Message (in a bottle)

di Francine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fratelli ***
Capitolo 2: *** Per aspera, ad astra ***
Capitolo 3: *** Ultimi raggi di luna ***
Capitolo 4: *** Il tempo è freccia e arco ***
Capitolo 5: *** Viaggiatori nella notte ***



Capitolo 1
*** Fratelli ***


Non sono impazzita, tranquilli. O forse sì, lo sono, vista la marea di roba che ho per le mani e che se continua così non finirò mai – ma i miei lettori abituali lo sanno come sono fatta e chiuderanno un occhio, vero? Vero?!
Comunque sia. Avevo voglia di riprendere il fiato e, complice la visione degli OAV dei Samurai, e la lettura di “Neve” di SoltantoUnaFenice, mi sono lasciata trascinare dal Ponentino ed ho ipotizzato un primo punto d’incontro tra questi due mondi.
Scavando scavando, però, mi sono resa conto che i Bronze Saint e gli Yoroi Senshi avrebbero potuto collidere in altri modi e situazioni. Anche perché chi se le sarebbe sorbite, poi, le lamentele degli esclusi?
Sicché, ecco spiegato come nascono queste storie, che mi sono presa la briga di raccontarvi in maniera del tutto casuale, seguendo il soffio del Ponentino.

E ora, i disclaimer: Saint Seiya © Masami Kurumada, Shueisha, Toei Animation, 1986 Yoroiden Samurai Troopers © Sunrise, Nagoya TV,Tokyu Agency, 1988

Tutto il resto è farina del mio sacco e no, non è possibile ispirarsi né citare questa storia se non previo permesso scritto (parodie comprese), visto che la telepatia ancora non l’ho sviluppata. Questa è un’opera di finzione, e, come tale, mi sono presa alcune libertà. Spero non me ne vorrete!
Io vado a mettere su il caffè.
Buona lettura!







Fratelli





Di che reggimento siete
fratelli?
 
Parola tremante
nella notte
 
Foglia appena nata
 
Nell'aria spasimante
involontaria rivolta
dell'uomo presente alla sua
fragilità
 
Fratelli
(G. Ungaretti, Fratelli, 1916)







Del mare in primavera ti piace la tranquillità.
Quando il sole cala e nel cielo il rosso tende la mano al violetto, la spiaggia si svuota e tu puoi goderti la brezza tra i capelli, l’odore frizzante della salsedine ed il tepore della sabbia sui piedi nudi, affondati nella rena ancora tiepida.
Il mare è lì, davanti a te, che batte e leva col suo ritmo ipnotico, tra spuma bianchissima e piccoli granchietti affaccendati che scompaiono sotto la sabbia come un fantasma al primo raggio di sole. Od un sogno al risveglio.
Sembra quasi che l’acqua ti dica “Io ti ascolto”, e tu lo sai che il mare è un confidente discreto. Che davanti a quelle onde luccicanti puoi tirare fuori tutto quello che ti si agita dentro – e a cui temi di dare corpo – senza paura di essere giudicato.
Eppure, taci.
Taci perché parlare è un incantesimo, checché ne dicano gli altri. E quando i tuoi timori prendono vita, non li puoi mandare via come se niente fosse. Perché loro no, non se ne vanno. Anzi. Restano davanti ai tuoi occhi. Per farti dispetto. O per farti vedere quel lato di loro che non avevi nemmeno preso in considerazione. Eppure, c’è. Ed è forse più spaventoso del mostro stesso.
Così scegli il silenzio, le onde che ripetono il loro incessante sussurro ed il vento che ti riporta ogni parola all’orecchio.

Da qualche giorno non sei solo. Hai notato che c’è un altro ragazzo a restare oltre il tramonto, un tizio mai visto prima che avrà la tua età e osserva il mare, in silenzio, le ginocchia al petto e lo sguardo aperto. E ti chiedi chi sia.
C’è qualcosa di familiare, in lui. Puzza di battaglia. Di guerra. Dello sforzo – immane – del rivolgere i propri pugni – serrati – contro il nemico. Anche se non vorresti. Anche se sai che c’è un’altra strada – c’è sempre, no? – ma l’avversario, no, non vuole percorrerla. Tutt’altro.
Lui è come te. Lui conosce quella sensazione di impotenza che ti assale quando devi stringere l’anima tra i denti, abbassare la testa e salvare il mondo. Glielo leggi nel profilo del viso, negli occhi che hanno visto incubi che un ragazzo della vostra età non dovrebbe nemmeno concepire. Lui è un sopravvissuto, qualcuno che ha stretto il cuore e si è trascinato avanti. Oppure ce l’hanno spinto a calci, quando la voglia di mollare tutto e lasciarsi scivolare giù sembra la più dolce delle promesse possibili.
Così restate in silenzio, a fissare il mare, la distanza che si accorcia ogni giorno di più, e la domanda che ti risuona nella testa – e che sei pronto a scommettere risuoni anche nella sua – che è sempre la stessa.
Verrà anche stasera?
Perché vorresti parlargli. Vorresti chiedergli com’è. Confrontarvi. Sapere se, per caso, lui abbia provato le tue stesse sensazioni e paure e speranze e dubbi ogni santa volta che è stato chiamato – che è stato costretto – a combattere. Se ha trovato una soluzione, un trucco, un modo per far sembrare quel groppo in gola meno doloroso e meno amaro. E se, tante volte, volesse essere così gentile da condividerlo con te.


È qui anche stasera.
Pantaloni bianchi e giacca a vento azzurra, il cappuccio che il vento si diverte a strattonare come fa un bambino petulante con la gonna della madre. Si volta, ti sorride – puro come l’acqua di sorgente, pensi – e torna a guardare il mare, le mani sprofondate nelle tasche.
Che mi stesse aspettando?, ti chiedi.
Lo affianchi in punta di piedi, quasi a non voler disturbare, e fissi quel vai e vieni di acqua salata, indeciso se presentarti o meno. Ma hanno senso i nomi, in certi frangenti, o non è meglio tacere, ché, come diceva quel tale, il cuore, a volte, ci vede meglio degli occhi?
«C’è una grande pace, qui», dice lui, bucando la pazienza del vento con la sua voce. Calma. Pacata. Riflessiva. Il timbro di chi fa spesso da paciere. O è abituato a ricondurre alla ragione i temperamenti più focosi.
«Vero», rispondi, inspirando la brezza fino a riempirtene i polmoni, quasi volessi ancorarti alla terra per non volare via, trasportato nell’aria della sera come un palloncino extra-large. «Non sei di queste parti. O sbaglio?»
Lui scuote la testa, lo sguardo azzurro fisso sulle onde.
«No. Sono di passaggio», replica.
«Capisco», dici. Ché è vero. Siamo tutti di passaggio su questa terra, anche se tendiamo a dimenticarcelo con fin troppa leggerezza. Perché l’uomo è immortale, vero? Sicuro. Chiedilo ai nemici che hai affrontato e vediamo che ti rispondono.
«Shun.»
«Shin.»
«È uno scherzo?», vi domandate. Fissandovi negli occhi e specchiandovi nella stessa espressione sconcertata che vi allarga lo sguardo.
«No», dite. In stereofonia. E scoppiate a ridere, senza un motivo né un perché. Stringendovi la mano e cercando l’uno nello sguardo dell’altro quella luce, quella paura, quella speranza. Quel riconoscersi simili, eppur diversi. Annusandovi l’anima nella brezza serale per indorare una pillola che fa schifo, nonostante tutte le belle parole ed i buoni sentimenti. A darsi un po’ di coraggio – o di speranza – ché sì, tu hai i tuoi compagni come lui avrà i suoi. Ma a volte chi ti capisce davvero è lo sconosciuto che il destino ti fa incontrare per caso, passeggiando una sera, sul bagnasciuga deserto. Qualcuno che, in un’altra vita, in un altro momento, avresti potuto chiamare fratello. Qualcuno come te. Ad una vocale di distanza.



