The Sludgekicker di Rory Moore (/viewuser.php?uid=943112)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** .Capitolo I ***
Capitolo 2: *** .Capitolo II ***
Capitolo 3: *** .Capitolo III ***
Capitolo 4: *** 4. Capitolo IV ***
Capitolo 1 *** .Capitolo I ***
Capitolo
uno.
Il problema principale
dei venditori porta a porta è che non sanno quando desistere.
Aprii
la porta in canottiera, pantaloncini e con un turbante avvolto sulla
testa.
Erano le sette del mattino e mi ero alzata da venti minuti,
gli occhi erano gonfi e i riflessi addormentati; quindi, quando vidi
i folti baffi a manubrio del signor Bonelli, attaccati alla faccia
del signor Bonelli, con la cravatta a motivi d'ancora che spuntava
fuori dal collo tozzo del signor Bonelli, nonostante tutti questi
segnali d'allarme rosso, ci misi venti secondi di silenzio stupito e
sguardo vacuo a realizzare.
“Oh,
Gesù Cristo! Ancora tu!”
Ecco, qui realizzai.
Chiusi di
scatto la porta del mio appartamento, ma il piede di Bonelli, calzato
di mocassini di pelle, si infilò veloce nell'apertura. Non per
questo desistetti: spinsi la porta con ancora più forza, fanculo
Bonelli e al diavolo il suo piede.
“Solo
un secondo Rebecca! Dammi un minuto, fidati di me...” supplicò,
attraverso lo spiraglio di cinque centimetri. Dovevo far installare
una telecamera di sorveglianza, sciocca io. “E mi stai rompendo il
piede, accidenti a te!”
“Mai! Esci dalla mia proprietà!
Ma chi ti ha fatto entrare?”
“Dai, Becca, solo un
secondo!” Il doppiomento gli tremolava dallo sforzo che stava
impiegando per salvarsi il piede. Furono due minuti di dura lotta,
pieni di ringhi, imprecazioni e reciproche maledizioni.
Ero
pienamente cosciente che dare il permesso a Enrico Bonelli di entrare
nella propria abitazione era come dare il via libera a un vampiro;
dopo entra quando vuole, come se fosse casa sua; devi chiamare
l'esorcista per scacciarlo; sedimenta la sua oscura presenza sul
divano del salotto e ti succhia tutto il sangue che hai (beh, nel
caso di Bonelli ti succhia tutta la liquidità dal conto in
banca).
Ma
era un lunedì mattina, avevo dormito solo tre ore la notte prima.
Fui una debole. Mi arresi.
“Alle
sette e mezza ti voglio fuori da qui, hai capito? F-u-o-r-i!”
“Ma
certo, Becca, tranquilla.” Bonelli si era ringalluzzito. Mi fece
persino l'occhiolino.
Mi
spostai di lato e lo lasciai entrare nel salotto, che faceva anche da
studio, ufficio, cucina e camera da letto. Bonelli scavalcò i pacchi
di cosmetici comprati da Ebay e la montagnetta di vestiti da lavare.
Si
sedette sul divano, accanto al mio gatto Beril che lo guardò con
disappunto agitando la coda: il signor Bonelli ricambiò lo sguardo,
chiaramente in soggezione.
“Ehm,
ok. Allora...” Poggiò sul tavolo la sua valigia di pelle, la aprì
e ne estrasse un Remington 1100. “Ta-daaa!” fece, mostrandomi il
fucile automatico come se fosse l'ottava meraviglia del mondo.
“E
allora?”
“Come
e
allora?
Hai visto che chicca? È difficile importarli dall'America e guarda
splendore che è! Oh, signorina, non puoi permetterti di fare quella
faccia da superiore, tu che giri con quel cesso a pedali
dell'11-87!”
“Enrico,
come ti ho detto più e più volte: non mi serve un aggiornamento
delle armi da fuoco.” E non ho soldi per permettermelo, aggiunsi
mentalmente.
“Guarda,
si può avere anche calibro dieci! Che te ne pare? Con quello non c'è
bisogno staccare la testa ai Diaboli, gliela polverizzi direttamente.
E poi ho qui diversi cataloghi, eh, puoi darci un'
occhiata...”
“No.”
Ripescai il phon dall'armadietto del bagno, lo attaccai in sala e lo
accesi, nella speranza di coprire la voce di Bonelli.
“Tipo
questa Beretta Stoeger Cougar, una cosa piccola, occultabile,
pratica. Te la puoi portare nei bar, alle mostre, in vacanza! Nelle
discoteche!” E mi rivolse un sorrisetto stronzissimo.
Discoteche.
A quanto pare le voci a Milano girano più veloci che nel mio paese
natale, dove la popolazione media è composta da trenta anziani e
venti pecore.
“Lascia
qui il catalogo di quest'anno, ci darò un'occhiata” gli dissi,
mentendo spudoratamente.
Ma
Bonelli la sapeva più lunga. Tirò dei fogli fuori dalla valigia e
li poggiò sul tavolo.
“Questi
sono i moduli per l'ordine, cara. Passo giovedì mattina, che ne
dici? Così hai tutto il tempo di riflettere e fare la scelta
giusta.” Avrei tanto voluto rifilargli un pugno per togliergli quel
sorriso falso da televendita dalla faccia.
“Mh-h.”
Mormorai con scarso interesse. Piegai la testa in avanti, per
asciugarmi la nuca.
“È una promessa?” chiese Bonelli,
provando a fare il vago. Come se cascassi in queste trappole da due
soldi!
“Non sono così scema da fare promesse a quelli delle tua
specie, ci tengo ai miei occhi. Dai, Enrico, togliti dalle palle.”
Staccai
il phon e lo rimisi nell'armadietto. Lo specchio del bagno mi rimandò
l'immagine di una scocciatissima me stessa, dai vaporosi capelli
rossi. Tornai in salotto, dove Bonelli era ancora insediato sul
divano, la bocca aperta per ribattere. Rimase come interdetto
vedendomi; qualcosa nella mia espressione lo convinse a mollare
l'osso.
Con
una mano gli presi un braccio, con l'altra la valigia e lo
accompagnai all'uscita.
“Allora
ci sentiamo per giovedì, Becca.”
Con entusiasmo buttai fuori lui e
il bagaglio.
“Sì, sì, certo!” borbottai.
Gli
chiusi la porta in faccia. Nella mia mente partì l'Alleluja come
colonna sonora della liberazione.
Djinn
che fanno i venditori porta a porta, pensai.
Che piaga.
Andai
in cucina, ovvero il piccolo piano cottura che occupava un lato della
stanza. Aprii il contenitore del caffè e caricai il filtro della
caffettiera. Gli occhi mi bruciavano dal poco sonno. Era stata una
notte davvero orribile.
Nel
frattempo Beril aveva preso il catalogo lucido di Bonelli e lo stava
sfogliando con una zampa, comodo sul divano.
“Sai
che la 92FS non è male? Mio zio la usava, gran bella pistola...”
disse, pensieroso.
“I
soldi me li dai tu? Mi paghi in scatolette Royal Canin?”
“Ah-ah-ah.”
Mi guardò come se fossi una deficiente, cosa che a un gatto riesce
particolarmente bene.
La
caffettiera fischiò; ne riempii due tazzine, spingendone una verso
Beril, che era saltato sul tavolo della cucina.
“Becca,
in ogni caso...dopo che ieri sera ti hanno fuso la Colt, non puoi
andare in giro scoperta.”
“No'
me 'anno phusa.” protestai, con la bocca piena di Pan di Stelle.
