Innominabile

di whiteyourself
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Grazie ***
Capitolo 2: *** Sbagli ***



Capitolo 1
*** Grazie ***


Fan-Fiction sul rapporto fra la vecchia serva dell’ Innominato e il suo Padrone.
Considerate che siamo a molto, molto, molto prima che l’Innominato conoscesse Lucia e la sua vicenda; inoltre i fatti riguardanti quest’ultima non vengono a toccare la vicenda che tratto io.
Consiglio dall’autrice. Aprite il video di youtube allegato, e lasciate andare la musica mentre leggete; io l’ho scritta in questo modo ^^

Buona lettura (:

I nnominabile   

 



Capitolo 1
 Grazie.

Forse la gratitudine è il parametro della grandezza umana.  
{Adolfo L’Arco}


 

 http://www.youtube.com/watch?v=EV_sQ43jDm0

Mia madre mi chiamava Elisa. Un nome comune.
Da piccola però credevo di chiamarmi Tu.
Nessuno usava il mio nome per chiamarmi, gridava solo “Ehi, tu! Vieni qui!”
Ma presto, troppo presto, col passare degli anni, diventai vecchia, e La Vecchia per tutti; una serva comune, una come tante. In realtà credo di essere sempre stata vecchia. Dentro. Poi fuori.
Si, sono una serva. So che il mio Padrone è il più potente uomo del mondo, il più forte, il più ricco, il più influente.

Io sono sempre stata sola.

Mio padre era un pover’uomo , anche lui un misero servo; ma tutto questo lo so solo dalle parole che disse il prete, al funerale che avvenne quando avevo 6 anni. Mia madre era già in cielo, ad aspettarlo.
Sono cresciuta qui, nei sotterranei del castello, tra fredde rocce ricoperte di muschio, cunicoli stretti che portano a lunghi corridoi lastricati, illuminati da torce che lanciano minacciose ombre sulla parete.

Da piccola ero terrorizzata, quando una delle cameriere mi chiamava con sgarbo e mi comunicava un dovere da compiere, al piano di sopra, per il vecchio Padrone, all’ epoca era il Signor Padre del mio Padrone di ora. Oh, ricordo ancora quegli istanti..
Tremando e cercando di tenere gli occhi più chiusi possibile mi avviavo su per la scala a chiocciola che portava ai piani superiori, i piani solo per Lui, e per farmi coraggio mi immaginavo che quegli scalini portassero a una stanza dove giaceva una bellissima principessa, bella come la mia mamma, che mi avrebbe abbracciato stretta e riaccompagnato nei sotterranei.
Ma in realtà non ho mai sognato molto: a che scopo  poi?

Intorno a me ho sempre visto solo persone obbligate a compiere un dovere, che una volta portato a termine si trasformava in un altro dovere, come un mostro a mille teste che più decapiti più forte e numeroso ricresce; non c’era tempo per giocare, o per parlare, o scambiarsi carezze.
C’era solo Lui; e noi,ed io, per lui.

Il giorno del mio decimo compleanno non riuscii a dormire per tutta la notte: dai piani del Padrone giungevano urla,  musiche, rumori di piedi che danzano pesantemente, risate e cori :”Viva! Viva il giovane erede! Viva!”, e battute, e scherzi, e via dicendo.
Il giorno dopo le mansioni raddoppiarono: la cosa bizzarra è che io mai vidi il piccolo bambino che tanto causava scompiglio nelle nostre cucine e lavanderie, e in realtà non mi interrogai mai riguardo a che genere di potere causasse la ricchezza in cui vivevano i padroni.
Non mi interessava, credo. Infine cosa cambiava per me, il perché lavorassi? Avrei lavorato comunque, no?

Quando compii 27 anni il maggiordomo del Padrone, che aveva proprio quell’anno sostituito il padre nella gestione del maniero, chiese la mia mano; non sapevo nulla di queste cose, io.
Non avevo mai guardato un altro uomo provando il desiderio di essere da lui baciata, o toccata, o anche solo guardata a mia volta; ma il pensiero che qualcuno avrebbe potuto desiderare di vedermi, desiderare di tornare nella propria residenza e trovare me, sì! Proprio me!, ad attenderlo, mi riempì il cuore, e così accettai.
Non era un uomo cattivo; vivemmo insieme per 6 mesi, e in questi 6 mesi tuttavia mai mi parlò, mai mi guardò con uno sguardo che celasse qualcosa di più di mero disinteresse.
A malapena mi toccava, se non per consumare il matrimonio.