 



Saint Seiya © Masami Kurumada, Shueisha, Toei Animation, 1986
Yoroiden Samurai Troopers © Sunrise, Nagoya TV,Tokyu Agency, 1988.
Grafica ® Francine.





Note:
Sono convinta che se Shun e Shin potessero parlarsi, anche solo per cinque minuti, ne avrebbero, di cose da dirsi. Oppure mollerebbero Andromeda e Suiko e se ne tornerebbero ognuno alla propria, pacifica esistenza, chi può dirlo?
Questa storia è colpa di SoltantoUnaFenice, e della sua "Neve".
Nella speranza che le fan dei due protagonisti non mi lincino,
ça va sans dire.
 

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Capitolo 2
*** Per aspera, ad astra ***






Per aspera, ad astra




をちこちに / 瀧の音聞く/ 落葉かな
[Ochikochi ni / taki no oto kiku / ochiba kana]
Lontano vicino si ode
crosciar di cascate
tra foglie cadute
(Matsuo Bashō)
 
 




La bicicletta sfreccia lungo la discesa, le fronde degli alberi che sussurrano qualcosa le une alle altre. Forse le strofe di una canzone, o forse un segreto, forse una chiacchiera. Forse, pensi, ridono di te e dalla tua suscettibilità. Perché è divertente prendersi gioco di chi ha la coda di paglia. Quelli come te sono una garanzia. Prendono fuoco subito, alla terza parola – alla terza sillaba – o giù di lì. Peccato che non sia poi così divertente quando si sta dall’altra parte della barricata. Fare lo zimbello, una tantum – ché sì, sai cosa significa, alla faccia di Touma – è anche divertente, a patto di essere consenziente. E a te proprio non va di essere stuzzicato ogni due per tre, così, solo per abitudine e senza che nessuno ti abbia chiesto un parere sulla faccenda.
Sarebbe così semplice, pensi, la catena della bici che sferraglia argentina e le carte da gioco infilate tra i raggi delle ruote. Basterebbe chiedere. Ehi, Shu, ti va di farti quattro risate? Che ci vuole? Certo, ti dici, a chiedere si perde l’effetto sorpresa, e il tempismo, l’estemporaneità, sono essenziali, quando si deve far ridere. Lo dice anche lo zio Chin, pure se, a onor del vero, lo zio Chin è uno che predica bene ma razzola molto, molto male.
Però a te non va giù lo stesso, le sopracciglia aggrottate e le guance gonfie, come un criceto che sta trasportando delle ghiande al nido. Nessuno stuzzica Ryo, nessuno infastidisce Touma o Seiji e Shin. Si divertono solo con te, ché sei così impulsivo da saltare su come una molla dispettosa. Eppure, lo sanno cosa succede, quando perdi il controllo. Lo sanno, che non è piacevole. Che può essere pericoloso. Eppure insistono a scherzare col fuoco. Un modo come un altro per ammazzare il tempo prima che lui ammazzi te.
Ecco perché hai mitragliato il pavimento di passi, ti sei chiuso la porta alle spalle senza tante cerimonie, hai inforcato la bicicletta di Nasty e adesso stai puntando verso il bosco ai piedi della collina. Hai bisogno di sfogarti. E per farlo, hai bisogno di essere da solo. Così da non fare male a chicchessia. Sarebbe patetico, dopo, dover anche chiedere scusa. Oltre al danno, la beffa, come direbbe zio Chin.
 

Abbandoni la bici sotto un albero e ti addentri. Il vento è un respiro caldo sulla pelle. Stai sudando. Perché è giugno, sì, anche se sembra agosto, e perché stai fumando di rabbia. C’è una grotta, poco più avanti. Una spelonca abbandonata. Non la usa nessuno, nemmeno gli orsi per andare in letargo. L’hai scoperta qualche tempo fa, passeggiando in solitaria per sbollire la rabbia. C’è un bel frescolino, lì – c’è una cascata, dall’altra parte della grotta – ed un’eco che fa al caso tuo. Non farai danni, se ti lascerai andare lì dentro. A patto che non mi crolli il soffitto sulla testa, pensi.
L’erba s’è fatta più alta e rigogliosa. Ti fai strada fino allo spiazzo antistante l’entrata della caverna ed entri.
Ti accoglie il buio. Ti avvolge, come una mano amica su una spalla. Io lo so, sembra volerti dire quella quiete, rotta solo dallo scroscio costante della cascata. Io ti capisco. E tu sai che lì, in quel rifugio segreto, puoi lasciarti andare davvero. Puoi sentire la forza della terra che risale dai tuoi piedi, lungo le tue gambe, utilizzando le tue vene come fossero autostrade per il cervello, i capelli, la punta delle dita.
Freme, la Terra. Calda, possente, vigorosa, prorompente. Sotto i tuoi piedi sta crescendo l’erba, scorrendo l’acqua, rimuginando il magma. E attorno a te, l’aria ti scompiglia appena appena i capelli. Unica assente, la luce. Ma è meglio così. È stata una frase infelice di Seiji a farti perdere le staffe, oggi, e l’ultima cosa che vuoi è un raggio dispettoso che ti solletichi il viso mentre sei concentrato a raccogliere tutti i cattivi pensieri dentro al cuore e a lasciarli andare via, fuori da te, prima che ti facciano esplodere l’anima e ti avvelenino lo spirito.
Trattieni il fiato, fino a che non senti i polmoni protestare con veemenza e poi rilasci un urlo basso e roco, simile ad un ringhio o al borbottio della terra quando si sveglia e si scuote un po’, prima di tornarsene a sonnecchiare beata.
 