Presi da sotto il mucchio di vestiti sporchi quel che rimaneva della
mia vecchia Colt e la lanciai sul tavolo, dove rimbalzò con un sordo
rumore metallico alle zampe di Beril.
La
mia pistola aveva visto giorni migliori: impugnatura e caricatore
erano intatti ma a metà la canna si torceva e piegava su se
stessa.
“Funzionale,
direi...ma guardiamo il lato positivo: data la mira che hai magari
con la canna storta riesci a beccare qualcuno” disse Beril, con la
voce piena di secco sarcasmo.
L'avrei
strozzato. Infilai la mano nel bicchiere d'acqua che stavo bevendo e
gliela scrollai sul muso. Numerose gocce d'acqua gli andarono sul
pelo e negli occhi. Beril mi mostrò i denti, soffiando; scappò e si
mise al riparo sul divano, guardandomi malevolo da dietro un cuscino.
“E
comunque, con la mia mira schifosa, ieri ne ho beccati tre su tre”
ribattei, piccata.
Ok,
la mia mira non era delle migliori, ma non stavo mentendo:
la
notte prima avevo preso tre Inferi, tutti al primo colpo, ed era
anche in un vicolo scarsamente illuminato. Certo, avrei dovuto
sparargli in mezzo agli occhi per ucciderli definitivamente, invece
ne avevo colpito uno all'addome, il secondo alla spalla e il terzo
al...beh, il terzo era stato il più sfortunato.
Avevano
preso sul personale il mio tentativo di farli fuori
e fu la mia fedele Colt a pagarne il prezzo.
Ma
alla fine sono riuscita a eliminarli lo stesso, pistola o meno!,
pensai offesa, mentre mi vestivo. E
sono anche stata dentro i contorni del bersaglio, come insegnano al
poligono!
Mi misi le scarpe, due
anfibi neri con la punta rinforzata.
“Vado
da Camlo, mi ha scritto per del lavoro” annunciai, mentre ripescavo
le chiavi di casa dal fondo della borsa. “Non vomitare peli in
giro, lascia stare la mia collezioni di vinili e,
percaritàdiddioBeril,
cerca
di farla in quella diavolo di lettiera!”
Beril
soffiò e mi diede la schiena, frustando l'aria con la coda gonfia
per il disappunto.
Il mio gatto si imbarazzava e diventava
suscettibile all'argomento lettiera. Mentre chiudevo la porta pensai
che Beril, quando era umano, doveva essere stato uno di quei
fastidiosi uomini che non riuscivano a centrare la tavoletta del
water.
****
Dopo
un viaggio in metropolitana schiacciata come una sardina, in cui dove
dovetti guadagnarmi l'uscita a suon di borsettate, scesi a Porta
Romana.
Stava cominciando a piovere: sottili aghi d'acqua
cadevano, all'inizio sparsi, poi sempre più fitti. Mentre correvo,
con la borsa sulla testa, maledii interi pantheon di divinità:
sentivo i capelli gonfiarsi ai lati della faccia, ispidi come vello
di pecora.
Dopo cinque minuti fatti di slalom tra pozzanghere,
in cui avevo rischiato di essere tirata sotto a un incrocio da sciura
ingioiellata in BMW, ero arrivata alla via parallela dove si trovava
il bar di Camlo.
Appena misi piede in Via delle Sirene, fu come se
qualcuno avesse abbassato di colpo il volume di uno stereo: la
strada principale era un viavai di persone e macchine, ma in quella
vietta non c'era nessuno. I rumori
provenienti dai quartieri circostanti sembravano attutiti e lontani,
come se mi trovassi sottoacqua.
Due
palazzi coperti di edera, in stile liberty, si stagliavano a metà
della via. Erano color viola prugna, con i dettagli del cancello e
delle finestre d'oro scintillante. I frontoni erano decorati con
disegni dei segni zodiacali e della mappa celeste; in mezzo ai tipici
condomini milanesi, squadrati e grigi, erano due pugni negli occhi.
D'altronde Camlo e la sua famiglia non erano mai stati dei
minimalisti del buongusto: l'estate di due anni prima avevo visto la
loro carovana, piena di luci al led e con una jacuzzi sul tetto.
Scostai
una fitta tenda d'edera a destra del cancello del palazzo numero
tredici, per scoprire una porticina nera con intagliata nel legno la
scritta “Bar Alafair”. La aprii; il chiacchericcio di numerose
voci risuonò nel corridoio, buio e stretto, che faceva da
anticamera. Avevo i piedi gelati. Decisi che potevo sbattermene
dell'etichetta: mi tolsi le scarpe sporche di fango, gettandole sulla
moquette. Spalancai un'altra porta, decorata con vetri colorati che
raffiguravano due sfingi speculari, ed entrai in una grande sala
circolare dalle alte e strette finestre.
Al
centro c'era un gigantesco albero dorato: dalle fronde attaccate al
soffitto pendevano numerose mele cave, con al loro interno lampadine
scintillanti. Attorno all'albero c'era il bancone circolare dove
stavano i baristi, con numerosi avventori seduti sulle sedie a forma
di foglia. Individuai subito la figura alta e scura di Camlo, intento
a spillare una birra per un uomo in smoking verde.
Gli
feci un fischio, sbracciandomi. Camlo si girò -insieme a molte altre
persone- e mi salutò alzando la mano. Indicò la porta a sinistra
dell'entrata e scandì silenzioso con la bocca “U-ffi-cio”.
Ero
già stata più volte nella stanza piccola e quadrata, piena di
archivi e cactus, che era lo studio di Camlo. Mi richiusi la porta
alle spalle.
Davanti alla scrivania, intrappolato alla sedia
da manette e un pentacolo protettivo, c'era un diavolo vestito con un
impermeabile di gomma che piagnucolava.
Note
di Rory:
Ciao a tutti! Questa è una storia urban fantasy che mi frullava
in testa da un po'. Mi sto divertendo tantissimo a scriverla e spero
che divertirà anche a voi leggerla <3
A fine Marzo partirò
per la Corea del Sud e ci starò un mese, quindi assicuro
aggiornamenti regolari solo da Maggio in poi.
Un grazie di cuore a
erzsi
che
mi ha betato il primo capitolo *-*
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Capitolo 2 *** .Capitolo II ***
.Capitolo
due.
Davanti
alla scrivania, intrappolato alla sedia da manette e un pentacolo
protettivo, c'era un diavolo vestito con un impermeabile di gomma che
piagnucolava.
Era
un spettacolo piuttosto patetico: del muco gli colava dal rosso naso
aquilino e aveva la faccia rattrappita dal pianto.
Mi sedetti
accanto a lui. Nella finestra dietro la scrivania vedevo il mio
riflesso: avevo la stessa espressione schifata che riservavo alla
lettiera di Beril, quando era troppo colma per essere ignorata.
-Hai
la faccia di uno che ha succhiato un carretto di limoni- dissi.
Non
doveva essersi accorto di me, perché alzò la testa di scatto
lanciando uno strillo acuto. Cadde all'indietro e urtò con la
schiena contro la parete invisibile del pentacolo protettivo. Ci fu
uno sfrigolio, come quando si butta una bistecca su una griglia
bollente, poi nell'aria si levò una sfilza di blasfemie miste
all'odore di gomma bruciata.
-Che sta succedendo?- Camlo era
entrato nella stanza. Reggeva in una mano quello che sembrava un
antico vaso da notte in creta.
-Lo dovrei chiedere io! Tu chi
cazzo sei?- mi urlò in faccia il diavolo, mentre tentava di spegnere
le fiamme dell'impermeabile a forza di manate. Notai che sotto era
completamente nudo.
