

La nave spaziale cambiò rotta immediatamente.

***

Nikolj era salita al treno alle ore 14.00 ora locale della capitale, con gli altri studiosi.

Dire che era una accozzaglia di persone messe insieme per errore era dir poco.

Non ve n’era uno vestito in modo adeguato né al viaggio né al luogo dove dovevano andare.

Pur essendo degli uomini e donne dotati di intelletto superiore, sembravano degli hyppi usciti da qualche tendopoli, lasciati liberi di sciamare per la città.

Il treno era di ultima generazione, con la forma fortemente aerodinamica e basso, del tipo a lievitazione magnetica, di color bianco panna.

Nokolj continuava a guardarsi intorno anche quando si sedette sul treno al suo posto numerato, con tutti quegli studiosi che facevano gazzarra, come una scolaresca in gita.

Il treno, la cui unica e sola meta era la biblioteca, parti in orario e si lanciò alla velocità di quattrocento chilometri orari verso la sua destinazione.

Nikolj guardò fuori dal finestrino, vedendo passare velocemente la città e l’avanzare, altrettanto celere, dei campi intorno ad essa.

Il viaggio sarebbe durato almeno un giorno, senza sosta.

Nokolj si mise comoda, socchiuse gli occhi e si addormentò.

Un sonno ristoratore, ma vigile: sentì a poco a poco che gli schiamazzi smisero, le persone si addormentarono e il silenzio cadde sul treno.

Verso l’ora della cena, aprì gli occhi, affamata.

Si diresse verso il vagone ristorante, con calma, scrutando i vari personaggi che, a mano a mano, gli venivano incontro.

Non era sicura, ma un uomo di mezza età, seduto vicino ad un finestrino, lo aveva forse visto nell’ufficio della segretaria del generale.

Il vagone ristorante incominciò a riempirsi, a poco a poco, di quelle strane persone, che ordinavano i cibi più strani che vi erano sul menu, se non addirittura a chiedere che il cuoco preparasse qualcosa di particolare.

Nikolj prese le cose più semplici che trovò sul menu: non voleva riempirsi troppo lo stomaco per poi addormentarsi come una vecchia zitella e risvegliarsi solo all’arrivo alla biblioteca.

Il cibo era ottimo e la comitiva si abbuffò fino all’inverosimile.

I liquori fecero la loro parte.

I professori tornarono al loro posto, ubriachi, cantando strane canzoni, sorreggendosi l’un l’altro: le donne erano quelle che davano il peggior spettacolo di sé.

Nikolj attese nel vagone bar che la comitiva di dotti spegnesse i suoi bollori.

Il sonno giunse velocemente, con tutti quei dottoroni che russavano e riempivano l’aria di un forte odore di alcool.

Nikolj scrutò, mentre andava dal bar al suo posto, tutte le persone.

Non ne era certa, ma pensava che, visto l’uomo di mezza età, forse non era l’unica in viaggio verso la biblioteca con una missione non proprio propedeutica agli studi che stava facendo.

Passò lentamente tra i sedili del treno, e notò, oltre all’uomo, altre sei persone che non avevano partecipato all’abbuffata, ma che facevano finta di avere i postumi della sbornia.

Nikolj li osservò uno ad uno, imprimendosi bene in mente i loro volti.

Era sicuro che la missione che le era stata affidata non fosse solo quella di controllare quella banda di matti, ubriaconi e rumorosi e controllare i risultati delle loro ricerche.

No la sua missione era un’altra.

La aveva capito subito che il suo coinvolgimento non era dovuto solo al fatto che fosse la cugina di primo grado dell’imperatrice, fidata e pronta a tutto per difendere l’impero e chi lo comandava.

Lo sapeva che era stata scelta per le suo particolarissime doti, sviluppate con gli anni, che gli sarebbero servite in quella missione.

Tornò al suo posto, sorrise sommessamente e si addormentò cullata dal russare rumoroso ed alcolico dei suoi nuovi amici.

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Capitolo 7
*** Siltbliss ***


Comandare un impero, specialmente se è sparso in uno spazio tridimensionale che occupa anni e anni luce, è sempre un problema.

Devi sempre demandare ad altri il controllo del territorio, sia esso un pezzo di terra, un sistema solare, un pianeti o un asteroide.

I vassalli, anche se persone corrette, con l’andar del tempo, lontani da una mano ferma come quella dell’imperatore, con burocrati corrotti e disposti a tutto per il loro interesse, cedono alle lusinghe e, adagiandosi nel lusso e nello sfarzo, perdono il senso del loro giuramento all’impero e all’imperatore, non rispondendo più a quanto prefissatosi all’inizio del loro incarico.

Anche perché, per evitare che la corruzione arrivasse fino ai piani più alti dell’impero, i vassalli venivano spesso sostituiti, anche se su quel pianeta vi erano stati poco tempo.

Quelli che arrivavano dopo cercavano di rimettere in sesto le cose, ma i burocrati corrotti e le varie lobby rimettevano tutto come prima.

O quasi.

Il fatto che l’imperatore e l’imperatrice andassero spesso in giro per i vari pianeti, serviva a far sentire ai vassalli la vicinanza del loro imperatore alla loro vita lontana dalla corte, in mezzo ai pericoli alle volte visibili, alle volta invisibili.

Spesso era successo che certi vassalli, troppo propensi a sostituire i burocrati corrotti, erano stati uccisi, in modo sbrigativo.

Ma un altro problema, ancora più grave, preoccupava l’imperatore.

Le sette, di qualsiasi tipo, erano una vera piaga.

Avevano idee spesso radicali, e pretendevano che zone, o alle volte interi pianeti, si sottomettessero al loro volere.

L’imperatore, quando una setta incominciava ad uscire dal seminato, la metteva in riga: alcune volte bastava accettare alcune loro richieste, altro volte era necessario imporsi con la forza alla loro voglia di potere.

Alcune di quelle volte vi erano state delle vere e proprie stragi, ma l’imperatore aveva sempre evitato di calcare la mano, lasciando in vita chi aveva accetto di esiliarsi su pianeti desolati, ove avrebbero potuto, in pace, sviluppare le loro idee e la loro setta.

Alcuni pianeti erano off-limits per qualsiasi nave spaziale, escluse ovviamente quelle militari, che andavano sovente a controllare i progressi delle varie colonie (dopo tutto erano pur sempre all’interno del suo impero e potevano, in qualche modo, produrre o procurare, ad altri pianeti dell’impero, materiali o materie prime necessari alla sussistenza di altri popoli).

Ma alcune sette, quelle solitamente culturalmente evolute e i cui adepti erano letterati, ben comprendendo i rischi che una divulgazione delle loro idee in modo aggressivo o radicale avrebbe dato una impressione sbagliata all’imperatore, operavano in maniera occulta, anche se le loro sedi erano diffuse per l’impero ed era possibile, per chiunque, parteciparvi e ascoltare le conferenze dei capi di queste sette, senza alcun problema.

Una di queste era stata, per parecchio tempo, controllata molto da vicino dall’imperatore, fino al punto di infiltrare Nikolj in quella organizzazione.

Nikolj era arrivata fino alla cima della piramide di comando di quella setta, non scoprendo altro che delle persone intente a salvare libri, scritti su carta o qualsiasi altro materiale, che parlavano di tutto e di tutti, senza censura.

Era la censura il vero problema dell’imperatore: le idee che dovevano circolare nell’impero dovevano essere pianificate e dovevano portare il pensiero di tutti i cittadini verso una cooperazione attiva, affinché l’impero potesse sussistere e vivere che l’imperatore fosse appiccicato o lontano da ogni singolo cittadino.

Ma quella setta aveva lasciato il segno in Nikolj.

Aveva partecipato alle loro strane iniziazioni, aveva vissuto sul pianeta natale ove erano nata quelle strane idee e aveva anche partecipato al furto di libri destinati alla distruzione.

Le azioni non erano mai violente: entravano nelle biblioteche periferiche, rispetto a quella presente vicino alla capitale, e rubavano i libri, prima che venissero bruciati.

Rubavano specialmente quelli proibiti, chiusi nelle segrete delle biblioteche, che l’imperatore continua a giurare che non sarebbero mai stati distrutti.

Ma il bibliotecario, come altri burocrati, non dava molto ascolto al suo imperatore e dava ordini contrari al pensiero del suo capo.

Ma l’imperatore non poteva sostituire il bibliotecario senza un vera motivazione, rischiando di provocare dissapori tra gli altri burocrati, con il rischio della paralisi dell’impero.

Per cui, anche se sempre di reati contro l’impero si trattavano, chiudeva un occhio a quei furti tanto strani quanto incomprensibili.

Ma Nikoljn aveva sempre saputo la verità su quella setta e aveva avvisato l’imperatrice della sua vera natura.

Il fatto che fosse stata iniziata ai loro riti e che lei stesa potesse utilizzare i mezzi che la setta metteva a disposizione dei suoi adepti più preparati, aveva incuriosita l’imperatrice, che aveva visto personalmente Nokolj utilizzare quei mezzi nei modi più strani e inverosimili.

Ora, quando alcuni dei capi della setta scoprirono la vera identità di Nikolj, erano sicuri che gli avrebbe aiutati nella loro missione.

Ma Nikolj aveva abbandonato la setta e le sue idee, in modo inspiegabile, anche se continuava a praticare i loro strani usi e il loro modo di vivere.

Uno dei capi della setta, un certo Paul Sederta, teneva stretti contatti con Nikolj, la incontrava in posti strani, quali grotte, sotterranei, labirinti naturali o altri siti introvabili, sparsi sul pianeta della capitale e altrove,  e di cui la setta ne faceva uso per i suoi scopi.

Della partenza di Nikolj per la biblioteca, Paul non ne era informato: lo venne a sapere solo quando Nikolj era partita, da una delle dame di compagnia dell’imperatrice rimasta a corte.

Lo stesso Paul era rimasto stupito sul fatto che una dama, così vicina all’imperatrice, gli facesse sapere una cosa così delicata.

Ma Paul era un esperto della corte: era uno dei burocrati che si occupava dei fondi ai servizi segreti, e vedeva tutti i movimenti del personale e l’affidamento delle loro missione.

Il fatto che tale confidenza gli fosse stata fatta da una dama di corte, significava che i fondi per tale missione non usciva dal suo dipartimento, ma direttamente dai fondi privati dell’imperatrice.

E quei fondi erano privati in tutti i sensi.

L’imperatore e l’imperatrice aveva uno stanziamento annuale di soldi per i loro usi privati, che andavano dai vestiti ai gioielli, dal mantenimento di un piccolo personale privato fino a sovvenzionare opere di beneficienza.

Alle volte, però, i soldi venivano usati per altri usi, più sovversivi.

Ma nessuno se n’era mai troppo preoccupato: i burocrati avevano assunto del personale a servizio delle loro maestà che gli riferivano quanto succedeva negli appartamenti privati.

Ovviamente, fino a che quel momento, nessuno si era fatto male, ma la morte del paggio forse era solo l’inizio di un cambiamento pericolo e mortale.

Paul aveva assistito all’uccisione del paggio e per poco non faceva la stessa fine.

Ormai aveva capito cosa l’imperatore e la sua famiglia voleva fare: mettere in campo il fratello presunto cieco, la prima cugina dell’imperatore, lo zio della medesima e chissà chi altro si stava muovendo significava che l’azione dell’imperatore era decisa e pericolosa, e chi non si fosse messo dalla parte dell’imperatore rischiava di sicuro la morte.

