Il Cerchio della Morte

di LaCantastorie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primo Atto ***
Capitolo 2: *** Secondo Atto ***



Capitolo 1
*** Primo Atto ***


La coppa passava disinvoltamente da commensale a commensale: la corte, oramai, era abituata a quell’artefatto sacrilego, a quel calice ricavato dal teschio di suo padre.
Lei, nonostante fossero passati già cinque anni da quell’evento fatale, non lo era affatto.
«Allora, Rosmunda: non bevi, mia cara?»
Il sorriso beffardo di Alboino la scherniva, ricordandole la vergogna subita: era vero, da principessa dei Gepidi era divenuta regina dei Longobardi, ma nessuno vedeva in lei nulla più che la concubina del re.
La sua schiava.
Si alzò lentamente da tavola, facendo in modo che ogni suo gesto mettesse in risalto la figura snella e flessuosa; in quel corpo modellato da Afrodite, da tempo viveva lo spirito di Nemesi.
Il vino gocciolò silenziosamente dal viso del re, rivolettando sulle sue vesti preziose: strie rosse che richiamavano il colore del sangue che quell’uomo aveva sparso, godendone come un dio della guerra... o degli Inferi.
«Alla tua salute», mormorò la donna, prima di ritirarsi lentamente nelle proprie stanze.
 
-
 
Lo spatharius di Alboino aveva un viso da sempliciotto, candido come l’innocenza: si chiamava Elmichi, e non aveva altri pregi oltre a quelli che il suo ruolo gli conferiva. Si prendeva cura delle armi del re, e tanto bastava perché quel personaggio insignificante le tornasse utile.
Oh. Era anche follemente innamorato di lei.
Rosmunda si toccò una guancia: ancora umida di salsedine, era stata realmente solcata da alcune lacrime, lacrime nate da odio, rabbia e impotenza, lacrime che venivano da una frustrazione vecchia di cinque, interminabili, anni.
Cunimondo è solo un ricordo, ormai, constatò, chiedendosi per un momento, un momento soltanto, come potesse aver del tutto dimenticato l’affetto del genitore: di lui, nonostante fosse passato solamente un lustro, rammentava a stento il viso, poiché ogni volta che tentava di richiamare alla mente i ricordi d’infanzia ecco che un’immagine, sola e prepotente, li oscurava tutti.
Una spada, una testa mozzata, un urlo di vittoria.
«Mia signora, va tutto bene? Che cosa vi è accaduto...?»
La regina lo abbracciò senza pensare, nascondendo il viso nell’incavo della sua spalla: iniziò a singhiozzare, sentendo allentarsi la pressione che fino a quel momento le aveva schiacciato il torace, chiedendosi se quello sfogo avesse qualcosa di vero o fosse soltanto parte dell’eterna recita alla quale si era costretta a partecipare.
«Oggi, deve finire oggi!»
Si staccò repentinamente da Elmichi, guardandolo dritto negli occhi e cercandovi la consapevolezza del significato di quelle semplici parole: la trovò, mista alla titubanza di chi era stato allattato dalla stessa balia di Alboino, da chi era stato scelto per essere il compagno fedele del re longobardo.
Lo farai?, gli chiese, in silenzio.
Finalmente, lo scudiero annuì, distogliendo lo sguardo dalla regina.
 
-
 
La notte gli era amica: non c’era, nel buio, niente di cui avere timore. Il campo di battaglia non gli era meno familiare della sua stanza, dopotutto: non aveva mai dimostrato codardia o viltà di fronte ai suoi soldati, il suo popolo l’ammirava e non l’avrebbe sostituito con un altro re, no, perché mai nessuno l’avrebbe condotto al trionfo con altrettanta rapidità.
Il sonno arrivò presto: non si chiese nemmeno dove fosse sua moglie, dedicando appena un vago pensiero al vino che aveva osato versargli addosso. Non l’aveva scelta come propria consorte anche per questa sua attitudine ribelle?
Non si può conquistare chi s’arrende, sentenziò fra sé e sé. L’avrebbe punita il giorno seguente.
 
