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Amava salire sul palco e cantare, suonare, improvvisare,
qualsiasi cosa.
Amava modulare la sua voce, amava renderla sempre migliore e
amava sperimentarla durante i live.
Gli piaceva da matti l’idea di avere un pubblico, ma non si
montava la testa.
Samuele era semplicemente se stesso.
Suonava la tastiera, cantava, faceva tutto quello che sapeva
fare e lo faceva bene.
Dietro a tutto questo c’era una grande passione per la
musica, accompagnata da una voglia incrollabile di dire la sua e di parlare
d’amore.
Samuele amava l’amore, ne parlava a modo suo, con le sue
note e la sua voce, forse nel meno convenzionale dei modi, ossia
infischiandosene di finire in radio o in tv, quelle erano tutte cose che non lo
riguardavano. La fama televisiva è artefatta, non mostra come sei veramente.
I suoi concerti, be’, quelli sì.
Il genere da lui utilizzato?
Be’, è davvero essenziale classificare Samuele? No, direi di
no.
Lui è lui e voleva soltanto vivere di musica.
Samuele aveva dei sogni nel cassetto, avrebbe voluto
scambiare due chiacchiere con coloro che da sempre lo avevano ispirato.
Magari collaborare, perché no?
Sapeva di essere abbastanza determinato e devoto alla musica
da poter aspirare a tanto.
Samuele era pazzo.
Quando saliva sul palco si scatenava, portava fuori tutta la
sua personalità e – in primis – si divertiva un sacco. Ballava come un ossesso
e si esibiva in linee vocali e in testi che forse la maggior parte della
massive non riusciva a comprendere, ma che lui comprendeva eccome. Erano lo
specchio della sua anima, del suo credo, del suo pensiero.
Samuele voleva pace e serenità, voleva amore.
Lui era fatto così: a volte poteva sembrare un ragazzo
superficiale, ma era tutt’altro. La vita ci insegna che le apparenze ingannano
chi non ha un grande cuore per accogliere tutto ciò che c’è dietro a dei
vestiti o a delle acconciature.
E Samuele era sempre e comunque se stesso, stava poi agli
altri comprenderlo. A lui non importava essere amato, a lui importava
trasmettere.
Trasmettere qualsiasi cosa traendone giovamento e
divertendosi, mettendosi alla prova e in discussione in ogni occasioni.
Samuele era sensibile, di una sensibilità fuori dal comune
che non faticava a mostrare. Traspariva dai suoi testi e si riversava sul
pubblico, mandandolo in disibilio.
Nei rapporti umani era la gentilezza e la disponibilità
fatte a persona, riusciva sempre a regalare un sorriso a chi lo circondava e a
coinvolgere più gente di quanta si aspettasse nella lotta che portava avanti.
Incitava a pensare con la propria testa, a godersi la vita
sempre e comunque, senza pensare troppo ai problemi che ci troviamo di fronte.
Incitava a vivere con amore, amando noi stessi e il prossimo, senza obbligare
nessuno a seguire il suo credo.
Lui era così, rispettava gli altri e non parlava con
assolutismo. Per Samuele non era tutto bianco o tutto nero, no affatto.
Samuele non aveva pregiudizi, non discriminava le persone e
veniva profondamente turbato quando si scontrava con realtà diverse dalle sue,
persone che vivevano una condizioni meno agiata della sua.
Era comprensivo, capiva la sofferenza e il disagio altrui.
La sua empatia riusciva a far sì che avesse tante persone che lo stimavano e
rispettavano, sia tra i suoi colleghi che all’interno della massive.
Vedeva attorno a sé tante persone che avrebbe voluto
aiutare, ma sapeva che da solo avrebbe fatto ben poco. Eppure, lo faceva. Ci
metteva tutto se stesso e aiutava chi poteva, chi riusciva e anche qualcosa in
più.
Era intelligente, Samuele.
Forse non era la perfezione, certo che non lo era, nessuno
lo è.
A volte si arrabbiava per cose futili, si innervosiva
all’inverosimile di fronte alle ingiustizie e non riusciva a calmarsi finché
non elaborava qualcosa che potesse risolvere la situazione. Non sempre ciò
risultava possibile, spesso doveva arrendersi alla realtà dei fatto, alla
consapevolezza di essere impotente al cospetto di tutto ciò che di marcio c’è
al mondo.
Allora diveniva triste, malinconico e voleva stare da solo.
Si chiudeva in se stesso, non accettava che qualcuno entrasse nel suo spazio
personale e diveniva taciturno e introverso.
Rispondeva sgarbatamente a chi tentava di invadere se stesso
e i suoi cupi pensieri, poi si pentiva. Sapeva che non era giusto, lo sapeva
bene e allora arrivava quel momento, il momento di chiedere scusa.
Samuele non cercava di giustificarsi, prendeva tutto con il
beneficio del dubbio, poneva spesso se stesso in errore pur di non offendere o
di non aggravare la situazione.
Non era affatto misantropo, ecco perché non aveva grossi
problemi a chiedere venia.
Però, quando gli altri sbagliavano e lui era sicuro di
essere nel giusto, cercava di convincerli in tutti i modi di ciò in cui era
fermamente convinto.
Discuteva, parlava, si confrontava e sfociava addirittura
nel litigio quando in ballo c’erano le sue idee e i suoi principi morali.
Non temeva il confronto, ascoltava il prossimo e lo
rispettava, però non sempre lo condivideva e allora portava avanti le sue
opinioni senza vergogna, polemizzando forse un po’ troppo, a volte.
Tuttavia, la sua umiltà lo portava a non darsi delle arie da
sbruffone e a pentirsi, nel caso in cui avesse capito di aver commesso un
errore.
Si immedesimava nell’altro, cercava di comprendere perché
facesse determinate cose o come potesse sentirsi nel farle.
Samuele era sempre e solo Samuele.
Questo lo appresi, quel giorno.
Il giorno in cui giunsi al concerto, a quel concerto e lo
sentii cantare, lo vidi esibirsi e poi…
Be’, poi accadde qualcosa, qualcosa che mi fece comprendere
chi era Samuele e che mi cambiò letteralmente la vita.
“Samu, svegliati, ma insomma!
Sembri un deficiente!”
“Ma si può sapere cosa cazzo…?”
“Ti prendo a ceffoni, hai capito? Modera i termini!”
In quell’esatto istante mi resi conto che a parlarmi era mia
madre e sbiancai.
“Ehm, mamma… scusami, io… sognavo e…”
“Disgraziato! A che ora sei rientrato ieri?!” sbraitò,
trascinandomi giù dal divano.
“Mamma, un attimo! Ehi!”
Caterina, mia sorella minore, si stagliava nella soglia
della cucina e se la rideva, osservando quella scena che si ripeteva spesso e
volentieri la domenica mattina (ehm, pomeriggio).
“Ma quale attimo e attimo, scansafatiche che non sei altro!”
“Oh, mamma, siete una comica” proruppe Caterina, cercando di
guardarsi allo specchio che stava appeso all’ingresso.
“Zitta tu!” esclamai, quando mia madre mi lasciò andare.
“Insomma, venite o no a pranzo?” sentii domandare dalla
cucina.
Era stata mia sorella maggiore a parlare. Si chiamava
Alessia e aveva otto anni in più di me.
Mia madre sospirò e la raggiunse in cucina.
Io fulminai Caterina con lo sguardo e mi diressi verso il
bagno.
Quello era il mio tipico risveglio dopo le serate. La
tortura era appena all’inizio.
***
Cos’era successo la sera precedente?
C’era stato un concerto.
Sì, fin qui potevo arrivarci, mentre pian piano riaprivo gli
occhi e mi stiracchiavo nel mio caldo e accogliente letto.
‘Devastante’, pensai.
Sì, fu quella la prima parola che mi venne in mente, l’unica
cosa che riuscii ad associare a ciò che era accaduto soltanto poche ore prima.
Mi venne in mente un ritmo, come una melodia che però non
riuscii a tradurre in suoni concreti.
Era una melodia che non avevo mai udito prima di quella
sera.
Era qualcosa di strano, emozionante e impalpabile.
Era stato quel ragazzo a cantarla, di questo ero certa al
cento per cento.
Come si chiamava?
Samuel, sì, si chiamava Samuel.
O forse no? Ero confusa.
Ricordai nitidamente tutto, in un unico fulminante istante.
Lui che cantava, che si agitava come un ossesso e sembrava
galleggiare in un’altra dimensione. Perfino a fine concerto rimase così, a
ballare, mentre un dj selezionava brani che la folla ballava.
Ma quello che si agitava più di tutti era lui.
“Mia, alzati, è arrivata nonna!” gridò mia sorella,
strappandomi a quei ricordi.
“Sì, arrivo…” Sbadigliai,
mettendomi a sedere.
La mia camera era sempre la stessa, la casa idem.
Forse, quella che era realmente cambiata ero essenzialmente
io.
***
Samuele ci raggiunse in cucina e io gli sorrisi, felice.
La sera precedente ero andata a vederlo cantare ed era stata
– come al solito – una gioia per il cuore e per le orecchie.
Mio fratello era così, emozionava e basta.
Mia madre era incazzata, come al solito. Non vedeva di buon
grado il fatto che suo figlio rientrasse sempre più spesso ad orari
improponibili per lei.
Avrebbe preferito che Samuele avesse un impiego normale, un
lavoro che gli garantisse degli orari più regolari e tutto il resto.
Mia madre era una tradizionalista, non c’era niente da fare.
Mio padre, invece, non aveva semplicemente niente da dire. Tra
lui e Samuele le cose non funzionavano, perciò fingeva che ogni cosa
riguardante il figlio gli fosse indifferente.
Caterina era un po’ come lui ma io riuscivo a comprenderla:
era un’adolescente forse un po’ troppo viziata, con gusti musicali diversi e
ristretti. Aveva assistito raramente agli spettacoli di nostro fratello e
riteneva quella musica “una palla da fenomeni da baraccone”.
Per non parlare poi dell’acconciatura leonina di Samuele che
aveva destato imprecazioni e discussioni tendenti al tragico per almeno un
mese.
Ma, si sa, prima o poi ci si rassegna a certe cose, mentre
ad altre no.
Dal canto mio, mi divertivo a stuzzicare i miei famigliari,
raccontando con entusiasmo dei concerti di Samuele.
“Ah, dovevate esserci ieri sera, è stato stupendo!” esordii,
versando della pasta nel piatto di mia madre.
“Per carità!” sibilò quella, scuotendo il capo. “Mi sarebbe
venuto mal di testa!”
“Ehm… mamma ha ragione!” esclamò
Caterina, rimirandosi in uno specchietto da borsetta che portava sempre con sé.
“Ma cosa ne capirai tu” la punzecchiai, strappandole l’oggetto
dalle mani.
“Stronza, ridammelo
immediatamente!”
Samuele scoppiò a ridere, strizzandomi l’occhio.
“Caterina, non usare questi termini” ordinò mio padre,
intervenendo per la prima volta.
“Ma…”
“Dimmi, Cati, sei andata in disco
ieri?” ironizzò Samuele, ficcandosi in bocca una forchettata di penne al
pomodoro.
“Sì, perché? Sei invidioso?”
“Di te? No, grazie!”
Eccola, la mia famiglia.
Quella era la tipica atmosfera post-concerto-di-Samuele,
sempre la stessa.
E io l’adoravo così com’era, imperfetta e solo nostra.
***
Sì, che palle!
Mia mi aveva trascinato per l’ennesima volta ad uno di quei
concerti di musica schifosa.
Cantavano di religione, di dio, di tutte queste stronzate.
Io stavo desiderando un bel concertine black
metal con i controcazzi!
Meno male che a Mia piaceva tutta la musica, almeno sarebbe
stata felice di accompagnarmi a sentire qualche gruppo che veramente mi
interessava.
Si era incantata fissare un caprone con capelli
attorcigliati, rasta.
“Si chiamano dread!” mi correggeva
spesso.
Chi se ne frega, sempre facevano schifo! Possibile che
quella ragazza potesse apprezzare quegli orrori?
Mentre pulivo la mia camera, ascoltai in ordine sparso
canzoni di vari gruppi metal che amavo e mi sentii subito meglio.
Bastava dimenticare quel concerto e pensare al futuro.
Mia, comunque, era matta da legare.
***
Dopo pranzo, mi rintanai in camera mia e mi stesi sul letto.
Dormire sul divano mi dava sempre la sensazione di non
riposare a dovere. Il problema era che, quando rientravo dopo aver cantato o
suonato, non riuscivo mai a trovare le forze per salire le scale e mettermi a
letto.
Rientravo a casa sfinito ma soddisfatto.
Era soltanto mia madre, la mattina seguente, a rovinare il
mio ottimo umore.
Allora mi ripromettevo di salire in camera la prossima
volta, in modo che lei non avesse l’occasione di riprendermi ma ogni volta era
sempre la stessa storia.
In quel momento ricordai qualcosa che era successo, qualcosa
a cui momentaneamente non avevo dato importanza.
Dopo il concerto diverse persone avevano chiesto di poter
fare una foto con me e io ero stato felice di accontentare tutti.
Nel frattempo, ballavo e mi muovevo a tempo di musica,
lasciandomi trascinare dal ritmo incalzante del basso che mi penetrava nell’anima.
Quando il mio amico Stefano selezionò il featuring
tra Damian Marley e Skrillex,
venne il turno di una ragazza.
Mi aspettava sotto il palco una sua amica, una tipa strana e
completamente vestita e truccata di nero e – non appena riuscì ad intercettare il
mio sguardo – mi fece cenno di avvicinarmi.
La sua amica, non appena mi avviai verso di loro,
indietreggiò di qualche passo.
“Ciao, possiamo fare una foto?” domandò la ragazza,
sorridendomi.
“Certo, volentieri” acconsentii.
“Ehm, Je? Potresti farci la foto?”
gridò la ragazza alla sua amica.
Quella sbuffò e afferrò la macchina fotografica.
Quella ragazza così cupa mi incuriosì. Aveva due occhi verdi
splendenti, i capelli mossi e un’espressione imbronciata.
Era bella e gli occhiali la rendevano ancora più
affascinante.
La ragazza che mi aveva chiesto di fare la foto si mise in
posa, posandomi timidamente una mano sulla spalla.
“Dai, sorridete” disse la sua amica, senza entusiasmo.
La ragazza che mi stava accanto sorrise e io feci lo stesso,
senza distogliere lo sguardo dalla fotografa improvvisata.
Lei scattò, il flash mi abbaccinò
per un attimo la visuale.
“Un’altra!” disse la mia ‘fan’, avvicinandosi un poco a me.
La dark scattò ancora.
“Grazie.”
“Di niente” risposi.
“Sei stato bravissimo, davvero!”
Sorrisi imbarazzato, non sapendo cosa dire. Ero poco
abituato a quel tipo di complimenti, perciò non sapevo quasi mai come
comportarmi.
Salutai le due ragazze e le guardai allontanarsi.
“Samuel!” gridò Stefano nel microfono.
Allora mi voltai e raggiunsi il mio amico.nizio. era appena all'glio dopo le serate. i
verso il bagno.
se la rideva,
osservando quella scena che si ripeteva spesso e vol
Io che cammino e nelle cuffie una canzone, una melodia
reggae, dolce, travolgente.
E quella voce.
Non riuscivo a togliermi dalla testa quel concerto.
Il tempo era trascorso e io avevo ricercato freneticamente
su internet tutte le canzoni di Samuel.
Avevo scaricato tutto ciò che ero riuscita a scovare,
collaborazioni e featuring compresi.
Lo ascoltavo e riascoltavo, domandandomi come potesse essere
così bravo, così emozionante.
Nel frattempo avevo scoperto che:
a.Aveva una
ragazza;
b.Abitava
in un paese non tanto distante dal mio;
c.Alt… torniamo al punto a: AVEVA LA RAGAZZA!
Questa notizia la supponevo, in realtà.
L’avevo carpita casualmente sul suo profilo di facebook, dal momento che avevo cominciato a “pedinarlo”,
aggiungendolo agli amici e seguendo ogni singolo aggiornamento.
Patologica, direte.
In effetti sì, lo ero e me ne rendevo perfettamenteconto.
Ma cosa potevo fare altrimenti? Era la prima volta che avevo
la possibilità di comunicare con un artista che amavo – sì, perché ormai lo
amavo! – e non riuscivo a tornare con i piedi per terra.
La sua allegria mi aveva contagiato e mi trascinava ogni
giorno, rendendomi più ottimista e serena che mai.
E poi, quant’era romantico, dannazione!
Canzoni d’amore, per una ragazza, per Dio, per tutto ciò che
amava.
Samuel era amore.
Tornando alla suddetta ragazza: supponevo ce l’avesse, dal
momento che su facebook appunto appariva “impegnato”
con una tizia dal nome strano.
Non mi ero tuttavia presa la briga di sbirciare tra le foto
di lei, non me l’ero sentita.
Ero folle, ecco cos’ero.
***
Julieta mi faceva girare la testa.
Bella, magnifico sorriso, occhi da gatta.
Spiritosa, estroversa e divertente, aveva sempre la battuta
pronta.
E poi sexy, sexy in maniera irrimediabile.
Uscii di casa e mi diressi all’appuntamento con lei,
saltando in sella alla mia bici.
Ero eccitato all’idea di rivederla.
Stavamo insieme da un po’ e credevo di essere arrivato al
punto di poter affermare che l’innamoramento era in corso.
Di norma, non ero una persona avventata. Quando stavo
insieme ad una ragazza, riflettevo bene prima di dirle che l’amavo alla follia.
E, effettivamente, non lo avevo mai detto a nessuna delle
mie ex.
La intravidi in lontananza, rallentando di malavoglia.
Ogni volta che salivo sulla bici, l’adrenalina si
impossessava di me e non volevo altro se non continuare a cavalcarla, mentre il
vento mi sferzava il viso e i dread svolazzavano
liberi e…
“Samu!” sentii gridare e fui
immediatamente strappato alle mie forti emozioni.
Julieta si era fermata in mezzo al
vialetto che stavo percorrendo e ci mancò veramente poco che non la prendessi
in pieno.
“Julieta, ma che fai?” gridai a
mia volta, frenando con tutte le forze che avevo in corpo.
All’improvviso, lei balzò di lato e scoppiò a ridere,
rovesciando la testa all’indietro.
“Non farlo mai più, chiaro?” la rimproverai, lasciando la
bici sul ciglio della strada.
Julieta smise di ridere e mi
guardò, mentre sul suo bel viso si dipingeva un delizioso broncio. “Okay, però
calmati.”
“Juli, su, non prendertela. Mi
sono spaventato” borbottai, scompigliandole i capelli.
“Perdonami, piccoletto” mi schernì, lasciandosi nuovamente
scappare un sorriso.
La abbracciai e baciai quelle labbra rosee che tanto mi
mandavano in fiamme.
***
Quando Samuele mi baciava, bruciavo dentro e sapevo che
anche per lui era lo stesso.
Era una sensazione stranissima, da urlo.
Era come essere all’Inferno e, allo stesso tempo, in
Paradiso.
Samuele era il mio Eden, rappresentava il mio peccato e la
mia perdizione.
Mentre mi mangiava di baci, gli strinsi tra le dita un dreadlock e lo tirai, facendolo sussultare.
“Ahi!”
“Sta’ zitto, piccoletto. Questi saranno miei molto presto” lo
minacciai.
“Hai intenzione di tagliarmeli mentre dormo?” chiese, impaurito.
“Diciamo che ho in mente una sorpresa per te” proclamai,
enigmatica, allontanandomi da lui.
“Vieni qui, dove scappi?” Mi afferrò per il polso,
trattenendomi.
Samuele mi conosceva e ormai non si stupiva più di quegli
improvvisi cambi di rotta.
“E cosa?” domandò, sedendosi per terra, sul prato che stava
alle nostre spalle.
Lo raggiunsi e mi sedetti, incrociando le gambe, di fronte a
lui. “Quello che vuoi.”
E quando Samuele cominciò ad intonare la canzone che aveva
scritto pensando a me, chiusi gli occhi e capii di amarlo.
Ma non glielo dissi.
***
Mentre facevo una piccola pausa dal alvoro,
squillò il mio cellulare.
Lo afferrai distrattamente, rimescolando il caffè che stavo
per sorseggiare.
Si trattava di Martina, mia cugina.
Quella matta!
“Ciao Marti, dimmi!” esordii, mentre salutavo con un cenno
del capo una mia collega che stava per andarsene.
“Ciao bella, come stai? Sei a lavoro?”
“Sì, ma sto prendendo un caffè.”
“Wow, ti ho beccato nel momento giusto allora! Ho una
notizia da darti.”
“Sentiamo.”
“Il prossimo venerdì andiamo in discoteca!”
Per poco il bicchiere di plastica che tenevo in mano non mi
cadde a terra.
“COSA?”
***
“Tu sei COMPLETAMENTE fuori di testa, scordatelo! Ti faccio
lo spelling: esse, ci, o…”
“Smettila subito, non c’è bisogno! Non sono stupida.”
“A me invece pare di sì” commentai, trucidando Mia con lo
sguardo.
Se credeva di potermi coinvolgere in un’altra delle sue
stronzate, si sbagliava di grosso.
“Dai, ti prego! Mica posso andarci da sola!”
“Non è un problema mio, capisci? Quel giorno sono già
impegnata, tra l’altro” precisai, non tanto per giustificarmi, bensì per
chiarire meglio il mio diniego.
“E che devi fare?” domandò lei, scocciata.
“Te lo stavo per dire e ti stavo per chiedere di venire con
me ma vedo che non sei interessata.”
“Venire con te dove?”
“Concerto. Qua in paese suona una cover band dei Satyricon, non vedo l’ora di sentirli!” esclamai,
soddisfatta.
“Una…una…
no, non puoi dirmi questo!” piagnucolò Mia, scuotendo il capo.
“Allora vieni con me e lascia perdere quell’altra schifezza
di serata in discoteca.”
“Ma non posso! E poi non è la classica serata in discoteca,
lo sai bene che altrimenti non ci metterei piede” precisò, annuendo
vigorosamente.
“Ma sempre in discoteca è.”
“Je, ti prego! Accompagnami.”
“Ma ti pare che rinuncio ad un concerto per andare a
rompermi le palle lì con te? No, tu sei matta. E poi non ci andrei comunque, mi
sono stancata.” Sospirai.
Fortunatamente, Mia desistette e mise il broncio. “Fai come vuoi”
borbottò.
“Non fare così. Del resto, ognuna di noi andrà dove
preferisce, no? Chiedi a tua sorella di venire con te, ne sarà felice.”
“Sì, ma… mi dispiace perdermi la
cover band dei Satyricon, cazzo.”
“Affari tuoi! Ma sei sempre in tempo per cambiare idea, io
me li godrò anche da parte tua!” la punzecchiai, sorridendo.
Mia scrollò le spalle. “Me ne farò una ragione.”
Continuammo a camminare, chiacchierando del più e del meno.
Mi aspettava una serata senza eguali, non avevo mai
assistito ad un concerto simile ed ero elettrizzata.
In genere mi ero trovata a sentire gruppi locali ed
emergenti che portavano avanti pezzi inediti, ma i Satyricon
li conoscevo bene e mi sarei divertita un sacco.
A costo di andarci da sola, non mi sarei persa il concerto black metal che tanto aspettavo.
Il destino, evidentemente, era dalla mia parte.
***
La catastrofe del secolo: Alessia che mi grida contro,
costringendomi ad allontanare il cellulare dall’orecchio per evitare di perdere
l’udito.
Non mi aveva neanche dato il tempo di spiegarle come stavano
le cose.
Quando ebbe finito di sfogarsi, mi schiarii la voce. “Posso
parlare adesso, sì?”
Lei grugnì e farfugliò qualcosa che interpretai come un via
libera.
“Bene. Dicevo, un collega di tuo fratello mi ha invitato su facebook a quest’evento e, sai, pensavo potesse farti
piacere andare a sentire Samu” dissi con calma.
“Samu suona in discoteca?”
“Sì, a quanto pare.”
“Non ne sapevo niente” borbottò.
“Me l’aspettavo, ecco perché ti ho chiamato” puntualizzai.
Alessia sospirò. “Scusami, Marti. Ieri ho discusso con
Roberto e sono nervosa. Ma certo che andiamo a sentire Samu.”
“Ah, meno male! Pensavo che…aspetta… che è successo con Roberto?” chiesi, allarmata.
“Niente, il solito. Non mi va di parlarne.”
“Ricevuto. Se hai bisogno, non esitare a telefonarmi. Adesso
ti lascio lavorare.”
“Grazie Marti, okay, ciao.”
Riattaccai.
Rettifico.
Catastrofe del secolo: Alessia e il suo ragazzo, Roberto.
***
Ero giunta ad una conclusione: non avrei rinunciato a
rivedere Samuel per colpa di Jessica.
Che se ne andasse pure a vedere il surrogato dei Satyricon, a me non interessava affatto.
Non fraintendiamoci: i Satyricon
rappresentavano quella piccola frazione di black
metal che apprezzavo; tuttavia, volevo rivedere Samuel.
Irruppi in camera di mia sorella, annunciandomi con un: “Devo
dirti una cosa importante!”
Sara, allibita, mi lanciò un’occhiata interrogativa.
“C’è un concerto di Samuel, venerdì prossimo.”
Sara balzò in piedi. “Davvero?” E si mise a strillare.
“Sì, sì, tutto vero. Ci andiamo insieme?”
“CERTO!” urlò, gettandomi le braccia al collo.
Poi allentò la presa, rabbuiandosi di botto.
“Che c’è?”
“Pensi che mamma e papà mi lasceranno venire da sola con te?
Ho solo tredici anni e…”
“Non ti preoccupare” tagliai corto.
Detto questo, uscii dalla sua stanza, soddisfatta.
Ora rimaneva soltanto una cosa da fare: cominciare con il
conto alla rovescia.
Pantaloni neri aderenti, maglia di Bob Marley (immancabile),
giacca.
Niente trucco.
Jessica non mi avrebbe accompagnato, pazienza. Sarei andata
con mia sorella Sara.
Tredici anni, più alta di me e completamente innamorata di
Samuel.
Se l’era presa a morte con me quando ero andata a vederlo
con Jessica, la prima volta.
Stavolta potevo accontentare anche lei.
Eravamo cariche e non vedevamo l’ora di andare a divertirci.
Fantastico, meraviglioso!
L’unica cosa era l’ambiente: una discoteca.
Non mi allettava granché l’idea di metterci piede, ma la
motivazione giustificava qualsiasi altra cosa.
“Mia, andiamo?” gridò Sara, saltellandomi accanto mentre mi
spruzzavo il profumo sui polsi.
“Sì ma non strillare!” la redarguii, infilandomi il
giubbotto.
Era giunto il momento.
Afferrai le chiavi della macchina e salutai i miei genitori.
“Fate attenzione” disse mia madre.
“Ce la caveremo” la rassicurai, sorridendo.
Sara ancora urlava, incitandomi a darmi una mossa.
Quando salii in macchina, cominciammo a discutere.
“Sei una rottura di scatole, ti vuoi dare una calmata?”
“È già tardi e io voglio essere puntuale!”
“Non ci perderemo certo l’inizio, conoscendo il tipo di evento…”
“Non mi interessa. Ogni volta facciamo tardi.”
“Ma stai zitta, sei la prima ad essere sempre in ritardo,
Sara! Per una volta che mi preparo con calma, devi rompere? Lasciami in pace!”
“Sì, sì… come no.”
Non le risposi, stringendo il volante tra le mani. Mi faceva
saltare i nervi e già mi stavo pentendo di averla portata con me.
***
“Ehi piccoletto!”
Saltai al collo di Samuele, stringendolo forte a me.
“Julieta” mormorò lui, cercando
immediatamente le mie labbra.
Sentii dei fischi intorno a noi. Gli amici di Samuele ci
stavano prendendo per il culo, come al solito, chiamandoci ‘fidanzatini’,
‘coppietta sdolcinata’, ‘piccioncini in calore’ e altre stronzate che avevo
imparato ad accettare e a riderci su. Erano simpatici.
“Samuel, prendetevi una camera!” gridò Francesco.
Io sorrisi tra me e me e intensificai quel bacio,
avvinghiandomi il più possibile al mio ragazzo. Mi piaceva provocare i suoi
colleghi e – ancor più – amavo provocare lui, facendolo sentire in imbarazzo di
fronte a loro.
Mi divertivo troppo!
Intanto, le vibrazioni del basso di un riddim
si diffusero nel locale, scuotendomi fino in fondo nell’anima.
Spinta dal richiamo della musica, presi a muovermi
lentamente contro il corpo del mio ragazzo, affondando le dita tra i suoi
capelli.
“Juli…Julieta”
ansimò, stringendomi per i fianchi.
Ridacchiai. “Ora basta” decisi, scostandomi bruscamente da
lui.
Samuele sgranò gli occhi. “Cosa…?”
“Devi ancora cantare, piccoletto. Dopo avrai la tua
ricompensa” dissi, maliziosa, pregustando il momento in cui l’avrei fatto
impazzire.
Ero euforica.
Mi leccai le labbra e mi allontanai, dirigendomi verso le
mie amiche, mentre lasciavo che lui mi guardasse ancheggiare al ritmo di
musica.
Sapevo quale potere avevo su di lui, non potevo ignorarlo.
Ero felice: Samuele era sempre più mio.
***
Quella ragazza non mi piaceva affatto.
Mentre rideva e strillava come un’oca insieme alle sue
amiche che la seguivano ovunque senza battere ciglio, mi domandavo pigramente
come mio fratello potesse starle ancora dietro.
Martina mi raggiunse e mi porse una lattina di birra.
“Non è un po’ presto?” domandai, pentendomi di averle dato
il via libera con le ordinazioni.
“Bevi e taci!” ordinò, aprendo la sua lattina.
Scossi il capo e tornai a dare un’occhiata a Julieta.
“Stai ancora rimuginando su quella sgualdrina?” domandò
Martina, seguendo il mio sguardo.
“Non riesco a capire Samuele, ci credi?”
“Certo che ci credo. Ma che vuoi farci? Tuo fratello è un
uomo e, come tale, ha i suoi bisogni. Mica poteva scegliersi una suora!”
“E questo cosa c’entra?”
Martina sorseggiò il liquido ghiacciato.
“Alessia, non fare la santarellina con me. Sappiamo entrambe
di cosa sto parlando.”
“Per questo poteva scegliere una brava ragazza, chi gli
impedisce di soddisfare i suoi bisogni con una ragazza più…
seria?”
Mia cugina rise.
“Più seria? Qui, mia cara, stiamo parlando di sesso! La serietà
è un’altra cosa!”
“Okay, okay, piantala! Cambiamo discorso!”
Martina era fatta così: sboccata, senza peli sulla lingua e,
se possibile, anche più esplicita di quanto io potessi tollerare.
Decisi di andare a salutare Samuele e lo comunicai a mia
cugina, la quale decise di rimanere a controllare Julieta
e il suo gruppetto di amiche.
“D’accordo, ci vediamo tra poco.”
Mi aggirai per il locale alla ricerca di mio fratello,
notando che in giro era pieno di gente e che molte persone stavano arrivando a
riempire la sala. Era incredibile come anche i bambini e ragazzi molto giovani
partecipassero attivamente a tutto ciò che riguardava la discoteca. Non
riuscivo a comprendere come i loro genitori potessero permetterlo.
Mi avvicinai al palco e raggiunsi il retro, individuando un
amico di mio fratello, Francesco.
“Ciao Francesco.”
“Alessia!” Mi baciò su entrambe le guance, poi mi sorrise.
Sospettavo che avesse un debole per me ma avevo sempre
evitato di dargli qualsiasi tipo di speranza.
“Hai visto Samu?”
“Sì, è uscito con Karol a fumare” rispose, indicandomi una
porta d’emergenza alle sue spalle.
Annuii e mi avviai in quella direzione, lasciandolo lì.
Francesco, come previsto, mi seguì.
“Come stai?”
“Bene, grazie. Tu?”
“Sto bene. Ma, Ale, senti…”
“Sì?” Mi fermai, sperando che si decidesse a lasciarmi in
pace.
“Ho saputo che hai litigato con Marco e…”
“Come, scusa?” sbottai, voltandomi a fissarlo.
“Ecco… me lo ha detto Samuel, sai… ma non dirgli che…cioè…”
“Okay, calmati. E cosa vorresti dirmi a proposito?” tagliai
corto, irritata da quell’intromissione e dall’indiscrezione di mio fratello.
“Volevo chiederti… dopo, se ti va,
ci facciamo un giro?”
Sicuramente sbiancai, poiché Francesco fece un passo
indietro, spaventato dalla mia espressione.
“Bello scherzo, già. Ehm, scusa ma ora devo andare da mio fratello… ehm, ciao Francesco e stammi bene!” mi affrettai
a dire, fuggendo in direzione della porta.
Piombai all’esterno e Samuele smise immediatamente di
ridere, notando il mio turbamento.
“Io ti ammazzo!” sibilai.
***
Era una di quelle serate in cui non vedevo l’ora che la fine
giungesse.
Julieta mi aveva provocato a
dovere e ora cercavo di rilassarmi con un po’ di marijuana, nonostante provassi
ancora l’istinto di cercarla tra la folla, strapparla alle sue amiche e trovare
un posto per stare da solo con lei.
Lo aveva fatto apposta ed era riuscita a scombussolarmi.
Tutti quei pensieri svanirono nell’esatto istante in cui
Alessia mi si gettò addosso, incazzata come una iena.
“Ehi, ma che ho fatto stavolta? Ciao anche a te sorellina!”
ironizzai, indietreggiando.
Carlo – o Karol, come ormai eravamo abituati a chiamarlo –
scoppiò a ridere.
“Perché cazzo hai detto a Francesco che io e Marco abbiamo
litigato?”
“Eh? Ah… ehi, aspetta, io non gli
ho detto…”
“NON FINGERE CON ME!” strillò.
Carlo comprese che la situazione non era delle migliori e
rientrò, lasciandoci soli.
Intorno a noi c’erano altre persone che fumavano e
chiacchieravano, come se non si fossero accorti di ciò che stava accadendo.
“Non sto dicendo cazzate, Ale, è
la verità! È lui che è un bastardo, dai, lo conosci. Mi ha fatto domande a
raffica e mi ha intrippato il cervello, sai, come fa lui… gli avrò risposto senza nemmeno accorgermene!”
“Quel ragazzo è incredibile! Quando si metterà in testa che
tra me e lui non potrà mai esserci niente?”
Mi strinsi nelle spalle.
“Cosa vuoi che ti dica? È fatto così.”
Alessia sospirò.
“Comunque, ero venuta a cercarti per augurarti buona
fortuna, poi ho visto lui e…”
Mi sciolsi in un sorriso, rilassandomi.
“Sei così dolce, sorellina. Marti c’è?”
“Sì ma ha deciso di dare la caccia alle oche, oggi” ironizzò
Alessia.
“Caccia alle oc… ehi, piantatela
tutte e due con questa storia!”
“Be’, Samu, se la tua ragazza è
un’oca, cosa posso fare io per cambiarla?”
Detto questo, mia sorella mi strizzò l’occhio e tornò
dentro, lasciandomi lì a scuotere il capo.
Potevano dire ciò che gli pareva: non avrei lasciato Julieta a causa dei loro pregiudizi, mai.
***
“Ma dov’è Samuel?” bisbigliai, afferrando mia sorella per un
braccio.
“E che ne so, in giro non si vede!” esclamò Mia, guardandosi
ancora una volta intorno.
Quello sarebbe stato il mio primo concerto ed ero in
fibrillazione.
Non capitava a tutti i ragazzini di tredici anni di vivere
una cosa del genere, era pazzesco!
Ero così felice che avevo dimenticato i pensieri negativi su
Joele, il ragazzo che mi piaceva.
Non mi importava, ora.
Volevo soltanto incontrare Samuel!
La sua musica mi aveva stregato e ora non riuscivo più a
togliermela dalla testa.
E, poi, volevo fare la foto con lui, questo era un obiettivo
che dovevo raggiungere!
“Eccolo!” strillò improvvisamente Mia.
“Dove? Dove? Dove?”
“Lì, sta salendo sul palco con Karol!”
“Oh, sì, c’è anche Karol! Wow, che bello, che bello, voglio
la foto anche con lui!” esultai.
“Vedremo, vedremo!”
Individuai un altro ragazzo e per poco non saltai in aria
dalla gioia.
“Mia, Mia! C’è anche Francisco!”
Mia sorrise e seguì il mio sguardo. “Ah, quant’è figo!”
Esultando, trascinai mia sorella un po’ più vicino al palco.
Non volevo perdermi la prima fila, non potevo assolutamente!
***
Mentre aspettavo che Alessia tornasse da me, decisi di fare
una missione e indagare un po’ sui piani delle oche.
Mi avvicinai al gruppetto, stampandomi in faccia un sorriso
falso e che comunque loro non sarebbero state in grado di interpretare.
“Ciao, care!” esordii.
Julieta si voltò e mi riconobbe.
Scese dallo sgabello e mi si avvicinò, baciandomi sulle guance.
“Ciao Marti, tesoro! Come stai? Sono felice che tu sia
venuta. Ho visto Ale prima ma non ho avuto modo di
salutarla” disse.
Era insieme a qualche altra ragazza che conoscevo di vista,
così mi limitai a salutare tutte con un sorriso e un cenno del capo.
“Già, è andata a cercare Samu”
dissi, entrando subito nell’argomento che mi interessava.
“Il mio piccoletto si sta preparando per il live, spero sia
riuscita a beccarlo.”
“E tu che programmi hai?” indagai, ignorando deliberatamente
le sue amichette.
“Be’, io sto qui con loro” rispose, indicandole. “Poi penso
che starò con Samuele, più tardi.”
“Ah… te lo chiedevo perché, sai…”
Mi era appena venuta un’idea per evitare che lei
trascorresse quella serata con mio cugino. Ero determinata quel giorno, avevo
deciso di divertirmi.
“Perché?”
“Volevo andare in un locale dopo. Prima mi ha chiamato una
mia amica, invitandomi a bere qualcosa con lei e degli altri amici. Sai com’è
Alessia, lei non verrà e così ho pensato a te.” Sorrisi ancora, sicura di
riuscire a convincerla.
“Sei gentile, ma… non vorrei che Samuele…be’, potrebbe venire con
noi, no?”
Feci spallucce.
“Potrebbe, ma dubito che accetterà, sai che dopo i concerti
festeggia con Francisco e gli altri.”
“Già. Ma sì, dai, non credo se la prenderà!” esclamò.
“Perfetto. Le tue amiche vengono con noi?”
“Se ti fa piacere…”
“Ma certo che mi fa piacere! Allora ci vediamo quando
finisce il concerto, okay? Torno da Ale.”
“A dopo Marti e grazie!”
Che stupida. Alessia mi avrebbe ringraziato in eterno.
Notai che mi cercava con gli occhi e la raggiunsi.
“Prima o poi mi faranno santa” dissi.
“Perché?”
Sorrisi, maliziosa.
“Più tardi mi porto via l’oca giuliva.”
“Davvero?!”
***
Il mio cellulare mi avvisò dell’arrivo di un messaggio.
Proprio mentre lo afferravo, Francesco mi gridò che dovevamo
andare, che era tardi e balle varie.
“Aspetta, devo leggere un messaggio.”
“Molla quel fottuto cellulare, Sam, andiamo!”
Obbedii e mi preparai mentalmente.
Francesco aveva ragione: era già tardi.
Sorrisi e mi avviai verso la scaletta in ferro che portava
sul palco.
Ero carico al punto giusto, così cominciai ad incitare la
mia massive fin da subito.
Francesco era fuori di sé dalla gioia, quel giorno avrebbe
presentato il suo nuovo lavoro e non poteva evitare di godersi il calore del
pubblico.
Carlo, intanto, si aggirava per il palco, interagendo con
Stefano (il nostro amico dj) e con i suoi collaboratori.
“Buonasera massive, fatevi sentire, su, su, su, su!” gridai,
lanciando una rapida occhiata a tutta la bella gente che c’era.
Un grido si levò da sotto il palco, caricandomi di
adrenalina.
Intravidi mia sorella in lontananza. Lei era fatta così: non
amava stare schiacciata in mezzo alla folla, però raramente si perdeva un mio
live, a meno che non avesse impegni lavorativi.
Martina era con lei.
Non vidi Julieta ma non potei
preoccuparmene, dovevo pensare alla mia serata.
“Ehi, ehi, ehi!” intervenne Francesco, scatenando un altro
boato.
“Fate sentire quanto amate Francisco, su, su, su, su,
massive!”
E loro esplosero di nuovo, mentre l’adrenalina e l’emozione
più bella e indescrivibile della mia vita si presentava a scaldarmi l’anima.
Scambiai una rapida occhiata con Francesco e anche in lui
vidi quella luce.
Sapevo che provava le mie stesse identiche sensazioni.
Quando ero sul palco, non mi sentivo mai solo.
Francesco disse qualche parola per presentare il suo nuovo
album, poi fece cenno a Stefano di partire.
Io ero pronto, tutti eravamo pronti.
La musica invase il locale e la gente si animò fin da
subito, mentre Francesco cominciava a cantare.
Io mi occupavo di fare i cori e di ballare come un ossesso,
non riuscendo assolutamente a controllarmi.
Ma sarebbe presto arrivato il mio turno.
***
“Non sembra preoccupato. Avrà letto il mio messaggio?” domandai
a Pamela, mentre osservavo Samuele che si agitava sul palco.
“Non so, ma magari non si è preoccupato perché sa che sei in
buone mani. Saremo insieme e poi c’è Marti con noi, non ti preoccupare.”
“Quella ragazza è davvero simpatica” dissi, sorridendo.
Non sapevo se Pamela mi aveva sentito, la musica era
piuttosto alta. Tuttavia, pensavo davvero che Martina fosse simpatica e gentile
con me.
Da quando stavo con Samuele, era stata la prima ad
accettarmi in famiglia.
Alessia rimaneva più distaccata, mentre Caterina mi odiava e
non poteva negarlo.
Per non parlare dei suoi genitori!
Invece, Martina era sempre stato la più disponibile e
qualche volta eravamo uscite insieme.
Quella sera mi sarei divertita con lei, ne ero certa.
Intanto, guardare il mio ragazzo che ballava e cantava come
se fosse in un’altra dimensione mi faceva rabbrividire dall’emozione.
Mi sembrava di vivere nel momento in cui facevamo l’amore e
lui si perdeva nelle sue sensazioni ed emozioni, divenendo teso e bellissimo.
Scossi il capo e sorrisi.
Nessuno poteva immaginare quanto dannatamente lo amassi.
***
Mi stavo divertendo da morire!
Era incredibile, non potevo credere assolutamente di essere
in prima fila, a pochi metri da Samuel e Francisco!
Amavo Mia, mi stava regalando la serata più bella della mia
vita e le emozioni mi vorticavano in corpo come non era mai accaduto prima.
Samuel era bellissimo, quei dread
lunghissimi gli donavano, lo rendevano particolare e il modo in cui ballava era
coinvolgente, mi impediva di stare ferma.
Guardarlo era una delizia.
“Sara,vado a comprare
una bottiglietta d’acqua, sto morendo di sete!” mi gridò Mia all’orecchio.
“Vengo anche io!”
“No, stai qua, altrimenti non avremo più la prima fila.
Faccio in fretta!”
Mia non mi lasciò il tempo di ribattere e si infilò in mezzo
alla folla, scomparendo alla mia vista.
Samuel richiamò la nostra attenzione, chiedendoci di farci
sentire non appena Francisco finì di cantare una canzone.
Gridai insieme agli altri e mi dimenticai di essere sola.
***
Individuai il bar e mi feci strada tra la gente, senza
preoccuparmi di chiedere il permesso per passare.
La maggior parte di loro era ubriaca o strafatta e non si
curava di qualcuno che la scostava con una spinta o una spallata, proprio come
stavo facendo io.
Dovevo bere qualcosa, riuscivo a malapena a parlare e mi
maledissi per non aver comprato dell’acqua prima che il concerto cominciasse.
Riuscii finalmente a raggiungere il bancone e notai che due
ragazze erano sedute in due sgabelli.
Pensai che fosse strano, poiché tutte le persone si erano
ammassate sotto il palco, impedendo la visuale da quella distanza.
“Cosa desideri?” mi chiese una giovane commessa, dopo avermi
individuato.
“Una bottiglietta d’acqua naturale” dissi, appoggiandomi al
bancone.
“Certo.”
Con la coda dell’occhio, notai che le ragazze parlavano tra
di loro, poi una di loro mi osservò.
Mi voltai un attimo ad osservarla ma il suo viso non mi
parve familiare.
Le sorrisi.
“Ecco a te” disse la cameriera, posando la mia ordinazione
sul ripiano di marmo.
“Grazie. Quanto ti devo?”
“Un euro e cinquanta.”
Alla faccia!
Glieli diedi e feci per avviarmi nuovamente verso il palco.
“Scusa!”
Mi voltai. Una delle due ragazze era scesa dallo sgabello e
mi si era avvicinata.
“Hai dimenticato di prendere il resto” mi disse, tendendomi
una moneta da cinquanta centesimi.
Fissai i soldi, poi guardai lei e le sorrisi.
“Grazie mille, andavo di fretta e non ci ho fatto caso.”
“Immaginavo.”
Presi la moneta e la infilai in tasca.
“Grazie. Allora, io vado, devo tornare da mia sorella.”
“Certo. Ah, non mi sono presentata: io sono Alessia e lei è
mia cugina Martina.”
Alessia, Martina. Potevo ricordarlo.
“Piacere di conoscervi, io sono Mia.”
“Che bel nome!”
Arrossii per il complimento e decisi che era giunto il
momento di essere sfacciata.
“Posso chiedervi come mai non siete tra il pubblico? Non
voglio farmi gli affari vostri, è solo che mi sembra strano trovare qualcuno
qui, insomma, qualcuno che non stia lavorando.” Sorrisi, pentendomi
immediatamente di essermi spinta fino a quel punto.
Martina rise.
“Tranquilla, non è un segreto di stato. Siamo qui perché a
me dà fastidio stare in mezzo a tutta quella gente, sono un po’ claustrofobica”
spiegò Alessia, con estrema gentilezza.
“Già, poi uno dei cantanti è suo fratello e, be’, sai… non abbiamo bisogno di
stare in prima fila, se capisci cosa intendo.”
Cercai di contenermi. Chi era il fratello di Alessia? Oh,
cielo!
“Capisco, in effetti ora si spiega tutto. Sei la sorella di
Francisco?” azzardai, non trovando nei suoi lineamenti una qualche somiglianza
con qualcuno dei ragazzi.
Alessia alzò gli occhi al cielo non appena udì quelle
parole.
“Ti prego, non me lo nominare, quello!” esclamò.
Indietreggiai di un passo, mortificata.
“Scusami, io… ehm, non volevo, mi dispiace…”
“Ale, non la spaventare così,
però! Scusala, Mia, è solo che Francisco oggi l’ha combinata grossa e Alessia
ce l’ha un po’ con lui. Comunque, no, suo fratello è Samuele.”
“Samuele?” feci, cadendo letteralmente dalle nuvole.
Poi compresi e mi diedi mentalmente della stupida.
“Ah, Samuel! Okay, bene, ho capito. Scusate, ma adesso devo
proprio andare, mia sorella di tredici anni è da sola lì in mezzo e…”
“Oddio, scusaci se ti abbiamo trattenuto!” saltò su Alessia.
“Non c’è problema!”
“Se ti va, ripassa di qua dopo, con tua sorella, così me la
presenti” disse Alessia.
“Ah, be’, certo, allora a dopo.”
“Io dopo non ci sarò, perciò piacere di averti conosciuto”
intervenne Martina.
“Piacere mio. Ciao ragazze!”
Mi voltai e tornai sui miei passi, per poi raggiungere Sara
in prima fila.
Chissà cos’avrebbe detto quando le avrei raccontato quello
che era successo!
***
Ero stupendamente felice!
Quel concerto mi stava caricando tantissimo; più il tempo
passava, meno rimpiangevo di non essere andata con Mia a quella stupida serata
in discoteca.
La cover band dei Satyricon era
una bomba!
Non era facile riprodurre i suoni proprio come io li
conoscevo, ma quei ragazzi avevano talento.
Quando suonarono la mia canzone preferita, per poco non mi
lanciai a pogare insieme a quella gabbia di ubriachi
fradici che si spintonava sotto il palco.
A me di loro non interessava, volevo solo godermi la mia
musica.
Erano davvero bravissimi, accidenti!
Finalmente, dopo tanto tempo, ero riuscita a beccare un
concerto decente. Stentavo ancora a crederci e comunque dovevo accettare che
ciò che stavo vivendo era reale.
Sorrisi e mi ritrovai per l’ennesima volta a pensare che Mia
non aveva idea di cosa si stesse perdendo.
***
Non appena il concerto finì, ero sfinito ma estremamente
sereno e in pace con il mondo.
Scesi dal palco di corsa, sperando di trovare la mia Julieta ad attendermi.
Non vedevo l’ora di stare da solo con lei, ne sentivo il
bisogno e tutti gli avvenimenti appena trascorsi non mi avevano fatto
dimenticare il pungente desiderio che lei aveva innescato in me.
Ma Julieta non c’era.
Mi diressi nella stanza che ci era stata adibita a camerino
e non la trovai neanche lì.
Preoccupato, mi ricordai che non avevo letto un messaggio
prima di salire sul palco.
Afferrai il cellulare: era Julieta.
Diceva che purtroppo non sarebbe rimasta con me quella sera,
perché Martina l’aveva pregata di uscire con lei e dei suoi amici, dal momento
che Alessia non era disponibile per accompagnarla.
Cazzo.
Uscii di corsa dalla stanza e aggirai il palco, ma subito
rimasi incastrato in mezzo alla folla che mi aveva riconosciuto e pretendeva
delle foto con me o voleva semplicemente farmi i complimenti.
Dopo essermi intrattenuto fin troppo insieme ai fan, mi
liberai appena in tempo per vedere Julieta e Martina
uscire dal locale.
Dovevo raggiungerle.
“Samu, eccoti finalmente!”
Oh, no, Alessia.
Mi arresi e mi voltai, trovando mia sorella che mi
sorrideva.
La raggiunsi e la presi per le spalle.
“Cos’avete architettato, eh? Mi vuoi dire perché cazzo non
mi lasciate in pace?”
“Oh, calmati e lasciami andare, idiota! Di cosa stai
parlando?”
“Perché Martina ha portato via Julieta?”
“Ah, di questo si tratta! Senti, io non c’entro niente, devi
vedertela con loro.”
“Non dire cazzate.”
“Io non c’entro niente, ti dico! Stavo parlando con te
quando Martina ha proposto a Julieta di uscire,
chiedilo a loro se non mi credi.”
Alzai le mani in segno di resa, scuotendo il capo.
“Scusa, Ale. È solo che odio
quando cercate di allontanarmi da quella ragazza. Quando vi metterete in testa
che la amo?”
“Okay, basta così, messaggio ricevuto. Adesso vieni con me,
ho qualcuno da presentarti.”
“E chi sarebbe, il tuo nuovo ragazzo?”
“Ah-ah, divertente! No, andiamo, seguimi.”
Confuso, presi a camminare dietro a mia sorella.
***
“Okay, quindi praticamente tu mi stai dicendo che adesso
Alessia ci fa conoscere Samuele?” domandò ancora una volta Sara, portandomi
all’esasperazione.
“E basta! Ti ho detto di sì, capito? Ha detto così, sei
sorda? C’eri anche tu di fronte!”
“Okay Mia, è solo che…
ODDIONONCICREDOGUARDACHISTARRIVANDOSTOPERMORIREODDIODDIODDIO!”
“Shh, vuoi stare zitta? Ti sente!
E smettila di agitarti, credi che lui non ti veda? Sara, ti prego, calmati!”
“Non ce la faccio, oddio, sto entrando in iperventilazione,
oddio, oddio, oddio!”
Le mollai un pugno sul braccio, scuotendo il capo.
“Sara, per amor del cielo, datti una calmata, sta arrivando,
stai zitta!”
Finalmente, mia sorella tacque, anche se continuava a
respirare in maniera irregolare e a fissare con occhi sgranati Alessia e suo
fratello che si avviavano verso di noi.
Avevo cercato di tranquillizzare lei ma la verità era che
ero agitata molto più di lei.
Mi resi conto di aver trattenuto il fiato solo quando mi
ritrovai costretta a rispondere al saluto di Samuel.
“Io? Sei stato bravissimo” biscicai,
senza guardarlo.
Mi vergognavo troppo!
***
Osservavo le nuove conoscenze di mia sorella con curiosità,
riconoscendo nella sorella più grande la tizia che mi aveva chiesto di fare una
foto.
L’amica della dark, quella dark che quuel
giorno non c’era.
Peccato.
Le ragazze sembravano simpatiche, anche se la più piccola –
Sara – non riusciva a parlare in maniera chiara.
Possibile che facessi veramente un effetto così devastante a
qualcuno? Ero allibito.
Continuavo a domandarmi perché Julieta
avesse preferito uscire con quella stronza di mia cugina (Martina me l’avrebbe
pagata cara!), cascando nella sua trappola e nei sotterfugi che sicuramente
architettava con Alessia per allontanarmi dalla mia ragazza.
Povere illuse.
“Posso offrirvi qualcosa da bere?” domandò Mia, la sorella
più grande.
“Con piacere, io sto morendo di sete!” dissi.
“Ti sei scatenato come un matto, ci credo” commentò mia
sorella.
Ci avvicinammo al bancone e ordinammo.
“Pago io, dai.”
“No, ho detto che avrei offerto io, non ti preoccupare!” mi
rassicurò la ragazza, senza guardarmi in viso.
Provava anche lei imbarazzo? Come diamine era possibile?
Mi sembrava di essermi appena trasformato in un divo di
Hollywood e la cosa non mi entusiasmava particolarmente.
“Su, ragazze! È solo mio fratello, non siate così timide”
buttò lì Alessia.
Le due si scambiarono un’occhiata perplessa, poi ci
fissarono.
Scoppiammo tutti e quattro a ridere, mentre la tensione pian
piano si allentava.
***
Più il tempo passava, più desideravo tornare dal mio
piccoletto.
Ma chi me l’aveva fatto fare?
Ero uscita con Martina e i suoi amici e mi stavo annoiando a
morte. La maggior parte di loro erano suoi colleghi di lavoro e non facevano
altro che parlare di altri colleghi, faccende da sbrigare e aneddoti aziendali
che mi interessavano ben poco.
Ogni tanto dovevo sforzarmi di trattenere uno sbadiglio,
mentre stavo seduta con le gambe accavallate e il mento appoggiato su una mano.
“Tutto bene Juli, tesoro?” domandò
Martina ad un certo punto, sfiorandomi un braccio.
Annuii.
“Scusami tanto, forse avresti preferito stare con Samu, eh? Ti ho trascinato qui e…”
Mi sentii in colpa per averle dato l’impressione di non aver
apprezzato il suo invito. Quella ragazza era così dolce e simpatica con me,
perché ogni volta dovevo rovinare tutto?
