Hereditas: Origines

di Crilu_98
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Heriman - Pulchra Eth ***
Capitolo 2: *** Massimo - Amicus ***
Capitolo 3: *** Igraine - Nova vita ***
Capitolo 4: *** Eileen - Regina ***
Capitolo 5: *** Myrddin - Domina lacus ***



Capitolo 1
*** Heriman - Pulchra Eth ***




Ci fu un tempo in cui odiavo profondamente ciò che ero: un mostro, un demonio sbucato dagli Inferi. Ora no, ora ammiro il mio aspetto, perché la mia anima si è conformata ad esso.
E dire che mio padre era stato avvisato: quando mia madre era incinta per la quarta volta, mio nonno ebbe un sogno premonitore. Sognò che dal ventre di sua figlia sarebbe nato un serpente dagli occhi rossi; vide anche lo stesso serpente strisciare serpeggiando sopra i cadaveri dei suoi tre fratelli maggiori.
Quando nacqui, perciò, nessuno fu sorpreso dalla volontà di mio padre di volermi abbandonare fuori dal carro, nel rigore dell'inverno: sarei dovuto morire, e tutti si sarebbero dimenticati presto della mia breve esistenza.
Ma così non andò. Una bambina della tribù mi trovò nella neve dopo ore, ancora vivo: non piangevo né gridavo, osservavo semplicemente il cielo stellato con i miei occhi sanguigni.
Quella bambina si chiamava Eth ed è stata la più grande gioia ed il più grande tormento di tutta la mia vita.
 
Mio padre fu costretto a riprendermi nella famiglia, ma con il passare degli anni si accorse di non aver perso nulla da quella maledizione: ero un ragazzino sveglio, forte e molto più determinato dei miei fratelli, ad eccezione forse di Rikard.
Avevo undici anni quando mi accorsi di lei per la prima volta: io ero ancora solo un bambino, lei la fanciulla promessa in sposa proprio a mio fratello. E con sorpresa mi sorpresi a trovarla bella.
Dopo aver visto una matrona romana a Lutetia, avevo sempre considerato i tratti di noi Vandali con una punta di vergogna, come il marchio che ci escludeva dalla civiltà: non avevo ancora imparato che quando una cosa viene negata, l'unica possibilità è prenderla con la forza.
Se l'avessi saputo allora avrei fatto in modo di prendermi anche Eth, la bella Eth dai lunghi capelli del colore del bronzo, che affascinava chiunque grazie ai suoi profondi occhi neri.
Era una bambina anche lei, molto più piccola di Rikard, eppure già donna: mi considerava un infante ancora attaccato alle gonne della madre, mentre lei presto si sarebbe sposata e sarebbe diventata madre a sua volta.
-Sei piccolo e stupido, figlio della neve!- mi gridava per prendermi in giro.
Poi gli anni passarono veloci e il nostro rapporto quasi si esaurì: fu solo al mio ritorno da una campagna militare, una delle prime vere imprese che ho compiuto, che tutto cambiò.
Eth aveva già dato a mio fratello due figli, ma le gravidanze non avevano appesantito il suo fisico; io, invece, ero diventato un uomo robusto ed esperto e il mio aspetto adesso non era più solo motivo di terrore e diffidenza, ma anche di rispetto. Ero un bravo guerriero perché ero spietato: questa caratteristica mi aveva salvato la vita diverse volte sul campo di battaglia. E nonostante il colore della mia pelle incutesse timore a qualsiasi donna, nessuna mi si era mai rifiutata.
Non so come sia nato quello che ci fu tra me ed Eth: forse lo stretto contatto, forse l'attrazione fisica, o forse un disegno imperscrutabile del Fato... Non so cosa ci portò a ricercare l'uno la presenza dell'altro, a desiderare anche solo di sfiorarsi le mani, a vagare con sguardo famelico sui nostri corpi.
-Nessuno poteva immaginarlo, figlio della neve.- mormorava Eth stringendomi da dietro, dopo che l'avevo posseduta fuori dal carro, mentre mio fratello dormiva.
Già, nessuno avrebbe potuto immaginarlo. Come nessuno avrebbe potuto immaginare cosa successe poi.
 
Io non avevo preso parte alla campagna dei Visigoti, mi ero rintanato in Iberia a pensare: Eth era incinta e sebbene spesso giacesse anche con il marito c'era la grande possibilità che il bambino fosse mio figlio. Che fosse come me, maledetto e marchiato.
Sarebbe stata la fine per entrambi e io dovevo trovare una soluzione: non potevo permettere che l'amore che quella donna provava per me la conducesse alla morte.
Ma non ne ebbi il tempo: pochi mesi dopo fui raggiunto da una notizia che mi sconvolse. Un uomo, un romano, era penetrato nottetempo nelle case dei miei fratelli, trucidandoli tutti... E con loro anche le mogli e i figli.
Non giunsi in tempo neanche per vedere Eth un'ultima volta e forse fu un bene: forse sarei impazzito alla vista di quel corpo che avevo accarezzato tante volte violato da una spada ed intriso di sangue. Forse avrei perso il senno se avessi incrociato il suo sguardo, di solito così vivace, spento e vuoto, fisso nel nulla.
Inginocchiato davanti a quelle tombe anonime, scavate nella terra, capii che il Cielo aveva davvero deciso di maledirmi, condannandomi ad una vita di dolore e di morte: non ci poteva essere felicità per me, la morte di Eth lo aveva ampiamente dimostrato. E compresi anche il sogno di mio nonno: li avrei vendicati, tutti quanti. Io avrei ucciso quel romano, lo avrei cacciato e braccato come una preda e avrei fatto in modo di mandarlo all'inferno tra atroci dolori... Fu così che mi misi alla ricerca di Fabio Gallieno Umbro.
 
Sono passati anni e la mia caccia mi ha portato in molti posti, in diversi paesi lontani tra loro. E' tutto così diverso dai luoghi in cui io e i miei fratelli giocavamo da bambini... Ultimamente i ricordi mi assalgono con più frequenza, mi sfiancano e mi fanno sentire vecchio: poi vedo lo stesso pensiero riflesso negli occhi dei miei uomini e un sottile timore si fa strada serpeggiando dentro di me. Il ricordo di Eth, invece, è un balsamo dolce che lenisce ogni ferita, sia del corpo sia dell'animo. La vedo spesso in sogno e ciò mi rincuora, mi da' forza e speranza.
Io lo so che ci rivedremo, bella Eth, un giorno: quando io avrò completato la mia vendetta e tutta la nostra famiglia potrà riposare vendicata.
Ci rivedremo, Eth, unica donna che il mio cuore abbia mai amato.
 
