Rimani in silenzio se vuoi vivere

di FigliadiDurin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fresco ***
Capitolo 2: *** Freddo ***
Capitolo 3: *** Gelo ***
Capitolo 4: *** Ghiaccio ***



Capitolo 1
*** Fresco ***


Rimani in silenzio se vuoi vivere


Oceano Atlantico 49°13’45’’N- 5°30’14’’W
XVI secolo


Fresco
«Comandante, credo che issare le vele sia una scelta ben più saggia di remare»
«Zitta donna, gli ordini li do io» sentenziò il capitano Alfieri, sputando sulla grossa galea prima di ridere compiaciuto sotto i baffi.
Nonostante il vento favorevole l’Incubo dei mari procedeva grazie alla forza di instancabili rematori. Non si poteva certo dire che il capitano preferisse rimanere altre settimane sul mare piuttosto che riavere un tetto sotto la testa, ma provava un malvagio divertimento nello schernire e umiliare l’unica donna a bordo. Se soddisfare il suo bizzarro desiderio significava posticipare la data di rientro, quello era stato tempo ben utilizzato.
Nessuno sulla nave aveva stretto amicizia, né aveva mostrato il minimo segno di rispetto per la giovane Eloisa, gracile rematrice allo stremo delle forze. Senza mai darsi per vinta la sciagurata aveva accettato il suo destino cercando di svolgere il suo compito nei migliori dei modi, impresa che tuttavia le aveva riservato un paio di soddisfazioni. A causa della salute cagionevole non poteva di certo contare sulle sue deboli braccia, ma presto scoprì che affidarsi alla sua mente era un’attività assai migliore e confortevole.
Gran parte degli altri rematori erano tutti galeotti. Ladri e stupratori nei migliori dei casi, assassini o nemici del re nei peggiori. Eloisa non voleva confondersi con quella gente, aveva paura di loro e di quello che erano capaci di farle e dirle quando alzavano troppo il gomito con il vino. Gli ufficiali erano ancora peggio; altezzosi ma di basso lignaggio, usavano la loro carica come un mezzo per vantarsi. L’unico che le aveva riservato un sorriso amichevole era stato il cambusiere, ma lui era morto durante l’ultima tempesta e ogni speranza di essere accolta era andata in frantumi.
Abbassò il viso per fingersi vergognata ed intimorita a causa del rimprovero, aspettò in silenzio che i compagni smettessero di ridere e quando lo fecero continuò a remare rimanendo in silenzio. Voleva ritornare a casa più di tutti per riabbracciare la sua famiglia e sentirsi finalmente libera, ma se questo era un primo motivo se ne aggiungeva un altro più profondo e misterioso. La notte non dormiva più e anche di giorno il remare non la distraeva dagli incubi che le stavano rendendo la vita molto difficile. Di tanto in tanto alzava gli occhi al cielo per assicurarsi che fosse ancora azzurro e si meravigliava nel constatare che il mondo, così come lei lo conosceva, non era cambiato. Doveva riposarsi se voleva che la sua unica arma, la mente, non l'abbandonasse nel momento della battaglia.

***


Quel giorno il sole calò presto; se da un lato la prospettiva di non avere più le spalle esposte a quel naturale pericolo era allettante, dall'altro un tramonto così repentino era qualcosa di allarmante.
«Un’ora e venticinque di anticipo, che cosa sta succedendo?» osservò il capitano conservando l’orologio da taschino nel malandato panciotto, mentre si picchiettava la testa pensieroso. Contava spasmodicamente, da ormai settimane, l’ora esatta in cui il sole sarebbe tramontato, rammaricandosi nello scoprire che l’astro lo batteva sempre in velocità. In un primo momento, Eloisa e perfino gli altri membri dell’equipaggio avevano giustificato gli accaduti nei calcoli sbagliati del comandante, ma con il passare dei giorni non era stato necessario nemmeno avere pergamene od orologi sotto mano; l’anticipo del calare del sole si percepiva chiaramente.
La rematrice avvertì un brivido di freddo lungo la schiena. Chiuse gli occhi cercando di godersi il rumore del mare e isolarsi da quello cacofonico dei compagni, ma gli incubi riaffiorarono velocemente e pensare le annebbiava la mente. Provò pena per il capitano, così superbo nel bacchettarla, così piccolo davanti a quell’alone di mistero che lo perseguitava. Avevano però qualcosa in comune; due anime che portavano il peso di incomprensibili preoccupazioni, attente guardie disarmate di quel mondo così fragile che, da giorni, era sempre più intimorito da una minaccia sconosciuta.
Sulla galea sembravano gli unici a possedere un’anima viva, scalpitante, famelica di sapere, potere e libertà. Eloisa sembrava accorgersene, ma condannata a stare dietro ad un grosso remo di legno preferiva non dire niente. Il capitano era immerso in quella sua aurea di superiorità che non gli permetteva di sfruttare le sue potenzialità.
Non si poteva di certo definire affascinata da quell’uomo, anzi era semplicemente disgustata davanti a quella riprovevole idea. Rimaneva un uomo rozzo e burbero, bieco e poco incline al sentimentalismo, lacerato dall’odio per i ceti più umili e dal disprezzo verso il genere femminile. Il suo modo di sorridere facendo vedere i denti marci, il viso deturpato da una profonda cicatrice che partiva dall’orecchio sinistro fino a quello destro la mettevano in soggezione più di ogni altro volgare scherno nei suoi confronti. Era spaventata da quell’uomo ed aveva imparato ad odiarlo giorno dopo giorno, per ogni umiliazione, per ogni offesa al suo corpo e alla sua mente. Avrebbe voluto sfidarlo, vincere e vedersi trionfante, ma il presente che stavano vivendo avrebbe proposto ad entrambi una battaglia ben più difficile ed epica.