Volevo
dargli una risposta che gli facesse capire con chi aveva a che fare:
io quelli della stirpe di Lilith li odiavo, li combattevo con
ferocia. Volevo che mi temesse, che la mia presenza instillasse in
lui un terrore mai provato. La mia vita era consacrata già prima
della mia nascita alla lotta contro i diabolici depravati, e lui
doveva saperlo.
Volevo
una frase ad effetto, ecco.
-Io
di lavoro stacco la testa a quelli come te- dissi, abbassando la voce
per darmi un tono. Corrugai anche la fronte. Misi la mano sotto il
mento, in posa.
E,
con mio grande disappunto, nessuno in quella stanza sembrava colpito
o terrorizzato.
Camlo
fu il primo a interrompere il silenzio.
-Rebecca,
ho scoperto una perdita.- disse in tono pratico, sedendosi dietro
alla scrivania. Tirò fuori da un cassetto un foglio arrotolato. Lo
aprì e dispiegò davanti a me: era una piantina disegnata in
inchiostro viola di quelli che sembravano sotterranei.
Camlo
indicò con una macchia, rossa e vibrante, nella parte sinistra del
foglio. Forse era un'allucinazione, ma pulsava come un organo
sinistro. -Si è aperta ieri nelle catacombe. Mezzanotte all'incirca,
non ti ho potuta avvisare.-
Avvicinai
il naso al foglio per osservarla meglio. Non era un scherzo dei miei
occhi: si muoveva davvero, i contorni che si espandevano e
restringevano simili a onde del mare.
La carta del foglio puzzava
di zolfo, lavanda e salvia officinalis. L'odore della magia mi
punzecchiò le narici di un fastidioso prurito.
Girai la testa e
starnutii in faccia al diavolo.
-Vaffanculo,
bitch.-
Bene, abbiamo anche il
diavolo cosmopolita.
-Scusa, non l’ho fatto apposta- dissi, per
metà mentendo e per metà no. Il diavolo si strofinò la faccia con
manica del cappotto. Mi indirizzò così tante maledizioni in lingue
sconosciute che il portapenne di Camlo cominciò a vibrare contro il
legno della scrivania.
-Dicevo...-
disse
Camlo seccato, stringendo con la mano il portapenne per tenerlo
fermo. -È aperta da meno di dodici ore, ma più tempo passa più
potrebbe generare guai. Vai a chiuderla oggi. Io l'ho esaminata
stanotte, a distanza di sicurezza: è sotto l'ospedale San Raffaele.
Se non lo fai saltare in aria come il club di ieri sera è meglio.
Sai, non vorrei che associarmi a te mi rovinasse la reputazione. -
Colpo
basso. Non me lo meritavo.
Camlo
era uno stronzo. Non per niente era aveva una dominante scorpionica
nel suo tema natale.
-Aspetta!
Allora sei tu quella che ha dato fuoco al Dark Hole?
Seriamente?-
Il diavolo si era
sporto verso di me per osservarmi meglio, gli occhi gialli da serpe
sgranati a metà tra la sorpresa e la derisione. Due millimetri e
rischiava di bruciarsi anche il naso contro la barriera
protettiva.
-E tu come lo sai? L'hai letto su l'Oggi
Infernale?- Mi mossi a disagio sulla sedia. Ero arrabbiata ma, ancora
peggio, mi vergognavo.
-C'eri anche tu ieri e mi son dimenticata di farti la pelle?-
-Tranquilla,
forse tre o quattro persone in tutta Milano o nei nove cerchi
infernali non sanno ancora della tua avventura di ieri notte.-
Si
rilassò contro lo schienale della sedia, sghignazzando. Aveva la
faccia di uno così soddisfatto che si sarebbe fumato una sigaretta.
-Leggi-
disse Camlo, mentre mi spingeva un quotidiano piegato sotto il
naso.
In prima pagina il titolo
Attacco ieri al Black Hole! Uccisi tre turisti americani
lampeggiava in rosso. Sottotitolo:
Ancora nessuna rivendicazione dell'attentato da parte delle più note
cellule terroristiche.
“Col
cazzo Americani! A meno che l'imminente elezione di Drumpf non faccia
dell'America una succursale dell'inferno” pensai.
C'era
un mio identikit a pagina tre. Grazie a Dio non avevano azzeccato la
faccia: il naso troppo porcino, le labbra sottili invece che carnose,
uno sguardo vacuo alla Kate Moss ai tempi della droga. I capelli
rossi ricci erano notevoli, però.
Sbuffai, gettando il giornale
sulla scrivania. Questa era una seccatura: dovevo stare più attenta
ad andare in giro, soprattutto armata.
-Non
ho altri a cui chiedere se non a te.- Ero io o negli occhi neri di
Camlo c'era stato un guizzo di compassione? -James domani parte per
l'Irlanda per la nascita di suo nipote. O, almeno, questo è quello
che mi ha detto.-
James
era un mio collega. L'unico, per essere precisi, che operasse nel
raggio di centinaia di chilometri dalla mia zona, secondo il registro
del Vaticano.
Era un codardo di dimensioni bibliche e il peggior
partner che si potesse avere in una missione mortale. Ci avevo
lavorato insieme due volte e il resoconto delle nostre avventure lo
tiravo fuori alle cene di Natale, quando la conversazione pregava di
essere rallegrata.
Lo sopportavo solo perché mi prestava soldi
finanziando il mio problema di shopping compulsivo online, e perché
somigliava a Ron Weasley. Nella mia scala di priorità di fan di
Harry Potter, non puoi odiare per
davvero una persona che somiglia a
Ron Weasley. È immorale.
-Che peccato! Una nascita così poco
opportuna!- Speravo si sentisse il mio sarcasmo. Mandai mentalmente a
quel paese sia James che le sue scuse patetiche. Ero sempre da sola
in situazioni potenzialmente pericolose come quella. Potevo contare
solo su di me, ed era una cosa per niente rassicurante.
-Mi
dispiace, Becca. In compenso...- Camlo indicò il diavolo seduto
accanto a me. -Tetigistus ti accompagnerà. È la miglior guida delle
catacombe che puoi sperare di trovare.-
Casino e proteste.
Odio e rivoluzione.
-Con questa tardona?- disse
Tetigistus.
-Ma col cazzo!- dissi io.
Ci
scambiammo occhiate malevole alla Mezzogiorno di Fuoco.
-Non
mi fido di lui- aggiunsi. Ed era vero. Andare nel buio e magia nera
delle catacombe con Tetigistus poteva significare un pugnale
conficcato tra le spalle e la gola tagliata. I diavoli non erano
famosi né per la morale, né per il loro amore per la
sottoscritta.
-Neanche
io, ovviamente- disse Camlo.
Prese
il simil pitale di creta e lo poggiò al centro della scrivania. Se a
prima vista mi era sembrato antico, mi dovetti ricredere vedendolo da
vicino: era prediluviano. Mille o duemila anni prima doveva essere
stato decorato da lucenti disegni in smalto, di cui rimanevano solo
rimasugli frammentati. Crepe rigavano tutta la superficie ovale, e mi
pareva un miracolo che un tale oggetto riuscisse anche solo ad
esistere.
Camlo
lo girò e ci mostrò il fondo: vi era disegnato il quadrato di
Rotas, in quello che sembrava essere sangue fresco.
-Ho
fatto in modo che tenerti in vita sia il suo principale interesse.
Fidati, se tu muori pregherà anche lui di fare la stessa
fine.- Camlo diede un paio di colpetti affettuosi al vaso, come a
rafforzare il concetto. Un rumore sepolcrale ne uscì ed echeggiò
per lo studio.