 
Angolo Autrice:
I momenti di noia mi fanno questo, purtroppo! A furia di ragionare su come continuare Hereditas ho iniziato a riflettere su episodi che con la trama non c'entrano nulla, perciò eccomi qua, perché nonostante queste one-shot siano piccole e chiariscano poco o nulla della storia, mi andava di condividerle qui su Efp :)
Come già detto nell'introduzione si incentrano su vari personaggi, e l'aggiornamento sarà irregolare perché devo stare attenta a non rivelare troppe cose su Hereditas stessa xD
Fatemi sapere cosa ne dite di questo amore nascosto del cattivo, che proprio non ha voce nella long! :D
 
Crilu

 

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Capitolo 2
*** Massimo - Amicus ***




Quando mi arruolai nell'esercito non avevo davvero messo in conto che di lì a pochi mesi avrei partecipato ad una delle battaglie più gloriose degli ultimi cinquant'anni.
Ero un ragazzino di diciassette anni a cui era appena cresciuta la barba e avevo chiara solo una cosa della mia vita: non avrei fatto il commerciante come mio padre, sempre perso dietro a merci e scartoffie, sempre chino sulle pergamene a far di conto, sempre in viaggio nel suo solito giro dei mercati. No, semmai quella era la vita di mio fratello: io volevo diventare un soldato e così sarebbe stato. Mio padre mi comprò un cavallo e una buona spada e con quelli mi diressi a Roma, dove fui arruolato senza troppe difficoltà. Come ho detto, mi sarei aspettato un lungo periodo di addestramento, o di essere inviato sul confine... Non di dover fronteggiare un'orda di barbari.
Analizzandoli a distanza di anni, i fatti sono abbastanza chiari ed ordinati: gli Unni decisero di spostarsi nelle valli dei Germani e dei Goti, i quali decisero a loro volta che l'impero di Roma non era abbastanza forte da reggere l'invasione dell'Italia.
E i primi scontri diedero loro ragione: il loro re, Radagaiso, condusse senza troppe perdite i suoi uomini fin oltre le Alpi, fino a cingere d'assedio Firenze.
Fu allora, nell'estate del 406, che il generale Stilicone reclutò quanti più uomini possibili per scontrarci con i Goti.
 
Marciammo per giorni ed infine giungemmo nei pressi di Fiesole: avvertiti del nostro arrivo, i barbari si ritirarono sulle colline e finimmo per accerchiarli. Ci fermammo alcuni giorni senza attaccare, aspettando che il loro incredibile numero fosse sfoltito dalla fame: sentivo l'eccitazione e l'ansia montare in me in egual misura.
La sera prima dello scontro decisivo mi scontrai con un soldato più o meno della mia età e finimmo entrambi a terra:
-Guarda dove vai!- sbottò lo sconosciuto, irritato. Era poco più alto di me e aveva una corporazione più snella, folti capelli neri e due magnetici occhi castani.
-Sei tu che mi sei venuto addosso.- replicai risentito, rialzandomi. Il ragazzo poggiò la mano sull'elsa della spada:
-Come?- ringhiò. Io alzai un sopracciglio, ghignando divertito: la mia peculiare caratteristica che faceva disperare i miei genitori e buona parte del paese, era proprio l'incapacità di prendere le cose sul serio.
-Che animo suscettibile! Cosa c'è, ti ho sgualcito la tunica?-
L'altro socchiuse gli occhi, studiandomi. Poi, senza preavviso, mi sferrò un pugno in pieno viso. Barcollai stupito:
"Dev'essere davvero un animo suscettibile!" pensai, con una punta di malignità. In breve ci ritrovammo a lottare avvinghiati come due leoni su una preda, tentando di scoprire ognuno i punti deboli dell'altro. Furono i nostri commilitoni a separarci, prima che l'intervento di qualche centurione ci condannasse ad una punizione esemplare.
-Vedi di non incrociare più il tuo cammino con il mio, Massimo Antonio Decio!-
Non sono mai riuscito a capire come conoscesse il mio nome.
-Sarò ben felice di accontentarti... Com'è che ti chiami?-
Il ragazzo sorrise sprezzante, sputando un grumo di sangue prima di voltarmi le spalle.
 
Mi avevano detto che sarebbe stato semplice: nemici esausti ed affamati, vantaggio strategico, un buon condottiero... Ma la guerra, che sia una battaglia campale o un logorante compito di vedetta, non è mai semplice.
Mi ero distinto tra le giovani reclute grazie alla mia forza, ma affrontare barbari ridotti allo stremo in campo aperto si stava rivelando un orrore difficile da superare.
Uccidere per non essere uccisi scuote anche l'anima di chi si credeva capace di superare tutto e nella battaglia di Fiesole imparai che nonostante la maestosità delle nostre città, nonostante la cultura, nonostante la grazia di Dio... Noi uomini lottavamo come animali.
E nei barbari ciò era evidente più che nei soldati romani: noi eravamo efficienti, compatti, mossi da una strategia comune; i Goti si gettavano urlando su chiunque non facesse parte del loro schieramento, uccidendo, mutilando, agitando asce e spade grandi quasi quanto me.
Uno di loro, che svettava sopra di me con tutte le spalle, mi attaccò da un lato caricandomi con una testata e spedendomi a terra. Mi ero appena liberato di un avversario difficile, ero esausto per il caldo, la fatica e anche per quell'eccitazione malata che invade un guerriero durante lo scontro: voltai il capo sorpreso e stordito, osservando con un certo distacco l'uomo che si avvicinava a grandi passi, roteando la spada. La fame lo aveva reso pazzo: digrignava i denti come un lupo e aveva gli occhi iniettati di sangue.
Stavo per morire. Cercavo di far realizzare alla mia testa che entro pochi secondi avrei smesso di respirare, vedere, toccare, sentire... Ma niente, ero troppo sovraccaricato di emozioni e sensazioni per rendermene conto.
Allungai la mano per raggiungere la spada, ma sebbene fosse a pochi passi da me era comunque troppo lontana, il barbaro mi avrebbe staccato la testa prima che riuscissi a rimettermi in piedi.
Pensai a mio padre, ai suoi rimproveri e al timore che aveva provato nel vedermi andare via:
"Avevi ragione, padre, ah!, quanto avevi ragione..."
Un coltello, lanciato da chissà dove, terminò la sua corsa nell'avambraccio del gigante, che ululò di dolore mentre la spada vacillava. Sbarrai gli occhi, colpito, e riacquistai lucidità: con una capriola balzai in piedi e raccolsi la mia arma... Solo allora mi accorsi che il mio salvatore era il ragazzo con cui mi ero picchiato la sera prima. Gli occhi ambrati mi squadravano con divertimento:
-Hai una faccia stupita, Decio!- ghignò. Prima che potessi rispondere, il barbaro si lanciò contro di lui con un grido belluino, deciso ad ucciderlo nonostante la ferita al braccio sanguinasse copiosamente. Bastò uno sguardo per metterci d'accordo: mi affiancai allo sconosciuto e dopo una lotta estenuante riuscii a far scivolare il barbaro sul terreno leggermente fangoso della collina. Senza esitare, l'altro affondò la spada nel suo petto, uccidendolo.
La battaglia attorno a noi infuriava e ben presto fummo separati, senza che fossi riuscito a ringraziarlo, o a chiedere il suo nome.
 
