The Black Man

di Rose Paris Bonnefoy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Scappa! ***
Capitolo 2: *** L'Uomo e il mastino ***



Capitolo 1
*** Scappa! ***


05 Marzo X, Penumbra
 
 
“Caro diario,
mamma e papà non ci sono più.
Hanno appena trovato i loro corpi sotto le macerie di questa enorme villa che i nostri antenati, un tempo, avevano costruito sperando che un dì noi - i loro successori - ne avremmo fatto tesoro.
Sono spaventata, inorridita da ciò che i miei occhi hanno veduto intorno a queste mura: dimore millenarie cadute a pezzi, uomini e donne di ogni età martoriate, macchiate col loro stesso sangue; bambini che piangevano esattamente come me e per il mio stesso motivo. Ciò che mi tormenta di più è sapere che tutti loro son ben più piccoli di me, devono ancora crescere ed arrivare all’età adulta e dovranno affrontare la vita da soli o - chi è “fortunato” - con il proprio fratello e sorella.

La causa di tutto questo disastro ancora non è nota a nessuno, nemmeno alle forze dell’ordine che si trovano proprio dinanzi a me. Ora stanno ispezionando il giardino, alla ricerca di qualche indizio, ma su questi sassolini e erbacce non intravedo nulla, se non qualche resto di una finestra qua e là e le verdi tende tanto amate da mia madre ora luride di polvere nera come il carbone.
Non riesco nemmeno a ritrovare Joya, la mia adorabile gattina nera: per quanto graziosa e piccolina, era paurona. L’unica cosa che mi rimane sei tu, caro diario e l’altro mio gatto bianco e nero. Pajn.
Di una cosa son sicura ed è la certezza che ho sempre avuto: non posso fidarmi di quelli che mio padre, ingenuamente, chiamava “parenti”. Non abbiamo mai avuto buoni rapporti con nessuno di loro ed ora che non ho più nulla, loro possono beatamente impossessarsi di questo misero pezzo di terra e non degnarmi  di uno sguardo. L’unico vero problema è, ora: dove andremo?
Mi vien da piangere al solo pensiero di dover rifugiarmi sotto i ponti o chiedere cibo e soldi ai passanti.
Tuttavia, va bene così.
Son sola, ma ho ancora speranza.

 
 
Selene.”




