Non ho mai camminato su questa terra

di roxy92
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


L'aria si era increspata lievemente e si era udito un tonfo. Sesshomaru aveva girato elegantemente il viso nella direzione che aveva percepito, appena disturbato dalla diversità di quel piccolo avvenimento così insolito rispetto ai normali giorni del Sengoku. Si era concentrato per qualche istante ma non aveva trovato nulla di interessante. Così aveva deciso di continuare il suo peregrinare come nulla fosse, disinteressato a quanto, in realtà, stesse accadendo.

 

La ragazza fu scaraventata in basso ed il suo corpo impattò rovinosamente al suolo. Rotolò un paio di volte prima di fermarsi nella polvere e, solo quando fu ferma, si rese conto di avere le dita ricoperte di fango. Le portò davanti agli occhi , osservando le proprie mani incrostate di sangue e doloranti. Realizzò all'improvviso di essere stata sconfitta. La rabbia le morse le viscere e batté il pugno contro il terreno, imprecando mentalmente contro se stessa. Era stata un'imprudente, una sciocca, e doveva ringraziare non sapeva neppure quale divinità per essere ancora viva, se mai ce ne fosse stata una. Si portò a sedere ed iniziò a guardarsi intorno. Desolata, prendeva coscienza di non avere la men che minima idea di dove fosse. Provò ad alzarsi in piedi ed i suoi movimenti furono accompagnati dal clangore metallico delle piastre che cingevano braccio destro e petto. L'unica cosa che poteva fare era nascondere l'armatura nel ciondolo ed iniziare a perlustrare i dintorni, organizzarsi su come tornare, nella speranza che fosse possibile. Doveva ringraziare più di una divinità: dopo pochi passi, in mezzo ad un cespuglio, percepì il pulsare ritmico della sua spada.

 

Rin canticchiava, raccogliendo i fiori nella radura. La primavera era esplosa dopo un inverno troppo lungo ed aveva regalato boccioli dai colori sgargianti. Ne aveva fatti due mazzi di medie dimensioni. Sistemandoli meglio si sedette nuovamente nell'erba. Presto, ne avrebbe intrecciate due corone. Era un animo puro il suo, di una lucentezza disarmante. Era potente nella suo candore: per certe creature, una fonte inesauribile di nutrimento.

La presenza doveva aver pensato quello, nell'accorgersi di quel boccone prelibato lasciato incustodito. Lo scontro, per lui, era stato rovinoso. Era riuscito a gettarsi nel portale e scampare la fine. La sua avversaria, tuttavia, si era dimostrata coriacea. L'aveva mandata lontano, a perdersi nell'universo sconfinato, in oscure dimensioni. Senza quelli come lei nei paraggi, per lo meno, poteva saziarsi e recuperare le forze indisturbato. Lo credeva veramente, mentre si rincuorava e si avvicinava in fretta, senza celarsi minimamente. Non appena aveva messo piede in quel prato, la bambina aveva urlato. Un minuscolo esserino verde gli era apparso innanzi brandendo un bastone più alto di lui di diverse spanne. Dall'estremità superiore di quel manufatto mistico erano scaturite fiamme. Battendo le palpebre, sorpreso e leggermente contrariato per il piccolo contrattempo, la presenza aveva mosso il dito e sbalzato l'esserino lontano, a sbattere tra le rocce. La bambina aveva lasciato cadere a terra i fiori, immobile per il terrore e straziata per il dolore, per quel minuscolo scocciatore. Era un cuore puro e lo sarebbe stato fino alla fine. Lo straniero si leccò le labbra, spalancando le sue iridi profonde, così scure da potercisi perdere dentro. Solo un attimo lo separava dal suo pasto.

 

La ragazza sentì calore alle spalle. Veloce estrasse la spada dal fodero che recava sulla schiena e poté vedere la lama rossa. Ce n'era uno nei paraggi e stava per colpire. Aguzzò l'olfatto. Doveva fare in fretta se voleva fermarlo. Annusò il vento. Ringhiò rendendosi conto che si trattava proprio di lui, del suo nemico. Cosa faceva quel disgraziato? Era li per finirla o si era ritrovato li con lei perché aveva sbagliato qualche passo nella formula, comportandosi da idiota? Non aveva tempo di ultimare le congetture. Aveva percepito subito un'aura umana vicino a lui ed il terrore. Non poteva assolutamente permettergli di nutrirsi. Non sarebbe più riuscita a batterlo, sicuramente. Corse ancora più in fretta e snudò la lama più lunga, la più corta già stretta tra le zanne. Il suo correre divenne volo ed atterrò con un sibilo nel giusto prato. Aveva lanciato il pugnale e, davvero era troppo felice per crederci, il primo colpo era andato a segno. Era sangue caldo quello che colava dalla ferita sul braccio del suo nemico.

Era stato un idiota. Doveva aver sbagliato qualche passo nella formula. Come era possibile che quella pazza fosse ancora di fronte a lui? Non si capacitava né del fatto che fosse li ne di come fosse riuscito a colpirlo. Eppure, il metallo che gli bruciava tra le carni era reale. Lei si avvicinava minacciosa. Glielo leggeva negli occhi che l'avrebbe ucciso per proteggere la bambina. Quella maledetta, a differenza sua, in parte era stata umana.