“No, scusami tu, Marti. Va tutto bene, sono solo un po’
stanca” farfugliai, sperando che mi credesse.
“Ti capisco, in effetti è un po’ tardi. Albe, perché non
accompagni Julieta a prendere qualcos’altro da bere?”
disse Martina, rivolgendosi ad un suo amico che – obiettivamente – non era
niente male!
“Certo.”
Il tipo si alzò e io lo seguii, felice di sgranchirmi un po’
le gambe.
“Alberto, giusto?” domandai, intenzionata a fare un po’ di
conversazione.
“Sì, giusto. Senti, non vorrei essere indiscreto, ma il tuo
nome è veramente Julieta?”
Lo guardai e compresi che quel ragazzo mi stava già
simpatico.
Scoppiai a ridere.
“Non sei indiscreto, sai quanta gente vorrebbe farmi questa
domanda? Molti, quando mi presento, si limitano a guardarmi malissimo, pensano
‘Ah, questa mi sta prendendo per il culo!’, invece basterebbe dire le cose come
stanno. Mi fa piacere che tu me l’abbia chiesto. Sì, mi chiamo Julieta all’anagrafe, mia madre aveva la mania
dell’Argentina, sai.”
Alberto ridacchiò, poi raggiungemmo il bar.
Ordinai una birra e lui fece lo stesso.
“Sediamoci un po’ qui, ti va?” mi chiese, indicando gli
sgabelli.
Sorrisi.
“Perché no?”
***
“Sono solo un po’ stanca!” scimmiottai, ridendo a crepapelle
mentre osservavo Julieta chiacchierare in maniera
equivoca con Alberto.
Si erano seduti al bancone e bevevano, senza staccarsi un
attimo gli occhi di dosso.
“Ma cosa crede, che io sia stupida?”
I miei amici ridevano con me.
“È terribile, ti rendi conto che sta facendo l’oca con un
altro?” commentò Simona, scuotendo il capo indignata.
“Che zoccola!” esclamò Elena, incrociando le braccia sul
petto.
E i maschi, in quanto tali:
“Ragazze, non esagerate!” disse Biagio.
“È una bella ragazze e non sta facendo niente di male
infondo!” ammiccò Davide.
“Ma piantatela!” li zittii, cercando di contenermi per non
chiamare Samuele e…
“HO TROVATO!” esclamai, per poi frugare freneticamente in
borsa.
“Ma che fai?” domandò Elena, curiosa.
“Ora lo vedrai.”
Afferrai il cellulare e schiacciai qualche tasto.
Questa volta ce l’avevo in pugno, quella sciacquetta!
***
“Maledizione!”
“Fra, che hai?”
Mi ero buttato sul divanetto del backstage, voglia di fare
baldoria zero.
Carlo mi aveva seguito e ora stava di fronte a me,
preoccupato per il mio umore nero.
“Allora, cosa ti prende? Dobbiamo tornare di là, c’è la dancehall, non vorrai che Stefano e i suoi stiano lì da
soli ai controlli?”
“Che me ne fotte” risposi brusco.
“Minchia, Fra, che ti è successo?”
“Si tratta di una donna, niente di grave. Vai, Karol, non
rompermi.”
“Dai, non dirmi che ancora pensi alla sorella di Sam,
minchia, amico, andiamo! Ne trovi quante ne vuoi.”
“Ma ti pare? Ti ho detto di non rompere, Karol. Te ne vai?”
“Sì, sì, me ne vado ma tu cerca di non deprimerti, minchia,
Fra!”
Mister Minchia uscii dalla stanza chiudendosi la porta alle
spalle.
Gli volevo bene, ma certe volte era una vera palla al piede,
senza contare questo modo di impicciarsi e di minimizzare le cose che mi faceva
salire il sangue al cervello.
Scossi il capo, irritato, ripensando ad Alessia.
Come poteva avermi trattato così?
Possibile che mi odiasse così tanto?
Possibilissimo.
Cazzo.
Che sfiga!
Come avevo potuto, io – IO, merda! – perdere la testa per la
sorella di Samuele?
La vita è strana, dicono. Sì, la vita è un’inculata.
Qualcuno, mentre io cercavo di stare tranquillo e per gli
affari miei, irruppe nella stanza.
Carlo tornava alla carica.
Non potevo crederci.
***
“Mica si può deprimere per quella, no? Io gliel’ho detto, ma
mica mi sta a sentire, amico, cosa vuoi che ti dica?”
Io non lo capivo, Francesco. Eravamo amici da un sacco di
tempo e lui non si confidava mai con me.
Perché?
Guardavo Stefano con aria interrogativa, però lui era
impegnato a selezionare brani per continuare la serata.
A quel punto, non ce la facevo più a stare con le mani in
mano e così tornai da Francesco.
Come previsto, mi trucidò.
“Ma che vuoi ancora, Karol? Ti avevo detto di lasciarmi in
pace, sei sordo o rincoglionito?”
“Minchia, vieni di là almeno, no? C’è Ste
che sta selezionando a bomba, mica puoi stare qui tutto solo. E poi magari vedi
pure la tua adorata!”
“E non rompere, tanto è lei che non vuole vedere me…”
“Ma non dire così, su, dai… ti ci
porto io da lei, andiamo?” dissi, giusto per scrollarlo un po’. Mi dispiaceva
vederlo così demotivato.
“Uff, che palle. Andiamo.”
Ce l’avevo fatta!
“Però da lei no, andiamo da Ste”
puntualizzò.
“Andiamo da Ste, promesso.”
***
“Allora, sei sicuro di volermi dare lezioni?”
“Certo, nessuno mi aveva mai chiesto di insegnargli questo
linguaggio” disse Samuele, sorridendomi.
“Ma dai! Io ci sto provando da troppo tempo, eppure non
riesco, ma come fai ad averci così tanta confidenza?” domandai.
“Vedi, Mia… è difficile, ma è un
po’ come studiare l’inglese, il francese, il tedesco…”
“Eh, insomma” borbottai.
“Sì, ti dico che è così. Ha le sue regole ma ha anche le sue
libertà, non è per tutti uguale, capisci?”
“Ci sono dei dialetti, insomma.”
“Esatto, una specie.”
“Ma io non ho trovato niente per studiarlo, su internet c’è
poco e niente” protestai.
In quel momento, Alessia e Sara si unirono nuovamente a noi,
dopo essere state al bagno.
“Samu, dobbiamo andare!” saltò su
Alessia, infilandosi frettolosamente la giacca.
“Ma cosa…?”
“Mi ha appena inviato un messaggio Martina, dobbiamo tornare
a casa.”
“Martina? Cosa c’entra Martina?”
Osservai il viso di Samuele cambiare espressione e
mascherarsi di tensione, poi qualcosa come la comprensione gli attraversò i bei
lineamenti.
Si alzò di scatto.
“È successo qualcosa a Juli?!”
“Andiamo, poi ne parliamo. Ragazze, scusateci, davvero, non…”
“Alessia, cosa è successo? Voglio saperlo subito!” la
interruppe suo fratello, afferrandola per un braccio.
“Calmati!” esclamò lei, divincolandosi dalla presa del
ragazzo.
Lanciai un’occhiata a Sara e lei scosse il capo, come a dire
che non ne sapeva niente.
“Andate pure, ci mancherebbe” dissi, alzandomi per
salutarli.
“Okay, ci vediamo e… ah, Mia,
chiamami, per quella cosa del patois” ammiccò Samuele, lanciandomi un debole
sorriso, la cosa più simile ad un sorriso che riuscisse a produrre in quel
momento.
Era la preoccupazione incarnata e mentre lo guardavo
allontanarsi di tutta fretta, mi dispiacque non sapere cosa gli sarebbe
successo.
Entrai nel locale e la prima cosa che notai fu che le luci
erano soffuse.
Troppo soffuse.
L’atmosfera mi piaceva, questo devo ammetterlo, ma non mi
trovavo lì per caso, non avevo tempo di perdere tempo.
Martina mi aveva pregato di riaccompagnare Samuele a casa e
di raggiungerla.
Avevo cercato di farle capire che Samuele non aveva bisogno
della balia per rientrare ma lei non aveva sentito ragioni e mi aveva inveito
contro, obbligandomi a fidarmi di lei.
Era mia cugina e da sempre condividevamo un bel rapporto
d’amicizia, ma spesso Martina aveva delle idee folli per la testa e io faticavo
a starle dietro. Era sempre toccato a me riportarla sulla retta via quando
aveva commesso quei famosi colpi di testa che a certa gente capitano, almeno
una volta nella vita.
E, nonostante ciò, lei era una brava ragazza ed era spesso
impulsiva quando si trattava di lottare contro le ingiustizie e aiutare il
prossimo.
Samuele le somigliava molto e forse è per questo che non si
trovavano d’accordo, specialmente se si trattava di annientare Julieta.
Mentre mi guardavo intorno, un ciclone mi si scaraventò
addosso, trascinandomi in un angolo.
“Marti, cosa stai facendo? Lasciami, non tirarmi!”
protestai, cercando di divincolarmi.
“Insomma, vuoi stare zitta?! Lei non deve vederti e non deve
vedere neanche me, crede che io me ne sia andata con gli altri. Con questa luce
e un buon nascondiglio come questo, non si accorgerà di niente” bisbigliò,
spingendomi al riparo dietro un grosso pilastro che si addossava alla parete,
creando un vano quasi invisibile agli occhi dei presenti.
“Ma di chi parli?”
“Ah, Ale! Andiamo! Indovina?”
“Cosa?”
“Ho incastrato Julieta la troietta!” squittì sotto voce. “Guarda là!”
Seguii con lo sguardo il suo e impallidii, sentendomi
mancare l’aria.
“Le ho scattato qualche foto” annunciò Martina, orgogliosa
di sé.
“Ma tu… ma quello…
ma chi è quel…?” balbettai, incredula.
Sotto i miei occhi, una scena raccapricciante, come poche ne
avevo visto in vita mia. Questo perché, ovviamente, era di mio fratello e dei
suoi sentimenti che si trattava.
***
Passeggiare sotto le stelle era un’attività che mi rendeva
più calma e rilassata.
Il concerto dei Satyricon – ovvero
della loro degna cover band – era stato devastante e un po’ di relax mi ci
voleva proprio.
La verità era però un’altra: avrei realmente desiderato una
serata diversa, avrei tanto voluto realmente avere qualcuno con cui
incontrarmi, anziché trascorrere il tempo a trascinarmi da sola per le strade
deserte e buie del paese.
Avrei tanto voluto che fosse vero quanto avevo detto a mia
sorella, facendole intendere che dopo il concerto avevo altro da fare.
Eppure, ero sola e non avevo un cazzo da fare, se non
rimuginare su me stessa e sulla miserabile vita che mi ero scelta.
Aveva creduto per anni che i miei sogni si realizzassero,
avevo riposto fiducia in qualcuno che non avevo mai visto, avevo sbagliato – o
forse no.
Ma la solitudine non si sbaglia: quando arriva, silenziosa,
e ti cattura…be’, quello
non è un errore.
Da quanto tempo non ricevevo un bacio o un abbraccio?
Mi ero ostinata ad aspettare un lui che non sarebbe mai
stato mio, per poi ritrovarmi vuota e distrutta.
Mentivo continuamente a me stessa e agli altri, fingendo di
averlo superato, fingendo che l’accaduto non contasse più niente ormai.
Ma come potevo essere così ingenua?
Nessuno mi aveva creduto, proprio nessuno.
Mi arrivò un sms di Mia.
Erano le 02:37 del mattino.
Lei era felice.
Io no.
***
Alessia era completamente pazza.
Se in genere – dopo un concerto – crollavo come un sacco di
patate sul divano, quella notte ero sveglio e vigile e non riuscivo a stare
fermo.
Camminavo avanti e indietro per l’ingresso, aspettando il
suo ritorno.
Non mi aveva voluto dire cosa stesse succedendo, mi aveva
semplicemente trascinato via dal locale dove avevo cantanto
con Carlo e Francesco, dicendomi che non potevamo più restare.
Mi aveva parlato di un sms di Martina e da quel momento non
ero riuscito a non associare il nome di mia cugina con quello della mia
ragazza. Erano andate via insieme e se Martina aveva insistito affinché Alessia
la raggiungesse, qualcosa doveva essere successo.
E se tutto ciò non riguardava Julieta,
perché portar via anche me?
Non ci capivo più niente.
Avevo cercato di convincere Alessia a portarmi con sé ma lei
si era opposta tassativamente, pregandomi di rimanere a casa e di aspettarla.
Mi promise che non ci avrebbe impiegato tanto.
Era passata più di un’ora e di lei non c’era ancora nessuna
traccia.
Ero in agitazione.
Mi tornarono in mente Mia e Sara, le ragazze che Alessia mi
aveva presentato e sorrisi debolmente, dicendomi che qualcosa di positivo
almeno era accaduto, in quella notte infinita.
Quando Alessia rientrò, si limitò a guardarmi con
l’espressione più triste che le avessi mai visto.
E compresi immediatamente che soffriva per me.
Soffriva per qualcosa che io ancora non sapevo.
La mia vita non sarebbe più stata la stessa.
***
Se n’era andata di tutta fretta insieme a Samuele, piantando
in asso due ragazze che avevano trascorso un po’ di tempo con loro.
L’avevo osservata dal palco, mentre Stefano selezionava i
brani per intrattenere le poche persone che ancora popolavano il locale e Carlo
raccontava qualche stronzata che neanche ricordo.
Fu allora che decisi di agire, non potevo perdere un’occaasione simile.
Se fossi riuscito a prendere confidenza con quelle ragazze –
che probabilmente mi conoscevano artisticamente e sarebbero state contente di
conoscermi – forse mi sarei potuto avvicinare ad Alessia e – perché no? – avrei
potuto trascorrere del tempo a chiacchierare con una delle due nuove amiche di
Alessia, quella più grande e carina.
All’inizio della serata mi ero chiuso in me stesso,
deprimendomi come un idiota, ma adesso basta.
Carlo – per quanto potesse spesso risultare pesante – in
questo caso aveva ragione da vendere: non potevo pensare ad Alessia senza fare
nulla per attirare la sua attenzione.
Mi incamminai verso le due ragazze non appena Alessia e
Samuele uscirono dalla discoteca.
Mi sedetti nel posto occupato poco prima da Alessia e
sorrisi, amichevole.
“Ciao ragazze, posso? Vi ho visto parlare con Samu, così ho pensato di venire a salutarvi.”
Le due si scambiarono un’occhiata colma di incredulità.
Compresi due cose, anzi tre:
1)Dovevano
essere sorelle, si somigliavano molto;
2)Una di
loro doveva avere circa quattordici anni, l’altra appena qualche anno in meno
di me;
3)Per
quanto riguarda quest’ultima, be’… si rafforzò in me
l’idea di trascorrere del tempo con lei, ma non a chiacchierare…
***
Per poco non caddi dallo sgabello quando Francisco mi si
palesò di fronte.
Ero senza fiato ed ero certa che Sara non fosse da meno.
Cosa stava succedendo al mondo? Possibile che ora fossero
gli artisti ad avvicinarsi al pubblico in quel modo?
Certo, sapevo che Francisco, così come Samuele, non erano
persone che si montavano la testa per la fortuna che avevano di salire sul
palco, cantare ed emozionare la gente.
Eppure, non potevo concepire quella situazione paradossale.
“Ciao”esordii,
indecisa su cosa dire. “Eh, sì… abbiamo conosciuto
Samuel” aggiunsi.
“Vi è piaciuta la serata?” domandò lui, sorridendomi.
“Sì, molto bella. Ci siamo divertite.”
“Mi fa piacere. Comunque, è un piacere conoscervi, io sono
Francesco.”
Tese la mano prima a Sara, la quale la strinse con
riluttanza, come se non si rendesse ancora conto di cosa stava accadendo.
Poi Francesco si voltò verso di me e io gli strinsi la mano.
Prima di allentare la presa, mi guardò dritto negli occhi e strinse un po’ di
più le sua dita intorno alle mie.
Avvertii una strana sensazione di disagio che non riuscii a
controllare, poiché venni scossa da un brivido inconsueto.
“Io sono Mia, piacere” dissi, mentre l’imbarazzo mi
aggrediva alle spalle.
“Mia” ripeté Francesco senza staccarmi gli occhi di dosso.
Il modo in cui aveva pronunciato il mio nome mi fece sentire
ancora peggio e mi dispiacque quasi che lui ci provasse spudoratamente con me
di fronte a mia sorella minore.
Okay, stop.
Davvero quel ragazzo ci stava provando con me? Sbaglio o era
venuto lì per abbordarmi? Ma che diamine…
“Ehm… scusaci, credo sia arrivato
il momento di andare!” sbottai, balzando giù dallo sgabello.
“Come? Di già?”
“Sì, certo! Sara deve dormire!” buttai lì, infilandomi il
giubbotto.
Mia sorella mi fulminò con lo sguardo, senza muoversi dalla
sua postazione.
“Sara, andiamo?” la incitai, implorandola con gli occhi di
seguirmi.
“Pare che Sara voglia rimanere” commentò Francesco, con tono
divertito.
Sentii l’umiliazione invadermi e con essa venne anche la
rabbia.
Afferrai mia sorella per il polso e la trascinai giù dallo
sgabello, strappandole un gemito di protesta.
Poi puntai i miei occhi in quelli di Francesco.
“Invece Sara vuole andarsene esattamente quanto lo voglio io”
affermai, per poi uscire a tutta velocità dal locale, mentre le mie guance
divenivano infuocate per la vergogna.
Come aveva potuto Francesco – con quella sua voce
meravigliosa che in musica mi faceva emozionare – mettermi in difficoltà in
quel modo?
E perché diavolo mi aveva abbordato?
Merda!
***
Ma cosa credeva di fare quella ragazzina?
Non poteva sfuggirmi così.
Avevo quasi del tutto dimenticato che mi ero avvicinato a
lei e a sua sorella per cercare di capire come poter conquistare Alessia.
Quando scesi dallo sgabello, deciso a raggiungere Mia, i
miei obiettivi erano quasi totalmente diversi.
Uscii nel parcheggio della discoteca.
Stava piovendo e il cemento era fradicio. Tuttavia, non
faceva particolarmente freddo ma l’aria era umida e non soffiava un filo di
vento.
Mi misi a correre sotto l’acqua, sentendomi come un
ragazzino che fa follie per stare dietro alla sua fidanzatina del liceo.
Quando individuai Mia, sua sorella era già in macchina e lei
stava facendo il giro per salire al posto del guidatore, riparandosi sotto un
ombrello viola.
“Ehi, aspetta!” gridai, per poi raggiungerla.
“Francesco, devo andare a casa, mia sorella è stanca! Non so
quale sia il tuo intento, credimi, però se vuoi abbordarmi hai sbagliato
persona.”
Rimasi a bocca aperta, fissandola, incredulo.
Mia fece per aprire la portiera ma io la fermai,
afferrandole il polso.
“Volevo soltanto conoscerti” ammisi, sentendo che quella era
la verità, per quanto strana potesse sembrare anche a me stesso.
Mia si ritrasse e scosse il capo.
“Ci siamo conosciuti e ci vedremo ai prossimi concerti. Che altro
vuoi? Adesso lasciami in pace” sbottò, aprendo lo sportello.
Non riuscii a dire niente e lei salì a bordo.
Sara si accorse della mia presenza e – prima che sua sorella
mi sbattesse fuori dalla macchina e dalla sua vita – mi salutò con un sorriso.
Indietreggiai sconcertato, mentre Mia faceva retromarcia.
Osservai la sua macchina allontanarsi e scomparire.
E fu allora che mi domandai se ci fosse qualcosa di
sbagliato in me.
La pioggia si era intensificata e mi scrosciava addosso.
Alessia mi odiava.
Mia mi odiava senza neanche conoscermi.
Dovevo essere io il problema, non riuscivo a trovare nessuna
spiegazione in alternativa.
Borbottando e imprecando sottovoce, mi alzai dal letto.
Era una mattina tra le tante.
Una delle tante in cui Francisco mi tornava in mente,
ossessionandomi con quegli occhi neri come la pece.
Maledetto!
Scossi il capo, infastidita da quell’ansia crescente.
Ogni giorno, da una settimana, mi risvegliavo con l’ansia ad
attanagliarmi lo stomaco.
Non riuscivo a spiegare a me stessa perché avessi trattato
quel ragazzo così male.
E, tra l’altro, non avevo neanche chiamato Samuele per
quelle lezioni di patois giamaicano di cui avevamo parlato.
Chissà come stava, cosa faceva.
E Francisco?
Lui era il mio tormento.
O meglio: il mio atteggiamento di merda lo era.
***
Andare avanti, sì, andare avanti e vedere sempre tutto
positivo: questa è la ricetta, lo so bene.
Come no.
Porca puttana!
Lacrime, lacrime e ancora lacrime.
Odiavo essere così sensibile.
Dovevo pensare a me, alla mia musica, al mio futuro.
Mancava poco: ancora due settimane e sarei partito con la
mia band per partecipare ad uno dei festival reggae più famosi in Europa.
Cosa potevo desiderare di più?
Io e Julieta avevamo deciso di
andarci insieme.
Ma lei non sarebbe venuta.
E questo mi faceva fottutamente male, mi straziava l’anima.
Perché cazzo mi aveva tradito? Cos’avevo sbagliato?
Avevo cercato di non farle mancare niente ma evidentemente
mi ero illuso. Pensavo che il mio amore fosse tutto ciò di cui Julieta avesse bisogno.
Perché non ne avevamo mai parlato? Perché non mi aveva mai
confessato la mia inadeguatezza?
Se aveva deciso di gettarsi tra le braccia di un altro, così
su due piedi…
No, merda, non potevo pensarci!
La mia mente era offuscata: marijuana, lacrime e quella
schifosa foto che mi impediva di dormire.
***
“Samu, sembri uno zombie”
commentai, mentre il mio sguardo si posava sulla figura di mio fratello che
scendeva le scale, barcollando.
Lui non rispose, si limitò a fermarsi sul penultimo gradino,
lo sguardo perso nel vuoto.
Lo raggiunsi e lo afferrai per le spalle.
“Samu, guardami! Vuoi darti una
svegliata?” gli gridai in faccia.
Così facendo ottenni due risultati: 1) attirare l’attenzione
di nostro padre, il quale si affacciò dalla cucina e ci fissò con aria
interrogativa e 2) far sì che Samuele mi scoppiasse a piangere tra le braccia.
“Oh, dio” mormorai, non sapendo cosa fare.
Lo abbracciai, mentre sentivo i passi di mio padre
accostarsi a noi.
Sapevo cosa sarebbe successo.
Mio padre si occupava raramente dei nostri affari privati,
ma Julieta proprio non aveva mai potuto soffrirla. Tuttavia,
aveva sempre evitato di girare il coltello nella piaga, perché preferiva che
Samuele ci sbattesse il muso per conto suo.
Ma era anche il tipo da “te l’avevo detto” e infatti…
“Figlio mio” esordì, posandogli una mano sulla spalla.
‘Ecco, ci siamo’ pensai.
“Sai com’è, no? Le donne sono tutte puttane” proseguì.
“Papà!” gridai, inorridita.
“Ah, tua sorella come al solito non capisce. Le donne lo
sono, tranne mia moglie e le mie figlie.”
‘Ma che discorsi del cazzo!’ avrei voluto dire.
Ma mi limitai a sospirare.
Samuele singhiozzò, aggrappandosi a me.
“Ti prego, fallo smettere!” mi implorò, inzuppandomi la
maglia di lacrime.
“Papà, basta così!”
“No, deve sentire la verità, razza di idiota! Prima si scopa
la puttana e poi…”
“PAPÀ!”
Era stata Caterina a gridare, afferrando nostro padre per un
braccio. “Vattene e lascia in pace Samuele, ti scongiuro!”
Caterina aveva un’espressione sconvolta in viso. Mi guardò,
poi abbracciò Samuele e io lo lasciai andare.
“Vado da papà” mormorai.
Lei annuì.
Erano rare le volte che Caterina dimostrava il suo affetto,
ma in fondo adorava suo fratello e odiava vederlo soffrire.
Proprio come me.
***
Dunque, ingredienti: uova, zucchero, farina, burro, cacao in
polvere, lievito.
Torta.
Il mio compleanno.
Che gioia.
Invitati: mia sorella Dalila, il suo ragazzo, Mia.
Stop.
Su, Jessica: non abbatterti!
È soltanto una festicciola in casa, che pretese puoi avere?
Pochi ma buoni, giusto?
Eh, sì.
Ma io avrei voluto lui.
Era impossibile che la mia vita, già a soli 24 anni, fosse
un fallimento totale.
Non dovevo pensarci, Mia me lo diceva sempre.
Ma Mia non capiva niente della mia situazione, non poteva
sapere cosa stavo provando ad amare qualcuno in questo modo, qualcuno che mi
stava lontano in tutti i sensi.
Il mio cellulare squillò un secondo prima che infilassi le
mani nell’impasto.
Lo presi: era Mia.
“Pronto, Mia?”
“Ciao, Je! Allora, come va? Auguri
eh! Sei una nonna! Be’, poi te li darò stasera di persona!”
Sorrisi.
“Grazie. Stavo per cominciare a fare la torta” le dissi,
dando l’ennesima occhiata agli ingredienti.
“Torta? Fatta da te? Non vedo l’ora!”
“Lo spero bene, altrimenti dovrò mangiarla tutta da sola e
diventerò una botte.”
“Sì, certo… senti, ti ho chiamato
perché volevo sapere a che ora posso venire da te. E…
sai, un’altra cosa: il fatto è che… mi ha chiamato
questo amico, poco fa, cioè… l’ho chiamato io e ho
scoperto che è molto giù, così…pensavo…”
“Aspetta, aspetta: non vorrai portarti dietro qualcuno alla
mia festa!” la interruppi, intuendo dove volesse andare a parare.
“Ecco, io… vedi, è molto depresso,
cioè non che me l’abbia detto esplicitamente, però dalla sua voce… comunque, dicevo… ho
pensato di invitarlo alla tua festa, ecco… lui ha
accettato.”
Provai a contare fino a dieci come mi aveva insegnato mio
padre, ci provai davvero.
‘Prima di parlare, rifletti, conta fino a dieci, vedrai che
in questo modo eviterai molte situazioni sgradevoli e altrettanti scontri’ mi
ripeteva sempre, quando alle elementari ero solita mandare all’inferno le
maestre che pretendevano di farmi studiare.
E, come dicevo, ci provai.
Ma non ci riuscii.
“TU SEI UNA COGLIONA, MA CHE CAZZO HAI AL POSTO DEL
CERVELLO, MERDA? CAZZO, MA COME TI PERMETTI DI
INVITARE GENTE A CASO AL MIO FOTTUTISSIMO COMPLEANNO CHE GIÀ SARÀ UNO SCHIFO!
MA VAFFANCULO!”
Nel frattempo avevo iniziato a piangere, buttandomi sul
divano e prendendo a pugni il cuscino.
“Je… non piangere. Aspettami,
arrivo subito.”
E la conversazione si interruppe.
***
In realtà, le avevo mentito. O, per meglio dire, avevo
omesso dei dettagli.
Angosciata dalla faccenda di Francisco, avevo deciso di
telefonare a Samuele per chiedergli di darmi il numero del suo amico, in modo
da poter chiarire le cose.
In più, ne avrei approfittato per chiedergli quando ci
saremmo potuti incontrare per studiare un po’ di patois.
Il telefono squillò per circa dieci secondi, poi qualcuno –
che non era Samuele – rispose.
“Pronto, chi parla?” domandò una voce femminile.
Sussultai.
Doveva trattarsi della sua ragazza, chi altro poteva
rispondere al suo cellulare?
Se si fosse trattato di Alessia, ne avrei riconosciuto la
voce.
Rimasi in silenzio, decidendo che avrei riattaccato, sì, lo
avrei fatto, era giusto così.
“Pronto? Oh, che palle! Ma quando la smetterete con questi
fottuti scherzi telefonici?” gridò la ragazza, adirata.
Schiacciai il pulsante rosso e mi ritrovai a rabbrividire
dall’agitazione.
Poi ci ripensai.
Che diamine stavo facendo?
Il mio scopo era parlare con Francisco, non perdere tempo a
farmi terrorizzare dalla fidanzata isterica di Samuele.
Premetti due volte il tasto verde e rimasi in attesa,
sperando che stavolta fosse lui a rispondere.
“Chi cazzo è ancora? Parla, almeno! Senza palle!”
Era ancora lei.
Sospirai.
“Ciao, ehm… sono Mia, potrei
parlare con Samuele?”
Quella tacque per un attimo, poi tornò all’attacco.
“Sei la sua nuova amante?” ruggì.
“NO! Io… l’ho conosciuto ad un suo
concerto, volevo soltanto chiedergli il numero di Francisco, lui…”
La tipa non mi stava già più ascoltando.
“Samu, c’è una che si chiama Mia
qui al telefono, te la senti di parlarle?”
Il tono di lei era apprensivo, in un certo senso mi allarmò.
Dopo qualche istante, udii un mugugno dall’altra parte del
telefono.
“Samuele?” lo chiamai, cercando di capire se si trattava di
lui.
Allora lui cominciò a parlare, raccontandomi che stava di
merda e che dovevo scusarlo ma non se la sentiva di incontrarmi per quelle
lezioni, che stava proprio da cani. Poi, quando si accorse che io non riuscivo
a proferire parola, ebbe come l’input di raccontarmi tutto quello che gli era
successo, finendo per singhiozzare in una maniera che mi fece male, davvero.
Fu allora che gli parlai della festa.
Mi ero dimenticata di Francisco, di tutto. Volevo soltanto
che lui si risollevasse un po’, dopo il tradimento della sua ragazza – Julieta.
Incredibilmente, lui accettò il mio invito, dicendo che non
ne poteva più di stare a casa a piangere, che doveva riprendersi perché lo
aspettava non so quale viaggio e che conoscere gente nuova l’avrebbe aiutato e
così via.
Insomma, avevo combinato un casino con Jessica e ora avevo
fatto piangere anche lei.
Però, lo avevo fatto a fin di bene, cacchio.
Così uscii di casa e decisi di andare da lei: le dovevo
delle spiegazioni.
***
Non so come questa Mia avesse fatto a convincere Samuele ad
uscire, eppure ero felice.
Non la conoscevo ma già mi stava simpatica.
Ahimè, mio padre aveva ragione: Julieta
era una troia e Samuele, prima o poi, se ne sarebbe reso conto.
Però vederlo soffrire così a causa delle dure parole di
nostro padre…
Era troppo per me.
Spesso venivo additata come un’insensibile, ma io amavo mio
fratello e quando stava male lui, lo stesso valeva per me.
Inoltre, i miei drammi personali non mi aiutavano di certo a
supportarlo come avrebbe meritato; per fortuna che c’era questa ragazza, Mia,
che era riuscita a tirarlo un po’ su.
Avevo scherzato sul fatto che potesse essere la nuova fiamma
di mio fratello, ma ora quell’idea non mi pareva poi tanto male.
Insomma, a pelle mi ispirava simpatia, anche se l’avevo
trattata decisamente di merda.
Quando Samuele uscì di casa, quella sera, io e Alessia ci
scambiammo un’occhiata e sospirammo.
“Ma dove va?” domandò mia sorella.
“Esce con una certa Mia” risposi, stringendomi nelle spalle.
Alessia sorrise. “Cate, spero che
tu possa conoscere Mia: ti piacerebbe molto.”
Capitolo 9 *** Festeggiamenti vari e poi... Julieta ***
Festeggiamenti vari e poi…Julieta
Festa.
E quel tipo che Mia si era trascinato dietro.
Come cazzo si era permessa?
Dannazione a lei!
Non potevo crederci, ancora no.
Avrei voluto che non mettesse piede a casa mia, era una
questione di principio.
Osservai il suo accompagnatore, squadrandolo con
indifferenza, per poi fulminarlo con un’occhiata.
Era di statura media, magro ma non secco come un ramoscello,
occhi nocciola – tristi, notai – e quei capelli…
Oddio.
“Jess, ti prego, non essere
arrabbiata con me!” mi implorò Mia, prendendomi da una parte.
Sbuffai.
“Si tratta del mio compleanno” chiarii, seccata.
“Lo so però Samu sta male, l’ho
chiamato e… so che puoi capirlo.”
“A me non rappresenta niente” protestai, senza abbassare la
voce.
“Jessica!”
“Cosa vuoi? Mi hai fatto incazzare.”
“Okay, lo so! Ma possibile che io sia imperdonabile?”
La osservai, soppesai le sue parole e scossi il capo.
“Lasciamo perdere, dai” mi arresi, sollevando le mani in
segno di resa.
“So che ho sbagliato, ma adesso andiamo a festeggiare” mi
suggerì Mia.
Mi abbracciò e io mi lasciai stringere, poi ricambiai. Non
ero un mostro, non avevo il cuore di pietra.
“Va bene.”
“Auguri, amica mia. Questo è per te.”
Mia si scostò da me e mi porse un pacchetto incartato di
carta viola metallizzata.
Quella carta era stupenda.
La coccarda, invece, era nera.
“Grazie. Già la confezione è bella” commentai, dando due
baci sulle guance della mia amica.
“Aprilo, aspetta a ringraziarmi!”
Annuii e feci come mi aveva detto.
All’interno della confezione trovai un’agenda con la
copertina in pelle nera. Anche i bordi della pagine erano neri, sembrava quasi
un quaderno in cui annotare i sortilegi di una strega.
Rimasi a bocca aperta.
“Ti piace?” domandò Mia, con la speranza negli occhi.
In quel momento la vidi far cenno al suo amico – Samuele.
“Mia, è fantastica! Dove l’hai trovata?”
“Segreto professionale!”
Poi Samuele ci raggiunse.
“Ciao, Jessica. Spero di non essere di troppo alla tua
festa. Auguri.”
Lo guardai negli occhi – ancora più tristi di prima – e
strinsi la mano che mi tendeva.
“Ciao. Grazie. No, mi fa piacere, davvero” dissi.
E, mentre lui sorrideva debolmente, sentii di essere stata
sincera.
***
L’amica di Mia era stata gentile con me, nonostante la
faccia da funerale che dovevo avere.
Mi aveva accolto in casa sua senza conoscermi, nonostante
anche Mia mi conoscesse ben poco.
L’atmosfera, in ogni casa, non era allegra, poiché – a
quanto mi aveva detto Mia – Jessica era una ragazza che si considerava dark e
satanista.
Non avevo pregiudizi in merito, ma tutto ciò non rientrava
nel mio modo di pensare.
Io e Mia ci accomodammo e chiacchierammo tra di noi. Non
conoscevo gli altri – seppur pochi – invitati.
Jessica, ogni tanto, mi guardava e sorrideva. Ero contento
di essere il benvenuto.
Dentro, mi sentivo una merda.
Quello che era successo con Julieta
mi stava distruggendo, mi logorava e mi creava un nodo nello stomaco.
L’avevo vista, con i miei occhi.
Alessia mi aveva mostrato una foto che Martina aveva
scattato quella sera, mentre Julieta – ignara delle
conseguenze – stava avvinghiata ad un perfetto sconosciuto.
Mi venne la nausea.
Fui tentato di rifiutare la torta che Jessica mi offriva, ma
mi parve maleducato e la accettai.
Era deliziosa.
Mia mangiò in silenzio, poi si pulì la bocca con un
fazzoletto di carta e mi guardò.
“Posso farti una domanda?” domandò.
“Spara.”
***
Volevo chiedergli di Francisco.
Ero rimasta a ripensare a lui, dopo averlo piantato sotto la
pioggia nel parcheggio del locale.
Jessica disse:
“Facciamo qualche foto!”
“Te lo dico dopo” dissi a Samuele, poi mi alzai.
“Samuele, anche tu!” lo incitò la mia amica che, nel
frattempo, si era rianimata.
Apparentemente sembrava star bene, nonostante io sapessi
perfettamente che nella sua mente vorticavano pensieri cupi e autodistruttivi,
a causa di quel coglione che aveva conosciuto su internet qualche tempo prima e
di cui non era più riuscita a smettere di parlare.
Bleah.
“Io? Ehm… no, io faccio il
fotografo” rispose lui, a disagio.
Era un ragazzo così timido che, senza guardarlo, pensai che
fosse arrossito.
“Ma no, come sarebbe a dire?!”
“Be’, del resto sono un intruso, perciò…”
Il ragazzo sorrise debolmente e si alzò.
“Davvero, faccio io le foto.”
Jessica scosse il capo e gli porse la macchina fotografica.
Ci mettemmo in posa e sorridemmo, facendo le solite facce da
idioti che io e miei amici eravamo soliti presentare all’obiettivo, ogni volta
che decidevamo di fare una foto.
Eravamo pochi, ma buoni.
Riguardando le foto, ridemmo a crepapelle e anche Samuele si
lasciò scappare qualche sorriso, mentre io gli indicavo la mia faccia da
cretina.
“Sei uscita bene” commentò.
“Benissimo, proprio!”
“Davvero.”
E scoppiammo a ridere insieme.
Poi, tornammo a sederci, mentre Jessica scartava il regalo
di sua sorella.
“Cosa dovevi chiedermi?”
“Ah, sì! Si tratta di Francisco.”
“Francisco? Che ha combinato?”
“Be’, non è che abbia proprio combinato qualcosa, però… si è avvicinato a me e a Sara, dopo che tu e Alessia
ve ne siete andati.”
Samuele sgranò gli occhi.
“Che voleva?” domandò.
“Non so, ti giuro, non so cosa volesse realmente.”
“Ah. Vabbè, lui è così, un po’ strano… so che vorrebbe farsi mia sorella” ammise Samuele.
“Alessia?!”
Ero sbalordita.
Se Francisco voleva Alessia, perché diamine non si era
avvicinato a noi quando c’era ancora lei?
La risposta me la diede il ragazzo, senza che io gli ponessi
alcuna domanda.
“Sì, ma Alessia non lo sopporta e – per giunta – è già
impegnata.”
“Oh, cielo!” esclamai, ridacchiando. “Sembra la trama di
Beautiful!”
“Peggio, credimi!”
Scoppiammo a ridere, mentre in me continuavano a vorticare
mille dubbi nei confronti di Francisco.
***
Suonai il campanello e attesi.
Avevo un nodo in gola, le lacrime bussavano ai miei occhi
gonfi e il mio morale era più che nero.
Io non avevo fatto niente di male, io amavo Samuele, come
avrei potuto tradirlo?
Quella stronza di Martina mi aveva fregato, lei era una
merda, non so come altro descriverla!
Quanto la odiavo, l’avrei uccisa a mani nude, giuro!
La porta si aprì e sulla soglia apparve Caterina, la sorella
minore di Samuele.
“Ah, sei tu” grugnì senza entusiasmo, facendo per sbattermi
fuori ancora prima che mettessi piede in casa.
“No!” gridai, esasperata, scagliandomi contro la porta e
spingendola con entrambe le mani.
“Ohi, ma sei pazza? Minchia, calmati!” sbraitò Caterina,
indietreggiando di un passo.
Mi fulminò con lo sguardo.
“Fammi passare, devo vedere Samuele!”
“Fidati. No, smamma, bella!” esclamò lei, scuotendo il capo
e incrociando le braccia sul petto.
“Cate, per favore, non crederai
anche tu alle stronzate di Martina, vero?”
Lei rimase impassibile.
“Vero?” ripetei, udendo la mia voce più stridula del solito.
“Ehi, cocca, tanto Samuele non c’è, levati dalle palle.”
Afferrò nuovamente la maniglia, ma stavolta la spintonai,
catapultandomi nell’ingresso e correndo verso le scale.
“Samu, piccoletto, sono io, Juli! Dove sei? Dobbiamo parlare! Samu!”
“Che diamine sta succedendo qui?” strillò Alessia,
comparendo dalla porta della cucina.
Intanto, Caterina mi aveva quasi raggiunto ed inveiva contro
di me.
Cominciai a salire le scale, imbufalita.
“Samuele!”
Mi sentii afferrare per la maglietta e franai a terra.
“Lasciatemi andare, stronze! Devo parlare con il mio
ragazzo!”
Alessia mi si piazzò di fronte e mi afferrò per i capelli,
costringendomi a guardarla in faccia.
“Uno” cominciò, “Samuele non c’è e in ogni caso non è più il
tuo ragazzo. E due: fuori da casa mia!”
Mi strattonò i capelli e io cacciai un grido per il dolore.
Fui costretta ad alzarmi e guardai con odio Alessia, alla quale avrei spaccato
la faccia a calci.
Alessia mi trascinò fino all’ingresso, nonostante io
cercassi ancora di opporre resistenza.
“Tu sei pazza, Julieta, a venire
qui!” disse ancora, ridendo.
“Pazzi siete voi! Questa me la pagherete cara, credete a me!
Martina ha davvero esagerato!” gridai.
“Sì, sì… certo, certo… bene, vattene e non pensare neanche per scherzo di
tornare, altrimenti chiamo i carabinieri. È tutto chiaro?” mi minacciò Alessia,
spingendomi sul vialetto.
“E lasciami!”
“Intanto, Samuele si è già dimenticato di te, non c’è perché
è uscito con una ragazza” aggiunse Caterina. Poi mi strizzò l’occhio e chiuse
la porta, sbattendomela praticamente in faccia.
Rimasi impalata a fissare il legno scuro di fronte a me,
mentre quelle ultime parole mi si incidevano nell’anima.
Possibile che Caterina me l’avesse detto per pura e semplice
cattiveria?
Doveva essere così, perché Samuele mi amava alla follia e
non poteva già avermi rimpiazzato, non riuscivo a concepire un orrere simile.
***
Mi stavo letteralmente sbellicando dalle risate, mentre ero
appollaiata sulla sedia imbottita dell’ufficio che condividevo con la mia
collega Marina.
Fissavo lo schermo del computer e ridevo.
“Ohi, Marti! Ma che ti prende? Mi deconcentri se continui a
sghignazzare così!” protestò la mia collega, senza sollevare gli occhi dal
registro che stava esaminando. Aveva una matita incastrata dietro l’orecchio
sinistro e i suoi capelli erano pettinati all’indietro e tenuti fermi da una
fascia in cotone bianco.
“Oh, no, questa è epica, davvero comica, Rina! Devi
sentirla!”
Marina, che era una ragazza seria, una che lavorava sodo e
raramente si lasciava distrarre durante l’orario di lavoro, annuì solamente,
picchiando sui tasti della calcolatrice.
“Rina, dai! Ti prego, vieni a leggere!” la implorai.
Non che io non lavorassi, parliamoci chiaro: ero stata
assunta da poco ed ero ancora in prova, però svolgevo sempre i compiti che mi
venivano assegnati, anche se amavo prendermi qualche pausa.
Quella, poi, era una pausa importante. Era La Pausa.
“Si tratta di Julieta” mormorai,
con fare cospiratorio.
Marina parve illuminarsi e smise di fissare convulsamente la
calcolatrice.
“Ah, sapevo che non avresti resistito!” esclamai, battendo
le mani. “Su, vieni qui, devi leggere cosa mi ha scritto!”
Marina si lasciò sfuggire un sorriso e si alzò, per poi
sistemarsi dietro la spalliera della mia sedia.
“Leggi!” le ordinai, puntanto il
dito sullo schermo.
Avevo aperto facebook e avevo
trovato un messaggio privato.
Un messaggio di Julieta, appunto,
l’ormai ex ragazza di mio cugino Samuele.
Marina cominciò a leggere a voce bassa, ma presto fu
costretta a fermarsi, scoppiando a ridere con me al seguito.
Il messaggio era esattamente questo:
Martina.....questa proprio nn me la dovevi
fare......questa volta hai esagerato…come t sei
permessa???.....io t odio…io e samu
c siamo lasciati x colpa tua.....del resto nn stavo
facendo niente d male con il tuo amico e tu ti sei messa a fare delle foto per
incastrarmi solo xknn m
sopporti.....questa me la paghi, sappilo.......ciao
“Ti rendi conto? ‘Questa me la paghi, sappilo!’” esclamai,
spanciandomi sulla sedia.
“Sembra una delle elementari” commentò Marina, scuotendo il
capo mentre tornava a sedersi alla sua scrivania.
“Sicuro! Ma cosa credeva? Pensava davvero che avrei lasciato
Samuele in balia di una puttana come lei?”
“La gente pecca d’ingenuità, spesso” concluse la mia
collega, con il suo solito linguaggio e atteggiamento da donna colta e saggia.
Mi fece sorridere.
Stare con lei era bello, mi sentivo sempre tranquilla e
avevo l’impressione di non potermi sbagliare, come se Marina contagiasse anche
me con le sue fattezze riflessive e terribilmente razionali.
Però, alla fine, finivo sempre per essere me stessa, la
solita Martina impulsiva, che fa tutto di testa sua, che non ascolta i consigli
altrui e che poi se la ride beatamente quando la situazione, in fin dei conti,
va a concludersi nel migliore dei modi.
Esattamente com’è successo in questo caso.
***
“Allora noi andiamo, grazie ancora per l’invito” disse
Samuele, guardandomi negli occhi.
Per un attimo mi persi nel suo sguardo e non ebbi modo di
rispondergli immediatamente.
“Sì, la torta era buona!” esclamò Mia, ridendo.
Allora mi riscossi.
“Grazie a voi per essere venuti.”
“Non avrei voluto disturbare, ma Mia mi ha praticamente
costretto!”
“Ehi!” saltò su la mia amica, mollando una gomitata nel
fianco di Samuele.
“Ha fatto bene a costringerti, dai, alla fine sei simpatico”
gli concessi, senza metterci troppa enfasi.
“Oh, Samu, senti! Questo è uno dei
pochi complimenti che Jessica abbia mai fatto, ritieniti fortunato!” commentò
Mia.
“Quale onore!” esclamò lui, accennando un inchino nei miei
confronti.
“Piantatela! E adesso, fuori di qui!”
“Sì, sì, ce ne andiamo, che diamine! Ciaio,
arpia!” mi canzonò Mia, facendomi una linguaccia.
“Ciao Jessica, ci si vede” aggiunse Samuele.
“Ciao” conclusi.
Li osservai mentre se ne andavano e mi ritrovai a pensare
che quei capelli – quei dread – non erano poi così malvagi…
Capitolo 10 *** Amicizia, fratellanza e ossessione ***
Amicizia, fratellanza e ossessione
Dopo la mia festa di compleanno, il ricordo dell’amico di
Mia mi perseguitava.
La mia stupida mente trovava sempre il pretesto per tirarlo
in causa.
Avrei voluto capire perché, dal momento che io avevo qualcun
altro a cui pensare e considerato anche che aveva quei capelli…
Ma poi, a guardarlo, male non era.
Aveva la barba folta che gli conferiva un’aria matura,
nonostante dubitavo che avesse più di trent’anni. Occhi grandi, nocciola,
perennemente sgranati ed espressivi. Chissà che non fosse l’effetto di ciò che
si fumava!
Non era particolarmente alto ma il fisico ce l’aveva,
insomma, sapeva il fatto suo.
Non era il mio tipo, però.
Io avevo bisogno di qualcuno che condividesse i miei stessi
interessi e che comprendesse il mondo in cui vivevo. Un mondo tutto mio.
Per quanto Mia cercasse di comprendermi, non ci riusciva.
Lei aveva idee strane, pensava che la bellezza esteriore non contasse granché,
pensava che non fosse obbligatorio stare in forma, pensava che la realtà fosse
piena di persone profonde come lei, che vedevano gli altri solo per ciò che
erano, senza giudicarli e senza dar peso a quella che era la prima impressione.
Dove pensava di vivere, nel paese dei balocchi?
Era sciocca, a volte, Mia. Un po’ credulona, sognatrice.
Idealizzava le persone, ecco qual era il suo problema.
Io sapevo cosa volevo dalla vita, sapevo già tutto ciò che
mi serviva, sapevo esattamente come andava la cruda realtà.
Mia doveva crescere.
***
Jessica stava diventando pesante, con questa storia di
Ignazio!
Quel tipo conosciuto su internet che fingeva di amarla, che
fingeva di darle spago e – non appena lei si lasciava andare – la ripudiava,
scompariva dalla sua vita, la insultava.
Che porco.
E lei lì ad elogiarlo, ancora, ancora e ancora!
Certe volte mi faceva uscire di testa!
Se si fosse guardata un attimo attorno, avrebbe trovato un
sacco di persone interessanti con cui trascorrere realmente il suo tempo.
Invece lei era fissata con questo coglione di Ignazio e non
riusciva a vedere oltre il suo naso.
Che nervi!
Samuele, quando ce n’eravamo andati dalla festa di
compleanno di Jessica, aveva fatto qualche domanda su di lei.
“Ma è sicura di essere dark come dice?”
“Ti sembra confusa?” gli domandai, mentre lo accompagnavo
alla stazione.
“Un po’. La vedo come una ragazza dolce, ma ingenua.”
“Lei è fatta così. Testarda, cocciuta ma allo stesso tempo
disponibile, gentile e infinitamente buona. Forse anche troppo.”
Samuele annuì.
“Vi somigliate, tu e lei” lo punzecchiai.
“Pensi che io sia come lei? Mia…
credo tu mi conosca troppo poco!” esclamò lui.
“Non dico di conoscerti a fondo, però so che anche tu sei
una brava persona, una persona vera, che esprime sempre se stessa, a costo di
non piacere” affermai, sicura di me.
Quella era la prima impressione che Samuele mi aveva dato e
da allora non l’avevo mai modificata.
“Caspita! Devo prenderlo come un complimento?” scherzò lui,
imbarazzato.
“Fa’ un po’ come ti pare” borbottai.
“Okay, eri seria. Grazie” rettificò lui, sfiorandomi appena
un braccio.
“La penso così, non c’è niente di cui ringraziarmi” risposi,
regalandogli un sorriso.
Giungemmo poi alla stazione.
“Io invece ti devo ringraziare per avermi trascinato fuori
di casa” ribatté lui, mentre ci avviavamo al binario al quale doveva attendere
il treno.
“Quando ti ho sentito così abbattuto non ho saputo
resistere.”
“Ah… già.”
Samuele si rattristò improvvisamente.
“Dai, non fare quella faccia! Ci siamo divertiti, almeno un
po’, no?”
Lui non rispose e si limitò a fissarmi, mentre la malinconia
lo invadeva completamente.
Mi si spezzò il cuore quando incontrai i suoi occhi.
***
Così, prima di salire in treno, avevo raccontato a Mia tutti
i particolari della mia rottura con Julieta.
Lei mi aveva ascoltato in silenzio, senza dire niente. Mi
permise di sfogarmi in tutto e per tutto e, quando finii di parlare, mi sentii
un po’ meglio.
Prima di lasciarmi salire sul treno, mi abbracciò di
slancio, tenendomi stretto.
Ci conoscevamo da poco, ma era come se la storia di Julieta mi avesse reso più vulnerabile, più bisognoso di
conforto.
Mi disse:
“Samu, sii forte! non sei solo,
hai una sorella fantastica, lei ti vuole bene e ti protegge, ne sono sicura. Io…be’, io forse non sono nessuno,
ma se hai bisogno, chiamami”.
E io non dissi nulla, ricambiai l’abbraccio, poi la lasciai
andare e salii sul treno.
Da allora Mia è diventata una parte fondamentale della mia
vita, delle mie giornate.
Venni a sapere che Julieta aveva
fatto una piazzata a casa mia, mentre io ero alla festa di Jessica.
Lo raccontai a Mia, che reagì inorridita quanto me.
“Con quale faccia si è presentata a casa tua in quel modo?”
sbottò infatti, all’altro capo della cornetta.
Pian piano imparai a conoscerla e mi piacque passare del
tempo a chiacchierare al telefono con lei.
Un giorno le telefonai per dirle che c’era un live in
programma e lei parve felicissima all’idea.
“Dimmi, ci sarà anche Francisco?” mi chiese all’improvviso,
titubante.
“Sì, sì, ci sarà anche lui. Perché? Non dirmi che ti piace
Fra’!” esclamai.
“Secondo me è il contrario” borbottò.
“Nah, lui ama solo Alessia!”
“Oh, cielo! Okay, vedremo sabato se si avvicina nuovamente a
parlarmi. Devo assolutamente dirlo a Sara, impazzirà! Sai, lei è segretamente
innamorata di te! Però non dirle che lo sai, eh! Altrimenti mi lincia. Ma vedi,
è così carina! Ah, tredici anni, che gioia!” cinguettò Mia, ridacchiando.
“Ma Mia! Ti sembrano cose da dire? Sei un mostro!”
“Esagerato, sei davvero esagerato! Inviterò anche Jessica, secondo
me dopo averti conosciuto meglio alla sua festa, ti vorrà rivedere!”
“Che entusiasmo, Mia!” commentai.
Quella ragazza sapeva essere contagiosa, me ne stavo
rendendo sempre più conto.
Al pensiero di Jessica, la mia curiosità venne
inevitabilmente stuzzicata.
Ricordai la prima volta che l’avevo vista, mentre scattava
una foto a me e Mia, guardandomi storto e mettendo zero entusiasmo in ciò che
faceva. Aveva tutta l’aria di una che era stata trascinata con la forza, quella
sera.
“Uh, sarà una bomba sabato! Tu, Karol e Francisco, ancora
insieme!”
“Sai che bello! Mister Minchia e Don Giovanni!”
“Samu!” strillò Mia, per poi
esplodere in una sedie di gridolini improponibili.
“I timpani mi servono, ragazza!”
“Ah, vaffanculo! Adesso però ti
mollo.” Sbadigliò, io controllai l’orologio: erano solo le undici di sera!
“Vai a letto con le galline, tu!”
“Samu, smettila, ho sonno! Domani
lavoro, non sono una nullfacente come te!”
“Ehi!” saltai su.
Mia rise, emettendo ancora quella serie di gridolini
inimitabili.
“Dormi bene, ci sentiamo presto!” mi salutò, sbadigliando
ancora.
“A presto e grazie” conclusi.
E, una volta che la telefonata fu terminata, sprofondai
ancora una volta nella tristezza, quella che non mi abbandonava mai quando ero
solo e avevo modo di pensare.
Provai a dormire, giuro, ci provai.
Ma sapevo esattamente come sarebbe andata: quella sarebbe
stata l’ennesima notte insonne.
***
Borbottando, entrai in studio di registrazione.
Erano le sette del mattino e mio fratello era in ritardo,
come ogni giorno.
Sbuffai, rendendomi conto che era perfettamente inutile
adirarsi con lui.
Poi, quella mattina avevo un solo pensiero fisso: Alessia.
L’avevo vista in un locale, la sera precedente, insieme ad
un tipo. Samuele me l’aveva detto che era fidanzata ma io speravo di poter
combinare qualcosa, speravo che le cose tra lei e il suo tipo non fossero così
serie.
Invece sembravano così uniti quei due…
dannazione!
Avevo riposto fiducia in quella ragazza, Mia, la quale mi
aveva piantato sotto la pioggia, come se avesse letto nella mia mente il
secondo fine che mi aveva portato ad avvicinarmi a lei.
Forse ero stato stronzo, forse un po’ megalomane e troppo
spavaldo, però Alessia mi piaceva.
Oh, quella ragazza!
