The Sludgekicker

di Rory Moore
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** .Capitolo I ***
Capitolo 2: *** .Capitolo II ***
Capitolo 3: *** .Capitolo III ***
Capitolo 4: *** 4. Capitolo IV ***



Capitolo 1
*** .Capitolo I ***


Capitolo uno.



Il problema principale dei venditori porta a porta è che non sanno quando desistere.

Aprii la porta in canottiera, pantaloncini e con un turbante avvolto sulla testa.
Erano le sette del mattino e mi ero alzata da venti minuti, gli occhi erano gonfi e i riflessi addormentati; quindi, quando vidi i folti baffi a manubrio del signor Bonelli, attaccati alla faccia del signor Bonelli, con la cravatta a motivi d'ancora che spuntava fuori dal collo tozzo del signor Bonelli, nonostante tutti questi segnali d'allarme rosso, ci misi venti secondi di silenzio stupito e sguardo vacuo a realizzare.


Oh, Gesù Cristo! Ancora tu!”

Ecco, qui realizzai.

Chiusi di scatto la porta del mio appartamento, ma il piede di Bonelli, calzato di mocassini di pelle, si infilò veloce nell'apertura. Non per questo desistetti: spinsi la porta con ancora più forza, fanculo Bonelli e al diavolo il suo piede.

“Solo un secondo Rebecca! Dammi un minuto, fidati di me...” supplicò, attraverso lo spiraglio di cinque centimetri. Dovevo far installare una telecamera di sorveglianza, sciocca io. “E mi stai rompendo il piede, accidenti a te!”

“Mai! Esci dalla mia proprietà! Ma chi ti ha fatto entrare?”

“Dai, Becca, solo un secondo!” Il doppiomento gli tremolava dallo sforzo che stava impiegando per salvarsi il piede. Furono due minuti di dura lotta, pieni di ringhi, imprecazioni e reciproche maledizioni.

Ero pienamente cosciente che dare il permesso a Enrico Bonelli di entrare nella propria abitazione era come dare il via libera a un vampiro; dopo entra quando vuole, come se fosse casa sua; devi chiamare l'esorcista per scacciarlo; sedimenta la sua oscura presenza sul divano del salotto e ti succhia tutto il sangue che hai (beh, nel caso di Bonelli ti succhia tutta la liquidità dal conto in banca).

Ma era un lunedì mattina, avevo dormito solo tre ore la notte prima. Fui una debole. Mi arresi.

Alle sette e mezza ti voglio fuori da qui, hai capito? F-u-o-r-i!”

Ma certo, Becca, tranquilla.” Bonelli si era ringalluzzito. Mi fece persino l'occhiolino.

Mi spostai di lato e lo lasciai entrare nel salotto, che faceva anche da studio, ufficio, cucina e camera da letto. Bonelli scavalcò i pacchi di cosmetici comprati da Ebay e la montagnetta di vestiti da lavare.

Si sedette sul divano, accanto al mio gatto Beril che lo guardò con disappunto agitando la coda: il signor Bonelli ricambiò lo sguardo, chiaramente in soggezione.

Ehm, ok. Allora...” Poggiò sul tavolo la sua valigia di pelle, la aprì e ne estrasse un Remington 1100. “Ta-daaa!” fece, mostrandomi il fucile automatico come se fosse l'ottava meraviglia del mondo.

“E allora?”

Come e allora? Hai visto che chicca? È difficile importarli dall'America e guarda splendore che è! Oh, signorina, non puoi permetterti di fare quella faccia da superiore, tu che giri con quel cesso a pedali dell'11-87!”

Enrico, come ti ho detto più e più volte: non mi serve un aggiornamento delle armi da fuoco.” E non ho soldi per permettermelo, aggiunsi mentalmente.

Guarda, si può avere anche calibro dieci! Che te ne pare? Con quello non c'è bisogno staccare la testa ai Diaboli, gliela polverizzi direttamente. E poi ho qui diversi cataloghi, eh, puoi darci un' occhiata...”

No.” Ripescai il phon dall'armadietto del bagno, lo attaccai in sala e lo accesi, nella speranza di coprire la voce di Bonelli.

Tipo questa Beretta Stoeger Cougar, una cosa piccola, occultabile, pratica. Te la puoi portare nei bar, alle mostre, in vacanza! Nelle discoteche!” E mi rivolse un sorrisetto stronzissimo.
Discoteche. A quanto pare le voci a Milano girano più veloci che nel mio paese natale, dove la popolazione media è composta da trenta anziani e venti pecore.

Lascia qui il catalogo di quest'anno, ci darò un'occhiata” gli dissi, mentendo spudoratamente.

Ma Bonelli la sapeva più lunga. Tirò dei fogli fuori dalla valigia e li poggiò sul tavolo.

Questi sono i moduli per l'ordine, cara. Passo giovedì mattina, che ne dici? Così hai tutto il tempo di riflettere e fare la scelta giusta.” Avrei tanto voluto rifilargli un pugno per togliergli quel sorriso falso da televendita dalla faccia.

Mh-h.” Mormorai con scarso interesse. Piegai la testa in avanti, per asciugarmi la nuca.
“È una promessa?” chiese Bonelli, provando a fare il vago. Come se cascassi in queste trappole da due soldi!
“Non sono così scema da fare promesse a quelli delle tua specie, ci tengo ai miei occhi. Dai, Enrico, togliti dalle palle.”

Staccai il phon e lo rimisi nell'armadietto. Lo specchio del bagno mi rimandò l'immagine di una scocciatissima me stessa, dai vaporosi capelli rossi. Tornai in salotto, dove Bonelli era ancora insediato sul divano, la bocca aperta per ribattere. Rimase come interdetto vedendomi; qualcosa nella mia espressione lo convinse a mollare l'osso.

Con una mano gli presi un braccio, con l'altra la valigia e lo accompagnai all'uscita.

Allora ci sentiamo per giovedì, Becca.”
Con entusiasmo buttai fuori lui e il bagaglio.
“Sì, sì, certo!”
borbottai. Gli chiusi la porta in faccia. Nella mia mente partì l'Alleluja come colonna sonora della liberazione.

Djinn che fanno i venditori porta a porta,
pensai. Che piaga.

Andai in cucina, ovvero il piccolo piano cottura che occupava un lato della stanza. Aprii il contenitore del caffè e caricai il filtro della caffettiera. Gli occhi mi bruciavano dal poco sonno. Era stata una notte davvero orribile.

Nel frattempo Beril aveva preso il catalogo lucido di Bonelli e lo stava sfogliando con una zampa, comodo sul divano.
Sai che la 92FS non è male? Mio zio la usava, gran bella pistola...” disse, pensieroso.

I soldi me li dai tu? Mi paghi in scatolette Royal Canin?”

Ah-ah-ah.” Mi guardò come se fossi una deficiente, cosa che a un gatto riesce particolarmente bene.
La caffettiera fischiò; ne riempii due tazzine, spingendone una verso Beril, che era saltato sul tavolo della cucina.
Becca, in ogni caso...dopo che ieri sera ti hanno fuso la Colt, non puoi andare in giro scoperta.”