Ringhiando e dimenticandosi del pasto, si scagliò con l'arma in mano contro di lei. Fatale errore: lei lo aspettava con la spada ed era brava. Un passo di lato, come un lieve movimento di danza, un leggero spostamento d'aria; i suoi occhi azzurri e magnetici e bellissimi, poi la lama: in pieno petto. Era così che Galen lo finiva.

Rin aveva assistito terrificata alla scena. La ragazza che era intervenuta, dopo aver sconfitto l'avversario, si era passata una mano sulla bocca e sugli occhi. Aveva lasciato scivolare le ginocchia a terra e respirava forte, col viso rivolto al basso. Era in affanno. Deglutì quattro o cinque volte, prima di alzarsi barcollando e dirigersi verso il corpo del suo nemico. Recuperava le sue armi tra carni che stavano già diventando polvere. Aveva sorpassato Rin senza curarsi di lei più di tanto. Solo dopo diversi minuti le si rivolse, chiedendole se stesse bene.

 

All'inizio Rin ebbe paura ma meno di prima. D'improvviso le sue gambe si mossero e corse via, verso Jaken. Quasi non aveva udito la domanda della straniera, così simile nell'incarnato e nel colore di occhi e capelli alla persona che aveva cercato di far del male a lei e ferito Jaken. Raggiunse il suo amico e pianse, accorgendosi che respirava impercettibilmente. Le lacrime le annebbiavano la vista e non si rese conto che la nuova arrivata era vicino a lei e, inginocchiata, le posava una mano sulla spalla.

“Perché ti disperi? Tu stai bene e lui non è né morto né moribondo?”

Rin negò con la testa. Nella sua epoca aveva visto soffrire e riconosceva quando qualcuno stava male.

La mano calda che cercava di consolarla abbandonò la sua spalla e si poggiò aperta, sul petto di Jaken.

Vedendo la luce azzurra che scaturiva dalle dita artigliate, Rin smise di piangere. Pochi istanti dopo, il respiro del piccolo amico tornò normale ed il suo colorito salutare. Tutti i lividi erano spariti.

“Lascialo dormire. Si sveglierà da solo tra qualche minuto.”

La bambina si sfregò gli occhi per tergerli dalle lacrime e la ragazza bionda le carezzò la testa.

“Sei molto più carina quando sorridi.”

Forse fu quel gesto dolce a convincerla: Rin non ebbe più paura. Chiese alla straniera chi fosse, che ci facesse li e la ringraziò per l'aiuto.

La ragazza rispose di chiamarsi Galen e di venire da tanto, troppo lontano, un posto freddo, e di dover tornare a casa propria, non appena avesse trovato un modo per riuscirci. La aspettavano e a casa aveva tanta gente da proteggere, da chi, Rin lo aveva già sperimentato di persona.

“E tu, invece? Non sei un po' troppo piccola per girare da sola? Quel rospetto non sembra una gran difesa...”

Rin arrossì e raccontò di non essere sola, che presto sarebbe tornato il suo signore, qualcuno che la proteggeva.

In effetti, addosso la bambina aveva odore di demone potente.

Galen annuì e non ci mise bocca ma si attardò parecchio, nell'attesa che il rospo tornasse operativo ed un protettore degno di quel nome si degnasse di farsi vivo. Credeva che avrebbe impegnato minuti, al massimo ore. Con suo sommo disappunto, si trovò costretta a trascorrere tre giorni con una bambina tanto curiosa ed un rospo saccente. Passò settantadue ore a cacciare per nutrire la piccola e raccogliere margherite, prima che sua maestà tornasse. Sapeva che neppure i demoni maggiori sono avvezzi ad accorgersi di quelli della sua razza e non poteva fare una colpa al nobile Sesshomaru, se non si era reso conto del pericolo che correva la sua protetta. Ora però iniziava a passare troppo tempo. Era parecchio irritata quando un guerriero possente, dalla lunga chioma argentata, fece la sua comparsa. Galen alzò gli occhi al cielo, cominciando a pregustare la sua ritrovata libertà. Unica nota positiva, dovette ammettere, in tutto quel tempo perso, era che sua signoria era davvero un belvedere. Uno spettacolo per gli occhi di una donna, senza dubbio alcuno. Almeno quello, si ripeteva tra se, mentre si alzava per potersene andare.

 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Era una razza di demone diversa. In vita sua, Sesshomaru non aveva mai percepito un odore simile. Si trattava di una creatura sovrannaturale, senza dubbio, ma l'espressione arguta e attenta che aveva rivolto a lui, mentre lo studiava, e lo sguardo dolce, che aveva riservato alla piccola Rin, a mo' di commiato, rivelavano una vastità di sentimenti ed una leggerezza nel mostrarli che certo non erano propri dell'universo demoniaco. Non era una dea, perché un taglio sulla fronte ed un livido alla tempia ne deturpavano il viso. Semplicemente, il grande demone cane non aveva idea di cosa fosse.