Ormai era questione di tempo, ma Paul decise che era tempo di muoversi.

Molti adepti della sua setta si mossero, in gran segreto, e lo raggiunsero a palazzo.

Difendere l’imperatore era il loro compito primario.

L’imperatrice, fino a quando fosse stata nello spazio, non correva pericolo.

Ora bisognava aspettare le mosse dei congiurati, senza sapere, però chi essi fossero.

Paul decise di dedicarsi anima e cuore a quell’impresa, che di certo avrebbe cambiato il volto dell’impero.

La sua setta, chiamata “Siltbliss”, avrebbe partecipato in prima linea a quella missione, senza che nessuno sapesse il come e il perché.

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Capitolo 8
*** Il labirinto ***


Edificio, struttura, zona in cui, per l'intrico delle costruzioni, dei passaggi o delle strade, sia difficile orientarsi.

Era un esercizio in voga secoli fa, quello di costruire tali costruzioni per far sì che i nemici sparissero senza troppo rumore.

Ovviamente fiumi di letteratura citano i vari labirinti costruiti nei secoli, più o meno importanti.

Di certo, se una persona entra per la prima volta in un edificio senza conoscerne la conformazione, dire che è entrato in un labirinto è un eufemismo.

L’imperatore aveva pensato più di una volta di costruire un edificio del genere, anche solo per divertire i suoi ospiti o nascondersi con la moglie, lontano da occhi indiscreti, ma la paura di perdersi lo aveva trattenuto.

Di certo non aveva trattenuto Gordiy Georghi, dirigente dei servizi segreti civili.

Ne aveva fatto costruire uno sotto la sua villa, una favolosa villa, costruita fuori città, verso l’oceano in cui si tuffava lo stretto del mare che proteggeva la biblioteca.

La villa era protetta, in modo marginale, da uno dei radar a protezione della villa.

L’uomo sapeva che porre la casa sotto la difesa di una struttura militare era la cosa migliore da fare per lui, uomo così in vista.

La villa era una copia del palazzo reale, ma in miniatura.

Il labirinto era costruito per una parte sotto la villa e il resto in una grotta che sfociava nell’oceano.

Era un vero gioiello di architettura: si sviluppava in tre dimensioni, con scale o corridoi che riportavano spesso alla stanza di partenza.

La parte nella grotta era stata ricavata scavando nella roccia basaltica formatasi per la presenza, nei secoli precedenti, dei vulcani.

Tutti color che avevano partecipato alla sua costruzione erano stati lasciati al suo interno a morire.

Ovviamente, architetto e operai, avendolo costruito, ne conoscevano le vie di uscita.

Ma il buon Gordiy aveva provveduto personalmente, durante la costruzione, a modificare i disegni di notte, senza che nessuno se ne accorgesse.

Erano modifiche da poco: parete aperta, poi chiuso, una via aperta, chiusa e riaperta, scale scavate e poi chiuse e poi riaperte.

Cose che avevano mandato in tilt il progettista e gli operai, che alla fine si ritrovarono chiusi in una stanza senza via di uscita.

Gordiy era lì quando rimasero incastrati in quel cubicolo e provvide, di persone, a far esplodere una carica di esplosivo che chiuse definitivamente l’acceso a quella parte del labirinto.

Gli uomini all’interno morirono, alcuni subito, durante l’esplosione, altri dopo per la mancanza di assistenza sanitaria, di cibo e di acqua.

Dopo un mese, un gruppo di mercenari entrò nel labirinto, caricò i cadaveri su una barca ormeggiata vicino all’uscita delle grotta e se ne andò, così come erano arrivati, in silenzio, senza proferire una parola.

Il loro viaggio e quello dei cadaveri durò poco: una improvvisa esplosione distrusse la barca e tutto quello che conteneva.

Gordiy vide l’esplosione dal promontorio sopra la grotta, tenendo in mano un piccolo parallelepipedo nero.

Un sorriso, o meglio, un ghigno gli solcò il viso.

Gordiy era un uomo di bassa statura, sovrappeso, che spesso, nel camminare, ansimava.

Portava occhiali con l’appoggio solo sul naso, che spesso si toglieva per pulirli.

Aveva un viso tondo, occhi piccoli di color nero, ciglia prominenti, naso aquilino, bocca piccola, come le sue labbra, collo corto e spesso nascosto dal collo della camicia completo di una cravatta a farfalla, di solito di color rosso, ma a lui non dispiaceva anche il color viola.

Di solito portava pantaloni e giacca con panciotto, ma era un vestito desueto per quel tempo.

Ma a lui poco importava: era il capo dei servizi segreti civili, chi mai lo poteva contraddire, senza rischiare il collo?

Gordiy era uno dei primi della famosa lista dell’imperatore, cosa ovviamente a lui sconosciuta.

Come era sconosciuta la fine del paggio reale.

Lui, come altri funzionari e burocrati, non aveva fatto molto caso alla scomparsa del paggio e, pur facendo parte del completo contro l’imperatore, la sua scomparsa parve più una fuga per paura che altro.

Mentre l’imperatrice era in viaggio, Nikolj diretta alla biblioteca e l’imperatore occupato con i soliti, insormontabili problemi di gestione dell’impero, Gordiy e altri funzionari, alcuni presenti nel famoso elenco dei cospiratori, si ritrovarono a casa sua.

Gordiy accolse ognuno degli invitati di persona, attendendoli sul fronte della casa, su cui dava il magnifico giardino fiorito: la primavera era appena iniziata in quell’emisfero del pianeta e i fiori del giardino davano del loro meglio per lasciare senza fiato gli ospiti di Gordiy.

Gli invitati, in tutto una quindicina di persone, erano giunti alla villa portate dalla loro vetture a quattro ruote, decisamente superate ma unico mezzo di trasporto che poteva arrivare alla villa, dove nessun satellite poteva guidare quelle comunemente in uso nel resto del pianeta.

Gordiy giudò gli ospiti in una sala riservata, posta nell’interrato della villa, protetta con ogni genere di sistema di sicurezza conosciuto.

Gordiy non voleva che quella riunione fosse, in qualche modo, ascoltata da orecchie indiscrete.

O almeno, era quello che sperava.

«Bene signori. Sedetevi pure. Per chi vuole ho fatto preparare un piccolo buffet». Per piccolo Gordiy intendeva almeno trenta piatti, suddivisi tra carni, pesci, verdure e dolci.

Gli invitati iniziarono a servirsi utilizzando i piatti più grandi, cosa che Gordiy notò subito: erano uomini meschini, a cui bastava offrire la possibilità di avere più di ciò che gli serviva per renderli amici o schiavi.

Anche i liquori iniziarono a scorrere a fiumi, cosa che rese subito l’atmosfera gaia.

Quanto tutti, con i piatti e i bicchieri pieni, si sedettero sulle poltrone o sui divani presenti nel salone, Gordiy ricominciò a parlare.

«Come ben sapete è necessario muoversi con cautela. L’improvviso interessamento dell’imperatore e dell’imperatrice non ha senso. E di certo provocherà in loro solo una grande perdita di tempo. Non troveranno certo là il sistema per salvarsi la vita dopo che avremo provveduto alla loro … diciamo rimozione!»

Una risata echeggiò nella sala, con seguito di alzati di calice ed ennesima bevuta dei presenti.

Gordiy noto solo dopo che uno degli invitati si era appartato in piedi, vicino ad una parete lontana dal buffet.

«Siroi, non partecipi?» Chiese Gordiy

Tutti si girarono a guardare l’uomo, scuro in volto.

Siroi era uno dei burocrati incaricati dei collegamenti tre la capitale e i vari vassalli, sparsi nello spazio.

«Ho saputo di un altro incidente di un funzionario in visita in uno dei possedimenti ai confini con la nube di Noire. Una morte non prevista e una morta non ritenuta accidentale. Era uno dei nostri, morto in circostanze strane. Come mai non ci hai avvisato di ciò?»

La voce di Siroi era tremolante.

«Ma cosa dici, Siroi?» Chiese uno dei commensali seduti vicino a Gordiy, verso cui si girò lui e un parte degli altri presenti.

«Ti posso assicurare che io …».

La frase di Gordiy non fu terminata, con Siroi che avanzava verso di lui.

«Dici, dici! Ma tu ci vuoi nella congiura solo perché ti diamo una mano dove tu non puoi arrivare e poi, chi ce lo dice che non facciamo la fine dell’imperatore in qualche grotta o in mezzo all’oceano, mangiati dai sharks? Tu sei furbo, ma ci dobbiamo fidare della tua sola parola. Allora, che ci dici?»

Gordiy guardò i presenti preoccupato.

Il pensiero di eliminare i congiurati, dopo il colpo di stato gli era venuto, il labirinto sarebbe stato un ottimo sistema, ma gli occhi che lo guardavano in modo interlocutorio erano più pericolosi di quanto aveva previsto.

A quanto pare aveva sottovalutato il gruppo.

«Signori, come potrei mai fare una cosa del genera ai mie amici!»

La voce di Gordiy era decisamente teatrale, ma gli occhi lo scrutarono ancora di più.

Doveva trovare un modo di calmarli e poi avrebbe pensato al da farsi.

«Va bene. Vi verrò incontro. Farò in modo che ognuno di voi abbia un incentivo …»

«Del tipo?» Chiese una voce alla destra di Gordiy, su un divano in fondo alla stanza.

«Già. Siamo tutti dirigenti dei nostri settori. Cosa ci puoi dare di più di quello che abbiamo?» La voce, stavolta, giungeva a sinistra, vicino a Gordiy.

«La nomina a vassalli dei sistemi solari più importanti del nostro impero! E ve la darò subito, da poter, da parte vostra, presentare come pagamento del vostro operato!»

Gordiy si accorse di essersi spinto troppo in là, che qualcuno lo avrebbe certamente redarguito, ma doveva portare a casa un punto a suo favore, e quello, al momento, gli parve il sistema migliore.

Tutti i presenti rumorosamente accettarono la proposta di Gordiy, brindando e bevendo alla loro e sua salute.

Siroi decise che ne aveva troppo, e si diresse verso l’uscita.

Nessuno se ne accorse della sua uscita di scena, men che meno Gordiy.

Prese il suo veicolo dal parcheggio e si allontanò.

Uscito dal cancello, posteggiò l’auto di lato dalla strada e scese.

Uno strano rumore del veicolo lo preoccupava e controllo sotto al pianale.

Una strana scatola nera, con una lucina rossa accesa era lì, vicino alle batterie dell’autoveicolo.

La luce era lampeggiante ad intermittenza.

Sapeva cosa significava: la bomba sarebbe esplosa appena la luce fosse diventata fissa.

Era stata applicata in modo approssimativo, ma non poteva sapere se solo alla sua macchina era stata applicato quel rumoroso regalo o anche alle altre.

Decise di fare uno scherzo a Gordiy e a chiunque tirasse le fila da dietro le quinte.

Programmò il pilota automatico affinché guidasse l’autovettura fino al deposito del suo ministero e avviò il sistema.

La macchina si mise in moto, senza Siroi, e si diresse lungo la strada, silenziosamente e velocemente.

Era sera tardi e il buio avanzava velocemente.

Si era alzato anche un vento dall’oceano, fastidioso e freddo.

Se pioveva, i suoi compagni, di sicuro, si sarebbero fermati da Gordiy, per non viaggiare con quel tempaccio: non si sa ma cosa può succedere per strada.

Siroi estrasse dal suo zaino, da cui non si separava mai, una tuta protettiva contro la pioggia e incominciò ad incamminarsi verso una collina lì vicina.