Lo rividi dopo pochi giorni, con una fasciatura sulla gamba e ancora sul viso i segni del nostro scontro. Mi chiamò da lontano ed accennò un saluto, zoppicando per raggiungermi.
-Sei sopravvissuto!- constatò con tranquillità.
-Anche tu.- replicai -Con qualche ammaccatura...-
-Non è niente!- sbuffò il ragazzo scrollando il capo. Sollevai un sopracciglio, perplesso: cosa voleva da me?
-Grazie per avermi salvato la vita, comunque...- dissi, titubante.
-L'avrebbe fatto chiunque.-
-Magari non proprio lo stesso uomo che la sera prima mi aveva massacrato di botte, però... Sì, probabilmente a ruoli invertiti anche io avrei aiutato un commilitone, anche se arrogante e suscettibile come te.-
Lui sbuffò.
-Come ti chiami?- proseguii, accettando la brocca di vino che mi offriva. I soldati romani erano quasi tutti ubriachi, avendo esagerato nel festeggiare la vittoria. Solo alcuni, solerti, stavano incatenando e conducendo via i numerosi Goti resi schiavi.
-Fabio Gallieno Umbro.-
-Da dove vieni?-
-Roma.-
-Oltre ad avere un pessimo carattere sei anche silenzioso, eh, Umbro? Poco male, dicono che io sia molto ciarliero, posso chiacchierare per tutti e due! Vengo dal sud dell'Italia, dalla Lucania, per la precisione e la mia famiglia...-
-Non ti è passato per la testa che le tue parole potessero non interessarmi?-
-Liberissimo di andare via e di lasciarmi a parlare al vento come un ubriaco o un pazzo. Ma ricorda: ce le siamo date di santa ragione e poi ci siamo guardati le spalle a vicenda. Potrebbe essere l'inizio di una solida amicizia, non credi?-
Fabio sbuffò ancora, ma sorrideva: col tempo mi sarei abituato a quel lato del suo carattere, e avrei imparato anche ad apprezzarlo.
-Sì, potrebbe essere...-
-Ah, perfetto: il mio primo vero amico nell'esercito! Ma ci pensi che un giorno, quando saremo vecchi potremo raccontare ai nostri figli di aver vissuto questo giorno? E lo ricorderemo solennemente con le lacrime agli occhi e....-
-Massimo-
-Sì?-
-Hanno ragione: parli veramente troppo.-
 
 
Angolo Autrice:
Prima di tutto, le mie famose e tanto apprezzate note storiche. Per facilitarmi il compito (xD) ho inserito qualche informazione nella storia: l'antefatto della battaglia di Fiesole fu veramente la migrazione degli Unni nella pianura ungherese e molti dei Goti sopravvissuti allo scontro furono resi schiavi. Sul resoconto della battaglia ci sono due fonti principali: Onorio, da cui ho preso spunto per questa one-shot, e Zosimo, più tardo e decisamente meno attendibile. La stima di Onorio si aggira intorno ai 200.000 barbari Goti a cui si aggiungono gli ausiliari visigoti ed unni... Secondo Zosimo non è da escludere, inoltre, che Radagaiso (il quale fu decapitato davanti alle porte di Firenze dieci giorni dopo, il 23 agosto del 406) fosse segretamente d'accordo con un giovanissimo Alarico per invadere la penisola. La maggior parte degli storici oggi rigetta questa teoria e ritiene che l'arrivo degli unni nei territori goti sia stato la spinta decisiva per l'azzardo di Radagaiso, che sperava di ottenere con l'invasione il tanto sospirato permesso di vivere nei territori dell'Impero. Ciò che non bisogna mai dimenticare (e su cui, a mio avviso, bisognerebbe riflettere) quando si parla di barbari, infatti, è che questi non volevano distruggere Roma, ma beneficiare del suo progresso...
Tornando ai nostri personaggi... Il primo incontro tra Massimo e Fabio non è dei migliori e fin da subito emergono i loro caratteri: beffardo e amichevole il primo, taciturno ed irascibile il secondo.
Fatemi sapere cosa ne pensate!!!
A presto
 
Crilu

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Capitolo 3
*** Igraine - Nova vita ***




A quarantacinque anni, con un marito accanto e tre figli sani e robusti, dovrei sentirmi appagata e pronta per intraprendere il cammino della vecchiaia.
Io non lo sono, anche se lo sembro: nessuno crederebbe che questa donna matura che spende le sue giornate a lavorare una terra brulla e nera nasconda rimpianti o dolori.
Eppure alcune volte la notte mi sveglio e avverto le lacrime che scorrono sulle guance; Lelio, coricato al mio fianco, non si accorge mai di nulla ma io lo sento ancora, quel pianto spezzato e reso difficoltoso dalla tosse.
Artorius.
 
Ricordo perfettamente il giorno in cui nacque. Avevo quattordici anni e camminavo da giorni lungo le sponde paludose dell'Eridano: dopo che l'ultimo villaggio mi aveva chiuso le porte in faccia nel vedere le mie vesti sporche e la mia pancia pronunciata mi ero inoltrata in quei territori brumosi e solitari. Non sapevo nulla del mondo, degli uomini, o di come nascessero i bambini: la mia vita si era divisa tra il telaio ed i campi fino a quando un manipolo di disertori - romani, non barbari come tutti si ostinano a pensare - non hanno fatto irruzione nella nostra fattoria, uccidendo mio padre e i miei fratelli e impedendo a me di scappare. Ricordo ancora il dolore dell'intrusione di quell'uomo nel mio corpo, e le lacrime che versai quando scoprii che ero incinta e sola, senza più una casa o una persona amica a cui chiedere aiuto.
Mi lasciai andare ai piedi di un albero quando le contrazioni si fecero insopportabili ed iniziai ad urlare piangendo, sicura che fosse giunta la mia ora. Piangevo anche per quella creatura che, nonostante tutto, amavo più di me stessa. Fu lì che Titus mi trovò insieme alla sua banda e salvò me e Artorius dall'essere divorati dalle fiere. Riaprii gli occhi nel suo accampamento e non appena il mio sguardo si posò su quell'esserino che riposava tra le mie braccia, cullato dal calore del mio corpo e dal mio respiro compresi che avrei fatto di tutto per garantirgli il migliore futuro possibile.
Ma vedere il mio bambino andare via mi ha lacerato il cuore, tanti anni fa. Nonostante sapessi che era la sua unica possibilità per sopravvivere non ho mai smesso di rimproverarmi per quel gesto.
Con me Artorius sarebbe morto di febbre, di fame, di stenti; sarebbe cresciuto pallido e malato come i ragazzini con cui vivevo e si sarebbe consumato, inverno dopo inverno, in un'esistenza debole ed incerta.
Ma il dubbio e la curiosità di sapere dov'è ora, se sta bene, com'è diventato mi torturano ogni giorno. Mi chiedo spesso cosa abbia ereditato da suo padre e quanto invece abbia ripreso da me.
Quando se n'è andato aveva dei ciuffi spettinati di capelli biondi e gli occhi più grandi ed azzurri che avessi mai visto; adesso sarà un uomo fatto, se è ancora vivo. Un guerriero o un contadino? Un mercante? Un artigiano? Non so nulla di Massimo ed Octavia, gli sconosciuti a cui l'ho affidato: puntavano a Nord, cercavano dei loro amici da cui erano stati divisi... Io mi sono semplicemente fidata dalla luce di bontà che c'era negli occhi di lei e della cura che poneva nell'accudire mio figlio.
 