Si teme ciò che non si conosce, se questo ha il potere di nuocere a qualcosa che si ama, e Sesshomaru aveva ordinato asciutto a Rin di andare da lui. Era avanzato di un passo ed aveva celato la bambina con la mano.

La straniera non aveva proferito parola né mutato il suo atteggiamento pacato. Semplicemente osservava e, nelle sue iridi scure, simili al cielo notturno quando scoppia il temporale, pareva voler capire a fondo chi le stava davanti. Dava la sgradevole impressione di riuscirci pienamente.

Aveva dita artigliate anche lei ma unghie più scure di quelle di Sesshomaru: un bianco più sporco, una neve meno candida.

Inaspettatamente, la guerriera si abbassò fino a portare il ginocchio a terra. Batté il pugno chiuso sul proprio petto. Non per un instante, tuttavia, abbassò lo sguardo. Solo tempo dopo avrebbero saputo che, per quella razza, era il saluto che un guerriero rivolge ad un combattente che gli è superiore.

Nel descriverglielo, avevano sempre anteposto un titolo onorifico ed era stato naturale, per Galen, mostrare il rispetto che gli fosse dovuto. Rispetto, però, è anche indicare chiaramente un errore, quando qualcuno lo commette.

 

“Se avessi voluto colpire, avrei già potuto farlo troppe volte, senza il vostro permesso, fuggendo indisturbata. Dovete proteggere con più attenzione ciò che amate. Questi tempi non sono sicuri.”

 

A dispetto della velocità che aveva dimostrato nell'abbattere il suo nemico, si era alzata lentamente.

Attendeva una risposta, un rimprovero. Non si stupì quando Jaken, tremante, provò ad intromettersi tra lei ed il suo padrone. Evidentemente, il piccolo demone aveva apprezzato l'aiuto ricevuto e tentava di contraccambiare. Le veniva da ridere mentre Jaken implorava il suo signore di non punire quella strana femmina.

A quella scena, Sesshomaru sembrò placarsi quasi subito. Avanzò lasciandosi Rin alle spalle. Sorpassò Jacken e si portò davanti alla straniera, che si attardava nell'attesa di un suo cenno, per alzarsi.

 

“Chi sei? E soprattutto, cosa sei?”

 

Le chiese atono.

La femmina si alzò e ripeté il proprio nome ma non rivelò quello della sua razza né il proprio rango. Spiegò che, semplicemente, non le era concesso svelarlo. Invece, volle conoscere la geografia di quel posto, chi comandasse la zona ed in che modo potesse allontanarsi senza avere grane dai vari dominatori del posto.

 

“Voglio solo andarmene. Non bramo ricchezze o potere. Non cerco lotta.”

 

Veloce, Jaken rispose gonfiando il petto che tutti quei domini appartenevano al suo signore.

 

“Voglio sperare che la vita dei tuoi amici valga almeno un lasciapassare per le tue terre.”

 

Il grande demone cane non aggiunse altro. Semplicemente, si allontanò come se non gli importasse nulla e le permise di andare via.

 

 

Andare via, si, ma andare dove? Aveva più o meno una mappa mentale del territorio e niente altro in mano. In quella zona, stando alle notizie apprese, avrebbe trovato solo poveri villaggi abitati da contadini che a malapena avevano di che mangiare ogni giorno. Lei, invece, per abbandonare quel mondo, aveva bisogno del potere di un sacerdote potente, di mistici che sicuramente non dimoravano in mezzo ai popolani. Con un po' di fortuna, avrebbe forse appreso di qualcuno abbastanza in gamba che viveva da ramingo. In questo, forse, un villaggio avrebbe potuto esserle utile: a conoscere un nome, rintracciare una persona forse più sapiente.

Le ombre lunghe della sera iniziavano a disegnare contorni sfumati delle cose sulla terra più bruna. Sospirò. Non percepiva in alcun modo la presenza di suoi simili. Solo anime umane, tormentate, bisognose di aiuto. Portò il cappuccio a copertura della fronte e dei capelli. Per via del suo aspetto, aveva tratti diversissimi da quelli nipponici ma, forse, avrebbe potuto far credere di essere una occidentale. I suoi capelli biondi e gli occhi azzurri la favorivano. Per quanto poteva, provò a mutare il suo aspetto demoniaco in umano. Sospirò e si avviò all'entrata di quell'agglomerato di povere capanne. Come si aspettava, gli uomini che rientravano dal lavoro nei campi, diffidenti, stanchi e col volto sfatto, erano la parte migliore del comitato di benvenuto. Nel suo giapponese stentato, abbruttito dall'accento spigoloso della sua lingua natale, chiese di poter parlare col capo villaggio. Mentre la fissavano, iniziò a chiedersi chi avrebbe potuto fingere di essere per non spaventarli. Ci pensò qualche istante, poi tentò di affidarsi ai ricordi della sua vita passata, quando era ancora una celebrante di altri culti ed altri misteri, ma pur sempre qualcuno in contatto con ciò che occhio umano non vede ne percepisce.