Ritorno dopo molti mesi con una storia completamente nuova. Prima volta che mi cimento in un racconto con ambientazione apocalittica ed è stata una vera e propria sfida per me. Non mi ritengo pienamente soddisfatta della storia ma come ogni mio operato ci tengo particolarmente, spero comunque di non aver fatto un brutto pasticcio. Questa è peraltro la prima volta che scrivo un thriller e non sono nemmeno tanto sicura che possa rientrare in questo genere; in ogni caso ho voluto esaltare anche il mio genere preferito ovvero quello horror.
Vi chiedo scusa per gli errori e ringrazio la beta che si è presa la briga di correggere questo racconto.
Spero che vi piaccia.
Un abbraccio
Francesca

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Capitolo 2
*** Freddo ***


Freddo
«Issate le vele. Fate in fretta.» L’ordine del capitano fu a malapena sentito dal resto dell’equipaggio. Stizzito e con il respiro affannato si recò a poppa; non amava particolarmente cambiare i suoi piani secondo le idee di qualcun’altro, peggio ancora se queste idee erano di una donna.
Il cielo era ormai scuro, cumuli grigi e larghi nascondevano la luna perfettamente piena e chiara. La temperatura era repentinamente scesa e all’odore salmastro del mare se ne era sostituito uno più forte e penetrante: un tanfo di morte, di decomposizione, di qualcosa andato a male.
«Jack, saccheggia la riserva di vino o dammi un cazzotto dritto sul naso, non voglio più respirare» disse sghignazzando Alvaro, primo ufficiale dell’Incubo dei mari, facendo scoppiare una strana ilarità sulla nave; i compagni vennero coinvolti in una risata isterica, perfino Eloisa si lasciò un po’ andare.
«Quel vino fa troppo schifo. Sì, donna, porta tutte le bottiglie che abbiamo» ordinò il grasso Jack con un ghigno beffardo stampato sul viso, mentre sputava le briciole del pane che stava mangiando.
«Dai, sguattera» intonò il resto dell’equipaggio, mentre il capitano se ne stava estraniato abbastanza da non creare ulteriori disagi ad Eloisa.
La ragazza si alzò dalla sua posizione con il capo basso e si incamminò tenendosi la gonna con le mani per evitare che i compagni la toccassero. Era abituata anche a questo; si era ribellata una sola volta per il diritto di portare i pantaloni, ma gli schiaffoni del capitano e i calci dei compagni l’avevano persuasa ad abbandonare ogni idea di insurrezione.
La stiva della galea era bassa e piccola, carica di merci appena comprate dall’Egitto e pronte per essere rivendute nella madrepatria Inghilterra. Eloisa dovette stare attenta a non sbattere la testa ed a causa del buio non riuscì bene a distinguere le riserve là sotto. Nonostante la poca luce riuscì a scorgere le bottiglie di vetro pensando ad un modo che le permettesse di salirne il numero maggiore possibile. Prese due bottiglie del liquido scuro, sbirciò attentamente se ci fosse qualcuno che la seguiva e poi aprì il vino per assaggiarne un sorso. Strinse gli occhi e fece una buffa smorfia al passaggio dell’alcol nella gola e al bruciore che esso scatenava. Non le era permesso bere e nonostante non le piacesse farlo, assaporare furtivamente quella cattiva vendemmia la faceva sentire un po’ più libera.
Chiuse velocemente la bottiglia ma un forte boato la costrinse ad appoggiarsi alla parete di legno della stiva. Il cuore le martellò nel petto e davanti alla retina presero vita gli occhi gialli che animavano i suoi incubi. Urlò, pregò che nessuno la sentisse e cercò di tenersi in equilibrio.
Non capì quello che le era successo: si massaggiò le tempie come per rimettere a posto e nello stesso tempo zittire tutti i brutti pensieri. Si poggiò poi una mano sul cuore e una sulla pancia per calmarsi da un inutile spavento. Rivolse il suo sguardo al mare, come sempre faceva in quei casi; le onde calme e azzurre la mettevano sempre di buon umore, ma poi pensò che il boato doveva essere stato prodotto dal mare e dopo non seppe più su cosa riflettere.
Prese con difficoltà due bottiglie di vetro, le sue mani erano fredde e dure come il diamante. Udiva le grida dei suoi compagni, altri mormorii leggeri e volgari imprecazioni, ma non erano rivolti a lei e questo la turbò. Si stava ancora reggendo alla parete quando avvertì un secondo boato, più profondo del primo e le urla dei compagni più acute del solito.
L’onda aveva spezzato di netto due remi di babordo, bagnando e squarciando le vele del primo albero. A giudicare dai danni doveva essere stata più forte di quanto lei avesse immaginato.
Robert, il più giovane dei rematori, che a soli quindici anni aveva rubato nella banca di un rispettato aristocratico guadagnandosi presto il rispetto degli altri uomini sulla nave, in quel momento stava estraendo con attenzione una scheggia di legno dal braccio di Alvaro il cui viso era diventato di un bianco cadaverico.
«Donna, aiuta a sistemare» disse il capitano con inaspettata calma, non sembrava particolarmente smosso dall’accaduto; forse arrabbiato e indispettito ma di certo non turbato, come se già si aspettasse un evento simile.
«E voi, femminucce, fate silenzio. Rafforzate le vele e cercate di rimanere in equilibrio sui vostri piedi, il mare questa notte ci riserverà alcune spiacevoli sorprese».
«Sì, capitano» risposero eccitati in coro i rematori più giovani, evidentemente galvanizzati dalla burrasca che non avrebbe permesso loro di chiudere occhio durante la notte, desiderosi di affrontare il pericolo, inesperti e profondamente ingenui.
«Ci sono nubi sì, ma non sembra che stia per piovere. Non ci sono motivi per cui il mare debba essere agitato» azzardò Eloisa, nonostante non fosse solita farlo. Aveva riacquistato un po' di forza e le mani le dolevano ancora, ma il peso sulla sua mente era notevolmente alleggerito.
«Zitta donna, fai quello che ti è stato comandato» gridò qualcuno in sottofondo. Un’onda ancora più alta si infranse rovinosamente nella murata facendo sobbalzare l’equipaggio.
«Stiamo navigando in acqua tranquille. Io, davvero, non capisco» rimuginò il capitano a bassa voce, quasi come per volersi confortare più che informare i compagni. Eloisa udì a malapena quelle parole; cercò il viso accigliato del superiore tra le altre facce entusiaste e smarrite, ma quando vide i suoi occhi sbarrati ne ebbe paura. Si chiese se anche lei mentre pensava avesse lo stesso sguardo terrificante.