Okay, dovevo smetterla, non era possibile che tutto
dipendesse da lei.
Il fatto è che, da quando avevo lasciato Daniela, mi sentivo
solo. Eravamo stati insieme per secoli… quanti,
sei/sette anni? Non eravamo abituati a contarli e quando ci eravamo lasciati,
abituati a stare sempre insieme, mi era parso come se non avessi vissuto un’altra
vita prima di quella con lei.
E Alessia, da quando frequentavo Samuele, mi aveva
folgorato.
Certo era che non avevo speranze con lei.
Rassegnazione, solo questo.
Fabiano – ma che nome di merda gli avevano dato i nostri
genitori?! – fece poi il suo ingresso in studio, con quindici minuti di ritardo
e gli occhi gonfi di sonno.
“Ah, ciao!” esclamai.
“Mmh…sì…
ciao” mugugnò, per poi sbadigliare rumorosamente.
“Mettiamoci a lavoro” dissi.
“Di già? Fra’, tu sei pazzo! Facciamoci un caffè, una sigaretta…”
“Sei venuto anche oggi senza fare colazione?!”
“Sì, be’… sono appena sceso dal
letto! Oh, che palle, non fare quella faccia e fattela una cazzo di risata,
ogni tanto. Fratello, te lo dico per il tuo bene. Quella tipa ti sta rovinando
la vita, stai diventando un rincoglionito!”
“E rieccoci! Fabo, lasciami in
pace!”
“Fa’ come diamine vuoi, io vado giù a farmi un caffè” disse
Fabiano, facendo spallucce.
Sospirai e lo seguii.
Lui sorrise, vittorioso.
***
Io e Marco avevamo risolto.
Ero felice e lo avrei portato con me al prossimo concerto di
Samuele.
Sarebbe stato sabato e speravo che ci fosse anche Francisco,
almeno mi avrebbe visto con il mio ragazzo e l’avrebbe piantata di
perseguitarmi.
Sospirai.
Sistemavo la mia stanza, scegliendo cosa portare via e cosa
no, una volta trasferita da Marco, quando mio fratello si affacciò alla porta,
battendo le nocche sullo stipite.
“Vieni, vieni! Sto inscatolando i libri” dissi,
sorridendogli.
“Sul serio te ne vai, Ale? Non ci
credo! Eppure… tu e Marco dovete prendervi un po’ di
tempo per stare soli, finalmente!”
“Già, è proprio così. Però, mi mancherai. Verrai a trovarmi,
vero? Ti invito a pranzo ogni giorno!” esclamai, ridendo, mentre mi stringevo
al petto un libro di Coelho.
“Non verrò mai, tu non sai cucinare e rischi di avvelenarmi!
È più brava Cate di te!”
Gli lanciai il libro e lui lo afferrò al volo,
sghignazzando.
“Ti voglio bene, sorella! Yo!”
“Quanto sei stupido, Samuele! Vattene, vattene!”
“Al concerto ci vieni?” domandò.
“Potrei perdermelo?”
“Certo che no, altrimenti che razza di sorella saresti?”
“Sarei come Cate” ribattei,
scuotendo il capo.
“Quella là, non nominarmela!” scherzò lui, strizzandomi l’occhio.
Cercava di stare tranquillo e di continuare a scherzare come
al solito, eppure lo conoscevo e sapevo che la storia di Julieta
l’aveva buttato giù.
E meno male che era arrivata Mia ad aiutarlo!
Quella ragazza era meravigliosa!
Chissà se, un giorno, tra lei e Samuele sarebbe nato
qualcosa!
Lo osservai uscire dalla mia stanza e sperai che quel folle
pensiero si avverasse.
“Si potrebbe fare” cedetti, guardando Mia con espressione
fintamente seccata.
In realtà, non mi dispiaceva poi tanto andare al concerto a
cui mi aveva invitato.
Dovevamo trascinarci dietro sua sorella Sara, ma tutto
sommato poteva andare anche così.
“Oh, Jess, sei la migliore!”
strillò lei, gettandosi su di me come una pazza e stritolandomi in un
abbraccio. “Samu sarà felice di vederti!”
“Eh?!” esclamai, respingendola bruscamente.
“Sì, insomma… ti è molto grato per
averlo invitato alla tua festa di compleanno!”
“Roba da matti, io non ho invitato nessuno!” protestai.
“Lui questo non lo sa! Comunque…
ti passo a prendere tra… due ore. Pensi di farcela?”
domandò Mia, avviandosi alla sua auto.
“Insomma” borbottai.
“Come non detto. Tra due ore sono di nuovo qui. Vedi di
mangiare, bere, lavarti e tutto il resto, non voglio sentire scuse!” mi ordinò,
puntandomi contro un dito.
“Sì, mamma!” risposi, ironica.
Mia mi rivolse una linguaccia e salì a bordo della macchina,
poi si allontanò.
La guardai mentre se ne andava e sospirai.
Corsi in camera mia e spalancai l’armadio.
Dopo un’attenta analisi, la quale si protrasse per i
successivi quindici minuti, decisi di indossare:
- Vestito nero e viola con bretelle fini ricoperte di pizzo;
- Calze a rete nere;
- Sandali viola tacco grosso, con borchie a punta sulle
fibbie;
- Collana con un teschio nero e argentato;
- Bracciale con teschio rosso pendente;
- Pochette nera con borchie allover.
Okay, non era proprio il vestiario adatto ad un concerto di
musica reggae, però a me non importava un bel niente.
Sarei stata semplicemente me stessa e lo avrei fatto sempre,
a prescindere dal contesto in cui mi sarei recata.
Sorrisi e mi avviai in bagno per fare la doccia.
***
Eravamo in tre in macchina: io, mia sorella e Jessica.
Che bello, non vedevo l’ora di rivedere Samuel, Francisco, Karol… wow!
Quanto mi mancavano!
Certo, ancora non riuscivo a capire perché Mia avesse
trattato così male il povero Francisco, lui che voleva soltanto conoscerci!
Poi, da quando lei e Samuel erano diventati amici, pareva
più misteriosa del solito. Ogni volta che le chiedevo qualcosa su di lui o sui
suoi colleghi, lei rispondeva in maniera vaga, solitamente dicendo qualcosa
tipo: “Sara, non puoi capire, le cose non sono come sembrano!”
E nulla più.
Certe che gli adulti – o i presunti tali, visto che Mia
spesso sembrava una bambina peggio di me! – a volte erano proprio strani! Chi li
capisce è bravo!
Quando arrivammo al locale e scendemmo dall’auto, mi sentii
a disagio per due motivi: 1) stavo per rivedere Samuel e 2) l’amica di mia
sorella sembrava un fenomeno da baraccone in mezzo ad una massive di seguaci
del reggae. Era la morte personificata con tutti quei teschi, quelle borchie,
quei colori scuri e tenebrosi!
Ma non si vergognava almeno un po’?
Io avevo vergogna da parte sua.
Chissà cos’avrebbero pensato tutti!
Non appena facemmo il nostro ingresso, infatti, lo sguardo
dei presenti si posò su Jessica.
E la cosa più orrenda fu che lei si sentiva a disagio e
sembrava non badare a loro.
Mia allungava il collo come una demente alla ricerca di
Samuel.
Quando lo vide, il viso le si illuminò, poi sbiancò all’improvviso.
“Che hai visto?” le domandai, avvicinandomi di più per poter
seguire il suo sguardo.
Francisco, al fianco di Samuel, ci salutava con la mano.
“Ecco!” commentai, sollevando la mano per salutarlo.
Mia me la pestò, impedendomelo. Mi afferrò per un gomito e
mi spinse in mezzo alla folla.
Finimmo per sederci in un angolo buio, con Jessica che ci
guardava allibita.
“Sei cretina, Mia?” la accusai, indispettita.
“Non è ancora il momento” mormorò. “Non ancora.”
***
Le nuove amiche di Alessia erano arrivate.
Ero tentato di avvicinarmi a loro, nonostante Mia mi avesse
trattato da pezzente il giorno in cui ci eravamo conosciuti, ma d’improvviso
erano sparite tra la folla.
“Ma dove si sono cacciate?” mi dissi.
Samuele mi udì e si mise a ridacchiare.
“Fra’, insomma! Sei ancora fissato con mia sorella e vuoi
ancora andare avanti con questo piano da idiota?”
“Quale piano idiota?”
“Ho capito bene cos’hai in mente, è inutile che cerchi di
prendermi per il culo!” esclamò il mio amico, ridacchiando.
“In che senso?”
“Che risposta è? Tu vuoi abbordare Mia e credi che lei e mia
sorella siano amiche, così Mia potrà parlare bene di te ad Alessia!”
“Che stronzate!” esclamai, evasivo.
Mi aveva beccato in pieno, quel pezzo di merda.
“Non fare il finto tonto con me, ti ho scoperto! Ti avviso
già che non funzionerà” disse Samuele, tornando serio.
“Perché no?” ammisi, dandomi la zappa sui piedi.
“Bene, avevo ragione! Ora ti spiego una cosa: Mia e Alessia
non sono amiche, si salutano ogni tanto, tutto qui. Io e Mia abbiamo legato
molto da quando è finita con Julieta. Ti consiglio di
non farla soffrire, da poco mi ha chiesto di te. Sa cos’hai in mente. Piantala.”
Samuele mi guardava dritto in faccia, adesso, era divenuto
serio e il suo sguardo era sincero.
Lui e Mia erano amici.
Mia e Alessia no.
Ero stato scoperto. Non ero proprio capace di architettare
piani complicati, mi sentivo un perfetto deficiente.
“Okay, avete vinto!” mi arresi, sollevando le mani in sengo di resa.
Scossi il capo, sconsolato, e i dreadlocks
oscillarono.
Sorrisi, infilandomi le mani tra i capelli.
“Le ragazze non possono resistermi, dannazione!”
“Eh smettila, narciso! Sai l’ultima? Ale
va a vivere con Marco!”
Fissai Samuele, accigliato.
“Lo fai apposta? Be’, non mi importa. Vado a cercare Mia,
devo scusarmi con lei!”
E quando lo dissi ero sincero.
Mi voltai e cominciai a camminare verso il punto in cui l’avevo
vista qualche minuto prima.
Salutavo quasi tutti quelli che incrociavo, quando entri
nella scena musicale – sia come cantante che come produttore – devi affrontare
situazioni di questo tipo quotidianamente.
Dopo aver girovagato per più di dieci minuti, finalmente,
trovai ciò che cercavo.
O quasi.
“Scusa, scusa… ciao, io sono
Francesco, piacere. Tu sei l’amica di Mia, vero?”
La ragazza che avevo fermato mi squadrò da capo a piedi, poi
mi lanciò un’occhiataccia.
“Sai dirmi dove posso trovarla?” domandai, sorridendole il
più cortesemente possibile.
La ragazza – una tipa dark che in un certo senso stonava con
l’ambiente in cui ci trovavamo – mi indicò un punto alle sue spalle, con
indifferenza.
“Grazie, bella” le dissi, sfiorandomi i capelli e
continuando a sorriderle.
Quella mi fissò, inorridita, e si allontanò.
Pazienza.
Guardai nella direzione che mi aveva indicato e finalmente
individuai Mia e sua sorella.
La tredicenne le bisbigliava qualcosa all’orecchio, mentre
lei mi fissava, terrorizzata.
***
Notai Jessica avvicinarsi al bancone del bar.
Quando mi vide, mi fece un cenno con il capo.
“Ciao” dissi.
“Ciao. Senti, ma quel tipo dai capelli orribili come i tuoi
che va in giro a chiedere di Mia è tuo amico?” domandò lei, seccata.
“Chi, Francesco?”
Scoppiai a ridere, immaginandomi la situazione in cui quella
povera ragazza si era ritrovata.
“Ah, non chiedermi come si chiama, ma dubito sia normale a
livello mentale!” esclamò, esasperata.
“Non badare a lui” la rassicurai, “è fatto così. Ha idee
folli in testa, ma è una brava persona. La più buona che io conosca.”
“Se lo dici tu…”
Il barista si avvicinò a noi.
“Per me una birra. Tu cosa prendi?”
“Devo ordinare per me e per le ragazze” disse lei.
“Offro io.”
“Sei la banca nazionale?” ironizzò, indirizzandomi un
sorriso un po’ imbarazzato.
“Vai tranquilla. Allora?”
“Due bottigliette d’acqua naturale e un succo all’ananas.”
Il barista posò le ordinazioni sul bancone e io pagai il
tutto.
“Grazie Samuele” disse Jessica, una volta che ci fummo
allontanati.
“Figurati. Saluta Mia e dille che ci vediamo dopo.”
“Sarà fatto!”
E mi sorrise, come non aveva mai fatto prima con me. Un sorriso
spontaneo, bello, nascosto da un po’ di timidezza, da un atteggiamento da dura,
da borchie e abiti scuri.
Tutto in lei sembrava voler nascondere qualcosa che in quel
momento mi giunse attraverso quel sorriso.
Jessica era una ragazza dolce, in fondo.
***
Avevo pregato anche il dio in cui non credevo affinché
Jessica non dicesse a Francisco dov’ero, l’avevo fatto davvero, con tutte le
mie forze.
Eppure lei gliel’aveva detto.
Avevo preferito non guardare, mi ero tappata gli occhi
finché Sara non mi aveva avvertito che Francisco mi aveva visto.
Quando lui cominciò ad avvicinarsi, rimasi pietrificata a
fissarlo.
“Ciao, ragazze. Mia, sembra che tu abbia visto un fantasma!”
esclamò lui, rivolgendomi un bel sorriso.
Sorriso che mi fece un po’ tremare sulla poltroncina
imbottita.
Quel ragazzo era proprio bello, lo avevo sempre pensato e
ancora mi sembrava un sogno il fatto che fosse venuto a cercarmi per la seconda
volta di seguito.
“Ma quale fantasma!” sbottò Sara. “Mia ha paura di te!” la
sentii aggiungere.
Mi irrigidii come un manico di scopa e mi voltai per
fulminarla con gli occhi.
“Figurati! Mia, possiamo parlare un attimo?”
“Già, era proprio quello che avevo in mente anch’io!”
arrancai, cercando di stare calma e di non uccidere seduta stante quella peste
ambulante di anni tredici.
“Da soli” chiarì Francisco, sorridendomi ancora.
“Quando torna Jessica, possiamo uscire a prendere una
boccata d’aria” proposi.
“Va bene!”
Jessica, un minuto più tardi, tornò con in mano due
bottigliette d’acqua e un bicchiere di succo per Sara.
“Ah, ecco il famoso Francisco!” esclamò, porgendomi la mia
bottiglia e i soldi.
Li contai, dubbiosa.
“Non dirmi che hai pagato tu perché ti strozzo!”
“Risposta errata. È stato Samuele, con tanti saluti!”
annunciò, lasciandosi cadere accanto a Sara che, intanto, stava trangugiando il
succo ed era già arrivata a metà bicchiere.
La guardai storto, poi chiesi a Jessica di Samuele.
“Era al bancone quando sono arrivata e mi ha impedito di
pagare. Dice che vi vedrete più tardi.”
Annuii.
“Ragazze, mi spiegate perché io sarei il ‘famoso Francisco’?”
intervenne il ragazzo.
Tutte e tre lo fissammo, poi scoppiammo a ridere.
“Dai, andiamo” gli dissi.
Lui fece spallucce e insieme ci avviammo verso l’esterno del
locale.
Capitolo 12 *** Scusarsi è bene, non arrendersi è peggio! ***
Scusarsi
è bene, non arrendersi è peggio!
Una volta fuori dal locale, la guardai, ricambiando il suo
sguardo interrogativo.
“Eccoci, cos’hai da dirmi?” incalzò immediatamente Mia.
Facile…
“Riguardo a quella sera…”
attaccai, abbassando un po’ il capo.
Okay, era ufficiale: mi stavo rincoglionendo.
Mi imposi di sollevare nuovamente lo sguardo e lo puntai sul
suo.
“Quella sera non ti ho proprio capito, ma poi ci ho
riflettuto e Samu mi ha detto che hai un debole per
sua sorella” disse lei.
“Conosco Alessia da molto tempo e mi è sempre piaciuta. Però
non vorrei che tu pensassi che ti ho usato per avvicinarla, anche perché non
siete amiche… credo!”
Ma che cazzo stavo dicendo?
Desiderai ardentemente che qualcuno mi lanciasse un mattone
in testa!
“Se fossimo amiche, quindi, mi avresti sfruttato per i tuoi piani
malefici?”
“No, no, che vai a pensare!” strillai, precipitosamente,
cercando di riparare il riparabile.
E Mia mi fissò per un attimo, poi mi scoppiò a ridere in
faccia, gettando la testa all’indietro.
In una maniera che definii automaticamente sexy e arrapante.
Okay, la smetto.
“Che diavolo hai da ridere?” saltai su, confuso e allibito.
“Sei un pagliaccio! Si vede lontano un miglio che ti piace
Alessia e che avevi in mente di conquistarla usandomi come tramite, non serve
che tu menta! E poi ti capisco, non devi scusarti di niente!”
‘No, ma che hai capito? Sto improvvisamente cambiando idea,
sai, su Alessia… guardandoti bene, ehi, bella! Non
sei mica male!’ avrei voluto dirle.
Ma dissi: “Okay”.
Fine.
‘Francesco, sei un fottuto coglione!’
Ecco, me lo meritavo proprio.
Che frustrazione.
“Tutto qui?”
“Eh?” buttai lì, sentendomi sempre più rincoglionito.
Ma che mi stava succedendo? Io ero sempre stato sicuro di
me, cazzo, soprattutto con una bella ragazza!
Scrivevo e cantavo dei brani in cui parlavo facilmente di
quanto certe ragazze mi eccitassero, uscendomene
anche con qualche porcheria, a volte…
E adesso mi atteggiavo a collegiale sfigato.
La vita e i suoi misteri.
***
Francesco mi stava facendo morire dal ridere, aveva
un’espressione che mai – giuro! – mi sarei aspettata di vedergli stampata in
faccia.
Era a disagio e mi fissava, pieno di imbarazzo, senza sapere
esattamente cosa dirmi.
“Avanti, rilassati! So che quella sera sono stata brusca con
te, ma è acqua passata. Sai, non è che mi capiti tutti i giorni di essere
avvicinata dal mio cantante preferito!”
‘Ecco, ho fatto la cazzata del secolo!’ piagnucolai
mentalmente, mordendomi in ritardo la lingua.
Il viso di Francisco si illuminò come un albero di Natale e
le labbra gli si incurvarono in un sorriso che…
Un sorriso che mi face desiderare di gettargli le braccia al
collo e riempirgli il viso di baci, gridando: ‘Alessia non ti merita, fai di me
ciò che vuoi!’
Ma naturalmente rimasi muta, in attesa della sua reazione.
“Mi prendi per il culo” affermò, studiandomi con attenzione.
Giuro, non mi sarei sorpresa se si voltasse da un momento
all’altro gridando: ‘Siamo su Scherzi a parte, ditemi la verita!’
“Ormai il danno è fatto. No, non scherzo! Ma non montarti la
testa!”
Correre ai ripari non è mai facile, quando mai lo imparerò?
“Sapessi da quanto tempo me la sono montata, bella mia!”
‘Sì, sono tua! Magari sulla penultima parola avrei da ridire…’
“Presuntuoso. Mi pento di ciò che ho appena detto!”
esclamai, fingendomi offesa.
Francisco rise e io non riuscii a trattenermi dal seguirlo.
“E allora ti è sembrato insolito che io venissi parlarti”
ripeté, tornando serio.
“Già, dubito che tu lo faccia con chiunque. Ma del resto non
ti conosco e non posso saperlo con certezza.”
“Hai indovinato. Ti ho visto con Alessia e non ho saputo
resistere.”
“Allora è un’ossessione!”
Francisco ridacchiò.
“Un po’ lo è, però… diciamo che
adesso ho capito che forse, be’, impegni permettendo… sai, dovrò consultare la mia agenda, la quale
sta in mano della mia assistente…”
“Mi stai chiedendo di uscire?” tagliai corto, lanciandogli
un’occhiata eloquente.
“Vai di fretta, ragazza!”
“La vita è una sola” commentai, saccente.
“Interessante filosofia di vita.”
Allora decisi di giocare la mia carta, tanto non avevo nulla
da perdere.
“Dal momento che la tua segretaria pensa ai tuoi
appuntamenti, falle avere il mio numero, così mi contatterà lei quando la
superstar sarà libera!” ironizzai.
Francisco portò fuori il cellulare dalla tasca dei jeans.
“Per pra me lo segno io, ma
prometto di passarglielo” rispose, sorridendomi maliziosamente.
“Quella faccia non promette nulla di buono, ti farò avere
dal mio avvocato un’autorizzazione al trattamento dei dati personali.”
Ci guardammo.
“Quanto sei scema!”
“Senti chi parla! Scrivi.”
E gli dettai il mio numero.
***
Il famoso Francisco e Mia rientrarono nel locale, ridendo
come due cretini.
Lui ci salutò con un cenno e andò a raggiungere i suoi
colleghi.
“Ci avviciniamo al palco?” propose Mia, sorridendo a me e a
sua sorella come se le avessero appiccicato due mollette ai lati della bocca.
“Ehm… okay” dissi, scambiando con
Sara uno sguardo stranito.
Che cavolo era successo tra quei due?!
Ero allibita.
Nonostante non mi fregasse granché di tutto quell’ambiente,
stavo cominciando ad incuriosirmi di tutti quegli strani intrallazzi.
Mia era amica di Samuele e faceva il filo a Francisco, a che
gioco stava giocando?
Ci alzammo dalle poltroncine e la seguimmo attraverso la
folla.
Quando arrivammo vicino al palco, Mia si stava sbracciando
per farsi notare da Samuele.
Quando vidi che lui si avvicinava, mi affiancai a Mia a gli
sorrisi, in maniera spontanea, una maniera che stupì me per prima.
“Mia, finalmente ci vediamo!” gridò Samuele, abbracciandola
stretta.
Qualcosa dentro di me si mosse, producendomi fastidio.
E io, essendo poco espansiva per natura, non ebbi il
coraggio neanche di ironizzare su ciò che stavano mostrando in pubblico.
“Già, tu non ti fai mai vedere, vip dei miei stivali!” gli
rispose lei, tirandogli un dread.
Distolsi lo sguardo e vidi che Sara era agitata.
“Che c’è?” le sussurrai all’orecchio.
“Vorrei salutare Samuel ma… mi vergogno…”
“Ma non devi vergognarti, è solo Samuel!” esclamai,
trascinandola accanto a quei due che continuavano a scherzare e ridere come due
piccioncini.
“Ehi, voi! Potete piantarla? Sembrate una vecchia coppia
sposata!” me ne uscii, stupendomi un po’ di tutta quell’improvvisa audacia.
“Ma smettila, Jess!” esclamò Mia,
scuotendo il capo, mentre giuro di aver visto Samuele arrossire.
Spinsi Sara verso di lui e lei gli sorrise, mormorando un “ciao”
appena udibile.
Lui si slanciò in due baci sulle guance e gridò: “Ciao! Come
stai? Sono contento che sei venuta!”
La poveretta, spaventata, rimase immobile a sorridere come
un’ebete.
Perfetto.
“Dai, adesso devo andare! Ci vediamo dopo?” chiese Samuele,
rivolto a Mia.
“Certo! State iniziando?”
“Tra venti minuti, si comincia!”
Detto questo, si voltò e ci salutò con la mano, raggiungendo
i suoi amici.
Non riuscii ad evitare di fissargli il sedere, fu un istinto
che mi fece rabbrividire al solo pensiero.
E mi venne in mente una cosa sconcia e irripetibile che, in
poche parole, suonava tipo: ‘E se avesse quei cosi orribili anche lì sotto?!’
Scossi il capo, inorridita.
***
Fu proprio una bella serata e mi sentii carico all’idea di
cantare di fronte a Mia, Sara e Jessica.
Mia era fantastica, mi faceva morire dal ridere ed era un’ottima
amica.
Perché tutti dovevano pensare che tra noi ci fosse qualcosa?
Era una follia!
Avevo rotto da poco con Julieta e
non avevo alcuna intenzione di ricominciare con un'altra, almeno per il
momento.
Jessica mi incuriosiva, invece: il suo abbigliamento e la
sua timidezza mi facevano venire voglia di conoscerla un po’ meglio, eppure non
sapevo come fare io stesso ad uscire dal guscio.
Il fatto che fossi un cantante, avessi i dread,
portassi avanti i principi e i messaggi della reggae music
e che avessi un nome d’arte (e capirai che nome d’arte, bastava solo eliminare l’ultima
vocale del mio nome!) non facevano di me una persona particolarmente espansiva
e non riuscivano ad abbattere del tutto la mia timidezza.
Con Mia era facile, perché lei spesso prendeva l’iniziativa
e soprattutto mi metteva a mio agio, condivideva i miei interessi e si
divertiva a parlare con me di patois giamaicano, quando al telefono non avevamo
di meglio di cui discutere.
In ogni caso, fu bello esibirsi quella sera, la prima dopo
la rottura con Julieta.
Mi dimenticai per un po’ di lei e fu come se nulla fosse
successo.
Mia e le altre erano in prima fila con tanto di macchina
fotografica alla mano e ogni tanto mi veniva da ridere, mentre lei mi
indirizzava gestacci per farmi capire che mi agitavo troppo sul palco e non
riusciva a scattare una fotografia in maniera decente.
Quando lo showcase si concluse e rimase solo la selezione
musicale ad invadere il locale, raggiunsi le ragazze, seguito da Francesco.
“Sei una fottuta scimmia, Samuele!” gridò Mia, mollandomi un
pugno sul braccio.
Strinsi i denti per il dolore.
“Guarda che scempio queste fotografie!” aggiunse,
mostrandomi la macchina fotografica.
Cominciai a scorrere le immagini, mentre Francesco, Jessica
e Sara si assiepavano dietro di noi per poter assistere allo spettacolo.
La maggior parte degli scatti erano mossi e incomprensibili,
ma c’erano alcune immagini davvero carine e divertenti.
Dopo esserci sbellicati per i successivi dieci minuti,
Francesco propose di andare a bere qualcosa.
“Offri tu?” lo punzecchiò Mia, lanciandogli un’occhiata da
cucciolo.
‘Brutta puttana, stronza, ti odio!’ pensavo, mentre
appiattita contro la pareta, fissavo la scenetta
patetica che si svolgeva sotto il palco.
Ero certa che nessuno mi avesse notato, ma si erano illusi
si avevano pensato di sbarazzarsi così facilmente di me!
Samuele era stato meraviglioso come al solito, mi aveva
fatto venire le lacrime agli occhi e mi ero dovuta costringere a rimanere ferma
alla fine del live, nonostante morissi dalla voglia di correre ad abbracciarlo,
come avevo sempre fatto quando stavamo insieme.
In realtà, ci stavo seriamente pensando a farlo, ma poi lo
avevo visto raggiungere quella gallina spelacchiata che aveva conosciuto poco
tempo fa grazie ad Alessia e mi ero bloccata con il piede sollevato come se
stessi giocando alle belle statuine.
Rimasi a fissarli digrignando i denti, mentre puntavano lo
sguardo sulla macchina fotografica di lei e ridevano in maniera dannatamente
irritante.
Poi lui la prese sottobraccio e a quel punto un dolore
lancinante mi perforò il petto, tramortendomi.
Come osava toccare una ragazza che non ero io?
Lui era mio, il mio Samuele!
Stavo impazzendo.
Qualcuno mi punzecchiò sulla spalla.
Mi voltai, spaventata, sperando di non essere stata
scoperta.
Il nuovo arrivato mi indicava e rideva di me, irritandomi
più di quanto non fossi già.
“Guarda, guarda chi abbiamo qui! L’ex frustrata che si
mangia le mani mentre il suo amato si è già rifatto una vita!” esclamò lui,
puntandomi contro un dito.
E giuro che, se non fossi un cittadino rispettabile, l’avrei
ammazzato infilandogli una delle mie scarpe con il tacco nei genitali.
Tutto era andato alla perfezione, io avevo chiarito le cose
con Francesco e mi sentivo più tranquilla.
Quando poi era giunto il momento di andarcene, era accaduto
qualcosa e io non riuscivo proprio a levarmelo dalla testa.
Avevo salutato Samuele con un abbraccio da orso (sì, sul
serio, non è solo un modo di dire!) dal momento che non sapevamo quando ci
saremmo rivisti. Mi aveva spiegato che aveva da registrare qualcosa in studio e
che il tempo scarseggiava.
Inoltre, non mi erano sfuggiti gli sguardi e i sorrisi che
lui e Jessica si erano lanciati fino all’ultimo, per poi congedarsi con una
goffa stretta di mano.
Mia sorella era completamente agitata e inquieta dalla
presenza di tutti quei cantanti intorno a noi e aveva a malapena parlato,
limitandosi a ridacchiare per la maggior parte del tempo.
E a me cos’era successo?
Non riuscivo neanche a pensarci.
***
Le cose con il mio ragazzo si stavano rivelando complicate.
Non ne potevo più di aspettare e così presi una decisione
importante.
Dovevo prendere un aereo e andare a conoscerlo, non riuscivo
più a vivere così. Lo avevo conosciuto si internet e mi interessava creare un
futuro con lui, ma non ci eravamo mai visti ed erano ormai trascorsi gli anni
senza che io sapessi realmente con chi stavo parlando e a chi stavo dedicando i
miei sentimenti.
Sapevo perfettamente che nessuno sarebbe stato d’accordo, ma
non potevo neanche partire senza avvertire.
L’unico che non l’avrebbe saputo sarebbe stato proprio lui,
Ignazio, colui che mi aveva rubato il cuore e l’anima.
Non potevo più aspettare e volevo fargli una sorpresa.
Mentre mi preparavo per dare la notizia a tutti, dimenticai
tutto ciò che era accaduto nei giorni precedenti, finché non ricevetti una
richiesta d’amicizia su facebook e rimasi a fissare
lo schermo del cellulare con gli occhi sgranati.
Samuele mi aveva aggiunto alla lista dei suoi amici.
Sì, proprio lui, l’amico di Mia.
Che voleva da me?
Ignorai la richiesta, infastidita, e inviai un messaggio al
mio ragazzo.
Non vedevo l’ora di poterlo abbracciare.
***
La disperazione di Mia era palpabile.
“Dimmi che sei a casa! Te ne prego!” gridò al telefono,
senza neanche salutarmi.
Lanciai un’occhiata ai miei amici.
“Ehm… no, sono in studio da Fra’ e
Fab… ti avevo detto che avevo da registrare, vero?”
Il mio sorriso divenne malizioso, mentre gli occhi di
Francesco si illuminavano nell’udirmi pronunciare il nome della mia amica.
“Vuoi venire qui?” ripetei, sapendo di attirare
ulteriormente l’attenzione di quell’idiota che già mi fissava con la bava alla
bocca.
Almeno la sua attenzione si era distolta da mia sorella, la
quale ormai stava andando a convivere con il suo ragazzo e di certo non pensava
a quello screanzato di Francesco (come amava definirlo nostra madre).
“Per favore. Prendo il primo treno e me ne scappo da questa
gabbia di matti. Anzi, se Francisco mi permettesse di portarti via, sarebbe il
massimo!”
Ridacchiai.
“Non potrai portarmi via, però credo che i miei colleghi non
abbiano nulla in contrario se ci raggiungi” buttai lì. “Vero, Fra’?”
“Con chi stai parlando?” domandò Fabiano.
“Un’amica.”
“Samu? Ti chiamo quando arrivo e
mi vieni a prendere in stazione?” chiese Mia.
“Sicuro sia SOLO un’amica?!” gridò Fabiano, ridendo.
“Eh stai zitto, cazzo!” lo zittì suo fratello, stizzito.
“Okay bella, a dopo” conclusi, riattaccando.
“Ah-ha, Samuele si è fatto la
nuova tipa, eheheh!” cantilenò Fabiano.
Afferrai il microfono e lo minacciai di lanciarglielo.
“Non osare! Sai quanto cosa quel gioiellino?” gracchiò lui,
di rimando.
Poi si alzò e uscì a fumare.
“Mia sta arrivando” dissi a Francesco.
Lui finse indifferenza, ma posso giurare di aver visto sul
suo viso una nota di compiacimento.
***
Ero furiosa!
Decisamente, quel coglione di Carlo non avrebbe potuto
combinarne una peggiore!
Proprio quando avevo deciso di andare a riprendermi il mio
Samuele, era arrivato lui e mi aveva preso in giro, trascinandomi fuori dal
locale prima che avessi il tempo di rivolgere un’ultima occhiata al mio amato.
Solo a pensarci, mi ribolliva il sangue nelle vene.
“Sei una ragazza così carina, Julieta,
perché non la smetti di stare appresso a Samuele? Dopo quello che gli hai fatto… cosa credi di ottenere?” aveva detto, beffardo,
mentre mi seguiva all’esterno.
“Si può sapere cosa vuoi? Per poco non mi hai fatto morire
d’infarto! Carlo, se ti sopportavo quando io e Samu
stavamo insieme, la mia pazienza si è di colpo esaurita.”
“Andiamo… ti sei concessa al primo
venuto il giorno in cui sei uscita senza di lui per la prima volta dopo mesi e
adesso fai la preziosa con me?” aveva continuato, sfiorandomi un braccio.
Mi ero ritratta, piantandomi in mezzo al marciapiede.
“Cosa stai facendo? E non permetterti, non è assolut…”
“Con me puoi essere sincera, tesoro! E poi non sono geloso”
mi aveva interrotto, sorridendo con malizia. “Non essere frustrata, passerà
anche questa.”
“Sei davvero convinto che a me fotta qualcosa di quello che
stai blaterando?” avevo sbraitato.
“Ma certo. Dai, perché non andiamo a casa mia?”
“Cosa?”
“Hai capito bene. Perché mi respingi, bambolina?” aveva
sussurrato, avvicinandosi nuovamente a me.
“Io amo Samuele!”
“Ma, bellezza, lui non pensa più a te. È la verita, non lo dico per farti soffrire…
non lo farei mai.”
“Non ti credo. Anche lui mi ama ed è solo arrabbiato per
questo malinteso.”
Mi ero domandata più volte cosa mi spingesse a stare ancora
a sentire quel tipo.
“Malinteso, eh?” Carlo mi aveva accarezzato il viso.
“Andiamo” aveva detto poi, prendendomi per mano.
Non so perché, ma non riuscii a respingerlo.
Mi ritrovai a casa sua, sul suo letto, a fare sesso con lui
in maniera indescrivibile.
E mi fermerò qui con il racconto.
Sta di fatto che ora, col senno di poi, lo odiavo. Ero certa
che avrebbe raccontato tutto a Samuele e io, a quel punto, non avrei più avuto
alcuna possibilità di riprendermelo.
Era tutta colpa di Carlo, brutto stronzo!
***
Quando Mia scese dal treno, era stravolta.
Il cuore mi si strinse nel petto e le andai incontro,
preoccupato.
“Ciao Mia… ehi, che succede?
Cos’hai?” domandai, sfiorandole appena una spalla.
“Dov’è Samuele?” domandò subito lei, fissandomi con aria
ostile.
“In studio, è rimasto con Fabiano a registrare. Siamo in
ritardo e abbiamo ancora un featuring e altri pezzi
da mettere a punto” spiegai, con calma.
“Andiamo da lui” disse, piatta.
Aveva un’espressione davvero triste e angosciata e non
riuscivo ad immaginare cosa potesse turbarla tanto.
“Okay. Ma posso fare qualcosa per te, nel frattempo?”
chiesi, con apprensione.
C’era qualcosa che mi spingeva a volerla proteggere da
quell’ignoto che la stava divorando.
“No, puoi solo stare zitto e portarmi da Samuele?” sbottò,
fulminandomi con gli occhi che, intanto, si erano accesi di rabbia.
Non dissi nulla e salimmo in macchina. Rimanemmo in silenzio
per tutto il viaggio e Mia non aprì bocca finché non si ritrovò di fronte a
Samuele.
Gli si gettò addosso e lo abbracciò.
“È un disastro, Samu, un vero e
proprio disastro! Devi aiutarmi a farle cambiare idea!” piagnucolava, invasa
dai singhiozzi.
“Ma di chi parli?” domandò lui.
Fabiano intercettò il mio sguardo e il viso gli si illuminò.
Possibile che fosse già giunto a conclusioni affrettate,
quel cretino?
“Senti, facciamo così: stai qua con noi, poi più tardi ti
porto a prendere un gelato e mi racconti tutto, ti va?”
Quanto diamine era sdolcinato Samuele in quel momento?!
Distolsi lo sguardo e mi misi a frugare a caso in mezzo ai
numerosi dischi presenti in sala.
Dopo qualche minuto, mi sentii toccare la spalla.
“Dimmi Samu.”
“Porta Mia a prendere aria, ti scoccia?”
“Dubito vorrà venire con me” borbottai, senza guardarlo.
“Avanti! Sfodera il tuo fascino e fai ciò che devi!” mi
incitò lui, dandomi una leggera spinta.
Sospirando, raggiunsi Mia che era rimasta in piedi vicino
alla porta.
“Mi accompagni a fumare?” le chiesi, sperando di non aver
utilizzato un tono da cretino, come mi veniva spontaneo fare in genere.
“Okay” sussurrò.
Sorpreso, le feci strada all’esterno e ci sedemmo sui
gradini dell’ingresso.
Io cominciai a fabbricarmi una sigaretta.
“Fumi?”
“Neanche per sogno.”
“Lo immaginavo. Va bene, allora mi farai compagnia e basta!”
Rimanemmo in silenzio per unpo’,
poi io accesi la sigaretta e Mia si schiarì la voce.
“Perché la gente è così sprovveduta?” mi domandò, come se la
cosa fosse retorica.
La guardai e attesi che continuasse.
“La mia amica Jessica è impazzita: vuole partire ad
incontrare uno che neanche conosce!”
“Come sarebbe a dire?”
“L’ha conosciuto su facebook
qualche anno fa e lo considera il suo ragazzo. Sembra una brutta copia di Catfish” spiegò, desolata.
“Catfish?”
“Lascia stare.”
Tacqui.
“Devo fermarla. Ho troppa paura per quello che le potrebbe
succedere, con tutto quello che succede di questi tempi alla gente che esce ad
incontrare perfetti sconosciuti!”
“Sai, Mia” cominciai, riflettendo sulle parole più adatte da
dire. “La gente ha bisogno di questo. Ha bisogno di sbatterci il muso, di
provare sulla sua pelle cosa significa fare le cose senza pensarci su. Credo
proprio che tu non possa fare niente per questa persona. Devi lasciarla andare
e sperare che tutto vada per il verso giusto. Sii ottimista: non è detto che le
vada male.”
Lei mi osservò, perplessa. Stava per ribattere qualcosa,
quando la porta alle nostre spalle si aprì e Samuele apparve sulla soglia.
“Ah, sei una ciminiera!” sbuffò Mia, alzandosi.
“Andiamo?” chiese Samuele, sorridendole.
“Certo!”
Mia aveva finto di non avermi appena fatto una confidenza,
ma prima di voltarsi per seguire Samuele, mi rivolse uno sguardo e momorò: “Grazie”.
La osservai mentre si allontanava e a quel punto decisi di
fare una cosa che non era propriamente da me.
Mi alzai e schiacciai la sigaretta sotto la suola, fissando
l’orizzonte.
Mi sentivo osservata e non riuscivo a capire se fosse una
mia impressione o se qualcuno mi stesse fissando. Mi guardai attorno nella
gelateria semideserta, sotto lo sguardo interrogativo di Samuele. Gli stavo
raccontando quello che avevo appreso da Jessica qualche ora prima ed ero fuori
di me dalla rabbia e non riuscivo a stare ferma sulla sedia. Intanto, le parole
di Francesco continuavano a ronzarmi nella mente: possibile che avesse ragione
lui? E possibile che Jessica avesse realmente bisogno di quel confronto?
Ignazio era davvero così importante per lei?
Scossi il capo: era pura follia!
“Che c’è? Che ti prende, Mia?” mi domandò Samuele,
allungando una mano sul ripiano del tavolo per stringere la mia.
Quel contatto mi fece sussultare.
“Scusami, Samu. Sono incazzata
nera e preoccupata come non mai! Devi aiutarmi, ti scongiuro per l’ultima
volta!”
“Cosa posso fare?” chiese, fissandomi negli occhi.
“Impediscile di partire!” esclamai e proprio in quel momento
il cameriere ci servì i gelati che avevamo ordinato.
“Scusate, prego” disse, posando la coppa di fronte al mio
viso.
Non lo degnai di uno sguardo e presi ad abbuffarmi come un
maiale, senza preoccuparmi di cosa gli altri potessero pensare di me.
“Grazie mille” sentii dire a Samuele.
Mangiammo in silenzio e io non feci altro che ripensare alle
parole che Francesco aveva pronunciato all’esterno dello studio di
registrazione.
“Mia, dubito che Jessica mi darà ascolto. L’ho aggiunta su facebook ma la richiesta è ancora in sospeso” disse Samuele
non appena ebbe terminato il suo gelato.
“Chi se ne frega di facebook!
Quello non conta, magari non vuole che il suo tipo ti invii qualche messaggio,
notandoti tra i suoi amici” blaterai, tanto per sminuire quella sua
spiegazione.
Samuele scoppiò a ridere, guardandomi.
“Pulisciti, Mia!” esclamò, porgendomi qualche salvietta.
Lo fissai stizzita e poi scoppiai a ridere a mia volta.
Il sorriso scomparve immediatamente dal mio viso.
Fu allora che lo vidi.
***
Ormai era troppo tardi perché qualcuno mi fermasse.
Mia e le sue scenette patetiche mi avevano davvero stancato:
chi si credeva di essere per intralciare i miei piani? Eravamo amiche da anni,
ormai, questo era vero. Le volevo bene e sapevo che era lo stesso per lei, però
non potevo accettare le sue cretinate da madre apprensiva.
Seduta nella sala d’attesa dell’aeroporto, attendevo che
chiamassero il mio volo.
Ero pronta per quell’avventura.
Lo ero?
Non ne ero poi così sicura, però ormai avevo deciso.
Sarei andata da Ignazio e lo avrei affrontato, qualunque
cosa fosse successa.
Udii dall’altoparlante la prima chiamata e afferrai il
cellulare.
Scrissi un messaggio a Mia e poi lo spensi, avviandomi verso
l’uscita.
***
“No, cazzo!” imprecò Mia, alzandosi di botto e rischiando
così di rovesciare le coppe del gelato.
“Cosa succede?” le domandai, fissandola con la confusione
dipinta sul viso.
“Francesco. Credo ci abbia seguito!” strillò, fissando un
punto alle mie spalle.
Stavo per ribattere, quando udii un suono provenire dalla
borsa di Mia.
Lei si voltò e afferrò la cerniera, la aprì e cominciò a
rovistare nella borsa, sbuffando.
“Sei sicura di aver visto Francesco?”
“Io lo ammazzo!” borbottava, cercando il cellulare. “E
adesso chi cazzo è?!”
Il suo cellulare aveva cominciato a squillare e lei prese ad
imprecare.
Mi venne quasi da ridere ma decisi che volevo accertarmi
della presenza di Francesco.
Non era da lui fare certe cose, mi pareva strano che si
fosse messo a fare spionaggio gratuito.
“Dalila!” gridò Mia al telefono, puntandosi la mano sul
fianco e fissando il suo gelato che, intanto, si scioglieva miseramente.
Mi alzai e le domanddai in un
sussurro dove avesse visto il mio amico.
Lei mi indicò un punto alle mie spalle e io mi voltai,
scorgendo una sagoma familiare passeggiare all’esterno della gelateria.
Francesco si era ficcato in testa un cappello e inforcato gli occhiali da sole,
credendo così di non essere riconosciuto. Pessima idea.
“Cosa? È già partita? Merda, merda, merda!” sentii gridare.
Compresi che Mia stava parlando di Jessica e avvertii una
strana sensazione di disagio. Così la lasciai al tavolo e mi diressi verso
Francesco.
Quando gli fui accanto, gli mollai una potente pacca sulla
spalla che lo face sobbalzare.
“Porca troia! Samuele! Ma sei rincoglionito? Cosa cazzo stai
facendo?” sbraitò, non appena mi riconobbe.
“Ciao, mister delicatezza” lo canzonai, sorridendo. “Se
avessi bisogno di un investigatore privato, stai pur certo che non ti
assumerei.”
“Divertente.”
“Perché ci hai seguito?”
Francesco evitò il mio sguardo e fece spallucce.
“Così” borbottò.
“Sul serio, che hai in quella testa?”
“Mia si è confidata con me e io sono preoccupato, tutto
qui.”
“Sappi che ti ha visto ed è incazzata” gli feci notare.
Poco dopo, notai che Mia era andata a pagare, poi ci
raggiunse.
“Che è successo?” le domandai, cercando di evitare che
picchiasse Francesco.
“Jessica è partita, cazzo. E io non ho fatto niente per
fermarla!”
Gli occhi le si riempirono di lacrime che subito si affretto
ad asciugare, tentando invano di nasconderle a me e al mio amico.
“Mia” mormorò Francesco, abbassando lo sguardo sul viso di
lei. “Ricordi cosa ti ho detto?”
Lei lo fissò con rabbia e io temetti il peggio.
“Sai che c’è? Non capisco perché mi stai sempre tra i piedi,
Francesco! Quale parte della frase ‘voglio stare sola con Samuele’ non ti è
chiara? Hai bisogno di un traduttore o di un disegnino, eh? Levati di mezzo!”
Francesco assunse un’espressione strana, che non riuscii a
decifrare.
Stavo per dire qualcosa quando lui fece qualcosa che non mi
sarei mai aspettato.
***
“Stammi bene a sentire, Mia” sbottai, afferrandola per un
polso.
Ero arrabbiato e non riuscivo più a farmi trattare in quel
modo da lei. Non avevo fatto altro che cercare di starle vicino e lei mi aveva
respinto, continuando a rispondere in maniera indisponente ad ogni mia
affermazione o domanda. Cominciavo a dubitare del fatto che si fosse davvero
confidata con me.
“Sto cercando di aiutarti e non mi va che tu mi tratti così.
Si può sapere cosa ti ho fatto? Sei ancora incazzata perché all’inizio mi sono
avvicinato a te per via di Alessia? Adesso le cose sono cambiate e io non so
più come fartelo capire. Cosa pretendi dalla gente, Mia? Sai qual è il tuo
problema? Tu vuoi controllare la vita degli altri, ma non puoi farlo! Anche
prima ho cercato di dirtelo senza essere scortese, ma a quanto pare non ti
interessa niente, vuoi fare tutto a modo tuo!”
“E tu invece? Tu hai seguito me e Samu
fin qui, credi di essere normale? Sei pazzo, Francesco! Completamente pazzo! E
lasciami andare!”
“No, ascoltami! Sono venuto perché ero preoccupato e mi
sarebbe piaciuto aiutarti fin dall’inizio, ma tu hai eretto una barriere e non
me l’hai permesso. Bene, ti lascio andare e sappi che non mi avrai più tra i
piedi, proprio come hai chiesto.”
Mollai la presa e indietreggiai, ferito da tutto quel casino
che stava accadendo. Guardai Samuele negli occhi e continuai a parlare senza
più degnare Mia di uno sguardo: “Samu, pensaci tu, ti
auguro buona fortuna. Sono certo che rimpiangerà quello che mi ha detto”.
Detto questo mi voltai e me ne andai, infuriato con me
stesso, con Mia, con Samuele, con tutti e con nessuno.
Perché la gente si ostina voler fare tutto da sola,
ottenendo sempre la metà del risultato sperato?
Non lo avrei mai compreso.
Quando mi rinchiusi nuovamente in studio, Fabiano non c’era
e così potei sfugare tutta la mia ira improvvisando
rime a caso su riddim a caso, mentre il cuore mi
batteva al rallentatore, come se stesse per fermarsi.
***
“Cos’hai combinato, Mia? Fra’ era proprio distrutto” disse
Samuele, stringendomi a sé mentre io piangevo, incapace di fermare le lacrime.
Mi odiavo profondamente, non sopportavo di mostrarmi in
quelle condizioni di fronte a nessuno e, nonostante considerassi ormai Samuele
come un fratello, la cosa mi infastidiva ugualmente.
“Dai, ti porto a casa mia, ti va?” mi domandò lui,
accarezzandomi i capelli.
Mi sentivo una merda e non riuscii a rispondere, se non con
un singhiozzo strozzato.
“C’è anche Ale a casa, se non vuoi
parlare con me, penserà lei a te.”
Non risposi e ci avviammo in silenzio per le strade del suo
paese.
Continuavo a piangere in silenzio, mentre mi stringevo al
braccio del mio amico e mi sentivo sempre più male.
Tutto stava andando storto: Jessica era partita da quel
testa di cazzo di Ignazio e io non sapevo cosa le sarebbe capitato, Francesco
mi odiava perché avevo rovinato tutto e ora non sapevo più come comportarmi.
Quando giungemmo a casa di Samuele, l’unica persona presente
era sua sorella Caterina, che io non conoscevo.
Sembrava una ragazza dolce, ma Samuele mi aveva confidato
che spesso ostentava una durezza e un’acidità che non possedeva. Era comunque
molto forte e riusciva a lottare per ciò in cui credeva. Mi era stata simpatica
fin dal primo momento in cui ne avevo sentito parlare.
Conoscerla mi avrebbe fatto un immenso piacere, se non fossi
stata in quelle condizioni.
Quando entrammo in casa, tenni gli occhi bassi e ascoltai in
silenzio lei e suo fratello parlare.
“Lei dev’essere Mia” esordì
Caterina, in piedi sulla soglia della cucina.
“Già, ma non sta bene, quindi vedi di non disturbarla.”
“Per chi mi hai preso, razza d’idiota?” lo rimbeccò la
ragazza, indignata.
Samuele borbottò qualcosa e mi spinse verso le scale.
Sollevai per un attimo lo sguardo e incrociai gli occhi
scuri di Caterina. L’espressione ironica che aveva stampata in viso fino a quel
momento lasciò il posto ad un sincero dispiacere e i suoi lineamenti si
addolcirono di colpo.
“Oh, no, so io cosa ci vuole in questo caso” affermò la
ragazza, per poi raggiungermi in fretta.
“Cate!” la riprese Samuele.
“Senti un po’, caprone! Vatti a fare un giro, eh? Penso io
alla tua amica” lo liquidò lei, per poi prendermi per mano e trascinarmi in
cucina.
Mi indicò una sedia e chiuse la porta.
Mi sedetti e rimasi ad osservarla.
“Ho qui un buonissimo tè nero alla vaniglia, sono sicura
che, dopo averlo bevuto, starai molto meglio. Lo hai mai provato?” mi chiese
Caterina, mostrandomi una scatola rettangolare che aveva estratto da un pensile.
Si trattava di tè nero di marca Twinings, qualcosa
che però io non avevo mai assaggiato.
Scossi il capo, curiosa di provarlo.
“C’è sempre una prima volta, tesoro!” esclamò, mettendo
l’acqua a bollire all’interno di un pentolino di metallo.
“Quando il mondo ti sembra strano e incomprensibile, Twinings ti salva sempre!”
“Sembra una pubblicità di quart’ordine” osservai,
accorgendomi soltanto in quel momento che avevo smesso di piagnucolare.
Caterina fece una smorfia, poi ridacchiò.
Quella ragazza mi piaceva già, mi infondeva sicurezza e mi
faceva sentire più ottimista, nonostante non ci fosse nulla di positivo nei
recenti avvenimenti.
Mi versò il tè e si sedette di fronte a me, stringendo la
sua tazza tra le mani.
“Allora, che succede, donna?”
Le raccontai ogni cosa.
***
Decisi di andare a cercare Francesco.
L’avevo chiamato sul cellulare ma non aveva risposto, così
mi incamminai nuovamente verso lo studio di registrazione per vedere se fosse
tornato lì.
E infatti lo trovai in sala, con le cuffie sulla testa,
microfono e un riddim che in loop,
sul quale lui aveva registrato delle strofe tristissime che, ne ero certo, non
avrebbe mai permesso che uscissero da quelle quattro mura. Se si fosse accorto
della mia presenza, avrebbe evitato che io ascoltassi le sue parole graffianti.
E quando mi notò, era ormai troppo tardi.
“Cosa fai qui?” domandò, spegendo
di tutta fretta la registrazione.
“Ti cercavo. Dove hai buttato il cellulare?”
“Ti sei già stancato della tua amichetta?” controbatté con
un’altra domanda.
Era tipico di Francesco: quando non sapeva cosa dire o
semplicemente non voleva rispondere, utilizzava l’attacco a mo’ di difesa.
“Piantala con le stronzate. So che ci sei rimasto di merda”
lo smontai, sedendosi vicino a lui su uno sgabello girevole.
“Come no.”
“Fra’, siamo solo io e te. Non fingere.”
“Mia è tornata a casa?” cedette, sospirando.
“È con Cate, poveretta!”
“Ti riferisci a Cate o a Mia?”
Gli mollai un pugno sulla spalla e lo fissai, in attesa che
parlasse.
“Okay, hai vinto! Ci sono rimasto di merda e mi indispone
l’atteggiamento di quella ragazza. È come se mi odiasse, ma passerà anche
questa, no?”
Sorrisi, accorgendomi di quanto fosse cambiato nell’ultimo
periodo.
“Che hai da ridacchiare?”
“Da quando ti conosco, non ti avevo mai visto così”
osservai.
“Così come?”
Presi a tirargli un dread, così,
tanto per rompergli le palle.
“Così… preso.”
“Preso?”
“Preso bene, interessato… Mia ti
piace, eh?”
“Ah, no! Stai sbagliando!”
“Eh piantala, fratello! Ormai ti conosco! Su, solleva le
chiappe da quello sgabello e vieni con me. Prendi la macchina e la riaccompagni
al suo paese, così potrete parlare in santa pace.”
“Non verrà.”
“Sì che lo farà. E non dimenticarti di scusarti con lei, hai
un po’ esagerato. L’hai fatta piangere.”
Francesco sollevò bruscamente lo sguardo, fissandomi
sbalordito.
“Questa poi!” esclamò. “Senti che roba!”
Mi alzai e gli tirai un altro dread.
“Eh che cazzo, smettila!”
“Dai, muoviti, cavernicolo!”
Uscimmo dallo studio ridendo, mentre lui cercava di
acchiappare uno dei miei dread per vendicarsi.
Salimmo in macchina e ci avviammo verso casa.
Senza che mi notasse, incrociai le dita: sarebbe andato
tutto bene, doveva essere così, per forza.
“Figurati, ti capisco, la tua amica è cretina o cosa?
Andiamo, chi è il deficiente che se ne andrebbe ad incontrare uno sconosciuto
con cui ha parlato solo su facebook?”
“Si sono pure sentiti per telefono” puntualizzai,
sarcastica.
“Ah, pensa te! Questa sì che è una notizia rincuorante. Mi
auguro davvero che la tua amica torni a casa sana e salva, altrimenti non so
che altro pensare, anzi, meglio che non pensi perché poi…”
Udimmo la porta di casa sbattere e Caterina si fermò di
colpo, fissandomi.