Entrata in una casa appena più grande delle misere capanne che costituivano il villaggio, si sfilò il cappello e disse il proprio nome.

 

“Non sono nata in questa terra ma il dolore delle anime di tutti gli uomini è sempre uguale, in tutti i continenti, presso tutte le genti. Qui qualcuno sta male ed ha bisogno del mio aiuto. Lo sento gridare e non posso ignorare il suo richiamo. Permettetemi di guarirlo, in modo che il suo grido cessi e, con il suo, anche il mio.”

 

L'anziana sacerdotessa, che faceva anche le veci di capo-villaggio, intuì immediatamente di aver davanti qualcuno di speciale. Lo vedeva dal portamento, dalla sicurezza, dalle significato delle sue parole. Un demone non si cura del dolore umano. Una persona nata in campagna non è così solenne.

 

“Da dove vieni, Galen? Sembri umana ma una donna normale non girerebbe mai sola poco prima della notte.”

 

La giovane sorrise e mostrò denti bianchissimi, una corolla di perle ad illuminare il viso pallido.

 

“Anche una semplice donna può imparare a difendersi col giusto allenamento e non tutte le donne sono così fortunate da avere un uomo che le protegga.”

 

L'anziana donna rise di quella risposta pronta, poi tornò a fissarla con sguardo attento.

 

“Che ne sai di chi sta male in questo villaggio? Sei forse una indovina?”

 

Fu Galen, allora, a ridere della battuta dell'avversaria.

 

“Non so come si chiamano quelli come me, in questa terra. Posso sbagliare su molte cose, ma non su questo. Qui qualcuno sta male ed io posso aiutarlo. Ci siete forse riuscita, voi, onorata sacerdotessa?”

 

La venerabile accusò il colpo. Ferita un po' nell'orgoglio, nonostante l'ora tarda volle vedere subito di cosa fosse capace la straniera.

 

“Se davvero sei in grado di percepire che qualcuno sta male, sarai anche perfettamente in grado di trovarlo da te. Non è molto grande questo villaggio.”

 

Galen annuì. Ormai era notte e non le dava fastidio il sole. Calò il cappuccio sulle spalle e si diresse verso la porta.

 

“Vogliate farmi il piacere di accompagnarmi, onorata signora. Non vorrei correre il rischio di disturbare la persona sbagliata.”

 

Detto ciò, porse il braccio all'altra. Stava diventando interessante cercare di capire chi, in quel duello di risposte piccate mascherate di buone maniere, l'avrebbe spuntata.

 

 

 

La luna era alta e le stelle trapuntavano il cielo con il luccicare di mille diamanti. Rin dormiva ed il suo respiro calmo e regolare era rilassante. Jaken sonnecchiava appoggiando il mento sul petto, il fedele Nintojo sempre stretto tra le corte braccia.

Il signore dell'Ovest era assorto. Aveva percepito altri con lo stesso odore di quella strana ragazza, altri della stessa razza. Gli sembrava che iridi scure come quelle della straniera lo spiassero da lontano, analizzando ogni suo movimento. Quell'incontro non gli era piaciuto per niente.

 

“Questi non sono tempi sicuri.”

 

Le parole di quella femmina suonavano foriere di sventura. Guardò Rin, nuovamente. Stando al resoconto di Jaken, la bambina ed il piccolo demone avevano rischiato moltissimo in sua assenza. Erano stati attaccati e non avrebbero avuto la men che minima possibilità di difendersi. Galen era stata la loro salvezza. Eppure, il cadavere dell'uomo che li aveva assaliti, di cui restavano le ceneri, era di sicuro di un simile di quella straniera. L'aveva lasciata andare perché era in debito: la vita di Rin valeva senza dubbio il permesso di poter lasciare i suoi domini, per una volta.

Nonostante sembrasse impassibile come al solito, in realtà Sesshomaru era teso, corrucciato nel percepire ogni minuscolo cambiamento nell'ambiente. L'aria era pesante ed inquieta. Se ne rese conto all'improvviso. Non era una mera impressione. Iridi azzurre, per davvero, lo seguivano nella penombra. Finalmente, era stato in grado di individuarle, anche se solo per un istante. Un milionesimo di secondo, in cui la morsa del presentimento che gli annodava le viscere aveva preso forma nello sguardo furtivo di un nemico.

Istintivamente, estrasse Bakusaiga. Le ciglia abbassate, un ringhio silenzioso che non emetteva suono gli deformava il perfetto viso millenario. Si inoltrò lentamente nella foresta, mentre le fronde nere delle piante lo inghiottivano coi loro tentacoli di liquida tenebra. Un incantesimo era stato lanciato e lo faceva arrabbiare. Impugnò saldo l'elsa. Il suo sangue demoniaco pulsava vorticoso nelle vene. Si girò di scatto quando un ramoscello si crinò leggermente, alle sue spalle. Il signore dell'ovest aveva individuato la sua preda. Iridi azzurre lo aspettavano al di là della foresta e nelle mani avevano una spada. Fu il cozzare delle armi a destare Ha-Un.