No' me 'anno phusa.” protestai, con la bocca piena di Pan di Stelle. Presi da sotto il mucchio di vestiti sporchi quel che rimaneva della mia vecchia Colt e la lanciai sul tavolo, dove rimbalzò con un sordo rumore metallico alle zampe di Beril.
La mia pistola aveva visto giorni migliori: impugnatura e caricatore erano intatti ma a metà la canna si torceva e piegava su se stessa.

Funzionale, direi...ma guardiamo il lato positivo: data la mira che hai magari con la canna storta riesci a beccare qualcuno” disse Beril, con la voce piena di secco sarcasmo.

L'avrei strozzato. Infilai la mano nel bicchiere d'acqua che stavo bevendo e gliela scrollai sul muso. Numerose gocce d'acqua gli andarono sul pelo e negli occhi. Beril mi mostrò i denti, soffiando; scappò e si mise al riparo sul divano, guardandomi malevolo da dietro un cuscino.

E comunque, con la mia mira schifosa, ieri ne ho beccati tre su tre” ribattei, piccata.

Ok, la mia mira non era delle migliori, ma non stavo mentendo: la notte prima avevo preso tre Inferi, tutti al primo colpo, ed era anche in un vicolo scarsamente illuminato. Certo, avrei dovuto sparargli in mezzo agli occhi per ucciderli definitivamente, invece ne avevo colpito uno all'addome, il secondo alla spalla e il terzo al...beh, il terzo era stato il più sfortunato.
Avevano preso sul personale il mio tentativo di farli fuori e fu la mia fedele Colt a pagarne il prezzo.

Ma alla fine sono riuscita a eliminarli lo stesso, pistola o meno!
, pensai offesa, mentre mi vestivo. E sono anche stata dentro i contorni del bersaglio, come insegnano al poligono!

Mi misi le scarpe, due anfibi neri con la punta rinforzata.
Vado da Camlo, mi ha scritto per del lavoro” annunciai, mentre ripescavo le chiavi di casa dal fondo della borsa. “Non vomitare peli in giro, lascia stare la mia collezioni di vinili e, percaritàdiddioBeril, cerca di farla in quella diavolo di lettiera!”

Beril soffiò e mi diede la schiena, frustando l'aria con la coda gonfia per il disappunto.
Il mio gatto si imbarazzava e diventava suscettibile all'argomento lettiera. Mentre chiudevo la porta pensai che Beril, quando era umano, doveva essere stato uno di quei fastidiosi uomini che non riuscivano a centrare la tavoletta del water.




****



Dopo un viaggio in metropolitana schiacciata come una sardina, in cui dove dovetti guadagnarmi l'uscita a suon di borsettate, scesi a Porta Romana.
Stava cominciando a piovere: sottili aghi d'acqua cadevano, all'inizio sparsi, poi sempre più fitti. Mentre correvo, con la borsa sulla testa, maledii interi pantheon di divinità: sentivo i capelli gonfiarsi ai lati della faccia, ispidi come vello di pecora.

Dopo cinque minuti fatti di slalom tra pozzanghere, in cui avevo rischiato di essere tirata sotto a un incrocio da sciura ingioiellata in BMW, ero arrivata alla via parallela dove si trovava il bar di Camlo.
Appena misi piede in Via delle Sirene, fu come se qualcuno avesse abbassato di colpo il volume di uno stereo: la strada principale era un viavai di persone e macchine, ma in quella vietta non c'era nessuno. I rumori provenienti dai quartieri circostanti sembravano attutiti e lontani, come se mi trovassi sottoacqua.

Due palazzi coperti di edera, in stile liberty, si stagliavano a metà della via. Erano color viola prugna, con i dettagli del cancello e delle finestre d'oro scintillante. I frontoni erano decorati con disegni dei segni zodiacali e della mappa celeste; in mezzo ai tipici condomini milanesi, squadrati e grigi, erano due pugni negli occhi.
D'altronde Camlo e la sua famiglia non erano mai stati dei minimalisti del buongusto: l'estate di due anni prima avevo visto la loro carovana, piena di luci al led e con una jacuzzi sul tetto.


Scostai una fitta tenda d'edera a destra del cancello del palazzo numero tredici, per scoprire una porticina nera con intagliata nel legno la scritta “Bar Alafair”. La aprii; il chiacchericcio di numerose voci risuonò nel corridoio, buio e stretto, che faceva da anticamera. Avevo i piedi gelati. Decisi che potevo sbattermene dell'etichetta: mi tolsi le scarpe sporche di fango, gettandole sulla moquette. Spalancai un'altra porta, decorata con vetri colorati che raffiguravano due sfingi speculari, ed entrai in una grande sala circolare dalle alte e strette finestre.

Al centro c'era un gigantesco albero dorato: dalle fronde attaccate al soffitto pendevano numerose mele cave, con al loro interno lampadine scintillanti. Attorno all'albero c'era il bancone circolare dove stavano i baristi, con numerosi avventori seduti sulle sedie a forma di foglia. Individuai subito la figura alta e scura di Camlo, intento a spillare una birra per un uomo in smoking verde.

Gli feci un fischio, sbracciandomi. Camlo si girò -insieme a molte altre persone- e mi salutò alzando la mano. Indicò la porta a sinistra dell'entrata e scandì silenzioso con la bocca “U-ffi-cio”.

Ero già stata più volte nella stanza piccola e quadrata, piena di archivi e cactus, che era lo studio di Camlo. Mi richiusi la porta alle spalle.


Davanti alla scrivania, intrappolato alla sedia da manette e un pentacolo protettivo, c'era un diavolo vestito con un impermeabile di gomma che piagnucolava.









Note di Rory:
Ciao a tutti! Questa è una storia urban fantasy che mi frullava in testa da un po'. Mi sto divertendo tantissimo a scriverla e spero che divertirà anche a voi leggerla <3
A fine Marzo partirò per la Corea del Sud e ci starò un mese, quindi assicuro aggiornamenti regolari solo da Maggio in poi.
Un grazie di cuore a
erzsi che mi ha betato il primo capitolo *-*



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Capitolo 2
*** .Capitolo II ***


.Capitolo due.





Davanti alla scrivania, intrappolato alla sedia da manette e un pentacolo protettivo, c'era un diavolo vestito con un impermeabile di gomma che piagnucolava.

Era un spettacolo piuttosto patetico: del muco gli colava dal rosso naso aquilino e aveva la faccia rattrappita dal pianto.

Mi sedetti accanto a lui. Nella finestra dietro la scrivania vedevo il mio riflesso: avevo la stessa espressione schifata che riservavo alla lettiera di Beril, quando era troppo colma per essere ignorata.

-Hai la faccia di uno che ha succhiato un carretto di limoni- dissi.

Non doveva essersi accorto di me, perché alzò la testa di scatto lanciando uno strillo acuto. Cadde all'indietro e urtò con la schiena contro la parete invisibile del pentacolo protettivo. Ci fu uno sfrigolio, come quando si butta una bistecca su una griglia bollente, poi nell'aria si levò una sfilza di blasfemie miste all'odore di gomma bruciata.

-Che sta succedendo?- Camlo era entrato nella stanza. Reggeva in una mano quello che sembrava un antico vaso da notte in creta.

-Lo dovrei chiedere io! Tu chi cazzo sei?- mi urlò in faccia il diavolo, mentre tentava di spegnere le fiamme dell'impermeabile a forza di manate. Notai che sotto era completamente nudo.