«Il fetore è aumentato. Sarà morto qualcosa di grosso nel mare» disse Alvaro stringendo la torcia con il braccio sano, illuminando una piccola chiazza di oceano: nonostante il naso tappato, non riuscì a mantenere il conato di vomito dentro la bocca. Il mare era diventato più scuro, non il colore che ci si aspetti che abbia al calare del giorno, ma un nero simile alla pece. Anche il rigurgito del rematore aveva assunto una sfumatura strana.
Eloisa poggiò sul legno scheggiato della nave una delle bottiglie di vino e dall’altra bevve lunghe sorsate. Ebbe di nuovo un brivido di febbre ma il calore provocato dal vino l’aiutò; inoltre la puzza del cattivo alcool coprì per un breve momento il lezzo proveniente dal mare.
Nonostante i richiami del capitano, l’equipaggio continuava a correre forsennatamente da una parte all’altra della nave. Anche nei suoi incubi il caos era il protagonista. Vedeva sempre forme indistinte dai contorni poco definiti, ne vedeva sempre una gran folla. Una massa che si avvicinava, sogno dopo sogno, sempre di più a lei. Non riusciva mai a scorgere nessun volto o almeno non ricordava di averlo fatto; si riteneva sempre soddisfatta nel sonno e sapeva che se lo avesse visto l’incubo sarebbe diventato peggiore. Solo una volta, l’ultima di notte prima di prendere il largo, le erano apparsi gli occhi gialli. Spalancati, ma poco energici: le pupille erano contratte, ridotte a poco più che semplici fessure per far sì che il giallo dell’iride esaltasse nella notte buia. Da quel giorno, ogni volta che chiudeva gli occhi, la stessa immagine continuava a tormentarla.
Quasi come se stesse leggendo nella sua mente, il capitano Alfieri comandò nuovamente il silenzio ritirandosi in cabina con il suo favorito, il giovane nipote Giacomo, senza dare ulteriori spiegazioni.
I rematori avevano occupato le loro postazioni nonostante procedessero a vele spiegate e il lato sinistro portasse troppi danni del mare impetuoso. Erano abituati a non avere terra stabile sotto i piedi, ma sembravano essere impreparati, colti alla sprovvista. I più temerari raccontavano suggestive storie di tempeste, di pirati, di isole leggendarie; volevano distrarsi oppure dimostrare il loro valore davanti al pericolo, ma a questo Eloisa non seppe rispondere. Si era seduta, abbracciandosi le ginocchia per stringersi dentro ad un riccio impenetrabile e nascondendo sul grembo la bottiglia di vino. Ne bevve un altro sorso quando fu sicura che nessuno la stesse guardando. Sentiva di non avere più paura, la mente si stava annebbiando, ma era una sensazione piacevole che di certo l’avrebbe aiutata a sopravvivere nella difficile notte a venire.
«Sembriamo dentro un libro, uno di quelli che fanno spaventare» disse Jack visibilmente scosso, con la voce meno arrogante e più incerta.
«Non sai nemmeno leggere, stai zitto. Hai chiesto il permesso a mamma prima di salire qui?» lo canzonò Charles, del quale si raccontava che avesse sterminato un’intera famiglia a colpi di ascia. Nessuno però sembrò mostragli attenzione, non rideva più nessuno, ma in compenso tutti tremavano dal freddo. La temperatura continuava a scendere. Le mani dei vogatori erano diventate come lastre di ghiaccio, anche esse scure come il mare in cui navigavano.
«Non sentite questo rumore? Qualcuno sta nuotando vicino alla nave» esclamò terrorizzato Robert che, alzatosi sulle gambe malferme, fu costretto a sedersi da un’altra furiosa ondata.
«Siamo in mezzo all’oceano chi vuoi che nuoti qui?» disse Alvaro puntando la torcia verso il mare e non riuscendo a scorgere niente.
Eloisa bevve un altro po' di vino e strinse forte la bottiglia tra le mani. Si accorse che stava sudando freddo e le nocche le diventarono bianche. «Lo sento anch’io. Il rumore di artigli che graffiano sul legno…
«…Shh. Ascoltate. Unghie affilate sembrano conficcarsi nella chiglia della galea. Fa male. Sentite lo stridere. Posso immaginare le schegge di legno che si insinuano nella pelle provocando altro dolore. Stanno venendo a prenderci. Quelli con gli occhi gialli ci faranno del male. Sono tanti.» cominciò Eloisa a vaneggiare. Non le importava se gli altri la sentissero o la credessero pazza.
Non le apparteneva di certo questo coraggio; si sporse dalla nave per dimostrare la veridicità delle sue parole e far vedere che sotto l’Incubo dei mari si stavano nascondendo veri mostri.
«Che sta dicendo? Fermatela vi prego» gridò Alvaro ma questa volta, sotto il suo umorismo, si nascondeva anche una velata preoccupazione. Non credeva alle fantasticherie della compagna, ma c’era senz’altro qualcosa di sinistro in quella faccenda.
Charles si avvicinò alla ragazza da dietro e le premette una mano sulla bocca ma lei rispose mordendogli la pelle indurita dai calli. Il vecchio le diede un manrovescio che la rematrice cercò di ignorare nonostante il bruciore.
«La galea si è appesantita, però» constatò Jack rimanendo ancorato ad uno degli alberi. Un altro strattone e la nave si inclinò leggermente. Il cielo si era completamente oscurato, perfino la luna era stata completamente nascosta dalle nuvole scure. Nessun bianco, nessuna speranza di mantenere la calma, nessuna luce ma solo notte.
«Chiamate il capitano, in fretta. Che cosa sta facendo là sotto?» Alvaro aveva perso le speranze; si tenne come tutti gli altri nel lato ancora a galla facendo così sprofondare ancora di più l’altra parte. Ogni membro dell’equipaggio si era ritrovato in situazioni simili altre innumerevoli volte. Ogni lezione assimilata, però, era stata completamente dimenticata.
Eloisa ripeté l’ordine dettato dall’ufficiale. Qualche goccia di rosso le cadde lungo i bordi della bocca e, rimanendo in piedi solo con la sua forza, arrivò a pronunciare anche un secondo ordine. Lo trovò molto soddisfacente.
«In fretta, forza»
«Abbassa la voce donna, non permetterti di parlarmi così» inveì Charles che lasciò la fune, ma anziché risultare spavaldo e fiero finì per scivolare a causa della pendenza della nave. Una colonna d’acqua si alzò dal mare mostrando agli altri rematori quanto fosse sporco l’oceano. Gli uomini non ebbero tempo per essere allarmati perché Charles continuò a parlare, o meglio gridare.
Fu orribile, spaventoso e tutti ebbero il desiderio di essere sordi.
Si sentì il rumore di carne lacerata, di unghie che strappavano la pelle bianca e vecchia, di ossa rotte, dell’urlo che si trasformò in un debole lamento fino a scomparire. Chiazze di sangue rosso su acqua scura: erano le uniche cose che rimanevano del vecchio rematore.
«Che co… cosa è successo?» Jack stava balbettando mentre una lacrima gli rigò il viso rosso per il freddo.
La puzza aumentò e nello stesso tempo si udì un suono chiaro a tutti. L’affondare di denti nella carne morbida e succulente, il fastidioso e raccapricciante masticare, poi deglutire.