-
 
 
«Sai chi sono, non è così?»
Il lenzuolo giaceva in terra, accartocciato ai piedi del letto. Il petto di Peredeo brillava di sudore alla luce di una torcia, mentre nei suoi occhi si leggeva un solo, totalizzante sentimento: il terrore.
«A te la scelta, ora...»
Rosmunda, nuda, si allontanò dalla fonte di luce, dirigendosi verso la finestra stretta e alta: il chiaro di luna le si addiceva di più, anche perché, quella notte, il satellite aveva la forma di una falce d’argento.
«... Ucciderai il re, o ne sarai ucciso?»
Rosmunda sorrise, conoscendo in anticipo la risposta; era stato facile convincere la propria ancella ad accondiscendere alle brame di Peredeo, così com’era stato sin troppo facile sostituirsi a lei nel suo letto, quella notte. Bluma le era stata sempre fedele: era stata la sola presenza amica che avesse avuto accanto in seguito alla morte del padre, eppure l’avrebbe abbandonata di lì a poco...
L’aria di mezzanotte le sferzò il viso, ricordandole il presente:
«Se rifiuterai di compiere quanto ti ho chiesto, responsabile del tentato omicidio sarai tu solo: hai disertato la guardia della stanza da letto del re per seguire un’ancella procace, lasciando ad Elmichi il campo libero per manomettere le armi di Alboino... Subito dopo, hai addirittura osato prendere possesso della sua donna, pensando avrebbe appoggiato e legittimato il tuo operato: ho io la chiave del monetiere regio, anche solo per questo la mia presenza nella tua stanza non sarebbe tollerata dal re!».
Tenendo tra indice e pollice un’esile catenella, mostrò la chiave d’oro che pendeva dal gioiello, ammiccando: «La mia dama di compagnia ti s’era quasi affezionata, lo sai? E credo anche di sapere perché... Rivestiti, ora: la notte passa in fretta», suggerì, uscendo dalla camera da letto dopo aver indossato nuovamente la veste da serva.
La verginità le era stata tolta con la forza; quell’atto non aveva valore alcuno, per lei. Scese la scalinata con il passo leggero che deve avere l’Angelo della Morte: accanto allo scranno di Alboino, incustodito, giaceva ancora lo scrigno con il tesoro personale del re.
«Mia signora, ho fatto quanto mi avete ordinato: mi considererete degno del vostro favore, ora?»
La voce tremante di Elmichi, unica guardia del piccolo forziere, la raggiunse dall’altro capo della sala: le era bastato servirsi di due uomini, di due soli membri della corte...
Basta un solo anello debole per spezzare una catena.
«Molto bene», rispose, indicandogli il contenitore intarsiato: «Appena Peredeo sarà di ritorno, fuggiremo insieme alla volta di Ravenna!»
Un’ombra passò sul viso di Elmichi: sarebbero stati in tre?
La regina fece violenza a se stessa per non ridere in faccia a quell’uomo, mentre si apprestava a sollevare il baule: come poteva anche solo pensare che qualcosa, oltre al calcolo e alla speranza di guadagno, l’avessero spinta ad avvicinarsi a lui?
«Ricorda che sei stato tu a rifiutare di compiere l’assassinio, Elmichi. Non mi guardare in quel modo mai più, siamo intesi?»
Il tono bonario e la carezza lieve che depose su quel viso dai tratti di bambino contribuirono a dissipare i dubbi di colui che aveva reso inutilizzabili le armi del re, sigillando per sempre nel suo fodero la spada con cui Alboino aveva mozzato il capo di Cunimondo: si diressero all’aperto, dove li attendeva un carro predisposto alla fuga.
Ravenna è già Bisanzio, si disse.
-
 
Non l’aveva svegliato un rumore preciso: c’era qualcosa, nell’aria immota della stanza... Qualcosa di estraneo, e di minaccioso.
Si alzò dal letto, dirigendosi a tentoni verso la sua fida spada: impugnò l’elsa, tentando di aguzzare la vista nel buio e chiedendosi come mai la sensazione sgradevole non scemasse, ma spingesse il suo cuore a battere più forte, più forte...
Il pugnale non emise un singolo bagliore, quando si abbatté sulla sua schiena: Alboino cercò di estrarre la lama dal fodero solo per scoprirla irrimediabilmente bloccata all’interno della guaina, inutilizzabile, inutile come tutto ciò che aveva compiuto in vita, ora che si trovava a faccia a faccia con la morte.
So già a chi la devo, ebbe il tempo di pensare dopo che, disarmato, fu trafitto una seconda volta, mentre sollevava uno sgabello per difendersi da un terzo colpo: il banchetto veronese era stato la sua ultima cena, il troppo vino era complice dell’assassino, che aveva gioco facile nello strappargli di mano quello scudo improvvisato, nel ferirlo ancora, ancora, ancora...
Da un ripiano, il teschio di Cunimondo osservava la scena, ghignante.