Volevo dargli una risposta che gli facesse capire con chi aveva a che fare: io quelli della stirpe di Lilith li odiavo, li combattevo con ferocia. Volevo che mi temesse, che la mia presenza instillasse in lui un terrore mai provato. La mia vita era consacrata già prima della mia nascita alla lotta contro i diabolici depravati, e lui doveva saperlo.


Volevo una frase ad effetto, ecco.


-Io di lavoro stacco la testa a quelli come te- dissi, abbassando la voce per darmi un tono. Corrugai anche la fronte. Misi la mano sotto il mento, in posa.

E, con mio grande disappunto, nessuno in quella stanza sembrava colpito o terrorizzato.

Camlo fu il primo a interrompere il silenzio.

-Rebecca, ho scoperto una perdita.- disse in tono pratico, sedendosi dietro alla scrivania. Tirò fuori da un cassetto un foglio arrotolato. Lo aprì e dispiegò davanti a me: era una piantina disegnata in inchiostro viola di quelli che sembravano sotterranei.

Camlo indicò con una macchia, rossa e vibrante, nella parte sinistra del foglio. Forse era un'allucinazione, ma pulsava come un organo sinistro. -Si è aperta ieri nelle catacombe. Mezzanotte all'incirca, non ti ho potuta avvisare.-

Avvicinai il naso al foglio per osservarla meglio. Non era un scherzo dei miei occhi: si muoveva davvero, i contorni che si espandevano e restringevano simili a onde del mare.
La carta del foglio puzzava di zolfo, lavanda e salvia officinalis. L'odore della magia mi punzecchiò le narici di un fastidioso prurito.
Girai la testa e starnutii in faccia al diavolo.

-Vaffanculo,
bitch.-

Bene, abbiamo anche il diavolo cosmopolita.

-Scusa, non l’ho fatto apposta- dissi, per metà mentendo e per metà no. Il diavolo si strofinò la faccia con manica del cappotto. Mi indirizzò così tante maledizioni in lingue sconosciute che il portapenne di Camlo cominciò a vibrare contro il legno della scrivania.

-Dicevo...- diss
e Camlo seccato, stringendo con la mano il portapenne per tenerlo fermo. -È aperta da meno di dodici ore, ma più tempo passa più potrebbe generare guai. Vai a chiuderla oggi. Io l'ho esaminata stanotte, a distanza di sicurezza: è sotto l'ospedale San Raffaele. Se non lo fai saltare in aria come il club di ieri sera è meglio. Sai, non vorrei che associarmi a te mi rovinasse la reputazione. -

Colpo basso. Non me lo meritavo.

Camlo era uno stronzo. Non per niente era aveva una dominante scorpionica nel suo tema natale.

-Aspetta! Allora sei tu quella che ha dato fuoco al Dark Hole? Seriamente?-
Il diavolo si era sporto verso di me per osservarmi meglio, gli occhi gialli da serpe sgranati a metà tra la sorpresa e la derisione. Due millimetri e rischiava di bruciarsi anche il naso contro la barriera protettiva.

-E tu come lo sai? L'hai letto su l'Oggi Infernale?- Mi mossi a disagio sulla sedia. Ero arrabbiata ma, ancora peggio, mi
vergognavo. -C'eri anche tu ieri e mi son dimenticata di farti la pelle?-

-Tranquilla, forse tre o quattro persone in tutta Milano o nei nove cerchi infernali non sanno ancora della tua avventura di ieri notte.-
Si rilassò contro lo schienale della sedia, sghignazzando. Aveva la faccia di uno così soddisfatto che si sarebbe fumato una sigaretta.

-Leggi- disse Camlo, mentre mi spingeva un quotidiano piegato sotto il naso.
In prima pagina il titolo
Attacco ieri al Black Hole! Uccisi tre turisti americani lampeggiava in rosso. Sottotitolo: Ancora nessuna rivendicazione dell'attentato da parte delle più note cellule terroristiche.

“Col cazzo Americani! A meno che l'imminente elezione di Drumpf non faccia dell'America una succursale dell'inferno” pensai.

C'era un mio identikit a pagina tre. Grazie a Dio non avevano azzeccato la faccia: il naso troppo porcino, le labbra sottili invece che carnose, uno sguardo vacuo alla Kate Moss ai tempi della droga. I capelli rossi ricci erano notevoli, però.
Sbuffai, gettando il giornale sulla scrivania. Questa era una seccatura: dovevo stare più attenta ad andare in giro, soprattutto armata.

-Non ho altri a cui chiedere se non a te.- Ero io o negli occhi neri di Camlo c'era stato un guizzo di compassione? -James domani parte per l'Irlanda per la nascita di suo nipote. O, almeno, questo è quello che mi ha detto.-

James era un mio collega. L'unico, per essere precisi, che operasse nel raggio di centinaia di chilometri dalla mia zona, secondo il registro del Vaticano.
Era un codardo di dimensioni bibliche e il peggior partner che si potesse avere in una missione mortale. Ci avevo lavorato insieme due volte e il resoconto delle nostre avventure lo tiravo fuori alle cene di Natale, quando la conversazione pregava di essere rallegrata.
Lo sopportavo solo perché mi prestava soldi finanziando il mio problema di shopping compulsivo online, e perché somigliava a Ron Weasley. Nella mia scala di priorità di fan di Harry Potter, non puoi odiare
per davvero una persona che somiglia a Ron Weasley. È immorale.

-Che peccato! Una nascita così poco opportuna!- Speravo si sentisse il mio sarcasmo. Mandai mentalmente a quel paese sia James che le sue scuse patetiche. Ero sempre da sola in situazioni potenzialmente pericolose come quella. Potevo contare solo su di me, ed era una cosa per niente rassicurante.

-Mi dispiace, Becca. In compenso...- Camlo indicò il diavolo seduto accanto a me. -Tetigistus ti accompagnerà. È la miglior guida delle catacombe che puoi sperare di trovare.-

Casino e proteste. Odio e rivoluzione.

-Con questa tardona?- disse Tetigistus.

-Ma col cazzo!- dissi io.

Ci scambiammo occhiate malevole alla Mezzogiorno di Fuoco.

-Non mi fido di lui- aggiunsi. Ed era vero. Andare nel buio e magia nera delle catacombe con Tetigistus poteva significare un pugnale conficcato tra le spalle e la gola tagliata. I diavoli non erano famosi né per la morale, né per il loro amore per la sottoscritta.

-Neanche io, ovviamente- disse Camlo.

Prese il simil pitale di creta e lo poggiò al centro della scrivania. Se a prima vista mi era sembrato antico, mi dovetti ricredere vedendolo da vicino: era prediluviano. Mille o duemila anni prima doveva essere stato decorato da lucenti disegni in smalto, di cui rimanevano solo rimasugli frammentati. Crepe rigavano tutta la superficie ovale, e mi pareva un miracolo che un tale oggetto riuscisse anche solo ad esistere.

Camlo lo girò e ci mostrò il fondo: vi era disegnato il quadrato di Rotas, in quello che sembrava essere sangue fresco.

-Ho fatto in modo che tenerti in vita sia il suo principale interesse. Fidati, se tu muori pregherà anche lui di fare la stessa fine.- Camlo diede un paio di colpetti affettuosi al vaso, come a rafforzare il concetto. Un rumore sepolcrale ne uscì ed echeggiò per lo studio.