Fece un lungo respiro e chiuse, con quelle fredde e candide mani, il suo diario che odorava d’incenso; le pagine scricchiolarono come le foglie d’autunno a quel semplice gesto, così divorate dal tempo, come solo i libri di suo padre lo erano. In fondo, la sua amata nonna aveva conservato da anni quel quaderno così piccolo e nero, decorato con linee bianche come la neve e morbide, sinuose come le onde del mare.
La piuma, macchiata d’inchiostro, fu adagiata dentro un astuccio del medesimo colore della notte, ove dentro era rivestito di un tessuto morbido e rosso; quest’ultimo fu congiunto e posto dentro ad una semplice saccoccia insieme a quei fogli scribacchiati già da tempo, legata alla vita della giovane come una borsetta. Dentro vi doveva essere anche il suo “registro giornaliero” che poteva esser grande la metà del suo piccolo braccio più la sua mano, dunque doveva assolutamente essere spaziosa.
I suoi occhi sporgenti erano spenti, privi di ogni allegria o di curiosità, di speranza. La sua mente era ancora in fase di “elaborazione”, dunque cercava – in ogni modo possibile – di trovare una qualche soluzione.
Nonostante tutto, però, le lacrime erano sempre lì, pronte a scendere silenziosamente. Non amava piangere, lei: preferiva piuttosto ridere o far sorridere gli altri, che piangere in un angolino del suo caldo e grande letto, che oramai non possedeva più.
Girò su sé stessa, sulle punte e prese ancora una volta un lungo respiro, guardando prima dinanzi a lei, poi in basso, verso quel grande e grasso gatto.
«Pajn, andiamo! Non so dove, tuttavia.. andiamo!» il felino la guardò con quegli occhi gialli e innocenti, scrutatori, non capendo cosa la sua padrona volesse dirgli; ma la seguì con passo svelto, felpato e senza indugiare, appena vide l’arto della sua padroncina muoversi su quel vestito candido e lungo, che copriva quel corpo formoso in tutti i suoi punti. La sua coda era diritta, verso l’alto come un’antenna pelosa e morbida al tatto. Il padre della fanciulla l’aveva trovato per strada, in fin di vita e pieno di ferite, di lacerazioni. Tuttavia, con le dovute cure e giusto qualche ciotola di buon latte tiepido, fu cresciuto con amore ed il risultato era ben visibile: la panciona era impossibile non notarla. E quelle unghie, che solo in casi particolari uscivano allo scoperto – e graffiavano, eccome se graffiavano – erano resistenti e taglienti come un coltello. Le zampe agili e con un notevole volume muscolare erano grandi più del normale, ma morbide anch’esse come tutto il resto del corpo. Ed i denti, bianchi come la perla, mordevano e facevano male.
E questo la mora chioma lo sapeva bene.
La fanciulla non guardò nemmeno in faccia i poliziotti, andò avanti senza fermarsi. Gli abitanti della sua città facevano in continuazione avanti e indietro, un continuo brulicare di anime disperate ed alla ricerca delle persone a loro care. Lei si fermò per qualche istante, notando da lontano una donna che si avvicinava chinata e singhiozzando al corpo di un giovane, che non dava oramai segni di vita; vide quelle mani che parevano materne afferrare quella piccola testa, le urla disperate…era troppo per Selene.
Distolse lo sguardo dalla parte opposta della strada, con in volto uno sguardo che esprimeva tutta la sua preoccupazione e tutto il suo odio: perché vite così giovani dovevano rimettere la propria vita? A quale scopo, secondo quali desideri e piani? Era una domanda che una così piccola mente, non poteva ancora dar risposta. E non era ancora pronta a lottare.
Ma doveva.
Selene incominciò a compiere i primi passi, seguita dal suo amato felino, verso il centro oramai spoglio di ogni antica decorazione. Arrivata alla Piazza Principale, i disastri erano ben evidenti: il terreno sotto i piccoli piedini aveva preso una curvatura anomala, distorta e le mattonelle si erano completamente staccate dalla loro posizione iniziale; Bar Clè, il più famoso della città non esisteva più, come anche la cattedrale che si trovava di fronte al comunale, con quel suo stile gotico, con quelle sue altezzose mura, decorate da mani esperte della scultura e dell’architettura che spesso e volentieri le persone del luogo la definivano “Casa del Mondo”, per la moltitudine di gente che accorreva lì per osservarla, per studiarne ancora la struttura.
Una vera e propria opera d’arte, che purtroppo da quel dì maledetto, aveva bisogno di ristrutturazioni. Poco più avanti, il museo non aveva più un tetto, il cinema aveva perso il 50% della struttura portante, la parrucchiera infondo al vecchio corso non aveva che le macerie.
Dovevano andarsene tutti. E subito, perché sarebbe successo ancora ed ancora e la città sarebbe infine crollata sulle loro teste.
La fanciulla non poteva rischiare, sarebbe dovuta scappare con ogni mezzo possibile. Persino con una barca. Ma a chi chiedere aiuto?
 