Tetigistus
si agitò sulla sedia, a disagio. -Sì, uh, ho recepito il messaggio.
Capo, metti via quella cosa, mi dà i brividi.-
Camlo
rimise il pitale sotto la scrivania.
Non avevo la più pallida
idea della natura delle precauzioni che Camlo aveva messo in atto;
ero sempre stata una sega,
definizione esatta data da Gabriele, il mio precettore romano di
Esoterismo, a percepire e identificare tracce di magia.
Camlo era
a momenti petulante e velenoso, crudele e vendicativo con i suoi
nemici, e non era di certo il tipo che avrei invitato a una festa,
data la sua totale assenza di senso dell'umorismo. Ma era
professionale e, all'incontrario di James, non aveva mai tradito la
parola data. Alla fine, forse mi sbagliavo: su qualcuno potevo
contare, oltre me stessa.
-Ok, parlami di questo varco-
dissi.
Mi appoggiai con i gomiti alla scrivania, in ascolto.
***
Nella
sala centrale del bar, in fondo a sinistra c'era una piccola
porticina scura. Aprendola ti ritrovavi a percorrere un corridoio
fatto di ampie vetrate in stile Art Noveau. Fiori di legno, sinuosi e
eleganti, sbocciavano dalle cornici delle finestre.
Da fuori
proveniva lo scrosciare di un fiume: girava attorno al Bar Alafair
come se l'acqua si fosse adattata all'edificio e non il contrario. I
prati ampi e verdi rilucevano di rugiada alla luce del sole.
In
lontananza c'era una foresta di pini. Le punte degli alberi
ondeggiarono e uno stormo di uccelli dalle ali viola ne uscì,
volando via.
Qualunque posto fosse, non era di certo Milano.
Alla
fine del corridoio, entrai nell'ufficio contabilità.
Grace
alzò la testa, seduta dietro la scrivania al centro della stanza,
tutta un sorriso smagliante e perfetti boccoli biondi.
-Rebecca!-
esclamò. Si alzò dalla sedia e venne ad abbracciarmi,
schiacciandomi le tette contro un lato della faccia. Amavo la
vita.
Camlo
gestiva il locale e aveva messo i soldi per costruirlo, ma era Grace
la proprietaria nominale del “Bar Alafair”: il sangue rom di
Camlo gli impediva di possedere terre e locali di qualsiasi
tipo.
Sospettavo da un annetto che i due scopassero, ma l'ultima
persona che aveva messo il naso negli affari di Camlo si era
ritrovata all'ospedale con un braccio in più che gli spuntava dalla
fronte, quindi avevo preferito la via della discrezione.
-Camlo
mi ha mandata qui per la paga di ieri. Ha detto che lo scorso lunedì,
con la fornitura di liquore, è arrivata una cassa di armi. Ieri ho
fatto fuori la mia Colt.-
-Certo, cara. Siediti pure, ci vorrà
un minuto.-
Mi sedetti su uno sgabello cremisi, guardandomi
attorno. La stanza era grande il doppio dello studio di Camlo e file
di archivi su archivi d'oro ricoprivano le pareti. Un candelabro di
cristallo blu pendeva dal soffitto.
Grace prese una mazzetta di
soldi dalla cassa sotto la scrivania e la mise nel conta banconote
d'oro. Con un rumore meccanico, che ricordava una macchina da cucire,
questo si accese. Le banconote venivano contate così velocemente che
si trasformavano in un arco arancio.
Grace
si alzò e si diresse verso un armadietto appeso al muro. Lo aprì:
c'erano diverse chiavi, alcune dalle forme e materiali stravaganti.
Una chiave si mosse e cercò di spiccare il volo con le sue gracili
ali da libellula, ma Grace con un ceffone la stordì. Penzolava
inerte, attaccata alla catenella, quando l'armadietto venne
richiuso.
-Ancora un secondo.- Grace uscì dalla stanza
sculettando sui tacchi, nella mano una semplice chiave Silca di
ferro.
Con un ronzio, il conta-monete si spense. La cassa era
ancora aperta, piena al suo interno di mazzette arancioni, verdi,
gialle e viola.
Non servivano telecamere o complessi sistemi di
sicurezza contro i ladri al Bar Alafair: ogni mattina, aperto il bar,
Camlo girava per i locali e rinnovava le sue protezioni. Se avessi
preso anche solo un centesimo, senza il consenso suo o di Grace, le
mie mani si sarebbero tramutate in sale.
Un cameriere che non lo
sapeva aveva cercato di fare il furbo, tre anni prima. Brutta
storia.
Grace
rientrò nella stanza con una custodia di violino tra le braccia.
Aveva in faccia un'espressione funerea.
-Scusami, Rebecca.
Davvero, scusa!- I suoi occhi azzurri erano tristi e si mordicchiò
le labbra rosse: il ritratto del dispiacere.
-Per cosa?-
-Io...
non l'ho chiesto a Camlo. Era un prestito per un amico, alla fine.-
Grace
poggiò ai miei piedi la custodia di violino. Sorrise
nervosamente.
-Ho solo questo: il Remington che è arrivato la
scorsa settimana l'ho dato a James. Lo conosci, ha la fobia degli
aerei e in treno deve passare dalla Francia per raggiungere la
Manica. Sai che lì ha molti nemici...-
Le avventure di James
con i vampiri della Sorbonne era uno degli episodi preferiti che
tiravo fuori alle feste.
Aprii
la custodia, speranzosa. Cosa poteva esserci di peggio di una Colt
con la canna piegata? Un moschetto a pallini? Un archibugio?
Poggiato
sul velluto nero c'era un fucile Bernardelli Hemingway, con la canna
mozza artigianale, un rinculo che ti disloca la spalla e una
precisione che facevo prima a mirare a destra del bersaglio per
colpirlo. Probabilmente era il fucile che Camlo usava per dare la
caccia ai conigli.
E io ci sarei dovuta andare nelle
catacombe.
Maledetto. James.
-Dai, va più che bene-
mentii, mentre lo esaminavo da vicino e ne valutavo il bilanciamento.
Dall'espressione, Grace non se la bevve.
Dovevo affrontare una
missione potenzialmente pericolosa per la mia vita, con come alleati
un fucile anti-diluviano e un diavolo nudista. L'inizio della
settimana prometteva bene.
NdA:
Scusate a tutti per il ritardo! Con la fine delle vacanze gli
aggiornamenti diverranno più frequenti :)
Ringrazio erzsi
che mi ha betato il capitolo e tutti quelli che hanno messo nei
seguiti/preferiti la storia!
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Capitolo 3 *** .Capitolo III ***
.Capitolo
tre.
Una
perdita è una lesione della trama tra i vari mondi. Sono numerose,
ma innocue: raramente son più grandi della punta di uno spillo e
spesso si aprono nell'atmosfera o nelle profondità marine. Quando
sono ampie possono combinare guai, tipo il mostro di Lochness o gli
aerei persi nel triangolo delle Bermuda, ma sono casi isolati.
Camlo
era esperto in geomanzia e teneva sotto controllo le perdite
nell'area, per individuare quelle pericolose collegate ai regni
infernali.
Quindi si può capire quanto chiudere un varco di
grandi dimensioni, passaggio da e per la Caina, fosse un compito
della massima priorità per un'esorcista come me.
Ma ancora
più importante era quel tarlo, quel sassolino fastidioso che si
rifiutava di uscire dalla scarpa.
-Adesso noi andiamo da H&M
e ti compri un paio di mutande.-
Tetigistus roteò gli
occhi.