Tetigistus si agitò sulla sedia, a disagio. -Sì, uh, ho recepito il messaggio. Capo, metti via quella cosa, mi dà i brividi.-

Camlo rimise il pitale sotto la scrivania.

Non avevo la più pallida idea della natura delle precauzioni che Camlo aveva messo in atto; ero sempre stata una
sega, definizione esatta data da Gabriele, il mio precettore romano di Esoterismo, a percepire e identificare tracce di magia.
Camlo era a momenti petulante e velenoso, crudele e vendicativo con i suoi nemici, e non era di certo il tipo che avrei invitato a una festa, data la sua totale assenza di senso dell'umorismo. Ma era professionale e, all'incontrario di James, non aveva mai tradito la parola data. Alla fine, forse mi sbagliavo: su qualcuno potevo contare, oltre me stessa.

-Ok, parlami di questo varco- dissi.
Mi appoggiai con i gomiti alla scrivania, in ascolto.



***



Nella sala centrale del bar, in fondo a sinistra c'era una piccola porticina scura. Aprendola ti ritrovavi a percorrere un corridoio fatto di ampie vetrate in stile Art Noveau. Fiori di legno, sinuosi e eleganti, sbocciavano dalle cornici delle finestre.
Da fuori proveniva lo scrosciare di un fiume: girava attorno al Bar Alafair come se l'acqua si fosse adattata all'edificio e non il contrario. I prati ampi e verdi rilucevano di rugiada alla luce del sole.
In lontananza c'era una foresta di pini. Le punte degli alberi ondeggiarono e uno stormo di uccelli dalle ali viola ne uscì, volando via.
Qualunque posto fosse, non era di certo Milano.

Alla fine del corridoio, entrai nell'ufficio contabilità.


Grace alzò la testa, seduta dietro la scrivania al centro della stanza, tutta un sorriso smagliante e perfetti boccoli biondi.
-Rebecca!- esclamò. Si alzò dalla sedia e venne ad abbracciarmi, schiacciandomi le tette contro un lato della faccia. Amavo la vita.

Camlo gestiva il locale e aveva messo i soldi per costruirlo, ma era Grace la proprietaria nominale del “Bar Alafair”: il sangue rom di Camlo gli impediva di possedere terre e locali di qualsiasi tipo.
Sospettavo da un annetto che i due scopassero, ma l'ultima persona che aveva messo il naso negli affari di Camlo si era ritrovata all'ospedale con un braccio in più che gli spuntava dalla fronte, quindi avevo preferito la via della discrezione.

-Camlo mi ha mandata qui per la paga di ieri. Ha detto che lo scorso lunedì, con la fornitura di liquore, è arrivata una cassa di armi. Ieri ho fatto fuori la mia Colt.-

-Certo, cara. Siediti pure, ci vorrà un minuto.-

Mi sedetti su uno sgabello cremisi, guardandomi attorno. La stanza era grande il doppio dello studio di Camlo e file di archivi su archivi d'oro ricoprivano le pareti. Un candelabro di cristallo blu pendeva dal soffitto.
Grace prese una mazzetta di soldi dalla cassa sotto la scrivania e la mise nel conta banconote d'oro. Con un rumore meccanico, che ricordava una macchina da cucire, questo si accese. Le banconote venivano contate così velocemente che si trasformavano in un arco arancio.

Grace si alzò e si diresse verso un armadietto appeso al muro. Lo aprì: c'erano diverse chiavi, alcune dalle forme e materiali stravaganti. Una chiave si mosse e cercò di spiccare il volo con le sue gracili ali da libellula, ma Grace con un ceffone la stordì. Penzolava inerte, attaccata alla catenella, quando l'armadietto venne richiuso.

-Ancora un secondo.- Grace uscì dalla stanza sculettando sui tacchi, nella mano una semplice chiave Silca di ferro.

Con un ronzio, il conta-monete si spense. La cassa era ancora aperta, piena al suo interno di mazzette arancioni, verdi, gialle e viola.
Non servivano telecamere o complessi sistemi di sicurezza contro i ladri al Bar Alafair: ogni mattina, aperto il bar, Camlo girava per i locali e rinnovava le sue protezioni. Se avessi preso anche solo un centesimo, senza il consenso suo o di Grace, le mie mani si sarebbero tramutate in sale.
Un cameriere che non lo sapeva aveva cercato di fare il furbo, tre anni prima. Brutta storia.

Grace rientrò nella stanza con una custodia di violino tra le braccia. Aveva in faccia un'espressione funerea.
-Scusami, Rebecca. Davvero, scusa!- I suoi occhi azzurri erano tristi e si mordicchiò le labbra rosse: il ritratto del dispiacere.
-Per cosa?-
-Io... non l'ho chiesto a Camlo. Era un prestito per un amico, alla fine.-

Grace poggiò ai miei piedi la custodia di violino. Sorrise nervosamente.
-Ho solo questo: il Remington che è arrivato la scorsa settimana l'ho dato a James. Lo conosci, ha la fobia degli aerei e in treno deve passare dalla Francia per raggiungere la Manica. Sai che lì ha molti nemici...-

Le avventure di James con i vampiri della Sorbonne era uno degli episodi preferiti che tiravo fuori alle feste.

Aprii la custodia, speranzosa. Cosa poteva esserci di peggio di una Colt con la canna piegata? Un moschetto a pallini? Un archibugio?

Poggiato sul velluto nero c'era un fucile Bernardelli Hemingway, con la canna mozza artigianale, un rinculo che ti disloca la spalla e una precisione che facevo prima a mirare a destra del bersaglio per colpirlo. Probabilmente era il fucile che Camlo usava per dare la caccia ai conigli.
E io ci sarei dovuta andare nelle catacombe.

Maledetto. James.

-Dai, va più che bene- mentii, mentre lo esaminavo da vicino e ne valutavo il bilanciamento. Dall'espressione, Grace non se la bevve.


Dovevo affrontare una missione potenzialmente pericolosa per la mia vita, con come alleati un fucile anti-diluviano e un diavolo nudista. L'inizio della settimana prometteva bene.









NdA: Scusate a tutti per il ritardo! Con la fine delle vacanze gli aggiornamenti diverranno più frequenti :)
Ringrazio erzsi che mi ha betato il capitolo e tutti quelli che hanno messo nei seguiti/preferiti la storia!



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Capitolo 3
*** .Capitolo III ***


.Capitolo tre.




Una perdita è una lesione della trama tra i vari mondi. Sono numerose, ma innocue: raramente son più grandi della punta di uno spillo e spesso si aprono nell'atmosfera o nelle profondità marine. Quando sono ampie possono combinare guai, tipo il mostro di Lochness o gli aerei persi nel triangolo delle Bermuda, ma sono casi isolati.
Camlo era esperto in geomanzia e teneva sotto controllo le perdite nell'area, per individuare quelle pericolose collegate ai regni infernali.

Quindi si può capire quanto chiudere un varco di grandi dimensioni, passaggio da e per la Caina, fosse un compito della massima priorità per un'esorcista come me.

Ma ancora più importante era quel tarlo, quel sassolino fastidioso che si rifiutava di uscire dalla scarpa.