«Selene!» una voce conosciuta la chiamò improvvisamente, svegliandola da quel puzzle così difficile da completare, per una come lei. «Selene! Sono Chatarina!»
Una donna le si parò dinanzi, con fare sereno, quasi giocoso; gli smeraldi della più piccola si alzarono verso quelli scuri della donna. Riconobbe subito la madrina, avvolta nel suo grande cappotto viola e quei jeans chiari come il cielo. Quest’ultima le saltò quasi addosso, abbracciandola come solo la madre, un tempo, sapeva fare. Selene all’inizio cercò quasi di protrarsi, colta alla sprovvista, ma quando la situazione le fu tutta più chiara ricambiò il dolce gesto che tanto la stava rendendo felice.
«Quanto mi sei mancata, Chatarina! Come hai fatto a trovarmi?»
«La nonna ti aveva visto passare tutta frettolosa, allora abbiamo pensato di chiamarti per salutare! Dunque, sei andata a trovare la tua dimora?» la mano della mora, dopo aver indicato per qualche istante un’amabile signora dal dolce sorriso e dal fare cordiale e pacato, ritornò lungo i fianchi; la fanciulla non tardò a salutare con un grande bacio sulle dita la “nonna”, con un sorriso che non faceva oramai da giorni. Poi, tornò a riflettere su ciò che gli aveva chiesto la madrina.
«Sì..»
«Mh- dalla tua risposta, deduco che non sia andata molto bene.»
«Scusami, Chat, ma non ce la faccio: perché hanno dovuto colpire la mia casa? A quale scopo?» una mano candida si appoggiò su quel morbido volto, che da lì a poco veniva macchiato – ancora una volta – da quegli orrendi solchi che creavano sul suo volto le lacrime; ma doveva resistere, perché in fondo odiava piangere. Le ricordava quanto fosse debole. Perché lo era.  «Le uniche cose che ho potuto vedere son stati dei pezzi del nostro soggiorno e poco più. E’ inutile tornare lì, se non si vuole quel terreno.»
«Ma tu lo vuoi, vero?» chiese la donna, con quel pizzico di speranza in quella voce squillante.
«No, non m’interessa. Che se lo prendesse qualcun altro. Mi son stufata di star  dietro a queste cose. E’ da quando son piccola che la mia famiglia non fa altro che litigare, per dei beni materiali che – purtroppo – non si possono portare nella tomba; non voglio perdere tempo con dei nullafacenti, che pensano solo a “prendere”, ma non a dare.»
«Selene, quel terreno se l’era guadagnato tuo padre col duro lavoro! Perché lasciarlo a persone che nemmeno lo meritano?! Non spetta a loro!»
«Me ne rendo conto, ma non ho né la forza, né gli anni e né l’esperienza giuridica per andare contro di loro!»
«Beh, per quanto riguarda la terza esistono gli avvocati!»
«Ma per gli altri due..?»
Tra le due cadde il silenzio, nel mentre la nonna era a qualche passo di distanza da Selene, cercando di capire di cosa parlassero. Le due calde mani di Chat si appoggiarono sulle piccole spalle di Selene e le strinsero forte; erano come un abbraccio, ma uno di quelli che cercava di darti la forza di andare avanti e lottare, di provarci sempre e comunque e ti ricordava che non eri da solo. Sempre se volevi ricordarlo.
«Non sei da sola, piccola mia! Ricordatelo sempre! Ti darò una mano io; conosco tanti di quegli avvocati, che-»
«Ho detto “no”. Dico sul serio, madrina e ti chiedo di rispettare la mia decisione.» replicò lei per l’ultima volta, lanciando un’occhiata alla figura dinanzi a lei. Prese entrambe le mani dalle sue spalle e le strinse nelle sue, con fare dolce e gentile; un lieve sorriso apparve su quelle piccole guance. «Al massimo, se desideri, lascio una dichiarazione scritta dove dico che quel terreno è tuo e della nonna. Ma se voi non lo prenderete, quel terreno andrà in mano ai miei parenti. Questo è ciò che ho deciso.»
«Come desideri, Selene.» il tono della donna si abbassò incredibilmente, molto probabilmente era triste, preoccupata per ciò che la piccola aveva in mente di fare. «E dove andrai?»
La bruna rimase in silenzio, con lo sguardo pensante: bella domanda.
 «Ho bisogno di te per questo, Chat: voglio andarmene da qui. Voglio raggiungere il Nord. Ho sentito dire che lì il lavoro si trova e affittano camere!»
«Ma ti rendi conto di ciò che stai dicendo..? Puoi vivere tranquillamente qui, dove hai un terreno tutto tuo, ed invece no. Vuoi raggiungere Delstaten Vindar? »
«Sì! Ti prego, Chat! Ho sentito dire che gli ultimi aerei partono questo pomeriggio, poi se ne riparlerà settimana prossima!»
«No, non se ne parla!» alzò le mani al cielo, scuotendo il capo ed indietreggiando lentamente, sembrava alquanto indignata. E non aveva tutti i torti, dopotutto. Ma la giovane aveva un brutto presentimento e rimanere a Penumbra non avrebbe di certo calmato quell’animo ardente. «Andrai da sola ed io ho il compito di accudirti. Tu rimarrai qui!»
«Oh, Santo Cielo! Ti prego, ci tengo tanto!»
«E dove pensi di prendere dei vestiti decenti, eh?! E da mangiare?»
«Ho dei soldini con me, posso prendergli lì! Poi, se trovo un lavoro il gioco è fatto!»
«Non è così semplice!»
«Allora non complicarmi tutto.»
Ancora una volta il silenzio s’impossessò di quegli istanti di soli sguardi amareggiati e pensierosi. Chat iniziò a torturarsi le mani, guardando a terra. Non era un buon segno.
L’anziana signora, la “Nonna”, si avvicinò alle spalle di Selene e la pattò con fare delicato, guardando poi la figlia silenziosamente.
«Seguimi.»