 

Percorsero pochi metri e Galen si bloccò, con un movimento fluido e deciso.

 

“E' qui.”

 

Affermò sicura, lasciando lentamente il braccio della donna e dirigendosi verso una casupola piccola esattamente come le altre.

Forse fu il modo di porsi, del tutto diverso da quello della ragazzina orgogliosa di poco prima, ma la sacerdotessa ebbe l'impressione di avere dinnanzi un'altra persona. Non erano certo le vesti sporche e logore, tipiche di chi viaggia troppo. C'era dell'altro. Era come se, per Galen, ogni cosa fosse improvvisamente diventata superflua, tutto, eccetto l'anima che la chiamava, al di la di quella porta. Non poteva trattarsi di una dea, c'erano troppe imperfezioni in lei. Tuttavia, traspariva la dignità solenne che non appartiene certo ad un figlio del popolo. Se può una principessa essere riconosciuta non dalle sue vesti ma dalla dignità dei suoi gesti, allora Galen lo era, sicuramente.

 

Finalmente lo vedeva. Finalmente aveva di fronte quel bastardo. Da quanto lo spiava? Da quanto il suo lurido sguardo era puntato a nuocere la sua protetta? Con rabbia ferina sferrò un altro colpo. Gli artigli della sua mano sinistra grondavano sangue mentre nella destra brandiva la spada. Non era stato troppo difficile. Dopo neppure un'ora era riuscito ad aver ragione del suo nemico.

Possibile fosse un essere così inferiore ad essere stato capace di spiarlo tanto a lungo? Se lo chiedeva con sospetto mentre studiava l'uomo pallido dal braccio sanguinante che. Come unica arma, aveva i suoi occhi azzurri e taglienti.

 

Galen oltrepassò il piccolo ingresso. C'erano poche stanze in quella casa e ne raggiunse una buia. Nell'angolo, sotto la finestra, si rannicchiava una donna emaciata. La poveretta dondolava avanti ed indietro. Fissava ora il soffitto, ora la luna, spesso il vuoto.

Aveva perso marito e figlio in guerra. Il dolore, inesorabile, l'aveva scaraventata nella follia.

Parve non curarsi della donna bianca e dorata che avanzava verso di lei. Fosse stata anche l'angelo della morte, non le importava.

 

“Non c'è niente da rubare. Nulla qua….”

 

Ripeté due o tre volte, dondolandosi più velocemente ed accostando maggiormente il mento alla ginocchia. Il viso era solcato di rughe precoci ed, osservandola, Galen sentì vivo su di lei l'odore putrescente della violenza.

Qualcuno si era anche approfittato di lei.

 

“Non c'è niente da rubare qui. Hanno già preso tutto. Qui non c'è niente...”

 

Galen sedette vicino a lei. L'odore della donna, delle sue lacrime, del suo dolore, della scarsa igiene, iniziava seriamente a disgustarla. Tuttavia, sorrise delicata ed allargò le braccia, come chi aspetta di accogliere qualcuno che gli corre incontro e sa che lo farà barcollare per l'irruenza del gesto.

 

“Se invece tu potessi vedere quanto c'è ancora qui, da far crescere e mostrare alla gente ed al mondo!”

 

La poveretta non le disse nulla. Era troppo spezzata anche per curarsi del senso di quelle parole, anche per urlare per quella mano artigliata che le sì posava sopra il cuore e pareva carpirne ogni battito. Fu come una scarica elettrica che la stesse sconquassando. Avrebbe voluto urlare tanto era il terrore. Invece era bloccata. Quegli occhi azzurri la stavano ammaliando, ghermendola a forza. Era paura, terrore quello che provava. In un certo senso, però, c'era anche sollievo: sarebbe stata la fine di tutto.

 

“Tu vivrai.”

 

La scossa cessò e due braccia salde la strinsero con forza.

 

“Tu vivrai.”

 

Era come se nuova linfa iniziasse a scorrere nello stelo di un fiore appassito. La donna si aggrappò alla straniera, che non era più una straniera ma una sorella. Calde lacrime iniziarono a scendere dai suoi occhi asciutti. Non ricordava nemmeno più cosa significasse provare pace.

Sesshomaru fissava il suo nemico. Era attratto soprattutto dal suo sguardo. Aveva visto troppe poche volte occhi come quelli. Invece di temere che potessero rubargli l'anima, li fissava apertamente. Fu questo il suo sbaglio. All'improvviso, si accorse che Bakusaiga, tra le sue dita, tremava.

Una goccia di sudore scese dalla fronte lungo la tempia, mentre il suo avversario aveva mutato espressione. Rideva, un sorriso che non prometteva nulla di buono. Sesshomaru tentò di riprendere il controllo della propria arma ed una leggera scossa gli scorse nelle vene. L'inquietudine, inesorabile, cedeva il passo alla paura. Non era la spada a non rispondergli più ma il suo stesso arto che tremava. Il grande demone aveva perso il controllo della propria mano ed iniziava a muoversi contro la sua volontà persino il braccio. Presto non sarebbe più stato in grado di aver ragione del proprio corpo. Con un ultimo barlume di lucidità, mentre le gambe ancora gli rispondevano, scattò per colpire col braccio sinistro il proprio nemico. Quel bastardo aveva sostituito la sua espressione compiaciuta con un sorriso sadico, l'aria di chi avrebbe infierito per il semplice gusto di recar dolore. Il suo avversario gli aveva bloccato il polso sospeso a mezz'aria, a pochi centimetri dal proprio viso.