-Adesso noi andiamo da H&M e ti compri un paio di mutande.-

Tetigistus roteò gli occhi.

-Quanto sei noiosa!-

Una vecchietta, seduta davanti a noi, ridacchiò maliziosa. Ci aveva scambiati per una coppietta litigiosa, Dio mio. Mi dovetti trattenere
dal rovesciare gli occhi.

Feci una ricerca mentale del negozio H&M più vicino, un'abilità di cui vado abbastanza orgogliosa acquisita tramite anni di dipendenza da shopping e paralizzante povertà.
La metro diminuì la velocità, fino a fermarsi. La voce femminile elettronica annunciò
la fermata: Turati. Ancora due.

Una ragazza delle superiori, con la maglietta dei My Chemical Romance, lanciò un'occhiata di soppiatto a Tetigistus. Era attaccata al corrimano accanto a dove lui sedeva, e il suo non era stato uno sguardo alla
che schifo, un viscido demone che prende la metro! ma più un ammazza, che figo fotonico!

Usciti dal Bar Alafair, con la stessa facilità con cui le persone si mettono una maglietta, Tetigistus aveva incantato il suo aspetto.
Su un livello, era un eccentrico lavoratore umano, sulla ventina, che si atteggiava come il peggio sborone: aveva messo le mani dietro la testa e sedeva a gambe larghe con un piede, calzato di un mocassino lucido nero, poggiato sul ginocchio. Ne muoveva la punta per seguire il ritmo di una canzone che solo lui sentiva.
I capelli neri e lisci erano legati in una coda, che lasciava intravedere le rasature laterali. Tentai di valutare se da sciolti sarebbero stati più lunghi dei miei. Al naso, fine e con una leggera gobba, aveva un anello; anche le orecchie erano piene di piercing. Non si era dato la briga di cambiarne la forma a punta. Gli occhi erano di blu vivo, un'illusione ben fabbricata.
Era inutile che avesse incantato il suo aspetto da demone per evitare di attirare l'attenzione, quando poi il suo alter-ego umano indossava una suit da manager di un rosso intenso dalla testa ai piedi. Quando stavamo aspettando la metro, avevo l'impressione snervante di stare vicino a un cartellone pubblicitario di Playboy.

Se non ero brava a distinguere le tipologie di magia, avevo un vero e proprio talento per vedere attraverso illusioni, glamour delle fate, incantesimi di camuffamento.
Mi concentrai sulla figura di Tetigistus, come se volessi metterla a fuoco, e spostai il punto di vista. Il livello cambiava, come in quelle figurine animate che trovavo da piccola nelle patatine: i lineamenti di Tetigistus rimanevano gli stessi, ma la pelle diventava scarlatta come il sangue e gli occhi gialli avevano la pupilla rettile. Tutto il corpo nudo era pieno scarnificazioni, piercing e tatuaggi di sigilli. Tenni lo sguardo ben sopra al suo ombelico.
L'impermeabile era carbonizzato e Camlo non aveva trovato una giacca da darci; ma conoscendo quanto era tirchio, probabilmente mi aveva mentito.

La ragazza scese, non prima di essersi girata l'ultima volta verso Tetigistus. Me la immaginai da sola, di notte magari, in un vicolo con un diavolo. Rabbrividii.

Risuonò nel brusio della metro Girls Girls Girls dei Motley Crue, facendomi sussultare. Tirai fuori lo smartphone dalla tasca dei jeans.

Sullo schermo lampeggiava a bianche lettere la parola Papà.



***



Tetigistus scostò la tenda e uscì dal camerino. I boxer con la stampa di palme su sfondo blu contrastavano con la sua pelle
rossa. Erano lunghi e lo coprivano dai fianchi alle ginocchia.
Niente più piselli al vento! Un traguardo per la civiltà!
Ero commossa.

Tetigistus si rimirò nello specchio. Schioccò le labbra e si girò verso di me.

-Dici che sono gli specchi di questo negozio che ingrassano?- Si accarezzò la pancia piatta, valutandola, come una mamma in dolce attesa.

Una signora di mezza età, con una bambina piccola appresso, uscì dal camerino e squadrò Tetigistus dalla testa ai piedi. Con la faccia di una persona che ha appena mangiato una mosca, prese la bambina per la mano e uscirono alla svelta verso il corridoio della cassa.
Doveva essere ben strano vedere un uomo indossare un paio di boxer sopra i pantaloni di una suit. Oppure si era scandalizzata per i piercing da drogato; la mente della vecchia generazione è un mistero per me.

Lo smartphone squillò per l'ennesima volta. Continuai a fissare il numero di mio padre che lampeggiava sullo schermo. Smise di suonare; avevo lasciato cadere trentasette chiamate. L'insistenza era una qualità di famiglia.

-Se sento ancora una volta la voce di Vince Neil che canta quello stupido ritornello, trasformerò questo negozio in un lago di sangue prima che tu riesca a fermarmi- disse Tetigistus. Conoscendo la natura dei diavoli, l'avrebbe potuto fare anche solo per puro dispetto. Il caos è l'obiettivo.

Misi il telefono in modalità offline e un orribile senso di colpa mi prese lo stomaco, come se avessi fatto una cosa molto, molto brutta. Una frase aleggiava nell'aria e diceva “Sei la solita inaffidabile, buona a nulla!” e la voce era quella di mio padre. Mi sudavano i palmi delle mani con cui reggevo lo smartphone.

In coda alla cassa, sentivo il mondo circostante distante, galleggiare lontano da me.
Cosa potevo fare? Non pensavo di doverlo affrontare così presto. Non ci avevo voluto pensare.
Come aveva fatto a sapere del Black Hole? Camlo si passava informazioni con la canonica di Roma; era stato lui a
tradirmi?

Ci separavano seicento chilometri, ma era come se non me ne fossi mai andata da casa. Potevo quasi vederlo, mio padre, seduto dietro la sua scrivania che mi fissava con disapprovazione; “Oh, Becca, hai dato fuoco a un locale? Questo è un nuovo traguardo di inettitudine anche per te” avrebbe detto, scuotendo il capo.
Volevo urlare dalla
frustrazione, ma alla fine mi uscì solo uno sbuffo arrabbiato.
La signora cinquantenne di prima si girò a guardarmi sdegnosamente. Prese la busta con i suoi acquisti e se ne andò via, con la bambina che le trotterellava dietro.

La commessa afferrò i boxer e li passò sopra lo scanner del registratore di cassa.

-Sono nove euro e novantanove centesimi, prego- disse, mentre toglieva la placca antitaccheggio.

Tetigistus sgranò gli occhi e al
le mani ai lati della faccia.

-Ah! Io non ho niente. Dove li mettevo i soldi, scusa?- mi chiese, innocente.

Un posto ce l'avevo in mente.

A malavoglia tirai fuori il mio portafoglio. Dentro scintillavano gli ottocento euro in pezzi da cinquanta che Grace mi aveva dato per la taglia dei tre diavoli del Black Hole. Li avrei dovuti usare per le rate arretrate dell'affitto e le bollette; anche il frigo era vuoto. Senza sapere perché, afferrai due pacchi di calzini negli espositori vicino alla cassa, un set di lucidalabbra e passai tutto alla commessa.

-Anche questi, grazie- le dissi.