Lelio arrivò alcuni anni più tardi e anche lui era un disertore dell'esercito (anche se, come scoprii poi, era stato costretto a fuggire perché aveva ucciso un commilitone in una rissa).
Quella che per un po' di tempo avevo considerato la mia famiglia non c'era più: alcuni bambini erano morti, altri erano tornati dalle loro famiglie, altri, come me e Titus, si separarono per cercare ognuno la propria fortuna. Ero cresciuta, ero diventata più robusta e resistente: le mie mani erano coperte di calli e il mio viso mostrava già le prime rughe dovute alle intemperie a cui ero costantemente esposta. Mi ero stabilita in una capanna di pastori abbandonata ai piedi delle Alpi e passavo il mio tempo raccogliendo ciò che la foresta offriva, ammassando riserve per sopravvivere durante l'inverno.
Stavo raccogliendo castagne quando trovai quest'uomo addormentato a pochi passi da casa mia: era quasi più magro di me e la tunica che indossava era consunta e strappata in più punti. Quello che mi fece cadere il cesto dalle mani - e di conseguenza svegliare lo sconosciuto - fu però la spada che portava al fianco. Incrociai i suoi occhi per un attimo, prima di dargli le spalle ed iniziare a correre. Come potevo sperare di sfuggire ad un uomo allenato alla guerra?
Mi fu addosso in pochi minuti e d'improvviso tutti i ricordi che avevo sepolto in un angolo remoto della mia mente - la morte dei miei familiari, la violenza, Artorius - mi colpirono con violenza, facendomi scoppiare a piangere.
L'uomo allentò la sua stretta, accarezzandomi rude le braccia.
-Stai calma!- ordinò -Non voglio farti del male!-
Mi soffermai a guardarlo: aveva dei lineamenti affilati, folti capelli neri ed occhi azzurri che mi ricordavano in modo impressionante quelli del mio bambino. Forse fu per quello che smisi di tremare; lui se ne accorse, e sorrise. O almeno io interpretai quella smorfia come un sorriso
-Lelio Murrio. Mi sono perso per questi boschi e stavo cercando un posto dove riposare, ma la stanchezza mi ha vinto prima. Mi dispiace averti spaventata!-
-Sei un soldato.- replicai io dopo un po', lo sguardo fisso sulla sua spada. Non c'erano divisioni di legionari da quelle parti, perciò...
-Lo ero. Ora non lo sono più.-
Io annuii, prima di liberarmi dalla sua presa ed incamminarmi verso casa.
-Chi ti ha detto di seguirmi?-
-Non offrireste un po' di ospitalità ad un povero ramingo sperduto?-
-Sei un disertore, forse anche ricercato. Ed io sono da sola, non inviterei mai uno sconosciuto nella mia capanna!-
Mi morsi la lingua subito dopo:
"Quanto sei stupida, Aurora!"
Lelio rise e non smise di seguirmi. Però rimase ai margini della radura mentre io entravo in casa: quando mi affacciai a spiarlo, lo vidi seduto contro un albero, con il capo reclinato e gli occhi chiusi.
Sobbalzò quando aprii la porta e mi diressi verso di lui:
-Il mio nome è Aurora, ma tutti mi chiamano Igraine.- sbottai tutto d'un fiato. Lui mi fissò con gli occhi socchiusi e chiese:
-Perché me lo stai dicendo?-
Gli indicai la mia casa:
-Puoi rimanere, ma solo per un paio di notti!-
Lelio sorrise: non se ne sarebbe andato mai più.
 
Lelio ha ingrandito la capanna cadente, trasformandola in una casa spaziosa con anni di paziente lavoro. Abbiamo cresciuto insieme le piante del nostro orto e poi gli animali; iniziammo con le due pecore che lui acquistò vendendo la spada, ultimo ricordo della sua vita da soldato, che poi sono diventate un vero e proprio gregge.
Lo amo anche se passiamo la maggior parte del tempo a litigare: Lelio è autoritario, prepotente e testardo, ma mi rispetta come nessuno ha mai fatto in tutta la mia vita. Abbiamo due figlie che si sono già sposate e un maschio: quando nacque mio marito impedì alla levatrice di mostrarmelo, per paura che l'emozione stroncasse il mio cuore.
Ascanio non assomiglia in nulla ad Artorius: ha i capelli neri e la stazza di suo padre, così come gli occhi grigi non sono limpidi come quelli del mio primogenito.
Nella mia mente non posso fare a meno di pensare come sarebbe stato se avessi tenuto Artorius con me: forse lui e Ascanio sarebbero cresciuti insieme, come fratelli. Forse ho sbagliato, tanti anni fa, forse è per questo che la sua voce da neonato mi fa visita in sogno.
Ma ci sono dei momenti in cui tutti questi pensieri angosciosi mi abbandonano: può accadere mentre sto zappando, o mentre cucino, o mentre lavo i panni. E allora un senso di pace mi invade e chiudendo gli occhi posso vedere mio figlio come la mia mente lo dipinge, fiero e felice... Lontano da me.
 
 
Angolo Autrice:
Questa OS su Igraine è diversa dalle altre di questa raccolta, perché non racconta solo di cosa è successo prima di "Hereditas", ma anche dopo: mi sembrava un personaggio così triste e sconsolato che ho sentito il bisogno di regalarle un po' di felicità, anche se il pensiero del piccolo che ha dovuto abbandonare non la lascerà mai...
Fatemi sapere cosa ne pensate!
 