Estrasse anche una placca metallica grigia grande come la sua mano, che al riconoscimento tattile si accese.

Siroi, dal menù, scelse “mappa” e verificò dove fosse la più vicina postazione militare: sapeva che era oltre la collina che aveva di fronte, ma aveva paura di perdersi.

Seguendo le istruzioni della placca, salì sulla collina e la ridiscese verso est, seguendo una stradina sterrata.

Risalì un’altra collina, e la ridiscese.

Il vento era aumentato, l’erba dei campi era sferzata dall’acqua e dal vento, così come Siroi, che era comunque al caldo dentro la tuta.

La fatica, dopo alcuni chilometri, incominciò a farsi sentire, ma quando vide l’enorme antenna radar della stazione militare, il morale gli si risollevò subito.

I militari all’ingresso fecero un po’ di storie, ma alla presentazione di un tesserino lo fecero passare senza problemi.

In lontananza una esplosione, preceduta da una forte luce, si mischiò ai rombi dei tuoni e ai bagliori dei lampi dei fulmini, che incominciavano a illuminare il cielo.

I militari non si fecero caso, ma Siroi notò che l’esplosione era avvenuta fuori dalla zona di controllo del radar militare.

Sorrise tra sé e si diresse verso il comando.

Un mezzo per portarlo alla capitale era disponibile solo il mattino dopo, se quel fortunale se ne fosse andato.

Ma Siroi sapeva che vi era un altro sistema per andarsene da lì.

Il comandante della base gliele concesso l’uso solo su ordine diretto di qualcuno di grado superiore a Siroi.

«Pensa che un ordine dell’imperatore sia sufficiente?»

Il comandante non credette ai suoi occhi, quando l’uomo estrasse una scheda nera da sotto la tuta e l’infilò nel lettore magnetico degli ordini di servizio.

Sul video apparvero le credenziali dell’uomo e l’ordine, filmato di persona dall’imperatore, sul fatto che l’uomo eseguiva i suoi ordini e che qualsiasi sua richiesta doveva essere soddisfatta.

Il comandante accompagnò l’uomo nel sotterraneo della base e lo lasciò di fronte ad una porta metallica, di dimensioni normali di color lilla, di cui non si vedevano cardini, maniglie o serrature per l’apertura.

Siroi aveva sempre pensato che l’imperatore fosse strano, ma una porta di color lilla in una base militare l’avrebbero notata tutti, ma di certo non avrebbero potuta aprirla.

Appoggio la tessera alla altezza della maniglia sul lato sinistro.

Si udì un clack e la porta si aprì.

L’uomo superò la porta e il buio lo avvolse.

La porta si chiuse alle sue spalle, con un sonoro clack, e una luce si accese.

Di fronte a lui vide il muso di un treno superveloce,  a lievitazione magnetica, non più lungo di una carrozza, con il muso affusolato davanti e didietro, che avrebbe corso dento un tubo prefabbricato in cemento, del tipo a vuoto spinto.

Ma, improvvisamente, altri luci si accesero e i treni divennero molti, ognuno di diversa lunghezza.

Siroi sapeva che per emergenza potevano essere necessario trasferire in breve tempo più persone, aveva visto alcune volte quei treni, ma non sapeva che ne esistessero così tanti sotto una sola base militare.

La porta di quello di fronte a lui si apri.

Siroi salì e immise la scheda in un lettore posto all’interno del cruscotto del treno.

Il cruscotto si accese e Siroi appoggiò la piastra grigia su una zona del cruscotto inclinata, che, date le dimensioni,  poteva contenere vari tipi di piastre.

Dopo alcuni minuti, un video uscì da sopra il cruscotto e un viso familiare apparve.

«Vedo che sei ancora vivo?» Disse l’imperatore.

«Per un pelo. Avevano messo una bomba sotto l’autovettura. Spero che tu sia contento di quello che ti ho trasmesso!»

«Mio caro Siroi, sei sicuro che domani tutte quelle persone saranno vive?»

«No. Forse sono già morte ancora prima di arrivare alla villa. Ma questo non mi importa. L’importante, caro zio, è che la cosa sia sotto controllo.»

«La cosa deve comunque succedere, nipote. E sai già cosa devi fare.»

«Ma perché proprio io! Non potevi scegliere …»

«Mi fido di te! Adesso vai e ricordati di tornare per il giorno e l’ora che ti ho detto. Per una volta tanto nella vita renditi utile, invece di fare sempre lo scansafatiche in ufficio!» L’imperatore sorrise all’ultima frase.

Sapeva bene che Siroi non era il tipo di burocrate che si girava i pollici per quasi tutto il tempo e che faceva finta di lavorare una o forse due ore al giorno.

Siroi spense la comunicazione, sbuffando, e immise i dati per il suo spostamento verso la nuova destinazione.

Si mise comodo e aspettò che vi fosse il via libera per la sua destinazione.

Il treno era completo di bagno, camera da letto, cucinotto e dispensa.

Il visore indicava che il treno sarebbe partito tra tre ore, pertanto Siroi decise di farsi una doccia, mangiare qualcosa e fare una dormita.

L’arrivo alla sua destinazione era prevista almeno dopo più di ventiquattro ore e il treno avrebbe viaggiato sotto la superficie del pianeta per tutto quel tempo.

Siroi aveva già fatto alcuni viaggi con quel sistema, e non gli era mai piaciuto.

Non per il fatto che fosse sotto terra (le pareti del treno mostrava il paesaggio della superficie che si stava percorrendo), non per la velocità, ma per il fatto che i tubi, alcune volte, cedevano sotto la spinta della terra, dei vulcani o degli smottamenti o delle frane sotterranee.

Aveva saputo di persone morte per quel evento, ma sapeva che i sistemi di sicurezza del treno avrebbero funzionato egregiamente.

Dopo la doccia e il pranzo, visto che da Gordiy non aveva mangiato nulla, si sedette sul divano, in attesa del segnale di partenza.

Il segnale di partenza non lo sentì neanche, visto che si era già addormentato.

Si svegliò dopo alcune ore, accese gli schermi laterali del treno e vide una panorama squallido, pieno di cenere che scendeva dal cielo.

Cercò il vulcano che stava eruttando, ma non lo vide.

Ringraziò il cielo di essere sotto terra, ma la cosa lo preoccupava.

L’eruzione provocava terremoti che si ripercuotevano sul tubo di cemento sotto vuoto.

Segnali di pericolo dai sensori non giungevano, per cui si mise comodo e continuò a guardare il panorama in cerca del vulcano.

All’improvviso lo vide.

Un bollore strano in mezzo al mare di Punainenmeri, dove si affacciava la biblioteca.

Sapeva che la sua meta era la biblioteca, o almeno una stazione di transito posta nella immediate vicinanze della biblioteca, in cui si sarebbe nascosto per un po’ di tempo, spacciandosi per morto, ma quel paesaggio non lo rendeva tranquillo.

Non poteva mettersi in comunicazione con nessuno, ma un segnale di pericolo poteva sempre lanciarlo alla biblioteca, sempre che già i bibliotecari non fossero a conoscenza del problema o  fossero già stati avvisati.

Il treno arrivò in orario alla stazione e Siroi si diresse verso alcune porte, poste nell’enorme caverna che racchiudeva la stazione di smistamento, piena anch’essa di treni di varie lunghezze e dimensioni.

La porta dava accesso ad un appartamento, del tutto arredato, con un dispensa ben fornita

Siroi si sistemò nella casa sotto terra, con tutte le comodità del caso, e attese il momento di agire.

Da lontano giungevano i borbottii sommessi dei vulcani e dei terremoti da loro provocati.

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Capitolo 9
*** L'arrivo alla biblioteca ***


Prima di arrivare alla biblioteca, il treno, che trasportava Nikolj, si infilò sotto terra.

Il buio avvolse il treno, al cui interno furono accese le luci con un valore di lux maggiore del normale.

Gli occupanti incominciarono a svegliarsi.

I postumi della sbornia si facevano vedere e sentire.

Alcuni vomitarono nei vari bagni del treno, facendo corse con una della mano poste sulla bocca.

Tre dei sei bagni si intasarono, l’odore del vomito incominciò a diffondersi nelle carrozze.

All’arrivo, in una stazione sotto terra, le persone uscirono di corsa dalla carrozze del treno, appena questo si fermò.

Nikolj scese con le dita della mano destra che gli tappavano il naso.

Alcuni viaggiatori vomitarono giù dal treno.

Quei dottoroni sapevano tutto sui libri, un po’ meno di un certo tipo di vita.

Quando la comitiva finì di scendere dal treno, cercando di riprendersi da quel viaggio, apparve uno degli assistenti della biblioteca.

Non disse una parola, ma comprese quanto era successo.

Attese qualche attimo, poi parlò.

«Benvenuti alla biblioteca. Sarà meglio che vi riposiate dal lungo viaggio. Nelle vostra stanze troverete gli abiti idonei per entrare nella biblioteca. Prego, seguitemi.»

Si girò e i vari dottori e laureati lo seguirono, in silenzio, alcuni tossendo.

Nikolj seguì con lo sguardo le presunte spie: nessuno degli altri era sicuramente stato mandato per controllare il nulla.

Le stanze erano allo stesso piano della stazione.

Erano ben  ammobiliate, linde, con pochi mobili, tutto di un color bianco panna.

Nikolj si sistemò con calma.

Dentro l’armadio trovò un contenitore di vestiti appeso.

L’aprì e tolse l’abito.

Era dello stesso colore del vestito portato dall’assistente bibliotecario.

Noto che non vi era, sul vestito, la modifica per i seni delle donne.

Si spogliò e lo provo.

In effetti, i seni erano pressati sotto quel vestito.

Nikolj decise di togliersi il reggiseno, e il vestito gli calzò a meraviglia.

Quei sporcaccioni dei bibliotecari l’avevano pensata bene.

Un seno prominente avrebbe distratto chi lì vi lavorava e visto la vita monastica a cui erano sottoposti i dipendenti della biblioteca, la cosa era ovvia.

Ma Nikolj sapeva che vi erano anche delle donne in biblioteca, ma forse le loro abitazioni erano separate da quelle degli uomini.

Nikolj fece spallucce a quel pensiero, mise in ordine le sue cose e usci.

Notò he la porta era senza serrature e provò la porta quando uscì.

Niente privacy: ci mancava solo che ci fossero delle mini telecamere nell’appartamento, magari anche nel bagno.

Nokolj guardò il soffitto del corridoio.

Non vide niente di strano, ma di natura era sospettosa.

Proseguì per il corridoio, tendendo ben le orecchie.

I rumori di fondo delle luci coprivano dei rumori che ogni tanto si sentivano, rumori di motorini passo a passo che muovevano, quasi sicuramente, delle telecamere, piccole ma potenti.

E il rumore di colpo si smorzava quando Nikolj si fermava.

Aveva addosso un rilevatore di posizione!

Accidenti ai bibliotecari!

Continuò verso l’ascensore che portava alla biblioteca.

Davanti alla porta dell’ascensore ritrovò l’assistente della biblioteca che stava distribuendo, ai vari compagni di viaggio, dei pass per i vari piani delle biblioteca.

Ogni studioso presentava le sue credenziali e il facente funzione bibliotecario programmava i loro pass in base a ciò che era riportato sul foglio presentato.

Nikolj si era dimenticata in camera le sue credenziali e tornò indietro.