 

“Ci sono creature, nella notte, che neppure un demone potente come te dovrebbe mai sfidare.”

 

Gli gracchiò beffardo, davanti alla faccia. Senza fatica, aveva in qualche modo imbrigliato il signore dell'ovest, il cui corpo, ora, era sotto il suo controllo. Lo sguardo gli si illuminò di un bagliore sinistro.

 

“Sai quanto il tuo corpo può resistere al tuo stesso veleno?”

 

Sesshomaru ringhiò mentre il suo braccio si levava lentamente in aria, come se non gli appartenesse. Intuiva benissimo ciò che stava per accadere e più del terrore lo faceva infuriare la vergogna. Essere sopraffatto così, da un guerriero senza titolo, di cui non si sapeva neppure il nome. La sua anima era talmente tesa da essere quasi sul punto di gridare. Fu un ringhio ferino quello che Rin udì.

 

Galen ci era riuscita in fretta. Non era difficile curare l'anima di una mortale. Era certa che con quel gesto si sarebbe guadagnata la fiducia della sacerdotessa a capo di quel villaggio ed avrebbe potuto iniziare la sua ricerca di informazioni per rientrare nel proprio mondo. Stava uscendo, sollevata, quando quel latrato ferino nella foresta ed il grido di quella bambina le gelarono il sangue nelle vene. Rin non aveva solo paura. Provava terrore. Era terrorizzata all'idea di perdere ciò che più amasse. Galen deglutì. Non voleva credere di aver percepito uno della propria razza a macchinare una cosa del genere.

 

 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Le grida di Rin erano strazianti. Graffiavano orecchi e cuore. Galen correva più veloce che poteva. Lo sdegno e la furia che le annodavano le viscere le stavano facendo ribollire il sangue nelle vene. Glielo avevano ripetuto che quelli della sua razza, in passato, erano stati quasi tutti malvagi. Aveva ancora gli artigli sporchi del sangue di Renkok, l'avversario che eliminato pochi giorni prima. Aborriva uccidere. La disgustava attaccare un suo simile ma l'avrebbe fatto fuori senza remore se davvero si stava macchiando dello scempio che presagiva. Eppure non voleva crederci, anche se il suo sesto senso ne era certo. Non poteva accettarlo, anche se il fiuto e l'udito percepivano il sangue di Sesshomaru ed i lamenti di Rin.

Erano vicini. Per scherzo o per fortuna, in quei pochi giorni avevano affrontato lo stesso percorso e Galen riuscì a raggiungerli in pochi minuti. Si trovò davanti la scena che temeva: Rin in lacrime e Jaken che cercava di rassicurarla ed allontanarla da quel posto. Se non altro, il rospetto ci stava provando. Galen palesò la sua presenza nell'esatto momento in cui Rin aveva eluso la guardia del piccolo demone e stava per correre anche lei verso l'agonia del suo protettore.

Richiamò decisa la bambina e, già come Jaken, le ordinò di mettersi al sicuro.

Lasciò i due vicino al fuoco che li aveva riscaldati quella stessa notte. Nell'aria, l'odore della carne corrosa dall'acido era penetrante e pestilenziale. Non aveva fatto nulla per celare la sua presenza ed il suo simile sembrava non essersi minimamente curato della sua entrata in scena. Evidentemente, non la riteneva una minaccia, forse solo una femmina insignificante o, addirittura, un'alleata.

 

“Smetti.”

 

Quell'affermazione fu accolta come strana.

Il carnefice bloccò per un attimo il gioco e la fissò incuriosito. La vittima ai suoi piedi era sfinita. Non gli aveva dato neppure un istante la soddisfazione di chiedergli pietà e lui, in accordo alla sua richiesta, aveva continuato a divertirsi.

 

“Perché dovrei?”

 

Sorrise, mostrando le zanne storte ed in qualche punto rovinate.

 

“Col tuo agire getti infamia su tutto il nome di noi figli di Helotar.”

 

Doveva aver davanti una di quelle che ancora credevano a certe baggianate.

 

“Come se Helotar fosse ancora vivo e gli importasse qualcosa. Nostro padre è morto da millenni, sempre che sia mai esistito.”

 

Aveva dato le spalle, pronto a ricominciare il suo trastullo, fintantoché la vittima fosse stata ancora cosciente. Era certo che quel demone maggiore non sarebbe durato ancora a lungo. Stava per concentrarsi, quando il freddo del metallo all'incavo del collo lo distrasse ancora.

 

“Nostro padre è vivo e ti farebbe a pezzi con le sue stesse mani se vedesse come agisci.”