-Quanto sei noiosa!-
Una vecchietta, seduta
davanti a noi, ridacchiò maliziosa. Ci aveva scambiati per una
coppietta litigiosa, Dio mio. Mi dovetti trattenere
dal
rovesciare gli occhi.
Feci una ricerca mentale del negozio H&M
più vicino, un'abilità di cui vado abbastanza orgogliosa acquisita
tramite anni di dipendenza da shopping e paralizzante povertà.
La
metro diminuì la velocità, fino a fermarsi. La voce femminile
elettronica annunciò
la
fermata: Turati. Ancora due.
Una ragazza delle superiori, con
la maglietta dei My Chemical Romance, lanciò un'occhiata di
soppiatto a Tetigistus. Era attaccata al corrimano accanto a dove lui
sedeva, e il suo non era stato uno sguardo alla che
schifo, un viscido demone che prende la metro!
ma
più un ammazza,
che figo fotonico!
Usciti
dal Bar Alafair, con la stessa facilità con cui le persone si
mettono una maglietta, Tetigistus aveva incantato il suo aspetto.
Su
un livello, era un eccentrico lavoratore umano, sulla ventina, che si
atteggiava come il peggio sborone: aveva messo le mani dietro la
testa e sedeva a gambe larghe con un piede, calzato di un mocassino
lucido nero, poggiato sul ginocchio. Ne muoveva la punta per seguire
il ritmo di una canzone che solo lui sentiva.
I capelli neri e
lisci erano legati in una coda, che lasciava intravedere le rasature
laterali. Tentai di valutare se da sciolti sarebbero stati più
lunghi dei miei. Al naso, fine e con una leggera gobba, aveva un
anello; anche le orecchie erano piene di piercing. Non si era dato la
briga di cambiarne la forma a punta. Gli occhi erano di blu vivo,
un'illusione ben fabbricata.
Era inutile che avesse incantato il
suo aspetto da demone per evitare di attirare l'attenzione, quando
poi il suo alter-ego umano indossava una suit da manager di un rosso
intenso dalla testa ai piedi. Quando stavamo aspettando la metro,
avevo l'impressione snervante di stare vicino a un cartellone
pubblicitario di Playboy.
Se
non ero brava a distinguere le tipologie di magia, avevo un vero e
proprio talento per vedere attraverso illusioni, glamour delle fate,
incantesimi di camuffamento.
Mi concentrai sulla figura di
Tetigistus, come se volessi metterla a fuoco, e spostai il punto di
vista. Il livello cambiava, come in quelle figurine animate che
trovavo da piccola nelle patatine: i lineamenti di Tetigistus
rimanevano gli stessi, ma la pelle diventava scarlatta come il sangue
e gli occhi gialli avevano la pupilla rettile. Tutto il corpo nudo
era pieno scarnificazioni, piercing e tatuaggi di sigilli. Tenni lo
sguardo ben sopra al suo ombelico.
L'impermeabile era
carbonizzato e Camlo non aveva trovato una giacca da darci; ma
conoscendo quanto era tirchio, probabilmente mi aveva mentito.
La
ragazza scese, non prima di essersi girata l'ultima volta verso
Tetigistus. Me la immaginai da sola, di notte magari, in un vicolo
con un diavolo. Rabbrividii.
Risuonò
nel brusio della metro Girls Girls Girls dei Motley Crue, facendomi
sussultare. Tirai fuori lo smartphone dalla tasca dei jeans.
Sullo
schermo lampeggiava a bianche lettere la parola Papà.
***
Tetigistus
scostò la tenda e uscì dal camerino. I boxer con la stampa di palme
su sfondo blu contrastavano con la sua pelle rossa.
Erano lunghi e lo coprivano dai fianchi alle ginocchia.
Niente più
piselli al vento! Un traguardo per la civiltà!
Ero
commossa.
Tetigistus si rimirò nello specchio. Schioccò le
labbra e si girò verso di me.
-Dici
che sono gli specchi di questo negozio che ingrassano?- Si accarezzò
la pancia piatta, valutandola, come una mamma in dolce attesa.
Una
signora di mezza età, con una bambina piccola appresso, uscì dal
camerino e squadrò Tetigistus dalla testa ai piedi. Con la faccia di
una persona che ha appena mangiato una mosca, prese la bambina per la
mano e uscirono alla svelta verso il corridoio della cassa.
Doveva
essere ben strano vedere un uomo indossare un paio di boxer sopra i
pantaloni di una suit. Oppure si era scandalizzata per i piercing da
drogato; la mente della vecchia generazione è un mistero per me.
Lo
smartphone squillò per l'ennesima volta. Continuai a fissare il
numero di mio padre che lampeggiava sullo schermo. Smise di suonare;
avevo lasciato cadere trentasette chiamate. L'insistenza era una
qualità di famiglia.
-Se
sento ancora una volta la voce di Vince Neil che canta quello stupido
ritornello, trasformerò questo negozio in un lago di sangue prima
che tu riesca a fermarmi- disse Tetigistus. Conoscendo la natura dei
diavoli, l'avrebbe potuto fare anche solo per puro dispetto. Il caos
è l'obiettivo.
Misi il telefono in modalità offline e un
orribile senso di colpa mi prese lo stomaco, come se avessi fatto una
cosa molto, molto brutta. Una frase aleggiava nell'aria e diceva “Sei
la solita inaffidabile, buona a nulla!” e la voce era quella di mio
padre. Mi sudavano i palmi delle mani con cui reggevo lo smartphone.
In
coda alla cassa, sentivo il mondo circostante distante, galleggiare
lontano da me.
Cosa potevo fare? Non pensavo di doverlo
affrontare così presto. Non ci avevo voluto pensare.
Come aveva
fatto a sapere del Black Hole? Camlo si passava informazioni con la
canonica di Roma; era stato lui a tradirmi?
Ci
separavano seicento chilometri, ma era come se non me ne fossi mai
andata da casa. Potevo quasi vederlo, mio padre, seduto dietro la sua
scrivania che mi fissava con disapprovazione; “Oh, Becca, hai dato
fuoco a un locale? Questo è un nuovo traguardo di inettitudine anche
per te” avrebbe detto, scuotendo il capo.
Volevo urlare dalla
frustrazione,
ma alla fine mi uscì solo uno sbuffo arrabbiato.
La signora
cinquantenne di prima si girò a guardarmi sdegnosamente. Prese la
busta con i suoi acquisti e se ne andò via, con la bambina che le
trotterellava dietro.
La commessa afferrò i boxer e li passò
sopra lo scanner del registratore di cassa.
-Sono nove euro e
novantanove centesimi, prego- disse, mentre toglieva la placca
antitaccheggio.
Tetigistus sgranò gli occhi e alzò
le mani ai lati della faccia.
-Ah! Io non ho niente. Dove li
mettevo i soldi, scusa?- mi chiese, innocente.
Un posto ce
l'avevo in mente.
A malavoglia tirai fuori il mio portafoglio.
Dentro scintillavano gli ottocento euro in pezzi da cinquanta che
Grace mi aveva dato per la taglia dei tre diavoli del Black Hole. Li
avrei dovuti usare per le rate arretrate dell'affitto e le bollette;
anche il frigo era vuoto. Senza sapere perché, afferrai due pacchi
di calzini negli espositori vicino alla cassa, un set di lucidalabbra
e passai tutto alla commessa.
-Anche questi, grazie- le
dissi.
Avevo trecentosei paia di calzini a casa,
letteralmente. Non avevo il benché minimo bisogno di comprarne
altri, ma la stampa a fiori di ciliegio era carina. Mi ricordava il
Giappone.