***

«Ci saranno una dozzina di squali, sparategli e finiamola con questa pagliacciata» annunciò il capitano, salito spazientito dalla cabina. Aveva il volto ceruleo e teneva due fucili per mano che distribuì agli uomini di cui si fidava maggiormente.
«Non sono squali, capitano, e lei lo sa bene» disse Eloisa schiarendosi la voce ottenebrata, «Sono quelli dagli occhi gialli».
Alfieri posò per pochi secondi gli occhi sulla rematrice: lei si accorse che erano stanchi, le palpebre pesanti e le pronunciate occhiaie avevano assunto una sfumatura nera. Se il capitano le volle comunicare qualcosa lei non lo capì. Il superiore chiuse gli occhi e contemporaneamente lo fece anche lei.
Nonostante il vino e il coraggio che aveva acquistato, in quel momento Eloisa ebbe paura. Una paura diversa rispetto a quella che l’aveva accompagnata nello scorrere della vita; qualcosa che preannunciava la sua sconfitta, che sembrava inevitabile come lo era il pensiero costante alla morte.
Riservando poca fiducia nel capitano, rimaneva a lei combattere quella battaglia e non era ancora convinta di esserne capace.

Se gli occhi di Alfieri erano stanchi non si poteva di certo dire la stessa cosa sul suo fisico; ancora agile nonostante la mole notevole, si rampicò sull’albero centrale e tra le sartie per spezzare la fune che sosteneva la grande vela trapezoidale. Il risultato di ristabilire l’equilibrio della galea non fu molto soddisfacente, ma almeno il passaggio da una parte all’altra della nave era possibile. Il capitano sistemò gli uomini armati di fucile uno per ogni punto cardinale in modo che ogni lato dell’imbarcazione fosse sufficientemente difeso. Eloisa non si stupì del fatto che Alfieri non avesse tenuto un fucile per sé, sapevano entrambi che un proiettile in testa avrebbe solo offeso quelli dagli occhi gialli.
«Al mio segnale sparate. Non abbiate pietà per loro, così come loro non ne avranno per noi.» La voce voleva sembrare autoritaria e grintosa, ma risultò stanca e quasi patetica. Se era preoccupato, comunque, non lo voleva dare a vedere.

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Capitolo 3
*** Gelo ***


Gelo
Vennero nuovamente sballottati violentemente ma quella volta non fu il mare tumultuoso bensì la galea stessa. L’azione degli squali stava distruggendo la chiglia facendo, così, venire meno l’equilibrio. Anche la stiva, carica di merci, stava subendo lo stesso attacco.
«Ha ragione la donna, c’è qualcuno che sta scavando la nave» disse Alvaro pentendosi, all’istante, di aver pronunciato quelle parole. Non era mai successo che qualcuno avesse dato ragione ad Eloisa e le successive prese in giro dei compagni erano una prospettiva ben peggiore del morire inghiottito da uno squalo o chissà cosa. Al commento, infatti, seguì una risata che coinvolse però solo pochi rematori e che fu stroncata da un cenno del capitano.
Eloisa ingurgitò presto il rosso rimanente nella bottiglia; anche se le girava la testa si scoprì dipendente dal liquido. Tenne la bottiglia stretta all’altezza del grembo mentre distingueva le diverse sfumature dei suoi occhi azzurri nel riflesso sul vetro e parlava distrattamente all’equipaggio.
«È vero, lo sapete anche voi. Dei semplici squali non possono compromettere così una galea. C’è qualcos’altro molto peggiore. Capitano, io sono sicura che lei comprenda. Mi dia ascolto, per favore» pronunciò quell’ultima frase rivolgendosi al proprio superiore ricevendo in risposta un’occhiata stizzita.
«Caricate le armi e poi sparate a qualsiasi cosa si muova laggiù.»
Eloisa ebbe di nuovo paura: una volta che furono premuti i grilletti si generò un’altra volta il caos. I rematori elettrizzati, poco preparati a svolgere quel compito, spararono in qualsiasi direzione mettendo a repentaglio la loro stessa sicurezza. Si sentiva, però, soltanto il rumore dei proiettili che attraversavano l’acqua e si perdevano nelle profondità del mare.
Robert urlò entusiasta quando una sua pallottola affondò nella carne dello squalo ma immediatamente dopo, a smorzare quell’entusiasmo, fu il grido emesso da quella cosa. Impercettibile, appena udibile, ma raggelante.
Il giovane rematore lasciò cadere il fucile paralizzato da quella voce. Si girò verso i compagni con le lacrime agli occhi accorgendosi che il caos era finito, che tutti erano immobili nella loro postazione come se il tempo si fosse fermato.
Il freddo tornò ad attanagliare Eloisa; la ragazza rabbrividì e impallidì fino ad avere la pelle bianca come coloro che hanno smesso di vivere. Si sentì lacrime calde agli occhi ed ebbe più paura di prima: si sforzò di ricordare ma nessun brutto ricordo affiorò nella sua mente. Durante gli incubi quelli dagli occhi gialli non avevano mai parlato o urlato e quell’unica volta, quando furono colpiti, la loro reazione era stata violenta. Poi il nulla, non rammentò che cosa fosse successo dopo.