Adesso va meglio, pensi, quando tutto e finito e ti ritrovi, spossato, a fissare la terra, le braccia che ti puntellano e la testa leggera. Vuota. Un piccolo terremoto personale. Niente di più, niente di meno.
Non puoi continuare così, dici a te stesso. E in primo, primissimo istante ti dai ragione. No, non puoi. Non puoi perché non avrai sempre la possibilità di scippare la bici a Nasty e di allontanarti quanto basta per esplodere senza fare danni. Poi sbatti le palpebre e ti accorgi che no, non hai detto, né pensato quelle parole. Non è un’idea tua, quella, né è arrivata da parte dei tuoi compagni a lambirti l’anima.
Ma allora chi è stato?, ti chiedi, aggrottando le sopracciglia, i sensi all’erta.
Che ci sia un nuovo nemico, così cortese da palesare la propria presenza, prima di saltarti addosso?
Un sorriso ti si disegna sulle labbra. Magari!, pensi. La sola idea ti fa fremere. Menare le mani è un ottimo modo per scaricare la frustrazione – anche se ti sei scaricato adesso adesso, ad onor del vero, ma una mela non cade lontana dall’albero – e mentre cerchi di capire chi possa essere stato ad inviarti quel pensiero – quel consiglio – percepisci qualcosa.
Chiudi gli occhi. Sì, c’è qualcuno. È un ragazzo della tua età. Sta meditando sotto la cascata. Non è una minaccia, ma percepisci anche il potere immenso che vortica attorno a lui. Dentro di lui.
Chi sei?, ti chiedi avvicinandoti, un piede leva e l’altro metti. Guardingo.
Lui non si muove di un millimetro, come se fosse fatto di roccia, quella pura e inviolabile di cui sono fatti monti. La cascata lo bagna mentre se ne sta nella posizione del loto, gli occhi chiusi, i capelli lunghissimi ed un fisico di tutto rispetto. Quello che tu non avrai mai, se continui ad ingozzarti senza freno, ti sussurra il tuo cervello con la voce di Seiji, con la stessa, identica pedanteria del suo proprietario.
E la rabbia ritorna. Non è che hai proprio fame, tu. È che ti prendono degli attacchi improvvisi di fame. Fame nervosa, l’ha detto anche il dottore. Non mangi perché ne hai bisogno, ma per sfogare la frustrazione. O per noia, ché tu sembri un tipo pacifico, ma non sopporti di startene a girarti i pollici. E allora arriva la fame, impetuosa ed improvvisa. E tu non ci puoi fare niente, e devi assaltare il frigorifero nemmeno avessi appena concluso un digiuno di mesi. E Seiji si sente in dovere di fermarti. Sai che non lo fa con cattiveria, o malizia; eppure, qualcosa nel suo tono da mister perfezione ti fa saltare la mosca al naso e allora…
 
No. Non così.
Sbatti le palpebre. Non conosci quella voce, no. Calda e bassa. Matura. Possibile che appartenga a quel tizio?, ti chiedi, aggrottando le sopracciglia. Perché il tizio ti ha parlato in cinese. Una forma dialettale. Del sud est. Della zona del Jiangxi, tipo. Forse. Chi lo sa? Ma adesso non importa.
«Tu chi sei?», chiedi, le mani a coppa ai lati della bocca, osservando la sua espressione imperturbabile tra i rivoli che l’acqua disegna sul suo viso e sulle sue spalle. «Non ti ho disturbato, vero?»
Domanda cretina, ti dici. È lui che sta parlando a te, anche se non capisci ancora come. O forse sì, lo hai disturbato mettendoti ad urlare come un ossesso, poco fa, all’interno della grotta?
Il tizio apre gli occhi. Sono verdi. Splendenti e scuri come uno smeraldo purissimo. Calmi. Sereni. La quintessenza della pace interiore. Si alza, si ravvia all’indietro i capelli e si avvicina. E dice: «Shiryu.».
Ti risponde in cinese, le braccia lungo i fianchi e le spalle morbide. «E tu?», chiede a sua volta.
«Shu», dici soltanto, la mani sprofondate nelle tasche della salopette, impedendoti di fissare la tartaruga degli addominali di questo Shiryu. Dovesse pensare che sono un maniaco… «Senti, amico, scusa davvero. Non volevo disturbarti. Pensavo che qui non ci fosse nessuno…»
«Nessun disturbo», replica lui. Mostrandoti i palmi delle mani per dimostrare che sì, è sincero. «La montagna appartiene a tutti.»
Ok, questo tizio è strano, ti dici, sentendolo snocciolare una saggezza che non coincide con la sua età. Avanti. Sei troppo giovane per giocare a fare Yoda. Troppo giovane, troppo alto e troppo in forma, accidenti a te!
Lui sorride e un brivido freddo ed intensissimo ti scorre lungo la schiena.
Non è che leggi nel pensiero, vero?
Quando lui sbatte le palpebre e poi ride, capisci di non esserti limitato a pensarlo, ma hai dato fiato alle trombe, senza accorgertene. «Scusa, io…»
«Non scusarti», dice Shiryu. «Non leggo nel pensiero, ad ogni modo. È che tu… sembri un libro aperto.»
«Un… libro aperto?» Non ti starà dando del sempliciotto, vero? Perché te lo dice sempre anche Seiji, e di solito finisce molto, molto male.
«Percepisco la tua rabbia. La tua… frustrazione. Ero anche io come te, una volta.»
Tu? «Non ci posso credere!»
«Perché? Non mi conosci mica…», ribatte lui.
«Hai ragione, ma vedi… è che fatico a credere che qualcuno con la pazienza necessaria a meditare sotto l’acqua, possa essere stato un tipo… nervoso…»
«Non ho motivo di mentirti», dice. Strizzandosi i capelli e dandoti la schiena. Ha un tatuaggio. Un drago. Enorme. Circonvoluto su se stesso, le fauci aperte e gli artigli pronti a dilaniare la preda. Alla faccia dell’imperturbabilità. «Ho avuto un’infanzia… complicata.»
«Ti capisco. Io dovevo badare ai miei fratelli minori. Sono in quattro, tre marmocchi ed una bambina. Un vero inferno.» Per non parlare di Harago, delle Armature e di tutto il resto… «Ma chi non ha un’esistenza complicata, oggigiorno?»
Lo vedi annuire. «Per aspera, ad astra. Lo diceva un mio… amico.».
«Tradotto?»
«Verso le stelle, attraverso le difficoltà.»
«Un koan zen?»
Lui scuote la testa. «No, un motto latino.» Poi tace, assorto in pensieri tutti suoi.
«Posso chiederti una cosa?»
«Certo.»
«Funziona?» Il tuo pollice indica la cascata, che continua a scrociare a valle come se niente fosse.
«La meditazione, intendi?» Shiryu si asciuga i piedi e raccoglie da terra un piccolo involto. Un Longzhuang glicine. «Funziona, sì. A patto di non barare.»
«Che intendi per barare?», gli domandi, mentre lui allaccia gli alamari e arrotola le maniche sugli avambracci.
«Intendo dire che la meditazione funziona se la pratichi con regolarità, e non tanto per fare. Ci vuole metodo. Applicazione. Costanza...»
«Insomma, una rottura di scatole non da poco. Ed io ne ho già abbastanza di mie per aggiungerne un’altra…» Sospiri. «No. Non fa per me…»
«Come fai a dirlo senza neppure averci provato?»