Fu una delusione, lo ammetto; ma era pur sempre qualcuno, giusto? Era pur sempre qualcuno che badava a me, che portava il cibo anche per me, che mi permetteva di dormire in una camera diversa da quelle del sotterraneo.
 Cominciò a non importarmi se non mi degnava di uno sguardo o non si confidava con me, anzi, lo capivo: lo specchio in cui sbirciavo la mia figura, passando nei corridoi scopando il pavimento, rifletteva una donna scialba, insignificante, capelli flosci, neri, una pelle pallida, due occhi vuoti.
Poi mio marito venne chiamato a un compito speciale dal mio Padrone; quel mattino uscì dalla porta, sempre nel silenzio, e non tornò più.

Il Padrone non mi diede la notizia in persona. Una giovane serva venne a dirmi, con un’ aria tra l’annoiato e sforzo a sembrare contrita, che era stato ucciso da uomini che non conoscevo, nel nome di una persona che non conoscevo, e mandato da una persona che servivo, ma non conoscevo.
Non piansi. Mi fu concesso di rimanere in quelle stanze; al funerale non c’era il Padrone.

Tuttavia qualcosa mi legò a lui quel giorno: venni a sapere dai pettegolezzi delle sguattere che mandò parecchi uomini a vendicare mio marito; vennero uccise 24 persone in cambio.
Dapprima rimasi inorridita: era questo il potere del mio Padrone, del Padrone diciassettenne che ancora non avevo mai visto? Una feroce vendetta per qualcuno che a malapena conosceva, che era un semplice servo, tanti meritavano la morte per questo?
Ma fu un pensiero che mi passò la mente per poco: un solo concetto lo rimpiazzò.
Il mio Padrone era forte: poteva fare del bene e del male insieme, poteva proteggermi.
E in quel momento decisi che l’avrei servito per sempre, che mi piacesse o no.

Cominciai a rinchiudermi nelle mie stanze per quanto più tempo possibile; non vedevo più nemmeno le altre serve, o servi.
Mi venivano affidate mansioni di ogni tipo; rattoppare, cucinare, medicare, riordinare, pulire; venivo a contatto con persone orribili, che mi ripugnavano, ma che servivo, perché aiutavano il Padrone a esercitare il suo potere.

Non lo vedevo ancora, lui. Il Padrone. Cenava da solo, nelle sue stanze, il cibo lo si lasciava fuori dalla porta. Non passeggiava nel maniero. Usciva di rado,  credo solo per dovere, e di certo io non lo seguivo.
Col tempo diventai pigra, sempre più pigra; stanca, acida, ecco come mi sentivo. Vecchia.
Avevo 35 anni, e me ne sentivo mille. Non avevo uno scopo, eseguivo gli ordini perché dovevo, perché venivo sfamata, anche se male, e avevo una casa, anche se fredda e buia; e deserta.

E sono arrivata fino ad oggi. Così, in questo modo. Senza sogni, senza voglia, senza vita.

Vengo chiamata a portare del vino, hanno finito di cenare.
Brontolando e mugugnando fra me e me mi avvio come al solito, curva e lenta, con un vassoio tra le mani, nella sala del maniero, dove di solito avvengono le riunioni serali.
Entro; nessuno si accorge di me, come al solito, e continuano a berciare e sghignazzare fra di loro, accettando con un gesto brusco il bicchiere di vino dal vassoio.

E stasera, lui è lì.
Il Padrone.
E’ sceso per cenare con i suoi compagni, perché quel giorno hanno portato a termine una sanguinosa e valorosa missione, come sento sghignazzare da una di quelle bestie.

Sta vicino alla finestra. Ha capelli molto ricci, neri, ed è alto; sembra più vecchio dei suoi 25 anni. Indossa una camicia bianca, e dei calzoni verde scuro; sta alla finestra, guardando fuori la sera incombere come una mano gelida sulla nostra casa, una mano appoggiata al fianco, l’altro braccio piegato a sorreggere la fronte, appoggiato al bordo alto della finestra.