«Non sono squali» il capitano sentì quasi il bisogno di constatare quell’evidenza, «ma non so cosa realmente siano né come combatterli.»
La donna sapeva che stava mentendo, ma non capiva perché. Il superiore era ormai fuori gioco, dava perfino l’impressione che stesse combattendo una battaglia diversa dalla sua.
«Posate le armi, i proiettili infastidiscono soltanto queste creature» ordinò Eloisa ma i compagni aspettarono l’assenso di Alfieri per eseguirlo.
La nave perse la stabilità; quelli dagli occhi gialli erano riusciti ad entrare nella stiva ed era pensabile che presto sarebbero arrivati nelle cabine. Il mare, da sempre loro alleato, sarebbe entrato distruggendo ogni cosa al suo passaggio, mettendo fine alle loro vite.
«Che facciamo?» proruppe Jack in un pianto a dirotto mentre tremava vistosamente.
«Stia calmo» gli suggerì Eloisa, «che qualcuno prepari le scialuppe di salvataggio, dobbiamo scendere dalla nave. Non siamo al sicuro qui.»
«Non ditemi di stare calmo. Quelli se riescono a salire ci uccidono e se non riusciamo a fermarli ci ammazzano comunque.»
«Si sieda e stia calmo» disse sbrigativamente il capitano che continuava a guardarsi intorno come se fosse alla ricerca di qualcosa.
«No» affermò convinto il giovane rematore battendo i pugni con forza sul legno scheggiato del remo più vicino, ma il suo sfogo fu interrotto da un secondo lacerante urlo, umano quella volta.
«Giacomo…» Alfieri corse subito nella sua cabina per salvare il nipote, per difenderlo dalla morte e gettarsi, in prima persona, nel pericolo.
«Capitano non l’ho faccia» urlò a sua volta Eloisa ma il superiore non le diede ascolto, spintonando gli uomini che cercavano di bloccarlo.
«Lasciatelo morire tanto moriremo tutti. Non abbiamo nessuna via di scampo» disse Jack alzando la voce per quanto ne avesse ancora le forze. Eloisa lo squadrò con gli occhi per riportarlo di nuovo alla calma e si preparò al prossimo urlo di Alfieri, ma questo non avvenne e preoccupò maggiormente l’equipaggio.
«Dobbiamo scendere, bisogna difendere il capitano in qualche modo.» La proposta di Robert non fu accolta così bene come aveva sperato. Nessuno prese l’iniziativa, nessuno si precipitò a sacrificarsi per il superiore. Anche se la morte era vicina nessuno voleva davvero morire.
Non voleva aiutare il suo superiore, non aveva abbastanza forze per farlo; la mattina dopo ogni incubo immaginava di vincere la battaglia in una maniera molto diversa che non implicava mai sangue o morti. Nonostante sapesse che non avrebbe mai potuto sconfiggere quelli dagli occhi gialli così semplicemente, non aveva ancora progettato un piano migliore. Sperava, benché credesse poco nelle potenzialità del capitano, che lui le avrebbe mostrato il giusto modo per vincere quella battaglia.