C’è una luce diversa, adesso, nei suoi occhi. La bonaria indulgenza che colorava lo sguardo di Zio Chin quand’eri piccolo e lottavate. Lui resisteva ai tuoi assalti, poi qualcosa gli brillava nello sguardo e oplà, lui finiva al tappeto, lasciandoti vincere.
«Lo so e basta», t’impunti, ché quando hai deciso una cosa, discutere con te è come pretendere di abbattere una montagna a testate.
«E allora perché mi hai domandato se funziona?»
Touché.
Non sai cosa ribattere. Dai un paio di colpi di tosse, rimescoli le mani nelle tasche e poi dici: «Per amore di conversazione.».
«Capisco», dice lui, raccogliendo le sue cose da terra, calzando le scarpe e facendo per andarsene.
«No, amico, resta. Davvero. Io ero solo di passaggio.»
«Siamo tutti di passaggio», ribatte, mentre il vento gli accarezza i capelli sulla fronte. «Comunque non preoccuparti. Stavo andando via», dice, girando sui tacchi, il fagotto sulla spalla come fosse lo zainetto di un liceale. Resti a guardare la sua schiena allontanarsi di qualche passo, poi si ferma. Si volta. E ti lancia un’occhiata indecifrabile, da sopra la spalla. «Oggi l’acqua è stupenda.»
Annuisci, non sai nemmeno tu perché. Lui ti fa un cenno, salutandoti con la mano e in pochi passi è già nel fitto degli alberi. Sei rimasto da solo. Tu, la grotta e la cascata. Che sembra quasi chiamarti, col suo incessante scrosciare.
Sì, oggi fa caldo. Sì, ci starebbe proprio bene una bella doccia fredda. Sì, potresti anche provare, una volta tanto. Al limite, mi sarò dato una lavata. Con tutta la polvere che ho preso, male non farà, ti dici, liberandoti del berretto, della salopette e del resto dei vestiti.
Entri in acqua, che è fredda e ti regala un brivido delizioso sulla pelle, e ti avvicini alla cascata. Prendi fiato. E conti fino a tre. Uno… due… e al tre sei sotto il getto della cascata.

Ossantissimapacedellesettedivinitàdellafortuna!!

Schizzi via come un petardo, la pelle increspata, il cuore a mille e le tue parti basse che protestano. Inviperite. Caspita se è fredda! Ti congela il fiato nel petto, peggio del secchio di ghiaccio che avevi preparato per Ryo, e che invece è finito in testa a te!
No, non ce la posso fare, ti dici, e fai per tornare a riva, quando qualcosa ti blocca, l’acqua a metà polpaccio e il cuore che minaccia di fracassarsi contro le costole.
Quel tizio aveva un’espressione serena. Imperturbabile. La stessa che dovrebbe avere la Terra, qualora possedesse un viso. La stessa che vorresti avere tu. Chissà, ti dici, magari così sarebbe più semplice resistere alle provocazioni di quegli altri quattro. Ché lo sai che no, non sono provocazioni vere e proprie, ma sei tu ad avere la coda di paglia e a farti saltare la mosca al naso al minimo alito di vento. Il succo è sempre lo stesso, parole grosse che volano, tu che sbatti la porta alle tue spalle, monti in sella e vai ad urlare nella grotta.
E se per una volta provassi qualcosa di diverso?, ti dici. Avvicinandoti piano piano alla cascata, come se fosse una qualche fiera bizzarra uscita fuori da un bestiario medievale. Prendi di nuovo fiato. Prima un piede. Poi l’altro. E poi è solo l’acqua che ti scorre sulla testa, ma non solo. C’è anche il calore del sole. I sassolini sotto ai tuoi piedi e la terra che si propaga dentro di te. L’abbraccio del vento sulla pelle. E un piccolo, timido raggio di sole che ti scalda la fronte. E che adesso no, non ti dà più fastidio.
Cinque minuti. Solo cinque minuti, dici a te stesso, mentre l’acqua della cascata scorre armoniosa ed il vento sussurra tra le fronde degli alberi la più soave delle canzoni.

 



Saint Seiya © Masami Kurumada, Shueisha, Toei Animation, 1986
Yoroiden Samurai Troopers © Sunrise, Nagoya TV,Tokyu Agency, 1988.
Grafica ® Francine.





Note:
Protagonisti dell'episodio, Shu e Shiryu, accomunati dal fatto di essere cresciuti in Cina.
Non credo che si possa sempre cavare del sangue da una rapa accostando due personalità simili. A volte vengono fuori cose carine accostando due caratteri diversi. Shu è il più forte, ma anche il più impetuoso dei cinque Troopers, mentre Shiryu è il più riflessivo tra i Bronzetti. Sì, Ryo è la testa calda dei samurai, ma quello che muore dalla voglia di menare le mani è proprio Shu. Così, mi sono detta che cinque minuti con Shiryu avrebbero potuto aprirgli... nuovi orizzonti. No, non in quel senso e no, non sulla tartaruga (anche se...).

Mi rendo contro che Shu è solo un po' più piazzato dei suoi compagni, ma la tartaruga di Shiryu ha sempre il suo stramaledetto perché, n'est-ce pas?
Il nostro cinesimo ha una famiglia numerosa assai, tre fratelli e una sorella minore: Rinfi (tre anni di differenza con Shu), Yun (cinque anni di differenza), Mei Ryuu (otto anni di differenza) e Chun Faa (undici anni di differenza). Grazie mille a SoltantoUnaFenice, la mia consulente in materia.

Il Longzhuang è la casacca con gli alamari e gli spacchi sui fianchi che indossa Shiryu. Ovviamente viola (Shiryu si scrive con gli ideogrammi di 'murasaki', viola, e 'ryu', drago). In cinese significa Veste del Drago, e una volta tanto il sor Kurumada non ha fatto la figura del peracottaro, insomma...

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Capitolo 3
*** Ultimi raggi di luna ***






Ultimi raggi di luna




M’illumino d’immenso
(Giuseppe Ungaretti,
Mattina, 1919)
 





Il Sole è uno di quei soggetti che entra in scena senza chiedere permesso.
C’è, sì, un piccolo chiarore che tinge il cielo di rosa, avvisando del suo arrivo come il suono di un inseguitore alle calcagna, ma è questione d’un istante o poco più. Poi c'è la luce. Improvvisa e decisa, come l’intervento a gamba tesa di un difensore d’altri tempi, di quelli che ti spezzano caviglie e stinchi e menischi senza battere ciglio. Ma puoi ammonire il Sole? Puoi espellerlo dal campo di gioco sventolando il cartellino rosso?
No, che non puoi.
Perché, senza la meraviglia dell’alba, questo mondo sarebbe un posto molto, ma molto più brutto. In fondo, è solo un attimo accecante, che annichilisce gli ultimi raggi di luna, e poi il sole arriva ad abbracciarci con la stessa gioia di un amico che non incontriamo da chissà quanto tempo.