Quasi tutti gli studiosi erano davanti all’ascensore: gli altri li incontrò che uscivano dalle stanze e si stavano dirigendo verso l’assistente della biblioteca.

Quando arrivò in vista della sua stanza, notò uno strano movimento in fondo al corridoi.

Entrò nella stanza, ma non chiuse del tutto la porta.

Vide alcune persone, vestite come l’assistente bibliotecario, che entravano nelle stanze, perquisendole: poi ritiravano il materiale degli studiosi (vestiti e quant’altro) li infilavano in scatole di plastica, ognuna etichettata con il nome dello studioso, e le portavano via.

Nikolj raccolse le sue credenziali e tutti quegli oggetti che non voleva che quegli uomini trovassero.

Uscì dalla stanza nel momento in cui gli uomini entravano in un’altra stanza, correndo lungo il muro del corridoio, nella speranza che le telecamere, per un attimo, la perdessero di vista, e raggiunse gli altri studiosi, decisamente degli imbranati quando si trattava di pass e cose del genere.

Alcuni protestarono perché alcune zone della biblioteca gli venivano proibite, solo perché sulle credenziali non era specificato, ma che a loro serviva per le ricerche.

Ci volle più di un’ora prima che tutti gli studiosi e non avessero il loro pass.

Per ultimi rimasero Nikolj e l’uomo di mezza età.

L’uomo presentò all’assistente le sue credenziali ed ebbe il suo pass, senza troppi problemi.

L’uomo entrò nell’ascensore e attese che Nikolj avesse il suo pass.

L’assistente bibliotecario guardò dal basso in alto la donna, leggendo più volte le credenziali, prima di digitare le cifre sul computer.

Il pass che uscì era di un  colore rosso fuoco.

L’uomo nell’ascensore la guardò di tralice.

L’assistente, comprendendo lo stupore dell’uomo, disse: «Lettore indipendente. Hanno accesso a tutta la biblioteca, in modo illimitato. Mi sembra strano che uno come lei non sappia ciò.»

«è vero. Lettore indipendente pensiero libero. Era da tempo che non citavo quel detto.» Disse l’uomo sull’ascensore.

L’assistente fece segno a Nikolj di salire sull’ascensore.

Nikolj salì e l’uomo, distrattamente, gli mostrò il suo pass, su cui era visibile il suo nome, l’incarico e l’ufficio di appartenenza: una volta indossato, il pass avrebbe mostrato solo la foto e il nome proprio della persona, celando ad altri il resto del contenuto del pass.

Nikolj abbassò gli occhi e notò il nome.

Non era possibile che uno degli uomini più fidati della security dell’imperatore fosse lì.

L’uomo indossò il pass e tutto sparì.

Nikolj mostrò all’uomo il suo pass e poi lo indossò: anche il suo, dopo averlo indossato, mostrò solo la sua foto e il nome.

L’uomo non fece una piega: l’aveva già riconosciuta sul treno e non era il caso di discutere i loro ordini in pubblico e men che men in tutta la biblioteca: anche lui aveva sentito quei rumori soffusi nascosti dalle luci un po’ troppo rumorose.

L’ascensore incominciò a salire, velocemente.

La cabina era di vetro ed appena uscirono dal sottosuolo videro la biblioteca nel suo splendore.

Il piano terra, che comprendeva l’ingresso e delle sale minori, più che altro utilizzate per le scolaresche o i visitatori occasionali che provenivano dallo spazio.

Il piano era alto circa dieci metri, sufficienti per stupire qualsiasi visitatore, con gli scaffali che arrivavano fino in cima ai locali.

Passato quel piano, si presentarono ai visitatori il primo e il secondo, che erano della stessa altezza del piano terra.

Il terzo piano era il più alto.

Più di trenta metri d’altezza, per tutta la superficie occupata dalla biblioteca.

Scaffalature enormi riempivano il salone principale e quelli laterali.

Come in tutta la biblioteca, non vi erano libri in carta ma videolibri, archivi informatici o altri supporti elettronici.

Non che in commercio non ne esistessero, ma una selezione così grande di tutta la conoscenza umana non esisteva in tutta la galassia conosciuta.

Chi voleva poteva leggere i videolibri direttamente da delle piastre portatili, oppure farsi dare l’originale, riportante le noti di tutti quelli che l’avevano letto.

Il tutto sembrava un enorme magazzino informatizzato, con sistemi di recupero di libri a mezzo di bracci fissati alle scaffalature, con mani meccaniche che recuperavano i videolibri o le piastre e gli addetti alla biblioteca che li seguivano con in mano piastre nere che mappavano il materiale informatico necessario agli studiodi.

L’ascensore si fermò al terzo piano e l’assistente indicò all’uomo di scendere.

L’uomo scese e Nikolj si mosse anche lei.

Nikolj rimase sbigottita quando l’assistente la fermò, passando quindi la mano su di un lato dell’ascensore, e questi salì ancora.

Passarono altri quattro piani, alti quanto il primo piano ed estesi come il terzo.

Alla fine l’ascensore si fermò all’inizio di una delle enormi cupole che coprivano la biblioteca.

L’assistente bibliotecario fece scendere Nikolj e ripartì verso il basso.

Nikolj si guardò intorno e una persona, con indosso la tonaca del personale della biblioteca, guardava fuori dalla cupola.

Tra Nokolj e l’altra persona vi erano più di cinquanta metri, che lei percorse con calma, guardandosi intorno, in quello spazio enorme e vuoto.

La figura guardava il vulcano, in lontananza, che saliva dal mare, con un continuo borbottio, con il mare che ribolliva, il lancio per aria di ceneri e bolidi e con la terra che tremava continuamente.

La persona si tolse il cappuccio e mostrò il viso a Nikolj.

Era un viso femminile, giovane, decisamente più giovane di Nikolj.

«Io sono il bibliotecario!»

Così si presentò a Nikolj, che la guardò dritta in quegli occhi profondi e azzurri.

 «Vedo che la biblioteca continua a nascondere egregiamente i suoi segreti!» Disse Nikolj, con una punta di sarcasmo.

«Potevi evitare di venire qui. Non è il momento di certa azioni. Forse il non fare è il modo sicuro di vivere!»

«Di sopravvivere, mia cara. Lo sai che i vulcani sono in continua evoluzione, e il fatto che, casualmente, proprio mentre succedono queste cose, uno sorga dal mare, non è che possa cambiare il volto a quello che realmente succede!»

«E casa succede, di grazia, signora?» Il bibliotecario schernì la ragazza.

«Ti basta un disegno, o preferisci un intero quadro?»

«Nessuno è in pericolo, men che meno la biblioteca. Nessuno la toccherà. Le persone che qui vi vivono sono disposte a morire per lei …»

«Non essere così precipitosa sulla fedeltà dei tuoi sottoposti. Al primo cambio di vento la loro fedeltà cambierà bandiera e tu non servirai più a niente.»

«Ma solo io possiedo il segreto dei libri proibiti!» Ribatté il bibliotecario.

«Non è così necessario. Qualcuno potrebbe anche fregarsene e lasciarli lì ad ammuffirsi, per i prossimi secoli. No, mio caro bibliotecario, non è tempo di tirarsi indietro. O con l’impero o contro di lui. La neutralità è, ormai per te, passata di moda e potrebbe essere vista come un segno di debolezza, non di fortezza. Forse molti dei tuoi ti abbandoneranno, ma tu devi dimostrarli la tua fortezza nella tua fermezza nel prendere posizione in quello che succede.»

«Fai in fretta, tu, non è il tuo collo in pericolo!»

“«Il mio collo e già sul ceppo e la scure è già in mano al boia, alzata al cielo, pronta a scendere e a dividere la mia testa dal mio corpo! Non dire, quindi, eresie! Finché nessuno sa chi sei, non corri pericoli. E i tuoi avatar ti salveranno cento volte dalla forca!»

«I miei avatar non sono così coraggiosi di fronte alla morte, e potrebbero parlare! Questa discussione è inutile e sterile e, come al solito, mio padre non capisce …»

«Ma tua madre sì! È lei che mi manda! Sei solo una sciocca! È il momento di unirci, non di separarci. uniti nessuno ci potrà toccare. E ricordati che nessuno sa che posti noi occupiamo. Solo l’imperatore e l’imperatrice sono in bella vista, sotto gli occhi di tutti! Noi siamo dei fantasmi, ricordati, solo dei fantasmi, ma è proprio per questo che adesso serviamo! Nessuno sa di noi, ma noi sappiamo di loro!»

Il bibliotecario non era convinto di quel discorso.

Per lei, o lui che fosse, la biblioteca veniva prima di tutto e di tutti, anche di padri, madri, sorelle e fratelli, parenti tutti, amici e nemici, più o meno conosciuti.

Il bibliotecario si girò e si allontanò da Nikolj, che non tentò neanche di fermarla.

Nikolj rimase lì, a guardare il vulcano che eruttava a più non posso, facendo tremare la terrà e, in modo minore, la biblioteca, che, data la zona, era stata costruita tenendo conto della zona tellurica in cui si trovava.

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Capitolo 10
*** Spazio profondo ***


Il nulla.

Erano finiti nel nulla.

Erano in un punto della galassia dove non vi era niente.

Non un sole, un pianeta, un asteroide o una cometa.

Nulla.

Il comandante guardava le coordinate impostate automaticamente dopo aver digitato il punto richiesto dall’imperatrice.

Neanche il radar tridimensionale dava notizie di qualsiasi cosa persa in quel punto.

Il comandante della nave imperiale aveva sempre evitato di fare domande sui punti di ritrovo prefissati dall’imperatrice, per educazione, rispetto, fiducia, ma stavolta l’imperatrice aveva esagerato.

Erano le due del mattino ora capitale dell’impero e non se la sentiva di svegliare l’imperatrice per dirgli che erano arrivati nel nulla.

Ma il comandate delle navi di scorta non era della stessa idea e chiamò via teletrasmissione.

«Cosa ci facciamo qui? Perché non sveglia sua signoria e gli chiede cosa dobbiamo fare?» Il volto rotondo e paonazzo, per niente sorridente, del comandate della navi di scorta riempiva il video.

«Cosa volete che vi dica. Mettetevi a difesa tipo globo e aspettate.»

Il comandante della scorta chiuse malamente la comunicazione, mentre il comandante delle nave imperiale, cercava, a quell’ora, al citofono, di chiamare una delle dame  per avvisare che erano giunti al punto prefissato.

Proprio mentre stava digitando il codice di una della dame, la porta della sala comando si aprì di colpo e l’imperatrice fece il suo ingresso.

Era vestita con gonna lunga e larga, corpetto, collo e maniche, il tutto in velluto nero.

La testa era cinta da una coroncina che teneva saldo sulla testa un lungo velo nero liscio, che la copriva completamente fino ai piedi.

Il comandante stava per parlare, quando l’imperatrice si avvicinò al video trasmettitore e chiamò il comandate della navi di scorta.

Il comandate apparve sul video contrariato, ma quando vide l’imperatrice scatto sull’attenti, sbattendo i tacchi degli stivali.

L’imperatrice guardò il video e poi il suo comandante.

«Arriverà, tra cinque minuti, una veicolo. Non dovete chiamarlo, non dovete chiedere codici di riconoscimento, non dovete fare nulla per fermarli. Saliranno sulla mia nave dal portello di carico 05. Nessuno deve essere presente quando lo sportello del veicolo di aprirà e le persone scenderanno. Niente e nessuno deve disturbarci. Avete capito?»

I due comandanti, con un cenno della testa, risposero affermativamente.