«Scendiamo dalla nave, quelle bestie stanno arrivando» provò a dire nuovamente Alvaro, ignorato dalla silenziosa comparsa di Alfieri. Tutti si girarono a guardarlo sorpresi e nello stesso tempo spaventati. Il superiore aveva il fiatone, ma il passo era lento e goffo; le mani erano sporche di sangue così come i vestiti consunti dal tempo. Il volto era così apatico che non lasciava trasparire nessuna emozione e gli occhi erano ancora più stanchi di prima, segnati da qualcosa che Eloisa non riuscì a decifrare.
«È morto» disse quasi con noncuranza, ormai rassegnato di quel tragico destino.
«Ci dispiace, capitano» dissero i rematori in coro come puro atto formale, togliendosi il cappello in segno di rispetto.
«Ah, state zitti» inveì il capitano sputando un grumolo di sangue sulla galea malandata; poi si rivolse ad Eloisa così come tutti si aspettavano che facesse.
«Signorina, ci parli di queste creature dagli occhi gialli. Ci delizi con i suoi racconti. Forza non abbia timore, sembra così preparata, così desiderosa di parlare»
C’era sarcasmo dietro la sua spettrale voce e l’invito a descrivere i suoi sogni turbò non poco la rematrice: non capiva perché Alfieri volesse ascoltare una storia che già conosceva. La ragazza si mostrò incerta e titubante, lasciò per la prima volta la presa sulla bottiglia sentendosi come disarmata e più vulnerabile. Quel pezzo di vetro era diventato una sorta di portafortuna.
«Capitano, non abbiamo tempo per le storie. Le creature ci stanno venendo a prendere e...»
«Non si preoccupi, io voglio sentire le sue parole» tagliò corto il superiore con un tono che alla rematrice non piacque nemmeno un po’: stava nascondendo di certo qualcosa.
«Capitano, ha ragione la donna. Dobbiamo scappare se vogliamo vivere» disse Alvaro ritrovandosi ancora una volta a difendere Eloisa. Alfieri lanciò un’occhiataccia verso l’ufficiale. Sembrava fatto di marmo, austero ed irremovibile, non si poteva nemmeno pensare di disobbedire ad un suo ordine.
«Ogni notte, ma ormai sempre più spesso, rivivo lo stesso incubo. All’inizio credevo che fossero solo sciocchezze, ma poi si sono fatti insistenti. Pensavo anche che fossi l’unica a cui apparissero queste strane immagini, ma non è vero: migliaia di persone nel mondo in questo momento stanno vedendo gli stessi occhi gialli. I miei sogni sono stati come la proiezione di uno spettacolo a teatro; dapprima solo il prologo, poi le vicende si sono fatte più intense fino a toccare l’apice. Non avevo paura prima, vedevo soltanto un paio di persone che con estrema lentezza si avvicinavano a me, ma erano troppo lontani e lenti per potermi fare del male. Li vedevo zoppicare, ergersi a malapena su due gambe, pensavo che avessero bisogno di aiuto, ma io non avevo voglia di darglielo. Molti camminavano a testa bassa, ma erano lontani per poterli vedere in viso o scorgere qualche particolare in loro. Notte dopo notte, queste creature erano sempre più vicine a me ed aumentavano in numero. Dopo una settimana quelli che mi stavano dando la caccia si erano moltiplicati. Ogni tanto urlavo, chiedevo chi fossero e che cosa volessero da me, ma loro non mi rispondevano, stavano zitti e non producevano nemmeno il più debole dei rumori. C’era sempre più freddo, ma io non riuscivo a sentirlo. Mi svegliavo e nonostante fossi completamente sudata, l’aria intorno a me era gelida. Ho capito soltanto ora che le due cose sono collegate. Quando erano sopraggiunti già a metà percorso desideravo correre, ma le mie gambe erano paralizzate così come tutto di me. Aspettavo ogni notte la mia morte, ma questa non veniva mai perché, per qualche ragione, mi svegliavo sempre prima. Da quanto siamo salpati la situazione è cambiata: queste creature appaiono anche quando sogno ad occhi aperti o chiudo semplicemente gli occhi per riposarmi. Sono sempre più vicini ed è ormai facile capire come sono fatti.»
Eloisa si fermò improvvisamente cercando con gli occhi la bottiglia troppo lontana, desiderava rinfrescarsi le mani calde sul vetro gelido. Non sapeva se continuare, non aveva mai riflettuto sull’aspetto di quelle creature, conosceva soltanto i loro occhi e aveva paura di ricordare. Pensò che dirlo ad alta voce davanti ad un gruppo di uomini poco sensibili sarebbe stato ancora più brutto. Il capitano la guardava calmo, ma nello stesso tempo precipitoso così come tutti gli altri a bordo. La galea aveva imbarcato troppa acqua e quindi stava rovinosamente affondando, ma nessuno sulla nave se ne era accorto, erano tutti immersi ed intrappolati in quel racconto.
«Sembrano uomini ma non lo sono. La loro carne è semplicemente andata via, non ce n’è traccia sulle loro ossa scure, marce. Si ricoprono con miseri vestiti, lacerati e strappati, che lasciano intravedere lo scheletro imputridito che li sostiene malamente. Ad alcuni manca qualche arto, ma ad altri le lunghe braccia terminano con appuntite falangi, come lame affilate e sotto le unghie gialle c’è costantemente qualche traccia di sangue fresco. Molti sono giovani però, non giovani nel senso di più piccoli anagraficamente, ma più freschi, meno putrefatti, con pezzi di carne bianca ancora attaccata sul viso. Non mi sono mai soffermata a guardare il loro volto; per quel che ricordo è come il nostro, soltanto un po' più scavato e scuro. I loro occhi però, i loro occhi li ricordo bene, sono spenti, ma sembrano terribilmente vigili. Sono gialli, non scuro però, appaiono quasi bianchi se non presti molta attenzione. Il contorno dell’iride è nero e se non incute terrore il loro aspetto lo faranno i loro occhi; essi rimangono impressi nella mente e quando tenti di scacciarli la loro immagine si fa sempre più nitida. Non so nient’altro, non ho idea di come combatterli. Non ho mai capito a cosa alludevano questi sogni fino ad oggi: tutto quello che succede nel mondo è collegato e soltanto pochi eletti hanno avuto l’onore di poterlo capire prima. La temperatura che diminuisce costantemente, il cielo e il mare che si tingono di una tonalità di più scura, il tramonto sempre più in anticipo, le acque del mare più ribelli e forti, i miei incubi; sono tutti simboli che preannunciano qualcosa di molto grande e terribile. Ho sempre pensato che lei, capitano, sia stato vittima dei miei stessi incubi, che studiava con così tanta precisione il calare del sole per rispondere alle tante domande che affollavano la sua mente. Anche se ne dubitavo, credevo che lei avesse trovato un modo per uccidere i morti che camminano, ma ora non capisco più niente. Mi dica, perché?»
Alfieri non accennò ad alcun cambiamento, nessuna reazione, nessun battito di ciglia.
«Io e lei siamo due degli eletti di cui tanto parla? Qual è il nostro compito? E questi poveri uomini, qual è il loro posto in questa vicenda?» Dopo le domande del superiore Eloisa si sentì a disagio, non perché non conosceva la risposta, me perché il tono con cui le aveva poste era pungente. Il capitano, comunque, riuscì a decifrare il desiderio della ragazza perciò si alzò non staccandole gli occhi di dosso e le porse la bottiglia vuota con delicatezza. Eloisa la strinse, stappandola per sentire ancora l’aroma del vino.
«Io le ho fatto una domanda e lei non può rispondere con altre domande. Non so in cosa consiste il nostro compito, ma credo che dobbiamo combattere queste creature prima che loro uccidano noi e credo che noi siamo una sorta di comandanti di un qualche esercito» iniziò Eloisa. Poi prese un profondo respiro e continuò. «Capitano, come ha fatto a salire quassù visto che suo nipote è morto? Il corpo sarà stato accerchiato da quelli dagli occhi gialli. Come è scappato illeso e perché nessuno di loro lo sta seguendo?»
Ci fu qualche mormorio tra i membri ma nessuno osò intromettersi in quel circolo di domande. Il superiore si lasciò andare in una risata, anch’essa stanca e forzata.
«Donna, sono costretto ad ammettere che lei è molto attenta. La feccia che abbiamo per compagni è talmente ignorante da non aver capito niente e probabilmente è un bene visto la paura che la situazione genera. La prima volta che quelli dagli occhi gialli mi sono apparsi sono corso subito a cercare gli altri eletti: a Londra ce ne sono un centinaio come noi ma nemmeno quelli più svegli sapevano qualcosa in più. Mi sono arrivate delle lettere, portano scritto che in Giappone e nel Nuovo Mondo i morti che camminano hanno già falcidiato metà della popolazione e ancora niente è riuscito a fermarli: i proiettili li arrestano per pochi secondi facendoli però infuriare. Stimavo che avrebbero colpito in Europa molto presto, sapevo che sbucassero dalla terra e quindi credevo che sul mare fossimo salvi, ma che idiota che sono stato. L’abisso blu accoglie spoglie più di quanto lo faccia la terra.
«Come sono riuscito a scappare? Non ho avuto un cuore, né dignità. Mio nipote aveva il cranio fracassato e già due di quelle creature affondavano i denti marci nella coscia del ragazzo, facendosi spazio tra la pelle ancora troppo giovane e mordendo il muscolo ancora tenero, ma si sono ritratti disgustati imitando una smorfia di disprezzo. No, le cosce evidentemente non sono il loro piatto preferito. Loro preferiscono il cervello, fresco e vivo cervello.
Io non sapevo che fare, non volevo urlare perché se lo avessi fatto avrei attirato i morti su di me. Era il mio unico nipote, il figlio della mia unica amata sorella; gli volevo bene davvero, ma era giunta la sua ora. Volevo salvarlo, ma c’era qualcosa che mi impediva di farlo, che mi diceva che era impossibile farlo. Credetemi, signorina, non c’è nessun modo per uscirne vivi. Ho progettato e riflettuto su qualsiasi piano ma niente ci proteggerà da quegli esseri. La fine del mondo si sta avvicinando e dobbiamo solo accettare il nostro destino».
I morti viventi si stavano arrampicando dalla cabina e ormai a dividerli dall’equipaggio erano soltanto un paio di metri.
«Capitano, così lei si sta arrendendo» disse Alvaro con un tono carico di disprezzo; sul suo volto si leggeva pura delusione. Anche gli altri ufficiali e rematori erano delusi, sorpresi e di nuovo spaventati.
«Lei vuole morire e non combattere, ma perché ci sta facendo perdere tutto questo tempo? Noi possiamo salvarci.» Eloisa si alzò in piedi di scatto, fece cenno agli ufficiali di calare nell’oceano la seconda barca dopo che la prima era già pronta per portarli lontano da quel posto.
«Non vi ho fatto perdere tempo» sbottò d’ira il capitano; era viola in viso e aveva le mani insanguinate strette in pugno, «io vi voglio salvare, razza di stupidi. Se scappate loro vi seguiranno e vi faranno del male, con le mani raschieranno le ossa del vostro cranio fin quanto si spezzeranno e potranno gustarsi tranquillamente i vostri succulenti cervelli. Io dico, invece, diventiamo come loro. Facciamoci mordere, toccare o chissà cosa, ci sarà un modo per sbranare gente e avere gli occhi gialli. Perché dobbiamo morire? Perché dobbiamo scappare quando possiamo salvarci e magari vivere in un mondo migliore con queste bestie.»
«Capitano, lei ha perso completamente il senno. Basta, io non la voglio più ascoltare né stare un minuto in più su questa nave. Quello che dice è una pazzia!» gridò il grasso Jack abbandonando la nave, seguito da Robert e dagli altri rematori.
Soltanto Alfieri, Eloisa ed Alvaro non erano scesi dalla galea ormai quasi completamente affondata e ridotta a sole assi di legno spezzato.
«C’è qualcosa che non mi convince, il suo piano è estremamente contorto, ma non sarà compito mio cercare di sbrogliare la matassa, io voglio vivere» affermò convinta la rematrice afferrando la bottiglia prima di scendere. Era stanca e non sapeva quale fosse stata la sua prossima mossa, ma non aveva il tempo per scoraggiarsi. Doveva pensare ad una cosa per volta e scendere dalla nave sembrava la decisione migliore al momento. La ragazza non si era nemmeno resa conto che ogni membro dell’equipaggio dipendeva da lei.
«Capitano, un’ultima cosa» disse il vecchio ufficiale togliendosi il capello come quando ci si accinge ad ascoltare una storia importante, «Come ha intenzione di farsi infettare?» La domanda non era per niente fuori luogo ma mentre Alvaro aspettava silenziosamente la risposta, alle sue spalle due morti si issavano in piedi. L’uomo udì il loro debole fiutare in cerca di prede, di cibo; ebbe la pelle d’oca.
Alfieri scoppiò a ridere, ma l’ufficiale aveva previsto quella mossa accorgendosi pure che la risata isterica era riapparsa, ma che la paura che nascondeva si era triplicata.
«Non ne ho la minima idea» continuò a ridere come se quello che stava dicendo fosse la migliore barzelletta che avesse mai raccontato, «quelli sono come cani perché fiutano la paura, capisci? Almeno credo e sicuramente ci spero».
Alvaro si infastidì del comportamento infantile del superiore, ma se ci fosse stato un futuro sicuramente in quello avrebbe esaltato il suo coraggio. Prima di scendere prese il fucile e nonostante avesse ancora in mente l’orrore che aveva provocato il proiettile prima, quell’arma gli dava la sicurezza sufficiente per quel giorno. Si calò lentamente con il cuore nella gola, riservando un’ultima occhiata verso la galea. Ebbe la sfortunata occasione di poter vedere una creatura dagli occhi gialli da vicino. Somigliava perfettamente al ritratto dipinto da Eloisa: le stesse ossa marce e gli stessi occhi gialli, come due fari spenti nel buio. Poi pensò all’uomo che una volta viveva dentro quel corpo, al ricordo di quell’anima di cui non rimaneva niente: nessuna memoria nei cuori dei famigliari, nessun sentimento o rispetto, nemmeno la polvere, ma la sola custodia vestita dal male.
Il morto si avvicinò lentamente al superiore che Alvaro vedeva fremere, terrorizzato da quella silenziosa minaccia. Presto anche il capitano avrebbe perso ogni dignità, di lui non sarebbe rimasto niente, nessuna fiera conoscenza, nessun coraggio, niente di quello che lo aveva reso grande. Se il fucile non poteva stroncare un morto, poteva uccidere un vivo.
«Non lo faccia, ufficiale» gridò a squarciagola Eloisa ma non servì a nulla: Alvaro indirizzò la canna del fucile verso Alfieri e premette il grilletto.