La notte è una cella d'afa. Dormire senza che le lenzuola ti si appiccichino alla pelle è quasi impossibile. Così la passi sveglio, ad osservare la superficie pallida della luna che ti guarda di rimando, curiosa, dal suo balcone di nuvole. Sai che qualche stanza più in là i tuoi fratelli si stanno rivoltando nel letto come pesci sulla graticola; eppure, te ne resti per i fatti tuoi, appollaiato sul davanzale, una gamba a pencolare nel vuoto, ascoltando quello che il mondo ti racconta attraverso il frinire dei grilli. Ché ci sono notti fatte per pensare, altre per amare, e altre ancora in cui l’unica cosa da fare è spegnere la luce e andare a dormire.
Ma quando la luna non è perfettamente piena, e un alito gentile di vento ti solletica, accarezzandoti quell’accenno di barba che il rasoio fa sparire al mattino, tu esci. Sgattaioli fuori, una maglia sulle spalle, e ti godi il silenzio ovattato che precede l’alba. E scopri che la città è bella, a suo modo, mentre gironzoli per i sentieri che portano lungo stradine senza nome, le serrande delle botteghe che ancora dormono e qualche gatto che ti attraversa la strada, affaccendato in chissà quale commissione. Tokyo sa stupirti nella sua tranquillità, col venticello fresco che ti bacia la pelle e gioca a spettinare le cime di quei quattro alberi che resistono, strenui, all’avanzare di quel progresso chiamato cemento.
 
Il ponte pedonale sul canale si insinua tra le case come l’ago nella stoffa. L’acciaio tinto di verde non si camuffa da erba, foglie o prato; ma non protesta, quando ti fermi ad aspettare che il sole sorga, spadroneggiando colla sua luce nel cielo pulito della mattina. E chissà quanti altri, come te, ne avrà visti passare e fermarsi, quel ponte senza nome. E chissà quanti altri ne vedrà aspettare che il mattino si svegli, sorseggiando un caffè comprato ad un distributore strada facendo.
Oggi hai ricevuto due lattine, al posto del resto. Il tepore nelle tasche della felpa ti accompagna lungo la strada, mentre la luna grossa e tonda si attarda ancora un po’ in cielo, pettinando i suoi capelli d'argento. Forse, il sole le lascerà qualche minuto in più, ché le donne, si sa, ci impiegano sempre una vita per farsi belle. Ma la luna sa essere pericolosa. E proiettare ombre inesistenti lungo la tua strada; e il sole lo sa. Ed è per questo che sorge, ogni mattina, per evitare all'umanità di specchiarsi troppo a lungo nel sorriso d'argento della luna.

Stamane non sei solo. Lo vedi non appena svolti la curva: il bavero della giacca jeans rialzato, le caviglie accavallate ed un fiore di papavero tra le dita. Un tuo coetaneo, forse appena un paio d’anni più giovane. Lo sguardo fisso sull’acqua che scorre, placida, pigra, sembra accorgersi di te, che lo osservi dall’altra parte.
Tentenni. Non vuoi disturbare. E non vuoi avere estranei intorno, quando sorge il sole, ché quello è oramai un tuo piccolo rito quotidiano. Vuoi essere da solo, quando la luce torna di prepotenza nel mondo, svegliandolo dai suoi sogni – belli o brutti che siano stati. 
A Esmeralda piaceva l’alba. Sgattaiolava fuori dal fienile, quando ancora dormivano tutti, il vestitino di stoffa lisa e i piedi scalzi. Erano i suoi cinque minuti di pace, in cui tutto il mondo sembrava trattenere il respiro, prima di ritrovarsi incatenata ai suoi doveri quotidiani: le pecore, la casa, il bucato, l’acqua da prendere al pozzo.
Ed è pensando a lei, che ti soffermi ad osservare l’alba. Ed è per lei che sgrani gli occhi su questo mondo con lo stesso sguardo affamato e stupito che si allargava sul suo viso quando le raccontavi della neve di Gennaio, del chiasso di Tokyo, dei pini di montagna. Delle lucciole. Di Tanabata,  dei ciliegi in fiore, della luna d’autunno e…

No. Non vuoi compagnia.
Giri sui tacchi, prima che qualcosa di grosso e umido si stringa attorno al tuo polso. Con delicatezza. Le fauci di una grossa tigre bianca. Un animale così enorme e meraviglioso che resti a fissarla, stupito e intimorito. Da dove è sbucata fuori? Fino a pochi istanti prima non c’era nessuno, oltre a quel ragazzo e a te, ne sei sicurissimo. Una bestia così non passa inosservata. Ma non stringe. Non affonda i suoi canini poderosi nella carne del tuo polso. Ti tira sul ponte, piuttosto. Quasi che al suo padrone, stamane, servisse compagnia.
Spiacente, ma sono la persona meno adatta allo scopo, pensi, prima che il suo proprietario si riabbia e la richiami a sé.
«Byakuen. Qui.»
Byakuen si volta. Ha gli occhi dolci, nonostante la stazza e le fauci attorno al tuo polso. Guarda prima lui, poi te, come a chiederti di seguirlo sul ponte.
«Byakuen?»
Il ragazzo si stacca dal parapetto verde salvia. La tigre allenta la presa. Ti lancia un’ultima occhiata, poi si gira e si avvicina al suo padrone, mentre resti a massaggiarti il polso. Ok. Sto sognando, pensi. Ma il segno leggero che la bestia ti ha lasciato sulla carne dice l’esatto contrario.
«Scusami. Non volevo spaventarti», dice il ragazzo, accarezzando la tigre. È docile come un gattino colla pancia piena di latte, adesso.
Fra poco si metterà a fare le fusa, pensi, prima di scuotere la testa. No, non ti sei spaventato, tu. Per un tigrotto troppo cresciuto, poi, figuriamoci! Uno che ha visto l’inferno in terra e la morte in faccia così tante volte da avere perso il conto, non ha paura di una tigre. Lo trovi… eccentrico, questo sì, nemmeno vi foste incontrati nel cuore della jungla nera; ma sono dettagli.
«Tranquillo», dici. Alzando una mano in direzione di quello sconosciuto.
Eppure, quando il tuo sguardo incrocia quello del ragazzo con la tigre, vedi che siete più simili di quanto non pensassi in prima battuta. Perché c’è sincerità nei suoi occhi, la stessa della lava che scende dai fianchi di un vulcano, o della fiamma che balugina sulla cima della candela. E sul fondo di quel fuoco azzurro ci sono cicatrici, graffi e ferite spaventose. Quelle che ognuno di noi conserva sul fondo dell’anima, e che non è disposto a condividere col prossimo, a cuore leggero.
 