Entrambe ci voltammo a controllare chi fosse arrivato e
notammo Samuele affacciato in cucina.
“Ecco il caprone” lo canzonò Caterina, facendogli una
linguaccia.
“Vedi di stare zitta, Cate!”
protestò lui, guardandomi. “Mia… potresti uscire un
attimo?”
“Perché?” domandai, allibita.
Caterina si alzò e si piazzò di fronte al fratello, il quale
cercò di impedirle di uscire dalla cucina.
C’era qualcosa che non andava.
La ragazza afferrò Samuele per un braccio e lo spinse via,
per poi oltrepassarlo.
“No, Cate, cazzo!” imprecò lui.
A quel punto mi alzai anch’io per andare a controllare cosa
diavolo stava succedendo.
“C’era da aspettarselo. Samu, sai
benissimo che i tuoi amici strani non sono graditi in casa nostra, vero?”
Amici strani? Ma chi c’era?
Quando mi affacciai, notai Francesco che si puliva i piedi
sullo zerbino dell’ingresso.
Sbiancai di colpo, non sapendo assolutamente come
comportarmi. Avevo sbagliato tutto con lui e ora non avevo idea di come
prenderlo.
Ma cosa ci faceva lì? Avevo la netta impressione che Samuele
mi stesse nascondendo qualcosa.
“Ciao anche a te, Cate. Il piacere
è reciproco, lo sai!” esclamò Francesco, estremamente sarcastico.
“Fra’, non farci caso. Caterina deve avere le sue cose”
gracchiò Samuele, in un tono velenoso che non gli avevo mai sentito.
“Divertente. Su, sparite e in fretta, se mamma trova questo
tizio in casa, rompe le palle a me perché non l’ho cacciato via a calci”
ribatté Caterina, senza scomporsi. Era rimasta impassibile a fissare Francesco,
le braccia incrociate sul petto e un’espressione indecifrabile stampata in
viso.
Compresi che era quella la maschera dietro la quale si
nascondeva in genere. Era una ragazza forte e io la invidiavo, poiché non ero
mai riuscita a nascondere nessuna emozione dietro una facciata così salda e ben
costruita.
“Ma piantala!”
“Samuele, quale parte della frase non ti è chiara?”
“E a te quale parte della parola ‘fottiti’ non è abbastanza
comprensibile?”
Continuarono a battibeccare, mentre io e Francesco ci
fissavamo senza dire una parola.
Poi lui si schiarì la voce e io mi preparai ad essere
insultata. Del resto, me lo meritavo.
“Posso accompagnarti a casa, Mia?”
Rimasi senza parole.
***
Evidentemente l’avevo sorpresa, perché non disse niente e
rimase a scrutarmi, alla ricerca di qualche segnale a me ignoto.
Avevo esagerato con lei, Samuele aveva ragione, ma davvero
credeva che l’avrei aggredita ancora?
Sollevai le mani in segno di resa, scuotendo il capo.
“Vengo in pace!” esclamai, teatralmente.
Mia trattenne a stento un sorriso, poi scoppiò a ridere e i
suoi occhi divennero di colpo limpidi, segno che ero riuscito a farla rilassare
un po’.
Intanto Samuele e quella pazza di Caterina stavano ancora
litigando e temetti che si prendessero a pugni. Conoscendo sua sorella minore,
la cosa non mi avrebbe affatto sorpreso.
“Sei sicuro di non essere troppo arrabbiato? Come posso
fidarmi di te? Che ne so, magari mi scarichi in autostrada, a metà tragitto…”
La voce di Mia attirò nuovamente la mia attenzione e mi
voltai a guardarla, sorridendo.
“Sai, non ci avevo pensato. Buona idea.”
Lei annuì e poi andò da Samuele e gli sfiorò un braccio.
“Francesco mi accompagna a casa, in caso la cosa sia di tuo
interesse, bambino” gli disse, puntendogli contro un
dito.
Caterina mi incenerì con lo sguardo ma non fece commenti e,
sbuffando, estrasse il cellulare.
“Bene, Mia. Se hai bisogno di me, chiamami o mandami un
messaggio, segnali di fumo o qualsiasi altra cosa” intervenne la ragazza.
Mia prese il suo cellulare e Caterina le dettò il suo
numero, poi si avviò verso le scale.
Senza degnare di uno sguardo me e suo fratello, cominciò a
salire i gradini e disse: “Fammi uno squillo quando rientri, di quello lì non
mi fido”.
Poi scomparve e Mia scosse il capo, ridacchiando.
“Allora, Fra’, pensi tu a lei? Mi raccomando!” disse
Samuele, per poi abbracciare la ragazza. “Stai tranquilla e chiamami se hai
bisogno.”
“Certo, papà. Grazie di tutto.”
“Fiero di essere tuo padre!”
Ridendo, uscii dalla casa del mio amico e Mia mi seguì.
Per ora ci trovavamo in mezzo ad una specie di tacita tregua
e mi andava bene così. Attesi che fossimo seduti in macchina prima di parlare.
Mia mi precedette.
“Grazie per il passaggio, non pensavo ti saresti offerto
dopo quello che è successo prima” esordì, puntando lo sguardo fuori dal
finestrino.
“Già, a proposito di questo…
vorrei chiederti scusa, ho esagerato. Tu hai ragione, non sono nessuno per
mettermi in mezzo agli affari tuoi. Tu e Samuele siete amici ed è giusto che tu
parli con lui di ciò che vuoi.”
Cercai di non imprimere all’ultima frase un tono accusatorio
o infastidito, ma non ci riuscii. Me ne resi immediatamente conto poiché
provava esattamente quelle sensazioni mentre parlavo e non ero il tipo che
riusciva a nascondere i propri sentimenti. Maledizione!
“Io e Samu siamo amici perché lui
è un ragazzo dolce e sensibile. Non c’è niente di male” ribatté.
“Infatti.”
Rimanemmo in silenzio per un po’, mentre mi immettevo
nell’autostrada.
“Non volevo aggredirti così, prima” riprese. “È che ogni
volta che ci sei tu, mi innervosisco e forse non riesco a non pensare al motivo
per il quale ci siamo conosciuti.”
“Lascia stare, era una cazzata.”
Mi fissò, improvvisamente stizzita. Stava per dire qualcosa
ma la interruppi, lanciandole una rapida occhiata prima di rivolgere nuovamente
l’attenzione alla strada.
“Sul serio. Quel giorno ho fatto una cazzata, così, perché
Alessia un po’ mi interessava e volevo capire se riuscivo a scoprire qualcosa.
Se avessi saputo con chi avevo a che fare…”
“Nessuno prevede il futuro, Francesco, ma ciò che hai fatto
è di pessimo gusto. Non sei più al liceo, ci hai mai pensato?”
“E pace sia!” affermò, rilassandosi contro il sedile.
Mi resi improvvisamente conto che non avevo ancora acceso lo
stereo e rimediai immediatamente.
Quando le note partirono, mi sentii in pace con me stesso e
con il mondo intero.
***
La melodiosa e potente voce di Gentleman si diffuse nell’abitaccolo e istintivamente mi ritrovai ad osservare
Francesco: il suo bel profilo si stagliava nella semioscurità, mentre con una
mano si sistemava uno dei lunghi dread.
Rimasi un po’ a fissarlo, mentre le note della canzone e il
lento ritmo in levare mi si imprimevano nel cuore.
Era bello stare lì, tutto sommato.
Le incomprensioni che c’erano state tra noi si sciolsero
come neve al sole e rimase soltanto la piacevole sensazione di quell’attimo.
Inspirai a fondo, mentre il suo profumo mi invadeva le
narici: era un misto di marijuana e tabacco, un odore che non ero abituata a
sentire, se non addosso a Samuele. Tuttavia, su Francesco era diverso, assumeva
una nota ancora più dolce, difficile da descrivere.
“Mia, tutto bene? perché mi guardi così?”
La sua voce mi riportò bruscamente alla realtà e,
imbarazzata, distolsi lo sguardo e mi accorsi solo in quel momento che avevo
trattenuto il fiato.
Buttai fuori l’aria e finsi di canticchiare, concentrando
gli occhi su un punto indefinito al di là del parabrezza.
In realtà non conoscevo quel pezzo, così tacqui per evitare
di fare una figura di merda.
Francesco, invece, cominciò a cantare e io mi incantai ad
ascoltarlo, chiudendo gli occhi.
Adoravo la sua voce, la ritenevo una delle migliori nella
scena reggae. Avvertii i consueti brividi che solo lui e pochi altri sapevano
farmi provare e mi abbandonai alle sensazioni, premendomi una mano sul cuore.
***
Behold
It is written that a man should leave his mother and cling to woman that he
love, ya man.
Give thanks that there is an empress inna me life, oh
Jah
She loves me and she make us satisfied, oh Jah
To love her I will make a sacrifice, oh Jah
To keep her in my life (Good love inna me life)
Give thanks that there is an empress inna me life, oh
Jah
She love me and she always satisfy, oh Jah
To love her I will make a sacrifice, oh Jah
To keep her in my life (True love inna me life)
She na *sleep naked* an listen to me
She speak only truth and reality
An when she come inna me yard it is a blessing to me
An conversation intellegently
She a the water to me root and she can’t dilute
She gon bear me fruit and there is no dispute
The jungle to my heart she know the route
As night turn to day no substitute
Give thanks that there is an empress inna me life, oh
Jah
She loves me and she make us satisfied, oh Jah
To love her I will make a sacrifice, oh Jah
To keep her in my life (Good love inna me life)
Give thanks that there is an empress inna me life, oh
Jah
She love me and she always satisfy, oh Jah
To love her I will make a sacrifice, oh Jah
To keep her in my life (True love inna me life)
Cause you don’t see me don’t mean I don’t care
Cause I cannot touch you not mean I’m not there
Although we are apart feelings we share
I’m a man upon mission please be aware
The road it might be rough but woman don’t be afraid
The journey might be long but don’t lose your faith
I’m oceans away but we communicate
And soon I will be home and we gonna have a day
Give thanks that there is an empress inna me life, oh
Jah
She loves me and she make us satisfied, oh Jah
To love her I will make a sacrifice, oh Jah
To keep her in my life (Good love inna me life)
Give thanks that there is an empress inna me life, oh
Jah
She love me and she always satisfy, oh Jah
To love her I will make a sacrifice, oh Jah
To keep her in my life (True love inna me life)
Love how she kiss how she caress
The passion not sway how she put me to the test
When it comes to lovin’ she an empress at the best
I don’t need a witness I confess Everynight I pray that she never leaves me loney
Always pon the road and me know that it not easy
Express to her that she are my one and only
Future will be bright mother of my baby
Give thanks that there is an empress inna me life, oh
Jah
She loves me and she make us satisfied, oh Jah
To love her I will make a sacrifice, oh Jah
To keep her in my life (Good love inna me life)
Give thanks that there is an empress inna me life, oh
Jah
She love me and she always satisfy, oh Jah
To love her I will make a sacrifice, oh Jah
To keep her in my life (True love inna me life)
***
Quando imboccai l’ingresso del suo paese, l’avevamo
ascoltata ormai Quattro volte.
La voce di Gentleman ci aveva accompagnato durante l’ultima
parte del viaggio e notai che Mia aveva gli occhi chiusi e la mano sul cuore.
Il mio, intanto, batteva all’impazzata.
Che Mia avesse capito il testo? Che avesse inteso cosa mi
faceva provare la sua vicinanza?
Perché, in quel momento, fui disposto ad ammettere a me
stesso che le parole di Gentleman erano state dedicate a lei.
Fino a quel momento avevo amato quella canzone semplicemente
per ciò che era, per il modo che quel cantante tedesco utilizzava per le sue
liriche in inglese, per la sua musicalità. Poche volte mi ero soffermato sul
vero e profondo significato del testo.
‘JourneytoJah’ era da sempre stato il mio album preferito e in
quel momento compresi un’altra delle tante ragioni.
Com’era possibile che avessi perso la testa per quella
ragazza in così poco tempo?
Ebbi quasi paura di spezzare il silenzio che si era creato
non appena la canzone era finita.
Spensi lo stereo e rallentai.
“Mia” sussurrai. “Dove devo passare?”
Aprì di botto gli occhi e sbatté le palpebre, riscuotendosi
dal torpore che, ne ero certo, aveva avvolto entrambi.
“Fermati lì” mormorò, indicando un punto a caso della
strada. Non c’erano abitazioni nelle vicinanze, ma decisi di non farglielo
notare e obbedii.
Spensi l’auto e rimasi in silenzio, osservandola.
Era bella, lo era davvero. Mi vergognavo di averla
avvicinata con quel meschino secondo fine e solo in quel momento mi rendevo che
di Alessia non mi fregava più niente o forse non mi era mai importato davvero.
“Quella canzone… è davvero bella”
disse, ricambiando il mio sguardo.
Annuii, avvertendo un ondata di calore percorrermi tutto il
corpo. Averla così vicina, al buio mi stava destabilizzando.
“Come si intitola?”
Distolsi lo sguardo e fissai dritto di fronte a me.
“Empress” risposi con un filo di
voce.
Avvertii un tocco leggero sul braccio e mi voltai di scatto,
ritrovandomi i suoi occhi scuri fissi nei miei.
Rabbrividii e non dissi niente.
“Grazie per il passaggio.”
“Mi hai già ringraziato” ribattei.
Era così vicina… dovevo andarmene,
prima che fosse troppo tardi.
Poi mi venne in mente che non l’avevo riaccompagnata a casa
sua, a meno che non abitasse in un campo di grano.
“Ti accompagno a casa” affermai, allungando una mano per
avviare il motore.
“Faccio due passi.”
Ci fissammo per un attimo, poi seppi improvvisamente cosa
dovevo fare.
Mi chinai su di lei e la baciai a fior di labbra,
sorprendendo entrambi. Possibile che il mio corpo avesse risposto indisturbato
ai miei pensieri?
Mia rimase immobile e sul suo bel viso si dipinse
un’espressione confusa.
Le accarezzai lentamente una guancia, poi mi ritrassi e
appoggiai entrambi i palmi sul volante.
“Allora… buonanotte” la sentii
sussurrare.
Annuii, incapace di dire qualsiasi cosa.
Mia aprì lo sportello ma io rimasi a fissare il vuoto,
incapace di guardarla.
Avevo sempre più l’impressione di aver commesso un grave
errore.
tuttavia mi voltai nuovamente nella sua direzione, non
avendo udito la portiera che si richiudeva.
Lei era ancora lì.
Mi afferrò per un polso e mi attirò a sé, fino a quando le
nostre fronti non si sfiorarono.
Poi mi baciò con trasporto.
E io dimenticai chi ero, dov’ero e qual era stata la mia
vita fino a quell’esatto istante.
Aprii gli occhi e mi ritrovai in un bagno di sudore.
Non ero per niente riposata e il pensiero di alzarmi dal
letto mi fece venire il voltastomaco.
Sentivo gli occhi pesanti e il cuore a mille.
Il fatto di aver baciato Francesco non mi faceva stare
affatto tranquilla.
Era davvero possibile?
Non potevo crederci e avevo bisogno di riflettere.
Come mai era successo tutto così in fretta? Avevamo litigato
furiosamente quando io l’avevo sorpreso a spiare me e Samuele e poi…puff, tutto si era dissolto
su quelle irresistibili labbra.
Un pensiero dannatamente triste mi colpì allo stomaco,
facendomi quasi contorcere dal dolore.
Afferrai il cellulare, annaspando febbrilmente per
raggiungere il comodino.
Dopo aver inforcato gli occhiali, fissai lo schermo con il
cuore in gola e rimasi pietosamente delusa: da Jessica nessuna notizia.
Era frustrante.
Perché non avevo mollato tutto per partire con lei e darle
tutto il mio appoggio? Come potevo averla abbandonata?
Chiamai Samuele.
“Ehilà, amica! Come stai oggi? Spero meglio!” mi salutò
allegro lui.
“A quanto pare non ti ho svegliato, meno male!”
“Svegliato? Sono tornato mezzora fa dalla mia corsa
mattutina” commentò lui, quasi indignato.
“Oh, scusa, Mister Muscolo!”
“Hai sbagliato paragone, ritenta!”
“E sarò più fortunata, scommetto.”
Samuele rise di gusto.
“Cazzate a parte… ti chiamavo
perché di Jessica non ho nessuna notizia e mi sento uno schifo…”
“Hai provato a chiamarla? Però, Mia…
cerca di non pensare al peggio, tranquillizzati, magari…”
“Sì, magari andrà tutto bene e blablabla. Ho capito, ma se
non fosse così? Se le fosse successo qualcosa? Non me lo potrei perdonare!”
Samuele sospirò e me lo figurai che scuoteva il capo,
contrariato, come a volermi dire che non potevo colpevolizzarmi dell’eventuale
infausto destino della mia amica.
“Mia, allora vuoi farti del male, sei masochista!”
Mi portai una mano sulla fronte e chiusi gli occhi,
lasciandomi andare contro il cuscino.
“Non so più cosa pensare, in realtà. Credimi.”
“Io so invece a cosa dovresti pensare” ribatté Samuele, con
tono fortemente allusivo. “Che mi dici di te e Francesco, ad esempio?” domandò
poi, a bruciapelo, facendomi spalancare nuovamente le palpebre.
“Immagino che tu sappia già tutto. Allora perché me lo
chiedi?”
“E cosa dovrei sapere?”
Ecco, mi ero fregata con le mie stesse mani, non mi restava
che confessare.
“Sei tremendo. Okay… ci siamo
scambiati un bacio” dissi, sperando che lui non mi udisse. Che stupide
illusioni!
“Ah, ma è fantastico! Francesco dice che baci divinamente… mi ha fatto venir voglia di provare io stesso”
sghignazzò il mio amico, con tono malizioso.
“Samuele!” gridai, scandalizzata.
“Ma dai, non si può neanche scherzare con te! Sei una
vecchia befana!”
“Ah, fottiti!” conclusi, per poi cambiare nuovamente
argomento e tornare sulle mie preoccupazioni per Jessica.
Samuele mi consigliò di provare a chiamarla ancora,
nonostante l’avessi già fatto, e di inviarle anche degli sms.
Anche perché, cos’altro potevo fare?
***
La città era così estranea e ostile che mi venne voglia di
rifugiarmi in aeroporto finché non avessi trovato un volo che mi riportasse
dritta a casa.
Ma ero certa che, non appena avessi incontrato Ignazio e mi
fossi ritrovata tra le sue braccia, ogni preoccupazione sarebbe svanita.
Sul sedile posteriore di un taxi, fissavo con indecisione lo
schermo del cellulare, non sapendo cosa fare.
Mia mi stava tartassando di chiamate e messaggi e io non me
la sentivo di risponderle, non prima di aver affrontato la situazione in cui mi
trovavo. Dovevo prima parlare con Ignazio, guardarlo negli occhi e capire cosa
ne sarebbe stato della mia vita.
Poi, forse, avrei dato mie notizie a chi mi voleva bene. E,
comunque, Mia un po’ di pena la meritava, dopo avermi aggredito nell’apprendere
che stavo per partire ad incontrare l’amore della mia vita.
Mentre il taxi era imbottigliato nel traffico, decisi di
entrare su facebook, giusto per passare il tempo.
Trovai un messaggio di Ignazio e lo lessi, poi risposi
velocemente e sorrisi. Se solo avesse saputo che stavo per arrivare da lui!
Non gli avevo detto niente e decisi di mantenere quel
segreto fino all’ultimo, forse perché avevo paura di convincere me stessa della
pazzia che stavo commettendo.
Notai che c’era un messaggio nella cartella ‘Altri’ e corsi
a leggerlo, curiosa. Chissà di chi era.
Jess, stai
attenta.
Rimasi immobile a fissare quelle tre parole e mi sentii
invadere da un moto di rabbia mista a qualcosa che però non riuscivo a
definire.
Il messaggio mi era stato inviato da Samuele e appariva in
quella cartella perché mi ero rifiutata di accettare la sua richiesta di
amicizia.
Ma, a quanto pareva, lui non si era dato per vinto e si era
dato la pena di mettermi in guardia.
Ma perché? Che gli importava di me?
Digitai in fretta una risposta e misi via il cellulare,
sentendomi un po’ triste e malinconica, mentre l’eccitazione per l’imminente
incontro passava in secondo piano.
***
Giocare a Tekken con mia sorella
era uno spasso, perché lei era una schiappa e io mi divertivo sempre a
distruggerla!
La nostra stanza era un antro oscuro in cui ci chiudevamo a
contemplare la nostra vita da nerd sfigati, nonostante non ci sentissimo
affatto tagliati fuori dal mondo.
Nella camera buia regnava in genere un assoluto silenzio,
intervallato soltanto dalle nostre imprecazioni o da grida gioiose di vittoria.
Di solito, nessuno veniva mai a trovarci e, dal momento che
nostra madre era sempre via per lavoro e nostro padre era sordo come una
campana, potevamo fare tutto ciò che volevamo senza essere disturbati.
Spesso perdevamo la cognizione del tempo e non riuscivamo a
capire se fosse mattina o notte fonda.
Soltanto l’orologio digitale del computer scandiva la nostra
meravigliosa giornata.
Quando mia sorella non c’era, invece, mi annoiavo e così
bazzicavo su facebook e altri social a caso, dovendo ammazzare
il tempo, anziché i miei avversari nei videogiochi.
Ricevetti un messaggio su facebook
e sorrisi, aprendo la conversazione.
Dopo aver risposto, ridussi a icona e mi misi a sonnecchiare
sul letto, aspettando che il segnale acustico mi avvertisse dell’arrivo di una
risposta.
Il campanello prese a trillare rumorosamente, strappandomi
ad un sonno profondo e profondamente annoiato.
Doveva essere trascorsa almeno un’ora e io mi domandai chi
diamine potesse essere.
Mia sorella era al suo allenamento di pallavolo e in ogni
caso aveva le chiavi per rientrare, non avrebbe suonato. Mio padre non avevo
idea di cosa facesse, era come un fantasma in quella casa. Mia madre non
sarebbe rientrata prima di sera.
Essendo le 16:47 del pomeriggio, toccò a me alzarmi e andare
ad aprire, borbottando ed imprecando nervosamente.
Spalancai la porta e mi ritrovai di fronte una ragazza che
non subito riconobbi.
La fissai, corrugando la fronte nel tentativo di metterla a
fuoco e di non farmi accecare dalla luce del sole che penetrava dall’esterno.
“Oh, Ignazio!” esclamò lei, gettandomisi
addosso. Mi strinse in un abbraccio e io rimasi immobile.
Poi realizzai che si trattava di Jessica, la mia Jessica!
Preso da uno slancio di affetto e felicità, ricambiai l’abbraccio
e assunsi sicuramente un’espressione da idiota.
Ma l’entusiasmo si spense presto e fui invaso dalla rabbia. Così,
la spinsi via, contrariato, fissandola con disappunto.
“Cosa ci fai qui? Non mi hai detto niente” commentai,
brusco.
“Ignazio! Non sei felice di vedermi? Non ti è piaciuta la
mia sorpresa?” domandò lei, un’espressione delusa sul bel viso.
Si, era bella, proprio come l’avevo immaginata osservando le
foto, bella mille volte di più di quegli scatti digitali.
Eppure, mi sentivo a disagio e non avrei voluto mai arrivare
a quel punto. Lei doveva rimanere un passatempo come tanti, niente di più. Nonostante
l’avessi illusa che ci saremmo visti e che tenevo davvero a lei, non avevo
avuto realmente intenzione di farlo. Mai avrei pensato che sarebbe stata in
grado di precedermi.
Era davvero la ragazza domabile, arrendevole e sottomessa
che avevo conosciuto?
Forse l’avevo sottovalutata e avevo fatto molto male.
“Sì, ma…” cominciai, per poi
interrompermi mentre un’idea faceva capolino nella mia mente. Cambiai immediatamente
atteggiamento e le sorrisi con tutta la dolcezza in mio possesso. “Il fatto è
che non me l’aspettavo, piccola. Dio, quanto sei bella!” esclamai, attirandola
nuovamente a me.
Aveva un profumo delizioso, un corpo mozzafiato e due occhi
verdi da far girare la testa.
Tutto sommato, non ero poi così deluso da quell’arrivo
improvviso.
***
Come un nuotatore alla ricerca dell’ossigeno, mi tuffai
sulle labbra di Ignazio, avvinghiandomi a lui come se non ci fosse altro da
fare, come se quello fosse l’ultimo attimo di gioia in vita mia.
Lui chiuse la porta di casa e mi spinse contro di essa,
ricambiando con baci famelici e passionali.
Nessuno mi aveva mai baciato così.
Mi sentii soddisfatta di ciò che avevo fatto, poiché Ignazio
si era rivelato anche meglio di ogni mia aspettativa o stupida immaginazione.
Allacciai le gambe al suo bacino e mi staccai per un attimo,
cercando il suo sguardo: i suoi occhi erano belli, scuri e profondi come li
ricordavo, ma ora brillavano di quella luce opaca che soltanto il desiderio più
viscerale per la persona amata può conferire.
“Sono così felice di averti, finalmente. Non posso più
aspettare, Ignazio…”
“Piccola mia, sei così sexy e non sai quanto ho voglia di
fare l’amore con te. Dopo parleremo, dopo avremo tutto il tempo del mondo… ma adesso…”
Lo zittii con un bacio infuocato, suggellando così quell’accordo.
Avremmo parlato dopo, tutto sarebbe venuto a suo tempo.
Era quello che volevamo entrambi.
***
Grazie, ma non ho bisogno di
un secondo padre.
Quelle erano state le fredde parole che Jessica mi aveva
scritto.
Che razza di risposta era?
E perché ero stato talmente cretino da darle importanza e
raccomandazioni di cui si infischiava deliberatamente?
Se Mia era preoccupata, io lo ero anche di più.
E non sapevo nemmeno perché, dannazione!
Quella mattina, mentre facevo colazione in silenzio, sentivo
addosso lo sguardo indagatore di mie sorelle.
Quelle due insieme erano capaci di esasperare un santo!
“Ma si può sapere che cazzo avete da fissarmi?” sbottai,
farfugliando con la bocca piena di cereali.
“Samuele, che modi sono questi?” saltò su mia madre,
indignata.
Feci spallucce e continuai a mangiare senza alzare lo
sguardo dalla tazza.
“Lascialo perdere, mamma… l’amore
fa brutti scherzi” commentò Caterina, mentre si passava lo smalto sulle unghie
lunghe e ben curate.
“Già. Quando Samu si deciderà a
farci conoscere la sua nuova fiamma, io e Marco saremo felici di invitarli a
casa nostra!” esclamò Alessia, raggiante, mentre setacciava i cassetti alla
ricerca di qualcosa che potesse utilizzare per afferrare il pentolino bollente
in cui aveva scaldato il suo latte.
“Volete fare silenzio?” protestai, alzando di scatto la
testa e fulminandole con un’occhiataccia.
Entrambe risero.
“Avete proprio un’immaginazione assurda voi due!” le
accusai, allontando la tazza da me.
“Diciamo che conosciamo i nostri polli” commentò Caterina,
sventolando la mano per far asciugare lo smalto.
“Ma taci!”
“Cate ha ragione!” concordò
Alessia, sedendosi di fronte a me.
“Mi avete rotto le pa…”
“Samuele, non ti azzardare! Non tollero che in casa mia si
parli in questi termini!” strillò mia madre, minacciandomi con il mestolo in
acciaio con cui stava rimestando il sugo nella pentola.
“Sì, mammina” borbottai.
Poi mi alzai e uscii dalla stanza, seccato.
Ma che avevano quelle due?!
Possibile che fossero davvero convinte che io mi stessi
innamorando di qualcuna? La ferita che Julieta mi
aveva inferto era troppo profonda e recente perché potessi dimenticarla e
andare avanti a cuor leggero.
Non capivo proprio cos’avessero da sghignazzare alle mie
spalle, come se loro si fossero accorte di qualcosa che a me sfuggiva sempre
più.
Scrollai le spalle e, dopo aver afferrato le chiavi di casa,
me ne andai in studio da Francesco e Fabiano.
Quando i pensieri erano troppi e le preoccupazioni anche,
quello era l’unico rifugio sicuro.
E cantare le mie emozioni mi avrebbe fatto sentire meglio,
ne ero certo.
Mi risvegliai tra le lenzuola che odoravano di noi.
Fare l’amore con Ignazio era stato davvero bello, non
riuscivo ancora a capacitarmi che fosse successo davvero.
A svegliarmi erano state le note di una canzone dei Sepultura. Rimasi con gli occhi chiusi ad assaporare la
voce graffiante di Max Cavalera finché non si
spensero.
Poi lui entrò nella stanza e io aprii gli occhi,
ritrovandomi immersa nella penombra che ricordavo quando lui mi aveva spinto
sul letto e mi aveva detto che mi amava e che era felice di avermi con sé,
finalmente.
E per me era lo stesso, lo era stato fin dal momento in cui
avevo deciso di partire.
Mi sollevai sui gomiti e osservai la figura che si muoveva a
tentoni nella stanza.
“Cazzo” imprecò qualcuno, che non era Ignazio.
Un momento…
Ero nuda, sudata e scompigliata, non potevo farmi vedere da
qualcuno in quelle condizioni!
E poi… cosa cavolo ci faceva un’altra
persona in casa di Ignazio?
“Qui dentro non si vede un cazzo!” esclamò ancora la voce,
appartenente ad una ragazza.
Rimasi impietrita.
Una ragazza?!
Poi la luce si accese di botto e io gridai, seguita a ruota
dall’intrusa.
Possibile che fosse una ladra?
Ignazio abitava da solo, com’era possibile che ci fosse qualcuno…?
Non ci capivo più niente!
Mi gettai addosso il lenzuolo, coprendomi alla bell’e
meglio.
“Oh porca troia!” strillò la ragazza, fissandomi inorridita
dalla soglia. “Ignazio, no, non un’altra volta, ti prego! Lo vuoi capire o no
che questa casa non è un bordello? Sono stufa di trovare donne nude nel tuo
letto!” proseguì infuriata, spalancando la porta.
Poco prima che potesse uscire, Ignazio sopraggiunse sulla
soglia e le rivolse un sorrisetto divertito, posandole una mano sulla spalla.
Io intanto dovevo essere sotto shock e di sicuro ero
sbiancata, perché mi sentii invadere da un gelo indescrivibile che mi si
insinuò nelle vene e al centro del petto.
Cosa significavano quelle parole? E perché Ignazio sorrideva
così? E soprattutto, chi era quella tipa?
“Ah, Concetta, sei sempre la solita inospitale!” esclamò
lui, arruffandole i capelli. “Non trovi che sarebbe divertente sfidare qualcun
altro a Tekken, oltre a me? Credo che Jess si divertirà.”
“Io con la tua Jess non ci voglio
avere nulla a che fare! E non toccarmi, chissà dove le avrai ficcate quelle
manacce!”
E, dopo avermi lanciato un’occhiataccia, la ragazza uscì
come una furia dalla stanza.
Ignazio mi degnò appena di uno sguardo.
“C-cosa… che cosa significa tutto
questo?” riuscii a dire, deglutendo a fatica.
“Concetta ha ragione, si è fatto tardi, bambolina. Devi sloggiare.”
Lo fissai, incredula, chiedendomi se avessi sentito male.
Ma lui mi voltò le spalle e sospirò.
“Niente male, il sesso con te, ma una volta basta e avanza. Sei
troppo inesperta per me, bambolina. Devi andartene.”
Una risata, proveniente dal corridoio, squarciò il silenzio
e io mi sentii morire ovunque, mentre l’umiliazione e la consapevolezza mi
schiaffeggiavano come una tormenta di sabbia, ferendo ogni recondita parte del
mio essere.
***
“No, aspetta… ripeti, non ho
capito bene!”
“Oh, che palle che sei, Sara! Sei sorda o scema?”
“No, sei tu che sei scema e mi stai facendo uno scherzo. Ah,
ah! Divertente, ma non ci casco!”
Mia sospirò, scuotendo il capo.
Credeva davvero che fossi così cretina?
Non mi aveva più detto niente da quando era diventata la
migliore amica di Samuel e io, sinceramente, ero un po’ gelosa.
Poi, adesso se ne usciva con questa storia di lei che aveva
baciato Francisco, quando io ero rimasta a quando lo aveva trattato male e poi
ci aveva chiarito ma non sembrava avere interesse per lui.
No, mia sorella stava scherzando, anche perché, se tutto ciò
fosse stato vero, avrebbe significato che…
Oddio, avere Francisco come cognato?!
“E non crederci, vedrai che prima o poi sarai costretta a
farlo” ribatté, facendo spallucce.
“Mia! Dai, smettila di prendermi per i fondelli!” esclamai,
arrabbiata.
Questo scherzo stava durando fin troppo a lungo.
“Senti, vuoi una dimostrazione? Lo sai che non mi devi
sfidare, carina!” disse lei, con aria di superiorità.
“Uhm, allora vediamo questa dimostrazione!”
“Benissimo. Preparati: prendiamo il treno e andiamo in
studio da lui!”
Il mio cuore perse un battito.
“Sei impazzita, sì, dev’essere
così. Com’è che mia sorella ha una malattia al cervello non diagnosticata e io
non ne sapevo niente? Ah, già, ultimamente non so proprio più niente di lei, è
vero!” commentai, sarcastica.
“Sara, hai rotto. Io esco tra dieci minuti, fai tu”
concluse, chiudendosi in bagno.
Allibita, ecco cos’ero.
Non poteva essere vero e per scoprirlo non dovevo far altro
che seguirla.
In fondo, che avevo da perdere?
***
“Stai scherzando.”
“No, per niente.”
“Ignazio, dimmi che…tu… tu hai detto che mi ami!” strillò Jessica, in preda al
panico più totale.
La guardai appena: dopo essermela scopata, mi sembrava
talmente insignificante e squallida, proprio come tutte le altre.
Eppure avevo pensato che lei sarebbe stata un po’ diversa,
che forse quella sarebbe stata la volta buona che sarei riuscito a provare
qualcosa mentre facevo sesso con una ragazza, invece…
il problema ero io?
No, erano loro. Si concedevano a me come se niente fosse e
io non volevo questo.
Possibile che nessuna lo capisse?
Perché le donne non avevano alcuna dignità e si lasciavano
convincere da due paroline dolci, qualche ‘ti amo’
buttato lì e nient’altro?
Jessica mi era sembrata diversa, invece si era rivelata
uguale al resto dell’universo femminile, se non peggiore.
Aveva sempre fatto un sacco di discorsi sui suoi sani
principi, sul fatto che considerava puttane tutte le ragazze che si concedevano
al primo venuto e altre baggianate.
E lei, cos’aveva fatto di diverso?
Niente, proprio niente. Fottutamente niente.
Come si poteva andare a letto con una persona mai vista
prima e avere la presunzione di parlare d’amore?
Mi venne da ridere e non mi trattenni.
“Ignazio…”
Jessica stava piangendo come una matta, con le mani tra i
capelli e il corpo scosso da profondi tremiti.
Guardai l’orologio appeso alla parete, spazientito.
“I miei genitori rientrano tra meno di mezzora. Vattene,
Jessica” ordinai, sbuffando.
Non me ne facevo niente di una sgualdrina.
Eppure, un po’ mi ero illuso. Possibile che in tutto il
tempo che trascorrevo su internet a parlare con un sacco di ragazze, nessuno
avesse superato il primo incontro in maniera dignitosa e tutt’altro che
umiliante?
Possibile che tutte le donne fossero così patetiche?
Non riuscivo a crederci. Mia sorella Concetta me lo diceva
sempre e cominciavo a crederci anch’io: ero un inguaribile romantico.
E nessuno lo capiva. Pazienza.
Intanto, Jessica piangeva e si disperava, impiegando un
sacco di tempo a vestirsi.
Quando ebbe finito, faticava a stare in piedi.
Non era facile tenermi testa a letto, specialmente per una
verginella come lei: era destabilizzata, potevo capirlo.
Ma doveva andarsene, subito.
La spinsi fuori dalla mia camera.
“E un’altra se ne va” sospirò Concetta, sgranocchiando una
barretta ai cereali. “Nessuna di voi è degna di mio fratello, ahimè!”
Risi.
“Non… non ci credo, no…” mormorava Jessica.
Che reazione scontata, tutte uguali.
“Be’, ciao forestiera, fai buon viaggio!” gridò mia sorella,
per poi rintanarsi in camera nostra.
“Preparati a perdere, schiappa!” le gridai, pregustando la
partita a Tekken che mi aspettava.
Non c’era niente di meglio, dopo una scopata.
“Ignazio…”
“Smettila. È stato bello, sì, ma adesso vai. Buon ritorno e
grazie per la visita, ma non sei adatta a me. Addio.”
Detto questo, le chiusi la porta in faccia e mi diressi
soddisfatto verso la mia stanza, dove Concetta mi aspettava con un sorriso
amaro stampato in faccia.
“Mi dispiace, non è andata neanche stavolta, eh?”
“Vedrai donne nude nel mio letto ancora per un po’, temo”
risposi.
Poi accesi il televisore e mi preparai a batterla per l’ennesima
volta.
***
D’accordo, forse quella di portare mia sorella in studio da
Francesco per dimostrarle che non stavo mentendo su ciò che era accaduto tra
noi, non era stata un’idea brillante.
Ma volevo trovare un pretesto per rivederlo e chiarire ciò
che era accaduto.
E, soprattutto, volevo capire cosa significasse per lui.
E perché mi ero fissata con quella canzone che aveva mandato
in loop durante il viaggio di ritorno al mio paese?
Avevo cercato febbrilmente il testo su internet ed ero
rimasta senza parole nel leggerlo e nel comprenderne il significato.
Sembrava una dichiarazione d’amore in grande stile, ma
doveva essere per forza una coincidenza, perché Francesco non mi conosceva abbastanza
da poter affermare che mi amava.
E per me era lo stesso.
Di certo, però, non mi era indifferente.
Mi sentivo irresistibilmente attratta da lui e volevo
assolutamente capire se tra noi sarebbe continuata o se quello era stato un
momento di debolezza.
Per me, di certo, non lo era stato.
E mentre sedevo sul treno con mia sorella che continuava ad
inondarmi di domande, sperai che non lo fosse stato neanche per lui.
“Ma sei sicura che possiamo andarci? E se disturbiamo? E come
fai a sapere che Francisco non ci butta fuori a calci? Tanto non ci credo che
vi siete baciati!”
“Vuoi stare un attimo zitta? Mi stai uccidendo!” sbottai.
Quando giungemmo all’ingresso dello studio, bussai, non
prima di aver esitato per un momento.
Quando la porta si aprì, Fabiano ci rivolse un’occhiata
interrogativa, poi la sua espressione mutò di colpo e mi sorrise.
“Ah, sì, la famosa Mia, sei tu” disse, un po’ stralunato.
“Già, mentre lei è mia sorella, Sara.”
“Piacere, Fabiano. Entrate, entrate, c’è posto per tutti! Tanto
‘sto studio sta diventando un campo profughi!” brontolò, facendoci strada all’interno.
Sara aveva gli occhi fuori dalle orbite e si guardava
intorno con circospezione, borbottando qualcosa di incomprensibile.
In sala di registrazione trovammo soltanto Francesco, chino
su un mixer, intento a girare manopole e tirare levette, imprecando come uno
scaricatore di porto.
Lo osservai divertita, mentre Sara si tratteneva dal ridere.
Poi Fabiano esclamò: “Oh cazzone,
è arrivata la tua tipa”.
Io arrossii fino alle punte dei capelli e abbozzai un
sorriso imbarazzato, mentre Francesco si voltava nella nostra direzione.
E quando i miei occhi incontrarono i miei, tutti i dubbi che
mi ero trascinata fin lì si dissolsero nel nulla.
E credo che anche Sara, a quel punto, avesse capito che non
stavo scherzando.
Non sapevo come sarebbe andata, ma ero certa che io e
Francesco provassimo un interesse reciproco e questo mi bastava.
“Non fatemi venire il diabete, intesi?”
Era stato Fabiano a parlare, spezzando il silenzio e sciogliendo
la tensione.
Scoppiammo tutti a ridere e Francesco mi salutò con una
carezza sulla guancia.
Eravamo intenti a scherzare, mentre Fabiano raccontava di
come suo fratello fosse incapace di usare il mixer come lui, quando qualcuno
irruppe in sala, spalancando la porta.
Samuele, affannato e boccheggiante, sembrò rinascere nel
vedermi.
“Stavo giusto venendo a chiedere un passaggio per venire da
te!” gridò, indicandomi.
Improvvisamente il sorriso scomparve dalle mie labbra.
“Samu, che succede?”
“Jessica” disse soltanto.
E io mi sentii travolgere da un’ondata di panico e dovetti
reggermi a Sara per non rovinare a terra.
Tutti me l’avevano detto, me l’avevano ripetuto all’infinito
e io avevo comunque deciso di sbatterci il naso, anzi, di darci una bella
testata.
Non avevo idea di cosa stessi provando, mi pareva di essere
soltanto un corpo che deambula e niente più.
Forse non avrei mai compreso il comportamento di Ignazio.
No, no di certo.
Vagavo per le strade della città, di quel luogo che
cominciava a farmi venire la nausea, ma non riuscivo a riflettere lucidamente.
D’impulso, non appena mi ero ritrovata per strada, sfinita e
ancora scossa da ciò che era successo tra me e… lui
(non riuscivo neanche a pronunciare i suo nome, ripensando al sesso, alle sue
parole, a sua sorella…), avevo inviato un messaggio a
Samuele, senza però accettarlo tra i miei amici.
Speravo che lo leggesse ma anche che non lo visualizzasse,
perché ero talmente spaventata e non volevo deluderlo.
Perché? Non lo sapevo, forse avevo paura che lui potesse
pensare che ero una ragazza irresponsabile e senza cervello, una che prima
combinava un casino e poi andava a piagnucolare dai suoi amichetti.
Ma Samuele non era mio amico.
Il cellulare squillò e mi fece sobbalzare. Era Mia.
Mi bloccai in mezzo al marciapiede: dovevo risponderle?
Sicuramente era preoccupata per me… e se Samuele le
avesse raccontato tutto? Era possibile.
Nonostante avessi paura di sentire ciò che Mia mi avrebbe
detto, risposi.
«Mia» mormorai.
«Jessica, stai bene? Dove sei?»
Samuele?
***
Assistevo a quelle scene con una confusione immensa in
testa.
Perché mia sorella aveva amiche così cretine? Io avevo
quattordici anni ma non avrei mai fatto qualcosa di così irresponsabile, come
aveva fatto Jessica! Che stupida!
Borbottando qualcosa di incomprensibile persino a me stessa,
uscii dallo studio a prendere aria. Che razza di gente si comporta in questo
modo? Chi è la deficiente che se ne parte ad incontrare uno sconosciuto? E mia
sorella che le stava pure dietro!
E anche Samuel sembrava molto preoccupato per quella
disgraziata, cosa ci trovava in quella ragazza?
Mi appoggiai al muro e sospirai, scuotendo il capo.
«Che c’è che non va, bambina?»
Sollevai lo sguardo e mi ritrovai faccia a faccia con
Stefano, il dj che accompagnava sempre Samuel e i suoi colleghi durante le
serate.
«Niente, sono soltanto allibita» risposi, senza neanche
sapere perché.
Ero arrabbiata perché tutti andavano sempre dietro a gente
di merda e non si preoccupavano abbastanza di chi aveva un valore e non faceva
stupidaggini ogni due minuti. Non capivo come si potesse vivere così ed essere
amati e ammirati da tutti. Jessica era un’idiota, le stava proprio bene ciò che
le era successo con Ignazio! Che nome, poi… santo
cielo!
«Perché mai? Sentiamo.»
Stefano si sedette sul gradino dell’ingresso e mi osservò,
in attesa.
Solitamente mi sarei vergognata a parlare con qualcuno di
“famoso”, ma in quel momento ero troppo seccata per pensare all’imbarazzo.
Così gli raccontai tutto e la finimmo a ridere, prendondo per il culo le ragazze cretine, immature e
irresponsabili che, nonostante fossero adulte per l’anagrafe, non lo erano di
certo in quanto a cervello.
Stefano era simpatico, divertente e tranquillo, mi aveva
ascoltato senza giudicarmi e non aveva fatto caso alla mia giovane età. Di
certo non ero sprovveduta come Jessica e questo doveva averlo capito, perché mi
tratto come un suo pari e non si mostrò superiore o altezzoso, tutt’altro.
Scoprii che aveva cinque anni in più di me, ovvero
diciannove. Era giovanissimo ma sembrava abbastanza maturo per la sua età o,
quantomeno, non mi sembrava il tipico ragazzino senza cervello.
Era strano ma io non riuscivo mai a legare con i miei
coetanei, né di sesso maschile né di sesso femminile, mentre invece mi trovavo
sempre bene con le persone più grandi di me.
E Stefano non era certo un’eccezione.
Quando infine Mia e Samuel ci raggiunsero, precipitandosi
fuori, non sapevo quanto tempo fosse passato.
«Ste? Che fai qui?» gli domandò
Samuel, con tono non troppo interessato.
«Ah, già. Ero venuto per avvertirti che abbiamo una serata.
Sei libero sabato prossimo?»
«Sicuro. Ma come facevi a sapere che ero da Fra’?»
«Me l’ha detto Fabiano, poi ormai hai quasi messo radici in
questo posto» spiegò Stefano, con tono ironico.
A quel punto non potei far a meno di ridere, mentre Mia
sembrava persa in se stessa e non stava affatto seguendo la conversazione.
«Ah, sì… ora devo andare, ho
fretta» concluse.
Mia, finalmente, aprì bocca.
«Sara, andiamo.»
Decisi di non protestare, forse Mia doveva andare a prendere
Jessica all’aeroporto.
Guardai Stefano e gli sorrisi.
«Ci vieni alla serata di sabato?» domandò.
«Spero» risposi, poi lo salutai con un cenno della mano e
seguii mia sorella verso la macchina.
Un po’ mi dispiaceva di essermene dovuta andare così presto,
però dovevo sottostare agli ordini di mia sorella, per quanto non li condividessi
affatto, specialmente se si trattava della faccenda di Jessica.
Ma finché non avessi compiuto diciotto anni, la patente
rimaneva un lontano miraggio.
E mancavano ancora quattro estenuanti anni.
***
Stefano entrò in studio e si avvicinò a Fabiano, salutandolo
con un complicato schema che loro definivano “da duri”. Per quanto mi
riguardava, li ritenevo due deficienti, ma mi astenni dal commentare.
Avevo del lavoro di mixaggio da fare e non avevo potuto
accompagnare Samuele e Mia all’aeroporto.
Eravamo riusciti a trovare un volo affinché Jessica, l’amica
di Mia, rientrasse subito a casa.
Aveva avuto una brutta esperienza che, però, si era
certamente andata a cercare.
Samuele sembrava essere in apprensione e non era riuscito a
stare fermo per un solo attimo.
Il flusso dei miei pensieri fu interrotto dal casino che
stavano combinando Stefano e Fabiano, sghignazzando come loro solito.
«Starei cercando di lavorare» mi intromisi.
«Oh, Fab, tuo fratello sembra una
femminuccia con le mestruazioni!» esclamò Stefano, lanciandomi un’occhiata
divertita e compassionevole.
«Divertente! Potresti andare a comprarmi gli assorbenti, dal
momento che non stai combinando nulla di utile» gli proposi, restituendogli
l’occhiata.
«Sai, Fra’, che Stefano è un ragazzo molto impegnato, non
può mica perdere tempo con queste commissioni extra» commentò Fabiano, tornando
a sedersi su uno sgabello di fronte al computer.
«Se per impegni intendi venire in studio a rompere, allora…»
«Simpaticone! Senti, Fab mi stava
dicendo che ti sei messo con quella tipa, l’amica di Samu…
complimenti, credi di aver messo la testa a posto?» mi canzonò Stefano,
voltandosi nella mia direzione.
Lasciai perdere il mixer, non era possibile concentrarsi con
quello scemo ad importunarmi. Non potevo negare che era un dj impressionante e
spesso era venuto a lavorare con me a quelche pezzo,
sorprendendomi con le sue capacità e la sua competenza; per il resto, però, era
un esaurito che mi faceva girare le palle, ma gli volevo bene lo stesso. Lui e
mio fratello erano molto legati e questo aveva avvicinato Stefano anche a me,
nonostante non partecipassi mai alle sue serate perché prediligevo cantare con
i miei amici del Groovin’ Sound System.
«Chi, lui? Lo sfigato che si innamora delle tipe sbagliate?»
fece Fabiano.
«Vedi: Alessia, sorella di Samuele» aggiunse Stefano.
«Che pezzi di merda» borbottai.
Andammo avanti a punzecchiarci – o, meglio, loro
punzecchiavano me e io li insultavo – per un po’, poi Stefano esclamò: «Zitti,
vi faccio ridere ora!»
«Sentiamo!» si incuriosì subito Fabiano, voltandosi.
«Non è carina la sorella di Mia?» se ne uscì, appoggiandosi
con la schiena alla parete insonorizzata.
«Perro, è solo una ragazzina!»
saltai su, inorridito.
«Macché, avrà sedici anni…»
«Ne ha quattordici, appena compiuti!» ribattei, mentre mio
fratello scoppiava a ridere.
«Sei un pedofilo, Perro!» gridò
Fabiano, battendo le mani.
«Chi se ne frega, mi piace!»
A quel punto non potei più resistere e decisi di andarmene
fuori a fumare, minacciando Stefano Perroni di buttarlo
fuori a calci nelle palle se non l’avesse piantata di dire cazzate.
La gente è proprio stupida, a volte.
Sospirai, preparandomi a rollarmi una sigaretta, mentre il
viso di Mia si impossessava della mia mente, facendomi scordare tutte le
minchiate di Stefano e Fabiano.
***
«Prendiamoci ciò che ci spetta, allora» proposi,
accarezzando lentamente la pelle di Julieta.
Eravamo sdraiati sul mio letto e avevamo appena fatto sesso.
Da quando si era lasciata con Samuele, mi ero divertito un
sacco con lei, sotto le lenzuola. Fingeva di essere una brava ragazza, ma non
lo era mai stata e Samuele le era servito soltanto per soddisfare i suoi
bisogni. Lei continuava a ripetere che lo amava e io la lasciavo dire, poi le
mordevo il collo e la facevo mia. E a quel punto non riusciva più a parlare, si
limitava a gemere e a pregarmi di non smettere.
L’amore era tutt’altra cosa, ecco come la pensavo.
E certamente non faceva per me, figuriamoci per lei, che si
concedeva con facilità a chi le promettesse di soddisfare le sue fantasie più
segrete.
«Cosa intendi?» mi domandò, sollevando un poco la testa dal
cuscino.
«Ti aiuterei volentieri a tornare con Samu,
ma ho un favore da chiederti, in cambio.»
Lei mi osservò, in attesa che continuassi.
Con la mano le accarezzai un seno, con gli occhi fissi nei
suoi.
«Tu torni con Samuele e io non dovrò rinunciare ad averti
quando mi pare» dissi, leccandomi le labbra mentre sentivo il suo capezzolo
farsi turgido.
«Non puoi davvero credere che io sia così stupida, Carlo!»
strillò, sottraendosi al mio tocco.
Le afferrai i polsi e glieli immobilizzai sopra la testa,
infilandomi tra le sue cosce e guardandola, con un sorriso stampato in viso.
«Tu sei ossessionata da quel ragazzino» sussurrai,
accarezzandola tra le gambe mentre lei tentava di dimenarsi, ma venne
sopraffatta dal piacere e presto rinunciò. «Ma io sono ossessionato da te,
ragazzaccia» aggiunsi, per poi entrare in lei con impeto, senza lasciarle il
tempo di rendersene conto.
Con gli occhi socchiusi e lucidi, disse: «Ti prego… voglio tornare con Samuele».
«Puoi farlo e io ti aiuterò, anche perché di te non ne vuole
sapere.» Rimasi immobile, mentre vedevo la frustrazione crescere nella sua
espressione. Voleva di più e io non ero intenzionato a cedere, non finché non
avesse accettato le mie condizioni.
«Oh, merda, ti prego…»
«Shh, Julieta,
fai la brava… ci stai?»
«Sì, sì! Ci sto, farò tutto quello che vuoi, ma adesso datti
una mossa!» gridò, spingendo il suo bacino contro il mio, nonostante il mio
peso la immobilizzasse quasi del tutto.
Sorrisi. Avevo ottenuto ciò che volevo e sapevo che anche
lei non sarebbe riuscita a rinunciare a me, pur tornando ad impantanarsi nella
mielosa storia con Samuele, il bravo ragazzo, dolce e sensibile Samuele!
«Così va meglio. Sei bellissima quando mi implori, ormai
dovresti saperlo» conclusi, poi cominciai a spingere, sentendomi soddisfatto.
Forse lei non sarebbe mai tornata con Samuele, poiché quel
ragazzo non ne voleva più sapere di lei: la definiva una stronza di facili
costumi. Ma, dal canto mio, le avrei fatto credere che avrei provato a
convincerlo. Del resto, non sarebbe cambiato nulla: avevo ottenuto il mio giocattolino erotico e sarebbe rimasto tale in ogni caso.
L’amore era tutt’altra cosa, fu l’ultimo mio pensiero, prima
di accasciarmi esausto sul corpo di Julieta.
NdA:
salve a
tutti coloro che leggono questa storia!
Vorrei
informarvi, in caso mai non ve ne foste resi conto, che ho finalmente potuto
cambiare le virgolette tra cui racchiudo i dialoghi.
Amo molto
questo nuovo modo e sono felice di essere riuscita a metterlo in pratica, dal
momento che avrei sempre voluto farlo. Trovo che il tutto risulti molto più
ordinato e simile alla grafica dei libri cartacei che, per la maggior parte,
utilizzano questo tipo di virgolette.
Abbracciai forte Jessica, senza pronunciare una sola parola.
Non avevo nessuna intenzione di colpevolizzarla, lei era
partita soltanto alla ricerca della verità, dell’amore, di quello di cui quel
bastardo l’aveva illusa.
E adesso sembrava così fragile, tra le mie braccia, che
probabilmente, se Samuele non fosse stato con me, sarei caduta in preda al
panico.
Piangevamo entrambe, lei per il suo dolore, io perché,
ancora una volta, non ero riuscita a proteggerla, avevo lasciato che la sua
testardaggine le rovinasse la vita.
Samuele mi aveva ripetuto, mentre guidavo come una pazza
verso l’aeroporto, dopo aver scaricato Sara a casa, che non era colpa mia, che
io non avrei mai potuto fermare Jessica, né tantomeno evitare ciò che era
appena successo.
Forse aveva ragione lui, però la disperazione di Jessica mi
mandava in bestia e mi faceva sentire in colpa.
«Adesso è tutto finito, su, state tranquille» cercò di
rassicurarci Samuele, stringendo entrambe in un abbraccio. Nonostante avesse
una corporatura abbastanza esile, avvertii tutta la forza che io non sentivo di
possedere irradiarsi dalle sue braccia.
«Andiamo, ci sediamo un po’ in macchina, vi va?» aggiunse, accarezzandomi
leggermente i capelli.