Crilu   

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Capitolo 4
*** Eileen - Regina ***





  Il carro era stretto e puzzava di bestie. Io, stretta tra uomini e donne molto più grandi di me, scrutavo in silenzio la mia terra che se ne andava e digrignavo i denti.
I Brigantes ci avevano traditi, mi avevano rapita rompendo i patti ed avevano lasciato il mio villaggio senza la sua legittima principessa... Strattonai le corde che mi legavano i polsi, invano: avevo solo dieci anni, nonostante avessi una mente acuta che mi faceva sembrare più grande, non avevo speranze di fuggire.
I mercanti ci portavano a Sud, avevano già attraversato uno dei grandi muri di cui Shannon la guaritrice raccontava la sera attorno al fuoco e vedevo persone vestite in modo strano, con stoffe sconosciute. Parlavano una lingua morbida e fluida, molto lontana dal suono secco ed affilato della nostra... Ancora non lo sapevo, ma ero entrata nel dominio di Roma.
Dopo altre settimane di viaggio estenuante, sempre stretta tra quei corpi sconosciuti e maleodoranti, giungemmo alla grande città di Londinium e fu lì, al mercato degli schiavi, che incontrai la persona che mi cambiò la vita.
Fui strattonata e lanciata sul palco:
-Ehi! Io sono una principessa!- urlai, sdegnata, ma una mano gentile mi si posò sulla spalla. Ad intimarmi di stare in silenzio era un ragazzino di poco più grande di me, dai capelli biondi e lunghi che mi ricordavano il mio fratellino, Phelan. I suoi occhi, invece, erano i più belli che avessi mai visto: azzurri come il cielo a primavera, ma solcati da piccole venature grigie.
-Stai attenta, bambina!- mormorò dolcemente -Non sei più una principessa, ma una serva, adesso. E come tale devi imparare a comportarti, se non vuoi essere punita.-
-Punita?- chiesi, con il tremito nella voce. Il volto del ragazzo si piegò in una smorfia dolente:
-Sì, e ti assicuro che non è piacevole. Anche se alcuni padroni sono più buoni di altri: dicono che il loro dio gli proibisca di alzare la mano su altri uomini...-
-Questa gente ha un solo dio? Un solo dio che fa tutto il lavoro? Ma è impossibile! E perché ci rendono schiavi, se questa divinità gli impone di non far male agli altri?-
-Vedi- rispose lui, mentre l'asta cominciava -Non sempre gli uomini si comportano come dovrebbero...-
Sì, lo sapevo, lo avevo sperimentato sulla mia pelle.

Io e il ragazzino che si chiamava Ulf fummo comprati entrambi da un altro mercante e imbarcati alla volta di Roma: sulla barca piansi tutte le lacrime che credevo mi appartenessero, mentre vedevo la mia isola sparire all'orizzonte. Ulf, che era stato reso schiavo sei anni prima per i debiti di suo padre, aveva avuto più tempo per abituarsi all'idea e mi accarezzò i capelli dolcemente per tutta la notte, fino a quando non mi addormentai stremata.
Quando arrivai a Roma, fui colpita dalla magnificenza e dalla malinconia di quella città superba, unica al mondo. C'erano così tante cose sconosciute, lingue mai sentite, e colori e suoni e profumi... Strinsi forte la mano di Ulf, mentre salivo sulla piazza del mercato degli schiavi.
Pensai al mio villaggio, forte e sicuro sull'altopiano. Pensai alla Cloigtheach e a ciò che rappresentava per la mia gente. Pensai alla dolcezza di mia madre e alla fermezza di mio padre. Pensai a Kiera, che ora mi sarebbe subentrata nei miei compiti. Pensai a Phelan, il piccolo Phelan che si era aggrappato a me, piangendo, perché non voleva che partissi, che mi separassi da lui.
"O fratello, cosa avevi intravisto nei tuoi incubi da bambino? Forse questo crudele esilio era già balenato davanti ai tuoi occhi?"
Infine sfiorai con le dita tremanti il ciondolo che portavo al collo, ben stretto, e pensai all'altare degli antenati che attendeva nel buio dei boschi di Britannia. Quella era la mia mappa, la mia garanzia di poter tornare a casa. Perché sì, un giorno io sarei tornata a casa e sarei diventata regina del popolo della Cloigtheach.

Io e Ulf non ci separammo neanche stavolta ed io iniziai ad intravedere un disegno di ciò che i romani chiamavano Fato nella nostra vicinanza. Il ragazzo mi proteggeva ed istruiva su tutto ciò che un servo doveva saper fare: i nostri padroni non erano cattivi - erano molto devoti alla Chiesa cristiana - ma esigevano comunque completa obbedienza e il collare* che portavo al collo era un macigno insopportabile per il mio orgoglio.
Poi, quando avevo non più di diciannove anni, una sera Ulf si avvicinò a me e mi disse con tranquillità:
-Ho chiesto al dominus il permesso di sposarti.-
-E cosa ha risposto?-
-Ha detto di sì, se la cerimonia è cristiana.-
Sorrisi, semplicemente, e presi la sua mano tra le mie, senza dire nulla.
Io e Ulf non ci dichiarammo mai il nostro amore: eravamo strappati alle nostre famiglie quando eravamo piccoli e non credevamo più di poter trovare una pace eterna da nessuna parte. Tranne in Britannia forse, ma erano già passati tanti anni e chissà cosa era cambiato nel frattempo...
Non glielo dissi mai, quindi, ma io l'ho amato tanto: ho amato la sua aria mite, la sua voce calda e la sua forza d'animo, ineguagliabile. Non c'era un lavoratore più alacre di lui o più fiero nel sopportare le punizioni... E fui contenta, nel mio intimo, che il mio destino avverso mi avesse portato una cosa così bella. Anzi, me ne portò due.
Isibéal nacque dopo appena dieci mesi dal nostro matrimonio e sebbene fosse schiava, appena aprì gli occhi io vidi in lei la stessa luce ardimentosa che animava me e suo padre. Lei non si sarebbe mai piegata né spezzata e un giorno avrebbe reclamato ciò che le spettava di diritto.

La nostra bambina è cresciuta, Ulf, è diventata forte, vero? E' questo che volevi dirmi, con il tuo ultimo sguardo? O forse volevi dirmi che mi amavi, finalmente? Dopo tutti questi anni, ancora una volta le parole mi sono rimaste bloccate in gola.
Ho visto la tua testa recisa rotolare sui gradini della domus e solo il pensiero di Isibéal mi ha impedito di gridare, di venire a raccogliere il tuo corpo dilaniato e di morire accanto a te.
Ci hai dato la possibilità estrema, amore mio: ci hai salvate, mi hai salvato, ancora una volta, come quando ci siamo conosciuti... E ora tu non ci sei più e io sto correndo in una città distrutta. Potrebbe essere l'unica nostra possibilità di salvezza, ma non riesco a concentrarmi, il mio istinto di guerriera è annullato. Non noto perciò la freccia che sibila nel buio e mi colpisce...
Alla fine, non sento neanche più i singhiozzi di Isibéal né gli strepiti della città assediata. Chiudo gli occhi e vedo il tuo volto: i capelli biondo cenere che ti ricadono perennemente davanti agli occhi, il sorriso ammiccante e sincero, le guance coperte da una leggera barba rossiccia e il tuo corpo che mi stringe e mi circonda, protettivo e caldo.
-Ti amo, Ulf- bisbigliò, ma Isi non mi sente e neanche tu.