«Scusaci ancora», dice, la mano che abbandona il parapetto. «Andiamo, Byakuen…»
«Resta», dici. Stupendo te stesso per primo.
Lui si volta, regalandoti uno sguardo indecifrabile da sopra la spalla. «Non vorrei disturbare», dice, come a saggiare le tue reazioni.
«Nessun disturbo», ribatti, un leggero chiarore da est, mentre ti avvicini. «Mi avanza una lattina di caffè», dici, porgendogliela dalla tasca della felpa.
«Grazie», mormora. Prendendo la lattina con un gesto fluido, le dita pronte a stringersi sull’elsa di una spada. «Ryo.»
«Ikki.»
Annuisce.
«Non conoscevo questo scorcio», dice. «Tu sei di queste parti?», domanda.
«No. Passavo di qui per caso», menti. «Tu?»
«Idem», ribatte. «Stanotte ha fatto caldo.»
«È tempo suo», commenti, le braccia sul parapetto e lo sguardo rivolto all’orizzonte.
Lo vedi annuire con la coda dell’occhio. Poi riporti la tua attenzione sul sole che sta sorgendo. Una lama di luce fende in due l’aria, separando la terra ed il cielo e poi s’allarga, lenta e inesorabile, ad abbracciare le montagne, scacciando via le ombre della notte e i suoi fantasmi e il chiarore opaco delle stelle.
Ed è in quel chiarore assoluto e puro che cerchi un ultimo scampolo di lei. I suoi capelli biondi, il suo sorriso sincero, la sua risata. Un’ombra fugace, uno scherzo della luna, che imbroglia cuori e cani, e che osserva dispettosa i tuoi occhi velarsi appena; ma prezioso quanto basta per andare avanti, ancora un altro giorno.
Il fiore di papavero cade nell’acqua e si avvia, pigro, verso il mare aperto.
«Luna.»
«Esmeralda.»
E poi vi abbraccia il silenzio, nel ronfare della tigre acciambellata ai piedi di Ryo che si armonizza col fluire placido del fiume. Benedetto sia il caffè e chi l’ha inventato, pensi, mentre lo snap delle lattine riempie l’aria del mattino.





 



Saint Seiya © Masami Kurumada, Shueisha, Toei Animation, 1986
Yoroiden Samurai Troopers © Sunrise, Nagoya TV,Tokyu Agency, 1988.
Grafica ® Francine.





Note:
Ikki e Ryo. Due modi differenti di chiamare il fuoco, per così dire.

Nel mio headcanon la storia di Esmeralda è un filo più complessa di quella che ci ha raccontato Kurumada (schiava nel manga, figlia di Guilty, nell'anime). Luna appare nel primo OAV dei Samurai, e sebbene tra lei e Ryo non vi sia tempo per una liaison affettuosa di qualche tipo - se non una cotta adolescenziale, coi suoi picchi di furore - ma resta il fatto che entrambi si sono visti morire una ragazza tra le braccia. Ed è quella vita spezzata che cercano, tra gli ultimi raggi di luna.

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Capitolo 4
*** Il tempo è freccia e arco ***






Il tempo è freccia e arco




È l’Arciere che guarda il bersaglio sul sentiero dell’infinito e vi tende con forza affinché le sue frecce vadano rapide e lontane.
(Khalil Gibran, I vostri figli, Il profeta, 1923)



 



Ci sono giorni in cui il vento ti parla.
Ti scompiglia i capelli accarezzandoti le tempie e il collo e sussurrando alle fronde degli alberi e agli steli d’erba una canzone talmente bella che è impossibile non unirsi alla sua voce ed accennarla, seppure a colpi di du-dum du-dum, come fa tuo padre sotto la doccia.
La voce del vento deve assomigliare a quella delle sirene, non c’è dubbio. E tu capisci, in parte, perché i marinai scegliessero di seguirla, anche a rischio di schiantarsi contro gli scogli. La libertà è un bel miraggio, per chi non riesce a staccare i piedi da terra che per pochi minuti, giusto il tempo di un saltello e via. Ma chi vola? Quanto pesa starsene a terra, per chi sa cosa significhi essere avvolti dall’aria, sentire il tempo fermarsi e vedere le case e le persone diventare sempre più lontane e piccine, mano a mano che ci si allontana?
A volte ti sembra di illanguidire, senza un vero e proprio motivo razionale.
Ti sembra che quella cupola azzurra, sopra la tua testa, sia una specie di mare capovolto, per dirla con Shin, in cui tuffarti e lasciarti galleggiare.
Non è poi molto lontana, in fondo. Non per te. Ti basta richiamare il tuo potere e lasciarti sollevare dall’aria, come fossi uno dei tanti palloncini che sgusciano via, dispettosi, dalle mani dei bambini. E che continuano il loro viaggio fatto di dolci dondolii, sordi alle urla e ai pianti e alle grida dei bambini, rimasti a terra. E al palloncino dispiace, e molto, ma il bambino non sa volare. E lui non può insegnarglielo. E anche se al palloncino piaceva starsene legato al suo polso, il richiamo del cielo è qualcosa cui non si può resistere. Qualcosa di troppo forte da spezzare, ché l’aria come la tagli? Puoi fenderla, questo sì. Ma è un’illusione di breve durata, ché l’aria non ha un corpo, una solidità.
L’aria è. Attorno a te, dentro di te, lontano da te. Un mare impalpabile in cui galleggiare, a patto di essere uccelli, palloncini o aquiloni.

Ci sono sere in cui il richiamo del vento diventa doloroso. E allora ti eclissi. Una coperta nello zaino, un telescopio portatile, dei sandwich, un thermos di caffè e via, a cercare di inseguire il respiro del vento e le rivoluzioni degli astri, spettatore solitario di un balletto la cui eco ti raggiunge attraversando lo spazio ed il tempo.
Jun ti ha detto che il cielo stellato gli dà le vertigini, e un po’ lo capisci. Le stelle pulsano di una luce ricca di possibilità. E a volte, ti viene il sospetto che se tu riuscissi anche solo a sfiorare la scia di una stella cadente, potresti cogliere tutti quei desideri che ti riempiono il cuore. E a volte ti sei sorpreso a crederci, le mani in aria e la pelle che friggeva come burro in una padella calda.
Stasera il vento soffia con più insistenza del solito. Hai percepito la sua voce già dal primo pomeriggio, nelle fronde verdissime degli alberi che sembravano chiamare proprio te, come fanno i bambini che tirano i sassolini contro le finestre degli amichetti.
Vieni?, ti sta dicendo anche adesso, mentre filtra dai finestrini del vagone della metropolitana. E tu gli dici che sì, stai arrivando, il tempo necessario e sarai fuori città. Avresti potuto usare il tuo potere, e raggiungere le colline in un battito di ciglia, il respiro del vento sulla pelle e un senso di libertà a ruggirti nel cuore.
Ma qualcosa, dentro di te, ti ha suggerito di far aspettare il vento, come fosse un’amante lasciata cuocere a fuoco lento, ché certe battaglie si vincono sulla distanza e non sbaragliando il nemico in un unico assalto. Dice il saggio, ridacchi tra te e te, un erto e vetusto librone di astronomia dalle pagine ingiallite a separarti dal resto dei passeggeri.
Quando le porte si aprono e la fiumana umana svuota il vagone, noti qualcuno seduto di fronte a te, un braccio abbandonato sul sostegno laterale, i piedi che si toccano per i talloni, i jeans sfrangiati e l’aria assente, persa dietro fatti suoi. Un ragazzo che assomiglia ad un gatto randagio.