L’imperatrice chiuse la comunicazione con la scorta, guardò fisso negli occhi il suo comandante e poi si girò, andandosene come era arrivata.

Aveva detto di non disturbare, non che le telecamere non potessero vedere quello che succedeva.

La zona di carico 05 era piena di telecamere, per controllare l’andirivieni delle persone durante il carico di vettovagliamenti per il viaggio e lo scarico dei materiali di risulta.

Il comandante non era sicuro, ma si diresse verso la cabina di controllo dell’interno della nave e cacciò in malo modo gli addetti che vi erano presenti: voleva essere sicuro che nessuno fosse testimone di quell’incontro, tranne lui, l’imperatrice e i nuovi venuti.

Il veicolo arrivò in orario: nessuno chiese, nessuno domandò, nessuno rispose.

Il veicolo, lungo e affusolato, si infilò sotto la nave ed entrò nella zona di carico 05.

Il comandate vide chiudersi il portello e accendersi la luce, mentre la zona veniva compensata e stabilizzata con aria respirabile.

Alla fine della compensazione, una porta laterale della zona cargo si aprì e l’imperatrice entrò.

Dal veicolo si aprì un portello, da cui si allungo una scaletta.

Scese per prima una donna, un poco più bassa l’imperatrice, con un viso lungo e chiaro, capelli biondi tagliati alla maschio, vestita di una tuta aderente grigio chiaro, che si guardò attorno e si affiancò alla scaletta.

Dopo di lei scese quello che sembrava un uomo, completamente nascosto da una tonaca con cappuccio di color marrone.

I due si guardarono senza parlare.

Il comandate aveva sentito di strane storie raccontate sul fatto che l’imperatrice, alle volte, davanti a certi interlocutori, non aprisse bocca e gli altri capissero cosa lei diceva.

E, a quanto pare, non era una legenda.

L’imperatrice si girò verso il portellone da cui era entrata, affiancata dall’uomo e seguita dalla donna.

Nell’incedere dell’uomo il comandante riconobbe, forse, non ne  era certo, un traditore.

Ma sì, era lui.

Come poteva non riconoscerlo, anche con i vestiti così smessi che lo coprivano: era Lord More.

Il comandate trasalì.

Era sparito da anni, nessuno ne aveva più sentito parlare ed ora era lì, a portata di mano, quel traditore che aveva, durante una battaglia contro uno degli imperatori di una vicina galassia, battuto in ritirata, lasciando milioni di anime (uomini, donne, bambini, anziani e soldati posti a loro difesa), in mano a quel terribile nemico, che fece una strage di quella povera gente e non ne pagò le conseguenze.

L’uomo zoppicava: anzi, gli mancava una gamba.

Il comandante rimase pensieroso.

Si lasciò andare sulla poltrona e meditò.

Sapeva bene che l’ira dell’imperatore e dell’imperatrice verso i traditori era tremenda.

Lo aveva visto di persona l’imperatore infilare il coltello nel petto di un uomo che aveva spudoratamente tradito l’impero, che aveva passato piani di difesa a qualche oscuro nemico e l’imperatrice, a mani nude, uccidere un’ancella che aveva passato informazioni private dell’imperatrice a certi loschi individui che diffondevano notizie, più o meno vere, di persone altolocate tramite videogiornali.

La notizia non era molto importante, non vi erano foto, ma il solo fatto di aver fatto trapelare un fatto così personale e privato dell’imperatrice costò la vita all’ancella.

Da allora, chi era a diretto contatto dell’imperatore e dell’imperatrice teneva la bocca ben cucita e gli occhi chiusi.

Il comandante, dopo tutte queste riflessioni, attese che l’incontro finisse, tolse gli archivi di memoria delle telecamere e se li mise in tasca.

Uscì dal locale, guardò torvo i presenti e se ne andò nella sua cabina.

Mise le memorie nella cassaforte, ben sapendo che prima o poi qualcuno, forse anche l’imperatrice, glieli avrebbe chiesti.

In mezzo al nulla le navi si lasciarono cullare dal vento solare residuo di alcune stelle vicine.

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Capitolo 11
*** Notizie ***


Le cattive notizie viaggiano più veloci delle buone.

È un dato di fatto.

E di certo, l’imperatrice e Nikolj avevano a che fare, in luoghi diversi, proprio con quelle terribili notizie troppo veloci per poterle rincorrerle e fermarle.

La prima notizia brutta la ricevette l’imperatrice da Lord More: la biblioteca, così come era conosciuta sul pianeta capitale dell’impero era destinata ad essere distrutta dai vulcani nel giro di poco tempo.

Tutto ciò che vi era contenuta sarebbe stato distrutto.

I calcoli, che prevedevano la distruzione della biblioteca da parte dei vulcani che circondavano il mare, erano stati fatti da diversi geologi e vulcanologi, che conoscevano bene il pianeta, dopo elaborati studi e rilevamenti satellitari.

Non era un problema.

I libri erano in realtà memoria di massa, che erano neanche sì depositate fisicamente nella biblioteca, ma che potevano, in pochi minuti, essere trasferiti in altri siti.

Il problema vero era che la biblioteca era collegata con il mondo esterno, solo che le informazioni poteva entrare e non uscire e la modifica ai sistemi richiedeva parecchio tempo, non essendo stati aggiornati da parecchio tempo.

Ma anche questo era un problema superabile.

Ma i libri, quelli veri, quelli di carta, legno, ceramica, plastica, che erano stati incisi, modellati, dipinti per secoli da gente a cui il libro era, solo per il fatto di esistere, un dono prezioso, quelli erano insostituibili e non potevano essere spostati con un battito di ciglia.

L’imperatrice disse a Lord More che la biblioteca non aveva libri di carta o di chissà quale altro materiale.

«Dici, mia cara. E i libri della sezione proibiti, a cui tanto ci tengono il bibliotecario e i suoi accoliti? Pensi che non si sappia, per la galassia, che tengono libri nei cosiddetti scantinati delle biblioteca?»

L’imperatrice guardò fisso negli occhi l’uomo.

Lord More, dopo un attimo, fece una faccia stupefatta.

Non era possibile.

La ragazza, che era con lui, trasalì.

Erano tutti e tre in una stanza della nave, ben protetta da occhi e orecchie indiscrete, tranne, ovviamente, da quelli del comandante che stava registrando tutto.

Vi erano solo due divani a tre persone e quattro poltrone, di color cenere, ben imbottite, tutte intorno ad un tavolino basso, rotondo, di un solo pezzo di marmo rosa non lavorato.

More guardò la ragazza.

Il silenziò che segui sembrò quasi interminabile.

L’imperatrice era sicura che i suoi ospiti sarebbero rimasti sconvolti della notizia data loro.

«Bene.» Disse l’imperatrice. «Non credo che sia necessario prolungare ulteriormente la vostra sosta presso la mia nave. Il viaggio è lungo e le notizie devono essere necessariamente trasmette nel più breve tempo possibile. Vedrete che tutto si sistemerà!»

«Come sempre, mia imperatrice!» Disse Lord More, inchinandosi.

La ragazza fece lo stesso e ritornarono, da soli, al loro veicolo spaziale, che partì immediatamente.

L’imperatrice tornò nella sua camera, si cambiò e si preparò ad andare a dormire.

Per sicurezza, affinché nessuna la svegliasse troppo presto, chiuse a chiave le porte della sua stanza.

Inviò, poi, via computer, al comandante della sua nave e a quello della scorta, un nuovo punto di arrivo con le coordinate.

Il comandante, prima di partire, verificò che non fosse un altro posto perso nel nulla.

Il nuovo punto di arrivo, anche se non era proprio perso nel nulla, era in un posto non molto piacevole.

Era il pianeta prigione di Icestar.

Il comandante, dopo aver controllato, diede l’ordine di partire.

L’imperatrice, quando sentì il rumore di sottofondo della nave che mutava, si mise a letto e si addormentò, sorridendo.

Nikolj, intanto, come lettore indipendente, aveva accesso a tutte le informazioni che gli interessavano, senza dover necessariamente lasciare traccia.

Per sicurezza, comunque, seguì uno schema poco  logico nella sua ricerca.

Non voleva che si capisse che cercava l’accesso ai libri proibiti o di quella parte delle biblioteca dove essi si trovavano.

Le informazioni sulla costruzioni della biblioteca erano in memorie di masse recentemente revisionate, pur essendo i disegni originali datati secoli prima.

Nikolj capì che erano state, da qualcuno, recentemente modificate.

Ma da chi e il perché era ancora da scoprire.

I disegni, digitali, pur essendo stati modificati, avevano ancora le informazioni primarie in essi contenuti, ma erano stata nascosti in modo maldestro.

Nikolj ci impiegò alcuni giorni a scoprire come funzionava il programma e a far venire alla luce quello che cercava.

Se le notizie cattive hanno le ali ai piedi, quello che scoprì Nikolj aveva, ai piedi, dei missili: la biblioteca, quella sotto terra, era più grande di quella dove lei si trovava, non solo come dimensione, ma anche come volumetria.

E non solo.

La maggior parte della vecchia biblioteca, interrata, con una strana forma ovale, con parecchi corridoi disposti, a quanto sembrava, in modo casuale, era sulla terra ferma, lontano dalla nuova biblioteca.

I disegni mostravano che  l’uovo era collegato con la biblioteca da un dedalo di passaggi, a vari livelli nel sottoterra.

Questo dedalo di passaggi finivano in un enorme corridoi nel sotterraneo della biblioteca, pieno, sembrava, di libri.

Nikolj non poté azionare il software tridimensionale nella sala degli ologrammi, rischiando che tutti i presenti vedessero lo scherzo dei costruttori.

La nuova biblioteca, pur enorme nel suo insieme, era forse una decima parte della vecchia biblioteca.

Nikolj trasferì i disegni nei suoi personali banchi di memoria, che portava sempre con sé, per ogni evidenza.

Avrebbe studiato con calma i disegni in un altro momento.

I giorni alla ricerca dei disegni della biblioteca, e del suo passato, erano passati tutti uguali, con una cadenza mortale, con gli orari imposti dai bibliotecari, con gli orari per la colazione, la cena, il pranzo, il riposo: una vera vita monacale, a cui Nikolj non era per niente abituata.

L’unica distrazione, il vulcano, aveva smesso di borbottare cinque giorni dopo il loro arrivo, così come era iniziato, improvvisamente, sparendo nel mare da cui era sorto.

Comunque, quella scoperta avrebbe permesso a Nikolj di movimentare un poco la sua vita in quel mausoleo di sapere.

I suoi amici di viaggio passavano i giorni sui libri e ben presto, scaduto il loro permesso, se ne sarebbero andati via, lasciando lei e chissà chi delle altre spie lì, a continuare quella vita.

Spie.

Era l’unica cosa che girava per la mente di Nikolj.

Poi arrivò il tempo di partenza degli studiosi.

Abbracci, baci, strette di mano, un sacco “ci vediamo!”, scambi di numeri di telefono…

No, non erano studiosi: erano gli studenti di una gita scolastica.

Ma uno degli studiosi si avvicinò a Nikolj, stringendogli la mano e baciandola sul viso.

Ma sussurrò a Nikolj qualcosa ad un orecchio.

«C’è una fornace, sulla terra ferma. Una di quelle per fare mattoni. È in disuso. Non mi chieda come, ma su questa memoria di massa c’è l’accesso al belvedere!»

L’uomo diede una scheda di memoria nella mani di Nikolj e se ne andò.