Mi avvicino a lui titubante senza sapere bene come comportarmi: devo trattarlo come gli altri, senza una parola, senza un gesto, o dire qualcosa, non so, “Ecco, Padrone”?
Quando arrivo al suo fianco lui non si è ancora girato. Provo il desiderio di andare via.
Ma rimango lì a spostare il peso da una gamba all’altra, fino a che non raccolgo tutte le forze e con voce roca, disabituata a parlare, mormoro solo “Desidera del vino..?”

Il Padrone si gira verso di me di scatto, come se non si aspettasse di vedere altre persone oltre a lui in quella stanza; fissa il vassoio, poi fissa la massa berciante alle sue spalle, e credo di scorgere un lampo di irritazione in quello sguardo; ma poi mi fissa gli occhi in volto, due occhi grigi scuro, grigi come le nuvole un momento prima di gettare pioggia forte sulle finestre e sul terreno molle, grigi come il fumo che esce dalle pistole quando sparano proiettili acuminati e assassini, grigi come la tristezza che ti avvolge nelle notti in cui una donna di 35 anni si chiede se c’è qualcos’altro, oltre a tutto questo, nel mondo, se ci può essere un motivo, se ci può essere qualcuno oltre a chi conosce. Così questi sono gli occhi del mio Padrone.

Riporta gli occhi sul vassoio e prende un bicchiere di vino con lentezza; si gira di nuovo verso la finestra e, avvicinando il bicchiere alle labbra, bisbiglia stancamente :”Grazie

Il vassoio mi scivola di mano. Tutti gli sguardi della stanza si puntano su di me, derisori e annebbiati dall’alcool, e si alza un coro di “Fai attenzione, stupida vecchia!” e risate. 
Ma solo lo sguardo del Padrone mi colpisce davvero, quando si gira stupito dal fatto che io sono ancora lì a fissarlo, stupito forse dal fatto che io produco suoni.

La parola grazie non l’avevo mai sentita. Mai in tutta la mia vita. Credevo fosse uno stupido termine privo di senso che si usava per sbarazzarsi di qualcuno che faceva qualcosa per qualcun’ altro.
Invece è molto di più. Sono 6 lettere di riconoscimento, di aver compiuto un atto gradito, di, di.. di gioia, di voglia di rifarlo, di voglia di risentirlo di nuovo detto dal mio Padrone!

Non ricordo con precisione come sono arrivata qui. So che sono chiusa nella mia stanza ora, e piango per un sentimento che non conosco, che sta lacerando il mio cuore e lo sta facendo a pezzettini per crearne uno nuovo, più forte, più giovane: provo la più sincera e forte gratitudine.

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Capitolo 2
*** Sbagli ***


Capitolo 2
Sbagli.

“Errare humanum est, perseverare autem diabolicum.”


Spalanco gli occhi all’improvviso.
Mi tiro su a sedere di scatto sul letto, e confusamente mi chiedo come mai sono andata a dormire così, vestita, e soprattutto perché sento le maniche su cui ho poggiato il volto bagnate.
E mi ritorna in mente tutto, ieri sera e il sogno che ho fatto stanotte.
Mi alzo dal letto stancamente, mi sento le gambe ancora più pesanti del solito; mi sporgo dalla mia piccola finestra che dà sull’angusto cortile dove teniamo gli animali da macellare, nella stessa posizione in cui era il Padrone ieri sera; ho ancora i rampicanti dell’emozione provata ieri sera avvinti alla mente, anche se sono avvelenati dal timore che possa venire sgridata per quanto avvenuto; ma soprattutto mi chiedo quando rivedrò il Padrone.

Deboli raggi di un sole freddo e appena svegliatosi attraversano il vetro opaco e mi costringono a socchiudere gli occhi; in un lampo rivedo ciò che ho vissuto stanotte.