*era usanza a Roma imporre un collare agli schiavi, con scritto il nome del padrone, in modo da identificarli facilmente se avessero tentato di fuggire. Non sono riuscita a capire, però, se questa pratica fosse ancora in uso dopo l'avvento del Cristianesimo.


Angolo Autrice:
E' deprimente, lo so. Triste come solo la storia di una persona già morta può essere :( però mi andava di spiegare come Eileen ed Ulf fossero arrivati a Roma e come fosse nata Isibéal... Soprattutto adesso che sappiamo chi è Eileen in realtà, cioè una principessa mai diventata regina.
A presto

Crilu



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Capitolo 5
*** Myrddin - Domina lacus ***


Alcuni credono che sia il figlio del diavolo, e si fanno la croce al mio passaggio. Molti hanno paura di me e allo stesso tempo mi rispettano, come rispettano gli antichi dei di questa terra: qualcosa di troppo arcano e misterioso per riuscire a comprenderlo, ma che non si può ignorare.
E infatti nessuno può ignorare Myrddin Emrys: ogni volta che mi reco in qualche luogo la mia presenza si impone sulle altre, catalizzando l'attenzione di tutti su di me, su ciò che dico, su quello che faccio. Mi piace pensare che sia merito del mio naturale carisma, ma so che in gran parte deriva dalla mia conoscenza: quella conoscenza che non ha mai conosciuto le catene della scrittura, che non è mai stata imprigionata su pietra o su carta... La conoscenza dei padri Druidi, che soffia ancora attraverso le foreste della Britannia e di cui io sono l'ultimo custode.
Ero un bambino quando Maeldun*, uno degli pochi che ancora ricordava l'arte di leggere la natura e le stelle, mi scelse come suo allievo.
Era di passaggio nel mio villaggio durante una delle sue peregrinazioni nell'interno dell'isola e si era fermato a casa nostra per riposarsi per la notte; ricordo vagamente i miei genitori e ancora meno i miei fratelli, tranne per il fatto che si facevano beffe di me e del mio aspetto... Dicevano che rassomigliavo ad uno spirito dei boschi, con gli occhi grandi e le orecchie a punta.
Mentre il vecchio druido conversava con mio padre io sgusciai fuori dal letto e mi precipitai nella stanza.
"Padre" piagnucolai "Ho paura!"
"Di cosa, Myrddin? Non c'è nessun pericolo qui, torna a dormire!" sbottò burbero lui. Maeldun, invece, socchiuse gli occhi e mi chiese che cosa avessi sognato di così spaventoso da farmi tremare.
"Ho sognato una solida torre che crollava, i massi che si spezzavano in due e la terra che tremava. C'erano degli uomini che tentavano di ricostruirla, ma ogni volta il suolo tremava più forte e la torre cadeva miseramente a terra. C'era una grotta nel terreno e io mi sono sentito chiamare: sono entrato in una caverna che scendeva sempre più giù, era buio e... E freddo. Poi ho sentito un calore fortissimo e li ho visti: due draghi enormi, così grandi che la grotta non riusciva a contenerli tutti e perciò sbattevano le ali e le code contro la pietra, facendola tremare. Erano avvinghiati e lottavano, lacerando con i denti e con gli artigli l'uno la carne dell'altro..."
Mio padre mi fissò scettico e arrabbiato, ma Maeldun sorrise e il giorno dopo, quando giunse per lui il momento di ripartire, mi prese con sé.
Diceva sempre che aveva visto un grande futuro per me, che avrei ricoperto un ruolo importante nella salvezza della mia terra: per questo mi insegnò tutto ciò che gli antichi avevano custodito gelosamente per secoli, prima dell'avvento del Cristianesimo. Passai gli anni della mia infanzia e prima gioventù tra i boschi e i monti della Britannia, esplorando quest'isola dalla Caledonia al Vallo di Adriano, da Londinium fino alle scogliere occidentali e ancora più in là, oltre il mare, fino all'isola di Erinn**; ascoltavo avidamente ogni parola di Maeldun, mandando a memoria tutte le profezie che la sera mi ripeteva a mo' di cantilena.
Fra queste amavo di più quella che narrava del seme che proveniva da Oriente e che avrebbe messo radici in Britannia, donando nuovi fiori e frutti ad una terra devastata: aspettavo con ansia il momento in cui i nostri clan, perennemente in guerra tra loro, si sarebbero uniti in un nuovo popolo in cui sarebbero confluiti l'antico orgoglio celtico e la grande eredità romana.
Ma con il passare del tempo, mentre la mia mente veniva istruita per un nobile compito, anche il mio carattere si forgiava: ho imparato ad evitare la compagnia degli altri uomini, a guardarli da lontano e quasi con disprezzo e quando Maeldun venne a mancare il mio cinismo iniziò a crescere senza più freni. Sono molto arrogante, lo ammetto, e so per certo che un giorno questo mio difetto sarà la causa della mia rovina.
Il rispetto e il timore di cui sono oggetto presso tutti i popoli della Britannia mi riempiva di orgoglio e di superiorità e quasi mi infastidiva dover dividere del tempo con i miei simili. Cosa ne sapevano loro, di come leggere il futuro nelle stelle? O di come funzionava un Cerchio di Pietre? O ancora, di come capire il linguaggio segreto degli animali?
Sembravo aver dimenticato che anche io ero un mortale e che per quanto la mia conoscenza fosse vasta un giorno avrei chiuso gli occhi per sempre e dopo di me non sarebbe rimasto più nessun Druido. Ma per mia fortuna, incontrai l'unica persona in grado di cambiarmi.
 