Lo stesso callo. Sul polpastrello del dito medio.
Il cervello non lavora in maniera razionale. Non sempre, almeno. Fissa dei particolari, come fossero un’istantanea, e poi te li ripropone. Senza alcun collegamento logico. Come quando ti cade di mano una scatola piena di fotografie che si sparpagliano a pioggia sul pavimento, mischiandosi, le une alle altre, in un mosaico di tessere vicine, ma distanti, nello spazio e nel tempo. Fotogrammi inconcludenti che scorrono, davanti ai nostri occhi, mentre il cervello, sornione, ride sotto i baffi.
E se un altro avrebbe derubricato quel cortocircuito mentale ad uno scherzo del caldo o dell’affaticamento, tu invece sai che quello è il modo che il tuo cervello ha scelto per comunicarti qualcosa.
Il contenuto del messaggio è ancora nebuloso. Ma se lui ti avesse parlato a chiare lettere, tu forse non l’avresti ascoltato, preso come sei ad inseguire il respiro del vento. Così, invece, il tuo cervello sta attirando la tua attenzione focalizzandosi su quel callo che decora il dito medio del ragazzo seduto di fronte a te.
L’osservi di sottecchi, lo sguardo dietro il pesante librone di astronomia aperto per inganno. Sì, è un callo d’arciere, quello. Ne ha una costellazione intera sull’indice, medio e anulare. Peccato che il modo in cui quel ragazzo molleggia le caviglie non trasmetta affatto l’idea di qualcuno posato ed equilibrato e paziente, ché per scoccare la freccia non devi avere fretta di centrare il bersaglio, ma saper attendere l’attimo in cui poter lasciar andare le dita e il cuore assieme alle piumette. Ché il tiro con l’arco è tutta questione di respiro, di sentire la corda quasi tagliare il pollice che la trattiene.
Eppure, qualcosa ti sussurra che anche quel ragazzo ha un arco, nel suo destino. Un arco e delle ali, pensi, seguendo il suggerimento del vento. Caldo e afoso, come un sudario bagnato che avviluppa cuori e coscienze. E che scende a terra con un suono umido quando lui si volta e ricambia lo sguardo. E ti squadra, un sopracciglio alzato come a dire E adesso che vuole questo curioso?.
Taci. Vorresti spiegargli che è tutta colpa del vento; ma poi il ragazzo indica il libro con un cenno del mento.
«È al contrario», ti dice. E solo allora i tuoi occhi si abbassano.
«Ah»
E volti il libro, avendo cura di non perdere il segno e di non sparpagliare a terra fogli, foglietti e fogliettini che hai disseminato tra le pagine di quell’atlante.  Nemmeno te lo ricordi più perché li hai presi, però potrebbero tornarti utili, un giorno o l’altro.
«Stavo osservando le stelle», e il suo sguardo si illumina, come se una saetta l’avesse attraversato, illuminandone il castano scuro.
«Le stelle?», e in un gesto fluido lui è davanti a te, le mani in tasca, la fronte contro il sostegno e un sorriso da bambino sulle labbra.

L’astronomia è un passatempo che richiede pazienza e genera sospetto, ma una volta che hai osservato da vicino le stelle, non vedi l’ora di tornare a dare una sbirciatina. Forse vale lo stesso per questo ragazzo?
«Sì, vedi? Drago, Cefeo…»
«…Cigno, Lira, Aquila, Freccia, Cassiopea, Perseo, Andromeda, Orsa Minore e Maggiore, Altare, Lupo, Idra, Leone Minore…» Le sue dita sfiorano a velocità sorprendente la mappa, senza esitazione, mentre con l’altra mano se ne resta appeso al sostegno, come un orango in jeans e maglietta. «Oh, guarda. C’è anche la Civetta. È un libro vecchio, eh?»
Sgrani gli occhi. «La civetta?» Realizzi che t’è scappata quando vedi le sue labbra arricciarsi all’insù.
«Conosco le stelle», risponde. Come se stesse parlando di qualcuno in carne e ossa, e non di ammassi di gas in fiamme, lontani anni e anni luce nello spazio. «Seiya.»
Stella e Freccia?, ti chiedi.
«Touma», rispondi. Stringendo le sue dita e percependo sotto la pelle gli stessi inspessimenti che regala la corda dell’arco. Vi fissate. E qualcosa entra in risonanza colla sfera della Saggezza, nemmeno fosse un arpa eolica che tintinna al soffio della brezza.
Chi sei tu?, vorresti chiedergli. Ma lui si è già sciolto dalla stretta e fissa le porte del vagone. «Scendo alla prossima. Piacere di averti incontrato», ti dice.
E vorresti dirgli: «Aspetta!», e proseguire quella conversazione ancora un altro po’. Un paio di minuti appena. Ma il tempo è una freccia scoccata. E allora gli chiedi: «Qual è la tua costellazione preferita?», racimolando ancora qualche istante, ché per certi incontri basta appena un battito di ciglia.
«Pegaso. Buona serata», e Seiya esce da questa storia e dalla tua vita in un paio di saltelli, le mani in tasca ed un sorriso sincero.
Le ali. Eccole!, ti dici, osservando l’ombra che il sole proietta sulla banchina. Ali lunghe e maestose che si estendono oltre la schiena di Seiya e arrivano a lambire il terreno. Ali come quelle sono in grado di portarti ovunque, pensi, mentre il treno riprende la sua corsa nella sera che avanza. E chissà che un giorno non vi possiate incontrarvi ancora, magari inseguendo la stessa nuvola. Nelle strade ci si perde, in cielo e in mare, no, ti sussurra il vento, accarezzandoti gentile i capelli.
 
 




 



Saint Seiya © Masami Kurumada, Shueisha, Toei Animation, 1986
Yoroiden Samurai Troopers © Sunrise, Nagoya TV,Tokyu Agency, 1988.
Grafica ® Francine.





Note:
I due arcieri a confronto. Tanto saggio uno, quanto gonzo impulsivo l'altro.
Me la sono giocata sulla passione di Touma per l'astronomia (e chi, meglio di un Santo di Athena, conosce davvero le stelle?) e sul loro legame attraverso l'arco.

Il tempo è freccia e arco e Nelle strade ci si perde, in cielo e in mare, no sono citazioni dalla canzone Naso di Falco di Claudio Baglioni, contenuta nell'album Oltre, (1990).

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Capitolo 5
*** Viaggiatori nella notte ***






Viaggiatori nella notte




 
Ma la notte sperde le lontananze.
Oceanici silenzi,
Astrali nidi d'illusione,
O notte.
(Giuseppe Ungaretti,
O Notte, in Sentimento del tempo, 1933)
 
 