Avevo trecentosei paia di calzini a casa, letteralmente. Non avevo il benché minimo bisogno di comprarne altri, ma la stampa a fiori di ciliegio era carina. Mi ricordava il Giappone.

Li pagai e mi sentii subito meglio.




***



C'erano tre vie, a detta di Camlo, per entrare nelle catacombe: un passaggio segreto in San Bernardino delle Ossa, nella cripta della chiesa dell'Annunciata e infine nella basilica di Sant'Ambrogio. Ce n'erano probabilmente di più, aveva detto, ma queste tre erano le più note e agibili, sopravvissute ai bombardamenti della guerra.
Dubitavo che avrei potuto usare la prima, sempre presa d'assalto da gruppi di turisti giapponesi. La chiesa dell'Annunciata non avevo la benché minima idea di dove fosse -avevo usato con Camlo la tecnica del “sorridi e annuisci”.

Rimaneva la basilica di Sant'Ambrogio, la scelta più facile e ovvia, se non fosse stato per Tetigistus: stava facendo di tutto per essere una palla al piede. Quando avevo fatto l'osservazione che gli umani non vanno in giro con i boxer sopra ai pantaloni, lui aveva fatto sparire i pantaloni frutto dell'incantamento. In pieno novembre, stava andando in giro con i boxer a palme e una giacca rossa da manager. Adorabile.

-Quanto vuoi star qui?-
mi sussurrò Tetigistus all'orecchio.
-Stammi lontano!- ringhiai. Eravamo appartati dietro un pilastro nel portico della chiesa, accucciati l'uno accanto all'altra. La puzza di zolfo di Tetigistus mi irritava.
Cinque minuti prima un gruppo di
chierichetti, di ritorno dalle prove del coro, ci era passato davanti. Appena si erano accorti di noi, il loro chiacchiericcio era morto, e si erano messi a fissare Tetigistus come se fosse una nuova specie di Pokémon.

-Ehi ragazzi, devo parlare con il Don. Dov'è?- gli avevo chiesto. Quello più sveglio aveva chiuso la bocca e mi aveva squadrato da capo a piedi.

-È ancora dentro dalla messa di stamattina, doveva vedersi con un fedele- e guardò l'orologio al polso magro. -Esce tra poco per il pranzo, te lo chiamo?-

-No, grazie, lo aspetteremo qui.- Gli sorrisi, cercando di sembrare rassicurante. Il ragazzino mi guardò con aria dubbiosa, come se non sapesse se fidarsi o no. I suoi amici lo chiamarono, e il gruppo sparì oltre al portone.
Mi sporsi dal pilastro per vedere la porta d'ingresso della chiesa. Nessuna traccia del parroco.

-Non lo puoi ipnotizzare? Manipolare? Circuire? Sai, quelle robe per cui i diavoli sono famosi.- dissi, girandomi verso Tetigistus.

-Sì, se è fuori dalla chiesa. Lì dentro la mia magia non ha effetto.- rispose Tetigistus.

-Quindi aspettiamo che esca. Sei sicuro di riuscire a scassinare la porta?-

Tetigistus mi sorrise lascivo, come se avessi fatto qualcosa di eccitante. -Le mie dita sanno fare molte magie.-
Mi mostrò il palmo vuoto della sua mano affusolata e magra. Schioccò le dita e una sigaretta gli apparì tra indice e medio; se la mise tra le labbra, sempre sorridendo. Quindi aveva mentito sul portafoglio, poteva materializzare a sé gli oggetti di sua proprietà!
Gli strappai la sigaretta dalla bocca con stizza e me la misi in tasca.

-Non fumare.-

-Non abbiamo nient'altro da fare. Mi annoio.-

-Annoiati allora, basta che non inquini l'aria.-

I suoi occhi azzurri divennero ostili.

-Mi chiedo cosa mi stia trattenendo dal tagliarti la gola e andarmene via.-

-Camlo e la sua maledizione?- dissi io, noncurante.
Tetigistus soffiò tra i denti, simile a un gatto. Tornai a sbirciare la porta di legno della chiesa:
ancora nessuna traccia di vita.

-Che maledizione è? Ti chiude in quel vaso per l'eternità, come il genio della lampada?-

-Non è una cosa legata al presente: è una maledizione che mi lega a tutti i tempi passati e futuri, usando un oggetto a scelta come nodo che collega le varie dimensioni temporali. Comunque non è un vaso: è un vomitatoio etrusco.-

-Ah-ha! Lo sapevo che non era un vaso per le piante: mi sembrava un pitale.- La mia voce rimbombò per il porticato. Pitale-ale-ale. -Finissimo- aggiunsi, abbassando la voce.

Ero seriamente ammirata dai poteri di Camlo: compiere, controllare e dominare una maledizione del genere era difficilissimo. Poteva rivoltarsi contro al mittente se il rituale non si chiudeva bene: aveva scommesso tutto sulla propria bravura pur di legare a sé un diavolo.

-Il tuo amico è pazzo, mi fa paura- disse Tetigistus e rabbrividì. -Parla con l'affettazione di un lord inglese, bello e borghese con la sua chioma e baffi impomatati e tatuaggi old school, ma ho visto la sua vera natura: è peggio di me. E' difficile essere peggio di me.-
-Sì, lo chiamano il Ramsey Bolton di Sesto San Giovanni. Vuoi dirmi cose che non so di già? O puoi stare zitto.-

Alzai gli occhi al cielo: un diavolo che si mette a fare la morale sulla stronzaggine degli uomini. Non l'aveva mai aperto un libro di storia?

Guardai l'orologio: erano le due e dieci.

-Ascolta, tu stai qui. Io vado a vedere come è la situazione nella chiesa.- Tetigistus alzò il pollice in segno di assenso. Non feci in tempo ad allontanarmi di qualche passo che aveva fatto comparire un'altra sigaretta.

Non ero mai stata a Sant'Ambrogio, nonostante mi fossi trasferita a Milano da un anno ormai. Aver avuto una professoressa stronza di storia dell'arte doveva avere notevolmente contribuito al mio disinteresse per gli edifici storici. Passai sotto le tre arcate del porticato. La porta era enorme, di legno, decorata con scene bibliche. Un battente era stato lasciato aperto.

Entrai nella chiesa. Nelle tre navate alleggiava il silenzio denso tipico dei luoghi sacri. Mi spostati verso destra dove, sopra a un piedistallo, la statua di Sant'Ambrogio guardava benevola un invisibile interlocutore, tendendogli la mano.

Ancora nessuna traccia del parroco. Era possibile che fosse uscito senza che io e Tetigistus l'avessimo notato?
Percorsi tutta la navata fino in fondo, trovandomi davanti all'altare, posto sotto a un magnifico ciborio di legno e oro. Stavo per tornare indietro a chiamare Tetigistus quando sentii un lento gocciolare d'acqua.
Mi girai per capire da dove provenisse. Gesù Cristo, dipinto sul fondo della chiesa, mi guardava dall'alto del suo trono. I suoi occhi erano grandi e neri, due pozzi senza emozione. Ebbi un brivido di paura.

Mi spostai nella navata di sinistra, passando in mezzo ai banchi dove si siedono i fedeli durante la messa. Un piede mi scivolò in avanti e mi dovetti aggrappare con tutte e due le braccia alla colonna per non cadere.