Avevo da poco compiuto vent'anni e avevo seppellito il mio maestro due inverni prima; ero in attesa del bambino della profezia, ma per quanto girassi la Britannia in ogni dove e raccogliessi informazioni da ogni porto, nulla di strano sembrava accadere. Mi trovavo nella regione della tribù dei Dumnui ed ero alla ricerca di una fonte a cui abbeverarmi: una torrenziale pioggia estiva mi aveva confinato per due giorni in una grotta e morivo di fame e di sete.
Fu allora che la vidi: una ragazzina ancora acerba ma dal corpo flessuoso e snello stava nuotando pigramente in un lago. Non mi notò subito ed io ebbi tutto il tempo di rimanere ammaliato dalla sua figura: aveva una pelle candida che riluceva sotto il sole di mezzogiorno e dei fluenti boccoli castano-ramati. Quando poi si accorse della mia presenza e fissò il suo sguardo su di me, lanciando un grido scandalizzato, potei osservare anche il suo volto: lineamenti fini, labbra sottili e due occhi blu dalla forma allungata. Non era bella nel senso comune del termine, perché c'era qualcosa di leggermente imperfetto nel suo viso - come una nota discorde all'interno di un'armonia - che avvolgeva i suoi tratti con una patina di mistero.
Sguazzò fino a riva e si coprì il corpo con la veste, continuando a fissarmi con sguardo accusatore mentre si strizzava i capelli:
-Cosa ci fai ancora qui?- sbottò arrabbiata. -Dicevano che tu fossi un grande sapiente, ma nessuno mi aveva ancora raccontato di quanto ti diverti nello spiare le fanciulle come un folletto dispettoso, Myrddin Emrys!-
-Sai chi sono?- chiesi sorpreso.
-Certo che so chi sei!- replicò la ragazza, raccogliendo un cesto di more che aveva poggiato accanto ai vestiti e incamminandosi verso il suo villaggio.
-Come hai fatto a capirlo?-
Lei mi lanciò un'occhiata da sopra la spalla:
-Farsi tatuare le braccia con i simboli di tutti i clan della Britannia è usanza degli antichi druidi... E tutti sanno che l'ultimo druido rimasto è il figlio di Maeldun, cioè tu.-
-Sei una ragazza acuta.-
-Me l'hanno detto in molti, ma nessuno l'ha mai considerato un complimento!-
-Perché?- domandai, confuso e attratto dalle sue risposte argute e veloci.
La sconosciuta alzò le spalle e si voltò verso di me:
-Perché così è più difficile trovarmi un marito, credo. Ora vattene, non posso entrare nel villaggio insieme ad un uomo!-
Fui attraversato dall'assurdo pensiero di non ascoltarla, afferrarla per un braccio ed entrare con lei nel cerchio di capanne poco distante, per renderla mia. L'avrei portata con me e... Chinai il capo e con un ultimo sorriso beffardo mi inoltrai nel bosco.
 
-Siamo onorati della tua presenza nella nostra casa, Myrddin Emrys. Questi sono i miei figli, Kenneth, Lochlann e Gawain. Ah e lei è mia figlia, Vivienne.-
Quando il suo sguardo si posò su di me le sue guance si colorarono di rosso e i suoi occhi si fissarono sulla punta dei suoi stivali. Io ghignai: sapevo bene che l'avrei trovata lì, mi ero informato. Avevo chiesto ospitalità al fabbro proprio per questo motivo.
Vivienne ci servì la cena e per tutta la durata del pasto, oltre a conversare dei romani e dei barbari che scendevano da Nord con suo padre, le lanciai certe occhiate che avrebbero fatto vergognare anche una donna matura ed esperta.
-Grazie, Nimue.- mormorai ad un certo punto, sfiorandole il polso. Vivienne mi guardò senza capire. Avevo puntato sulla sua curiosità, perciò quando lei mi venne a cercare, mentre ero disteso nell'erba dell'orto, non potei trattenere un sorriso.
-Cosa significa?-
-Non so di cosa tu stia parlando.- replicai con noncuranza. La ragazza si sedette accanto a me e mi fissò di sbieco.
-Quella parola... Quel nome, con cui mi hai chiamato prima, che cosa significa?-
-Nimue. Ovvero, "madre di tutte le acque" in una lingua che si parla molto lontano da qui...-
-Sai davvero molte cose!- esclamò lei, estasiata. Gli occhi brillavano di una luce quasi infantile che la faceva sembrare ancora più piccola.
-Ti ringrazio. Ti piacerebbe impararle?-
Per un attimo sembrò tentata di rispondere affermativamente, poi la sua espressione si rabbuiò e lei si alzò in piedi:
-Non posso!- mormorò sbrigativamente, senza guardarmi e cercando di allontanarsi. Ma io fui più veloce: con un balzo la raggiunsi e la strinsi contro di me. Sapeva di legno e di fumo, un profumo rassicurante che non avevo mai incontrato: ancora non sapevo che mi avrebbe causato assuefazione.
-Perché?- soffiai nel suo orecchio e mi compiacqui di sentirla rabbrividire. Vivienne mi fissò negli occhi con serietà.
-Perché sono una donna, Myrddin Emrys. E perché un giorno tu sparirai di nuovo, lasciandomi indietro.-
 
Vivienne aveva ragione: scosso da quella frase, pronunciata con amarezza e un pizzico di astio, il giorno dopo ripartii senza neanche salutarla. Ma nonostante avessi ripreso la mia ricerca, il mio pensiero era costantemente fisso sul ricordo del suo viso, della sua voce, del suo profumo...
Tornai in quella zona esattamente un anno dopo e di nuovo chiesi ospitalità al fabbro.
-Dov'è tua figlia?- chiesi, notando la casa silenziosa. Il sangue scorreva tumultuoso nelle mie vene e non potevo nascondere a me stesso che l'eventualità che si fosse sposata - fino ad allora neanche presa in considerazione - mi creava un opprimente sensazione di angoscia. Il fatto è che dalla prima volta in cui l'avevo vista avevo compreso quanto io e lei fossimo affini: ci appartenevamo, lei era mia e sebbene non l'avessi mai reclamata come tale nessun uomo aveva il diritto di toccarla.
-Nel bosco, a raccogliere erbe- rispose l'uomo, fissando con curiosità il mio repentino cambio di espressione -Sai, Vivienne è un'esperta conoscitrice di piante e coglie ogni occasione per andarle a cercare...-
Mi liberai della sua compagnia con una scusa e mi inoltrai nella foresta, correndo a perdifiato: proprio come immaginavo, lei era lì, sulla sponda del lago. Non si stava facendo un bagno, come l'anno prima, ma riposava, con il capo reclinato all'indietro per cogliere ogni barbaglio dei raggi solari.
-Ben trovata, Nimue.-
La ragazza sobbalzò e mi guardò con occhi sgranati.
-Tu... Sei tornato!-
Annuii, non sapendo bene cosa avrei dovuto fare: io, il grande Myrddin Emrys, l'ultimo Druido, sulle cui spalle si reggeva la sorte della Britannia intera... Ero muto e umile di fronte ad una donna per la prima volta nella mia vita. Vivienne era cresciuta in altezza e le sue curve si erano fatte più piene; il volto aveva perso ogni traccia dell'infanzia e gli occhi che mi osservavano speranzosi erano l'unico dettaglio che rivelava la sua età. Era, se possibile, ancora più bella e desiderabile di quando l'avevo vista nuda.
Fece un passo verso di me, titubante, e quello fu il segnale: le fui addosso in un attimo e con così tanto slancio che rotolammo per terra. Le accarezzai la guancia con dolcezza prima di baciarla: lei chiuse gli occhi e si lasciò guidare da me, anche quando le mie mani iniziarono lentamente a spogliarla e a spingerla verso l'acqua.
-Myrddin...- mormorò rabbrividendo -Cosa stiamo facendo?-
-Non lo so!- esclamai, esaminando vorace ogni lembo della sua pelle -So solo che da quando ti ho incontrata in questo luogo, la scorsa estate, non sono riuscito a liberarmi dal pensiero di te... Della tua mente, della tua voce... Del tuo corpo...-
Vivienne si abbandonò tra le mie braccia, poggiando il capo sulla mia spalla e lasciandosi cullare dalla placida corrente del lago.
 