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Capitolo 4
*** Ghiaccio ***


Ghiaccio
«Non ha pensato che sparando avrebbe indirizzato quelle creature verso di noi» gridò la rematrice in faccia all’ufficiale ogni sua perplessità. Con Alvaro a bordo, la seconda barca si era velocemente distanziata dalla grande galea.
«Il cervello del capitano li terrà per un po’ di tempo occupati» ribadì l’uomo fermando Eloisa per il braccio: la presa le fece male, ma non protestò, «sai anche tu che il capitano non meritava di morire come quelle bestie»
No, non lo meritava e questo la ragazza lo sapeva bene.
Nella barca c’era silenzio, nella fuga non avevano portato nessuna torcia e le nuvole scure nascondevano ogni stella. I sopravvissuti avanzavano verso il nulla nel buio più pesto. Sentivano i pezzi della galea che affondavano nell’oceano, cercavano perfino di sforzarsi le orecchie per poter sentire i rumori della cena a base del capitano Alfieri, ma niente.
«Remate con più vigore, quelle creature ci raggiungeranno presto» ordinò Eloisa non prestando particolare attenzione al resto. Cercava di disegnare nella sua mente un piano per la battaglia, ma ogni mossa risultava fallimentare, inutile e poco sensata.
Il rumore delle loro risate, degli ordini e dei remi avevano spinto i morti viventi ad avvicinarsi alla galea; il rumore dello sparo aveva attirato la creatura verso di loro e Charles era stato massacrato a causa del tonfo che aveva provocato cadendo. Tutti quegli eventi avevano qualcosa in comune ed Eloisa, fortunatamente, non tardò a scoprirlo.
«Smettete di remare» sibilò la ragazza ormai in piedi, mentre stringeva nel braccio sinistro la bottiglia vuota e si massaggiava le tempie con la destra. La prospettiva della vittoria era vacillante: un momento era chiara e possibile, il momento dopo era improbabile.
«Cosa? Dovremmo salvarci o velocizzare la nostra morte?» Jack, che non aveva riacquistato nemmeno un minimo del coraggio o spavalderia che aveva prima, in quell’istante era un peso più che un utile compagno.
«Fate come dice lei» disse Alvaro appoggiando ancora una volta la ragazza, come se avesse capito cosa le passava per la testa.
La prima barca ormai era lontana o forse non era ancora partita ma Eloisa non lo riuscì a capire. Per quanto i loro occhi si fossero abituati al buio, scorgere qualche forma sembrava impossibile. Decisero di stare i più vicini possibili, come per accettarsi che ogni singolo compagno salvato era ancora vivo lì con loro. I remi furono buttati a mare lentamente, facendo attenzione a non fare schizzi. Chi batteva i denti per il freddo o la paura smise di farlo, chi aveva la necessità di ascoltare delucidazioni su quella mossa si morse la lingua.
Eloisa sentì il bisogno, però, di calmare l’equipaggio. Se pensava ai modi poco cavallereschi con cui fino a poche ore prima l’avevano trattata la scelta migliore sarebbe stata darli subito in pasto a quelle creature, ma la rematrice si sentiva in colpa. Non era riuscita a capire l’identità delle bestie dagli occhi gialli, non era riuscita a trovare un modo per combatterli, né era stata un comandante responsabile per gli uomini che restavano. Aveva fallito. Aveva trasportato nella morte anche degli uomini innocenti, che il destino aveva voluto dipendessero da lei.
«Fate silenzio» sussurrò debolmente, «queste creature percepiscono il rumore, non aprite la bocca per favore. Io penso di averlo capito, finalmente. Ogni volta che abbiamo provocato frastuono, abbiamo indirizzato quei mostri sempre più vicino a noi; anche nei miei sogni, loro mi inseguivano perché io non smettevo di urlare. Dobbiamo solo rimanere in silenzio: appena si accorgeranno che nella galea non c’è più nulla si disperderanno in mare alla ricerca della prossima preda e dobbiamo sperare che questa sia molto lontana da noi.»
«Il capitano prima di morire mi ha detto che i morti sono come cani, ci fiutano; si accorgeranno di noi.»
«Ufficiale, il capitano non sapeva molto circa queste creature, adesso ne sono sicura. Basta discutere però, dobbiamo fare silenzio.»