Tirai su col naso e rimasi abbracciata a Jessica, mentre
Samuele ci faceva strada verso l’uscita del grande aeroporto.
Nonostante fossimo circondati da migliaia di persone, mi
sentivo chiusa in una bolla, mentre il dolore di Jessica mi travolgeva.
Non avevo idea di come sarei riuscita a guidare per
rientrare a casa.
«Mia, vuoi che guidi io? Ti va?» domandò Samuele, una volta
giunti di fronte alla mia macchina.
Mi voltai a guardarlo, sbattendo le palpebre.
«Tesoro, ci sono tante cose che non sai di me. Non ho la
macchina, ma ciò non significa che io non abbia la patente» spiegò Samuele,
sfilandomi le chiavi di mano, dal momento che io ero troppo stralunata per
rispondergli a tono. «E guido pure bene!» esclamò, salendo sul sedile del
guidatore.
Feci accomodare Jessica sul sedile posteriore e la guardai
mentre si raggomitolava su se stessa.
Trascinai la valigia di Jessica sul cofano e mi andai a
sedere sul sedile accanto a Samuele.
Viaggiammo in silenzio per cinque minuti, poi Samuele disse:
«Hai della musica in macchina?»
«Sì, vediamo…»
Gli mostrai i dischi di vario genere che avevo nel
portaoggetti e lui ne scelse uno reggae, un bell’album dei Groundation.
Evitai di fargli notare che Jessica non apprezzava quel
genere di musica e che, in teoria, dovevamo fare di tutto per farla stare meglio,
anziché innervosirla. Ma non potevo certo parlare di lei come se non ci fosse,
nonostante non avesse spiccicato parola da quando l’avevamo incontrata.
Ero rilassata e ascoltavo la voce graffiante di Harrison Stafford, la quale era riuscita in pochi minuti a
distendere i miei nervi. La musica è sempre terapeutica.
***
Arrivammo di fronte a casa di Jessica e, non appena Mia
suonò il campanello, l’intera famiglia si precipitò all’esterno.
Quello che era accaduto era terribile e tutti, ognuno a modo
suo, erano scossi e increduli al tempo stesso.
Rimasi in disparte ad osservare quel dramma famigliare,
chiedendomi cosa ci facessi io lì. Mi sentivo fuori posto, ma allo stesso tempo
non volevo abbandonare Mia e la sua amica.
Mia, come se mi avesse letto nel pensiero, mi si avvicinò.
«Samu, tutto bene? Hai una faccia… ti dispiace che io ti abbia trascinato in questo
casino?»
«Jessica ha avvisato me di quello che è successo, ci sono
dentro anch’io» risposi, scrollando le spalle.
«Non sai quanto mi è servito averti con me. Non sarei stata
in grado di tornare a casa» ammise lei, inclinando leggermente la testa in
avanti.
«Siamo amici, Mia. Per gli amici faccio sempre ciò che
posso» borbottai, leggermente in imbarazzo.
«Ma Jess ti interessa, scommetto»
insinuò, abbassando la voce.
Proprio in quel momento, mentre avrei voluto ribattere
qualcosa di sarcastico, la sorella di Jessica ci raggiunse.
«Spero che si riprenda. Grazie mille per averla riportata a
casa sana e salva» ci disse, con tono sconsolato.
«L’importante è che le stiamo accanto, Dali.
Ce la farà, ma dobbiamo cercare di non accusarla. Cercava la felicità e si è
ritrovata nel bel mezzo di un incubo» commentò Mia, stringendo la mano
dell’altra ragazza.
Dalida annuì e mi sorrise
debolmente, poi tornò accanto alla sorella e alla madre.
Mia mi prese sottobraccio.
«Salutiamo Jess e ti accompagno a
casa. Deve riposare.»
«Te la senti di guidare?»
«Sì, grazie alla tua idea di mettere i Groundation
durante il viaggio, mi sono rilassata.»
La cosa mi parve positiva. Anch’io avevo scelto quel disco
perché era in grado di tranquillizzarmi. Da quando avevo ricevuto il messaggio
di Jessica, non ero più riuscito a capire niente e mi ero preso un bello
spavento.
Raggiungemmo Jessica, che era seduta su un divano,
circondata dalla sua famiglia.
«Jess, noi andiamo» le disse Mia,
stringendole le mani tra le sue.
Jessica guardò la sua amica, poi guardò me. I suoi occhi
erano tristi, senza vita e senza la minima speranza. Era come se vedesse tutto
nero, lo percepii mentre i nostri sguardi si incontravano.
«Grazie» mormorò, poi abbassò il capo.
Mi inginocchiai accanto a lei e Mia si alzò, spostandosi un
po’ per parlare con i genitori di Jessica.
«Supererai anche questa, vedrai. Hai tante persone che ti
vogliono bene e che ti stanno accanto, non buttarti giù. Sì, so cosa stai
pensando: “Samuele, ma che cazzo dici? Chi ti credi di essere per giudicare
quello che mi è successo? Voi maschi siete tutti uguali, tutti stronzi”. Be’,
forse non so esattamente cosa provi, ma anch’io ho sofferto e soffro ancora per
amore, la mia ragazza mi ha tradito sotto gli occhi di mia sorella e mia
cugina. Vedi, pensavo che non ce l’avrei fatta, invece…
ho conosciuto Mia, ho conosciuto voi… mi sono
risollevato e andrà sempre meglio.»
«Mi sembra impossibile» rispose debolmente lei, con le
braccia strette attorno al corpo.
«Non lo è. Io ti aiuterò, se vorrai.»
Si limitò a fissarmi, in silenzio.
«Perché non hai chiamato Mia e hai scritto a me?» domandai,
di getto. Rorse avevo sbagliato domanda e contesto,
ma la curiosità aveva vinto sul buonsenso.
«Non volevo… che Mia si
arrabbiasse, che si spaventasse o che mi giudicasse, che mi dicesse…»
«Che ti rimproverasse con un “te l’avevo detto”?»
Jessica annuì.
La guardai negli occhi, sfiorandole leggermente un braccio per
attirare la sua attenzione e per poter incontrare il suo sguardo.
«Se ti servo, scrivimi» la esortai, poi posai per un attimo
la mia mano sulla sua, ma subito la ritrassi e mi alzai, raggiungendo Mia.
Uscimmo in silenzio e, una volta in macchina, feci ripartire
il disco che avevamo ascoltato per metà.
Una volta rientrato a casa, mi buttai sul letto e decisi di
accedere a facebook.
Non appena lo feci, attraverso il mio smartphone,
trovai un messaggio di Jessica.
Ho accettato la tua
richiesta, dopo quello che hai fatto per me mi sembrava il minimo.
Non amo il reggae, ma devo
dire che quella musica che c’era in macchina ha migliorato un po’ la mia
situazione.
Grazie.
Sorrisi. Ero contento di aver fatto qualcosa per lei,
qualcosa che la facesse stare meglio.
Era una brava ragazza e, anche se non sapevo perché,
aiutarla mi faceva sentire meglio.
***
Mi richiusi la porta alle spalle, ripensando alle cazzate
che avevo sentito quel pomeriggio da parte di Stefano e Fabiano. Due idioti,
ecco cos’erano.
Non ero riuscito a lavorare al mixaggio neanche per un
attimo, per colpa di grida e schiamazzi vari.
Finalmente stavo tornando a casa, ero più stanco di quando
passavo intere giornate in studio o in giro per concerti. Si sa che il far
nulla nuoce gravemente alla salute.
Mi sentii colpire sulla spalla e mi voltai di scatto,
lasciando cadere le chiavi dello studio.
Mia mi osservava con un sorriso, ma i suoi occhi erano
tristi, stanchi.
Senza pensarci due volte, la strinsi tra le braccia e mi
appoggiai con la schiena contro il muro. La cullai senza dire niente, finché
non decise lei stessa di spezzare il silenzio.
«Jess sta bene, è a casa. Ho
riaccompagnato Samu e sono corsa qui, sperando di
trovarti. Avevo bisogno di vederti, mi sento a pezzi.»
«Ti porto a casa mia, così mi racconti tutto con calma e ti
preparo qualcosa di caldo. Ti va?» proposi, sollevando il suo viso con la punta
dell’indice destro.
«Sì, ti prego!» esclamò.
Feci per staccarmi dalla parete, ma lei mi premette le mani
sul petto e mi baciò sulle labbra. Quel contatto mi fece impazzire, mi ritrovai
ben presto con il fiato corto e dovetti scuotere il capo per riprendermi.
«Amo quando fai così» disse Mia, raccogliendo le chiavi da
terra.
«Così come?»
«Quando scuoti i dread in quel modo… sei sexy» spiegò, prendendomi sottobraccio.
Ridacchiai, chiusi a chiave lo studio e mi diressi verso
casa a piedi.
«Sexy, mmh… direi che sono
scellerato o, quantomeno, potrei sembrare meno idiota se non lo facessi così
fottutamente spesso» risposi dopo un po’, facendo così sorridere Mia.
«C’è qualcuno, a questo mondo, che apprezza il tuo essere
scellerato» osservò.
«Certamente, ne sono consapevole. Ma credo che questo
qualcuno sia alquanto pazzo.»
«Non direi. Io questo qualcuno lo conosco.»
«Allora mandagli i miei saluti e digli che un giretto alla
neuro non gli farebbe male» ribattei, lanciandole un’occhiata maliziosa.
«Sarà fatto» disse lei, stringendomi più forte la mano.
«Cretino» aggiunse.
«Ammetto che riesco a difendermi decentemente.»
Ridemmo entrambi, poi giungemmo sotto casa mia e le feci
strada in silenzio.
Per fortuna, casa mia non era distante dallo studio, almeno
Mia avrebbe potuto recuperare facilmente la sua auto. Non avevo idea del perché
ci fossimo spostati a piedi, semplicemente eravamo troppo presi l’uno dall’altra
per ragionare lucidamente.
«Hai un pessimo gusto nell’arredamento» commentò Mia, non
appena dentro. Con le mani puntate sui fianchi e l’occhio fintamente clinico
dell’arredatrice veterana, mi divertì parecchio.
«Abito con Fabiano, che ti aspettavi?»
«Possibile che voi due facciate tutto insieme? Ora capisco
perché stentate a sopportarvi» commentò, accigliata. «Comunque, si vede che
questa topaia è abitata da soli uomini» rincarò, sospirando.
«Ma smettila, che stronza!»
«Ripeti!» mi intimò, avvicinandosi pericolosamente a me con
il pugno sollevato.
La afferrai per la vita e premetti il mio corpo sul suo.
«Stronza» soffiai sulle sue labbra. Poi, senza darle il
tempo di reagire, la lasciai andare e scappai in cucina.
«Francesco, io ti ammazzo!» gridò, correndomi dietro.
Io ero già intento a frugare in un pensile dove tenevo tutte
le tisane e gli infusi. Scelsi il tè verde, ottimo per rilassare un po’ la
tensione di Mia. Almeno, con me funzionava sempre.
Lei mi raggiunse quando ero già di fronte ai fornelli e mi
abbracciò da dietro.
«Ti odio» mi sussurrò all’orecchio, scostando i lunghi dreadlocks che mi ricadevano sulla schiena.
«Attenta a come parli» mormorai, accendendo il fornello.
Mia cominciò a baciarmi delicatamente il lobo dell’orecchio,
mordendolo piano.
«Mia…»
«Taci» mormorò, tirandomi leggermente i capelli.
Rimasi immobile, o almeno ci provai. Non riuscii a impedirmi
di rabbrividire, mentre lei lambiva la pelle del mio collo con le labbra e
lasciava una scia di carezze che mi mandavano fuori controllo.
«Mia… devi bere il tè…»
«Trova un altro modo per farmi rilassare» mi suggerì,
facendomi voltare nella sua direzione. Subito cercò le mie labbra ma io la
afferrai per le spalle.
«Sei sicura di star bene?»
«Adesso sì. Ci sei tu con me, quindi…»
«Puoi andare in camera mia, finisco di preparare il tè e ti
raggiungo» dissi, indicandole una porta sulla sinistra.
Annuì e uscì dalla cucina.
Cinque minuti più tardi, entrai nella mia stanza con un
vassoio in meno e trovai Mia intenta ad esaminare la parete che avevo
interamente dedicato a CD e vinili.
«Dove l’hai comprato?» mi domandò, voltandosi. Stringeva in
mano un cofanetto contenente l’intera discografia dei Dub
Inc.
Sorrisi.
«Segreto.»
Feci appena in tempo ad appoggiare il vassoio sulla
scrivania che me la ritrovai addosso che mi guardava in cagnesco.
«Oggi hai superato il limite» affermò, stringendomi forte.
Poi cominciò a baciarmi con passione e in pochi secondi ci
ritrovammo sul mio letto, avvinghiati l’uno all’altra.
«Oggi mi prenderò cura di te, ti fidi?» sussurrai, per poi
baciarla ancora.
«Certo.»
Così, rimanemmo semplicemente abbracciati, mentre io la
accarezzavo, la baciavo, facendola sentire amata e compresa. Mi raccontò ogni
cosa, mi disse quello che era successo alla sua amica Jessica e mi confidò di
aver avuto molta paura per lei. Fui lieto di sapere che la vicinanza di Samuele
l’aveva aiutata e mi dissi che l’avrei dovuto ringraziare.
Stare con Mia così mi fece sentire al sicuro, felice,
appagato.
La desideravo da impazzire e sentivo che anche per lei era
lo stesso, lo comprendevo dalla sua reazione ogni volta che la sfioravo. Ma
quello non era il momento adatto per pensare all’appagamento fisico.
Anche perché speravo che avremmo avuto molte, moltissime
occasioni per quello.
Capitolo 20 *** Quesiti irrisolti e Risoluzioni disastrose ***
Quesiti irrisolti e Risoluzioni disastrose
Da quando mia sorella frequentava Francesco, io ero nervosa.
Gelosa no, però mi dava fastidio che lei avesse tutti quei
contatti con cantanti e artisti che a me piacevano molto.
Senza contare che avevo voglia di conoscere meglio Samuel,
era il mio preferito in assoluto.
Ma, allo stesso tempo, non ero in grado di parlarci
normalmente, ero troppo timida e mi odiavo per questo.
C’era qualcosa di sbagliato in me, qualcosa che però non
riuscivo a cambiare, a modificare, a migliorare.
Quattordici anni per niente, in sostanza.
In realtà, ero ancora un’adolescente, anzi, ero entrata da
poco in quella fase, perciò molte cose le giustificavo in questo modo. Tuttavia,
sapevo di essere più matura dei miei coetanei; non che peccassi di presunzione,
però mi rendevo conto che i ragazzini della mia età erano stupidi e
superficiale rispetto a me.
Ciò che pensavano loro, io neanche lo immaginavo
minimamente. Davano importanza a idiozie che per me erano più eresie che altro.
Forse era questo il motivo che mi portava a non avere amici,
o forse il mio modo di considerare i miei coetanei peggiori di me.
In ogni caso, mi trovavo meglio con persone più grandi di me
e non ci potevo fare niente.
Questo spiegava come mai avessi un ottimo rapporto anche con
Mia, che aveva diversi anni in più di me.
In quell’ultimo periodo, però, mi stava facendo arrabbiare. Tra
stare dietro a Jessica e dedicarsi alla sua nuova sdolcinata relazione, non mi
considerava più di tanto.
La mia pazienza finì quando scoprii all’ultimo momento che
ci sarebbe stato un concerto e che lei stava per andarci senza di me.
«Mia, cosa stai facendo?» le domandai, entrando in camera
sua e trovandola piantata di fronte all’armadio. Era un sabato sera qualunque,
per quanto ne sapevo io, non c’era alcuna data in programma.
«Mmh?» mugugnò, osservando con una
smorfia una camicetta nera.
«Devi uscire con il tuo fidanzato?» chiesi ancora, con
malcelata ironia.
«Anche» rispose, portando fuori un maglione a righe viola e
nere.
«Anche?» insistetti, irritata.
«Prima canta, poi…»
«COSA?!» gridai, facendo un balzo in avanti e afferrandola
per il braccio. «Canta?»
Mia si voltò a guardarmi e si divincolò dalla mia stretta.
«E tu non mi hai detto NIENTE?» proseguii, sollevanzo ancora il tono di voce.
«Oh, e smettila di urlare, le orecchie mi servono ancora!»
protestò, marciando poi verso il bagno.
«Tu mi stai impedendo di andare ad un concerto, ti rendi
conto?»
«Senti, Sara, non sono obbligata a dirti tutto quello che
faccio e a trascinarmi dietro mia sorella ovunque» ribatté, stizzita,
sbattendomi la porta del bagno in faccia.
Cominciai a bussare e a strillare.
«Ti odio, sei una stronza! Solo perché tu hai la patente e
sei fidanzata con Francisco, io non posso fare niente!»
«La vogliamo smettere di urlare?» si intromise nostro padre,
sopraggiungendo.
Rimasi immobile per un attimo, poi gli dissi: «Dillo a lei,
che si crede molto simpatica solo perché è grande!»
Mia spalancò la porta e mi fissò in cagnesco.
«Non ti azzardare» sibilò tra i denti.
«Smettetela, ho detto. Avete rotto le scatole con queste
litigate!»
«Tua figlia è frustrata perché non ha amici e non la vuole
nessuno, quindi dovrei scarrozzarmela io in giro? Non penso proprio!»
Come osava? No, questo era troppo, non le avrei permesso di
trattarmi in quel modo.
«Ah, bene! allora vai, escitene
con il tuo ragazzo, io me ne lavo le mani!»
«Ragazzo? Quale ragazzo?» chiese mio padre, spostando lo
sguardo da me a lei e viceversa.
Gli occhi di Mia si accesero d’ira e in quel momento
compresi che avevo fatto una cazzata.
Perché non imparavo a star zitta?
***
Sì, ero pronta.
Mi guardai allo specchio: trucco sugli occhi a posto, labbra
dipinte di rosa brillante e guance leggermente imporporate.
Dovevo entrare in azione, se non l’avessi fatto quella sera,
chissà quanto avrei dovuto aspettare.
Avevo pensato di ripresentarmi a casa di Samuele, ma sapevo
che tutta la sua famiglia mi odiava. E la colpa era tutta di Martina.
Quella ragazza mi faceva schifo. Aveva fatto di tutto per
allontanarmi da Samuele, soltanto perché non le andavo a genio.
Mi aveva fatto passare per una puttana senza scrupoli ed era
stata cattiva con me. Mi aveva trascinato con lei, facendomi conoscere un suo
amico, poi aveva scattato quella foto, quella che mi aveva rovinato la vita. Samuele
mi aveva lasciato senza che io facessi nulla di male. Io lo amavo, possibile
che nessuno lo capisse?
Quando poi Carlo mi aveva sedotto, ero caduta tra le sue
braccia perché ero disperata. Avevo bisogno di sentirmi amata o, quantomeno, di
illudermi che fosse così. Avevo trascorso gli ultimi due anni di vita con
Samuele, protetta dal suo amore e dal suo essere premuroso e costantemente dolce.
Improvvisamente, senza una ragione valida, mi ero ritrovata da sola, triste e
abbandonata, additata come una cattiva ragazza. E Carlo mi aveva donato un po’
di calore, seppur fisico e senza sentimenti profondi, come quelli che provavo
ancora per Samuele.
Dovevo riconquistarlo, doveva essere ancora mio e lo doveva
essere per sempre.
Peccato che avessi accettato delle condizioni riprovevoli da
parte di Carlo, in cambio del suo aiuto.
Mentre sospiravo pensando al mio orribile patto, sperai in
cuor mio che mi aiutasse davvero e che tutto funzionasse.
Dovevo andare da Samuele con il cuore in mano e pregarlo di
riprendermi con sé, non prima che Carlo mettesse una buona parola per me.
Dopo essermi data un’ultima occhiata allo specchio, mi infilai
il cappotto, afferrai la borsa e uscii di casa.
***
Seduto sul bordo del palco, aspettavo.
Era ancora presto, appena le dieci e mezza di sera, il
locale era pressoché deserto, ad eccezione di Stefano e Samuele, i quali erano
usciti a fumare pochi minuti prima.
Volevo assolutamente rivedere Mia.
Da quando, il giorno prima, era venuta a casa mia, mi
mancava. Stare insieme a lei, abbracciarla e sentirla così vicina mi aveva
fatto capire che la sua assenza era quasi insopportabile. Non avevamo certo
fatto sesso, però ci eravamo accarezzati e presi cura l’uno dell’altra in una
maniera così intima e profonda, che neanche un rapporto sessuale qualunque
avrebbe eguagliato. E i baci, oh, i baci! Non c’era niente di più intenso di quelli…
Scossi il capo, tornando alla realtà. Se avessi continuato a
rimuginare su quei pensieri, non sarei riuscito a controllarmi in sua presenza.
E, comunque, dovevo concentrarmi sul concerto di quella
sera.
Con la coda dell’occhio notai una figura fare il suo
ingresso nel locale e sperai scioccamente che si trattasse di Mia.
Subito mi accorsi che, però, si trattava di Carlo.
Si venne a sedere accanto a me e mi guardò con gli occhi
cerchiati di rosso.
«Carlo, quante te ne sei già fumato?» chiesi, piegando la
testa di lato.
«Mah, chi lo sa!» esclamò, facendo spallucce. «Devo andare
in bagno, cazzo. Ehm… sì, il bagno, dove sarà?»
«Non è la prima volta che veniamo qui, Ca» gli feci notare,
ridacchiando. Era già fuori come un balcone. Ecco perché sbagliava sempre i
testi delle canzoni durante i concerti.
«Ah, ah!! È vero, Fra, hai ragione! Vado, vado!»
Se ne andò e io lo osservai mentre cercava la sua meta.
Mentre aspettavo che qualcuno si degnasse di tornare per far
bene il sound check, sentii un suono provenire dal
punto in cui Carlo era seduto fino a poco prima.
Mi accorsi che aveva lasciato il cellulare lì e mi chiesi se
fosse il caso che rispondessi.
Sul display lampeggiava un nome strano, Jules.
Jules? E se si trattava di qualcuno che lo cercava per una
serata?
Mi dissi che avrei potuto rispondere, in fondo io e Carlo
eravamo amici e condividevamo il palco da un sacco di tempo. Non si sarebbe
incazzato, del resto era in condizioni che lo rendevano poco incline alle
scenate.
Afferrai il suo telefono e risposi.
«Pronto?»
«Carlo, sei tu? Ricordati, se vedi Samu,
devi mettere una buona parola, altrimenti non ci sto più alle tue condizioni. Sto
per arrivare, ti prego, fai in modo di prepararmi la piazza, eh? Ohi, ci sei?»
Lasciai cadere il cellulare e mi alzai, in preda a qualcosa
che non riuscii subito a definire. Udivo, in lontananza, quella voce gridare il
nome di Carlo, poi anch’essa tacque e io rimasi immobile a fissare dritto
davanti a me.
Nonostante cercassi di negarlo, avevo riconosciuto alla
perfezione l’interlocutrice all’altro capo del telefono.
E quel nome, Jules…
Non poteva essere vero.
Il mio cervello cominciò a formulare domande a raffica:
perché Julieta aveva telefonato a Carlo? Perché lui
aveva salvato il suo numero chiamandolo “Jules”? cos’aveva da nascondere? E perché
lei aveva parlato di condizioni? Quali condizioni? E Samuele che c’entrava? Da quando
Carlo e Julieta si sentivano e avevano tanta confidenza?
Cosa diavolo stava succedendo?
***
Sara me l’avrebbe pagata.
Non riuscivo ancora a credere che avesse detto a mio padre
di me e Francesco.
Cosa le avevo fatto di male?
Lo aveva fatto soltanto perché, per quella volta, non l’avevo
invitata a venire con me ad un concerto. Sapevo che per lei era importante, ma
non potevo vivere in base a lei e ai suoi capricci adolescenziali.
Anch’io avevo una vita, cosa credeva? Senza contare che io,
a quattordici anni, mi sognavo di fare ciò che lei faceva grazie a me. Cosa voleva
di più?
E comunque, non credevo che ciò giustificasse il suo gesto. Mi
aveva pugnalato alle spalle, non lo aveva mai fatto prima e, quindi, ciò mi
feriva ancora di più.
«Sto uscendo con un ragazzo, niente di che. È normale alla
mia età, no?» buttai lì, cercando di rimanere impassibile.
«E chi ha detto il contrario? Non metterti subito sulla
difensiva. Più che altro, gradirei essere informato quando esci con un ragazzo,
sai com’è, sono sempre tuo padre» rispose lui.
Sara, intanto, se n’era andata, forse aveva capito che non
era proprio il caso che mi girasse attorno, se non voleva passare uno
sgradevole quarto d’ora.
«Sì, hai ragione. Be’, ora lo sai. Scusa, devo prepararmi e… mi squilla il telefono» mi affrettai a dire, sentendo il
quanto mai confortante suono del mio cellulare provenire dal bagno.
Mi chiusi in fretta la porta alle spalle, ribollendo di
rabbia. Odiavo Sara, non l’avrebbe passata liscia.
Risposi senza preoccuparmi di guardare il display.
«Sì?»
«Sono io» esordì Francesco. Avevo sempre ritenuto inutile
chi usava quell’espressione per annunciarsi, come se quell’“io” significasse
davvero qualcosa. Ma, nel tono del ragazzo avvertii qualcosa di strano, che non
mi piacque per niente, così evitai di fargli notare la stupidità di quanto
aveva appena detto.
«Fra, tutto bene?» domandai, mentre mi infilavo le scarpe.
«No.» Sospirò. «Quando arrivi?»
«Non farmi preoccupare. Non so, penso che nel giro di
mezzora sarò lì. Ho avuto un contrattempo per colpa di quella str… lasciamo stare, faccio il prima possibile. Ma che è
successo?»
«Ne parliamo dopo, volevo sentirti…
che casino. Ora devo andare, ci vediamo tra poco. Non metterci troppo.»
«Sicuro» mormorai, confusa, mentre la conversazione veniva
bruscamente interrotta.
Con l’ansia che si era appena impossessata di me, mi
preparai in fretta e furia, dimenticandomi di Sara e di mio padre.
Cosa poteva essere successo a Francesco? Vista l’ora, doveva
già essere nel locale a prepararsi per il concerto.
Non riuscivo ad immaginare qualcosa di reale che l’avesse
turbato tanto e finii per smettere di immaginare qualsiasi cosa, poiché le
immagini che mi si stavano formando nella mente erano orribili e inconcepibili.
Sospirando profondamente, mi lanciai fuori casa sette minuti
più tardi.
Quando salii in macchina, per la prima volta mi resi conto
che non provavo il solito entusiasmo pre-concerto.
A Francesco era successo qualcosa e non mi sarei
tranquillizzata finché non l’avrei rivisto e stretto tra le braccia.
Quando arrivai al locale, trovai Francesco all’esterno, che
fumava nervosamente e camminava avanti e indietro.
Non avevo idea di cosa gli fosse successo, però avevo la
netta impressione che stesse impazzendo dalla rabbia.
«Sono qui, scusa, forse ci ho messo troppo…»
farfugliai, afferrandolo per il braccio con fare preoccupato.
«Non ti preoccupare, sto già meglio» rispose. Poi lasciò
cadere la sigaretta e la schiacciò con la punta della scarpa, e un attimo dopo
mi ritrovai tra le sue braccia.
Nonostante mi sentissi in ansia per ciò che non mi aveva
ancora detto, avvertii la familiare ondata di sollievo nel trovarmi lì, con
lui.
«Per favore… dimmi che succede»
gli sussurrai all’orecchio, stringendolo più forte.
Si scostò da me e mi fece cenno di seguirlo. Ci andammo a
sedere su un muretto basso, non troppo distante dal locale, dal quale Francesco
riusciva a tenere d’occhio la porta d’ingresso, nel caso i suoi colleghi lo
avessero cercato per cominciare a cantare.
«Sembri molto preoccupato» commentai, cercando la sua mano,
per poi stringerla con forza.
«Non sono sicuro di quello che è successo, però c’è qualcosa
che non va e Samuele non ne sa niente.»
«Cosa c’entra Samu?» gli chiesi,
fissandolo con aria interrogativa.
«Carlo sta combinando qualcosa con Julieta,
non ho capito bene, però… sembra che lei voglia
cercare di riconquistarlo e che Carlo la debba aiutare.»
«Come l’hai scoperto?»
«Carlo è già mezzo partito, deve aver fumato e bevuto un po’
oggi. Ha lasciato il telefono incustodito mentre andava in bagno e io ho
pensato bene di rispondere.»
Sospirai, scuotendo il capo.
«Quindi?»
«Era Julieta. Blaterava qualcosa a
proposito di…»
Ma Francesco non poté terminare la frase, perché Samuele
uscì dal locale e cominciò a gridare il suo nome.
Io e Francesco scoppiammo a ridere, forse per
sdrammatizzare, forse per scaricare la tensione.
Poi ci fissammo per un attimo.
«Un idiota» esclamammo in coro.
Qualunque cosa fosse successa, non era quello il momento per
parlarne o per tentare di risolverla.
«Le orecchie mi servono per ascoltarti, stasera, sai?»
«Perché gridi sempre?» intervenne Francesco, mollandogli una
pacca affettuosa sulla spalla. Notai che evitava accuratamente di guardare il
suo amico negli occhi, come se temesse di rovinargli la serata prima del tempo.
«Eh sì» commentò Samuele, con un’espressione stralunata.
«Che risposta è?» domandò Francesco, facendo ondeggiare i dread mentre si alzava.
Entrammo tutti insieme nel locale, mentre continuavamo a
prendere per il culo le risposte casuali di Samuele.
Sperai davvero che nulla gli rovinasse la serata, non
un’altra volta.
***
Julieta entrò nel locale con
circospezione e, non appena la vidi, pensai bene di far in modo che nessuno la
notasse.
La raggiunsi e la schiacciai contro la parete, in un angolo
buio e remoto del locale.
«Carlo, ci potrebbero vedere!» squittì lei, cercando di spingermi
via.
«Sta’ zitta. Dobbiamo rimandare il piano, credo che qualcuno
ci abbia scoperto» affermai, infilandole una mano sotto la gonna per
accarezzarle una coscia.
«Cosa? Non dire cazzate!»
«Mi sono accorto di aver lasciato il cellulare incustodito e
ho notato che mi hai chiamato, però non so chi ti ha risposto.»
«Come sarebbe a dire? Io ho parlato con te!»
«No, cretina, non ero io!»
«Ma allora chi…»
«Ti ho detto che non lo so» ruggii, mentre sentivo la sua
pelle riscaldarsi grazie al mio tocco.
«Ma tu mi avevi promesso…»
«Cosa hai detto al telefono?» la interruppi.
In quel momento avrei tanto voluto schiaffeggiarla e
insultarla, ma non potevo rischiare che qualcuno si accorgesse di noi.
«Io…be’…
ho detto che dovevi ricordarti di parlare bene di me a Samuele e…»
«Cazzo» sibilai tra i denti, allontanandomi bruscamente da
lei. Ero incazzato, questo era tutto quello che riuscivo a pensare. «Possibile
che tu non abbia capito che non sono stato io a rispondere?»
«No, non ci ho fatto caso, io…
sono partita in quarta, non ho pensato che…»
«Ecco qual è il tuo problema, Julieta:
tu non pensi mai. Hai solo Samuele in quella cazzo di testa. Prima fai la
puttana, poi ti penti e credi davvero che quel povero ragazzo sarà disposto a
perdonarti? Ingenua, scordatelo!»
In quel momento, non riuscivo a pensare minimamente a ciò
che stavo perdendo, a ciò che lei non mi avrebbe più dato, a ciò che avrei
potuto ottenere ancora e ancora, senza muovere un dito. Mi aveva fatto girare
le palle, punto e basta. Zoccola inutile.
«Perché dici questo? Tu avevi detto…»
«Io non avevo detto un cazzo, Julieta,
dimenticati che esisto. E stai pur certa che Samuele non tornerà mai più da te»
sputai, in preda all’ira, poi le voltai le spalle e me ne andai.
Ero fuori di me, quella stupida era riuscita a rovinare
tutti i nostri piani, a mandare a monte ogni mio progetto e a rovinare quel
minimo di speranza che le avevo dato.
Ma, cosa ancor più grave, dovevo assolutamente scoprire chi
aveva risposto al mio telefono e cosa aveva capito. Aveva riconosciuto Julieta?
Non riuscivo a ragionare lucidamente, avevo la mente
annebbiata dal fumo e da qualche birra bevuta in precedenza.
Nonostante avessi notato Samuele che si sbracciava per
attirare la mia attenzione, uscii dal locale e rimasi cinque minuti buoni lì, a
fumare, cercando di schiarirmi le idee.
***
Ero carico, lo ero davvero.
Felice come una Pasqua!
Non so perché, ma finalmente sentivo che avevo davvero voglia
di cantare e di rimettermi in pista.
Dopo i problemi che avevo avuto con Julieta,
mi ero concentrato più che altro sul lavoro in studio e sulla mia amicizia con
Mia. Lei mi aveva aiutato molto, coinvolgendomi nella sua vita senza chiedere
nulla in cambio.
Era stata una benedizione per me. Mi aveva dato nuovamente
una speranza, facendomi capire che per lei ero speciale, nonostante tutto.
Perciò, era anche grazie a lei che quella sero mi sentivo in forma smagliante, pronto a spaccare
tutto.
Francesco e Carlo, al contrario, sembravano in procinto di
andare ad un funerale.
Francesco sembrava preoccupato per qualcosa che non osavo
immaginare, poiché Mia era lì e, da quando quei due si frequentavano, avevo
notato che il mio amico stava meglio, come se fosse più completo, più sereno. Che
avessero già litigato? Ne dubitavo, ma non riucivo
comunque a capire cosa stesse succedendo. Carlo, invece, era incazzato. Lo conoscevo
abbastanza per capire quando qualcosa lo rendeva irascibile e scontroso. Sapevo
anche che, quella sera, avrebbe sfogato tutto nelle sue canzoni e, forse, dopo
mi avrebbe raccontato qualcosa.
Quando Carlo rientrò, decidemmo di cominciare. Era quasi
mezzanotte e stava arrivando un sacco di gente.
Notai di sfuggita Mia andare a salutare mia sorella e mi
chiesi che fine avesse fatto Sara. Come mai non era venuta con lei? In genere,
quelle due si spostavano in simbiosi. Quella sera era tutto strano, ma io ero
stranamente euforico.
«Samu, guarda chi c’è!» mi gridò
Stefano in un orecchio, trapanandomi un timpano.
Se Francesco e Mia l’avessero sentito, avrebbero smesso di
prendere in giro me per come “urlavo”.
«Dove?»
«Sempre il solito rincoglionito tu! Di là, in mezzo al
locale! Ci ha fatto l’onore di presentarsi ad una nostra serata!»
Quando capii di chi stava parlando, scoppiai a ridere come
un idiota e cominciai a gesticolare in direzione del mio amico Fabiano, nonché
fratello di Francesco.
Aveva sempre sostenuto che il reggae non era il suo genere
preferito e che ne aveva già abbastanza di noi, quando andavamo a registare da lui. Eppure, quella sera era lì e sghignazzava
con qualche amico che avevamo in comune.
Quando mi individuò, si staccò dal gruppo e mi venne
incontro, saltando letteralmente sul palchetto allestito per l’occasione.
«Bella Samu! Hai visto che sono
passato? Anche se non vi sopporto più, ce l’ho fatta!»
«Cazzone. Cosa ci fai qui? Che onore,
oggi mi impegno il triplo dato che c’è una specialguest del genere!»
«No, in realtà…» ammiccò Fabiano,
prendendo Stefano per un braccio e trascinandolo vicino a noi. «…sono venuto perché volevo vedere Perro
alle prese con la sorellina di Mia» concluse Fabiano, alzando un po’ troppo la
voce.
Io lo guardai con aria interrogativa: che stava blaterando?
«Idioti, ci diamo una mossa?» gridò a quel punto Francesco,
spintonando il fratello.
«Dai, che rompicoglioni! E io che sono venuto apposta per
assistere alla pedofilia di Perro!» si lamentò
Fabiano, sghignazzando.
«SI può sapere di che state parlando?» domandai, confuso. Non
ci stavo capendo un accidente.
«Cazzate, Samu, solo cazzate»
tagliò corto Francesco, poi mi ficcò in mano un microfono e mandò al diavolo
Fabiano.
Anche se non avevo afferrato neanche un quarto dei loro
discorsi, feci spallucce e cominciai a parlare al microfono, invitando tutti i
presenti ad avvicinarsi sotto il palco.
Era ora di cominciare, alla grande!
***
Nonostante tutto, ero contento che Samuele fosse così carico
e positivo, quella sera.
Gli avvenimenti di poco prima mi avevano preoccupato, ma Mia
era riuscita a rassicurarmi, facendomi intendere che era meglio lasciarlo
sfogare e divertire sul palco e, caso mai, dopo cercare di scoprire qualcosa su
Julieta e Carlo e riferirla a lui.
Così feci.
Nella dancehall, il delirio
esplose dopo qualche pezzo.
Mia, Alessia e altre ragazze si lanciarono in pista,
piazzandosi proprio sotto il palco, in primissima fila. Munite di fotocamere e
cellulari, ogni tanto si fermavano a riprenderci o a scattare delle foto
ricordo. Mia adorava farlo.
Vicino a loro c’era anche Fabiano, il quale, insieme a dei
ragazzi che conoscevamo entrambi, animava la festa, gridava cazzate a caso nei
rari momenti di silenzio tra un pezzo e l’altro e continuava ad additarci,
sghignazzando come suo solito. Tutto si poteva dire di mio fratello, ma non che
fosse asociale o poco allegro. Riusciva sempre a coinvolgere un sacco di persone,
conosciute e non, nelle sue idiozie.
Mia sembrava divertirsi e ogni tanto si avvicinava a lui,
mostrandogli qualche foto o ridendo a qualche battuta di Fabiano.
Questo lo notai mentre Carlo cantava una delle sue canzoni e
io non avevo niente da fare, se così si può dire.
Trascorse un altro po’ di tempo e io misi tutto me stesso
nei brani che interpretai, chiudendo gli occhi nei momenti che ritenevo più
intimi, quasi sacri, sperando che Mia mi stesse ascoltando e, soprattutto, che mi
stesse percependo, sentendo fino in fondo all’anima. Emozionarla nel profondo
era diventata la mia missione.
Quando stavamo per giungere al termine, Samuele si gasò
tantissimo, saltando come un matto e correndo per tutto il palco mentre cantava
e lasciava fluire libere tutte le parole che aveva accuratamente assemblato per
dar vita ai suoi testi.
Notai che mi lanciava una fugace occhiata colma d’euforia,
poi, in un attimo, fu sotto il palco in mezzo alla gente, trascinandosi dietro
il microfono.
Adoravo quei momenti, quelli che riuscivano ad eliminare
ogni differenza, nei quali noi non eravamo più “gli artisti” e loro non erano
più “la massive”.
In quegli istanti, noi tutti eravamo uniti, un gruppo, una
sola entità con, in comune, l’amore incondizionato per la reggae music.
Per questo, seguii Samuele, appoggiando appieno la sua
splendida idea.
Carlo si dimostrò un po’ restio, ma a me non importava, non
avrei rinunciato per colpa sua. Mai.
Ero abituato a ragionare di testa mia e, per carattere, non
ero propenso a farmi condizionare dai limiti altrui.
Samuele si rivolse allora verso il palco, accerchiato dall’affetto
ed il calore di tutto il pubblico e smise di cantare, per poi esplodere in un:
«Pull up!» che tutti ripetemmo in coro.
A quel comando, Stefano rispose all’istante, interrompendo
immediatamente il riddim e aspettando un segnale da
parte nostra.
Cos’aveva in mente il mio folle amico?
«Aspetta, aspetta Perro, un
attimo! Innanzitutto, vorrei che ora, voi tutti, faceste un bel po’ di casino
per il nostro Perro, su, su, su!» gridò Samuele,
mentre la massive rispondeva con estremo calore.
In quel momento notai che il mio amico si avvicinava a Mia
e, in un attimo, la prese per mano e se la trascinò dietro. Scorsi per un
attimo l’espressione nel viso di lei e sorrisi, sapendo quanto si sentisse in
imbarazzo. Tuttavia, non riuscivo ancora a capire cosa Samuele avesse in mente.
«Adesso, massive, vorrei dedicare il prossimo brano alla
persona che mi ha salvato, ad un’amica speciale. Ricordatevi che l’amicizia è
uno dei valori più belli e speciali, non lasciatevi mai scappare un amico vero,
quando lo trovate. Grazie, Mia» disse, poi guardò la ragazza negli occhi e le
rivolse un sorriso dolcissimo, il quale mi fece quasi ingelosire. Il fatto è
che conoscevo Samuele, così scacciai quella sensazione negativa e provai ad
immaginare come dovesse sentirsi Mia. Avrei tanto voluto correre ad
abbracciarla, ma non potevo dare spettacolo anch’io, anche perché sapevo che
lei non amava particolarmente le effusioni in pubblico.
Fortunatamente, Alessia andò in suo soccorso e la strinse
forte, mentre la mia ragazza scoppiava a piangere, incredula, felice, confusa.
Riuscivo quasi a percepire le sue emozioni e rimasi in
religioso silenzio ad ascoltare Samuele mentre cantava, incantando tutti i
presenti e facendo esplodere la sala in un grido di delirio e approvazione.
Quel ragazzo era eccezionale e, mentre gli ultimi pezzi in
scaletta scorrevano fin troppo veloci e impetuosi in tutto il locale, mi si
strinse il cuore all’idea che qualcosa di oscuro e terribile lo attendeva al
termine di quel bellissimo show.
Ero arrabbiatissima con Mia e, da quando era uscita, non
facevo che deambulare per la casa come un’anima in pena.
Come aveva osato lasciarmi a casa?
Neanche raccontare a nostro padre che lei usciva con uno –
anche se, purtroppo, non era uno qualsiasi – era servito a qualcosa.
Sì, avevo sbagliato su tutta la linea, ma non sopportavo
quando mi tagliava fuori dalla sua vita in quel modo. Insomma, sapeva che i
concerti erano la mia vita, che ci tenevo ad incontrare Samuel e a divertirmi
come tutti gli altri.
Però, una cosa era certa: quando avessi avuto l’età e le
amicizie giuste, non avrei più fatto caso a lei e alle sue scemenze.
Eppure…
Per il momento me la sarei dovuta tenere buona, cavoli. Invece
mi ero data la zappa sui piedi.
E poi…
No, questo non riuscivo ad ammetterlo a me stessa. C’era un
pensiero, uno solo, assillante, che non riuscivo neanche ad elaborare.
Chiusi gli occhi, rannicchiandomi sul divano.
Perché non potevo pensare all’unica persona che, con me, si
era comportata bene e aveva – diciamo – accettato di parlarmi, trattandomi da
essere umano capace di intendere e di volere?
Perché no, Sara, no!
Quegli occhi verdi… no, Sara! Basta!
Però… pensare al suo viso giovane
e pulito, a quel sorriso sbarazzino, a quel corpo forte e snello…
Okay, dovevo piantarla subito e per davvero.
Che mi stava prendendo?
Eppure, mentre mi rodevo il fegato nel pensare a Mia che si
stava divertendo al concerto, mi venne in mente che avrei voluto andarci anche
io e che, insomma, vedere anche lui non mi sarebbe dispiaciuto.
E accarezzare quei capelli rossicci…
oh, cielo, stavo impazzendo. Appurato.
Afferrai il telefono e mi misi ad ascoltare musica, tanto
per non pensarci.
Anche se, a dirla tutta, questo era impossibile.
***
Certo che le battute di Fabiano erano tremende.
Possibile che mi considerasse proprio un tale idiota?
Ma io e lui eravamo amici da un po’, era ovvio che non me la
sarei presa con lui.
Però, insomma, non ero un pedofilo né un pervertito di
qualsiasi genere. Mi piacevano le ragazze, che male c’era? Quale uomo
eterosessuale non provava attrazione per una bella donna? Diamine!
E comunque, la sorellina di Mia non mi piaceva. La trovavo
talmente ingenua e piccola, che non riuscivo ad immaginarla come una partner.
Aveva sì e no sedici anni, io ormai dovevo pensare ad una
compagna più matura.
Quella era solo una bambina, al massimo potevo divertirmi a
prenderla in giro e a scherzare con lei, facendola sfogare quando aveva un
problema adolescenziale.
A dirla tutta, mi sembrava molto diversa da Mia. La ragazza
di Francesco, infatti, mi dava l’impressione di essere più determinata e
matura, anche se l’età contava abbastanza, per determinare queste
caratteristiche.
Quella sera, in ogni caso, la sua sorellina non c’era,
perciò a Fabiano era andata proprio male.
«Dai, Perro, scendi dal palco!»
gridò lui, una volta concluso lo show di Samu, Fra’ e
Carlo.
«Alla musica ci pensi tu, eh? Sto lavorando, mister
intelligenza.»
«Ti fai sostituire e vieni, che ti offro una birretta, di là ci sono anche gli altri. Muoviti!»
«Oh, aspetta che chiamo la mia controfigura di fiducia»
ironizzai, regolando leggermente i bassi. In quella canzone, infatti, dovevano
essere pompati al massimo.
«Perro, sei troppo serio per la
tua età. Invecchierai precocemente, fratello!»
«Se vuoi qualcosa, Fab, chiedi a Samu di sostituirmi. Altrimenti non se ne fa niente.»
E infatti, come se non aspettasse altro, Fabiano cominciò a
sbracciarsi, per attirare l’attenzione di Samuele, il quale era al bar che
parlava con altri nostri amici.
«Cazzo, girati! Gli faccio un annuncio al microfono,
scommetti?»
«No, zero, scordatelo. Vai e lo chiami.»
«Che palle.»
Proprio in quel momento, Mia intercettò i gesti di Fabiano e
lui le indicò Samuele. Lei annuì e si avvicinò da lui a dirgli che Fabiano lo
cercava.
«Cosa vuoi?» esordì Samuele, una volta giunto da noi.
«Voglio portarmi via Stefano per un attimo, lo sostituisci?»
«Boh… okay.»
Samuele e la sua loquacia: vol. 1.
«Se non vuoi…»
«Voglio, voglio. Andate!»
Così lasciai la mia postazione e seguii Fabiano verso il
bar.
Mia, vedendoci passare, ci rivolse un sorriso e poi tornò a
concentrarsi sul suo adorato Francesco.
Quei due erano buffi insieme, però ci stavano bene lo
stesso.
«Ah ecco qui Perro, il playboy
delle medie!» gridò Martino, quel pazzo, uno dei miei più cari amici.
«Noto con piacere che Fabiano mi ha sputtanato in giro»
commentai, appoggiandomi con un gomito sul bancone.
«Una birra per mio fratello!» ordinò ancora Martino, rivolto
al barista. «Si festeggia il fidanzamento!»
«Esagera, Marx!»
«Eh no, ha ragione! Viva gli sposi!» intervenne Danilo, il
terzo idiota che aveva accompagnato Fabiano e Martino, nell’impresa di rompermi
per bene le palle.
«Bevete e vedete di stare zitti, brutti pezzi di merda!»
esclamai.
E scoppiammo tutti a ridere, mentre Samuele faceva partire
una canzone di Gentleman.
Francesco, di sicuro, lo stava amando.
Ennesima bella serata.
***
Cosa dovevo fare?
Qualcuno mi aveva scoperto, aveva scoperto il mio piano con Julieta.
Ma chi era stato a rispondere al mio telefono?
Cercavo di fare mente locale, ma non mi veniva in mente
assolutamente niente.
Maledizione!
Più che altro, non riuscivo ad immaginarmi che potesse
essere stato Samuele.
No, lui no: era troppo euforico e felice, si notava durante
tutto il concerto e si capiva dai pezzi che stava passando, mentre Stefano si
era momentaneamente spostato al bar.
Ma chi allora?
Dunque, dovevo riuscire a ricordarmi cos’avevo fatto: ero
arrivato al locale, poi? Ah sì, dovevo andare in bagno. Quindi…
Ero andato in bagno.
Mancava qualcosa.
Mandai giù un altro sorso di gin e continuai a riflettere,
mentre l’alcol mi scendeva bruciante in gola.
Cosa mi ero dimenticato?
Avevo incontrato qualcuno, perché poi…
Mi tastai le tasche dei pantaloni e sbiancai.
Dove cazzo era finito il mio IPhone
6?
Imprecai nuovamente, cercando di non perdere del tutto la
calma.
A quel punto, mi alzai e mi avvicinai a Samuele,
ricordandomi improvvisamente di essermi seduto sul palco, prima di andare in
bagno.
E con me c’era Francesco.
«Samu, non è che avete trovato il
mio telefono qui sul palco?» domandai, agitato.
Lui mi rivolse un’occhiata interrogativa, poi fece spallucce
ed esclamò: «Ah, boh! Chiedi a Perro.»
Alzai gli occhi al cielo, esasperato.
E chiediamo a Perro.
Mi avvicinai al bar e gli mollai una pacca sulla spalla, salutando
anche Fabiano, Martino e Danilo, che, stranamente, erano presenti ad una delle
nostre serate.
«Non è che hai visto il mio cellulare, Perro?»
domandai, senza troppi preamboli.
«Nada. Hai chiesto a Samu?»
Annuii, sull’orlo della disperazione.
L’unica mia speranza rimaneva Francesco. Ma avrei preferito
perdere il telefono, piuttosto che doverlo affrontare. Ormai era chiaro che
fosse stato lui a rispondere.
Eravamo seduti sul palco, poi io ero andato in bagno e… no, aspetta, com’era andata?
Ordinai un altro gin: ne avevo bisogno.
«Vado a chiederglielo, allora. Ci vediamo, eh» conclusi,
andandomene di tutta fretta.
No, pensandoci, forse era meglio che Francesco avesse
scoperto tutto: perdere l’IPhone 6 appena comprato
era un suicidio. No, no, impossibile.
Ce l’aveva lui, di sicuro.
Lo raggiunsi mentre parlava con la sua nuova ragazza. La coppia
più stucchevole del secolo.
«Scusate» mi intromisi, senza mettermi problemi.
«Sì, Carlo?»
Mia mi lanciò un’occhiataccia e scosse il capo. Che voleva
quella da me?
«Cerco il mio telefono, mi chiedevo se ce l’avessi tu, Fra’»
spiegai.
«Sì, ce l’ho io» disse e si alzò.
«Che fai? Me lo dai?»
«No.»
«Come?»
«Prima spiegami chi è questo Jules e cosa sta succedendo con
l’ex di Samuele.»
Ecco, lo sapevo: il momento era arrivato.
***
Nell’antibagno, semplicemente, aspettavo.
Prima o poi sarebbe dovuto arrivare, no?
Dovevo solo stare attenta a chi entrava, per evitare che
Carlo mi trovasse ancora lì.
Fortunatamente, il bagno di quel locale era provvisto di un
antibagno unico, sul quale si affacciavano sia i bagni delle donne che quelli
degli uomini.
Mi stavo stancando di assistere a quelle scene: ragazze e
ragazzi, indifferentemente, finivano là dentro per due, principali motivi:
vomitare e accoppiarsi.
Speravo davvero che Samuele sentisse il bisogno di andarci.
Come diamine poteva resistere tanto?
Io avevo fatto pipì già due volte.
Maledizione!
Ero in ansia.
Ora che Carlo non mi avrebbe più aiutato, non volevo
comunque gettare la spugna con lui: doveva essere nuovamente mio, ad ogni
costo.
Mi sentivo un po’ stupida per aver creduto a quel tipo:
certo, a letto mi faceva impazzire, ma dubitavo sempre più che mi avrebbe dato
una mano con Samuele.
Avevo quasi perso le speranze, quando la porta si aprì per l’ennesima
volta e io rimasi immobile, nel mio angolino, ad osservare chi stava entrando. Per
fortuna, la lampadina era spenta e nessuno mi avrebbe scorto, se non avesse
fatto troppa attenzione.
Samuele entrò in bagno fischiettando.
Un brivido mi percorse la schiena: adoravo sentire quel
suono, mi ricordava i momenti più rilassanti della nostra storia.
Non appena si richiuse la porta alle spalle, sgusciai dal
mio nascondiglio e, cogliendolo di sorpresa, lo spinsi dentro un bagno a caso.
«Ma che…»
«Shh» sussurrai al suo orecchio.
«Sono io, piccoletto.»
Chiusi a chiave e mi appoggiai con la schiena contro la
superficie plastica.
Samuele, intanto, si era voltato verso di me e aveva
indietreggiato, per quanto lo spazio ridotto glielo permettesse.
«Julieta?» farfugliò.
«Sorpresa» esclamai, sorridendogli.
«Cosa vuoi ancora? Per favore, esci.»
«Ti vergogni di me? Se hai bisogno di…be’, sì, insomma, hai capito! Fai pure, io non mi
scandalizzo.»
«No… esci, lasciami stare.»
«Prima mi ascolterai, allora.»
Lui sgranò gli occhi, in modo che sembrassero ancora più
grandi del solito. Un’espressione che mi fece quasi perdere il controllo:
adorabile.
«Io ti voglio ancora, piccoletto. Non ti ho tradito, io…»
«Basta» mormorò.
E io mi zittii.
Bene, parlare non sarebbe servito a niente, quindi dovevo
agire secondo un piano B.
Mi avvicinai lentamente a lui, coprendo la breve distanza
che ci separava.
La sua schiena aderì alla parete e io lo strinsi a me,
strofinando il mio bacino contro il suo.
Quanto mi era mandato quell’odore, quel calore…
amavo Samuele, lo amavo da impazzire.
Doveva tornare con me, a qualunque costo.
«Ti amo così tanto… torna con me, Samu, ti prego!» lo implorai, carezzando il lobo del suo
orecchio destro con le mie labbra.
Io ero già pronta.
Avrei voluto che mi possedesse lì, in quello squallido
bagno. L’importante era stare con lui, sentirlo ancora e ancora e ancora.
Capitolo 23 *** Rivelazioni, confidenze e bugie ***
Rivelazioni, confidenze e bugie
Rimasi a fissare Carlo con aria interrogativa, fingendo di
non sapere cosa stesse succedendo. Non volevo affatto intromettermi in quella
storia, anche se Samuele era uno degli amici più cari che avevo; ormai,
nell’ultimo periodo, lo consideravo parte integrante della mia vita.
Così, decisi che dovevo lasciare Francesco e Carlo a parlare
da soli e che sarei andata a cercare Samuele. Ancora non riuscivo a credere a
quanto avesse combinato: il fatto che io fossi sua amica, non implicava che mi
mettesse in imbarazzo in quel modo.
«Cerco Samu, a dopo» dissi e mi
allontanai, avvicinandomi al bancone, dove Fabiano e i suoi amici bevevano e
ridevano. Stefano era tornato quasi subito in consolle e Samuele…
dove si era cacciato?
«Hai visto che bella dichiarazione ti ha fatto, eh? Altro
che quell’ebete del tuo ragazzo!» gridò Fabiano, saltando giù dallo sgabello.
«Cognata, ti presento i miei amici: Danilo e Martino» aggiunse, indicando prima
l’uno poi l’altro ragazzo.