Passarono  tre anni da quella sera sul lago e le mie visite presso la tribù dei Dumnui si erano fatte più frequenti. Il padre di Vivienne, che comprende molto più di quanto non dia a vedere - probabilmente la sua fresca intelligenza la mia donna l'ha presa da lui - un giorno mi chiamò nella sua fucina. Mi accolse sporco di fuliggine e sudato, con un'espressione seria dipinta sul volto.
-Non voglio sapere ciò che tu e mia figlia fate quando scappate nel bosco, o meglio, farò finta di non vedere: Dio solo sa quanto ho penato con lei, dopo la morte di sua madre!-
Rimasi spiazzato, perché quello non era certo il discorso che mi aspettavo nel caso in cui la nostra relazione fosse stata scoperta.
-Perché Vivienne, Myrddin?- chiese sospirando, lavandosi le mani.
-Perché... Perché è la donna più acuta che io abbia mai incontrato, l'unica in grado di gareggiare con me. E poi, perché mi rende una persona migliore.-
Lui annuì:
-Vivienne mi ha accennato che sei alla ricerca di un condottiero... Che è questo il motivo per cui ancora non l'hai chiesta in moglie.-
Avevo giurato sulla tomba di Maeldun che non mi sarei fermato finché il seme d'Occidente non avesse messo radici in Britannia e sapevo che se avessi sposato Vivienne non avrei avuto la forza di continuare la mia ricerca.
-Vieni, allora, ti voglio mostrare una cosa.-
Era la sua ultima creazione: una spada lunga e lucente, affilatissima. Sulla base della lama erano state incise rune beneauguranti, mentre l'elsa era sottile e maneggevole.
-E' molto bella.- commentai, esaminando affascinato quello strumento di morte.
-Il suo nome è Excalibur. Vedi, Myrddin, io amo mia figlia più di ogni altra cosa, e non posso permettere che sia legata ad un uomo che va e viene col vento di primavera. Perciò hai davanti a te due scelte: o la porti con te ora, o la tornerai a prendere quando l'eroe che attendi sarà giunto e avrà bisogno di un'arma degna di questo nome...-
 
P.O.V. Vivienne
Quando seppi che Myrddin aveva scelto la profezia invece che me soffrii, ma non ne fui sorpresa: non era solo un uomo, era prima di tutto un druido dedito al suo compito. Non lo vedevo da molto tempo ormai e la mia vita si era adagiata sui ritmi stagionali: quasi nessuno veniva a chiedermi in sposa, in parte perché le voci delle mie avventure nel bosco si spargevano in fretta, in parte a causa dei miei netti rifiuti. Perché io non ho mai smesso di sperare in Myrddin e nella sua profezia, e un paio di giorni fa le mie preghiere sono state ascoltate.
Poche righe, consegnate da un mercante di passaggio, che ho letto a fatica grazie alle lezioni di Myrddin, sono state sufficienti per ravvivare la speranza:
 
Il seme è stato piantato e voglio vederlo germogliare insieme a te. Sto venendo a prenderti Nimue, mia dama del lago.
 
 
 
* nome di un antico eroe irlandese.
** nome utilizzato nella poesia inglese per riferirsi all'Irlanda e che deriva dal gaelico Erìu, divinità che aiutò i gaelici a conquistare l'isola.
 
 
Angolo Autrice:
Ho scritto questa storia di getto in un pomeriggio, ed è uscita molto più lunga di quanto pensassi all'inizio, anche per il fatto che è un calderone di molte leggende legate al ciclo arturiano.... A questo proposito, le note storiche, quasi le ultime! :(
Ho deciso di inserire in questa OS, che è l'ultima della raccolta, tutto quello che si ricollega a Merlino e che risulti il più verosimile possibile al periodo storico:
 
1) La tribù dei Dumnui (si trova anche sulla cartina che ho postato in uno dei capitoli di Hereditas) è un popolo che viveva nella parte sud-occidentale della Britannia.
 
2) La prima leggenda che parla di Merlino racconta che il mago, giovanissimo, fu chiamato dal re Vortigern a spiegare come mai la torre che voleva costruire su una collina crollasse ripetutamente. I draghi profetizzati si riferiscono alle due popolazioni dei Sassoni e dei Bretoni, che nei primi secoli del medioevo si contesero la Britannia... Passatemi i 500 anni di anticipo :P
 
3) I druidi in realtà sopravvissero, nella regione delle Fiandre, fino al VII secolo, prima di essere perseguitati e dispersi dai cristiani.
 
4) La Dama del Lago è una figura controversa del ciclo arturiano: alcuni la identificano addirittura con la fata Morgana! I nomi che ho proposto qui (aggiustando la storia, ovviamente) sono i due più comuni: Nimue è la storpiatura del greco Memnosune, Musa della poesia e della memoria, madre delle ninfe delle acque; Vivienne deriva invece da Coventina, che è un'antica dea celtica dell'acqua, e che può riferirsi anche ad una moglie di Merlino, Gwendoloena, presente nella letteratura poetica più antica.
 
5) L'etimologia di Excalibur si può ricondurre o al latino o al sassone; farebbe riferimento ad una popolazione (i Calibi), forgiatori della spada, o al calibro, cioè al suo perfetto equilibrio, o ancora deriverebbe da Caliburn, che significa "acciaio lucente" o "acciaio indistruttibile". Nonostante l'idea mi tentasse parecchio, non ho seguito la leggenda secondo la quale Excalibur sarebbe la mitica spada di Giulio Cesare.
 
Che dire? Ci avviciniamo alla fine della storia e sono veramente felice di essere arrivata a questo punto con voi lettori! Vi lascio con l'immagine che ho scelto per la "mia" Vivienne, spero che vi piaccia.
A presto
 
Crilu 


 

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