Che tipo strano.

No.

Nikolj trovò nella sua mente, in un lato della memoria, persa nel tempo, il volto di quell’uomo.

Era uno della setta!

Accidenti all’imperatrice!

Si era mossa su un po’ troppi fronti, la cugina!

Era meglio sistemare la cosa in modo diretto.

Nokolj decise di tagliare corto con la storia del lettore indipendente.

Tanto valeva passare all’azione.

Non aveva molte scuse per allontanarsi dalla biblioteca.

Decise, però di non restituire il pass: non aveva termini di scadenza, per cui le sarebbe diventato utile più tardi.

Dato che aveva deciso di andarsene dopo l’allegra combriccola dei ricercatori, doveva trovare un proprio mezzo di locomozione per allontanarsi dalla biblioteca.

Avviso gli assistenti del bibliotecario, si fece portare i suoi effetti personali nella stanza che aveva occupato all’arrivo in biblioteca, si cambiò, lasciò sul letto la tunica, prese le sue cose e andò verso la stazione ferroviaria.

Un qualsiasi mezzo per lasciare la biblioteca non c’era: neanche un muuli, pensò Nikolj.

Si diresse verso la destra della stazione, in una zona senza luce.

Sapeva che vi era l’accesso alla stazione ferroviaria di emergenza, quella dove vi era nascosto Siroi.

Nella zona buia, un piccolo anfratto nascondeva un piccolo corridoio, che finiva con una porta lilla.

Le idee balzane della cugina.

Che senso aveva colorare le porte di accesso alle zone di emergenza di color lilla?

Nikolj fece passare la sua memoria di massa sulla porta, all’altezza della maniglia, sul lato destro, e la porta si aprì.

Le scale!!!

Quando al luce si accese le si presentò davanti una scala a chiocciola che scendeva nel nulla.

Non contò i gradini, ma gli ci volle più di mezz’ora per arrivare alla stazione di emergenza.

Vi erano vari treni, tra i quali quello con cui era arrivato Siroi.

Nikolj notò che uno dei treni aveva una sigla diversa da quelli presenti e si preoccupò.

Chi era arrivato lì da un’altra stazione di emergenza?

Evitando di far accendere le luci della stazione sotterranea, Nikolj fece il giro della stazione, costeggiando il muro.

Notò che da sotto di una delle porte degli appartamenti usciva della luce, che si spense subito poco dopo.

Nikolj rimase in attesa di sentire il rumore della porta che si apriva, ma, nel buio, non giunse nessun rumore.

Rimase in attesa, quando, all’improvviso, una mano gli bloccò la bocca e una lama di coltello gli sfregava la parte affilata sulla gola.

«Cugina … non si fa così! Che ci fai qui?»

Siroi lasciò andare la bocca di Nikolj e rimise il coltello nel fodero appeso alla cintura.

Nikolj si sfregò la gola con la mano sinistra e passò il braccio destro sulla bocca.

«Bel modo di fare. Dovresti vergognarti, trattarmi così!»

Siroi rise a gran voce.

«Taci!» gli urlò Nikolj. «Qualcuno potrebbe sentirci!»

«Chi, mia cara? Nessuno è a conoscenza di questi posti. Tranne noi della famiglia!» Gli rispose Siroi, a voce alta.

Lei guardò in giro scrutando il buio.

Siroi si avvicinò ai treni e la luce illuminò la stazione.

Da dietro una delle carrozze apparve l’uomo che gli aveva consegnato le memorie di massa da parte dell’imperatrice.

«Ma che bella comitiva!» Esclamò.

«E tu chi sei?» Disse Nikolj, estraendo un’arma dalla borsa.

«Calma, cugina. È un amico!» Disse Siroi.

«Ciao, Siroi, come stai?» Chiese l’uomo.

«Ciao, Duke! Vedo che l’imperatrice ti fa ancora correre?» Disse Siroi

«Ah! Il Duca Gemini. È un po’ che non la si vedeva in giro. La corte le era così stretta o il tentativo di mia cugina di trovarle moglie le da fastidio?” Chiese Nikolj.

«Cara Nikolj! Vorrei sposare chi mi piace e che amo, non una delle maledette dame di compagnia dell’imperatrice che preferiscono certi tipi di uomini a quelli veri!» Disse sarcasticamente Duke.

«Quali tipi di uomini?» Disse Nikolj, civettando.

«Finitela!» Disse Siroi.«Qui incominciamo ad essere troppi. Una piccola folla!»

Risero tutti e si diressero verso l’appartamento occupato da Siroi.

Avrebbero pensato al giorno dopo sul da farsi.

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Capitolo 12
*** Prigione ***


Un pianeta ricoperto di ghiaccio, in una galassia così grande, non è una cosa rara.

Che poi avesse una eclittica molto allungata, per cui si avvicinava al sole solo per 6 mesi standard dei tre anni che ci impiegava a percorrerla, non era difficile trovarne.

Che avesse anche una atmosfera e una gravità naturale quasi simili al pianeta dell’imperatore era cosa quasi normale.

Non era normale la sua dimensione: pur essendo il terzo pianeta di quel sole, la sua dimensione era il triplo del pianeta dell’imperatore.

Non che il pianeta dell’imperatore fosse un pianeta particolare e diverso dagli altri, ma era consuetudine fare riferimento, nei confronti tra pianeti, a quello.

Icestar era così grande, immenso, che era considerato il posto peggiore dove far vivere chi aveva mancato alle leggi che ogni singolo pianeta, o la galassia, aveva emesso per la difesa delle persone e delle cose.

Di certo, mettere tutte le mele marce in un’unica cesta era gran cosa, ma le mele, se ve ne erano di meno marce, marcivano subito, in quel posto, dove sopravvivere era il solo modo di vedere l’alba del giorno dopo.

Il lavoro, non ben remunerato, era l’estrazione di ogni tipo di metallo che ci fosse sulla crosta bel spessa di quel pianeta.

Oro, diamanti, platino e ogni tipo di materiale che risultava raro su qualsiasi altro pianeta, lì ve n’era in abbondanza.

I macchinari per l’estrazione erano gli stessi prigionieri, che, se non per sfamarli e vestirli, non erano controllati dalle guardie, poche, più indaffarate a controllare che nessuno entrasse senza permesso più che uno cercasse di scappare.

Vi era, infatti, un luogo, su quel pianeta, chiamato il cimitero degli elefanti. Nessuno aveva mai capito perché, ma lì vi era la più alta concentrazione di morti di tutto il resto del pianeta, tranne, ovviamente, nel cimitero della prigione.

Molti tecnici di varie commissioni imperiali avevano studiato il problema, più per salvare la faccia all’imperatore che altro, ma non erano giunti a nessuna conclusione.

Ma il comandante delle guardie, un tipo alto, grosso, con poco cervello, losco, completamente pelato, con un facciotto rotondo, ben lo sapeva.

Le bussole che i prigionieri rubavano per poter scappare, seguendo una certa rotta, forse la più sicura, tramandata da generazioni di ladri, puttane e quant’altro su quel pianeta vi era arrivato, non sapeva che sotto a quel punto vi era un potente magnete, che formava, con altri, una rete di difesa passiva contro gli intrusi.

Il magnate era vicino ad una uscita laterale della miniera di oro, quella meno controllata, perché la più profonda.

I più coraggiosi rubavano le bussole, salivano in superficie per una scalda di emergenza, non allarmata e non controllata, e si trovavano a 125 °C sotto zero.

Anche con una tuta termica, di cui i prigionieri ne erano sprovvisti, su quel pianeta si poteva resistere al massimo ventiquattrore in quel freddo, per poi morire di assideramento.

I prigionieri, che avevano solo pellicce, e neanche tanto di prima scelta, seguivano l’ago della bussola e finivano lì, a morire di assideramento dopo neanche due ore, tanto era il tempo che ci voleva a piedi da quell’uscita al magnete.

Il comandante e le sue guardie registravano, tramite le videocamere di sicurezza, l’uscita della persona da quella porta, con numero e nome, e mettevano automaticamente la scritta “Deceduto”.

Nessuno era uscito vivo da quella prigione.

O almeno uno c’era.

Ma vi era stato riportato dopo alcuni anni di latitanza tra un pianeta e l’altro.

Lo avevano messo a lavorare nella miniera più profonda del pianeta, a cercare diamanti.

Era diventato cieco, o così si diceva, e muto e sordo, dal rumore dei picconi che rimbombava in quel tunnel e a furia di urlare per sovrastarlo.

A lui non gli interessava molto di coloro che tentavano la fortuna, scappando da lì sotto.

Ma ogni volta che ne vedeva uno tentar la fuga, un tremendo ghigno gli si formava sulla bocca, con la faccia che, per un attimo, sorrideva.

Poi gli tornava la solita faccia dura, contrita, imperturbabile e lui continuava a scavare.

L’imperatrice, per quell’uomo, nutriva una curiosità innaturale.

Non era un bell’uomo, non era alto, non raccontava storielle buffe o declamava poesie, non era filosofo di vita, eppure l’imperatrice, del prima giorno che lo aveva visto al tribunale per la sua condanna definitiva, a vita, su quel pianeta, gli era parso interessante e spudorato.

Era stato necessario buttare per aria tutta una parte dell’impero, quando era scappato, per trovarlo e cercarlo di punirlo.

Lui era un fantasma: un giorno su un pianeta, il giorno dopo in viaggio su di un cargo, poi ancora fermo su un pianeta, fino a che non arrivavano legioni di militari a cercarlo e lui si spostava.

L’imperatrice andava qualche volta a controllare che fosse ancora lì, incatenato nel pozzo a scavare con quel piccone di ferro, con un manico di legno che sembrava rompersi ad ogni colpo dato alla roccia.

L’imperatrice scese su Icestar nel porto principale, unico attracco per qualsiasi nave andasse su quel pianeta.

Ve n’erano di più, una volta, ma dato l’impossibilità di controllarli tutti in maniera adeguata, era stato deciso da una commissione che un porto, ben attrezzato e ben controllato, per quel pianeta, era più che sufficiente.

Era un porto non molto trafficato.

Vi arrivava una o due navi spaziali alla settimana.

Più che altro portavano cibo, alle volte dei prigionieri.

L’imperatrice giunse sul pianeta in coda ad una nave, che quel giorno portava un certo numero di prigionieri da un pianeta a confine con l’impero di un nemico giurato di suo marito.

L’imperatrice salì sul ponte di comando mentre le due navi, una dietro all’altra, si avvicinavano al porto e incominciò a scrutarla, mentre alcune delle sue navi di scorta seguivano a poca distanza.

La donna si avvicinò al comunicatore e chiamò il capo scorta.

Il capo scorta non fece in tempo a parlare, quando vide nel video l’imperatrice.

«Il resto della scorta dov’è?» Chiese in modo energico.

«E’ rimasta fuori dall’atmosfera …» il capo scorta non finì la frase.

«Fateli entrare nell’atmosfera e che si precipitino subito al porto. Quella nave che sta di fronte a noi non è un cargo, ma una nave da battaglia camuffata. Fate presto!» L’imperatrice chiuse il comunicatore e si girò verso il comandante.

«Manovra elusiva, presto, e avvisate il porto che sta arrivando una nave non invitata!»

Il comandate diede ordini ai suoi sottoposti e chiamo il porto, dichiarando le sue generalità e avvisandoli del problema.

Il comandate del porto rise.

«E chi volete che venga qui con una nave da battaglia a portar via cosa?»