«Sì, certo, infatti voglio uccidere Samu
proprio per questo. Non era il caso! Comunque, piacere, Mia» dissi, tendendo la
mano verso Martino.
Lui – un ragazzo alto e robusto, dai capelli corti e il
vestiario hip hop – si alzò, sovrastandomi con la sua
altezza, e mi afferrò la mano con forza, poi esclamò: «Holà,
chica! Como estas? Todobien? Que
linda!».
E, guardandomi negli occhi, si portò la mia mano alle
labbra, neanche fossimo nell’Ottocento!
Alzai gli occhi al cielo e scossi il capo, scoppiando a
ridere.
Francesco mi aveva accennato al fatto che Martino fosse uno
scemo, ma non avrei mai pensato che lo fosse così tanto!
«Eh smettila di fare il teatrale, Marx!
Piacere, bella, io sono Danilo, ma chiamami Dennis, mi chiamano tutti così» lo
interruppe l’amico, stringendomi la mano. Danilo era un po’ più basso di
Martino e portava un cappellino hip hop, pantaloni
così larghi che sembrava camminasse con delle buste attorno alle gambe e una
maglietta enorme.
Che gente!
Erano simpatici, però. Ciò che mi aveva detto Francesco era
vero: i suoi amici erano un po’ pazzi, ma comunque delle bravissime persone,
dei fratelli.
«Lascialo dire, Mia! Quel soprannome se l’è dato da solo»
commentò Fabiano, sghignazzando.
«Che cattivo!» ribatté Martino, fingendo un’aria indignata.
«Bueno, io vado al bagno, a dopo!» concluse lo
spilungone, allontanandosi.
Sì, ma… Samuele?!
«Dicevo… dov’è Samu?»
«Non lo so, bella, sarà andato anche lui in bagno. Non
pensarci. Possiamo offrirti qualcosa?» mi chiese Danilo.
Mi guardai attorno: cosa c’era di male?
Francesco parlava animatamente con Carlo, ma sembrava stesse
andando tutto bene. così, mi sedetti su uno sgabello e aspettai.
***
«No, Julieta, basta!» gridai, con
la voce talmente ferma che stentai a riconoscermi in lei.
Potevo davvero averlo detto? Io, Samuele, quel Samuele?
Quello buono e caro, un po’ ingenuo?
«Come? Come puoi respingermi ancora? Samuele, io ti amo!
Piccoletto mio, non puoi…»
Proprio in quel momento, udii una voce nell’antibagno e
sgranai gli occhi.
«Yoquieroestarcontigo, vivircontigo, bailarcontigo, tener contigo, una noche loca, aybesar tu boca…Yoquieroestarcontigo, vivircontigo, bailarcontigo, tener contigo una nocheloca… Con tremenda loca…Ooh, ooh, ooh,
ooh…»
No, non poteva essere…
«MARTINO?!» strillai, aprendo la porta e mollando Julieta lì dov’era e urtandola mentre mi catapultavo fuori.
«Piccoletto!»
E infatti…
Martino era immobile nell’antibagno e mi fissava stralunato,
continuando a canticchiare il coretto di Enrique Iglesias.
E chi altro poteva essere, se non lui, fissato con la
Spagna, lo spagnolo e tutto ciò che riguardava quella terra e quella lingua “caliente”.
Ma Enrique Iglesias NO!
Julieta uscì dal bagno e provò ad
abbracciarmi da dietro, ma la scansai e le rivolsi un’occhiata eloquente.
«Smettila» mormorai.
Lei abbassò lo sguardo sui suoi abiti succinti, sulle sue
gambe nude e sulle sue scarpe con il tacco che – ci avrei scommesso – le erano
scomodissime, come se si vergognasse di se stessa.
«Samu? E…
TU?» sbottò il mio amico, rendendosi improvvisamente conto della mia ex.
«Julieta se ne stava giusto
andando» commentai, incrociando le braccia sul petto, a disagio.
Dove avevo trovato tutta quella fermezza e tenacia? Cosa mi
era successo? Possibile che Julieta mi fosse talmente
indifferente?
Evidentemente sì, visto come la stavo trattando.
«Ma…» balbettò lei, forse convinta
che io avrei ceduto al suo fascino, ancora una volta. Fascino che, al momento,
sentivo lontano anni luce, se associato a lei. Per me era quasi inesistente.
Anzi, senza quasi.
«Sì, senti, sciacquetta, gira a largo, chiaro? Lascia
Samuele in pace, ficcatelo bene in testa. Su, smamma» la liquidò Martino,
scrollando le spalle, poi aggiunse: «Chico, ti cerca
la donna di Franz».
Perché Martino aveva un modo così cretino di parlare?
«Vado» dissi.
«Sì, vai vai, che a questa
truffatrice penso io» concluse lui, buttandomi fuori dal bagno.
E pensare che non ero riuscito neanche a urinare per colpa
di Julieta.
Ma perché non la smetteva di tormentarmi? Non ero il trofeo
di nessuno, io.
E, mentre correvo da Mia, un pensiero bizzarro mi si
affacciò alla mente: dov’era Jessica?
***
«E quindi… capisci, Fra’, le cose
stanno così…Julieta voleva
aiuto con Samuele e mi ha ricattato. Prima mi ha sedotto e poi…»
Ero nella merda.
Conoscevo alla perfezione Francesco.
E lui conosceva perfettamente me.
Perciò, sapevo che lui sapeva che stavo mentendo.
Avrei voluto bere un altro Gin, se non altro per avere la
forza di ragionare meglio.
«Sì, certo» cedette lui, spostandosi i dread
dal viso. «Come no.»
Ecco, come non detto: non ero riuscito ad ingannarlo.
E, se non gli avessi detto subito la verità, lui non mi
avrebbe reso l’I-Phone. Porco cazzo.
«Eheheheheh» me ne uscii,
portandomi una mano dietro la testa. Stile anime giapponese, appunto. Gin, dove
sei?
E se il telefono non lo aveva lui? Mi stava prendendo per il
culo, voleva farmi confessare! Bastardo di un Francesco!
«Ho tutto il tempo che vuoi, amico» mi disse lui, senza
mostrare alcuna impazienza.
Così, mi arresi. Mi sedetti sullo sgabello dov’era stata Mia
fino a poco prima e gli raccontai tutto. Per filo e per segno. In alcol veritas. Gin, cazzo, mi hai tradito.
«Bene. cioè, non bene… per modo di
dire. Adesso vai e dici tutto a Samuele.»
«Cosa? No! Ti prego, non farmi questo! Ah, ma insomma, non
puoi obbligarmi.»
«Se vuoi riavere quello splendido I-Phone…»
«Sei un fottuto bastardo!» lo accusai, frustrato. «Non
costringermi a metterti le mani addosso, Francesco…»
Lui scoppiò a ridere di gusto, scuotendo il capo. I suoi dread ondeggiarono, sinuosi. Bellissimi. Molto più dei
miei. Dei pochi che restavano. Lo odiai a morte anche per questo, maledetto
figlio di…
«Nelle condizioni in cui sei, non riusciresti neanche a
reggerti in piedi. Bevi sempre troppo, Carlo.»
Per la seconda volta, mi arresi.
Ma Francesco me l’avrebbe pagata, quello era poco ma sicuro.
Non era una minaccia, ma una promessa.
***
«E quindi?» esordì Samuele, piazzandosi di fronte a Mia.
Li osservai, ridendo.
Sì, Mia stava bene con mio fratello, ma forse avrei
preferito vederla con Samuele. Sembrare romantico non è mai stato il mio forte,
ma in quel momento ebbi davvero quel pensiero.
«Tu sei matto, pazzo furioso! Ma come ti è saltato in mente?
Esaurito! Mi hai messo in imbarazzo, cretino!» esclamò lei, ridendo e
abbracciandolo.
Sperai che Francesco non li vedesse, era da sempre stato
geloso delle ragazze con cui stava, anche se non lo dava a vedere molto
chiaramente.
«Aiuto, mi travolgi!» esclamò Samuele. Poi tornò
improvvisamente serio e disse: «È successa una cosa».
Mi feci serio anch’io e lanciai un’occhiata a Danilo.
Martino, intanto, si era perso in bagno. Se n’era andato poco prima,
trotterellando come un ballerino spagnolo di quart’ordine e avrei scommesso le
palle sul fatto che, di lì a poco, si fosse messo a cantare l’ultima grande hit
di Enrique Iglesias. Che schifo.
«Cosa?» chiedemmo tutti in coro.
«Si tratta di Julieta.»
Fummo interrotti dall’arrivo di Carlo e Francesco. Mio
fratello aveva un’aria soddisfatta e si sistemò accanto a Mia, con le braccia
incrociate e un’espressione un po’ triste; Carlo, invece, sembrava un cane
bastonato.
Io, dal canto mio, non ci capivo niente.
Prima che qualcuno potesse parlare, Martino tornò da noi,
trascinandosi appresso quella sgualdrina di Julieta.
«Dillo, adesso, cos’hai fatto! Dillo a Samuele e a tutti
loro!» gridò lui, strattonandola per il polso.
Io, Mia, Francesco e Danilo sgranammo gli occhi, non sapendo
cosa ci facesse lì quella tipa. Samuele, seccato, sbuffò, mentre Carlo
trasaliva, in preda al panico.
«Ah, bene! il quadretto è completo adesso» commentò
Francesco, cingendo la vita di Mia con un braccio. «Siamo tutti curiosi di
sapere cosa hanno Carlo e Julieta da raccontarci.»
Samuele indietreggiò di un passo e Mia gli strinse la mano,
cercando di confortarlo.
Che casino stava per scoppiare?
E perché io non ne sapevo niente?
***
Ecco, eravamo giunti al dunque.
Non so perché, non so per come, ma mi ero sfogata con Martino.
Io non ero fatta per tramare alle spalle della gente, era stato Carlo a
coinvolgermi, promettendomi mari e monti, assicurandomi che avrei riavuto
Samuele tutto per me!
E invece? Invece stavo per perdere tutto.
Rimasi muta a fissare quello stronzo di Francesco, mentre la
stretta di Martino era forte e salda sul mio polso. Mi faceva male, ma non
riuscivo a reagire.
«Il fatto è che…» cominciò Carlo,
confuso.
Come al solito, doveva aver bevuto e fumato troppo. Razza
d’idiota!
No, non potevo permettergli di combinare quel casino, no,
no, no!
Dovevo trovare una soluzione, subito!
Avevo avuto una pessima idea quando mi ero confidata con
Martino, poco prima. Non che lui mi avesse chiesto qualcosa, ma io avevo ceduto
all’isteria e mi ero sfogata, raccontandogli tutto in un monologo confuso.
Eppure, lui aveva capito e ora voleva costringermi a ripetere tutto di fronte a
Samuele.
E, dopo che il mio piccoletto mi aveva rifiutato, dopo tutte
le umiliazioni subite, non potevo permettere che succedesse ancora. Non volevo
arrendermi all’idea che Samuele non sarebbe più stato mio.
Merda!
«Vedi, Samu, il fatto è che…» riprovò Carlo, bloccandosi nuovamente.
Così, di slancio, dissi la prima cosa che mi venne in mente.
Capitolo 24 *** L'Apocalisse è vicina... e la verità viene a galla! ***
L'Apocalisse
è vicina... e la verità viene a galla!
Rimasi
per un millesimo di secondo a fissare Julieta, domandandomi se ciò
che stavo sentendo fosse vero. La cosa mi parve perfino stupida, così
come trovavo idiota la mia ingenuità. Certo che stava
mentendo! Lei e Samuele si erano lasciati da tempo e dubitavo
fortemente che il mio amico si fosse lasciato fregare da quella
puttanella senza un briciolo di classe.
Così,
balzai giù dallo sgabello e ruppi lo strano silenzio che si
era creato nel gruppo dei miei amici.
«Cosa
stai blaterando? Tu e lui non andate a letto da un pezzo!»
sbottai, beccandomi occhiatacce da tutti.
«Fabiano,
sta' zitto» ringhiò Julieta, indirizzandomi uno sguardo
colmo d'odio.
«Certo,
con Samu no, ma con qualcun altro se l'è spassata, la nostra
dolce mammina» intervenne Martino, guardandomi negli occhi.
Poi, impercettibilmente, inclino il capo in direzione di Carlo.
Allora
capii.
«Sentite,
io tolgo le tende. E Samu viene con me» affermai, avvicinandomi
al mio amico.
«No!»
strillò Julieta, allungando una mano verso di noi.
Martino
le afferrò con gentilezza il polso e scosse il capo. Quel
ragazzo, un giorno, mi avrebbe spiegato come riusciva a stare sempre
calmo e tranquillo, qualunque cosa accadesse.
Afferrai
il braccio di Samuele e mi avviai a passo deciso verso il retro del
locale. Passando, intercettai lo sguardo interrogativo di Stefano,
che intanto continuava a far ballare i presenti. Dopo avergli fatto
un cenno, uscii nella notte frizzante, con il mio amico che mi
seguiva senza però reagire o aprir bocca.
Si
prese le testa tra le mani, come se gli stesse esplodendo per le
troppe informazioni ricevute.
«Macchè,
non è vero! L'ha detto per attirare l'attenzione!»
minimizzai, posandogli una mano sulla spalla.
«Oddio...
no, io, padre... io...»
«Samuele,
smettila, cazzo! Ti dai una calmata? Seppure Julieta fosse incinta,
il padre non sei tu!»
«Non
lo puoi sapere... io e lei... noi...»
«Voi
cosa? Senti... vieni, siediti, ascoltami» dissi, con il tono
più calmo che riuscii a produrre.
Samuele,
anziché seguirmi verso una panchina diroccata, si lasciò
scivolare a terra, con la schiena contro il muro; così, mi
accovacciai accanto a lui, sospirando.
«Mi
dispiace davvero dirtelo, ma credo che Martino abbia scoperto
qualcosa di losco» proseguii, non sapendo bene come esprimermi.
Non
ero la persona più adatta ad usare il tatto e a rimanere
calmo, Samuele era così sensibile... forse avrei dovuto
mandarlo fuori in compagnia di mio fratello, ma ormai era troppo
tardi.
Il
mio amico continuava a tacere, con entrambe le mani premute sul viso
pallido.
«Crediamo...
ehm, abbiamo ragione di supporre... ecco, forse... Julieta e
Carlo...»
Lui
sembrò risvegliarsi da una profonda fase di trance e sollevò
di scatto il capo, fissandomi con espressione indecifrabile.
«Che
cazzate sono queste?» mormorò.
«Temo
che non siano cazzate, amico. Quei due se la sono spassata, se
capisci cosa int...»
Senza
lasciarmi finire, scattò in piedi e si precipitò verso
la porta. Non riuscii a fermarlo, ma proprio in quel momento
Francesco apparve sulla soglia e gli sbarrò la strada.
«Fammi
entrare! Io quello lo ammazzo!»
«Non
direi, caro. Fermo dove sei» ribatté mio fratello,
scuotendo il capo e gli infiniti dread che lo incorniciavano.
«No,
no, no! Come ha potuto, come ha potuto... come hanno...»
E
lì, sotto i miei occhi, mentre mi rimettevo in piedi, Samuele
crollò, si gettò su Francesco e scoppiò a
piangere, come non l'avevo mai visto fare. Mio fratello, per niente
in imbarazzo, lo abbracciò affettuosamente, senza smettere per
un attimo di confortarlo. Francesco sapeva sempre cosa fare, come
agire, a differenza mia. Io, probabilmente, mi sarei irrigidito e me
ne sarei uscito con qualche cazzata delle mie. Eppure, volevo bene a
Samuele, gliene volevo davvero e mi sentivo uno schifo, mentre lo
osservavo piangere in preda alla disperazione.
Così,
decisi che dovevo fare qualcosa, non potevo stare a guardare.
Scambiai
una rapida occhiata con Francesco e sgattaiolai di nuovo dentro il
locale.
Perché
nessuno sembrava disposto a dirmi cosa diamine stava succedendo?
Impotente,
ero rimasto per tutto il tempo alla consolle, svolgendo il mio
lavoro. Intanto, tra i miei amici stava accadendo qualcosa di strano
e inspiegabile e io mi sentivo tagliato fuori.
Notai
che Fabiano era appena rientrato dal retro. Avevo appena mandato in
play un brano di Shaggy, così abbandonai per un attimo la mia
postazione e gli corsi incontro. Quando l'ebbi raggiunto, me lo
trascinai dietro senza dargli il tempo di protestare. La
determinazione dell'ignorante, spesso, fa agire senza pensarci due
volte.
«Oh,
ma che cazzo fai, Perro? Sei rincoglionito?»
«No,
voglio solo capirci qualcosa!» ammisi, tornando velocemente a
controllare che tutto fosse a posto.
«Pompa
un po' di bassi, se devi mettere Major Lazer» mi suggerì
Fabiano, osservandomi con attenzione.
Ah,
certo: non potevo dimenticarmi che lui era l'ingegnere del suono!
«Uomo
sfiduciato. Comunque, mi spieghi che state combinando?»
«Casini,
solo casini. In pratica Marx ha scoperto che l'ex di Samu se la fa
con Carlo, che ne so... robe sentimentali.»
«No...
aspetta... cosa?» sbottai, voltandomi di scatto con una mano
sospesa sulla tastiera del pc.
«Sì,
più o meno è andata così... Samu è
distrutto, Franci è con lui, io non so cosa fare... so solo
che quella troia non la passerà liscia. E quel coglione di
Carlo, ma che ha in testa?» blaterò.
«Niente»,
risi, alzando gli occhi al cielo. «Mi sostituisci?»
«Non
ora.»
Si
voltò, pronto ad andarsene.
«Che
vuoi fare?» gridai.
«Ancora
non lo so.»
E
se ne andò, mentre io rimanevo a fissarlo, contrariato. Anche
a me sarebbe piaciuto andare a vedere come stava Samuele, ma non
potevo. Sconsolato, pompai un po' di bassi e sparai Major Lazer a
tutto volume, mentre osservavo il pubblico andare in delirio.
In
quel momento, odiai il mio lavoro più di qualunque altra cosa.
Fabiano
giunse nuovamente da noi come una furia. Intanto, Martino e Danilo
stavano discutendo animatamente con Julieta e Carlo rimaneva immobile
come un sasso, fissandomi terrorizzato. Aveva cercato di svignarsela,
ma era bastato un mio sguardo e una minaccia da parte di Danilo per
rimanere fermo dov'era.
Osservai
Fabiano che si faceva largo tra i suoi amici, puntando dritto contro
Carlo.
Nonostante
la sua rabbia non fosse indirizzata a me, fremetti per un istante,
sullo sgabello.
«Bene,
bene...» esordì, afferrando Julieta per un polso e
piazzandola proprio di fronte a Carlo. «Qualcuno di voi due mi
spieghi cos'è successo. Adesso.»
«Io
sono incinta, perché nessuno mi crede?»
Mi
venne voglia di vomitare e distolsi lo sguardo da quella patetica
ragazza, per poi posarlo su Martino. Lui si avvicinò a me e mi
sorrise, con fare rassicurante.
Senza
Francesco mi sentivo un po' persa, ma sapevo che stava aiutando
Samuele e non volevo intromettermi. Del resto, io ero un'estranea per
tutti loro. Quella consapevolezza mi fece sentire tremendamente fuori
luogo, ma rimasi dov'ero, cercando di non pensare alle mie stupide
paranoie.
«Tuo
fratello ha il mio I-Phone» fu tutto quello che riuscì a
gridare Carlo, stringendo i pugni. «Costa più di tutta
la vostra squallida attrezzatura in studio.»
Fabiano,
infuriato, gli sferrò un pugno in pieno viso, facendolo
barcollare.
«Se
non ne vuoi un altro, ti conviene parlare, amico» commentò
Danilo, ridacchiando e mollando una pacca sulla spalla di Fabiano.
Lui, però, stava tremando per la rabbia e notai che Julieta
faceva un passo indietro, inorridita.
«Ragazzi...»
provai a dire, ma Martino mi intimò il silenzio sollevando
l'indice.
«Lasciali
fare. Fabiano ha ragione.»
«Non
devo spiegarvi niente!» abbaiò Carlo, premendosi una
mano sul naso.
«Davvero?»
ruggì Fabiano, preparandosi a sferrargli un altro pugno.
«No,
no, smettila, fermo!»
Era
stata Julieta a parlare. Detto questo, si frappose tra i due, come
per fare da scudo a Carlo con il suo esile corpo. Notai ancora una
volta il suo succinto e squallido abbigliamento e avvertii
chiaramente una sensazione di ribrezzo nei suoi confronti.
«Basta,
Carlo, diciamo la verità. Io non ce la faccio più!»
strillò, mentre patetiche lacrime intrise di mascara le
colavano lungo le guance.
«Ma
sei stupida? Maledizione!»
Lei
si voltò e gli rivolse un'occhiata talmente dolce che quasi mi
sentii in imbarazzo nell'osservarli. Non avrei mai creduto di poter
leggere quell'espressione sul viso di Julieta. Gli carezzò
piano la guancia e sorrise, scuotendo il capo.
«Fidati
di me» mormorò.
Fabiano,
intanto, venne trattenuto da Martino, prima che potesse scagliarsi
contro i due e rovinare così la scenetta felice.
«Io
e Carlo ci siamo innamorati. Ecco tutto» ammise Julieta,
guardandoci negli occhi ad uno ad uno. Quando incrociò i miei,
mi parve quasi di poterla capire. In quel momento, compresi che le
sue parole erano vere: si era innamorata di Carlo, ma i suoi
sentimenti erano colmi di sofferenza e non assomigliavano affatto a
quelli limpidi e dolci che l'avevano legata a Samuele fino a qualche
tempo prima. La sua anima pareva tormentata e torbida come acque
fangose, e non era in grado di celare quello stato d'animo. Distolsi
velocemente lo sguardo e mi fissai le mani, incapace di fare
altrimenti.
«Voglio
bene a Samuele. Non avrei mai voluto ferirlo. Infine... sono incinta,
ma non è lui il padre» aggiunse Julieta, per poi
rivolgere uno sguardo triste a Carlo.
Lui
sgranò gli occhi e, senza dire una parola, se andò di
corsa verso l'uscita principale.
«Scusate»
disse la ragazza, per poi seguirlo.
Appoggiato
alla ringhiera, fuori dal locale, cercavo invano di metabolizzare la
notizia.
La
situazione mi era decisamente sfuggita di mano e quel dolore
lancinante al naso non mi aiutava affatto a ragionare. Se non altro,
il pugno di Fabiano mi aveva aiutato a tornare completamente lucido e
quasi non ricordavo di aver bevuto e fumato tanto, prima di quel
momento.
Io,
padre? Cosa diamine significava? Troppo impegnativo da elaborare.
Qualcuno
mi raggiunse alle spalle e mi abbracciò, facendomi sussultare.
Riconobbi l'inconfondibile e ormai familiare profumo di Julieta e
rimasi immobile tra le sue braccia.
«Mi
dispiace» mormorò lei, tirando su col naso. «So
che non vuoi un figlio da me.»
«Come
potrei volerlo?» biascicai.
«Andrò
ad abortire» disse, piatta.
Quella
parola fece scattare qualcosa in me, riportandomi bruscamente alla
realtà. Abortire? Cosa? Perché?
Mi
voltai di scatto verso Julieta e la afferrai per le spalle,
fissandola dritto negli occhi.
«Cos'hai
detto?»
«Mi
rendo conto che non possiamo tenerlo, tu...» Scosse il capo e
cercò di divincolarsi dalla mia presa, ma io la trattenni.
«Quello che ho detto prima è vero, almeno per me,
Carlo.»
«Di
cosa stai parlando?» domandai, osservando quel viso stravolto
dal pianto e da una strana angoscia che non conoscevo.
«Io
mi sono... innamorata di te.»
La
lasciai andare, incredulo, sbarrando gli occhi. Tutto quello che
stava accadendo non era reale, non poteva esserlo. Dannazione.
«Stai
scherzando.»
«No»
mormorò, posandosi una mano sul cuore e coprendo per un attimo
la vertiginosa scollatura. «Ti amo.»
«Voglio
parlare con Ste» sussurrò Samuele, fissando il cielo
notturno di fronte a sé, mentre fumava una canna.
Gliel'avevo
preparata con cura, perché sapevo che ne aveva bisogno. Man
mano che aspirava il fumo, l'aria circostante si impregnava del
familiare aroma dolciastro, che mi fece istintivamente sorridere. Io
non avevo voglia di fargli compagnia, ma stare lì a parlare
con lui aveva fatto rilassare anche me.
«Non
so se potrà, sta lavorando. Se non ci fosse lui...»
sospirai.
«Qualcuno
può sostituirlo. Ho bisogno di lui.» Si voltò a
guardarmi. «Senza offesa.»
«Figurati.
Ma...»
«Sia
tu che Fabiano siete capaci di farlo.»
Annuii.
In
quel momento, Mia comparve sulla soglia, con un sorriso appena
accennato.
«Ehi,
Mia. Come stai? È successo qualcosa?» chiesi un po'
allarmato, mentre mi avvicinavo a lei.
«Se
ne sono andati. Carlo e Julieta. Se Samu vuole rientrare...»
«Voglio
stare qui. E parlare con Stefano» interloquì lui, come
se non l'avesse neanche udita.
Io
e lei ci scambiammo un'occhiata e notai che stava facendo di tutto
per nascondere la delusione.
«Vado
a chiamarlo. Mia, rimani qui» dissi e poi mi allontanai in
fretta, raggiungendo Stefano che sbuffava dietro al computer, mentre
una canzone di Sean Paul rimbombava nel locale.
«Perro,
vai da Samu. Qui ci penso io.»
Lui
mi fissò con un misto di sorpresa e gratitudine, poi schizzò
via, prima che potessi aggiungere altro.
Non
avevo pensato che Stefano era l'indiscusso migliore amico di Samuele,
avrei dovuto chiamarlo prima e dargli la possibilità di
stargli accanto, adesso che ne aveva più bisogno.
Una
volta rimasto solo, mi misi all'opera e mi appropriai di un
microfono, deciso ad animare la serata, sfogandomi e distraendomi da
tutto il casino che era successo quella sera.
Mi
era venuto quasi da vomitare quando, uscendo dal locale, avevo
sorpreso Julieta e Carlo abbracciati.
Mi
ero fatta avanti e li avevo fissati con disprezzo, attirando la loro
attenzione.
«Francesco
ha detto di darti questo» dissi, sventolando con poca
delicatezza l'I-Phone di Carlo di fronte alla sua faccia sorpresa e
stralunata.
«Eh?
Ah... il mio I-Phone!»
Mi
strappò il cellulare dalle mani e si fiondò
immediatamente a controllare i vari social network in cui aveva
dovuto rinunciare per chissà quanto tempo.
Mi
venne quasi da ridere, ma decisi di andarmene senza dire niente.
Tutto il casino che quei due avevano combinato ai danni di Samuele
era ancora incredibile, nonostante non fosse altro che la triste
verità.
Francesco
aveva deciso che lo avrebbe accompagnato lui a casa, non voleva
lasciarlo solo e sapeva che Stefano aveva da fare e non poteva
occuparsi di lui, anche se la cosa gli dispiaceva e non poco. Quei
due erano come fratelli, il loro rapporto era molto stretto ed intimo
e, durante quelle ore, Stefano era dovuto stare in consolle e aveva
trascorso con Samuele soltanto poco tempo.
«Sei
sicuro che non devi accompagnare Mia?» stava chiedendo Fabiano
a Francesco, quando rientrai nel locale, il quale ormai era quasi
deserto. Dovevano essere circa le tre e mezza del mattino e io
cominciavo ad essere distrutta.
«No,
Mia è venuta con la sua macchina...»
«Non
è stanca per rientrare da sola, a quest'ora?» intervenne
Martino, per poi sbadigliare.
«Vi
informo che sono qui e non c'è bisogno di preoccuparsi tanto
per me, me la caverò» mi intromisi.
«Hai
un fidanzato che non si preoccupa per te!» sbraitò
Fabiano.
«Taci,
cognato. Me ne vado, ragazzi. Saluto Samu e scappo, muoio di sonno»
conclusi, raggiungendo il mio amico che stava seduto su un o sgabello
con le mani in grembo e lo sguardo perso nel vuoto.
Non
appena mi vide, sul suo viso apparve un lieve sorriso.
«Mia...
scappando?»
«Sì,
sono davvero stanca. Ha detto Franci che tra poco ti accompagna a
casa, stai tranquillo.»
Samuele
scese lentamente dallo sgabello, poi si gettò tra le mie
braccia. Non era tanto alto, così ebbi come l'impressione di
stringere a me un bambino, fragile e indifeso. Eppure, lui non era
affatto debole, bensì sensibile e dolce. Con tutto ciò
che gli era successo ultimamente, era ancora lì che cercava di
sorridermi e sapevo che avrebbe reagito anche a questo.
«Domani
chiamami, okay?» sussurrai.
«Sì»
rispose.
Poi
ci sciogliemmo dall'abbraccio, gli accarezzai delicatamente i dread e
mi avvicinai nuovamente a Francesco.
Dopo
averlo salutato velocemente, mi misi in marcia verso casa. Il viaggio
non fu lungo e le strade erano pressoché deserte, così
in poco tempo fui giunta a destinazione.
Ma
quando aprii il portone, mi aspettava una sorpresa poco piacevole.
L'avevo
attesa per un sacco ti tempo.
Avevo
fatto di tutto per tenermi sveglia: mi ero lavata quaranta volte la
faccia, avevo ascoltato musica finché il lettore mp3 non si
era scaricato del tutto, evitando accuratamente le canzoni di Samuel
e Francisco.
Mia
sorella mi aveva lasciato a casa, io avevo creduto di impedirglielo
spifferando i suoi segreti a nostro padre, ma alla fine ci avevo
rimesso io e non mi sentivo affatto fiera del mio comportamento.
In
più, pensavo a Perro. Io e lui avevamo parlato per un po',
fuori dallo studio di Francesco. Mi stava simpatico, anche se mi
sembrava un ragazzo molto timido e riservato. Ma a cosa pensavo? Lui
era grande, io una ragazzina e basta.
Quando
udii le chiavi girare nella serratura del portoncino, mi venne in
mente che presto avrei potuto finalmente andarmene a letto.
Ma
non prima di aver chiarito con Mia.
Mi
alzai dal letto in tutta fretta e, non appena lei comparve sulla
soglia, la afferrai per un braccio e la trascinai in camera mia,
chiudendomi la porta alle spalle.
Lei
soffocò un gridolino e cominciò ad imprecare tra i
denti, divincolandosi dalla mia presa.
«Secondo
me, tu non stai bene!» sibilò.
«Smettila
e non rompere. Perché mi hai lasciato a casa?» abbaiai.
«Non
gridare! Ti rendi conto che sono le quattro passate?»
«Non
mi interessa niente! Non mi hai portato al concerto, volevo vedere
Samuel e...»
«Da
quando sono obbligata a trascinarti ovunque? Spostati dalla porta e
fammi andare a letto, che sono stanca!»
Senza
muovermi di un millimetro, continuai a bloccarle la strada. Non avevo
nessuna intenzione di lasciarla scappare senza avere delle
spiegazioni.
«Che
palle! Non ti ho portato perché non ti ho portato, contenta?
Quando avrò voglia, ti inviterò. Non mi piace quando
devo sentirmi obbligata a fare le cose, chiaro?»
«Ma
io...»
«Tu
niente!» concluse, poi mi spinse di lato e uscì dalla
stanza di tutta fretta.
Sospirai.
Forse avrei dovuto rivolgermi a lei in un altro modo a lei, così
facendo non avevo ottenuto un bel niente.
Mi
lasciai cadere sul letto e mi gettai addosso le coperte.
Ero
rimasta sveglia per niente, quella giornata era stata terribile e io
non ne potevo più.
Prima
di addormentarmi, scoppiai a piangere.
Sole,
vento e un cielo limpido e terso che era una meraviglia.
Ma
io, nel cuore, mi sentivo come se mi avessero infilato un ghiacciolo
all'amarena con tanto di congelatore portatile.
Ancora
mi veniva difficile riflettere sugli avvenimenti della sera
precedente. Julieta e Carlo, la gravidanza di lei, la loro relazione
clandestina, la scoperta da parte di Francesco, le confidenze della
mia ex nei confronti di Martino, la rivelazione sull'identità
del padre del bambino...
Potevo
davvero crederci?
Mentre
facevo una doccia, avevo i pensieri confusi e la mente offuscata da
troppe domande. Perché? Come? Cosa?
Udii
il cellulare squillare ma non potei rispondere.
Una
volta uscito, lo afferrai ed esaminai con curiosità lo
schermo.
Mia
mi aveva appena inviato un messaggio, chiedendomi come stavo.
Cos'avrei
potuto risponderle? Non lo sapevo neanche io, così digitai
semplicemente tre lettere, “boh” ed inviai, mettendomi
all'opera per asciugarmi e vestirmi. Avevo un appuntamento per
parlare di una possibile data futura e dovevo darmi una mossa.
Ovviamente,
la mia amica non si accontentò della mia risposta e mi
telefonò subito.
«Samu,
ma che risposta è?» esordì, non appena ebbi
risposto.
«Eh...
scusa, sono di fretta, tra poco passa Ste e andiamo in un posto,
boh... per vedere un locale...» farfugliai.
«Sì,
ho capito, ma io voglio sapere come stai!»
«Confuso»
ammisi, finendo di allacciarmi i pantaloni.
«Lo
immagino. Ti va di parlarne?» domandò.
«Eh,
magari, ma non adesso, devo...»
«Ti
va di passare a casa mia più tardi? Scendi in treno e poi ti
riaccompagno io. Ceni con noi, che ne dici?»
«Davvero?»
me ne uscii, intontito.
«No,
per finta! Sveglia, Samu! Ah: ci sarà anche Jessica, se questo
ti può interessare. A cena, intendo. Io e te possiamo parlare
anche da soli, se preferisci.»
Jessica.
Chissà come stava. Non avevo avuto il coraggio di
chiederglielo, nonostante lei mi avesse accettato la richiesta di
amicizia su facebook.
«Okay!»
esclamai, cercando di dare un tono alla massa informe di dread che mi
pendeva dalla testa. In quel momento, sentii un clacson suonare e lo
riconobbi come quello della Punto di Stefano.
«Devo
andare, a dopo, ciao!» e chiusi la chiamata.
Ero
in ritardo, come al solito, ma ciò che mi aspettava quella
sera mi aveva messo un minimo di buonumore. O, almeno, mi aveva
ridato un po' di speranza.
Quando
Mia mi inviò il messaggio, invitandomi a cena, stavo cercando
di capire se ordinare o meno un corsetto in stile gotico da internet.
Costava
un patrimonio, ma era bellissimo. Certo, se solo avessi potuto
indossarlo per Ignazio...
no,
non dovevo più pensarci. Decisi di ordinarlo, non appena lei
mi scrisse che ci sarebbe stato anche Samuele.
Non
compresi perché, ma qualcosa scattò in me. Tuttavia,
sulle prime pensai di rifiutare l'invito. Non ero proprio dell'umore
e non so che compagnia avrei potuto far loro; poi, però, mi
dissi che rimanere in casa a deprimermi sarebbe stato anche peggio.
Del resto, ci sarebbe stata Mia, mi avrebbe aiutato lei e non dovevo
temere.
In
più, avevo una strana curiosità di rivedere Samuele.
Chissà come stava. Non l'avevo cercato per niente, dopo
avergli accettato l'amicizia e dopo il mio disperato viaggio alla
ricerca dell'amore. Forse avrei dovuto scrivergli qualcosa, ma del
resto non avevo poi tanto da dirgli.
Così,
scrissi a Mia che ci sarei stata e ordinai in fretta e furia il
corsetto, come se temessi che sparisse magicamente dal sito.
Non
vedevo l'ora di riceverlo, sarebbe stato meraviglioso poterlo toccare
e indossare.
Fremente
d'eccitazione per gli inaspettati avvenimenti positivi della
giornata, mi andai a fare la doccia.
«Ma
quindi... tu dici che dovrei...»
«Smettere
di pensarci, esatto» ripetei, cercando di concentrarmi sulla
guida.
«Ma
io...»
«Tu
cosa?»
«Io...»
«Samu,
che palle, cos'hai? Si può sapere?»
«Non
me l'aspettavo da loro! Carlo... Julieta... insieme...»
«Sì,
fa schifo come idea, non farmici neanche pensare. Però,
purtroppo, è così.»
«Ma
secondo te sono così sfigato davvero, Ste?»
«Non
so. E io, invece?»
«Boh,
no, non credo.»
Rimanemmo
un po' in silenzio, poi Samuele riprese: «Cioè, tu sei
una persona in gamba, no? Secondo me...»
«Secondo
te?»
«La
sorellina di Mia... lei di sicuro ti vuole.»
«Non
penso proprio.»
«Pessimista,
sì che ti vuole. L'unico sfigato tra noi due sono io.»
«Ma
non è vero, è tutto il contrario! È solo che
quella sgualdrina della tua ex non ha saputo tenersi stretto un
ragazzo come te.»
«Ci
sarà un motivo, di sicuro è colpa mia...»
Sbuffai.
Samuele e il suo pessimismo cosmico.
«Senti,
Leopardi, vuoi stare zitto e lasciarmi guidare?» lo implorai.
Riuscì
a tenere la bocca chiusa per – forse – un minuto, poi
riattaccò con le sue lamentele depresse.
Possibile
che avesse così poca fiducia in se stesso? Non capiva che
Julieta non era altro che una puttana senza scrupoli che non l'aveva
mai amato e che si era approfittata di lui. La colpa era solo di
quella, non sua.
Nonostante
continuassi a ripeterglielo, il messaggio sembrava entrargli da un
orecchio e uscirgli dall'altro.
Ero
abbastanza stanco dalla serata precedente, ero rientrato alle cinque
e venti e la sua voce mi stava trapanando la testa.
«Samu,
per favore, cazzo!» sbottai, in preda all'esasperazione.
«Parliamo dopo.»
Fortunatamente,
raggiungemmo il luogo dell'appuntamento e dovemmo concentrarci sul
colloquio con il gestore del pub in questione, così il mio
amico smise per un po' di pensare alle sue disavventure.
Rientrati
in macchina, mi chiese: «Mi accompagni in stazione?».
«Dove
te ne parti?»
«Vado
a cena da Mia. Ci sarà anche Jessica, sai, la sua amica...»
«Quella
che ti piace?» lo punzecchiai.
«Eh?
No, non mi piace! Io e Mia siamo solo andati a prenderla
all'aeroporto, non sai che le è successo...»
Samuele
mi raccontò la storia di Jessica e del suo amore online, della
sua partenza alla ricerca di questo famoso Ignazio e di come le cose
poi si fossero terribilmente concluse. La ragazza era a terra
probabilmente quanto lui, così Mia aveva sicuramente pensato
di allestire una sorta di sportello d'ascolto a casa sua.
Quella
pazza ne sapeva una più del diavolo, aveva sempre un rimedio
per qualsiasi cosa. Lei e Francesco si erano proprio trovati, visti
gli studi psicologici di lui. Erano proprio fatti l'uno per l'altra.
«E
c'è anche Sara, quindi?» buttai lì.
«Ah,
lo sapevo! Ti interessa di lei!»
«Solo
un po'. È solo una ragazzina, tutto qui. Ti accompagno
direttamente a casa di Mia, non ho niente da fare e non vedo perché
dovresti andare in treno.»
«Davvero?»
domandò Samuele.
«Eh,
certo!»
«Così
magari vedrai Sara...»
«O
stai zitto o ti faccio scendere per strada, altro che stazione!»
lo minacciai.
E
finalmente stette un po' in silenzio, così ascoltammo un po'
di buon reggae e trascorremmo il viaggio in tranquillità.
Io
e Francesco ci scambiammo un'occhiata, senza sapere come comportarci.
A
me, francamente, veniva da ridere, però non mi sembrava
neanche il caso di farlo, perché la situazione era abbastanza
seria e grave.
«Vi
scongiuro, aiutatemi!» piagnucolava il nostro ospite,
inginocchiato sul pavimento.
Lo
fissai allibito. Ma che cazzo voleva quell'idiota? Aveva proprio una
bella faccia a presentarsi in studio, dopo il casino che era successo
la sera prima!
Mi
feci avanti stringendo i pugni, decidendo di non perdere altro tempo
e di buttarlo fuori a calci in culo, ma mio fratello posò una
mano sulla mia spalla e disse: «Mollalo. Non ne vale la pena».
E
in effetti...
«Ragazzi,
dovete aiutarmi! Come faccio a spiegare a mia moglie che ho messo
incinta Julieta? Vi prego... vi scongiuro... vi supplico...»
«Oh,
e smettila, cazzo! Mi stai fracassando le...»
«Fabiano,
dai, non fare così. Senti, vai a fumare una sigaretta, va
bene? Ci penso io a lui, eh?»
«Sì,
sì... ma dimmi te, questo coglione» borbottai tra me,
uscendo di tutta fretta dalla stanza. Dovetti trattenermi per non
mollare un calcio a Carlo, che era ancora in mezzo alla porta,
buttato per terra e mi ostruiva il passaggio.
L'ultima
frase che sentii fu: «Ma dai, che palle che sei, Carlo!».
Era
stato Francesco a parlare e io sospirai, sperando che non gliela
desse vinta anche stavolta.
Mio
fratello sapeva essere bastardo se necessario, ma non era cattivo, né
combattivo e orgoglioso come me.
Certo
era che ne avremo visto delle belle e io non vedevo l'ora.
Suonai
il campanello con impazienza: volevo rivedere Mia, passare un po' di
tempo con lei e sfogarmi, dopo quella nottata terribile.
Stefano
stava rigido al mio fianco, improvvisamente ammutolito. Tra i due,
non so chi fosse il più silenzioso in quel momento. Mi sentivo
alquanto confuso, come capitava troppo spesso in quell'ultimo
periodo.
Mia
ci aprì e mi rivolse un bel sorriso, radioso e capace di
infondermi tranquillità. Poi, si accorse di Stefano ed
esclamò: «Ciao, l'hai accompagnato tu? Pensavo arrivasse
in treno».
Lui
rimase fermo e zitto, come un idiota.
Allora
intervenni: «Eh... eravamo insieme e mi ha accompagnato».
Mia
scoppiò a ridere.
«Entrate
o avete intenzione di stare qui fino all'ora di cena?»
«Penso
che dovrei andare... Samu, vuoi che torni a prenderti?» chiese
Stefano, con un tono un po' deluso.
«Boh,
Mia stava dicendo...»
«Niente
affatto! Fermati anche tu a cena, Stefano. Ti va?»
Rimasi
un po' sconcertato da quella proposta di Mia, perché avrei
voluto confidarmi un po' con lei. Eppure, poteva essere interessante
parlare con entrambi, anche se conoscevo il parere di Perro a
riguardo.
«Non
disturbo?» saltò su lui, con un po' troppo entusiasmo.
In
quel momento, Sara ci raggiunse sulla soglia, torturandosi una ciocca
di capelli e osservandoci con aria interrogativa.
«Ciao»
mormorò, poi si accorse di Stefano e gli regalò un
sorriso.
Mi
avvicinai a lei e la baciai sulle guance, poi dissi: «Ciao,
come stai?».
Lei
rispose: «Bene, tu?».
«Eh,
bene! Sono venuto a rompere, contenta?»
Lei
annuì, poi lanciò un'occhiata interrogativa a sua
sorella.
«Allora
Ste, rimani o no?» ripeté quest'ultima.
«Eh?»
se ne uscì Sara, sgranando gli occhi.
«Mi
farebbe piacere» rispose infine il mio amico, per poi
schiarirsi la gola.
«Fantastico!
Entrate!»
Tutti
e quattro ci dirigemmo in cucina. Mi resi conto che non ero mai
entrato a casa di Mia, la quale aveva un aspetto più che
accogliente. Ero contento che mi avesse invitato, con lei mi sentivo
a mio agio e anche l'ambiente in cui abitava mi faceva star bene.
«Senti,
Mia» disse Sara. «Cosa mi stavi dicendo prima?»
«Ah,
sì! Facciamo la lista delle pizze, così vai ad
ordinarle.»
«Scusa,
non ce l'hai il numero della pizzeria?» chiese la sorella
minore, con aria accigliata.
«No,
sei sempre la solita pigra.»
«Se
vuoi Stefano ti accompagna in macchina, vero?» mi intromisi,
trattenendomi per non ridere.
Sara
divenne paonazza e il mio amico mi lanciò un'occhiata in
tralice, attirando l'attenzione di Mia. Lei prese la palla al balzo e
schioccò le dita, affermando: «Buona idea! Così
non ti puoi lamentare!». Poi aggiunse: «Sempre che Ste
sia d'accordo, ovviamente...».
«Figurati,
nessun problema» accettò lui, mentre si guardava
attorno, un po' spaesato.
«Okay,
chiamo subito Jessica!» concluse Mia, afferrando il suo
cellulare.
In
che razza di situazione mi avevano ficcato quei due cretini di mia
sorella e Samuel?! Non ci potevo ancora credere. Fissavo Mia mentre
parlava al cellulare con Jessica, senza decidere se ucciderla seduta
stante o in separata sede. Per quale accidente di motivo dovevo
andare ad ordinare con Perro? Quei due si erano bevuti il cervello
con tanto di ghiaccio, ne ero ormai certa.
«Okay,
perfetto. Samu, prendi la penna, lì sulla mensola. Scrivi: una
margherita, no... anzi, due, anche io la voglio così. Poi?»
«Io
con patatine» grugnii.
«Una
patati...»
«Due»
la interruppe Perro.
Che
fosse una coincidenza? Lasciai perdere, ero già abbastanza
spazientita e non vedevo l'ora di andare e tornare dalla pizzeria.
Avrei chiesto che ce le consegnassero a domicilio, non avevo
intenzione di uscire un'altra volta.
«Okay,
Samu?»
«Boh...
vegetariana?»
«E
lo chiedi a me? Se la vuoi così, la segno» ribatté
Mia.
Inutile,
più conoscevo Samuel, più mi rendevo conto che le sue
risposte erano epiche. Un idiota!
«Okay!»
«Andate,
altrimenti si fa tardi e ceniamo a mezzanotte» ci esortò
mia sorella.
Afferrai
controvoglia la lista delle pizze e mi avviai vero l'uscita, con
Stefano alle calcagna.
Salimmo
in macchina e io rimasi completamente in silenzio. Non sapevo proprio
cosa dirgli.
«Dove
dobbiamo andare?» mi domandò, avviando il motore.
Sospirando,
cominciai a dargli indicazioni sulla strada da percorrere.
«Okay.
Che c'è, bambina? Non sei contenta?»
Sollevai
gli occhi al cielo.
«Sì,
perché? Non si vede? Gira a destra!»
«Sì,
tantissimo, saresti perfetta per un funerale» commentò.
«Uff,
è che... prendi la prossima a sinistra...»
«Sì.
Dicevi?»
«Non
avevo voglia di uscire adesso» buttai lì. In realtà
mi sentivo molto in imbarazzo con lui, infatti non facevo che
arrotolare ciocche di capelli sull'indice della mano destra.
«O
forse non volevi uscire con me.»
«Ma
che dici!» bofonchiai. «Vai dritto, stiamo per arrivare.
Vedi quell'insegna luminosa?»
«Sì,
sì...»
Stefano
parcheggiò la macchina ma non accennò a scendere.
Feci
per aprire lo sportello, ma la sua voce mi fermò: «Allora?
Non volevi uscire con me, eh? Be'... la cosa è reciproca,
bambina. Ma Samu non guida, tua sorella non aveva intenzione di
uscire, a quanto pare. E tu non volevi venire qui a piedi, quindi
questo è quanto. E adesso scendi e non dimenticare la lista,
mi raccomando».
Detto
questo, si precipitò fuori dall'auto senza degnarmi di uno
sguardo. Rimasi inchiodata al sedile per qualche istante, cercando di
assimilare le sue parole ma, soprattutto, il tono sprezzante che
aveva utilizzato. Dall'alto dei miei quattordici anni, mi sentii
ferita.
Come
si permetteva di trattarmi così, quel demente?
Improvvisamente, fui invasa da una furia indescrivibile e scesi da
quello schifo di trabiccolo sbattendo con forza lo sportello.
Stefano
si voltò a guardarmi male, poi entrò all'interno del
locale.
«Uh,
chissà come sta andando tra quei due piccioncini»
esclamai, versando a Samuele una tisana al finocchio.
«Lo
sapevo! Anche tu credi che sarebbero perfetti insieme? La verità
è che Ste, secondo me, è preso dalla tua sorellina...»
Mi
accigliai per un attimo, con il cucchiaino a mezz'aria.
«Samu,
puoi assicurarmi che sia un bravo ragazzo? Sai, Sara ha quattordici
anni, è inesperta, è piccola...»
«Tranquilla,
lui non è poi così grande per lei! Ed è molto
serio come ragazzo, forse lo è più di me.»
Ridacchiai,
accarezzandogli affettuosamente il capo.
«Ma
stai zitto, non conosco nessuno più buono di te! Allora, come
stai Samu? Ti sei ripreso un po' da ieri?»
Lui
scosse lentamente il capo e sorseggiò dalla sua tazza. Poi
raccontò: «Insomma... spero seriamente che Julieta non
sia riuscita ad incastrarmi. Insomma, un figlio alla mia età?
Da una che mi ha tradito e con cui non posso più stare, poi!
No, non ce la posso fare, non lo concepisco... ma se...».
«Ti
rendi conto che quella si è inventata tutto?»
«Sì,
però magari...»
«Senti,
se lei è incinta, lo sarà di Carlo! Figurati, tu sei
stato attento, di sicuro... aspetta, Samu?!»
«Eh?»
«Tu
sei stato attento, vero?»
«Ecco...
diciamo che nell'ultimo periodo... è capitato...»
«Cosa
è capitato?» insistetti, con voce stridula.
«Io
e lei qualche volta non avevamo... protezioni, però...»
«Oddio!
Dimmi che stai scherzando!»
«Ehi!
Se lei non mi avesse tradito, l'avrei sposata e un figlio sarebbe
stato solo un ulteriore legame con lei. Ci avrei messo la firma per
una vita con Julieta, capito? Poi è successo quello che è
successo... pazienza.»
«Sì,
certo, come no! Samu, abbandona il mondo dei sogni! Anche se la
amavi...»
«Non
parlare al passato, io la amo ancora!» esclamò.
«Oh
mamma... sì, vabbè, dicevo... anche se c'era un
rapporto meraviglioso tra voi, ti pare che fosse il caso di avere un
figlio ora? Non pensi che prima sareste dovuti andare a vivere
insieme, almeno?»
Samuele
mi guardò con occhi da cucciolo, con una tenerezza che mi
spezzò quasi il cuore.
«Le
avrei chiesto di sposarmi» mormorò.
«Ho
ragione quando dico che vivi nel Settecento!» cercai di
sdrammatizzare.
«No,
cioè... le avrei parlato di questa mia idea, ecco...»
«Oh,
Samu...»
Sospirai
e gli strinsi una mano, cercando il suo sguardo.
«Sono
nella merda, Mia.»
Lo
abbracciai, sperando di confortarlo almeno un po'.
«Grazie»
disse, poi mi lasciò un bacio sulla guancia prima di
sciogliere l'abbraccio.
Quel
gesto mi trasmise una tale dolcezza che dovetti voltarmi e fingere di
cercare qualcosa nella credenza per non piangere di fronte a lui.
Era
un ragazzo meraviglioso, mi sentivo infinitamente fortunata ad essere
sua amica.
Poi,
un frastuono infernale proveniente dall'ingresso ruppe l'atmosfera di
quel momento idilliaco.
«Senti,
quando hai il ciclo e non riesci ad accettare la cosa, fatti curare!»
gridai, perdendo definitivamente le staffe.
Non
avevo ancora capito cosa avesse quella ragazzina contro di me. Aveva
fatto la stupida per tutto il viaggio di andata e non riusciva a
parlare nomalmente, neanche avessi la peste bubbonica o la lebbra da
poterle contagiare!
Ero
davvero così insopportabile? Ne dubitavo, perché non
avevo mai avuto grossi problemi con nessuno, nel mio paese ero
benvoluto e circondato di amici e conoscenti che mi rispettavano.
Quindi,
come si permetteva quell'arpia di rivolgersi con tanto disprezzo nei
miei confronti? Non avevo esattamente idea del perché la cosa
mi turbasse tanto, ma non potevo sopportarlo.
Così,
avevo cominciato a comportarmi di conseguenza, non riuscendo più
a trattenermi. Se l'era cercata, non potevo farci nulla.
«Non
ho ancora capito perché cavolo non te ne sei andato, mia
sorella ha invitato Samuele a cena, non te!» strillò lei
di rimando, una volta giunti sulla soglia di casa sua.
«Stranamente,
a me risulta di essere stato invitato» puntualizzai, senza
riuscire più a mantenere un tono di voce normale.
«Ma
stai zitto! Dopo ci vado a piedi a ritirare le pizze, non ho nessuna
intenzione di averti tra i piedi! E comunque potevi rifiutare,
avresti fatto una figura migliore!»
«Ragazzina
impertinente e maleducata, non ti azzardare!»
«E
smettila di darti arie da adulto, sembri mio nonno!»
A
quel punto, accaddero due cose: Mia spalancò la porta e la sua
amica Jessica sopraggiunse, guardandoci con aria confusa.
«Cos'è
tutto questo casino?»
«Ehm...
ciao, sono appena arrivata» disse Jessica. Mia le fece cenno di
entrare e lei passò tra me e la ragazzina isterica.
«Samu!
Vieni qui!» gridò la padrona di casa, poi spinse Jessica
dentro e tornò a concentrarsi su di noi.
«Risparmiati
la preoccupazione» la rassicurai. «Tua sorella si deve
essere alzata con le palle girate.»
«Io?
Ma senti chi parla, razza di idiota!»
«Ma
la volete smettere? Che vi prende? Pensavo andaste d'accordo!»
«Sì,
come il gatto e il topo! Peccato che qui il topolino di fogna debba
stare attento. Non capisco perché lui sia qui!»
«Sai
che ti dico, Mia? Sei stata gentile ad invitarmi, ma io me ne vado.
Non intendo essere insultato da una mocciosa del genere!»
«No,
aspetta... Ste, non scherzare!» si preoccupò la sorella
maggiore, avvicinandosi a me.
«No,
davvero, ti ringrazio. Appena possibile, organizziamo qualcosa anche
con Franci e ceniamo tutti insieme. Tranquilla, passo io a disdire la
pizza che ho ordinato. Conosco la strada. Grazie ancora.»
Detto
questo, con un cenno della mano, me ne andai.
Ero
fuori di me. Quella stupida adolescente mi aveva fatto imbestialire
come poche volte nella vita. Forse avevo cominciato io, non lo sapevo
e non mi importava, ma lei ci aveva messo del suo, non smettendo un
attimo di sbuffare e di comportarsi con superiorità.
Non
avrei sopportato oltre le sue lagne da psicopatica.
Samuele
mi comparve di fronte e subito sorrise.
«Ciao,
come stai?» domandò, sfiorandomi una spalla.