Ero su una barca, una barca lunga e stretta, in un mare nero, nero come l’olio; stavo seduta con le mani in grembo, e ero fissata con uno sguardo che non credo di aver mai avuto su di me da un’ altissima figura sottile e trasparente, che mi traghettava.
Non posso dire che vi fosse un qualche sentimento, in quello sguardo: era timore ottimamente celato da indifferenza, era aspettativa contraffatta per disgusto.

Era priva di volto.
La figura. Sembrava fatta di fumo, di un fumo estremamente grigio, quel grigio che ho visto ieri negli occhi del Padrone; e semplicemente traghettava, con lentezza, la barca, così orrendamente simile a una bara, del mio sogno.

Poi all’improvviso la figura lasciava cadere il ramo nel mare, e si sedeva accanto a me fissando quello affondare sempre più e sparire, lambito dall’ oscurità.
Mi fissava, e diceva qualcosa che non capivo, per poi svanire a sua volta nel nulla; e io urlavo di ripetere ciò che aveva detto, perché mi sembrava estremamente importante; ma questo non tornava, e mi lasciava sulla barca priva di remi.

Così io mi gettavo nel mare, e i vestiti mi tiravano sempre più giù nel buio; fino a quando la figura non compariva di nuovo al mio fianco, mi stringeva forte, troppo forte, i fianchi, e mi bisbigliava nell’orecchio :”Elisa”.

Erano anni e anni che non sognavo; di sicuro, però, mai avevo fatto sogni di questo genere.
Un secco bussare alla porta mi riscuote dallo stato di apatia in cui sono caduta; stanca, vado ad aprire la porta.
E’ Marta; l’unica cameriera che non mi abbia mai chiamato vecchia; o almeno non in mia presenza.
“Esci subito; e ti consiglio di sbrigarti. Ti vuole vedere”.
I miei pensieri sono ancora fra le fredde lenzuola che adesso dovrò sbrigarmi a rassettare.
“Ma di chi stai parlando?” chiedo stancamente, con stizza.
“Il Padrone. Ti aspetta, nel suo studio. Ora!”

E’ bastato questo per svegliarmi.
Rimango immobile sulla porta, anche quando Marta se n’è andata, lo sguardo immobile nel punto dov’era la sua bocca quando mi ha parlato.

Mi punirà.
Il pensiero mi colpisce come le frustate che aspetto di ricevermi.
Ho lasciato cadere il vassoio, gli ho rivolto la parola, sono andata via in quel modo..
Le mie mani cominciano a tremare.

Ho il timore di cadere a terra mentre salgo le scale che portano allo studio del Padrone, l’ultima stanza della torre est; ci sono andata una volta sola, da piccola, quando c’era ancora suo padre.
Non ho nulla nella testa, oltre al più cupo terrore; sono stata sgridata tante volte, per la mia lentezza, per la mia apatia, la mia stanchezza, i miei borbottamenti e insulti rimangiati a fatica, ma sempre e solo da quelle bestie, che per quanto minacciose sapevo non potevano toccarmi.
Ma
lui..
Le storie orribili che si sentono sul suo conto; ha ucciso 24 persone per la vendetta di un uomo che nemmeno conosceva! Ricordo con terrore. E io l’ho fissato negli occhi tanto a lungo, io ho lasciato cadere il vassoio ai suoi piedi!
Ma l’hai fatto perché ti ha detto grazie. E nessuno ti aveva mai detto grazie.

Una voce dentro la mia testa mi accende un barlume di speranza.
Non sembrava quel mostro che tutti dipingono ieri, non posso immaginarlo a compiere cose tanto atroci, ma ho paura, ho paura..

Allungo la mano verso la scura porta di quercia dietro la quale c’è il mio Padrone, ma non trovo ancora la forza di bussare; le finestre sulla scala della torre sono piccole, e lasciano filtrare poca luce, peraltro pallida, quasi argentea, attraverso la quale la mia mano appare grigio chiaro, un colore indeciso come me.

Sento una musica leggera attraverso il legno; ricordo, di essere stata colpita dall’imponenza di un grande strumento nero, con i tasti bianchi e lucenti, la volta che ero entrata in quella stanza.

http://www.youtube.com/watch?v=lq4G3KRAuXc&feature=related

E’ una musica estremamente aggressiva, feroce, quelle note sembrano voler sferzare le mie orecchie; eppure, ma forse è lo stare dietro la porta che mi induce a sentirlo, colgo una radice di eleganza in quella semplice armonia così superficialmente rinforzata.