L’imperatrice tolse il comandante dal comunicatore e guardò truce il responsabile del porto.

«Se vedete la mia faccia sapete ben chi sono! Ho dato un ordine diretto e pretendo che lo eseguita immediatamente! L’uomo è ancora al suo posto?»

Il comandate del porto divenne rosso.

«Obbedisco, signora. Il suo … l’uomo è ancora nel tunnel sotterraneo!»

L’imperatrice si alzo dal comunicatore spegnendolo in malo modo.

Non era il suo.

Era uno dei prigionieri più pericolosi che ci fossero su quel pianeta, e non era da sottovalutare.

La nave che precedeva quella dell’imperatrice, in prossimità del porto, perse il camuffamento, mostrando la sua vera faccia.

Sul ponte superiore due torri contenevano, ognuna, quattro cannoni laser, mentre torrette di ogni dimensione, contenenti diverse armi, facevano bella mostra di se sui fianchi.

Sotto, la nave aveva altre quattro torri con una serie di quattro cannoni ognuna.

Sula parte superiore vi era anche una torre comando e varie infrastrutture, alcune di lancio missili, altre di comunicazione.

Il comandante della nave, intento con tutto il suo personale nella manovra di atterraggio sul porto, ad una velocità inusuale per una nave in quella angolazione di discesa, non fece caso ai segnali di allarme che provenivano dai radar della nave che annunciavano l’avvicinarsi delle navi di scorta dell’imperatrice che aprirono il fuoco contro i motori, posti sulla coda della nave.

I colpi andarono a segno senza troppa fatica e la nave perse stabilità.

Prima si girò verso sinistra, poi si buttò a destra, nel tentativo di evitare i colpi che provenivano dalle altri navi di scorta dell’imperatrice, uscite dall’orbita ed entrate nell’atmosfera, che gli venivano incontro.

La nave non riuscì immediatamente a rispondere al fuoco e quando giunse ad alcuni chilometri dalla superficie, i cannoni, a protezione del porto, aprirono il fuoco, investendo la nave come un gancio che un pugile scaglia contro il suo avversario.

Il colpo fu tremendo: la nave rallentò, fin quasi a fermarsi, tanto era la velocità che perse in poco tempo, e la coda precipitò sul pianeta, tirandosi, poi, dietro il resto della nave.

L’esplosione fu tremenda e fece vibrare la nave dell’imperatrice, che nel frattempo si era allontanata dal combattimento e ne aspettava l’esito.

Il ghiaccio, in quel punto del pianeta, si sciolse, per parecchi metri di profondità, sopra la superficie rocciosa, formando un fiume in piena di acqua calda per alcuni chilometri, diretto verso un abbassamento del ghiaccio.

Il fiume riempi quell’abbassamento e rimase liquido per alcuni momenti.

Poi l’acqua si ghiacciò, formando una strana configurazione nel terreno.

Chiunque aspettasse quella nave non ebbe molto tempo per compiangere chi era morto in quell’impresa.

Sotto la superficie dei ghiaccia parecchie gallerie, sotto l’effetto dell’urto e dell’esplosione della nave, crollarono, coinvolgendo centinai di prigionieri, che perirono sul colpo.

Le guardie, infuriate per quello che era accaduto, sguinzagliarono i mastini, affamati, che si misero sulle tracce dei probabili rivoltosi.

Di certo gli animali avrebbero colpito a casaccio, ma questo era sufficiente a tenere buone le persone che avevano ideato quel disastro.

I resti della nave bruciarono per alcune ore.

La nave dell’imperatrice, con tutta la sua scorta, scese nel porto.

Il comandante del porto fece mettere in fila la guardia d’onore per l’arrivo dell’imperatrice, che non volse nemmeno uno sguardo a quegli uomini e non li passò nemmeno in rassegna.

Agli uomini della guardia la cosa non fece molto piacere, ma si sapeva che l’imperatrice era una a cui non piaceva molto l’etichetta militare.

All’interno degli uffici del porto giunse, correndo, il comandante delle guardie, che salutò, tutto trafelato, l’imperatrice.

«L’uomo ... dov’è?» Chiese senza indugi l’imperatrice.

«Sempre al suo posto!» Rispose secco il comandate.

«Quella nave era per lui, lo sapete, vero?»

Il comandante guardò l’imperatrice stupefatto della frase che aveva appena sentito.

«Ma voi non potete credere …»

La frase fu subito interrotta da un gesto della donna.

«Dov’è … l’uomo?»

L’imperatrice si stava già agitando.

Non adorava venire contraddetta da certe persone, men che meno da un comandate delle guardie di una prigione.

«Da questa parte, mia imperatrice.» Disse infine l’uomo, ossequioso.

L’uomo uscì dalla stanza seguito dall’imperatrice e dalla sua scorta.

Il comandante delle guardie era già stanco di vederla l’imperatrice, venuta lì, come al solito, a vedere quel tizio che non aveva niente di particolare, tranne l’essere scappato da quella prigione e che quel fatto era costato caro al suo predecessore.

Una telecamera, nella zona 1 di controllo della prigione (su tutto il pianeta ve ne erano più di cinquemila di quelle zone, presidiate continuamente da guardie) controllava i movimenti dell’uomo, spostandosi ogni volta che egli si muoveva nel tunnel.

L’imperatrice scosto brutalmente l’uomo che guardava il video che controllava il detenuto e vi si avvicinò, fissando il prigioniero.

L’uomo fece uno strano movimento, poi si fermò e guardò la telecamera, come se sapesse che qualcuno, non la solita guardia, lo stava guardando.

«Andate a prenderlo, gli voglio parlare!» Disse secca l’imperatrice.

Il comandante, a cui l’imperatrice non aveva mai dato quel’ordine, era sul punto di rimostrare, ma il volto dell’imperatrice, quando lo guardò, quasi domandandosi cosa il comandante stesse ancora aspettando, non gli diede molta scelta.

Si girò sbuffando, prese alcuni uomini, ben armati, alcuni mastini, affamati, e si diresse verso il tunnel.

Nell’attesa l’imperatrice si diresse verso alcune sale interrogatorio e attesa il detenuto.

Ci volle un po’ prima che il capo guardia e gli uomini portassero di peso l’uomo.

Lo sbatterono a terra e lo lasciarono ai piedi dell’imperatrice, nella sala interrogatorio.

L’uomo, coprendosi gli occhi per la troppa luce, vide degli stivali in pelle, con la parte appuntita rivola verso di lui, con dei tacchi alti e stretti, che sbucavano da una gonna in pelle, tutto di colo nero.

Girò il volto verso l’alto e vide il volto dell’imperatrice che lo scrutava e sentiva una strana vocina nella mente.

Una maledetta strega!

Lo sapeva bene e gli rispose con tutte le forze che la sua mente potesse sprigionare in quel momento.

La donna rise e di alzò in piedi, facendo cadere la sedia su cui si era seduta nell’attesa del prigioniero.

Lui iniziò a digrignare i denti e lei gli girava in tonto, alla volte ridendo, alle volte muovendo il frustino che aveva in mano, facendo muovere l’aria con sonori fischi.

La strana danza durò alcuni minuti, ma nessuno capì costa stava succedendo.

Alla fine la donna colpì il sedere dell’uomo, lasciandogli un livido di un bel colore blu e, ridendo, uscì dalla stanza.

Passò davanti al capo guardia senza dire nulla e si diresse verso la sua nave, inseguita, di corsa, da alcune dame di compagnia, scese dall’astronave per sgranchirsi le gambe, e che si coprivano il naso con fazzolettini di stoffa ricamati, per il forte olezzo che saliva da sotto la stazione di controllo.

Anche il comandante della nave imperiale e della scorta la seguì a rotta di collo.

Le navi lasciarono il pianeta prigione in meno di un’ora, ma non se ne allontanarono molto.

L’imperatrice comandò di rimanere in orbita del pianeta successivo ad Icestar ed attendere i suoi ordini, mentre si faceva una doccia ristoratrice.

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Capitolo 13
*** Ordine e ordini ***


Un impero ha sempre bisogno di ordine e ordini.

Ordine, regolamenti, leggi che permettono agli abitanti di coesistere, pur avendo idee, essendo di razze e pregando dei diversi.

Alcune di queste leggi sono emesse dagli stessi pianeti, affinché la popolazione che vi abita possa coesistere nella legalità.

Altre sono emessi dall’impero, per conciliare le diverse leggi emesse dai diversi pianeti, che potrebbero essere, tra di loro, in contraddizione.

Ordini e comandi vengono emessi da chi dirige pianeti, zone della galassie o l’intera galassia.

Ordini e comandi vengono dati anche alle truppe, ai militari di stanza sui vari pianeti, più o meno abitati, asteroidi o su tutto quello che può permettere ad un esercito di difendersi in caso di attacco.

Il punto dolente di tutto quell’ordine e di tutti gli ordini emessi erano le persone che li ricevevano, che dovevano comprenderli ed eseguirli.

Di certo, un ordine militare è un ordine militare: spostare le truppe da un pianeta all’altro non era certo come andare a fare un pic-nic.

Ma gli ordini o le leggi per i civili, per i burocrati, dovevano andare capiti ed interpretati.

Di certo la fantasia ai burocrati per interpretare una legge, a loro modo di vedere, non mancava e l’imperatore, troppo spesso, era costretto ad emettere specifici editti circa una interpretazione più o meno lesiva per una parte o l’altra.

I tribunali, ovviamente, erano spessi presi d’assalto da quelli che credevano che una legge fosse stata emessa a loro discapito.

Ma la cosa che l’imperatore odiava erano le riunioni fiume con i burocrati quando la legge, norma o editto doveva ancora essere emendato.

L’imperatore aveva deciso che il metodo dei suoi predecessori, quello di partecipare a quelle riunioni fiumi di persone, non andava proprio bene.

O almeno non si confaceva con il suo indomito spirito.

L’imperatore aveva deciso di evitare che la sua persona fosse messa in pericolo abitando sul pianeta capitale dell’impero.

Ai tempi dei fatti che narriamo, l’impero occupava la maggior parte di una galassia a spirale, e la capitale dell’impero era un pianeta di media grandezza e come diceva, divertito, un famoso scienziato filosofo, “con le cosine tutte al loro posto”.

Il pianeta capitale era in un braccio della galassia verso l’esterno.

Di certo la mutabilità delle stagioni, i poli ghiacciati o le zone desertiche vi erano come su qualsiasi altro pianeta e la concentrazione delle persone in molte aree aveva quasi riempito il pianeta di palazzi di ogni grandezza e forma, strade, case, sobborghi, favelas e altro ancora.

L’andirivieni di navi spaziali e persone da quel pianeta era quasi al collasso.

Gli oltre centro astroporti pubblici e più di mille privati non bastavano a sopperire alla richiesta di navi che vi arrivavano e gli incendi, tra navi e navette, era una realtà giornaliera.

Non vi era comandate di nave che fosse giunto al pianeta capitale almeno cinque volte di fila che in una non avesse fatto un incidente, magari lieve, ma pur sempre incidente, che rallentava la partenza o l’arrivo di altre navi.

Il pianeta dell’imperatore, invece, era sì in un braccio vicino, ma verso l’interno, nascosto dai gas galattici.

Tutte e due i pianeti ruotavano intorno a dei soli gialli, belli e caldi.

E questa era l’unica cosa che li accumunava.

Il pianeta dell’imperatore, su cui vi era la biblioteca, era poco abitato: anziché alcuni miliardi di individui, ne vivevano alcune milioni, che vivevano solo per servire l’imperatore e la sua corte.