Rimasi
per un attimo perplessa, poi risposi: «Ciao. Insomma, non bene.
Tu?»
«Idem.
Me la cavo.»
«Successo
qualcosa?» gli chiesi, notando che nel suo sguardo c'era una
tristezza che non scorgevo dal giorno del mio compleanno.
«Niente
d'importante. Tu, ripresa?»
Scossi
il capo. Il pensiero di Ignazio mi tormentava più che mai. Se
prima di incontrarlo pensavo a lui, nutrendo qualche speranza
riguardo al nostro rapporto, ora il tutto si era trasformato in una
tortura. Mi sentivo svuotata e senza forze.
«Dobbiamo
cercare di superare tutto» mi disse, accennando un altro
sorriso. Intanto, sentivo Mia parlare sull'ingresso, cercando di
capire cosa fosse successo tra sua sorella e quell'altro ragazzo. Che
poi, chi era? Mi pareva di averlo già visto ma non ricordavo
proprio dove.
«Sì»
convenni, tentando anche io di sorridere.
«Jessica...»
cominciò Samuele, per poi interrompersi.
«Dimmi.»
«Sei
hai bisogno... di qualcosa... di parlare...»
Annuì,
sentendo che forse sarebbe stato il caso. Anche lui stava
attraversando un periodo difficile e mi avrebbe potuto capire più
di chiunque altro, anche più di Mia.
«Tu
sai cosa mi è successo... vero?» gli domandai.
«Eh,
più o meno... so solo che eri partita e poi è successo
qualcosa che ti ha fatto tornare, con un tipo... non so granché»
ammise.
«Mi
ha imbrogliato. Credevo... credevo mi amasse, così sono andata
a cercarlo perché non ne potevo più di stare senza di
lui!»
«Non
vi eravate mai visti?»
«No,
mai. Solo via webcam, qualche volta. Così sono andata io da
lui, perché non poteva mai venire da me. O almeno, questo è
quello che mi raccontava...»
«Già,
un classico» commentò sprezzante.
«Appunto.
Quando sono arrivata, sembrava contento di vedermi, immaginati anche
la mia reazione!»
Samuele
annuì, poi mi indicò la cucina e disse: «Andiamo?
Almeno puoi sederti un po'...».
Ci
andammo a sistemare in cucina, io mi andai a sedere e lui rimase in
piedi di fronte a me.
Sollevai
il capo e lo guardai, poi proseguii: «Poi mi ha usato. Siamo
stati... insieme, capisci?»
«Oh
no...»
«Sì,
è proprio così. Quando mi sono svegliata, mi ha buttato
fuori di casa senza tanti complimenti.»
Samuele
sgranò gli occhi, poi rimase in silenzio ad osservarmi.
«Jess,
vuoi uscire con me?»
Balzai
in piedi e in quel momento Mia e Sara entrarono come due pazze in
cucina, strillandosi contro, imbufalite.
Capitolo 27 *** Un ricatto e cambi di programma... inaspettati! ***
Un
ricatto e cambi di programma... inaspettati!
Ero
molto sorpresa dalla domanda che Samuele mi aveva posto. Voleva
uscire con me? Era pazzo, per caso?
Io
avevo ancora Ignazio in testa, come avrei potuto uscire con lui e
dimenticarmi di ciò che c'era stato con la persona che amavo
da tempo?
Ignazio
si era comportato male, ma io non ero una facile e non mi andava
affatto di passare subito a qualcun altro dopo così poco
tempo.
Inoltre,
Samuele non era proprio il mio tipo. Quei capelli mostruosi poi...
no, non avrei mai potuto accettare, era fuori discussione.
«Non
mi sembra il caso» risposi in tono piatto.
«Perché?
Ehi... non starai pensando...» farfugliò.
Quel
suo modo timido e un po' maldestro mi ricordò tanto me stessa
e riuscii perciò a comprendere come doveva sentirsi in una
situazione così imbarazzante.
«Jessica,
non pensare male... volevo uscire per... come amici, eh?»
Gli
lanciai un'occhiata indagatrice, poi annuii lentamente. Non so perché
Samuele riusciva a convincermi sempre, anche se sapevo che tra noi
sarebbe stato difficile che si instaurasse un rapporto decente. Io
non ero interessata ad avere amici in più, mi bastava la mia
famiglia e Mia.
«Si
può fare, va bene» risposi.
Lui
mi sorrise timidamente, poi entrambi udimmo Mia che rispondeva al
telefono e Sara che scompariva in camera sua sbattendo la porta.
Ci
scambiammo uno sguardo complice.
Poco
dopo Mia comparve nella stanza.
«Fra?
Dimmi tutto!»
«Tutto
bene bella signora?» domandò il mio compagno al
telefono, facendomi venir voglia di invitarlo a cena da me insieme a
Samuele e Jessica. Ci avevo pensato, ma forse era meglio non
esagerare.
La
scena tra Sara e Stefano era stata pessima e io proprio non riuscivo
a capire perché quei due si comportassero da idioti.
«Insomma...
diciamo di sì. Tu stai bene?» risposi.
«Potrei
stare meglio. Già mi manchi, Mia.»
«Che
dolce! Che dici, ci vediamo dopo? Noi dobbiamo cenare e poi possiamo
uscire tutti insieme. Ragazzi, a voi andrebbe?» domandai
rivolta a Samuele e Jessica.
«Okay!»
risposero all'unisono. Che carini!
Perché
volessi per forza trovare relazioni amorose tra le persone non lo
sapevo neanche io, però quei due mi parevano più che
perfetti come coppia.
«Se
per voi non ci sono problemi, vengo volentieri.»
«Allora
è deciso! Chiamami quando stai partendo.»
«Agli
ordini!» mi canzonò Francesco prima di riagganciare.
Cercai
di convincere Sara a venire con noi a ritirare le pizze, ma lei non
ne volle sapere neanche per scherzo.
«Non
vorrei rischiare di incontrare quel minchione di Stefano, bleah!»
gridò attraverso la porta della sua camera.
Sospirai
e scossi il capo, dirigendomi verso l'uscita.
«Andiamo,
questa è senza speranze.»
«Ma
che è successo? Boh, io non ci ho capito niente...»
«Samu,
quando mai tu capisci qualcosa?!» scherzai, tirandogli un
dread.
«Ehi...»
«Tua
sorella è arrabbiata?» intervenne Jessica con tono
divertito.
«Pare
che lei e Stefano non si sopportino» spiegai.
«Stefano
sarebbe...?»
«Mio
amico e dj durante le serate» la informò Samuele,
sedendosi sul sedile posteriore.
Mentre
guidavo verso la pizzeria, lui rimase affacciato tra i due sedili
anteriori e ogni tanto interveniva, ma senza sbilanciarsi troppo, non
era da lui parlare a vanvera.
«E
Francesco viene?»
«Sì,
Samu. Così ci facciamo un giro.»
Una
volta arrivati alla pizzeria, notammo subito la macchina di Stefano
ferma di fronte al locale.
Non
appena scendemmo dall'auto, io e Samuele ci scambiammo un'occhiata
interrogativa.
«Dai
che lo convinciamo a tornare con noi!» affermai.
«Pensate
che accetterà?» fece Jessica.
«Boh!»
«Samu,
anziché rimanere come una pera... vai all'attacco!» gli
ordinai, spingendolo verso la macchina del suo amico.
Bussai
al finestrino e Stefano sobbalzò, voltandosi di botto a
controllare chi fosse stato.
Poi
lo tirò giù e mi lanciò un'occhiata
interrogativa.
«Ciao!»
esordii.
«Samu...
cosa diamine ci fai qui?!»
«Eh...
boh, Mia dice che secondo lei dovresti tornare con noi.»
Feci
il giro dell'auto e andai a sedermi sul sedile del passeggero.
«Mia
è pazza se crede che lo farò. Non voglio vedere sua
sorella neanche in cartolina» borbottò, sbuffando.
«Dai...
non rompere, comportati bene» gli consigliai.
«Mi
comporto sempre bene, io.»
«Se
non vieni non ti racconto una cosa» lo punzecchiai, sapendo di
scatenare la sua curiosità.
«Questo
è ingiusto. Adesso tu parlerai, caro Samuele!»
«No,
zero. Prima giura che torni a cena da Mia.»
«Neanche
per sogno!»
«Allora
niente!»
Feci
per scendere dalla macchina, ma lui mi afferrò per un braccio
e mi trattenne. Mi venne da ridere perché il suo atteggiamento
curioso e quasi pettegolo mi ricordava tanto Francesco.
«O
torni da Mia o non te lo dico» affermai con sicurezza.
Stefano
sospirò e mi lasciò andare.
«Scendiamo
di qui» si arrese infine. «Parlo con Mia e poi decido.»
Quando
raggiungemmo le ragazze all'interno della pizzeria, Samuele stava
ridendo per qualcosa che aveva letto sul cellulare.
«Samu,
ti senti da tre chilomentri quando ridi!» lo prese in giro Mia.
«Sembra
una scimmia, ci credo» commentai, notando che Jessica sorrideva
di fronte a quella scenetta.
«Allora?
L'hai convinto?» domandò Mia al mio amico, facendo cenno
verso di me.
«Eh,
insomma...»
«Mi
ha minacciato, ma questo è un altro discorso. Non posso
tornare, ragazzi, davvero. Sara non mi sopporta e la cosa è
reciproca. Sono un intruso a casa sua, ha ragione.»
«Macché
casa sua e casa sua!» minimizzò Mia. «Ti assicuro
che non romperà. Anzi, scusami per quello che è
successo prima, avrei dovuto controllarla un po' di più.»
«Ma...»
«Dai,
vieni! Dopo arriva anche Francesco!» si intromise Samuele.
Notai
che Mia sorrideva a trentadue denti e la cosa non poté che
farmi piacere.
«Le
vostre pizze sono pronte» annunciò un uomo giunto
proprio in quel momento dietro in bancone. Appoggiò cinque
cartoni sulla lastra di marmo e cominciò a battere il conto
nella cassa.
«Fermi
tutti!» ci ammonì Mia, notando che io, Samuele e Jessica
rovistavamo in tasca e in borsa alla ricerca dei soldi.
«Non
cominciare» sospirò la sua amica.
«Comincio
invece! Siete miei ospiti e perciò offro io!»
«Mia...
dai... non è il caso...»
«Samu
ha ragione, lascia che ognuno di noi paghi la sua parte. Anzi, io
dovrei pagare per tutti perché vengo a disturbare...»
feci notare.
«Sono
venti euro e settanta centesimi» annunciò l'uomo dietro
il bancone.
«Ecco,
piantatela» concluse Mia, posando cinquanta euro sul bancone.
Dopo
aver ritirato pizze e resto, uscimmo dal locale e ci avviammo verso
le nostre macchine.
«Andiamo
a casa, ho una fame!» borbottò Mia.
Samuele
salì in macchina con me e così lo costrinsi a
raccontarmi tutto ciò che doveva.
«Con
calma. Niente... ho solo chiesto a Jessica di uscire» ammise.
«Solo?
E ti pare poco? Per te è una grande cosa! Bravo, fratello,
almeno eviti di pensare a quell'altra troia di Julieta.»
«Sì...
boh, mi è venuto spontaneo, stavamo parlando...»
«O
piuttosto lei parlava e tu ascoltavi...» lo interruppi.
«Ma
sei un coglione! No, dicevo... così poi mi è venuto da
chiederglielo.»
«E
lei?»
«Prima
pensava che volessi uscire per...»
«Ah,
sì, pensava che ci stessi provando?»
«Sì.
Ma poi le ho detto che usciremo da amici, che non ho intenzioni
strane...»
Scoppiai
a ridere, parcheggiando la macchina di fronte a casa di Mia.
«Uscire
con una ragazza se ti piace non è un'intenzione strana, Samu!»
Lui
mi ignorò e scese.
Chissà
come sarebbe andata tra quei due...
E
tra me e Sara, invece?
Mangiai
una pizza con mio fratello, mentre stavamo di fronte al televisore a
fare zapping tra i canali di sport.
«Dovrebbe
esserci il torneo di Helsinki su Super Tennis» borbottava
Fabiano, armeggiando con il telecomando.
«Beata
la tua pazienza! Io me ne esco con Mia dopo» gli dissi.
«Uh,
vai fratello! Conquista il mondo!»
«Sì,
sì... prendimi pure in giro, intanto io una ragazza ce l'ho.»
«Ma
sai che sei proprio un pezzo di merda? Non è colpa mia se
Marinella mi ha mollato.»
«Dai,
sto scherzando, che permaloso! Almeno a noi non è successo il
casino che è capitato a Samu...»
«Oh,
ma ascolta, cosa gli hai detto a quel coglione del tuo amico?»
Addentai
una fetta di pizza vegetariana e domandai: «Intendi dire
Carlo?».
«Sì,
sì... quello.»
«Gli
ho detto di non rompere le palle, niente di più. Lo sopporto
per lavoro ma non ho voglia di averlo tra i piedi e di risolvere i
suoi problemi matrimoniali. Non sono suo amico, né il suo
psicologo. Lo conosco bene, ma finisce lì.»
Fabiano
annuì e poi si fissò a guardare un singolo famminile di
tennis, senza degnarmi più di uno sguardo.
Certe
volte mio fratello era strano.
Passai
in cucina a salutare i miei genitori, poi tornai a casa a cambiarmi.
Ero sfinito, ma volevo vedere Mia. Ne avevo bisogno.
Quando
partii, le inviai un messaggio e lei mi disse che mi avrebbe
aspettato a casa sua.
«Sta
succedendo un casino, un'apocalisse qui» disse, prima di
riattaccare.
A
cosa si riferiva?
«Mi
vuoi spiegare perché devo cenare con questo imbecille?»
tuonai, entrando a passo di marcia in cucina. Pensavo che Stefano
fosse tornato da dov'era venuto, invece era nuovamente a casa mia e
mi fulminava con lo sguardo.
«Basta!
Datti una mossa, piuttosto, tra venti minuti arriva Francesco e
dobbiamo uscire» ribatté Mia, seccata, finendo di
mangiare la sua pizza.
Ero
arrivata in ritardo per la cena perché avevo intercettato la
presenza del deficiente. Poi la fame aveva vinto sul resto ed ero
uscita dalla mia stanza, ritrovandomi il sorriso beffardo di Stefano
di fronte agli occhi.
«Ah
sì? Ma pensa te che interessante!»
«Sara...»
mormorò Samuele.
Mi
voltai di scatto verso di lui e rimasi sorpresa e sotto shock per il
fatto che lui si fosse rivolto a me in quel modo.
«Sì?»
«Esci
con noi?» mi chiese Samuele.
«Io?
Eh?»
«No,
sai, la tua controfigura! Mangia e datti una mossa, ho detto,
altrimenti te ne stai a casa!» sbottò Mia, alzandosi per
andare a finire di prepararsi.
Imbronciata,
mi misi a sedere e mangiai la mia pizza fredda in silenzio.
«Esco
a fumare, Jessica mi accompagni?» fece Samuele, frugandosi in
tasca.
«Okay!
Fumo anche io!»
I
due uscirono dalla cucina e io fui nuovamente sola con Stefano, il
quale mi ignorava completamente e stava a fissare un punto indefinito
alle mie spalle.
Mangiai
in fretta, stavo morendo di fame. Quando terminai, andai a lavarmi le
mani.
Nuovamente
in cucina, notai che Stefano si era alzato.
«Be'?»
«Cosa?»
ribatté.
«Sembra
che tu mi debba perseguitare a tutti i costi.»
«Sono
qui perché tua sorella ha voluto così. Non di certo per
vedere te.»
Ma
come osava?
Imbufalita,
mi diressi in fretta verso la porta della cucina, intenzionata ad
andare a cambiarmi.
Prima
che potessi uscire, avvertii la presenza di Stefano dietro di me e mi
voltai di scatto.
«Che
cavolo vuoi?» sputai, arrabbiata.
«Siamo
partiti con il piede sbagliato, Sara. Non trovi?»
«Ma
cosa...»
Allungò
una mano e mi sollevò il mento, affinché lo guardassi
negli occhi. Era alto almeno dieci centimetri più di me, che
comunque misuravo un metro e sessantacinque e non mi consideravo
affatto bassa. I suoi occhi scuri e il viso giovane e dai lineamente
delicati mi catturarono, così non mi sottrassi al suo sguardo.
Stefano
mi scrutò per un po', poi sospirò e mi lasciò
andare.
«Sì,
anche se sei capricciosa e immatura, devo dire che sei passabile.»
Detto
questo, uscì e raggiunse Samuele e Jessica.
Rimasi
interdetta per un po', poi avvertii nuovamente la rabbia invadermi il
cervello e mi rinchiusi in camera sbattendo la porta.
«Eh,
boh, io non so cosa dirti, non la conosco bene.»
«Ragazzi»
intervenni, mentre Samuele e Stefano parlavano di Sara. «Per
quanto mi riguarda, credo sia una brava ragazzina. Ha solo bisogno di
un po' di aiuto, si nota che ha dei problemi relazionali...»
proseguii.
«Sì,
è vero» convenne Samuele, annuendo, mentre finiva la sua
sigaretta.
Io
ne stavo fumando con calma una alla menta, non ero una grande
fumatrice ma ogni tanto mi andava, specialmente se ero in compagnia.
Credevo
che Sara avesse delle difficoltà a relazionarsi con il resto
del mondo, anche perché era la più piccola tra i
presenti quella sera. In ogni caso, riuscivo a capirla benissimo: la
mia vita era un vero sfacelo, tutto mi era andato male, avevo perso
la mia verginità con la persona sbagliata e avevo il cuore e
l'anima in frantumi.
Come
potevo desiderare di parlare e aprirmi con il resto del genere umano?
«Sicuri?
Io non so che le ho fatto...» borbottò Stefano.
«Ma
sì, dai!» lo incoraggiai, tentando di sorridere.
Nel
frattempo, udimmo il motore di un auto che parcheggiava all'inizio
del vialetto, così mi affacciai sulla parte anteriore della
casa di Mia per controllare di chi si trattava.
Francesco
scese dall'auto e si passò una mano tra i lunghi dreadlocks,
chiudendo a chiave lo sportello.
«Ciao»
lo salutai, facendogli un cenno.
Avvertii
una presenza alle mie spalle e mi voltai di scatto, ritrovandomi
Samuele fin troppo vicino. Per la sorpresa indietreggiai e andai a
finire contro il muro.
Francesco
ci raggiunse e Samuele distolse a fatica lo sguardo da me, aspirando
l'ultima boccata dalla sua sigaretta.
«Ciao
belli! Allora, tutto bene?» domandò il ragazzo di Mia,
scambiandosi un gesto amichevole con i due ragazzi.
«Sì,
più o meno...» rispose Stefano.
«Perché?
Ste, che succede? Dimmi tutto!» esclamò Francesco,
piazzandosi di fronte all'amico con aria curiosa.
Istintivamente,
io e Samuele ci scambiammo un'occhiata confusa, poi lui scosse il
capo e mi fece cenno di seguirlo all'interno.
Mi
venne da ridere ma riuscii a trattenermi.
La
storia di Stefano e Sara era assurda. Forse era quello di cui mi
parlava Mia al telefono, era quella l'apocalisse di cui mi aveva
accennato.
Sara
odiava Stefano, o almeno così diceva lui. Gli si era rivoltata
contro e aveva fatto di tutto per cacciarlo da casa sua, quella sera.
Fortunatamente, Mia e Samuele erano riusciti a riportarlo indietro,
anche se le cose non erano migliorate per questo.
Quando
io e Stefano rientrammo in casa, notai subito Mia che parlava con
Jessica in un angolo della cucina. Mi avvicinai subito a lei e la
presi tra le braccia, facendola sobbalzare.
Mi
era mancata terribilmente, nonostante ci fossimo visti il giorno
precedente. Dopo averla abbracciata da dietro e averle lasciato un
bacio sulla nuca, la feci voltare e la baciai sulle labbra,
stringendola per i fianchi.
Desideravo
ardentemente rimanere da solo con lei, come quel giorno a casa mia,
ma per quella sera c'erano altri progetti.
Quando
ci staccammo, notai gli sguardi leggermente imbarazzati di Samuele e
Sara, mentre Jessica e Stefano si facevano gli affari loro.
«Finalmente
sei qui» mormorò Mia, attirando nuovamente la mia
attenzione. Mi baciò nuovamente e si strinse al mio corpo,
provocandomi immediatamente un'altra ondata di eccitazione. Resistere
era così difficile, sentivo il bisogno di stare con lei, ormai
non riuscivo più a farne a meno. Lei mi aveva stregato, era il
mio pensiero fisso, non passava attimo in cui il suo bel viso non si
materializzasse nella mia mente. Sentirla così vicina mi
faceva impazzire.
«Andiamo?»
proposi, tornando bruscamente alla realtà.
Tutti
acconsentirono e uscimmo di casa.
Sara
e Stefano camminavano a debita distanza l'uno dall'altra, io
abbracciavo Mia e li osservavo con un po' di preoccupazione. Stefano
avrebbe dovuto guardare oltre, mi sembrava già troppo
coinvolto da quella ragazzina.
Notai
che Jessica e Samuele camminavano vicini ma stavano attenti a non
sfiorarsi. Erano due persone timide e introverse, chissà
quando sarebbe scattata quell'irresistibile scintilla che avrebbe
finalmente impedito loro di stare lontani.
Io
mi sentivo bruciare, mentre Mia teneva il suo braccio intorno ai miei
fianchi e stava in silenzio.
Andammo
in giro per un po', mentre io cercavo di sdrammatizzare e sciogliere
un po' la tensione e anche Mia si adoperava per fare lo stesso.
Raggiungemmo
un parchetto recintato da muretti in cemento e ci accomodammo tutti
insieme su uno di essi. Attirai subito la mia ragazza sulle
ginocchia, volevo tenerla stretta il più possibile.
«Che
ti prende?» sussurrò maliziosa al mio orecchio,
lasciandomi un piccolo bacio sul lobo.
«Sapessi...»
mormorai.
«Parla»
mi ordinò, tirandomi un dread.
«Mi
fai male! Okay, te lo dico.»
Così,
anziché parlare come si aspettava, la baciai con trasporto e
passione, poi la guardai negli occhi per constatare se avesse capito
cosa desideravo.
I
suoi occhi luccicarono e un sorriso complice le si dipinse sulle
labbra.
Ero
eccitato.
Mia
sapeva come fare per provocarmi, sapeva darmi aspettative, e lo
faceva con una tale discrezione che tutte le sensazioni che provavo
divenivano quasi strazianti e impossibili da sopportare.
«Sì,
stavo dicendo... siamo andati in quel locale, no? Secondo me esce una
bella serata...» stava dicendo Stefano.
Così,
smisi momentaneamente di pensare ad argomenti poco casti e mi inserii
nella conversazione.
«Stavolta
vi pagano?» scherzò Mia. La osservai che circondava le
spalle di Francesco con un braccio e sorrideva felice.
Ero
contento per loro, ma c'era qualcosa in me che non andava. Da quando
avevo chiesto a Jessica di uscire, sentivo di aver sbagliato e non ne
comprendevo il motivo.
«Boh,
speriamo» risposi, armeggiando con una cartina.
Jessica,
seduta accanto a me, mi lanciava ogni tanto qualche occhiata che non
riuscivo ad interpretare.
Afferrò
la sua borsa e cominciò a frugarci dentro, mentre la sua
espressione diveniva sempre più accigliata.
«Mmh...
no, che scema!» esclamò ad un tratto, passandosi una
mano sulla fronte.
«Perché?»
domandò Mia.
«Ho
lasciato le sigarette a casa tua. Spero non rientrino i tuoi, poi
chissà cosa pensano...»
«Ma
tranquilla, sanno che né io né Sara fumiamo, poi gli ho
detto che vi avrei invitato a cena.»
Jessica
annuì.
«Se
vuoi ne ho io, te ne lascio una» le dissi.
«No,
fumo solo quelle alla menta, le altre mi infastidiscono.»
«Okay...»
Jessica
si alzò.
«Me
ne vado a prendere un pacchetto al distributore qui dietro»
annunciò.
«Sì,
certo! Da sola?» intervenne Mia.
«Non
mi mangiano mica!»
Mia
sospirò, poi mi lanciò un breve sguardo colmo di
malizia e disse: «Samu, vai con lei per favore?».
«Non
ho bisogno della baby sitter, grazie.»
«Mi
fa piacere, tranquilla» risposi, alzandomi.
Ci
incamminammo in silenzio lungo la strada, poi svoltammo a sinistra.
Eravamo
fuori dal campo visivo di tutti e io avevo le mani sudate e sentivo
che formicolavano. Cosa mi stava succedendo? Dovevo darmi una
calmata.
Eppure,
non riuscivo a farlo. Mi bastò guardare Jessica che camminava
in tutta la sua fragilità, infagottata nei suoi abiti neri e
con quell'espressione sempre malinconica in viso per capire cosa
volevo e dovevo fare.
Allungai
una mano verso di lei e la afferrai per un polso. Senza darle il
tempo di reagire, la attirai a me e la strinsi forte tra le braccia,
cercando così di dimostrare quello che a parole non ero ancora
riuscito a dire. Mi dispiaceva vederla così, non volevo che
soffrisse e in un certo senso capivo cosa stava passando, perché
anche io ero scosso nel profondo per i recenti avvenimenti con
Julieta.
Lei
rimase immobile, sorpresa, ma non mi respinse.
Lentamente
sollevo un braccio e sfiorò la mia spalla, poi la sentii
tremare contro di me e rafforzai la stretta.
Poi
cominciò a singhiozzare e si lasciò completamente
andare contro il mio corpo, aggrappandosi a me come se non sapesse
più dove sbattere la testa.
La
sua sofferenza divenne anche la mia, si mescolò a tutto quello
che stavo vivendo a causa della mia ex e anche i miei occhi si
velarono di lacrime. Non volevo se ne accorgesse, non le sarebbe
stato di nessun aiuto se io avessi ceduto alle emozioni negative che
mi stavano sommergendo.
Con
il viso contro la mia spalla e le braccia strette al mio corpo,
Jessica pianse forse per la prima volta da quando quel verme l'aveva
distrutta dentro.
«Le
sigarette le staranno fabbricando...» commentò Sara, con
un tono acido e allo stesso tempo malizioso.
Sbuffai,
non sapendo neanche perché fossi ancora lì. Lei non mi
sopportava, io non sopportavo lei... era logico, non avevamo niente
da dirci né da spartire.
Poi
cominciò a ridacchiare e io mi voltai a controllare cosa le
stesse prendendo.
Mi
fissava con uno sguardo tra il divertito e lo sprezzante, mentre
Francesco e Mia la osservavano un po' sorpresi.
«Si
può sapere cosa c'è da ridere?» sbottai,
irritato.
«Sei
un buffone, Stefano! Un buffone!» mi accusò, puntandomi
contro un dito.
Avvertii
la rabbia montarmi dentro, mista a qualcos'altro che non riuscivo a
riconoscere.
Strinsi
i pugni e non replicai.
«Sì,
incazzati pure, tanto è vero! Con quella faccia che ti
ritrovi... dove pensi di andare?» proseguì senza tregua.
Dovevo
trovare un modo per farla tacere, se avessi aperto bocca in quel
momento l'avrei distrutta a forza di insulti.
Ma
dovevo mantenere la calma, non volevo fare la figura dell'idiota di
fronte a Mia e Francesco.
«Sara,
piantala! Sei indisponente, adesso Stefano non ti ha fatto niente!
Insomma, quando imparerai a comportarti?» tuonò Mia.
«Ma
infatti mi basta la sua presenza, non c'è bisogno che faccia
niente» ribatté la sorella minore, acida.
«Andiamo,
Sara... non esagerare, dai, non c'è motivo per...» tentò
Francesco, con il suo solito tono pacato e professionale.
«So
quello che dico, voi non lo potete capire» tagliò corto
la ragazzina, lanciandomi un altro sguardo di fuoco.
Non
seppi mai cosa mi prese, io ero sempre stato calmo, non avevo mai
litigato o avuto problemi con nessuno, avevo sempre risolto ogni
questione nel migliore dei modi, ma in quel momento la mia pazienza
si esaurì completamente.
Mollai
uno schiaffo a Sara e mi alzai, tremando per la rabbia e per la
sorpresa di ciò che avevo appena fatto.
Lei
rimase immobile per qualche istante, mentre Mia era saltata in piedi
e sbraitava qualcosa di incomprensibile.
Feci
per andarmene, ma mi ritrovai una Sara inviperita che mi si aggrappò
alle spalle e cominciò a prendermi a pugni ovunque, strillando
come una pazza.
Me
la scrollai di dosso e presi a camminare velocemente senza meta, ma
lei mi rincorse e mi afferrò per la felpa, continuando a
gridare.
Mi
spintonò fino a farmi sbattere contro il muro di una casa,
continuando a darmele di santa ragione in preda alla rabbia.
Avevo
esagerato, lo sapevo benissimo, cosa cazzo avevo combinato.
Mi
voltai verso di lei e tentai di placare il suo fiume di imprecazioni,
di lacrime, di pugni e calci, sapendo di aver superato il limite
della decenza.
Alla
fine riuscii ad immobilizzarle i polsi dietro la schiena e la
osservai ansimare con il viso stravolto e la guancia arrossata a
causa dello schiaffo.
«Perdonami»
mi sentii mormorare.
Lei
fece per dire qualcosa, ma un singhiozzo strozzato fuoriuscì
dalle sue labbra e le impedì di proseguire.
Sollevai
la mano libera, lei intercettò il mio gesto e riprese a
dimenarsi.
«Ti
prego, non picchiarmi ancora, ti prego...»
«No,
piccola, non lo farò mai più. Scusami, è che tu
mi mandi in bestia, io...»
Non
seppi più cosa dire, scossi il capo con frustrazione e tacqui.
Posai
la mano sulla sua guancia e la accarezzai delicatamente, nel
tentativo di alleviare il dolore che le avevo procurato.
Sara
continuò a piangere in silenzio, io mi sentivo uno schifo e
non sapevo cosa fare.
Così,
mi accostai al suo viso e posai le mie labbra sulle sue.
Sconvolta,
mi ritrovai a rispondere a quello strano bacio, anche se non capivo
perché. Io non avevo mai baciato nessuno prima e mi sentivo
veramente scombussolata.
Non
appena riacquistai un po' di lucidità, indietreggiai
spaventata e mi portai una mano alla bocca, spalancando gli occhi.
Tutta
la furia che avevo dimostrato fino a poco prima era scomparsa,
lasciando spazio soltanto ad una profonda confusione. Avevo provato
qualcosa di elettrico, di magico e inspiegabile, quando Stefano aveva
posato le sue labbra sulle mie. Ma non poteva essere, non doveva
essere così, dannazione!
Frustrata
e incazzata con me stessa, abbassai lo sguardo sulle mie scarpe e
rimasi in silenzio, lasciando scivolare le braccia lungo i fianchi.
«Che
diamine state combinando?» sentii gridare da Francesco, alla
mia destra.
Lui
e Mia si avvicinarono e mia sorella mi raggiunse, dandomi una pacca
sulla spalla.
«Oh,
tutto bene?» domandò con tono leggermente preoccupato.
Intorno
a me tutto si era fatto silenzioso. Udii soltanto un fruscio e poi
avvertii due braccia che mi afferrarono e mi strinsero, ma io ero
troppo traumatizzata per reagire e per capire chi fosse stato a
compiere quel gesto.
«L'ho
fatta grossa, eh?» domandò Stefano. La sua voce vibrò
attraverso il suo petto e solo allora realizzai che era stato lui ad
abbracciarmi. Il suo gesto era così dolce che mi ero quasi
convinta che si trattasse di Samuele. Solo lui, ne ero certa, sarebbe
stato in grado di essere così delicato nell'abbracciare
qualcuno.
Eppure,
Samuele era sparito da un po' e io mi trovavo tra le braccia di
Stefano, sotto lo sguardo inquisitore di Mia e Francesco. Che
situazione surreale!
Non
ebbi la forza di mandarlo via, di scostarlo, di inveire nei suoi
confronti, fui soltanto capace di abbandonarmi contro il suo corpo
con lo sguardo perso nel vuoto.
Poco
dopo, Francesco si piazzò di fronte a me e batté le
mani, come se volesse risvegliarmi da quella fase di trance.
Strizzai
gli occhi e scivolai fuori da quello strano torpore. Poi mi scostai
da Stefano e mi guardai intorno, spaesata.
«Era
il tuo primo bacio, signorina?» domandò il ragazzo di
mia sorella, scompigliandomi i capelli.
«Francesco!»
mi ritrovai a gridare.
«Eh,
dai, non essere così sconvolta, Ste non è poi così
male!»
Senza
neanche pensarci, annuii.
«Oh
cazzo» borbottò Stefano al mio fianco.
Mi
voltai a guardarlo con aria interrogativa.
«Su,
smettetela di farne un dramma!» tentò ancora Francesco.
«Ma
Sara, stai bene?» chiese ancora Mia, afferrandomi un polso.
Ma
io non riuscivo a concentrarmi sulla risposta da darle: continuavo a
fissare Stefano e non potevo credere che mi avesse baciato. Ancor
meno riuscivo a capacitarmi delle sensazioni che avevo provato mentre
avveniva quel contatto.
«Che
c'è? Sei arrabbiata con me?» sussurrò lui,
notando il mio sguardo.
In
quel momento Samuele e Jessica ci raggiunsero e domandarono a Mia
cosa stesse succedendo.
«Niente,
aspettavamo voi per andare a fare un giro» mentì mia
sorella.
«Io
vorrei rientrare» mi sentii dire. «Domani devo andare a
scuola.»
«Posso
accompagnarti?» si offrì Stefano.
Annuii
senza obiettare. Ero stanca, sfinita e confusa. E, soprattutto, avrei
voluto che mi baciasse ancora, ancora e ancora...
Ci
avviammo verso casa in silenzio.
Facemmo
una bella passeggiata per il paese, ridendo e scherzando come matti.
Trovavo
che Francesco e Mia fossero sempre più affiatati e carini
insieme, avevano una sintonia invidiabile e in cuor mio sapevo che a
me non era mai successo proprio con nessuno. Ignazio era stata
proprio un'illusione.
Samuele,
intanto, era silenzioso. Dopo il nostro abbraccio, ci eravamo
limitati a parlare del più e del meno e io mi sentivo in
imbarazzo per aver pianto come una bambina tra le sue braccia. Cosa
mi era venuto in mente? Io e lui non avevamo proprio niente in
comune; inoltre, ero abbastanza sfiduciata nei confronti degli altri,
specialmente se si parlava del sesso opposto. L'amicizia tra uomo e
donna era fantascienza, e in ogni caso...
I
miei pensieri si bloccarono all'improvviso, colpiti da un'immagine
del tutto nuova, che affiorò in maniera del tutto furtiva e
inaspettata.
Samuele
che mi teneva tra le braccia e mi baciava dolcemente i capelli.
Me
lo stavo sognando o era successo davvero? Ero così confusa che
non riuscivo a capirlo.
Era
successo, invece. Solo che in quel momento di sconforto mi era parso
tutto irreale e fuori dalla normalità.
E
perché ci stavo ripensando?
Dovevo
smetterla!
Mentre
ci avviavamo verso casa di Mia, lei e Francesco si fecero un po' da
parte per parlare tra loro e io cominciai ad innervosirmi, lanciando
occhiate furtive a Samuele.
Avevo
accettato di uscire con lui, avevo lasciato che mi vedesse nelle mie
condizioni peggiori e che avesse un contatto fisico così
stretto con me, eppure non riuscivo a comprenderne il motivo. E per
com'ero fatta io, tutto doveva avere un senso logico, tutto doveva
coincidere con i miei pensieri razionali.
«Vuoi
ancora uscire con me, vero?» lo sentii domandare, con la voce
venata da un leggero imbarazzo.
«Be',
ho accettato. Perché dovrei cambiare idea?» risposi.
«Sai,
magari non ti ha fatto piacere che prima...» farfugliò,
interrompendosi all'improvviso come se cercasse le parole più
adatte per proseguire.
«Mi
ha fatto piacere, è solo che io sono un po' riservata di
carattere e generalmente non amo farmi vedere in quelle condizioni.
Tutto qui» lo rassicurai, posandogli una mano sul braccio.
Lui
osservò per un attimo il mio gesto, poi afferrò la mia
mano e se la portò alle labbra, chiudendo gli occhi.
Il
mio cuore perse un battito e rimasi immobile, irrigidendomi come un
manico di scopa. Che diavolo stava facendo?
Samuele
baciò con estrema delicatezza la punta delle mie dita, poi mi
lasciò andare e sorrise.
«Grazie»
mormorò, per poi continuare a camminare.
Sbigottita,
scossi il capo e lo seguii.
Quando
giungemmo di fronte a casa di Mia, Stefano era seduto nella sua
macchina e ci aspettava.
«Ehi,
che ci fai lì? Quella barbara di mia sorella non ti ha fatto
entrare?» si informò Mia, accigliata.
«Aveva
sonno, le ho detto che vi avrei aspettato fuori» rispose il
ragazzo con tono tranquillo.
I
rapporti tra quei due erano un mistero, ma del resto io non potevo
certo giudicare loro. Io e le mie relazioni interpersonali eravamo un
disastro ambulante, non c'era alcun dubbio a riguardo!
Samuele
mi salutò con due veloci baci sulle guance e mi sussurrò:
«Ci sentiamo».
«Certo,
ciao Samuele» risposi.
E
quando lui salì in macchina con il suo amico, nel mio petto si
creò uno strano senso di vuoto che decisi di reprimere
immediatamente.
Ero
in uno stato confusionale che non riuscivo a decifrare.
Mentre
io e Sara camminavamo verso casa, lei era rimasta in silenzio e io
avevo proceduto con un braccio intorno alle sue spalle. La sentivo
tremare sotto il mio tocco e non sapevo se avesse freddo o se ci
fosse qualcos'altro sotto.
Quando
poi avevamo raggiunto casa sua, si era abbracciata il corpo e non mi
aveva guardato negli occhi.
Avevo
cercato di parlarle ma tutto era stato inutile: Sara era proprio
scossa dal mio comportamento e non sapevo proprio come porvi rimedio.
Mi sentivo un po' stupido, ma c'era qualcosa che mi impediva di
pentirmi delle mie azioni.
Alla
fine, le avevo preso il viso tra le mani e l'avevo costretta a
guardarmi, perché non sopportavo più quel silenzio e
quell'indifferenza da parte sua.
«Dimmi
come ti senti, Sara» l'avevo pregata.
Lei
si era limitata a fissarmi, poi mi si era gettata tra le braccia,
nascondendo il viso nel mio petto. Io l'avevo stretta a me e le avevo
accarezzato i capelli, senza dire niente.
Il
fatto che non si fosse rivoltata ancora contro di me mi aveva
rincuorato e preoccupato allo stesso tempo.
Poco
dopo aveva dichiarato di essere molto stanca e io le avevo
consigliato di andare a dormire e di non preoccuparsi per me, perché
avrei aspettato il resto del gruppo in macchina. Prima di lasciarla
andare, avevo posato le mie labbra sulla sua fronte, chiudendo per un
attimo gli occhi e inalando il suo profumo dolciastro.
Fortunatamente,
non avevo dovuto aspettare a lungo: Samuele e gli altri erano
arrivati poco dopo e noi eravamo partiti subito verso casa.
Era
abbastanza tardi, la mezzanotte era passata da un pezzo e io ero
stanco.
Rimasi
in silenzio immerso nei ricordi, finché Samuele non decise di
distogliermi da quel torpore.
«Ste,
come stai?»
«Bene,
perché?» buttai lì, forse un po' troppo in
fretta.
«Non
mi sembra» commentò il mio amico, facendo spallucce.
E
fu in quel momento che decisi di vuotare il sacco e raccontargli
tutto, perché del resto Samuele era l'unica persona di cui mi
fidassi davvero. Era capace di ascoltare senza giudicarmi né
interrompermi, per poi darmi sempre un parere sincero e obiettivo.
«Lei
è piccola, ha solo bisogno di tempo e di chiarezza. Non fare
cazzate, ti dico solo questo. Abbi rispetto di lei e non metterle
fretta, se le cose devono funzionare, funzioneranno» disse
infine Samuele, per poi rinchiudersi nuovamente nel suo tranquillo
silenzio.
Non
avevo bisogno di guardarlo per capire che quel consiglio non era
indirizzato soltanto a me, ma anche a se stesso.
Stringevo
Mia tra le braccia e bruciavo dal desiderio di sentire la sua pelle
contro la mia. Stare a contatto con lei era come una droga per me: il
suo profumo mi inebriava le narici fino a farle quasi prudere, le sue
mani mi accarezzavano con intensità e dolcezza, le sue labbra
erano un richiamo sensuale e irresistibile, specialmente quando erano
incurvate in quel magnifico sorriso, così solare e luminoso da
farla risplendere tutta di una luce unica e particolare.
Eravamo
sul sedile posteriore della mia macchina, abbracciati e in silenzio.
«Mia»
mormorai, accarezzandole un lembo di pelle lasciato scoperto dal
sottile maglione che indossava.
«Sai,
Fra...»
«Cosa?»
«Sai
cosa vorrei?» mi chiese, sollevandosi per poi fissarmi negli
occhi. Attesi con ansia che proseguisse e lei lo fece. Disse: «Vorrei
stare con te per tutta la notte, vorrei risvegliarmi con te al mio
fianco e averti tutto per me».
A
questo punto, senza darmi il tempo di riflettere o ribattere, si
chinò su di me e prese a baciarmi con un ardore tutto nuovo e
a me sconosciuto.
Potevo
avvertire il desiderio scorrermi nelle vene e potevo avvertire la
stessa elettricità anche nei baci e nel tocco della mia
compagna.
Non
mi sembrava vero che finalmente potevo spogliarla e sentirmi
spogliare da lei, potevo baciarla e accarezzarla senza alcuna
inibizione e sentire che lei lo voleva e lo desiderava tanto quanto
io desideravo che lei facesse lo stesso.
Fu
tutto molto dolce ma passionale, i nostri corpi sprigionavano
un'energia nuova e sembravano fatti per stare insieme; mentalmente
eravamo come collegati, sentivamo le stesse sensazioni e i nostri
occhi si cercavano contemporaneamente.
La
pelle di Mia bruciava sotto le mie carezze e io non riuscivo ad
immaginare cosa ci fosse di più bello e delizioso al mondo.
Quello
era il mio posto, lì tra le sue braccia, con il capo
abbandonato sul suo seno mentre riprendevo lentamente a respirare
regolarmente.
Quando
infine decidemmo di separarci, fu talmente strano e difficile non
poter stare ancora insieme che ci misi cinque minuti per riprendermi
e accendere il motore dell'auto dopo averla riaccompagnata a casa.
Mi
sentivo scosso e stupidamente felice, eppure quella sensazione
l'avrei volentieri prolungata all'infinito: era la così
intensa e capace di completarmi che non riuscii a ricordare quando –
e se – l'avessi mai provata prima d'allora.
Mi
sentivo uno schifo. La serata di sabato era stata disastrosa per me,
non c'era niente di positivo che potessi ricordare, se non il fatto
che qualcosa forse era cambiato in me.
Dopo
mesi di tradimenti, mesi di sesso colmo di passione con Carlo, alla
fine mi ritrovavo da sola. La mia vita sembrava aver riacquistato
quella piatta monotonia che avevo sempre odiato con tutta me stessa.
L'unica
cosa che riuscivo a pensare, comunque, era la mancanza di Samuele che
mi soffocava.
Eppure,
adesso avevo capito di non poterlo legare a me, di non avere più
nessuna opportunità con lui.
Triste
e abbattuta, aspettavo da sola in quella sala anonima che puzzava di
disinfettante e di morte, di dolore e di futuri spezzati.
Una
donna in camice bianco mi si accostò e mi parve che quel
colore neutro e irreale contrastasse con l'oscurità che mi
invadeva completamente.
«Ciao,
sei Julieta, giusto?» domandò regalandomi un sorriso
materno e comprensivo.
Trattenendomi
per non gettarmi tra le sue braccia e scoppiare a piangere, annuii.
«Se
sei pronta, possiamo andare.»
Mi
alzai lentamente e la guardai, disperata, ormai incapace di
trattenere le lacrime.
«Sarà
doloroso per... per il mio bambino?» balbettai.
La
donna mi prese dolcemente sottobraccio e mi aiutò ad avanzare
lungo il corridoio. Poi spiegò: «Tesoro, stai
tranquilla, non è niente di doloroso per nessuno. Su, fatti
coraggio. E se per caso ci vuoi pensare ancora, se hai ancora
dubbi...»
«No,
dottoressa, non ho nessun dubbio. Questo non è il frutto di un
amore» la interruppi.
E
insieme varcammo in silenzio una porta, lasciando che si richiudesse
alle nostre spalle.
*
* *
Il
mio viso brillava di luce propria mentre mi osservavo allo specchio.
Non riuscivo a credere che alla fine lo stessi per fare davvero.
Avevo
indossato uno dei vestiti più belli presenti nel mio armadio,
un abito in stile gotico che raggiungeva appena il ginocchio e mi
fasciava perfettamente il corpo grazie al nero e lucido tessuto. Non
mi ero truccata, non ero portata per queste cose, anche se da tempo
mi esercitavo ad imitare il make-up di un sacco di modelle gothic e
il risultato era sempre demotivante. Ai piedi avevo un paio di scarpe
basse, dal momento che non volevo che il mio accompagnatore
sfigurasse o si sentisse a disagio.
E
stavo per uscire con Samuele.
Telefonai
a Mia mentre mi dirigevo a piedi verso la stazione, luogo in cui ci
saremmo incontrati.
«Jess?
Come stai? Cosa fai? Oh, esci con Samu, esci con Samu, che bello, che
bello!» strillò lei al mio orecchio.
Non
ci eravamo più viste dalla sera in cui avevo cenato da lei e
ormai erano trascorsi cinque giorni, nei quali ci eravamo sentite per
telefono e io l'avevo stressata con le mie paranoie. Era strano che
mi sentissi così inadeguata per quell'uscita, del resto
Samuele non era per me altro che un amico, punto e basta. Non mi
conferiva le stesse sensazioni che avevo provato con Ignazio, e in
ogni caso non avevo certo intenzione di uscire con quel ragazzo per
poi mettermici insieme. Era troppo presto e lui non mi piaceva, non
in quel senso, non abbastanza per...
«Jessica,
rispondi! Stai respirando con affanno come se stessi facendo jogging,
che diamine succede?»
«Credo...»
Deglutii a fatica. «Credo di essere in fase di
iperventilazione... ho l'ansia...»
«Oh,
cielo! Ah, l'amore...»
«Mia...»
«Sì,
l'amore... ehi, ti ho detto che io e Francesco abbiamo fatto
l'amore?»
Mi
piantai in mezzo al marciapiede e sgranai gli occhi, rischiando di
cadere.
«Cosa?
Scusa, Mia, ti pare questo il momento di dirmi una cosa del genere?»
sbraitai sconvolta.
La
stazione era all'orizzonte e Samuele sarebbe arrivato a momenti con
il treno, dovevo sbrigarmi e mi sentivo in subbuglio tutto il corpo.
Doveva
essere la notizia che Mia mi aveva appena comunicato, dannazione!
«Ops...
scusa, è che mi sento felice! Felice per te, felice per me
stessa, felice per tutti!»
«Per
Sara...» suggerii.
«Sì,
per Sara, sì! Però povero Perro... non lo invidio, quel
povero ragazzo, mia sorella è un'arpia!»
«Basta,
Mia! Devo andare.»
«Aspetta,
aspetta! Mi raccomando, sii te stessa, divertiti e prendi
precauzioni, okay?»
Soffocai
un'imprecazione.
«Benissimo,
hai finito di elargire consigli alla Friend Zone? Posso chiudere?»
«Sì,
sì, chiudi, ma prendi precauzioni!»
Riattaccai
e risi nervosamente, avvicinandomi sempre più alla stazione.
Mia non sarebbe mai cambiata, aveva un modo tutto suo di preoccuparsi
per gli altri e, anche se a volte risultava inopportuna e sfacciata,
le volevo molto bene.
Quando
Samuele emerse dal sottopassaggio della stazione ferroviaria,
compresi che tutte le sensazioni che avevo provato fino a quel
momento erano dettate dal fatto che avevo cercato di negare a me
stessa che quel ragazzo mi faceva un effetto inspiegabile e che, in
fondo al cuore, speravo che anche per lui fosse lo stesso.
*
* *
Jessica
era elegante e raffinata avvolta dall'abito nero e sottile.
Mi
sentivo un bambino la mattina di Natale, non riuscivo a credere che
fosse arrivato quel momento, che lei avesse deciso di uscire davvero
con me e non ci avesse ripensato per chissà quali motivi.
«Ciao!
Come stai?» la salutai, dandole due baci sulle guance. Quella
era una mia sorta di deformazione professionale, anche se forse con
Jessica non avrei dovuto farlo. Ma ormai il danno era fatto.
«Ciao,
sto bene... tu?»
«Bene,
bene! Dove andiamo di bello?» chiesi, sforzandomi per non
rimanere in silenzio come un idiota.
«Facciamo
un giro se ti va» propose lei senza guardarmi.
Camminammo
in silenzio per un po', io non sapevo cosa dire e neanche lei. Come
diamine potevamo essere così simili eppure così
diversi?
Le
mani mi prudevano, sentivo che avrei potuto comunicare qualcosa a
Jessica soltanto con i gesti, perché con le parole non ero
affatto bravo e non ci sapevo proprio fare.
Ci
dirigemmo verso la piazzetta in cui ci eravamo fermati la domenica
precedente, dopo aver cenato a casa di Mia.
Una
volta lì, la trovammo deserta.
«Meno
male... in genere è sempre strapieno di gente» commentò
Jessica guardandosi intorno con un mezzo sorriso.
Non
dissi nulla.
Dentro,
stavo meditando su come fare. Se l'avessi toccata, se mi fossi
avvicinato a lei o – ancor peggio – avessi provato a
baciarla, lei come avrebbe reagito? Ero timido, sì, ma ero una
di quelle persone che lo sono soltanto a parole, che credono ancora
nell'importanza e nella potenza dei gesti.
Ma
era il caso?
E
mentre Jessica mi scrutava cercando di leggere qualcosa nella mia
espressione pensierosa, feci qualche passo avanti e la attirai a me,
abbracciandola e stringendola forte. Posai il mento sulla sua spalla,
grato che lei non avesse deciso di indossare dei tacchi.
Lei
ricambiò all'istante, come se non aspettasse altro. Eravamo in
piedi in mezzo alla piazzetta, stretti l'uno all'altra, senza un
motivo ben preciso e senza che nessuno desiderasse interrompere quel
contatto.
Mi
staccai con riluttanza da Jessica e le lanciai un'occhiata un po'
preoccupata.
Lei
sorrise.
«Non
so mai cosa dire, ecco perché...» tentai di
giustificarmi.
«Succede
anche a me, sai» rispose con entrambe le mani posate sulle mie
spalle.
«Già...
spero che non ti abbia dato fastidio.»
Jessica
scosse piano il capo, anche se notai che c'era qualcosa di simile
all'insicurezza e alla confusione nei suoi gesti, nel suo sguardo,
sul suo viso.
Poi
sollevò una mano e la posò con cautela sulla mia
guancia, sempre con attenzione, con calma, come se volesse tastare il
terreno, valutare le mie reazioni.
E
io reagii, rabbrividii e la strinsi un po' più forte,
attirandola più vicino.
«Samu,
cosa stiamo facendo?»
«Boh...
non so, però mi piace.»
E
la baciai.
*
* *
Mia
aveva sempre idee stupide secondo me.
Il
suo piano era essenzialmente questo:
«Noi
andiamo a trovare Francesco in studio, del resto è il mio
ragazzo e posso permettermi di rompergli le scatole! E facciamo in
modo che Stefano passi di lì per caso, voglio vedere che
succede. Povero ragazzo però, lo tratti sempre male!».
Era
stato del tutto inutile cercare di farle cambiare idea, spiegarle che
io non me la sentivo, che ero troppo scossa e mi vergognavo come una
ladra all'idea di riavere Stefano così vicino a me. La verità
è che non facevo che pensare a lui, a quel bacio, al nostro
rientro a casa, al mio respingerlo e poi desiderarlo.
Doveva
trattarsi degli ormoni, certo, ma durante quel venerdì
pomeriggio, mentre Mia guidava in direzione del paese in cui si
trovava lo studio del suo ragazzo, mi sentivo in subbuglio e non
vedevo l'ora di arrivare, ma allo stesso tempo avrei preferito
tornare indietro e rinchiudermi nella mia stanza, seppellendo la
testa sotto il cuscino.
Ma
ormai era tardi e io continuavo a ripetermi che mia sorella era una
cretina e voleva torturarmi.
Una
volta giunte fuori dallo studio, ancor prima che avessi il tempo di
avvicinarci all'ingresso, la porta si spalancò e sulla soglia
apparve Fabiano, il fratello di Francesco.
Quel
tipo non mi era mai piaciuto, né il suo modo borioso e
strafottente, né le sue orribili canzoni pseudo-rap, né
quell'aria da pesce lesso con osservava chiunque.
Stava
sghignazzando con il cellulare in mano e intanto si accendeva una
sigaretta.
«Ciao
Fabi! Che succede?» gridò mia sorella, avvicinandosi al
deficiente con me al seguito.
Fabi?
Ma che schifezza era? Non gli si addiceva per niente! E Mia era
sempre più ridicola, il fatto di essersi fidanzata con
Francesco l'aveva finita di rincoglionire del tutto.
«Non
sai cos'ho scoperto, Mia!» affermò il beota dandosi un
sacco di arie.
«Cosa?
Sono curiosa!»
«Zitta,
non farmi ridere! A quanto pare, la zoccoletta era davvero incinta»
raccontò Fabiano, facendo un cenno al suo cellulare.
«Ma
che dici?» strillò Mia.
Tutto
quel casino attirò l'attenzione di Francesco, che uscì
dallo studio poco dopo, in compagnia di una ragazza che riconobbi
come una delle più brave cantanti reggae che conoscessi. Lei
era minuta e dai tratti dolci, si chiamava Marianna e io adoravo le
sue canzoni e il suo modo di interpretarle.
«Vogliamo
smetterla di urlare? Io starei lavorando...» li informò
Francesco, per poi avvicinarsi a Mia e baciarla a fior di labbra. Poi
si accostò a me e mi scompigliò i capelli, aggiungendo:
«Ciao signorina, tutto bene? Stefano arriva presto».
Rischiai
di strozzarmi con la mia stessa saliva e lo fulminai con lo sguardo.
«Mia
non ci crede, Fra! Non ci crede che Julieta ha abortito e poi l'ha
scritto pure su facebook! Se lo sa Samu, cazzo» proseguì
Fabiano, senza smettere di ridacchiare come una iena.
«Ha
abortito?» strillò ancora mia sorella, strappando il
telefono dalle mani di Fabiano e fiondandosi a leggere la notizia.
Facendo
due calcoli, Julieta era l'ex ragazza di Samu e Mia mi aveva
raccontato che però si erano lasciati da un po' e lei se la
faceva con Carlo. Il bambino, perciò, di chi era?