Li pagai e mi sentii subito meglio.
***
C'erano
tre vie, a detta di Camlo, per entrare nelle catacombe: un passaggio
segreto in San Bernardino delle Ossa, nella cripta della chiesa
dell'Annunciata e infine nella basilica di Sant'Ambrogio. Ce n'erano
probabilmente di più, aveva detto, ma queste tre erano le più note
e agibili, sopravvissute ai bombardamenti della guerra.
Dubitavo
che avrei potuto usare la prima, sempre presa d'assalto da gruppi di
turisti giapponesi. La chiesa dell'Annunciata non avevo la benché
minima idea di dove fosse -avevo usato con Camlo la tecnica del
“sorridi e annuisci”.
Rimaneva la basilica di
Sant'Ambrogio, la scelta più facile e ovvia, se non fosse stato per
Tetigistus: stava facendo di tutto per essere una palla al piede.
Quando avevo fatto l'osservazione che gli umani non vanno in giro con
i boxer sopra ai pantaloni, lui aveva fatto sparire i pantaloni
frutto dell'incantamento. In pieno novembre, stava andando in giro
con i boxer a palme e una giacca rossa da manager.
Adorabile.
-Quanto vuoi star qui?- mi
sussurrò Tetigistus all'orecchio.
-Stammi lontano!- ringhiai.
Eravamo appartati dietro un pilastro nel portico della chiesa,
accucciati l'uno accanto all'altra. La puzza di zolfo di Tetigistus
mi irritava.
Cinque minuti prima un gruppo di chierichetti,
di ritorno dalle prove del coro, ci era passato davanti. Appena si
erano accorti di noi, il loro chiacchiericcio
era morto, e si erano messi a fissare Tetigistus come se fosse una
nuova specie di Pokémon.
-Ehi
ragazzi,
devo parlare con il Don. Dov'è?-
gli avevo chiesto. Quello più sveglio aveva chiuso la bocca e mi
aveva squadrato da capo a piedi.
-È
ancora
dentro dalla messa di stamattina, doveva vedersi
con un fedele-
e guardò l'orologio al polso magro. -Esce
tra
poco per il pranzo, te lo chiamo?-
-No,
grazie, lo aspetteremo qui.- Gli sorrisi, cercando di sembrare
rassicurante. Il ragazzino mi guardò con aria dubbiosa, come se non
sapesse se fidarsi o no. I suoi amici lo chiamarono, e il gruppo
sparì oltre al portone.
Mi sporsi dal pilastro per vedere la
porta d'ingresso della chiesa. Nessuna traccia del parroco.
-Non
lo puoi ipnotizzare? Manipolare? Circuire? Sai, quelle robe per cui i
diavoli sono famosi.- dissi, girandomi verso Tetigistus.
-Sì, se
è fuori dalla chiesa. Lì dentro la mia magia non ha effetto.-
rispose Tetigistus.
-Quindi
aspettiamo che esca. Sei sicuro di riuscire a scassinare la porta?-
Tetigistus
mi sorrise lascivo, come se avessi fatto qualcosa di eccitante. -Le
mie dita sanno fare molte magie.-
Mi
mostrò il palmo vuoto della sua mano affusolata e magra. Schioccò
le dita e una sigaretta gli apparì tra indice e medio; se la mise
tra le labbra, sempre sorridendo. Quindi aveva mentito sul
portafoglio, poteva materializzare a sé gli oggetti di sua
proprietà!
Gli strappai la sigaretta dalla bocca con stizza e me
la misi in tasca.
-Non
fumare.-
-Non
abbiamo nient'altro da fare. Mi annoio.-
-Annoiati allora, basta
che non inquini l'aria.-
I
suoi occhi azzurri divennero ostili.
-Mi
chiedo cosa mi stia trattenendo dal tagliarti la gola e andarmene
via.-
-Camlo
e la sua maledizione?- dissi io, noncurante.
Tetigistus soffiò
tra i denti, simile a un gatto. Tornai
a sbirciare la porta di legno della chiesa: ancora
nessuna traccia di vita.
-Che
maledizione è? Ti chiude in quel vaso per l'eternità, come il genio
della lampada?-
-Non
è una cosa legata al presente: è una maledizione che mi lega a
tutti i tempi passati e futuri, usando un oggetto a scelta come nodo
che collega le varie dimensioni temporali. Comunque non è un vaso: è
un vomitatoio etrusco.-
-Ah-ha!
Lo sapevo che non era un vaso per le piante: mi sembrava un pitale.-
La mia voce rimbombò per il porticato. Pitale-ale-ale. -Finissimo-
aggiunsi, abbassando la voce.
Ero
seriamente ammirata dai poteri di Camlo: compiere, controllare e
dominare una maledizione del genere era difficilissimo. Poteva
rivoltarsi contro al mittente se il rituale non si chiudeva bene:
aveva scommesso tutto sulla propria bravura pur di legare a sé
un
diavolo.
-Il
tuo amico è pazzo, mi fa paura- disse Tetigistus e rabbrividì.
-Parla con l'affettazione di un lord inglese, bello e borghese con la
sua chioma e baffi impomatati e tatuaggi old school, ma ho visto la
sua vera natura: è peggio di me. E' difficile essere peggio di
me.-
-Sì, lo chiamano il Ramsey Bolton di Sesto San Giovanni.
Vuoi dirmi cose che non so di già? O puoi stare zitto.-
Alzai
gli occhi al cielo: un diavolo che si mette a fare la morale sulla
stronzaggine degli uomini. Non l'aveva mai aperto un libro di
storia?
Guardai l'orologio: erano le due e dieci.
-Ascolta,
tu stai qui. Io vado a vedere come è la situazione nella chiesa.-
Tetigistus alzò il pollice in segno di assenso. Non feci in tempo ad
allontanarmi di qualche passo che aveva fatto comparire un'altra
sigaretta.
Non
ero mai stata a Sant'Ambrogio, nonostante mi fossi trasferita a
Milano da un anno ormai. Aver avuto una professoressa stronza di
storia dell'arte doveva avere notevolmente contribuito al mio
disinteresse per gli edifici storici. Passai
sotto le tre arcate del porticato. La porta era enorme, di legno,
decorata con scene bibliche. Un battente era stato lasciato aperto.
Entrai
nella chiesa. Nelle tre navate alleggiava il silenzio denso tipico
dei luoghi sacri. Mi spostati verso destra dove, sopra a un
piedistallo, la statua di Sant'Ambrogio guardava benevola un
invisibile interlocutore, tendendogli la mano.
Ancora
nessuna traccia del parroco. Era
possibile che fosse uscito
senza che io e Tetigistus l'avessimo notato?
Percorsi tutta la navata fino in fondo, trovandomi davanti
all'altare, posto sotto a un magnifico ciborio di legno e oro. Stavo
per tornare indietro a chiamare Tetigistus quando sentii un lento
gocciolare d'acqua.
Mi girai per capire da dove provenisse. Gesù
Cristo, dipinto sul fondo della chiesa, mi guardava dall'alto del suo
trono. I suoi occhi erano grandi e neri, due pozzi senza emozione.
Ebbi un brivido di paura.
Mi
spostai nella navata di sinistra, passando in mezzo ai banchi dove si
siedono i fedeli durante la messa. Un piede mi scivolò in avanti e
mi dovetti aggrappare con tutte e due le braccia alla colonna per non
cadere.
Sul
pavimento si apriva una pozza di sangue. Attaccato al muro, c'era il
confessionale: una porta era stata divelta e pendeva dai cardini.