Tiro un sospiro, e busso con le nocche, due volte.

La musica si interrompe bruscamente, si sente il rumore di una sedia spostata e la porta viene aperta con forza.

Alla luce il mio Padrone è ancora diverso.
Ieri nella penombra non avevo colto certi dettagli che ora mi vengono subito agli occhi; ha una pelle molto pallida e liscia, e ombre scure sotto agli occhi; le sopracciglia nere gli danno un cipiglio deciso, e quasi arrogante. E di sicuro il suo sguardo non era così ieri sera.

Mi fissa aggressivo, e spavaldo.

“Chi sei?”
La sua voce è stanca, ma cattiva; no,anzi, non cattiva, è quel genere di violenza che si tira fuori quando si è colti di sorpresa.
Lo so perché io parlo sempre così. Quando mi rivolgono la parola. Sempre.

“Sono la serva che avete mandato a chiamare”
Non riesco nemmeno a guardalo in faccia ormai. Fisso la punta dei miei piedi, loro non mi possono guardare come mi guarda lui, almeno.

Lo sento respirare rumorosamente col naso.
“Entra.”

Si volta di scatto e va a aprire le tende gialle in fondo all’ ampia stanza in cui entro cautamente.
Nella sfolgorante luce del mattino ormai sorto, il pianoforte è lì, davanti ai miei occhi.
Ora, che sono più vecchia, posso coglierne la bellezza, certo più rispetto a quando l’avevo visto da piccola.

Il mio Padrone cammina ora fino a quando si trova vicino a me, di fronte, e mi fissa; io non ci riesco ancora.

“Ora guardami. E rispondimi. Senza mentire”
Le sue parole sono ghiaccio, ghiaccio indolore, ma talmente freddo da bruciare la pelle.
“Ieri hai lasciato cadere un vassoio.”
Non è una domanda. E’ la verità detta con la durezza di chi sa di essere nel giusto.
“Ieri sera hai lasciato cadere un vassoio davanti ai miei occhi, e te ne sei andata.
Perché?”

Il mio Padrone usa poche parole; ma non solo. Pochi gesti, secchi, sempre; pochi movimenti, i necessari.
Un’ immagine mi attraversa la mente: probabilmente uccide in questo modo.
Pochi spari. I necessari.

“Rispondi.”
Non ha urlato, ma per me è come se l’avesse fatto.
Ricordo il bisbiglio di ieri, quel grazie; e forse è quel ricordo così intriso di emozioni violente che mi induce a alzare lo sguardo fino a incrociare il suo, trovandolo insieme irato, stanco, annoiato, e curioso.
Scuro.

“Il vassoio mi è caduto perché nessuno mi aveva mai detto grazie, Signore”.

La frase suona stupida persino alle mie orecchie; e forse per questo non mi stupisco quando sento una risata, sopra di me, la vedo sulla sua bocca.

“Che diavoleria è mai questa! Sei scappata via in quel modo perché io ti ho ringraziata di avermi porto un bicchiere?”

“Si, signore”.

Reggo il suo sguardo, e lo vedo cambiare. Se con la risata si erano socchiusi, ora sono aperti, rilassati, di nuovo profondi e scuri.
E’ sorpreso. Lo vedo. E insieme si rabbuia.

Si gira di scatto e torna alla finestra. Per alcuni secondi sta in silenzio, e quando si gira sembra tornato l’uomo che ho visto ieri sera.
Calmo, come il mare dopo una tempesta, non ha perso la natura impetuosa, si è solo placato perché non sente più il bisogno di gridare la sua forza.

“Dimmi chi sei.”
“Sono..Sono la serva che avete mandato a chiamare, signore” rispondo confusa.
“Questo l’hai già detto” un lampo di stizza “Come ti chiami, donna?”
Non mi ha chiamata vecchia.
“Mia madre.. mi chiamava Elisa, signore.”
“Da quanti anni sei al mio servizio?”
“Da.. sempre, signore.”