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Capitolo 2
*** L'Uomo e il mastino ***


Era giusto a due passi da lei.
Chat stava avanzando con passo veloce, guardandosi intorno con fare preoccupato. Aveva forse il timore che qualcuno le stesse seguendo? Molto probabilmente sì. E Selene comprendeva pienamente i suoi timori, poiché se veramente qualcuno fosse venuto a conoscenza del luogo segreto ove rimediare dei biglietti per una probabile partenza, si sarebbe creato un putiferio. 
E questo era l’ultima cosa che tutte e tre le donne desideravano.
Da dieci minuti si erano messe in marcia, mischiandosi tra masse di gente che correvano in soccorso delle persone vicine, o di persone mai conosciute. La bruna iniziò a puntare lo sguardò verso una casupola stranamente in piedi, nonostante non fosse poi così moderna o ben ridotta. Anzi, pareva piuttosto la casa di un mendicante in preda alla disperazione. 
«Passiamo da dietro.» esordì la sua madrina, puntando il dito verso una stradina che separava la casupola da un’improbabile costruzione. Descriverla era quasi impossibile, dato che anch’essa non era ben messa da come si poteva ben intuire solo guardandone la facciata principale. Crepe ovunque, finestre che si sarebbero spaccate in mille pezzi solo con una stupida, innocua ondata di vento. Poi, intravide lungo quel alto muretto di mattoni – oramai quasi disintegrato – una scritta su una targhetta in marmo, decorata con linee di color pece.