***

Dai resti della galea qualcuno o qualcosa si era tuffato nello sporco oceano. Si ammassavano in quel punto di mare, stiracchiandosi lentamente, sbattendo le mani e i piedi ossuti per cercare di nuotare. Così come quando avevano attaccato la galea, alcuni morti affondarono a causa del peso dei vestiti bagnati. Altri rimasero aggrappati ad altri compagni, affondando le dita nello spazio tra le costole, in un fratricidio disperato.
Nuotavano lentamente ma si avvicinavano ed Eloisa non lo sapeva.
I loro occhi riflessi sul mare erano magnetici e spaventosi. Se ci fosse stata la luna ad illuminarli, le iridi avrebbero preso una sfumatura biancastra, così come diceva la rematrice, trasformando l’acqua del mare in un pozzo dove si riflette la luna bianca.
Era inquietante, ma degno di studi ed osservazioni il fatto che quando attraversavano l’acqua non provocavano nemmeno il più debole sciabordio. Si muovevano goffamente, minacciando sempre di affogare. Le creature non avevano bisogno di respirare, il loro viso non stava a contatto con l’acqua; nei più giovani rimaneva sempre quel sottile strato di sporco che quasi si legava indissolubilmente alla pelle. Nemmeno nella parte con cui erano sommersi l’acqua riuscì a levare via il marcio dalle loro ossa, ma era l’abisso blu che si colorava di un nero più scuro al loro passaggio.
Eloisa e i compagni non si erano mossi dalla loro postazione: la barca non si era spostava nonostante le folate di vento fossero davvero intense ma l’equipaggio non se ne accorse, estraniato e perso in qualche mondo lontano.

«Sono qui!» urlò disperata la rematrice saltò all’insù e in quell’istante il cuore le andò in frantumi.
Tutto accadde nello stesso modo. La piccola barca fu presa nella stessa maniera con cui era stata attaccata l’Incubo dei mari, segno che nessuno aveva imparato dal passato.
«Aiuto, aiuto, non voglio morire» pregò il grasso Jack agitandosi come un bambino prima che un morto vivente gli stringesse il collo con l’avambraccio fino a farlo soffocare.
< «Vi chiedo perdono. Scusate, è tutta colpa mia. Ho sbagliato, io non… » Eloisa era in preda al panico, strinse la bottiglia ma quella volta vide gli occhi gialli riflessi e urlò un’altra volta. Indietreggiò ma fu fermata dal bordo della barca, per istinto infranse la bottiglia nel legno frantumando così la sua salvezza. Si tagliò il polso e alcune schegge di vetro le perforarono la pelle della mano ma non ci badò più di tanto perché quell’essere era ormai ad un palmo di distanza da lei.
Puntò il collo della bottiglia rotta in avanti, come per difendersi, credendo che quel miserabile oggetto avrebbe fatto la differenza.
Affondò la bottiglia nel ventre della creatura ma il vetro tagliente della bottiglia non incontrò nulla se non i vestiti consunti del morto. Un proiettile attraversò la testa della creatura fuoriuscendo dall’altra parte: il tiro di Alvaro era stato preciso. Così come il capitano aveva detto, la bestia si era accasciata a terra stordita ma non era affatto morta. Eloisa caricò con tutta la forza che aveva, nessuno scrupolo, nessun timore: la bottiglia andò a frantumarsi nel collo dell’essere staccandogli la testa di netto in due parti. La creatura era stecchita.
La rematrice aveva finalmente capito. Troppo tardi però.
Recuperò quello che rimaneva della bottiglia, sentì il suo sangue caldo e qualcosa di freddo scenderle lungo le dita. Non percepì più gli spari di Alvaro così come il caos si stava affievolendo e le urla diminuivano.
Avevano perso.
Ancora una volta puntò la bottiglia rotta davanti, tenendola con due mani come se fosse una spada ma questo non servì a trasformarla in un’arma vera.
Ripeté lo stesso gesto di prima, ma quella volta il vetro fu distrutto nell’impatto con il collo gracile della bestia.
«Eloisa…» qualcuno urlò il suo nome, forse il piccolo Robert ma non lo capì.
Vide i suoi occhi azzurri riflessi negli occhi gialli del morto vivente e poi basta. Le unghie taglienti le graffirono la fronte strappandole la carne, scesero lungo gli occhi perforandoli, lungo il naso e la bocca. Passarono sul collo dove sgorgò un fiume di sangue e sul petto affondando le dita marce in profondità, tra le costole, fino al cuore.
La creatura le fu sopra banchettando con il suo corpo, strappando voracemente i capelli mori fino a farsi strada tra le ossa del cranio. Allontanò ogni altro compagno dal suo bottino. Continuò a scavare, a strappare, a mordere fino a quando non trovò il suo tesoro.






Salve, sono sempre Francesca ed eccoci alla fine di questa piccola avventura. Ho cercato di essere puntuale negli aggiornamenti ed è stato soddisfacente. Come avevo già anticipato non vado molto fiera di questa storia ma per me è stata una sfida e sono molto felice di averla portata a termine comunque. Mi piace superare i miei limiti!
Vi chiedo scusa per gli errori e se il finale della storia vi possa aver deluso, non era mia intenzione.
Spero di poter migliorare per rincontraci nella prossima storia, perché no?
Un abbraccio Francesca

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