Comincia a camminare lentamente per la stanza, senza perdermi di vista, nemmeno un secondo.
Mi gira intorno. Io sono immobilizzata. Ma non ho più paura. Mi avrebbe già punita, se l’avesse voluto..no?
E’ alle mie spalle, e sento la sua voce chiedermi “E quanti anni hai?”
“35, signore.”
“E a 35 anni lasci cadere i vassoi se qualcuno ti sorprende?”
Forse ho sperato troppo presto. Ma è una domanda vera. Cioè, non è sarcasmo, non è nemmeno ira però.
Mi giro, e lo fisso di rimando :
“Padrone, mi dispiace, è stato uno sbaglio. Non succederà più. Mi dispiace, la prego..”

Mi interrompe con un gesto della mano:
“Sbagli. Sai cosa dicono degli sbagli? Degli errori? Dicono che errare è umano.
Tu sei dunque umana se erri.
Per essere uomo occorre sbagliare. E’ necessario compiere errori. Ti sembra corretto o no?”
Non mi guarda più, fissa un punto oltre la mia spalla.
E io non so cosa rispondere.
“Quindi se non erro.. Se le mie decisioni sono perfette.. Se le mie azioni anche.. Non sono più umano..”
La sua voce roca suona distante; mi passa di fianco, e girandomi vedo che sta fissando un quadro, che ritrae suo padre,che non avevo notato; è un ritratto grande, imponente.
Il Padrone si avvicina fino a sfiorarlo con la punta delle dita, e poi porvi l’intero palmo, come ipnotizzato.

E nel silenzio sento la mia voce dire :” Forse.. forse errare non è necessario, per essere umano, ma per comprendere la propria perfezione. Signore.”
Si volta di scatto, come se si fosse dimenticato che ci fossi anche io nella stanza, insieme a lui.
“Dunque è questo che pensi.”
“S-Sì, Signore”
 Non so nemmeno io da dove ho preso il coraggio di parlare. Voglio andarmene di qui. Mi sta guardando con uno sguardo che ho già visto, e all’improvviso ricordo dove.
Nel traghettatore privo di volto della mia barca, nel sogno di stanotte.

Forse nota il mio imbarazzo, perché si gira di nuovo verso la finestra, stancamente e dice: “Puoi andare. Vai.”
Quasi corro fuori dalla stanza. Ma una voce mi trattiene :”Un’ ultima cosa.”
Mi giro appena, per fissarlo. Sembra invecchiato di mille anni, ma i suoi occhi si illuminano un poco, enigmatici, quando dice:

“Grazie, Elisa.”
 
 
Spazio note.
x GaaRamaru : L'Innominato è e rimarrà sempre uno dei personaggi più affascinanti nella letteratura italiana; l'altro giorno poi, riprendendo in mano il libro, mi sono ricordata della Vecchia Serva; inoltre ho rivisto per caso quel film, stupendo, "La ragazza dall'orecchino di perla",e dall'unione delle due cose, sulle note del grande Ludovico Van, mi è germogliata in mente quest'idea malsana di scrivere un racconto xD
Per giustificare l'ooc, in realtà vorrei confessarti una cosa: non so ancora, in quanto la storia di giorno in giorno prosegue nel mio cervellino, se l'Innominato sarà l'Innominato come lo conosciamo noi,nel senso che non so se la mia storia si prolungherà fino al suo incontro con Lucia e la sua conversione. E il fatto, come puoi capire, cambia decisamente il modo di vederlo; seconda cosa, l'idea di rapporto fra Elisa e l'Innominato è nato come diciamo "reciproco salvataggio" dai rispettivi errori nel condurre la propria vita e il proprio carattere, MA non so se rimarrà tale, o se si svilupperà..Grazie per il commento, comunque, un abbraccio ^^
x PotterWatch : Ti ringrazio molto per i complimenti (: Gli occhi dell' Innominato li immagino proprio così, estremamente espressivi. Poi nella mia personale concezione che ho di lui, di uomo che non è capace di esprimere la sua vera essenza per errori compiuti inconsapevolmente, per il suo passato, e per l'immenso potere che si trova nelle mani, in quale altro modo può essere sincero, se non attraverso gli occhi? Un caro saluto ^^

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