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Capitolo 2
*** Secondo Atto ***


Dunque, era così che si sentiva un regicida: impotente, nonostante avesse appena ucciso uno degli individui più potenti di tutta la penisola...
«Allora?»
Peredeo si accorse di essersi fermato poco oltre l’ingresso del palazzo, sotto la volta stellata: forse qualcosa, in quel cielo distante ma testimone di ogni empietà che si commetteva in terra, l’aveva bloccato a metà di un passo, senza un perchè.
Il grido spazientito della sua ricattatrice, incurante della quiete e dell’ovattato silenzio che li circondava, fendette nuovamente l’aria della notte, che ormai digradava verso l'alba. 
Dovrebbe esserci più veleno, in questa voce, pensò l'uomo, sollevando il pugnale all’indirizzo di Rosmunda una volta arrivato a pochi metri di distanza dal convoglio. La regina tese una mano verso l’arma, afferrandola prima ancora che Peredeo gliela porgesse: fece scorrere l’indice nella scanalatura della lama, raccogliendo il sangue del defunto re.
«È l’unica bevanda che desideravo da tempo», sussurrò, prima di portarsi il dito alle labbra: «Eri il guardiano della sua stanza da letto: hai svolto eccelsamente il tuo compito, non trovi?»
La regina si concesse un sorriso sardonico, completamente privo di gioia: l’aver ucciso Alboino le aveva tolto un marito violento e tracotante, ma non le aveva restituito né il padre, né il proprio popolo, né tantomeno la libertà.
«Non ho, come non avevo, nessuna ambizione: mia regina, voi mi avete costretto a spargere il sangue del mio re, minacciando di porre fine alla mia vita se non vi avessi accontentata; voler rimanere a questo mondo è stata la mia unica colpa», ribattè, parlando a bassa voce: «A voi toccherà fare i conti con le vostre».
Quella donna aveva finito per somigliare al suo sanguinario consorte: ne aveva biasimato e al tempo stesso imitato il comportamento, era stata, da vittima, migliore del suo carnefice; da carnefice, si rivelava peggiore della propria vittima. 
L’espressione irridente di Rosmunda sfiorì d'un tratto: gettò da parte il pugnale, distogliendo l’attenzione dalla guardia di Alboino e salendo in fretta sul cocchio: «Partiamo», ordinò.
Ravenna li stava aspettando.
-
 
Era stato più facile del previsto, farsi accogliere dal Prefetto: era bastato inviargli l’anello del re, per ottenere udienza.
«E così, voi siete la donna alla quale dobbiamo la possibilità di ottenere la pace con i Longobardi...»
Longino camminò in cerchio intorno a lei, fermandosi esattamente alle sue spalle: se si fosse voltata, Rosmunda avrebbe dimostrato di non fidarsi di quell’uomo, di avere qualcosa da nascondere. Continuò perciò a guardare davanti a sé, rispondendo alle domande del governatore romano sullo spatharius di Alboino, sulle consuetudini del suo popolo in merito alla successione, soddisfacendo la sua sfrenata curiosità; con sicurezza, riferì il mito fondativo della civiltà longobarda, portando prove su prove a favore della totale legittimità di Elmichi, sovrano in quanto suo sposo...
«Aspettate.»
Le mani di Longino si posarono sulle sue spalle: questa volta la donna reclinò il capo ad osservarne una, senza sollevare il viso verso l’alto. Aveva già intuito che cosa le avrebbe chiesto quell’uomo, sin da quando aveva visto con quanta bramosia aveva sollevato il forziere ricolmo di ricchezze: ufficialmente "sotto la sua protezione", erano in realtà un suo possesso.
Aveva lasciato l’ira per incontrare l’avidità.
«Essere congiunti con voi significa ereditare il regno: mi state dicendo questo, Rosmunda?»
Il prefetto le prese la mano, sorridendole: «Siete una donna savia, mia cara ospite: avrete già intuito che non posso avere garanzia certa della buona riuscita di quest’accordo, non conoscendo il vostro consorte... Se, ecco, io fossi l’uomo in questione, invece, tutto sarebbe infinitamente più semplice, non trovate?»
Annuire non le riuscì mai tanto semplice.