«Un’acqua tonica, per favore.»
Mostri il tuo biglietto alla barista, domandandoti se ti allungherebbe un bicchiere di quella vodka che occhieggia dalla mensola di vetro alle sue spalle.  
«Limone e ghiaccio?»
Sorridi. Meglio restare sobri.
«Solo limone, grazie», e ti volti ad osservare le luci di posizione sulle piste di decollo, mentre fuori dai finestroni panoramici la notte senza stelle abbraccia l’aeroporto come una coperta rassicurante.
I passeggeri dei voli notturni si assomigliano tutti. Come se l’aeroporto, quando cala il buio, smistasse non solo persone, ma anche sogni, desideri e necessità da inviare ai quattro angoli della terra.
«Prego», dice, posando il bicchiere e facendosi indietro, a sistemare nella lavastoviglie una serie di tazzine e piattini tintinnanti.
Quanti ne potrai aver visti?, ti chiedi. Accantonando quel pensiero come si fa con quegli spiccioli che restano nelle tasche, alla fine del giorno. La risposta la sai da te. Innumerevoli, ché gli esseri umani sono tutti simili, tra loro, e tutti diversi. Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo, diceva Tolstoj. E lo stesso vale per gli esseri umani, presi nella sua singolarità, come i minuti che compongono le ore ed i giorni, e che gli orologi sbucciano con una lentezza esasperante.
Il tuo volo parte alle quattro del mattino. E vuoi restare sveglio mentre il mondo sonnecchia su giacigli di fortuna, le borse come guanciali, perché è nel cuore della notte che i pensieri si affilano. E si fanno più pericolosi.
Il tizio all’altro capo del bancone attira gli sguardi su di sé come fa il sole, ché lo vedi anche quando non lo guardi. Foulard al collo, la testa bassa sul bicchiere, sembra immerso nei propri pensieri, ma non abbastanza da celare la sua vera essenza. Puzza di guerra, di quella bellezza fatta di ombra e luce allo stesso tempo. Come un raggio di sole nel cuore del buio più assoluto. E sei convinto che lui abbia percepito te, così come tu hai percepito lui.
Solleva il suo bicchiere – acqua tonica, ghiaccio e limone – e lo osserva. E poi fissa lo sguardo nel tuo, i capelli biondi che ricadono davanti agli occhi con poca convinzione.
«A che ora parti?», domanda. Più per educazione che per curiosità.
«Alle quattro del mattino», ribatti.
«Io alle tre. Delta. New York.»
«Aurora.» Pausa. «Krasnoyarsk.»
«Krasn… Dov’è?»
«In Siberia. Al centro della Russia.»
Annuisce, il sopracciglio aggrottato e l’aria pensosa. In realtà, tu vai un bel po’ più a nord di così, ma figuriamoci se questo ragazzo può conoscere Kohobotek - due gatti, tre baracche e quattro galline che resistono con stoica testardaggine al gelo. Quello vero.
«Capisco», dice. E poi, come continuando un discorso con se stesso, aggiunge: «È tutto vero, allora. La Guerra Galattica, dico…».
Ok, eccone un altro, pensi. Di gente che ti ha fermato per strada, dopo quella buffonata, ce n’è stata parecchia. Forse ti sei solo sbagliato. Forse hai solo voluto vedere in lui qualcosa che, in realtà, non esiste. Forse vuole solo un autografo per la sua collezione, e credi che tirerà fuori il blocchetto da un momento all’altro, quando qualcosa, nel suo sguardo – una saetta che gli attraversa le pupille – ti dice che no, non ti sei sbagliato. Ché lui è come te.
«Potrei dire la stessa cosa.»
«Ovvio», ribatte. «Ma sai come si dice, no?»
Silenzio.
«Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio…»
«… di quante ne sogni la tua filosofia.»
«A Shakespeare. Mia madre l’adorava.»
«La mia adorava Tolstoj.»
Solleva il bicchiere, in un brindisi muto.
«Grazie», dici. «Per esserci stato quando io non c’ero.»
Scuote la testa, e vinci l’istinto di ravviargli quel ciuffo che gli pende davanti agli occhi. Camus l’avrebbe fatto?, ti chiedi. E ti rispondi di no.
«Figurati. Eravate… in altre faccende affaccendati.»
Non ti chiede quali, e lo ringrazi di questo. Un conto è riconoscere un tuo simile, anche se inguainato dentro vestiti da rampollo di buona famiglia; un altro è raccontare, ad alta voce, di divinità che si alzano col piede sbagliato e non hanno niente di meglio da fare che rivoltare la terra da cima a fondo, come fossero calzini da infilare in lavatrice. Ché a raccontarle, certe cose, acquistano contorni nitidi che fan tremare i polsi. Mentre le vivi, non hai il tempo di fermarti a pensare all’enormità su cui la vita ti sta facendo affacciare; ma dopo, quando la polvere si posa e il silenzio avvolge tutto, il cervello analizza, processa, ricompone. E tu non ce la fai a stargli dietro. È troppo straniante. È troppo pericoloso, ché certi pensieri attecchiscono fin troppo bene, e la prossima volta i tuoi piedi potrebbero bloccarsi sul più bello, mentre il nemico affonda i denti e strazia la tua anima. Così metti via quel pensiero come si fa coi maglioni pesanti, quando l’estate entra a passo sicuro col suo mazzo di spighe e papaveri. E tu ti dici che, in un certo qual modo, questo discorso vale anche per lui.
Erii ti ha raccontato, per sommi capi, come Tokyo fosse impazzita. Come Shinjuku fosse sparita dietro una cupola oscura. Come la città – ed il paese con lei – si fosse fermata per una settimana. E davanti ai suoi occhi smarginati – occhi che ti chiedevano dove foste voi in quel momenti – ti sei sentito piccolo piccolo. Ché, per quanto sappiate spezzare gli atomi a vostro piacimento e parlare colle stelle dando loro del tu, nessuno di voi è onnipotente. E non potrete trovarvi sempre sulla breccia, risolvendo i problemi che questa vita vomita ogni giorno come fossero stelle cadenti che solcano il cielo di agosto.
Per questo sei contento di sapere che esista gente come lui. Perché avere le spalle coperte è un lusso irrinunciabile, nella vita di un guerriero, più delle giacche di lino ben stirate, dei foulard al collo e delle scarpe che costano, da sole, un occhio della testa. Fattura italiana. Senza dubbio alcuno, pensi, e a quell’idea lo sguardo ti si rabbuia.
«A buon rendere», risponde lui, riportandoti al presente. «Un altro giro? Offro io.»
«Perché no?», rispondi. «Allora, a me tocca il prossimo», dici. Svuotando il bicchiere in un sol colpo.
«A che brindiamo?»
«Agli operatori di pace», proponi. Sollevando in aria il bicchiere con un sorriso ironico. «Questo siamo, no? Operatori di pace.»
«Beati gli operatori di pace…»
«…perché saranno chiamati figli di Dio.»
E brindate. Una volta, due, tre. Sollevando bicchieri e cuori, annusandovi l’anima quando i pensieri si fanno più affilati, più pericolosi. E c’è bisogno di una spalla amica per attraversare la notte e tornare a vedere il sole.
 

 



Saint Seiya © Masami Kurumada, Shueisha, Toei Animation, 1986
Yoroiden Samurai Troopers © Sunrise, Nagoya TV,Tokyu Agency, 1988.
Grafica ® Francine.





Note:
Ultimo capitolo di questa mia digressione, che si situa tra la fine di Quando piangono le Stelle e il primo OAV dei Troopers, Gaiden (1989).
Protagonisti assoluti i due biondoni del gruppo: Hyoga del Cigno e Seiji Date.

Il titolo del capitolo è preso da un racconto di Banana Yoshimoto, mentre le citazioni letterarie rimandano ad Anna Karenina, di Tolstoj, Amleto di Shakespeare e il Discorso sulla Montagna tratto dal Vangelo secondo Matteo, 5-9.

Spero che questa mia digressione vi sia piaciuta. Grazie per esservi affacciati, per aver commentato ed aver inserito questa storia tra le seguite/preferite/ricordate. Alla prossima. Ci conto!

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