 

A quella minaccia boccheggiò, non per le capacità di quella femmina ma per l'arma che brandiva. I fregi di quella spada erano pregni di magia antica. Possibile addirittura che la minaccia di poco prima fosse veritiera?

Sudava freddo ed iniziava a perdere il controllo anche sulla preda. Lo sentiva dai respiri che si regolarizzavano e dal potere demoniaco che, velocemente, gli stava sanando il corpo.

 

“Parli come se avessi visto nostro padre di persona.”

Galen impresse una pressione maggiore sulla sua giugulare con la spada e si avvicinò per sussurrargli all'orecchio.

 

“Sono una sua diretta allieva. Come credi che io abbia ottenuto un'arma così potente?”

 

Volontariamente, Galen allentò la barriera mentale e gli permise di leggere la sua anima, appurare che non mentisse. Ora potevano percepire chiaramente i pensieri l'uno dell'altra e il terrore più puro si impadronì dell'aguzzino, ormai certo della pena.

 

“Che mi farai?”

 

Squittì ansimante.

 

“I nostri fratelli dovranno sapere che non saranno mai più tollerati comportamenti simili.”

 

Iniziò a tremare, teso tra l'incertezza della pena e la seria possibilità di essere ucciso.

 

“Scappa, topolino, e sta attento: la prossima volta pagherai la pena.”

 

on se lo fece ripetere. Sparì veloce, in uno sbuffo di nebbia.

Non appena quello se ne fu andato, Sesshomaru iniziò a sentirsi meglio per davvero. La ferita alla spalla iniziava a rimarginare. Il sangue rappreso restava solo una macchia.

 

“Ti aiuterei volentieri ma vedo che non lo vuoi e non credo neppure che me lo permetteresti.”

 

Galen aveva rinfoderato la spada e si era seduta a terra a gambe incrociate, nell'attesa che Sesshomaru si alzasse.

Mentre la vista tornava nitida, il demone osservò con sospetto la femmina che non se ne andava.

Lei ed il suo avversario avevano gli occhi dello stesso colore. Ora che poteva guardarla bene notò che erano praticamente identici.

 

“Sono un tratto distintivo della mia razza.”

 

Il demone dell'ovest riuscì finalmente nell'impresa di staccare la schiena da terra e le si rivolse.

 

“Leggi nel pensiero, dunque?”

 

Galen negò ed i capelli chiari sfuggirono al laccio che li obbligava sulle spalle. Erano tanti e particolarmente ribelli.

 

“Quelli come me hanno potere sulle anime dei viventi. Sappiamo plasmarle, nel bene, come dovremmo fare sempre, e nel male, come quel disgraziato ha fatto con te. Mi scuso a nome suo e di tutta la nostra stirpe.”

 

Sesshomaru sbuffò contrariato. Era debole ma stava bene. La ferita era del tutto richiusa, anche se l'aspetto dei suoi vestiti era terribile.

 

“Chi è Helotar?”

 

Si mosse barcollando e fulminò con lo sguardo la femmina che provò prontamente a sostenerlo.

Rifiutò schiaffeggiandole via la mano e la borraccia che gli porgeva. Doveva averla delusa, perché lo rimproverava che bevendone avrebbe recuperato le forze prima.

“Helotar è nostro padre, il nostro progenitore.”

 

Forse si sentiva davvero in colpa e per quel motivo rispondeva finalmente alle sue domande.

 

“Quanti siete?”

 

Galen non ne aveva idea.

 

“Con quello di stasera posso dirti che in questa zona siamo almeno tre.”

 

Fu fulminata da uno sguardo glaciale a quella risposta. Sesshomaru era un tipo silenzioso ma quando era scosso da emozioni potenti sapeva essere estremamente espressivo. Galen gli si portò al fianco, restandogli almeno un passo indietro. Il demone-cane si girò seccato verso di lei.

 

“Puoi camminare avanti, non sto per svenire.”

 

Galen finse un sorriso amabile.

 

“So benissimo che non siete debole, è solo per tranquillizzare Rin.”

 

Sesshomaru aggrottò le sopracciglia. Non capiva a pieno se quella femmina si stesse prendendo gioco di lui o facesse sul serio ma, a causa dell'aiuto ricevuto e della premura nei suoi confronti, aveva lasciato stare. Sbuffando, aveva imboccato a passo di marcia il sentiero per uscire dalla foresta. Doveva aver accelerato troppo perché, ad un certo punto, la vista si oscurò leggermente e dovette appoggiarsi ad un tronco. Avrebbe voluto protestare di nuovo quando si accorse dell'ingombro che Galen gli poneva in mano. Vide la femmina sorpassarlo. Desiderava lanciarle dietro quel pezzo di legno che gli aveva infilato tra le dita. Si accorse poi che era la borraccia che gli aveva offerto prima. Poco entusiasta, conscio di aver bisogno di energie, tolse il tappo e bevve d'un fiato. Il sapore dolce lo disgustò. Tuttavia si sentì subito meglio. Quando però raggiunse la radura dove si erano accampati, ad attenderlo erano rimasti solo Rin e Jacken. Nascose la borraccia vuota in una tasca del chimono. Galen se ne era già andata e aveva avvisato che, semplicemente, Sesshomaru-sama stava bene e sarebbe tornato dopo poco. Le fu grato. Il silenzio su quanto era realmente accaduto nella foresta restava la migliore cura per il suo orgoglio ferito.