Sul pavimento si apriva una pozza di sangue. Attaccato al muro, c'era il confessionale: una porta era stata divelta e pendeva dai cardini. L'altra era chiusa: da sotto filtrava sangue, che gocciolava giù per il legno e si allargava sul pavimento di pietra, raggrumandosi nelle intersezioni delle mattonelle.

E' troppo sangue per un uomo solo,” fu la prima cosa che pensai, stupidamente. Il sangue aveva sporcato le mie scarpe. Nella pozza scura mi sembrò di vedere riflesso un movimento e mi girai di scatto. Non c'era nessuno, tutto era immobile nella tranquillità della chiesa. L'odore dolciastro che aleggiava nell'aria mi punzecchiò il naso, nauseandomi.
Rimpiansi di aver lasciato la custodia di violino con il fucile ai piedi di Tetigistus.

La superficie nera della porta del confessionale sembrò guardarmi.

Non volevo aprirla e volevo aprirla. Sentii il cuore battermi nelle orecchie mentre mi avvicinavo, facendo attenzione a dove mettevo i piedi.

Non me n'ero accorta, per via del suo colore scuro, ma qualcuno aveva inciso nel legno un pentacolo rovesciato in un cerchio. Diviso in dodici spicchi, c'erano alcuni simboli di demonologia. Riconobbi alcuni nomi di maggiori demoni: sembrava un simbolo di offerta.
Avrei dovuto chiamare Tetigistus, ma quella porticina mi parlava. Sussurrava parole in lingue che non capivo, suoni che mi accarezzavano le orecchie come insetti. Rabbrividii. Erano così flebili da sembrare frutto della mia immaginazione. C'era qualcosa che respirava dietro quella porta, chiamandomi a s
é.

Misi la mano sulla maniglia. La aprii.












NdA: Ringrazio chi ha messo la storia nelle preferite/seguiti e chi ha commentato, siete dei tesorih.

Un grazie speciale va ad Aina, che mi ha betato questo capitolo :)







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Capitolo 4
*** 4. Capitolo IV ***


.Capitolo quattro.






Quando succedono cose straordinarie, fuori dalla routine quotidiana, c'è lo shock; e allo shock, segue la dissociazione. Sei il protagonista di una barzelletta, e una di quelle neanche tanto divertenti. La mia mano si posò sulla spalla di Tetigistus e l'azione mi sembrò lontana, come riprodotta sullo schermo di un televisore.

Tetigistus sussultò e, girandosi di scatto, mi bruciò le dita con la sigaretta accesa. Non sentii dolore.

"Mi hai fatto venire un colpo!" Il viso preso dall'agitazione era molto umano. L'illusione si infranse quando dilatò le narici e cominciò ad annusarmi. "Puzzi di sangue" disse. Mi guardò gli anfibi.

Avevo lasciato sul mio cammino, dal portone fino alla colonna, una fila di impronte rosse.

"Vieni con me" dissi, prendendo la custodia del fucile. La mia voce era davvero così gracchiante e sgraziata?

Trascinai Tetigistus per la manica senza aspettare risposta, sentendolo incespicare e imprecare dietro di me. Entrammo in chiesa e appena varcata la soglia, la stoffa svanì sotto alle mie dita. Tetigistus era tornato al suo aspetto demoniaco.

Passammo accanto all'acquasantiera Tetigistus se ne tenne a debita distanza oltre il tavolino delle candele e delle offerte. Dopo la prima colonna, il confessionale era davanti a noi.

"Lì." indicai.

L'abitacolo interno era piccolo, dello stesso ebano scuro della parte esterna. Difficile che ci potesse entrare più di una persona; il parrocco, che da vivo doveva aver amato la buona cucina, aveva i fianchi schiacciati contro le pareti.
L'avevano appeso a testa in giù, per i piedi, con una corda. La stazza gli impediva di ciondolare, ma le braccia lasciate libere ondeggiavano ai lati della testa. La gola era tagliata: il flusso arterioso aveva ridipinto di rosso l'intero abitacolo.

E gli occhi...gli occhi non c'erano più. Concentrai il mio sguardo sul suo mento e la bocca semiaperta. Non volevo più vedere quelle due orbite vuote e cave, di un rosso scintillante. Erano un pensiero infetto, uno di quelli che vuoi fuori dalla tua testa il prima possibile, prima che germogli incubi.

Tetigistus abbassò la camicia insanguinata, sfilandola dai pantaloni.

"'Chi l'ha fatto ha stile." disse, sinceramente impressionato.

La pelle molle della pancia era stata incisa con tagli netti, da coltello. Riconobbi subito il pentacolo, perché era lo stesso che c'era sulla porta.

"E' un sacrificio." disse Tetigistus. "E questo" picchiettò con la mano sul legno del confessionale "è il pacco regalo."

Volevo vomitargli sui piedi, ma non sarebbe stato professionale.

"Un regalo per chi?"

"Lucifero" indicò il centro del pentacolo. "E i dodici demoni maggiori" seguì con il dito la circonferenza del cerchio. "Che, in sé, non significa un cazzo. Anche io quando uccido, corrompo o fotto onoro l'atto a Lucifero, è roba che porta buona fortuna. La cosa strana è che si sia disturbato a prendersi gli occhi."

"Perché è strano?"

"E' una cosa che io non farei. Non ha alcuna utilità."

Feci delle foto con il mio smartphone: al corpo, ai pentacoli, al confessionale. Quanto arrivò il momento di farla alla faccia, guardai altrove, sperando che non venisse sfocata. Lo shock stava svanendo e avevo caldo. Tremavo per l'adrenalina, e mille pensieri di cui era difficile tenerne lista sfrecciavano per la mia testa.

"La cosa importante è andarsene da qui il prima possibile." Non stavo stavo parlando a Tetigistus, ma a me. Lo facevo sempre quando dovevo costringermi a essere razionale. "Ci sono le mie impronte dappertutto. Non devo essere trovata qui, sono già ricercata." 

"E il portale?"

"Il portale andiamo a chiuderlo, adesso. E' pericoloso." E devo pagare i debiti della mia MasterCard, aggiunsi mentalmente.

Tetigistus smise di leccarsi il sangue dalla mano che schifo e indicò la statua di Sant'Antonio, piccola piccola dalla parte opposta della chiesa.

"Dopo di te."



***



Peccato che, prima di noi, qualcuno avesse già aperto il varco.

"Pieghi le mani seguendo questa inclinazione, le hanno fatte snodate apposta. E poi sposti la statua..." Tetigistus grugnì dalla fatica, mentre faceva roteare il busto del santo "...per tre volte.

"Fermo."

"Che c'è?" Tetigistus seguì il mio sguardo.

La pala di Sant'Ambrogio che ferma Teodosio, dietro la quale Camlo aveva indicato l'entrata, era stata squarciata. A malapena si distingueva il soggetto originale.


Il diavolo -supponevo che solo un diavolo potesse fare una cosa del genere- non aveva avuto la stessa pazienza di girare statue. O granché rispetto per i beni culturali.
 

La pala era nascosta in una cappella laterale. Era possibile che non avessi notato quella devastazione quando avevo fatto il giro della chiesa? O era stata fatta dopo? Sentivo la paranoia salire al pensiero che l'assassino potesse essere stato lì, con me, nascosto.