Era la sua scuola, dove avrebbe dovuto tenere da lì a poco gli esami. Selene si fermò per qualche istante dinanzi a quelle scritte, lasciando che le labbra si schiudessero un poco. Sentì il cuore fermarsi improvvisamente: il luogo ove aveva vissuto il 50% della sua vita da tre anni fino a ieri era caduto (quasi) a pezzi. Per riprendere conoscenza, la Nonna dovette scuoterla un poco e, a gesti, chiederle di avvicinarsi velocemente alla viuzza che dovevano intraprendere. Fu difficile staccare gli occhi da quel posto. “E’ impossibile.. questa è una catastrofe!” pensò Selene, iniziando a sudar freddo. Iniziò a pensare alla sua più cara amica, Pauleen, una giovane fanciulla proveniente dall’Ovest che abitava giusto dietro alla scuola. Che fosse morta? Se così fosse stato, la bruna aveva perso ancora una volta una delle persone a lei più care. Si portò le mani al petto, come per assicurarsi che la sua anima battesse ancora. E quando Chat la chiamò ancora, quasi trascinandola dietro di sé, Selene si riprese. Ma non del tutto. A pochi passi da loro, poi, vi era Pajn che, a passi felpati, riusciva a tener testa alle signore ed alla padroncina. Con quel suo morbido musetto fiutava ogni angolo della strada; l’odore di cani e gatti lo stava rendendo leggermente nervoso. E gli occhi della bruna erano puntati su di lui. Guai, se si fosse allontanato dalla sua figura!
Arrivate dinanzi ad una scala consumata dal tempo e col muschio quasi ad ogni gradino, iniziarono a percorrerla. L’odore così nauseante dell’appartamento usciva dalla finestra che si affacciava sui gradini, ma la bruna riuscì a prendere un’ultima boccata d’aria fresca, prima che la donna che le faceva strada bussasse ad una porta che da lì a poco pareva cadere a terra, così impolverata e segnata in basso, verso le piastrelle luride di peli scuri, dei graffi profondi e insistenti tanto d’aver rovinato il legno.
Dentro all'abitazione Selene si guardò intorno, sentendosi mancare l’aria nonostante la finestra dietro di lei fosse spalancata e sul tetto vi era un buco, grande abbastanza da ricoprire la stanza del bagno. Anche le piastrelle sottostanti erano alzate, altre a pezzi, come se lì fosse caduto qualcosa. Qualcosa di estremamente grande e pesante.