 

 

Galen era corsa via, furibonda. Fosse stata nel suo mondo, Helotar gli avrebbe fatto volare via la testa. Cosa accadeva di così deviante in quell'epoca da aver traviato tanto a fondo la natura della sua razza? Non contava Renkok, con cui aveva un conto in sospeso da parecchio. Helotar, durante l'addestramento, aveva espresso chiaramente il fatto che si era allontanato dai suoi figli a causa del loro comportamento disonorevole. Sperava che il loro sangue si diluisse nelle unioni con altre razze, demoniache ed umane, fino a quando non fosse rimasto più nessuno con l'intima natura del Dakvor. Invece, qualcuno restava, ed era a dir poco infame. Sapeva di dover trovare qualcuno che la aiutasse a trovare la via di casa ma sarebbe stata una deviazione tanto lunga rintracciare l'accampamento di quel maledetto che si era accanito contro il demone cane?

 

Aveva rincorso quel disgraziato per poche ore. Il suo odore era facilmente riconoscibile nelle tracce che si incrociavano nell'infittirsi della foresta. Galen non aveva intenzione di fargli del male. Ricordava però certi sistemi efficaci, appresi tra le battaglie e l'addestramento, davvero utili in casi come quello. I demoni di quella dimensione erano estremamente semplici, più simili agli animali o agli spiriti elementari della natura. Non c'era quasi nulla, in loro, della complessa interiorità umana. Era convinta che una bella paura, un attacco in pieno stile, una mera manifestazione di potenza, avrebbe senza dubbio indirizzato i suoi simili verso una migliore predisposizione d'animo. Snudò dal fodero la lama corta, che di solito usava solo per controllare la presenza di nemici, pronta a servirsi del suo secondo potere. Era da un po' che non si esercitava nelle illusioni e poteva essere utile, oltre che divertente. Peccato avesse dimenticato quanta energia ci volesse per tenere attive le illusioni e che, soprattutto, la borraccia con il succo rigenerante fosse rimasta a Sesshomaru.

 

 

Jaken aveva aspettato che Rin iniziasse a saltellare tra i prati e si allontanasse quanto bastava da non riuscire a sentire il suo discorso. Il piccolo kappa si avvicinò con circospezione al suo signore, tossicchiando. Si schiarì la voce e cercò di iniziare. Era tremendamente curioso su quanto fosse realmente accaduto al suo signore. Perché, se era vero che Rin era una bambina, ed in qualche modo a lei potevano darla a bere, per lui, invece, che di secoli sulle spalle ne aveva ormai parecchi, era tutta un'altra storia. Si aspettava una pedata o un sasso in testa, come al solito. Ricevette invece un ostinato silenzio. Sesshomaru aveva assottigliato lo sguardo ed emesso un ringhio così basso da essere quasi impercettibile. Tuttavia, ciò che per orecchio umano era nulla, per Jaken fu una chiara espressione di frustrazione e profonda amarezza. Il minuscolo vassallo si inginocchiò in fretta, profondendosi in numerose scuse. Tirò un sospiro di sollievo quando il suo padrone lo oltrepassò, lasciandolo solo con Rin. Da che lo serviva, non aveva mai visto il suo padrone tanto furioso.

 

La sconfitta bruciava terribilmente. Sesshomaru si era avviato in fretta nel folto del bosco. Era furioso. L'aura maligna scorreva a briglia sciolta fuori dal suo corpo. Non la controllava. Non voleva più. Aveva bisogno di sentirsi vivo, di sapere di essere forte. Aveva fame: un impulso vorace, di pura distruzione. Non umani: altre carni dovevano arrossare le sue zanne. Carni diverse. Di quel traditore che Galen aveva lasciato scappare. Voleva sbranare tutti, di quella razza. C'era una traccia, flebile ma decisa, che si spandeva nell'aria e lui non aveva paura. Anche se la aveva, l'avrebbe sconfitta. La sera calò in fretta mentre lui si trasformava. I tentacoli d'inchiostro della notte lo ghermirono nella sua forma umana per restituirlo nel latrato possente della sua apparenza demoniaca. La rabbia era nell'impulso elettrico che scattava tra un muscolo e l'altro, nei fasci nervosi che saettavano sotto la pelle. Il manto di Sesshomaru era candido, color della neve. Mentre volava, l'avanzare del vento descriveva su di esso la linea di un orizzonte che si spostava. Come l'aria fredda che scorre sui campi maturi e traccia il suo percorso simile alla spuma bianca del mare, così era sferzato l'animo indomito del guerriero, nell'inquietudine che precede il temporale. Sesshomaru voleva sangue di nemico. Lo bramava, lo desiderava vorace a scaldargli la gola. E la sua brama andava saziata.

 

 

 

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