Tetigistus era salito sui gradini di marmo che conducevano alla pala. Allungò la testa oltre lo squarcio.
"C'è odore di sangue quaggiù." disse. E sparì oltre.

Lo seguii.

Dietro la tela c'era un piccolo anfratto circolare. L'entrata era un buco nel pavimento, del diametro di mezzo metro. Un lastrone di pietra, che era stato appoggiato a lato, nascondeva l'apertura.

Tetigistus si era già calato lungo una scala a pioli fino alla vita.
Non avevo voglia di imitarlo. A pensarci bene, volevo fare il rewind della giornata e restare a dormire a letto. Il lunedì era una giornata pesante di suo: perché aggravarla mettendosi all'inseguimento di killer sanguinari?
Intravedevo, a malapena, la coda di capelli neri di Tetigistus che ondeggiava sotto di me.

Dei mormorii provenirono dalla porticato della chiesa.

Oh, fanculo!

La scala era lurida di ruggine e sporco, e mi graffiò i palmi delle mani. Cominciai la discesa.

Dopo diversi minuti, il cunicolo non sembrava giungere a una fine. La cosa peggiore era il buio totale. C'era una corrente d'aria che proveniva dal fondo e mi schiaffeggiava i capelli in faccia; e in sottofondo un rumore, un rombo particolare, come se fossimo in prossimità del mare.

Finalmente la discesa finì. "Stammi dietro." La voce di Tetigistus veniva dalla mia destra. Sentii i suoi passi allontanarsi.

Imprecaii e cercai la torcia che mi ero portata dietro, dispersa nel caos della borsa. La trovai, un piccolo cilindro di plastica solida sotto la mano. Il flash illuminò la parete della grotta, che sembrava scavata a mano. Era umida d'acqua, che alla luce artificiale riluceva di bianco.
Sul fondo della stanza c'erano tre aperture ovoidali, strette e lunghe. Come se fossero state create per creature molto alte e magre. Tetigistus scomparì dietro la porta centrale.

Camminammo in silenzio per le catacombe; per i primi cinque minuti ce la feci a tenere a mente le scelte di Tetigistus, poi mi arresi. Era tutto un intrico di cunicoli che portavano a stanze circolari in cui si aprivano altri cunicoli. Non c'erano punti di riferimento. A volte, Tetigistus esitava ai crocevia, ma era solo per pochi secondi. Sentivo alle mie spalle quel labirinto come un mostro, una cosa sconfinata e sconosciuta e paurosa. Se mi fossi persa, avrei vagato per quei tunnel fino alla morte.

Camlo aveva ragione, senza una guida non ne sarei più uscita, come tante persone e creature prima di me. Dipendevo da Tetigistus, ed era un pensiero altamente ansiogeno.

"Eccoci, dobbiamo scegliere." disse Tetigistus, fermandosi al centro di una sala.
"Cosa?"

"A destra c'è la via per il portale. La porta centrale è quella che ha preso l'assassino, sento l'odore delle sue tracce. Porta a quel labirinto del formicaio fatato."

Aveva usato il plurale "dobbiamo scegliere" ma era chiaro che la decisione era solamente mia.

"Andiamo a destra. La priorità è il portale. Chi ha ucciso il parroco-" Un volto senza occhi, sangue sul pavimento, carne molle incisa. "C'è il rischio che non possiamo prenderlo o che sia un avversario al di sopra delle mie possibilità. Se fossi meglio attrezzata, direi di sì ma così..."

Con un Remington che va a speranza, pensai senza completare la frase.

"Brava, essere codardi è essere saggi. Si vive a lungo." Tetigistus mi fece l'occhiolino. Sembrava approvare sinceramente la mia scelta.



***



Le catacombe precedevano tutto, Milano e Mediolanum e Medhelan.

Precedevano anche le fate, che le avevano ampliate e rese il loro nido inespugnabile, anche se queste nei loro testi se ne attribuivano addirittura la maternità. Non che ci fossero più fate a Milano, sopra o sotto terra. Lo smog, l'inquinamento e gli scarichi industriali facevano venire loro il cancro, costringendole a una morte lunga e dolorosa. Erano fuggite.

Quell'immensa città sotterranea era quindi, in parte, stata occupata da diavoli, demoni, vampiri e molto altro. Molto altro che amava rifuggere alla luce.

"Che traffici avevi qui?" chiesi.

"Cocaina, eroina, barbiturici, benzodiazepine. Chi voleva fuggire dalla realtà, chiedeva a me.”

Tetigistus non era il primo dei diavoli che incontravo con giri del genere: portare le persone sulla cattiva strada è la loro, di droga.

Fammi indovinare: ti sei allungato nella zona sbagliata, hai scornato con Camlo, e adesso per punizione hai la tua essenza legata a un cesso?”

Sei scema? Io la roba la compravo da Camlo.”

Ero shockata; Camlo non era uno spacciatore. Pensai subito a una bugia: i diavoli amano seminare zizzania. Ma Tetigistus non sembrava essersi accorto della mia reazione.

“Siamo quasi arrivati” disse Tetigistus. Arrancavo dietro di lui nel tunnel, che si stava abbassando sempre di più. Tetigitstus fu costretto a piegare la testa per non strisciarla contro il muro. Il cunicolo finì.

Eravamo in una sala, grande come una piazza. Al centro torreggiava una colonna di pietra, e si perdeva nell’oscurità nel soffitto. Non c’era più bisogno della mia torcia: l’ambiente era illuminato a sufficienza da quelli che sembravano funghi luminescenti, che crescevano dappertutto, specialmente sulla colonna, ed emanavano un alone verde.

Piccole spore fluttuavano nell’aria, simili a lucciole.

“Stai attenta” mi disse Tetigistus. “Non c’è il corrimano.”

Scendemmo gli scalini, io con una mano appiccicata alla parete. Era morbida al tatto, ricoperta per la sua interezza da muschio.

Mi avvicinai alla colonna: dal basso era imponente e viva. Quegli strani funghi bioluminescenti l’avevano avviluppata per tutta la sua interezza, ma si poteva intravedere al di sotto delle rune fatate. Poggiava sul tronco mozzato di un albero, che un tempo doveva essere stato gigante: le radici erano grosse, tanto forti che da viva la pianta  si era fatta strada nel pavimento di pietra.

“Non è qui il portale. Andiamo oltre.” disse Tetigistus.

Mi irritò, ma d’altronde mi irritava tutto ciò che faceva. Avevamo passato quelle che mi parevano ore in cunicoli sporchi e claustrofobici e adesso, che c’era qualcosa di interessante, se ne voleva andare subito.

Tra le radici c’era un altare, e sopra all’altare una sfera nera. Al centro c’era un vortice fatto di venature. Si muoveva così lentamente da sembrare un’illusione ottica.

Mi ricordava una delle pietre tonde, usate nella cristalloterapia, che mia madre amava collezionare. Le teneva nella credenza antica della nonna, e da piccola passavo i pomeriggi ad ammirarle e contarle.

Volevo toccarla.

Allungai la mano. Un dolore mi colpì a un lato della faccia, la vista si annebbiò. 


Tetigistus mi aveva dato un cazzotto.









PS: Ho fatto il respawn come Gesù! Buona lettura e se vi piace la storia (o se la odiate ╥ω╥), lasciate pure un commento o critica che sia      

Rory

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