Aveva detto ad Elmichi di volersi purificare dalla violenta dipartita di Alboino, prima di concedersi a lui: in realtà, qualcosa la portava a rifuggire il letto nuziale, ad allontanarsi dall’unico uomo che mai l’avesse... rispettata.
Come Alboino, anche Longino l’avrebbe semplicemente usata: non si aspettava null'altro, da chi era interessato al potere. Elmichi era diverso: aveva accettato di diventare re del suo popolo perché credeva di poterlo governare con giustizia, di poterlo guidare verso la coesistenza pacifica con i bizantini, perché sognava la tranquillità di cui al seguito di Alboino nessuno aveva potuto godere. Non era un vero uomo: era ancora un infante, un bambino che pensava fosse sufficiente una parola per cambiare la natura di un intero popolo.
Fieri e indomabili, i Longobardi non erano stati messi in riga nemmeno da Narsete: che cosa pensava di poter fare, uno scudiero?
Uccidendo Elmichi e sposando Longino, avrebbe dato un re romano alla sua gente: avrebbe rafforzato le pretese dell’Oriente verso i domini longobardi, di fatto incapaci di raccogliersi sotto un unico, nuovo re, nelle condizioni in cui erano stati lasciati. Divisi, allo sbaraglio, sarebbero diventati un vicino meno pericoloso per Ravenna e gli altri domini di Costantinopoli: tutto grazie a lei, Rosmunda.
«Sai, pensavo... Che sarei stato più felice».
La regina sussultò, voltandosi di scatto verso Elmichi: non l’aveva sentito entrare, ma ormai tutto era stato predisposto. Lei avrebbe bevuto la coppa ricolma d’acqua, seguendo il principio dell’astinenza cui aveva finto di aderire per riscattarsi dal regicidio; Elmichi, invece, avrebbe sorseggiato l’altra coppa, ricolma di vino... e di veleno.
«Finalmente libero, svincolato dall’autorità di un re così...» gli mancarono le parole, e tacque.
Sovrappensiero, prese tra le mani la coppa sbagliata, fissando il proprio riflesso nell’acqua, la fronte corrugata.
«Mi sento altrettanto prigioniero: di Ravenna, ma anche della mia stessa gente, che ora mi considera nemico e traditore al pari di Peredeo... e te.»
Alcune lacrime scivolarono nella coppa, che gli tremò tra le mani: prima che cadesse, Rosmunda la tolse delicatamente dal suo grembo e iniziò a sorseggiarla, non sapendo che cosa dire o fare.
Pensò a come sarebbe stato essere sposa di Longino: le donne, lì, non erano altrettanto libere, né s’illudeva che dopo pochi anni di convivenza la sua vita avrebbe avuto ancora un qualche valore per il prefetto della città madre dell’Esarcato. Forse la sua proposta di matrimonio era nata anche a causa della sua bellezza, ma quella semplice attrazione fisica non era sufficiente a tutelarla per il futuro: sarebbe stata un personaggio scomodo, in grado di rinegoziare nuove alleanze e di ribaltare ancora una volta la situazione, questa volta a favore del partito nemico. Un personaggio da eliminare, e nulla più.
«Berrò dell’acqua con te, per oggi: i sogni a cui porta il vino hanno il sapore del sangue...»
Rosmunda gli porse la coppa avvelenata, scuotendo il capo: «Sarò io a bere il vino insieme a te, allora»
Non aveva avvelenato l’intera brocca: tuttavia, un sospetto iniziò a farsi strada tra i suoi pensieri, malevolo.
Negli ultimi giorni, Longino l’aveva colmata di doni, mossa poco accorta per le circostanze che li legavano; aveva inoltre deciso di disfarsi dell’esecutore materiale del regicidio, inviandolo presso la corte d’Oriente con una missiva redatta in greco, una lingua che né Gepidi né Longobardi conoscevano. 
«Peredeo... Ha ucciso un leone, dicono, lo sai?»
Mestamente, Elmichi osservò la coppa, senza mostrare di volerla prendere. Quell’espressione...
«“Inviato alla corte di Giustino II per riferire i fatti della massima importanza succedutisi qui in Italia”... Ma io sono un barbaro, dopotutto: forse tra i romani è normale, fare di un ambasciatore un gladiatore da anfiteatro. Prima di partire...»
Rosmunda capì: capì non soltanto le parole che le aveva rivolto Peredeo poco prima della partenza per Ravenna, ma anche ciò che la guardia del re aveva avuto il tempo di confessare ad Elmichi prima di andarsene per sempre; comprese, ed il momentaneo shock la lasciò vuota d'emozioni, trasformandola nella vuota crisalide della farfalla che non era mai diventata.
Elmichi s
orrise, senza aggiungere altro. Che diritto aveva, un traditore, di lamentare il tradimento?
«Allora, Rosmunda: non bevi, mia cara?», disse infine, invitandola a consumare il vino che aveva tra le mani, a bere il suo stesso veleno, per il quale non esisteva antidoto.
La abbracciò con gentilezza, facendo mostra di non accorgersi del suo sguardo perso nel vuoto: erano fuggiti da Verona, ma non sa se stessi. Mentre la donna portava alle labbra la coppa, in un gesto ormai inevitabile, la osservò deglutire il fluido amaro, il fiele delle loro vite distillato in una coppa: gliela rubò dalle dita già fredde prima che la vuotasse troppo.
Non aveva intenzione di sopravviverle.
«Ti ho sempre amata, mia signora: saresti sempre stata, per me, la sola e unica regina... Rosmunda...»
Rosa munda.
Rosa pura.
Sarebbe bastata, quella morte nel fiore degli anni, a renderla degna del nome che portava?
 
Le guardie di Longino li avrebbero trovati stesi l'uno accanto all'altra, come dormienti, poco dopo aver ricevuto la notizia dell’elezione per acclamazione di re Clefi, successore di Alboino al trono longobardo.

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