L'altra era chiusa: da sotto filtrava sangue, che gocciolava giù per
il legno e si allargava sul pavimento di pietra, raggrumandosi nelle
intersezioni
delle
mattonelle.
“E'
troppo sangue per un uomo solo,” fu la prima cosa che pensai,
stupidamente. Il sangue aveva sporcato le mie scarpe. Nella pozza
scura mi sembrò di vedere riflesso un movimento e mi girai di
scatto. Non c'era nessuno, tutto era immobile nella tranquillità
della chiesa. L'odore dolciastro che
aleggiava nell'aria
mi punzecchiò il naso, nauseandomi.
Rimpiansi di aver lasciato la custodia di violino con il fucile
ai piedi di Tetigistus.
La
superficie nera della porta del confessionale sembrò guardarmi.
Non
volevo aprirla e volevo aprirla. Sentii il cuore battermi nelle
orecchie mentre mi avvicinavo, facendo attenzione a dove mettevo i
piedi.
Non
me n'ero accorta, per via del suo colore scuro, ma qualcuno aveva
inciso nel legno un pentacolo rovesciato in un cerchio. Diviso in
dodici spicchi, c'erano alcuni simboli di demonologia. Riconobbi
alcuni nomi di maggiori demoni: sembrava un simbolo di offerta.
Avrei dovuto chiamare Tetigistus, ma quella porticina mi parlava.
Sussurrava parole in lingue che non capivo, suoni che mi
accarezzavano le orecchie come insetti. Rabbrividii. Erano così
flebili da sembrare frutto della mia immaginazione. C'era qualcosa
che respirava dietro quella porta, chiamandomi a sé.
Misi
la mano sulla maniglia. La aprii.
NdA:
Ringrazio chi ha messo la storia nelle preferite/seguiti e chi ha
commentato, siete dei tesorih.
Un
grazie speciale va ad Aina, che mi ha betato questo capitolo :)
|
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Capitolo 4 *** 4. Capitolo IV ***
.Capitolo
quattro.
Quando
succedono cose straordinarie, fuori dalla routine quotidiana,
c'è lo
shock; e allo shock, segue la dissociazione. Sei il protagonista di
una barzelletta, e una di quelle neanche tanto divertenti. La mia
mano si posò sulla spalla di Tetigistus e l'azione mi
sembrò
lontana, come riprodotta sullo schermo di un televisore.
Tetigistus
sussultò e, girandosi di scatto, mi bruciò le
dita con la sigaretta
accesa. Non sentii dolore.
"Mi
hai fatto venire un colpo!" Il viso preso dall'agitazione era
molto umano. L'illusione si infranse quando dilatò le narici
e
cominciò ad annusarmi. "Puzzi di sangue" disse. Mi
guardò
gli anfibi.
Avevo
lasciato sul mio cammino, dal portone fino alla colonna, una fila di
impronte rosse.
"Vieni
con me" dissi, prendendo la custodia del fucile. La mia voce era
davvero così gracchiante e sgraziata?
Trascinai
Tetigistus per la manica senza aspettare risposta, sentendolo
incespicare e imprecare dietro di me. Entrammo in chiesa e appena
varcata la soglia, la stoffa svanì sotto alle mie dita.
Tetigistus
era tornato al suo aspetto demoniaco.
Passammo
accanto all'acquasantiera —
Tetigistus
se ne tenne a debita distanza —
oltre
il tavolino delle candele e delle offerte. Dopo
la prima colonna, il confessionale era
davanti a noi.
"Lì."
indicai.
L'abitacolo
interno era piccolo, dello stesso ebano scuro della parte esterna.
Difficile che ci potesse entrare più di una persona; il
parrocco,
che da vivo doveva aver amato la buona cucina, aveva i fianchi
schiacciati contro le pareti.
L'avevano appeso a testa in giù,
per i piedi, con una corda. La stazza gli impediva di ciondolare, ma
le braccia lasciate libere ondeggiavano ai lati della testa. La gola
era tagliata: il flusso arterioso aveva ridipinto di rosso l'intero
abitacolo.
E gli
occhi...gli occhi non c'erano più. Concentrai il mio sguardo
sul
suo mento e la bocca semiaperta. Non volevo più vedere
quelle due
orbite vuote e cave, di un rosso scintillante. Erano un pensiero
infetto, uno di quelli che vuoi fuori dalla tua testa il prima
possibile, prima che germogli incubi.
Tetigistus
abbassò la camicia insanguinata, sfilandola dai pantaloni.
"'Chi
l'ha fatto ha stile." disse, sinceramente impressionato.
La
pelle molle della pancia era stata incisa con tagli netti, da
coltello. Riconobbi subito il pentacolo, perché era lo
stesso che
c'era sulla porta.
"E'
un sacrificio." disse Tetigistus. "E questo"
picchiettò con la mano sul legno del confessionale
"è il pacco
regalo."
Volevo
vomitargli sui piedi, ma non sarebbe stato professionale.
"Un
regalo per chi?"
"Lucifero"
indicò il centro del pentacolo. "E i dodici demoni maggiori"
seguì con il dito la circonferenza del cerchio. "Che, in
sé,
non significa un cazzo. Anche io quando uccido, corrompo o fotto
onoro l'atto a Lucifero, è roba che porta buona fortuna. La
cosa
strana è che si sia disturbato a prendersi gli occhi."
"Perché
è strano?"
"E' una
cosa che io non farei. Non ha
alcuna utilità."
Feci delle foto con il mio
smartphone: al corpo, ai pentacoli, al confessionale. Quanto
arrivò
il momento di farla alla faccia, guardai altrove, sperando che non
venisse sfocata. Lo shock stava svanendo e avevo caldo. Tremavo
per l'adrenalina, e mille pensieri di cui era difficile tenerne lista
sfrecciavano per la mia testa.
"La
cosa importante è andarsene da qui il prima possibile." Non
stavo stavo parlando a Tetigistus, ma a me. Lo facevo sempre quando
dovevo costringermi a essere razionale. "Ci sono le mie impronte
dappertutto. Non devo essere trovata qui, sono già
ricercata."
"E il
portale?"
"Il
portale andiamo a
chiuderlo, adesso. E' pericoloso." E devo pagare i debiti
della mia MasterCard, aggiunsi
mentalmente.
Tetigistus
smise di leccarsi il sangue dalla mano —
che
schifo—
e
indicò
la statua di Sant'Antonio, piccola piccola dalla parte opposta della
chiesa.
"Dopo
di te."
***
Peccato
che, prima di noi, qualcuno avesse già aperto il varco.
"Pieghi
le mani seguendo questa inclinazione, le hanno fatte snodate apposta.
E poi sposti la statua..." Tetigistus grugnì dalla fatica,
mentre faceva roteare il busto del santo "...per tre volte.
"Fermo."
"Che
c'è?" Tetigistus seguì il mio sguardo.
La
pala di Sant'Ambrogio che ferma Teodosio, dietro la quale Camlo aveva
indicato l'entrata, era stata squarciata. A malapena si distingueva
il soggetto originale.
Il
diavolo -supponevo che solo un diavolo potesse fare una cosa del
genere- non aveva avuto la stessa pazienza di girare statue. O
granché rispetto per i beni culturali.
La pala era nascosta in una cappella
laterale. Era possibile che non
avessi notato quella devastazione quando avevo fatto il giro della
chiesa? O era stata fatta dopo? Sentivo
la paranoia salire al
pensiero che l'assassino potesse essere stato lì, con me,
nascosto.
Tetigistus
era salito sui gradini di marmo che conducevano alla pala.
Allungò
la testa oltre lo squarcio.
"C'è
odore
di sangue quaggiù." disse. E sparì oltre.