«Salve, Signor Bergman! Sono Chatarina!» 
Nel buio più totale, dietro ad una scrivania abbondante di fogli di ogni grandezza e colore, si affacciò un volto divorato dal tempo; capelli quasi inesistenti e bianchi. Una camicia indossata di fretta, pensò Selene, a righe bianche e grigie. Sulla punta del naso vi erano due lenti grandi come il fondo della bottiglia che rendevano quegli occhi verdognoli più grandi del normale. In mano aveva una piuma ad inchiostro bianca, ma forse troppo grandi. Esageratamente grandi. 
«Oh, Chatarina!» l’anziano si alzò di scatto, gobbo e com’era riuscì a raggiungerci a gran velocità. I suoi occhi brillarono di luce propria, guardando la figura oramai conosciuta. Strinse alle due donne la mano, appoggiando una sua mano magrolina su una spalla di entrambe le figure. Poi si fermò. 
Scrutò con attenzione il volto della giovane, facendo scomparire nell’immediato il sorriso: mai vista, a quanto pareva. Non si conoscevano. 
Ma il Signor Bergman tornò a sorridere guardando in quegli occhi molto simili ai suoi, ma di tutt’altra tonalità. Quella moltitudine di baffi accarezzò quelle guance rosee, tanto da procurare alla fanciulla un leggero solletico che la fece ridacchiare per qualche istante. 
« Ciao! Ma che bella ragazza che sei! Chat, non credevo avessi figli! Dovevi dirmelo, avrei volentieri partecipato alla sua nascita!» alzò l’indice verso la madrina, scuotendolo in maniera alquanto vaga, ma la sua voce era allegra e pimpante. 
«Non è mia figlia, Signor Bergman. Ha perso i genitori durante la catastrofe di ieri ed io sono la sua madrina. Ma sì, mi considero come una seconda madre per lei!» la donna fece il primo passo verso la cattedra, che stava per essere ancora occupata da quell'anima consumata dal tempo.
In quel preciso istante, il silenzio cadde nella stanza. Il rumore di una sedia si fece sentire e il volto di Bergman riapparve da quella pila di fogli sulla sua scrivania; si tolse gli occhiali, svelando quegli occhietti così piccoli, quasi attenti e scrupolosi. La serietà invase quel volto ricoperto da una tela di rughe, segno del tempo che aveva predominato su quel corpo. «Mi dispiace davvero, piccola..»
«Oh, nessun problema! Si figuri! Io..» la voce di Selene era spezzata, timida, alquanto strano per un tipo come lei. Chat percepì il disagio che stava nascendo in lei, e con quello sguardo triste e malinconico, si voltò improvvisamente verso l’uomo. 
«Non si preoccupi, è una fanciulla forte. Ad ogni modo, sono venuta qui da lei per prendere un biglietto.»
«Oh, per dove? Le solite lande dell’Est, mia cara?» saltò immediatamente l’affermazione della sua cliente e l’anziano passò subito alla richiesta che venne subito dopo. Si posizionò ancora una volta gli occhiali sul naso e iniziò a frugare tra i cassetti in cerca di qualcosa.
«No, per il Nord. Delstaten Vindar.»
«Diamine, tutti stanno partendo per posti molto più caldi e accoglienti. Sei sicura di voler-»
«Non per me, Signor Bergman. Ma..» lo sguardò ricadde sulla più giovane, che era lì, a pochi passi dalle sue spalle. «Per lei.»
«E per il mio gatto!»  l’indice piccolo della bruna, andò ad indicare un dolce gatto paffuto accanto a quelle giovani gambe. Continuava ad odorare nei dintorni, nel mentre la sua folta coda si muoveva nervosa. «Qualcosa però lo rende nervoso da un po’; per caso qui ci sono altri gatti, Signor Bergman? » a quelle parole, il diretto interessato alzò lentamente il capo, accennando un sorriso. Qualcosa diceva a Selene che l’anziano signore non era solo, in un posto così polveroso e pieno di peli. 
«No, mia piccola .. com’è che ti chiami?»
«Selene Blanchard!»
«Oh, Selene! Qui con me, devi sapere, ho un caro amico. Grum, vieni a salutare i nostri ospiti!» quella voce consumata si fece sentire in quel piccolo e misero appartamento; dall’altra parte della casa, un’ombra grande e grossa si fece largo sulle pareti giallognole e scese da quello che pareva il letto del padrone di casa. Un ringhiò fece soffiare Pajn e drizzò la sua pelliccia e la sua coda:  un cane dal pelo corto e nero come la pece, alto non più di un metro e settanta spinse con la punta del naso rugoso la porta. Allora, non era un cane come gli altri. In fondo, i suoi artigli erano grandi quanto la mano della giovane Selene e gli occhi piccoli e quasi coperti alla pelle oscura, brillavano di un rosso acceso. 
«E’ un mastino, forse della razza più grande al Mondo. Beh, lui è particolare; è stato modificato geneticamente da dei pazzi, dei mascalzoni. E per strapparlo dalle mani di questi scienziati, ho deciso di portarlo qui da me. Sì, devo dire che all’inizio ho avuto problemi con lo spazio, però ci siamo adattati. Non è così, Grum?» il cane abbaiò improvvisamente, facendo tremare persino le stoviglie che si trovavano all’angolo della cucina. Pajn soffiò ancora una volta e la sua padroncina, preoccupata, lo prese in braccio seppur così teso. Il gatto rispose a quel gesto, strusciando la punta del naso contro il suo mento. «Dunque, stavamo dicendo? Oh, sì! Il biglietto! Solo andata, Selene?»
Gli occhi della povera fanciulla erano ancora puntati verso quel mastino, che pareva studiarla con attenzione. Stringeva tra le braccia il suo caro felino, prima di rispondere al signore con un veloce cenno del capo.
«Ricordati, Selene. Ricordati di quel mastino e del Signor Bergman, perché ti aiuteranno a scappare da qui.» gli occhi della madrina erano puntati su un foglio. Su un biglietto che stava per essere compilato a mano. Bastava una sola firma su quel foglio e tutto sarebbe risolto.
Ma con quelle parole cosa voleva lasciar intendere Chatarine? Doveva forse fidarsi del “Uomo con il mastino”?

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