L’imperatore, dato che odiava spostarsi inutilmente e passare tempo in riunioni fiumi, aveva fatto costruire sul suo pianeta e su quello della capitale due sale ologrammi, con una circonferenza di circa cento metri.

Erano in un’ala del palazzo reale verso i giardini invernali, posti a est dell’ingresso principale del palazzo, chiusi dentro ad una enorme cupola, che si estendeva per ettari e si alzava verso il cielo per più di cinquecento metri.

Sulla capitale le sale erano poste all’interno del palazzo dei giudici, delle stesse dimensioni.

L’imperatore, in caso di riunioni, andava in una delle due sale e partecipava alle riunioni fiumi, qualche volta addormentandosi se la discussione proseguiva senza giungere a qualche decisione, la qual cosa faceva arrabbiare i burocrati: che non partecipasse di persona alle riunioni era una cosa, che si addormentasse durante, quasi sbeffeggiandoli, questo non lo sopportavano.

Se non addirittura, durante la riunioni, camminare su è giù per la stanza, sparire dalla vista delle telecamere dell’ologramma per poi apparire con un vestito diverso, sorseggiando una bevanda, se non addirittura vedersi apparire un servitore che gli portava da mangiare.

Più volte i burocrati si erano lamentati con il gran ciambellano di corte, ma l’imperatore non se ne interessava.

Anzi, più volte, in riunione, ebbe di lamentarsi del loro atteggiamento.

Dopo tutto era l’imperatore a cui obbedivano civili e soldati.

Se i burocrati non avessero sviato i suoi ordini.

E questo era successo con la nave camuffata che era caduta su Icestar.

Era entrata da una parte del confine dell’impero con l’altro impero, piccolo, comandato da un imperatore folle e guerrafondaio.

Un burocrate l’aveva fatta passare, anche se gli ordini giunti ai militari era quello di fermare qualsiasi nave proveniente da quel quadrante della galassia.

Ma i soldati, ben sapendo che avere a che fare con i burocrati era una pessima cosa, aveva avvisato dell’incidente il loro comandante e rimasti lì, in attesa di ordini.

E l’ordine giunse.

Non muoversi.

E i militari non si mossero, guardando la nave, ben camuffata, passare il confine e andare chissà dove.

Quando si seppe che quella nave era precipitata sul pianeta prigione, i militari guardarono torvo il burocrate di confine, che sparì, improvvisamente.

Ma l’imperatore, che di solito non veniva avvisato di queste inezie, lo venne a sapere, anche per il fatto che la moglie era sul pianeta.

L’imperatore andò su è giù dalla sala ologrammi, pensieroso, proprio durante una di quelle riunioni fiume.

No, pensava, non era possibile!

Era andata ancora su quel pianeta a guardare il prigioniero.

I burocrati lo guardarono in quell’atteggiamento strano.

Lui, quando era pensieroso, metteva una mano, di solito la sinistra, dietro alla schiena e l’altra, in particolare modo con il mignolo, giocherellava con le sue labbra.

Era solito camminare a grandi falcate, entrando ed uscendo dalle telecamere.

Il primo ministro tossì, tossì e ritossì.

Inutile.

L’imperatore stava pensando a qualcosa.

Poi improvvisamente si fermò.

No, non era possibile.

Il suo viso cambiò espressione e guardò i burocrati, di sottocchio.

Dovevano ringrazia che non fossero lì con lui, di persona.

La loro morte sarebbe stata lunga e dolorosa.

Schioccò le dita e l’ologramma sparì.

I burocrati fecero strane facce, ma non potevano farci niente.

Una giornata inutile, per loro, inconcludente, anche se, a sera, non avrebbero comunque concluso nulla, come sempre facevano con l’imperatore, ovviamente per ripicca nei suoi confronti.

Spariti gli ologrammi dei burocrati dalla stanza, l’imperatore emise un urlo animale, terribile.

I pochi presenti rimasero stupefatti da quanto successo e scapparono.

L’imperatore di diresse a grandi passi fuori della sala, salì su un veicolo elettrico e si diresse verso la stazione radio, guidando personalmente il veicolo.

La stazione radio era posizionata nella zona più lontana del palazzo imperiale, a destra rispetto all’ingresso principale.

Molte persone della corte, che stavano passeggiando, videro letteralmente schizzare la macchina sulle strade, rischiando di travolgere molte persone.

Arrivò all’edificio destinato alla sala radio frenando di colpo e abbandonando il veicolo sul prato di fronte all’ingresso principale.

Entrò nella stanza dei servizi segreti, posta al piano seminterrato, ove alcune persone stavano controllando diversi pannelli di controllo, con le cuffie ben posate sulle orecchie, per meglio sentire tutto ciò che stavano in quel momento intercettando.

L’operatore capo si girò di colpo, imprecando con chi fosse entrato sfondando la porta.

Ma quando vide la faccia dell’imperatore indiavolato, il capo si mise sull’attenti, mentre gli intercettatori non se ne accorsero di nulla.

Ma non poterono fecero finta di niente quando l’imperatore fece scattare l’allarme perché tutti gli dessero retta.

Il palazzo non fu svuotato per miracolo.

Il capo degli intercettatori era impietrito davanti all’uomo.

Gli ordini che gli vennero dati erano a dir pochi folli, ma gli intercettatori ubbidirono senza aspettare che il loro capo desse quei comandi.

I generali delle zone interessate, quella di confine e quella vicina al pianeta prigione, passarono ore nelle loro sale oleografiche delle lori basi militari, a discutere con l’imperatore e lo stato maggiore.

I due generali, diversamente dal solito, all’interno delle sale oleografiche erano soli. I loro attendenti e i loro stati maggiore rimasero fuori, in silenzio, preoccupati: non era cosa di tutti i giorni una riunione con l’imperatore, lo stato maggiore e un comandante di un’altra zona.

L’imperatore, nella sala, era con i suoi più stretti collaboratori militari: tre persone. Uno era il capo di stato maggiore, un cugino di secondo grado, a lui molto fedele, un altro era il responsabile dell’intelligence militare, fratello di una sua zia, un tipo strano, troppo intelligenze per i gusti dell’imperatore, e l’ultimo era il suo segretario personale, un fratellastro, di cui si fidava poco, ma che gli serviva lì, in quel momento, per vedere la sua faccia alle sue rivelazione ai generali: il nome dell’uomo era sul famoso elenco.

La discussione durò ore, quasi una riunione fiume come con i burocrati, solo che questa volta l’imperatore era ben sveglio e deciso a sistemare la questione velocemente.

Il generale della zona di frontiera uscì dalla riunione sconvolto.

Il suo stato maggiore lo guardò preoccupato.

«Qual è la nave più vicina alla frontiera, verso l’esterno della galassia?» chiese ai suoi uomini.

«C’è la flotta C, quella di Grovin. È lì da una settimana, che pattuglia la zona. Ma non è una nave sola …»

«Bene. Passatemelo in sala ologrammi e venite pure voi.» Disse al suo stato maggiore.

Il comandante Grovin era un tipo piccolo, con i capelli rossi, la barba rosso, la pelle rossa: tutti lo chiamavano “il rosso” e lui ne andava fiero.

Il generale, quando il comandate si presento nell’ologramma, si rivolse a lui in modo amichevole.

«Salve, Rosso, come va?»

Il comandate Grovin si meravigliò, ma decise di non rispondere allo stesso modo.

«Bene , Generale. Grazie del suo interessamento. Come posso esserle utile?»

«Devo darle un ordine che lei non ha mai ricevuto. Superi la frontiera e sconfini nella zona vietata dall’esterno della galassia.»

Le persone presenti rumoreggiarono e il rosso divenne ancora più rosso.

«Devo, se ho capito bene, uscire dalla galassia, andare nel vuoto più assoluto, e rientrare nella galassia dalla zona vietata? E l’ordine non mi è stato mai dato, ma sarà una mia iniziativa, senza ricevere aiuto in caso di bisogno, e per cosa?»

Il generale si passò la mano sotto il mento.

«Deve scoprire chi, in questo momento, comanda la zona vietata. L’imperatore ha idea che il nostro vicino non sia in casa, ma che sia a spasso da qualche parte nel nostro impero.»

«Ah. Una visita di cortesia. E come spera che io scopra se in casa c’è qualcuno o no?»

«Si ricorda, Grovin, quel famoso asteroide che passa vicino alla frontiera, che esce dalla galassia e, rientrando, si avvicina al pianeta impero e che abbiamo più volte usato per i nostri viaggi ….»

«Certo. Ma ci vorrà tempo …»

«No, mio caro, meno di quello che lei pensa. Ultimamente il pezzetto di roccia è stato fatto avvicinare ad un pianeta e ha preso velocità, molta velocità. Nessuno se ne accorgerà se lo userete come nascondiglio. Lo sai, Rosso, che quella è stata la tua migliore idea. E l’imperatore ha deciso di darti il comando dell’operazione, concedendoti il grado di ammiraglio.»

«Oh, bene. Ammiraglio di niente. Va bene. Ma ricordati che quella maledetta bottiglia che tiene nel cassetto destro della tua scrivania è mia. Che tu lo voglia o no. E non svuotartela tutta da sola, se no faccio attaccare dai miei la tua cantina privata!»

«Va bene, maledetto! Ma datti da fare. Hai solo due giorni prima del rendez-vous con l’asteroide fuori della galassia!»

«Ah. Scusa, generale, ma l’asteroide, ovviamente …»

«Lo sai benissimo come deve svolgersi il piano C, capo D. Non fare inutili domande!»

Il generale chiuse la comunicazione e il Rosso se la rise come un matto.

Il suo piano era stato approvato dall’imperatore.

Bene. Una visitina a quel maledetto cugino rompiscatole non gli dispiaceva.

Dopotutto, con lui morto, il comando di quella zona spettava a lui.

Si, era la volta buona che, anche se non imperatore, un certo titolo nobiliare gli sarebbe caduto tra le braccia e l’odioso cugino sarebbe finito nel fango.

Uscì dalla sala ologrammi e diede ordine di partire alle sue navi.

La sua mini flotta era costituita dal suo incrociatore spaziale, che vista dall’esterno non dava l’impressione di essere in gran forma, due porta caccia stellari, due navi rifornimenti, dieci navi di scorta e alcune più piccole che precedevano in avanscoperta o seguivano la flotta in copertura.

La flotta parti a velocità luce verso il confine della galassia.

Una delle navi di scorta attraverso velocemente il confine e atterrò sull’asteroide.

La flotta, intanto, trascinava un asteroide, della stessa forma e dimensione di quello che doveva coprire la loro piccola invasione.

La nave di scorta atterrata sull’asteroide aveva a bordo circa cinquanta uomini.

Il comandante si chiamava Gregorovich, statura media, non troppo muscoloso, viso con dei lineamenti marcati.

Per essere una donna era un po’ troppo maschiaccio, ma i suoi uomini non ci facevano caso: a bordo donne e uomini avevano gli stessi diritti e doveri e obbedire non era certo n optional.

Il comandante, dopo l’atterraggio, diede ordine per piazzare dei motori ausiliari che avrebbero spinto l’asteroide lontano, nello spazio infinito, mentre il sostituto avrebbe preso il suo posto, nascondendo al suo interno la flotta, che sarebbe giunta a destinazione senza dar troppo dell’occhio.

Michel Gregorovich sapeva che il piano avrebbe funzionato: erano anni che studiava quel piano e che attendeva la sua vendetta.

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