Lo
seguii.
Dietro
la tela c'era un piccolo anfratto circolare. L'entrata era un buco
nel pavimento, del diametro di mezzo metro. Un lastrone di pietra,
che era stato appoggiato a lato, nascondeva l'apertura.
Tetigistus
si era già calato lungo una scala a pioli fino alla vita.
Non
avevo voglia di imitarlo. A pensarci bene, volevo fare il rewind
della giornata e restare a dormire a letto. Il lunedì era
una
giornata pesante di suo: perché aggravarla mettendosi
all'inseguimento di killer sanguinari?
Intravedevo, a malapena,
la coda di capelli neri di Tetigistus che ondeggiava sotto di me.
Dei
mormorii provenirono dalla porticato della chiesa.
Oh,
fanculo!
La
scala era lurida di ruggine e sporco, e mi graffiò i palmi
delle
mani. Cominciai la discesa.
Dopo
diversi minuti, il cunicolo non sembrava giungere a una fine. La cosa
peggiore era il buio totale. C'era una corrente d'aria che proveniva
dal fondo e mi schiaffeggiava i capelli in faccia; e in sottofondo un
rumore, un rombo particolare, come se fossimo in prossimità
del
mare.
Finalmente
la discesa finì. "Stammi dietro." La voce di Tetigistus
veniva dalla mia destra. Sentii i suoi passi allontanarsi.
Imprecaii
e cercai la torcia che mi ero portata dietro, dispersa nel caos della
borsa. La trovai, un piccolo cilindro di plastica solida sotto la
mano. Il flash illuminò la parete della grotta, che sembrava
scavata
a mano. Era umida d'acqua, che alla luce artificiale riluceva di
bianco.
Sul fondo della stanza c'erano tre aperture ovoidali,
strette e lunghe. Come se fossero state create per creature molto
alte e magre. Tetigistus scomparì dietro la porta centrale.
Camminammo
in silenzio per le catacombe; per i primi cinque minuti ce la feci a
tenere a mente le scelte di Tetigistus, poi mi arresi. Era tutto un
intrico di cunicoli che portavano a stanze circolari in cui si
aprivano altri cunicoli. Non c'erano punti di riferimento. A volte,
Tetigistus esitava ai crocevia, ma era solo per pochi secondi.
Sentivo alle mie spalle quel labirinto come un mostro, una cosa
sconfinata e sconosciuta e paurosa. Se mi fossi persa, avrei vagato
per quei tunnel fino alla morte.
Camlo
aveva ragione, senza una guida non ne sarei più uscita, come
tante
persone e creature prima di me. Dipendevo da Tetigistus, ed era un
pensiero altamente ansiogeno.
"Eccoci,
dobbiamo scegliere." disse Tetigistus, fermandosi al centro di
una sala.
"Cosa?"
"A
destra c'è la via per il portale. La porta centrale
è quella che ha
preso l'assassino, sento l'odore delle sue tracce. Porta a quel
labirinto del formicaio fatato."
Aveva
usato il plurale "dobbiamo scegliere" ma era chiaro che la
decisione era solamente mia.
"Andiamo a destra. La
priorità è il portale. Chi ha ucciso il parroco-"
Un volto
senza occhi, sangue sul pavimento, carne molle incisa. "C'è
il
rischio che non possiamo prenderlo o che sia un avversario al di
sopra delle mie possibilità. Se fossi meglio attrezzata,
direi di sì
ma così..."
Con
un Remington che va a speranza, pensai senza completare la
frase.
"Brava,
essere codardi è essere saggi. Si vive a lungo." Tetigistus
mi
fece l'occhiolino. Sembrava approvare sinceramente la mia scelta.
***
Le
catacombe precedevano tutto, Milano e Mediolanum e Medhelan.
Precedevano
anche le fate, che le avevano ampliate e rese il loro nido
inespugnabile, anche se queste nei loro testi se ne attribuivano
addirittura la maternità. Non
che ci fossero più fate a Milano, sopra o sotto terra. Lo
smog,
l'inquinamento e
gli
scarichi industriali facevano venire loro il cancro, costringendole
a una morte lunga e dolorosa. Erano fuggite.
Quell'immensa
città sotterranea era quindi, in parte, stata occupata da
diavoli,
demoni, vampiri e molto altro. Molto altro che
amava rifuggere
alla luce.
"Che
traffici avevi qui?" chiesi.
"Cocaina,
eroina, barbiturici, benzodiazepine.
Chi
voleva fuggire dalla realtà, chiedeva a me.”
Tetigistus
non era
il
primo
dei
diavoli
che
incontravo con
giri del genere: portare
le persone sulla cattiva strada è la loro, di droga.
“Fammi
indovinare: ti sei allungato nella zona sbagliata, hai scornato
con Camlo, e adesso per punizione hai
la tua essenza legata a un cesso?”
“Sei
scema? Io la roba la compravo
da Camlo.”
Ero
shockata; Camlo
non era uno spacciatore.
Pensai
subito a una bugia: i diavoli amano seminare zizzania. Ma Tetigistus
non sembrava essersi accorto della mia reazione.
“Siamo
quasi arrivati” disse Tetigistus. Arrancavo dietro di lui nel
tunnel, che si stava abbassando sempre di più. Tetigitstus
fu
costretto a piegare la testa per non strisciarla contro il muro. Il
cunicolo finì.
Eravamo
in una sala, grande come una piazza. Al centro torreggiava una
colonna di pietra, e si perdeva nell’oscurità nel
soffitto. Non
c’era più bisogno della mia torcia:
l’ambiente era illuminato a
sufficienza da quelli che sembravano funghi luminescenti, che
crescevano dappertutto, specialmente sulla colonna, ed emanavano un
alone verde.
Piccole
spore fluttuavano nell’aria, simili a lucciole.
“Stai
attenta” mi disse Tetigistus. “Non
c’è il
corrimano.”
Scendemmo gli scalini, io con una mano
appiccicata alla parete. Era morbida al tatto, ricoperta per la sua
interezza da muschio.
Mi
avvicinai alla colonna: dal basso era imponente e viva. Quegli strani
funghi bioluminescenti l’avevano avviluppata per tutta la sua
interezza, ma si poteva intravedere al di sotto delle rune fatate.
Poggiava sul tronco mozzato di un albero, che un tempo doveva essere
stato gigante: le radici erano grosse, tanto forti che da viva la
pianta si era fatta strada
nel pavimento di pietra.
“Non
è qui il portale. Andiamo oltre.” disse Tetigistus.
Mi
irritò, ma d’altronde mi irritava tutto
ciò che faceva. Avevamo
passato quelle che mi parevano ore in cunicoli sporchi e
claustrofobici e adesso, che c’era qualcosa di interessante,
se ne
voleva andare subito.
Tra
le radici c’era un altare, e sopra all’altare una
sfera nera. Al
centro c’era un vortice fatto di venature. Si muoveva
così
lentamente da sembrare un’illusione ottica.
Mi
ricordava una delle pietre tonde, usate nella cristalloterapia, che
mia madre amava collezionare. Le teneva nella credenza antica della
nonna, e da piccola passavo i pomeriggi ad ammirarle e contarle.
Volevo
toccarla.
Allungai
la mano. Un dolore mi colpì a un lato della faccia, la vista
si
annebbiò.
Tetigistus mi aveva dato un cazzotto.
PS:
Ho fatto il respawn come Gesù! Buona lettura e se vi piace
la storia (o se la odiate ╥ω╥),
lasciate pure un commento o critica che sia ❤ ❤ ❤ ❤ ❤
Rory
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