Povero
Samuele! Che stronza quella ragazza!
Ma
a me che importava?
Osservavo
quella scena con aria confusa e mi accorsi appena di due braccia
forti che si avvolsero al mio corpo e mi portarono via da lì.
Mi lasciai trascinare, riconoscendo l'inconfondibile profumo di
Stefano.
Mi
fece aderire con le spalle contro una parete e le grida di quei pazzi
pettegoli ci raggiungevano appena.
Con
lo sguardo basso, non sapevo proprio cosa fare, così feci la
cosa che ritenni più naturale e giusta.
Gli
mollai un pugno sul petto e tentai di spingerlo via.
«Come
ti permetti, selecta? Non è questo il modo di comportarsi con
una ragazza!» lo rimbeccai, continuando a puntellare il suo
petto con le mani.
«Ma
la vuoi smettere? Non sei credibile, piccola Sara» mi schernì
bloccandomi i polsi.
Sollevandomi
le braccia al di sopra della testa, si chinò su di me e
strofinò il naso contro il mio, ridendo.
«Adesso
tu ti lasci baciare e taci, okay?»
«Okay»
mormorai con il fiato corto.
E
Stefano mi baciò.
E
io baciai lui.
Ancora
e ancora.
Aveva
diciannove anni, Stefano.
Io
ne avevo quattordici.
Eppure,
volevo baciarlo e stringerlo e averlo con me nonostante tutto, in me
esplodeva il desiderio più grande e intenso che avessi mai
provato in tutta la mia breve e insulsa esistenza.
Tutto
era cambiato in poco tempo, erano successe così tante cose, mi
sentivo rintronato e non riuscivo a credere al fatto che ora Sara
uscisse con me.
La
stavo aspettando e non vedevo l'ora. Dopo la sua resistenza iniziale,
sembrava che le cose stessero andando meglio. Mi veniva da pensare
che fosse un periodo fortunato per tutti noi: io ero riuscito a
conquistare la ragazza che mi piaceva (o almeno così speravo),
Mia e Francesco si erano trovati fin da subito e stavano bene
insieme, Samuele e Jessica sembravano avercela fatta, sospettavo che
fosse successo qualcosa di importante benché lui non si fosse
confidato con me; ma Samuele era fatto così, tendeva a non
raccontare mai troppo, specialmente quando le cose andavano bene.
Pensava che non ci fosse bisogno di spiegazioni quando un bel sorriso
e uno sguardo luminoso potevano dimostrare nient'altro che felicità.
Quando
notai Sara avvicinarsi, tutti quei pensieri scomparvero e avvertii
una sensazione di gioia mai provata prima. Era come se il mio mondo
divenisse completo, solo per il fatto che lei mi sorridesse
timidamente, avvolta in un paio di jeans e una t-shirt attillata.
Mi
alzai e la presi immediatamente tra le braccia, affondando il viso
tra i suoi capelli. Attendevo quel momento da giorni, mi sentivo come
se stessi galleggiando nell'atmosfera e niente potesse distogliermi
da quella perfezione.
«Mi
sei mancata» mi lasciai sfuggire, scostandola da me per poterla
osservare meglio.
Il
suo viso era un mix di emozioni indecifrabili, guardarlo fu come
ricevere un improvviso e sconosciuto allarme.
«Stefano,
io...» cominciò, poi scosse il capo e rimase nuovamente
in silenzio.
«Che
succede?» domandai, prendendo il suo viso tra le mani. Il
desiderio si espandeva ad ondate violente, avrei voluto innanzitutto
baciarla, ma sentivo che c'era qualcosa che non andava, probabilmente
in quel momento mi avrebbe respinto.
«Niente,
è solo che... mi sento confusa...»
«Confusa?»
incalzai, cominciando a preoccuparmi sul serio.
«Il
fatto è che c'è un ragazzo che mi... piace da un po',
lo vedo sempre a scuola ma non abbiamo mai parlato...»
balbettò, con un misto di terrore e tristezza negli occhi.
«Mi
stai dicendo che devo essere geloso di un... ragazzino?!»
sbottai.
«Ste,
anche io sono una ragazzina,
sai? Non capisco il tuo improvviso disprezzo...»
Mi
allontanai da lei e sollevai le mani in segno di resa, esasperato.
Questo era veramente troppo.
«Sara,
spero tu stia scherzando! È ovvio che il mio disprezzo va
verso di lui, lo vuoi capire una buona volta che ti voglio tutta per
me? Non sopporto più questo tira e molla, non sono fatto per
queste cose. Prendo molto sul serio le relazioni e i sentimenti,
anche se forse tu sei convinta del contrario» mi sfogai,
cominciando a camminare avanti e indietro sotto il suo sguardo
sbigottito.
«Non
mettermi in bocca parole che non ho detto!»
«Perché
stiamo discutendo, eh? Ti rendi conto del motivo?»
«Avrei
dovuto stare zitta e fingere che andasse tutto bene» borbottò.
«Andiamo,
non dire cazzate adesso! Sara, ascoltami.» Mi avvicinai
nuovamente a lei e le afferrai le mani; cerco di opporsi, ma io
strinsi più forte e la guardai dritto negli occhi. «Permettimi
di dimostrarti che non devi essere confusa, che non c'è motivo
perché tu debba pensare a qualcuno che non sia io»
aggiunsi con il tono più serio possibile, proprio perché
desideravo convincerla a darmi una vera e propria possibilità.
In
quel momento mi resi conto che mi ero illuso fin da subito, avrei
dovuto andarci più cauto, perché comunque Sara era una
ragazza di quattordici anni nel pieno dell'adolescenza, perciò
avrei dovuto avere molta più pazienza fin dal primo momento
che avevo posato lo sguardo su di lei.
«Ma
Ste...» I suoi occhi si riempirono di lacrime. «Io non
voglio che tu stia male a causa mia» concluse in un sussurro,
per poi scoppiare in singhiozzi.
La
strinsi forte a me, consapevole che di me le importava, altrimenti
non avrebbe reagito in quel modo.
Forse,
non avevo sperato invano.
*
* *
«Mi
sono sentita una stupida, ma la cosa peggiore è che lui mi ha
trattato come se fossi una prostituta a domicilio!» conclusi,
in preda alla stizza, dopo aver raccontato a Samuele tutto quello che
mi era successo con Ignazio.
Lui
mi aveva ascoltato in silenzio fino a quel momento, stringendomi ogni
tanto la mano quando notava che mi mancava la forza di proseguire. Mi
aveva rivolto occhiate comprensive in continuazione, nonostante il
mio tono si inasprisse ad ogni parola pronunciata.
Era
la prima volta che riesaminavo con lucidità e a voce alta
quella faccenda. Quando l'avevo raccontato a Mia, tutto era stato
molto confuso per me e da allora non me l'ero più sentita di
tornare sull'argomento.
Ma
dopo aver ascoltato Samuele mentre raccontava con ironia le sue
disavventure con Julieta, la sua ex, avevo avuto una sorta di
illuminazione: anche se con situazioni e disagi diversi, io e lui
eravamo un po' sulla stessa barca.
Quando
tacqui, attesi che lui dicesse qualcosa, ma per il poco che lo
conoscevo, sospettavo che non sarebbe stato di tante parole. Anche in
questo ci assomigliavamo parecchio.
«Lo
vorrei avere qui per poterlo picchiare fino alla morte» lo
sentii mormorare, mentre stringeva i pugni.
Un
brivido mi percorse tutta, mentre mi rendevo conto che per la prima
volta avvertivo un senso di protezione e di appartenenza che non mi
era mai capitato di condividere con qualcuno.
«Non
è necessario, diciamo che quest'esperienza mi è
servita» commentai.
«Non
esiste. Non lo posso sopportare!»
Samuele
si alzò e prese a camminare su e giù, con le braccia
incrociate sul petto e i lunghi dreadlocks che oscillavano attorno al
suo viso contratto e al suo corpo teso per la rabbia.
Osservandolo
così, mi dovetti trattenere per non sorridere. Era talmente
bello ed emozionante avere qualcuno che si preoccupasse così
per me, che tenesse davvero
al mio bene e non aspirasse ad illudermi per poi farmi soffrire.
In
un certo senso, da quando conoscevo Samuele, era come se la
sofferenza per la faccenda con Ignazio fosse smorzata, come se quel
ragazzo così diverso da me avesse ridato un senso e una luce
alla mia vita. Dopo anni, stavo pian piano riemergendo dal tunnel
della mia ossessione per Ignazio e sapevo che gran parte del merito
era suo. Prima non avrei mai ammesso che si trattava di un amore
malato e ossessivo, ma adesso mi sentivo una persona nuova e la cosa
mi sorprese parecchio, oltre a farmi un enorme piacere e a procurarmi
un sollievo infinito.
Senza
dire niente, mi alzai e lo raggiunsi, afferrandolo per i polsi e
obbligandolo a fermarsi.
Ci
guardammo a lungo negli occhi e io notai che pian piano i suoi si
addolcirono, mentre la collera che aveva provato fino a poco prima si
trasformava in tristezza e comprensione. Samuele sollevò una
mano e mi carezzò con delicatezza il viso.
«Mi
dispiace molto» mormorò poi.
«Ormai
è passato. Spero solo che con il tempo mi dimentichi di lui e
di tutto quello che è successo» replicai, per poi
riportare Samuele al muretto e farlo risedere accanto a me.
«Vorrei
aiutarti.»
Gli
rivolsi un'occhiata colma di gratitudine, poi scherzai: «Samu,
tu devi aiutarmi,
anche se non vuoi!».
Scoppiammo
a ridere come due cretini.
Mentre
mi allungavo per baciarlo, mi resi conto che erano proprio le nostre
estreme differenze ad unirci, anche se in fondo eravamo più
simili di quanto fossi ancora disposta ad ammettere.
La
verità, però, era una: se qualche mese prima mi
avessero detto che mi sarei gettata tra le braccia di un ragazzo come
Samuele, con quei capelli, che ascoltava e cantava un genere di
musica che non apprezzavo, be', non ci avrei creduto.
*
* *
«Mi
sono comportata da idiota per tutto questo tempo...» sospirò
Sara con aria affranta.
«No,
tesoro, tu sei idiota,
è diverso!» ironizzai, mollandole un pugno sul braccio
per cercare di smorzare l'atmosfera.
«Sì,
lo so!» piagnucolò ancora mia sorella.
«Mia,
insomma, non essere così cattiva, povera Sara!» mi
rimproverò Francesco, per poi circondare le spalle di Sara con
un braccio e darle delle affettuose carezze sulla schiena. «Su,
signorina, non ti abbattere, non è successo niente!»
aggiunse cercando di rassicurarla.
«No,
Mia ha ragione!»
«Ehm...
veramente stavo solo scherzando, voi non capite proprio niente»
borbottai.
«Però...
io non voglio che Stefano soffra, e poi non ho nessuna esperienza in
queste cose, mi vergogno di quello che gli ho detto e...»
«Sei
un essere umano, Sara, è normale avere qualche dubbio, su, che
sarà mai! Stefano non è mica stupido!» proseguì
Francesco con un tono tranquillo e pacato.
Invidiavo
la sua pazienza e il suo ottimismo, sotto quel punto di vista era
meglio di me. Io perdevo sempre la calma dopo poco, Sara riusciva a
mandarmi in bestia in pochi minuti, specialmente quando si comportava
come una bambina o si autocommiserava come in quel momento. Ma il mio
ragazzo era uno psicologo nato, si gettava a capofitto nelle
situazioni altrui, preoccupandosi di aiutare sempre chiunque a
risolvere i propri problemi. Questo era un altro dei motivi per cui
l'adoravo: anche io avevo bisogno di qualcuno che fosse paziente e
comprensivo, spesso ero troppo impulsiva e permalosa e rischiavo di
perdere il controllo e combinare casini senza che ce ne fosse
realmente bisogno.
«Lui
mi odierà!»
«Non
ti odierà, quel ragazzo è innamorato perso di te,
figurati!» minimizzò Francesco sorridendo con estrema
sincerità.
Sara
sollevò il viso verso di lui e domandò: «Davvero?».
«Ma
certo, perché dovrei mentire su una cosa così
importante? Lo conosco molto bene, so di che parlo.»
«Ma...»
Stizzita,
sbuffai. Poi commentai: «Sara, che palle che sei! La smetti di
fare la depressa? Svegliati una buona volta, cazzo!».
«Mia!»
saltò su Francesco, allungandomi per tapparmi la bocca.
«Ecco,
sei sempre la solita insensibile, non sopporto quando fai così!
Per te è sempre tutto facile!» gridò mia sorella
in preda all'esasperazione.
«Ragazze,
adesso basta! Su, smettetela di litigare, state attirando
l'attenzione di mezzo bar!»
«Sì,
ma lei...» tentò Sara.
«Signorina,
se non la smetti subito, racconto questa scenetta patetica a
Stefano!» la minacciò Francesco con il sorriso negli
occhi.
«Vi
odio!» concluse lei.
Stavamo
aspettando che Stefano ci raggiungesse per uscire tutti e quattro
insieme, perciò ci eravamo fermati in un bar poco distante
dallo studio di Francesco.
Quando
lo notammo entrare nel locale, sembrava stanco dopo aver lavorato
parecchie ore, ma non appena il suo sguardo incrociò quello di
mia sorella, parve rinvigorito all'istante e i suoi lineamenti si
distesero, lasciando spazio ad un ampio e dolce sorriso.
Sara
era una sciocca se pensava che Stefano la odiasse o se la fosse presa
con lei per ciò che gli aveva detto l'ultima volta in cui
erano usciti insieme, da ogni gesto che quel ragazzo le rivolgeva si
poteva capire quanto tenesse a lei.
Stefano
si chinò per abbracciarla e le lasciò un dolce bacio
sulla guancia, poi si lasciò cadere sulla sedia accanto alla
sua.
«Allora,
tutto bene Ste? Oggi c'era molto lavoro? Ti trovo stanco» disse
subito Francesco, scrutandolo.
«Sì,
ho fatto un sacco di consegne oggi. Tra l'altro, c'è stata
diversa gente che mi ha fatto perdere la pazienza» spiegò
il ragazzo, prendendo la mano di Sara.
Mentre
lui e Francesco si scambiavano diverse battute, osservai quel
quadretto felice e mi sentii invadere da una bellissima sensazione di
beatitudine.
Ero
certa che Stefano fosse perfetto per mia sorella, sicuramente
l'avrebbe aiutata a crescere e maturare un po'. Inoltre, l'avrebbe
guidata nella strada dell'amore, le avrebbe fatto capire il valore di
quei preziosi sentimenti e la loro importanza.
Una
lacrima silenziosa, di pura commozione, sfuggì al mio
controllo e mi rigò la guancia, mentre sorridevo soddisfatta.
Guardare
il mondo attraverso gli occhi di Francesco era una cosa che stavo
adorando sempre più. Imparavo a conoscere ogni sua
sfaccettatura in ogni istante della nostra relazione.
Mentre
ripensavo ad uno dei tanti momenti meravigliosi passati insieme,
desiderai essere con lui, tra le sue braccia, pronta ad affrontare il
mondo intero pur di non abbandonarlo mai.
Finalmente,
dopo qualche giorno, ci saremmo rivisti quella sera.
Nel
nostro gruppo di amici erano cambiate tante cose, tutto sembrava
seriamente andare per il meglio e anche mia sorella pareva essersi
rassegnata alla consapevolezza che non avrebbe potuto far a meno di
ricambiare i sentimenti di Stefano: quando certe cose accadono, le si
può solo accogliere a cuore aperto.
Io
ne sapevo qualcosa. L'amore che provavo per Francesco era cresciuto
così in fretta, si era solidificato senza che neanche me ne
rendessi conto, e ora mi teneva stretta a sé in una morsa di
dolce appartenenza.
Mentre
mi preparavo per uscire, il mio cellulare squillò e mi
distolse da qualsiasi pensiero.
Era
Francesco, così mi venne spontaneo sorridere.
«Ciao
bello» esordii, cercando di non inciampare sulla gamba dei
jeans che stavo cercando di infilare nel frattempo.
«Ciao
tesoro mio, tutto bene?»
Aggrottai
le sopracciglia. «Perché me lo chiedi? Stiamo per
vederci, è logico che io stia bene.»
«Mia,
è proprio questo il problema.»
«Quale
problema?» domandai con tono stridulo. Non capivo perché,
ma c'era qualcosa che non mi piaceva affatto nell'inflessione che la
sua voce aveva assunto.
«Mi
dispiace, non possiamo vederci. Ho da finire un lavoro importante in
studio, poi devo partire con Carlo a parlare con il gestore di un
locale. È sopraggiunto tutto questo pomeriggio, pensavo che
avrei sicuramente fatto in tempo, ma...»
«Fra,
calmati, stai sicuramente iperventilando» lo interruppi con
fermezza. Quando cominciava a parlare così, non c'era quasi
modo di arrestare quella corsa.
«Scusa,
è solo che cercavo di spiegarti.»
«Non
importa» mi costrinsi a dire, perché in realtà mi
importava eccome. Era già capitato nei giorni precedenti che
mi desse buca per qualche motivo di lavoro, attività che
anteponeva a tutto e tutti, me compresa.
Certo,
il lavoro era importante, anzi ammiravo il fatto che Francesco
riuscisse ad organizzarsi e a fare tante attività insieme,
cercando di arrotondare e di non rimanere mai senza far nulla. Era
una persona che non riusciva proprio a stare con le mani in mano, non
era nella sua natura poltrire. Inoltre, ci teneva sempre ad aiutare
gli altri, il che me lo faceva apprezzare ancora di più.
Ma
io e lui non ci vedevamo tanto spesso, l'ultima uscita risaliva a
poco più di una settimana prima e io mi sentivo quasi
impazzire all'idea di dover aspettare ancora; tuttavia, non potevo
certo impedirgli di lavorare, non potevo proprio far nulla se non
avere pazienza e cercare di comprenderlo.
Anch'io
però avevo bisogno di attenzioni, perciò tutte quelle
sensazioni contrastanti rischiavano di farmi esplodere, anche se non
volevo affatto che succedesse un casino.
«Sei
sicura, Mia?»
«Certo,
stai pure tranquillo» ribattei con calma, sedendomi sul letto.
«Sei
un angelo, lo sai? Ho così tanta voglia di vederti...»
Fui
sul punto di dirgli che se voleva tanto vedermi, avrebbe potuto
trovare un modo per farlo, ma poi mi tappai letteralmente la bocca
con una mano; sospirai e scossi leggermente il capo.
«Un
angelo? Ora non esagerare» borbottai.
«Fidati
di me. Adesso devo proprio scappare, cerca di capirmi. Ci sentiamo
appena ho un minuto libero» concluse e, senza lasciarmi il
tempo di replicare, interruppe la chiamata.
Mi
sentii sprofondare in un vortice di disperazione e, stringendo il
telefono in mano, cercai un numero nella rubrica.
«Mia?»
«Samu...
aiutami, ti prego!»
*
* *
«Sono
con Jessica, che ti è successo?» risposi a Mia. La sua
voce trasudava disperazione, ma non avevo idea di cosa stesse
succedendo e subito mi preoccupai.
Jessica,
nel sentirsi nominare, sollevo la testa dalla mia spalla e mi lanciò
un'occhiata interrogativa, inarcando un sopracciglio in un modo così
buffo e sexy che mi venne voglia di riempire il suo viso di un
miliardo di baci.
«Francesco
mi trascura» piagnucolò Mia all'altro capo del telefono.
«Eh?
Francesco ti trascura?»
Jessica
si sollevò definitivamente da me e io la trattenni,
attirandola nuovamente a me. Non avevo assolutamente intenzione di
lasciarla andare, il suo corpo contro il mio e il suo profumo mi
facevano impazzire.
«Aspetta...
hai detto che sei con Jess? Oh, scusa, scusa Samu! io... ehm, bene,
vi lascio allora...»
Jessica
si accostò al mio viso con il suo, mi mordicchiò il
labbro e, quando ebbi abbassato la guardia per bene, mi strappò
il cellulare dalla mano e se lo portò all'orecchio, mettendosi
a sedere sul prato su cui eravamo sdraiati.
«Mia,
non riattaccare! Sono io! Samuele è sempre il solito... che
succede?»
«Cos'ho
fatto di male? Boh...»
«Zitto!»
sibilò Jessica, mollandomi una gomitata sulla coscia. «Cosa?
È incredibile!... senti, ci raggiungi e ne parliamo? Siamo al
parchetto... ah, va bene, ti aspettiamo!» concluse, per poi
chiudere la telefonata e lanciare il mio telefono sul prato.
«Sei
una criminale» commentai, osservandola senza scompormi.
«E
tu un insensibile» ribatté, poi si sdraiò
nuovamente accanto a me e rivolse lo sguardo al cielo che ci
sovrastava. Il tramonto era ormai vicino, tutto cominciava pian piano
a tingersi di rosa. Era uno dei momenti che preferivo, lo vedevo come
un momento di passaggio tra due mondi ben diversi.
Strinsi
nuovamente Jessica e me e cominciai a baciarla sulle labbra, sul viso
e sul collo. Stare con lei rischiava di togliermi ogni volta le
facoltà mentali e le inibizioni, dovevo stare attento a non
esagerare. Uscivamo insieme da poco tempo e per me era ancora
incredibile che ciò fosse davvero accaduto. Forse era un
pensiero scontato, ma non riuscivo ancora a realizzare del tutto
quella condizione.
«Se
arriva... Mia...» provò a dire Jessica, ma si fermò
non appena le mie mani si posarono sui suoi fianchi e cominciarono a
solleticarli. Allora cominciò a ridere e mi spinse via,
dibattendosi a causa del solletico.
«Non
gridare, penseranno che io ti stia facendo del male!» scherzai,
senza fermarmi. Adoravo sentire la sua risata, la sua voce
solitamente bassa farsi acuta e quasi stridula, in maniera
infinitamente adorabile.
«Sei
uno stupido, Samuele! Levati!» si rivoltò, spingendomi
lontano e rotolando su un fianco, per poi ricadere bocconi sul prato
verde e leggermente umido.
«Acida.
Per Natale ti regalerò due chili di limoni e due dozzine di
yogurt scaduti» la punzecchiai, tornando a fissare il cielo.
Stava diventando rosso fuoco a ovest, mentre il sole sprofondava pian
piano nell'orizzonte irraggiungibile.
Un
brivido mi percorse tutto il corpo e cercai di calmarmi.
Quell'atmosfera e la vicinanza di Jessica erano per me la perfezione,
momenti come quelli non capitavano spesso: quel giorno c'era qualcosa
di magico nell'aria. Così, desiderai che Mia arrivasse il più
tardi possibile.
Ma
subito me ne pentii, ricordando il tono di voce con cui aveva parlato
al telefono. A me le cose stavano andando bene ora, ma era anche
grazie a Mia che mi ero risollevato: era stata lei ad invitarmi al
compleanno di Jessica, quando stavo male per l'allontanamento da
Julieta; così avevo conosciuto la ragazza che stava ora al mio
fianco e sapevo inoltre che era sempre stato merito di Mia e
Francesco se la verità su Carlo e Julieta era venuta a galla.
Adesso
che lei aveva bisogno di me, non potevo – né volevo –
tirarmi indietro.
Sobbalzai
quando udì la voce di Mia: «Ciao ragazzi, scusate se vi
disturbo».
Mi
sollevai e mi misi a sedere, appena in tempo per notare la mia amica
afflosciarsi a terra e scoppiare a piangere.
*
* *
«Mia!»
esclamai, avvicinandomi a lei e circondandole le spalle con un
braccio.
Samuele,
lì accanto, era scioccato. Forse solo in quel momento si era
reso conto di quanto fosse grave la situazione. Mia era una ragazza
che difficilmente si lasciava abbattere dalle avversità, se
era corsa da me e Samuele doveva sicuramente essere capitato qualcosa
di grave con Francesco.
«Scusatemi
ragazzi, so che mi odiate, ma... non ce la faccio...»
singhiozzò portandosi le mani al viso per coprirlo.
«Ma
non dire cazzate!» sbottò Samuele. Poi si avvicinò
e la scosse per le spalle, obbligandola a guardarlo in viso. «Noi
non ti odiamo affatto! Poi è il minimo che possiamo fare per
te» aggiunse poi, mormorando le ultime parole.
«Samu,
che dici? Non pensarci neanche! Quando posso essere utile, non lo
faccio per avere qualcosa in cambio» protestò Mia.
«Neanche
io» replicò lui con fermezza.
La
nostra amica continuò a piangere e dopo pochi minuti riuscì
a calmarsi, facendo dei grossi sospiri.
Frugai
nella mia borsa e le porsi un fazzoletto di carta affinché si
asciugasse il viso dalle lacrime.
«Adesso
ti va di raccontarci cosa succede?» domandai, ancora
preoccupata per lei. Sentivo che lei e Francesco erano davvero fatti
per stare insieme, non volevo assolutamente che tra loro si creassero
dissapori per chissà quale malinteso.
Mia
sospirò un'ultima volta, poi disse: «Oggi dovevamo
uscire, ma poi mi ha telefonato mentre mi preparavo. Mi ha detto che
aveva un lavoro da finire e che poi deve partire con Carlo per
incontrare non so chi. Non ci vediamo da una settimana, se non di
più. Io capisco che lui abbia da fare, ma possibile che non
trovi un po' di tempo per me? Sarei anche disposta ad andare io da
lui, non c'è problema! Ho la patente, la macchina... farei
salti mortali pur di stare con lui per dieci minuti! io...».
Poi
si bloccò d'un tratto, notando che la fissavamo senza
proferire parola, profondamente toccati e commossi dalle sue parole.
Mia era davvero innamorata di Francesco, potevo dirlo con certezza;
la conoscevo da tanti anni e mai prima d'allora l'avevo vista così
determinata, mai aveva esternato con tanta sicurezza i suoi
sentimenti verso un uomo.
Io
e Samuele non sapevamo proprio cosa dirle, ci scambiammo un'occhiata
fugace e rimanemmo in silenzio. La forza delle sue parole e il
trasporto con cui le aveva pronunciate mi avevano letteralmente
spiazzato e lasciato senza parole.
«Che
c'è? Cos'ho detto?» domandò lei con aria
interrogativa.
Sul
viso di Samuele si espanse un meraviglioso sorriso, così si
allungò verso Mia e le diede un buffetto sulla guancia.
«Sei
tenera» ammisi a mia volta, annuendo come per dare il giusto
peso alle mie parole.
Mia
si ritrasse e scoppiò finalmente a ridere, arrossendo
violentemente e scuotendo il capo.
«Non
ci credo! Io vi confido i miei problemi e voi che fate? Vi prendete
gioco di me!»
«Ma
smettila, sei cretina eh! Noi siamo sinceri! Francesco è
proprio fortunato ad averti al suo fianco. Però, cerca di
capirlo, sai com'è fatto... no?» commentò Samuele
incrociando le braccia sul petto. «Lui ti ama, è logico.
Cercate di chiarirvi e non combinate casini» aggiunse con tono
severo e serissimo.
«Ma
guardati, che faccia hai!» lo schernii, indicandolo.
«Vero,
è serissimo!» aggiunse Mia.
Poi
scoppiammo tutti e tre a ridere e ci scambiammo un abbraccio
collettivo, come tre perfetti idioti. Ci volevamo un bene immenso.
*
* *
Ero
incazzato nero.
Non
avevo nessuna voglia di partire, l'unica cosa che mi tormentava era
il viso di Mia e il pensiero di non potermi dedicare a lei come avrei
voluto. Se fosse stato per me, avrei trascorso tutto il mio tempo con
lei, a fare qualunque cosa – o semplicemente a non far nulla.
Tutto pur di averla vicina e stringerla tra le braccia.
Invece
stavo ancora finendo di mixare e sistemare alcuni pezzi per un album
che doveva uscire il prima possibile, sostituendo quel cretino di
Fabiano che quel giorno non si era presentato in studio perché
stava smaltendo una sbornia colossale.
Mio
fratello era bravissimo nel suo lavoro, però certe volte lo
prendeva poco sul serio e questo mi faceva imbestialire. Io cercavo
di dare sempre il massimo per i nostri clienti, lo facevo anche nella
vita di tutti i giorni e cercavo sempre di incastrare tutti gli
impegni e appuntamenti, ritagliando il tempo per me e per la mia
ragazza.
Mi
mancava terribilmente, Mia. Mi sembrava quasi d'impazzire, ma la
voglia di vederla faceva sì che mi concentrassi ancora più
a fondo in quello che stavo facendo. Dovevo assolutamente finire al
più presto e trovare il tempo di farle una sorpresa prima di
partire con quel troglodita di Carlo.
Lui
mi faceva veramente schifo, dopo tutto il casino che aveva messo su
con Julieta. Inoltre, era venuto a piagnucolare in studio perché
non sapeva come dire a sua moglie che la sua amante era rimasta
incinta di lui. Fortunatamente quella ragazza aveva fatto almeno una
cosa giusta, ovvero interrompere quella gravidanza che non avrebbe
avuto nessun futuro piacevole per il piccolo ed innocente bambino.
Ero
contento che Samuele non stesse più con lei, Jessica era
sicuramente una ragazza d'oro ed era perfetta per il mio amico.
Con
quei pensieri in testa, mi resi conto con sollievo di aver ormai
finito tutto ciò che dovevo fare. Finalmente potevo fuggire
dallo studio e correre a salutare Mia.
Guardai
l'orologio sullo schermo del cellulare: avevo ancora tre quarti d'ora
prima di incontrarmi con Carlo.
Mia
non era in casa. Non riuscivo proprio a credere di aver fatto quel
viaggio a vuoto; tra l'altro, stavo rischiando di arrivare in ritardo
all'appuntamento con Carlo, ma del resto in genere era lui ad essere
l'ultimo a presentarsi quando dovevamo vederci.
Preoccupato,
tornai a sedermi in macchina dopo aver suonato due volte il
campanello. Effettivamente, avevo dato un po' troppe cose per
scontate. Magari era uscita con Jessica o aveva accompagnato Sara da
qualche parte, oppure stava aiutando i suoi genitori a fare qualcosa
che non sapevo. Sospirando, mi resi conto che, ovviamente, io le
avevo dato buca e lei aveva cercato qualcos'altro da fare durante
quell'afoso pomeriggio estivo.
Stavo
per mettere in moto e andare via, quando notai una figura avanzare
nella strada di casa sua. Riconobbi subito Mia che camminava
accaldata sull'asfalto bollente, nonostante il sole fosse ormai
tramontato da diversi minuti.
Emozionato
e in preda ad un senso di sollievo non indifferente, mi precipitai
fuori dall'auto e presi a correre come un pazzo verso di lei.
Inizialmente
parve non accorgersi di me, era concentrata sui suoi passi, ma
qualcosa fece sì che sollevasse il viso di scatto, come se
avesse avvertito la presenza di qualcuno che si dirigeva con impeto
nella sua direzione.
Le
sue labbra, quando la guardai per la prima volta, erano increspate in
un triste e appena accennato sorriso; non appena mi riconobbe,
tuttavia, la sua espressione cambiò in un secondo e all'ultimo
momento allargò le braccia e mi accolse in un forte abbraccio.
La strinsi a me con impeto, affondando il viso tra i suoi capelli
scompigliati.
Eravamo
entrambi sudati e accaldati, ma in quel momento non ci importava,
volevamo solo goderci quei preziosi attimi insieme.
Quando
scostai Mia da me per poterla osservare meglio, stavamo entrambi
ansimando, come se avessimo appena partecipato ad una maratona. Fui
colpito dal suo viso stravolto, gli occhi arrossati riflettevano
qualcosa di malinconico che non mi piacque affatto.
«Mia,
cos'è successo? Perché hai pianto?» domandai,
accarezzandole le guance su cui la luce dei lampioni lasciò
intravedere le tracce di recenti lacrime.
«Sciocchezze,
niente di importante» si affrettò a replicare, scostando
lo sguardo dal mio.
Scrollai
il capo e la costrinsi a guardarmi dritto negli occhi, sicuro che mi
stesse mentendo. Avevo un brutto presentimento in merito, ma evitai
di fare congetture prima che fosse lei a confessarmi la verità.
«Fra,
non è successo niente!»
«Non
dire cazzate, sai che puoi parlarmene, non sopporto di vederti triste
e non sapere perché» replicai serio.
Mia
rimase per un attimo in silenzio, fissandomi negli occhi, poi scosse
leggermente il capo e disse: «Mi sentivo trascurata da te, ma
ora ho capito che... ho parlato con Jess e Samu, sono una stupida!
Perdonami!».
*
* *
Avevo
appena fatto la figura della cretina con Francesco. Certo, non mi ero
aspettata di trovarlo fuori da casa mia quella sera, ma in quel
momento avrei potuto mentire meglio. Lui mi aveva scoperto subito e
ora mi fissava con un misto di rammarico e delusione nei profondi
occhi scuri. Mi sentii uno schifo.
«Hai
ragione, non sono abbastanza attento a te» mormorò
Francesco, reclinando leggermente il capo con aria afflitta.
Avevo
sbagliato decisamente tutto. Non avrei mai voluto farlo sentire in
colpa, merda! Non sapevo come rimediare, come tirarmi fuori da quella
situazione e come fargli capire che ormai non pensavo più le
parole che avevo appena pronunciato. Lui mi aveva fatto una sorpresa
bellissima presentandosi a casa mia in quel momento. E io come lo
ripagavo? Con l'ingratitudine di una stupida ragazzina!
Presi
il suo bel viso tra le mani e lo accarezzai delicatamente, non
sapendo cos'altro fare. Poi presi a balbettare: «Adesso non
conta più... Fra, ascolta... non ci penso più, tu sei
meraviglioso... sei qui e... perdonami, io...».
«Sono
qui perché mi rendo conto che ti stavo trascurando per colpa
del mio lavoro, di mio fratello che è un coglione, di Carlo
che...»
«Basta
così, lascia stare! Sono stata avventata, i ragazzi mi hanno
fatto capire che sono una deficiente, ma tu sei qui e non hai fatto
niente di male!» lo interruppi, per poi gettargli le braccia al
collo e baciarlo con impeto. Non ne potevo più di tutto quel
blaterare a vanvera, se avessi continuato a parlare non avrei fatto
altro che peggiorare le cose, ne ero certa.
Rimanemmo
abbracciati e uniti in quel bacio per qualche istante, mentre io
intrecciavo le mani tra i suoi dreadlocks lunghi e ruvidi come la
lana lavorata a mano. Amavo toccarli e sapere che un po' mi
appartenevano, solo un po'.
«Purtroppo
non posso restare con te, so che mi odierai, ma...» mormorò
con la fronte premuta contro la mia.
«Non
potrei odiarti neanche se lo volessi» risi, scompigliandogli la
folta chioma.
«Spiritosa,
in fondo mi detesti e non vuoi dirmelo. Del resto, devo lasciarti per
andare da Carlo, è un'offesa abbastanza grave!»
«Ma
stai zitto» conclusi e lo baciai ancora, con una mano tra i
suoi capelli e una sulla sua schiena sudata che aveva inzuppato
completamente la t-shirt. Quel contatto aumentò ancor più
il mio desiderio nei suoi confronti e di riflesso mi strofinai contro
il suo bacino, sapendo che probabilmente non avevamo tempo per
abbandonarci al piacere fisico.
«Anch'io
vorrei, Mia» sussurrò, mordicchiandomi l'orecchio.
Sospirando profondamente, si scostò da me e mi baciò
per l'ultima volta, con lentezza e sensualità.
Mentre
osservavo la sua auto allontanarsi, mi sentii talmente frustrata e
felice che non seppi se ascoltare l'una o l'altra emozione, così
scoppiai a piangere con il sorriso sulle labbra.
*
* *
«Le
mie amiche? Quali amiche?» sbottai, lanciando un'occhiata a
Stefano che sedeva accanto a me sulla panchina.
«Cosa
significa quali amiche?» domandò confuso.
«Sai,
bello mio, io sono una persona socialmente inetta, ho solo mia
sorella come amica» spiegai con una certa acidità. Non
avrei voluto dare quel tono alla mia voce, ma mi venne spontaneo.
Quando sarei riuscita ad essere carina con lui? Più le persone
mi amavano, più tendevo ad allontanarle da me.
«Non
dire così» mormorò Stefano, afferrando la mia
mano all'improvviso. La strinse forte e io rimasi immobile, senza
fiato.
«Dovrei
mentire?» chiesi infine, cercando di divincolarmi dalla sua
presa per poter incrociare le braccia al petto.
Senza
lasciarmi andare, replicò: «No, ma io non posso credere
che sia così».
«Sono
acida, no? Non sorprenderti.»
«Sara,
smettila.»
Il
fatto che Stefano fosse così ottimista nei miei confronti non
poteva negare la mia natura; in realtà non avrei voluto essere
così, mi odiavo per questo, ma non ero in grado di cambiare le
cose. Non sapevo come fare e come comportarmi.
«Vorrei,
ma non posso» ammisi leggermente incerta sulle mie parole.
«Senti,
non c'è niente di impossibile. Se me lo permetti, potrei
aiutarti io.»
Strabuzzai
gli occhi e mi voltai di scatto a fissarlo. «Mi aiuteresti a
fare amicizia? Cosa sei, il mio educatore?!» sbottai,
scoppiando a ridere. Tuttavia, avvertii un sapore amaro in bocca e
capii che, sicuramente, avevo ancora una volta ferito Stefano con il
mio modo di fare.
«No,
be'... però...» farfugliò, abbassando lo sguardo
e lasciando andare la mia mano.
Incrociai
le braccia al petto e mi appoggiai nuovamente sullo schienale della
panchina, costruendo un muro di silenzio senza conoscerne neanche il
motivo.
Tutto
era cominciato quando Stefano mi aveva chiesto se volessi organizzare
un'uscita con le mie amiche, perché gli avrebbe fatto molto
piacere conoscerle. Allora mi ero incazzata, reazione da brava
adolescente in preda ad una ipotetica crisi premestruale, e tutto
senza avere un fottuto motivo per farlo. Se c'era qualcuno contro cui
potevo prendermela, ero solo e soltanto io.
Presi
ad osservare il profilo di Stefano che si stagliava contro il
tramonto che ci sovrasta e tinge il cielo di molteplici sfumature di
rosso e arancione. Era veramente un bel ragazzo, ma la cosa più
importante era il suo carattere, sempre mite e dolce nei confronti di
una pazza furiosa come me. Se avessi avuto a che fare con chiunque
altro, mi avrebbe spedito fin da subito al diavolo –
giustamente.
Ma
non lui, non Stefano. Lui mi sopportava, mi voleva realmente bene e
faceva di tutto per dimostrarmelo, mentre io mi comportavo
continuamente da ingrata.
Allungai
una mano e la posai sul suo braccio, lui sussultò leggermente
e si voltò lentamente a guardarmi.
«Sono
una merda, lo so. Non so come fai a sopportarmi» borbottai in
preda all'imbarazzo.
«Perché
sei convinta di tutte queste stronzate?» si inalberò
subito, scostando bruscamente la mia mano dal suo braccio. Si alzò
e rimase immobile, portandosi le mani tra i capelli come se non
sapesse che pesci pigliare.
«Sei
arrabbiato?»
«Sì,
cazzo. Non so perché ti sottovaluti così tanto, Sara!
Non hai niente che non vada, perché non lo capisci? Devi
smetterla di autocommiserarti e cominciare a reagire!» sbraitò,
per poi afferrarmi saldamente il polso e costringendomi a sollevarmi
a mia volta dalla panchina.
Mi
ritrovai a barcollare di fronte a lui con il polso dolorante, conscia
di aver messo eccessivamente alla prova la sua pazienza.
«La
vuoi capire che sei speciale?» gridò ancora,
colpendomi con quelle parole come se mi avesse mollato un ceffone.
Mi
ritrovai a tremare per la consapevolezza dei sentimenti che Stefano
provava per me e per il fatto che fossi una persona orribile. Sì,
lo ero perché continuavo a maltrattarlo mentre lui faceva di
tutto per essere dolce e comprensivo con me. Sì, ero una
ragazzina immatura che si atteggiava a donna, convinta di aver capito
tutto della vita. Patetica.
«Ste...»
«Cosa
c'è ancora? Vuoi dirmi ancora una delle tue stupidaggini? Mi
stai facendo seriamente incazzare!»
«Scusa,
hai ragione.»
*
* *
Sorpreso,
guardai Sara negli occhi e trovai il suo viso stravolto da una marea
di emozioni negative. Era triste, delusa e confusa.
«Non
fare così, però» mormorai.
«Sai...
voglio il tuo aiuto, credo di averne veramente bisogno» ammise,
lasciandosi cadere sulla panchina alle sue spalle. Abbandonò
le mani in grembo e smise di guardarmi, mentre lacrime silenziose le
solcavano il viso.
Non
potendo sopportare di vederla in quelle condizioni, mi inginocchiai
di fronte a lei e la presi tra le braccia, cullandola in silenzio per
cercare di calmarla.
Era
difficile che lei mostrasse le sue emozioni, non le piaceva affatto
farlo e pensava che non fosse proprio il caso di farsi vedere
vulnerabile di fronte agli altri. Ma ora io ero il suo ragazzo e
volevo che si lasciasse andare con me, che si lasciasse conoscere e
smettesse di erigere quelle barriere stupide e inutile. Sentirla così
distante, sapere che soffrire e non poterla aiutare mi faceva sentire
inutile e impotente.
«Stai
tranquilla piccola, vedrai che andrà tutto bene. Sai cosa
facciamo? Organizziamo una bella giornata al mare tutti insieme! Cosa
ne dici?» domandai preso da un improvviso impeto, scostando
Sara da me per poter scorgere la sua reazione.
«Sarebbe
bello» sussurrò, continuando ad evitare il mio sguardo.
«Ascolta,
invitiamo anche Mia e Francesco, Samu e Jessica... invitiamo chi vuoi
tu, ma ti prego... ti prego, smetti di essere triste e
lasciati amare» la supplicai, accarezzando le sue mani con
delicatezza.
Sara
sollevò di scatto il capo e sorrise con riconoscenza,
lasciando che la malinconia e i brutti pensieri abbandonassero la sua
mente e i lineamenti del suo giovane viso. La trovai bellissima, più
bella del solito, sotto i raggi del sole che ormai stentavano a
resistere contro l'oscurità imminente.
«Va
bene. Ste, hai ragione, ho sbagliato tutto anche stavolta, sono un
disastro» si schernì, per poi scoppiare a ridere.
«I
disastri non sono irreparabili, bisogna solo avere un po' di
pazienza.»
«E
tu ne hai fin troppa con me.»
Mi
accostai a lei e le lasciai un bacio a fior di labbra, poi risposi:
«Per te farei questo e altro, mi hai rubato il cuore».
Sara
sussultò impercettibilmente a quelle parole, tuttavia il suo
sorriso non fece che allargarsi e conferirle un'aria decisamente più
rilassata.
Dopo
avermi scompigliato i capelli, affermò: «Andiamo, voglio
sapere cosa pensano gli altri della tua idea! È da parecchio
che non vado al mare!».
Ci
alzammo e ci incamminammo verso casa sua mano nella mano.
*
* *
«Mare»
borbottai, fissando lo schermo del mio cellulare.
Non
andavo matta per il mare, non era uno degli ambienti che avrei
visitato volentieri in quel momento, con quel caldo; avrei piuttosto
optato per una bella gita in montagna o in mezzo ad una bella e
grande pineta. Mi ispirava tantissimo l'idea di stare immersa nella
natura, circondata da alberi, cespugli e sommersa dal verde e
sovrastata dal cielo appena visibile attraverso le chiome degli
alberi.
E
invece Mia mi aveva invitato al mare. Eppure mi conosceva,
dannazione!
Sbuffando,
lessi il resto del messaggio: era stata un'idea di Stefano per far sì
che Sara si svagasse un po'. Mi dispiaceva per la sorella di Mia, ma
non riuscivo proprio a mettermi in testa di dovermi mettere in bikini
a prendere il sole. Non faceva proprio per me.
Come
se mi leggesse nella mente a distanza, ricevetti un altro messaggio
dalla mia amica: Non fare la guastafeste e vieni con noi, Samu ha
già accettato! ;)
Nel leggere il nome del
ragazzo con cui stavo uscendo ebbi un leggero sussulto all'altezza
del petto e poi avvertii il mio cuore battere all'impazzata al suo
interno. Mi domandai pigramente se prima o poi mi sarei mai abituata
a tutte quelle sensazioni, se mi sarei mai abituata a lui.
Mi ritrovai a pensare che
se Samuele mi avesse visto con le sopracciglia aggrottate a fissare
il cellulare, sicuramente mi avrebbe dato di gomito e mi avrebbe
incitato ad accettare l'invito senza fare tante storie.
Forse aveva ragione lui,
forse aveva ragione Mia, forse avevano ragione tutti.
Così decisi di
accettare e risposi a Mia in maniera affermativa, evitando di esporle
le mie perplessità.
Sarebbe stata una
giornata lunga, ma probabilmente mi sarei divertita e trovata bene.
E questo sarebbe stato
possibile grazie alle persone più improbabili e fantastiche
che conoscessi e potessi desiderare.
«Un'estate
al mare, voglia di remare... fare il bagno al largo, per vedere da
lontano gli ombrelloni-oni-oni...»
«Mia?!
Oddio, stai impazzendo!» esclamai, lasciandomi andare ad un
sospiro.
«Scusa,
solo perché tu sei sempre seria... poi ora mi è entrata
in testa questa canzone» si giustificò mia sorella,
lanciandomi un'occhiataccia.
Eravamo
in macchina, diretti al mare. Io, Jessica e lei alla guida. I ragazzi
ci precedevano in macchina di Stefano, in sei non potevamo viaggiare
tutti insieme.
«Che
bella canzone, proprio...»
«Ecco,
Jessica ha ragione! Mettete musica, dai!» proposi, sperando che
così Mia si distraesse da quel ritornello irritante.
Mia
sorella accese la radio e subito fui contenta che fosse sintonizzata
su Virgin Radio. Cambiai idea quando sentii che stavano trasmettendo
una canzone di Ligabue.
«Oggi
la musica è contro di noi» mi lamentai.
«Oddio,
questa poi... spero che Fra abbia portato la chitarra per suonare in
spiaggia» borbottò Mia, cominciando a cercare qualcosa
di meglio da ascoltare.
Alla
fine ci ritrovammo a canticchiare tutte e tre una vecchia canzone dei
Depeche Mode, almeno si trattava di qualcosa di decente!
In
poco tempo raggiungemmo la spiaggia e io stavo già morendo di
caldo. Avevo proprio voglia di buttarmi in acqua e rimanerci per il
maggior tempo possibile, quello era l'unico vero motivo per cui
andavo volentieri al mare.
Una
volta parcheggiate le auto, Stefano mi venne incontro e mi baciò
sulla fronte, poi sussurrò: «Ci divertiremo, non
preoccuparti». Poi mi sorrise con dolcezza e io temetti di
sciogliermi per l'emozione.
Ci
mettemmo tutti all'opera per scaricare i bagagli e pochi minuti dopo
ci sistemammo in un punto abbastanza isolato della spiaggia.
«Avevo
ragione, raga! Venire al mare entro settimana è il top!»
commentò Samuele, gettando via la maglietta come se non ci
fosse un domani.
«Caldo,
Samu?» scherzai, osservando i suoi occhiali a specchio colorati
e i dreadlocks acconciati in maniera indescrivibile sulla testa.
«Eh,
abbastanza. Chi viene in acqua?» saltò su il ragazzo,
entusiasta come un bambino.
Mi
liberai del vestitino e delle infradito e mi piazzai accanto a lui,
esclamando: «Io sono pronta!».
Francesco
non se lo fece ripetere due volte e gridò: «Allora, chi
ci ama ci segua!».
«In
teoria bisogna piantare gli ombrelloni» si lamentò Mia,
guardandoci storto.
Allora
io, Francesco e Samuele ci scambiammo uno sguardo complice, poi
partimmo verso la riva e, senza pensarci due volte, ci tuffammo
subito in acqua. L'impatto con l'acqua fredda mi scosse tutta, ma
presto mi ci abituai e cominciai a sguazzare beata insieme ai due
ragazzi.
Mi
divertii un sacco a schizzare Francesco, mentre lui mi inseguiva
fingendo di essere arrabbiato con me.
Quella
giornata si stava rivelando meravigliosa, proprio come Stefano aveva
predetto.
*
* *
«Dai,
Jess, andiamo!»
«Ma
se non so nuotare, cosa ci faccio?»
«Ma
fregatene, rimani in riva, ti siedi e ti bagni un po'... altrimenti
muori di caldo se resti qui!» cercai di convincere la mia
amica, mentre la osservavo togliersi fin troppo lentamente i vestiti.
Non amava abbronzarsi e non amava il mare, ma stare a cuocere sotto
l'ombrellone in una sorta di effetto serra non le avrebbe giovato
affatto. Per quanto mi riguardava, non mi interessava abbronzarmi, ma
solo farmi un bel bagno. Io e Sara avevamo lo stesso concetto di
mare, almeno su una cosa eravamo d'accordo.
«Ma
sì, un bagno ci vuole. Non stiamo facendo nessuna gara,
Jessica, e promettiamo di non schizzarti» la incitò
Stefano, dopo aver finito di piantare l'ultimo dei tre ombrelloni.
«Mmh...
andiamo, dai. Però siate clementi con me» cedette
Jessica infine.
Ci
dirigemmo verso la riva, raggiungendo gli altri. Mi fermai un attimo
nel vedere il mio Francesco riemergere dall'acqua, fu una visione
quasi celestiale: era bellissimo, con tutte quelle goccioline che
luccicavano sulla sua pelle non troppo abbronzata, il viso
meraviglioso e sorridente, i dread che gli ricadevano sulla schiena
bagnati fradici e qualche tatuaggio in bella mostra sulle braccia.
Incrociò il mio sguardo per un attimo, poi si gettò
all'inseguimento di Sara che, nel frattempo, l'aveva schizzato
abbondantemente.
«Ragazzi,
me ne vado se mi schizzate!» squittì Jessica,
cominciando a tremare non appena toccò l'acqua con i piedi.
«Non
fate gli scemi che Jess non sa nuotare!» concordai,
allontanandomi da lei per potermi tuffare senza bagnarla.
L'acqua
non era molto fredda, decisi di gettarmi subito perché stavo
morendo di caldo e sarebbe stato peggio se avessi aspettato.
Poco
dopo mi sentii tirare per una caviglia e, voltandomi, notai Samuele
che se la rideva dopo avermi importunato.
Scoppiai
a ridere e lo osservai mentre raggiungeva Jessica. Tentò di
convincerla ad entrare in acqua con lui, promettendole che non
l'avrebbe fatta affogare.
«Sei
con me, cosa vuoi che ti succeda? Sono un nuotatore nato!» lo
sentii dire.
«Non
me la sento, poi ho freddo...»
«Dai,
per favore! Mi annoio senza di te» la implorò il
ragazzo, accarezzandole una guancia.
Inspiegabilmente,
Jessica si lasciò convincere ad avvicinarsi e ad immergersi,
anche se non faceva che stringersi convulsamente al povero Samuele.
«Mia!»
esclamò Sara. E prima che potessi reagire, mi schizzò
copiosamente. Mi tuffai subito e riemersi dopo aver fatto una
capriola.
«Ti
odio, non ci provare mai più!» gridai inviperita.
Ma
qualcuno riuscì a rendermi giustizia: Francesco afferrò
Sara di sorpresa, la sollevo e la gettò in acqua prima che lei
potesse accorgersi di qualcosa. La poveretta non fece neanche in
tempo a tapparsi il naso e riemerse in preda alla tosse.
«Grazie
Fra, così impara» esclamai, contenta e soddisfatta.
«Almeno ho un ragazzo che mi difende!»
«Uffa»
si lagnò mia sorella, che poi si voltò e raggiunse
Stefano, cercando un qualche conforto in lui.
«Siamo
terribili» commentò Francesco, raggiungendomi. Mi lasciò
un bacio a fior di labbra e mi posò le mani sui fianchi.
«Se
lo merita!» ridacchiai, abbracciandolo.
C'erano
dei momenti in cui sarei voluta essere sola con lui, ma sapevo che
ciò non poteva accadere in quel momento. Da quando io e lui
avevamo fatto l'amore per la prima volta, sembrava essere cambiato
qualcosa.
Ci
avvicinammo agli altri e continuammo a chiacchierare e giocare in
acqua.
«Io
ho fame, usciamo?» propose Samuele, massaggiandosi lo stomaco.
«E
te pareva!» scherzò Stefano, dandogli di gomito.
«Ha
ragione però, anche io ho fame!» concordò
Jessica, stringendosi di più al ragazzo.
«Secondo
me Jessica non vede l'ora di uscire perché ha paura» la
schernì Francesco.
«Sei
prevedibile Jess!» concordai.
«Smettetela
di prendermi per il culo!»
«Scusate,
ma poi quando usciamo come facciamo ad asciugarci?» se ne uscì
Sara, con un'espressione inebetita.
«Ma
che domande fai?!» sbottai.
«Sai,
potremmo optare per il telo da mare o per un'abbronzatura integrale»
commentò Francesco, scompigliandole i capelli in maniera
affettuosa.
«Uffa,
piantantela! Vi odio!»
«Basta,
usciamo!» concluse Stefano, afferrando Sara per la mano e
trascinandola verso gli ombrelloni.
Tutti
li seguimmo e cominciammo ad asciugarci prima di pranzo. Era quasi
l'una e anche il mio stomaco, in effetti, stava cominciando a
brontolare.
*
* *
Dopo
aver divorato i nostri panini – li avevo preparati io e tutti
si erano dovuti adattare ai miei gusti vegetariani – ci
mettemmo a fare cruciverba sotto l'ombrellone.
«Io
comunque avrei preferito un bel panino con mortadella» si lagnò
Samuele, mollandomi un calcio sul polpaccio.
«Vorrei
non vomitare, sai? Ringrazia che hai pure pranzato!» ribattei,
infilando gli occhiali da vista. Non riuscivo a leggere le
definizioni senza una correzione.
«Samu,
ma povero Fra! Si è impegnato molto per noi! Quel panino con
le verdure grigliate era un amore.»
«Grazie
Jessica!»
«Sono
d'accordo, ti assumiamo come cuoco per ogni occasione!» scherzò
Sara, mentre Mia annuiva e mi sistemava qualche dread.
«Io
sono d'accordo con Samu» se ne uscì Stefano, per poi
tracannare un lungo sorso d'acqua.
«Ma
basta, adesso facciamo il cruciverba, altrimenti mi addormento e vi
arrangiate!» tagliai corto.
«Leggi,
leggi, vediamo se riusciamo a completarlo!» mi incoraggiò
Mia.
Dopo
una mezzora eravamo nel pallone: non riuscivamo a trovare la
soluzione alla maggior parte dei quesiti, e finimmo per metterci a
cantare canzoni stupidissime tutti insieme, mentre ridevamo come
matti.
Più
tardi tornammo in acqua e ci divertimmo come al mattino. Anche
Jessica sembrò più a suo agio ed evitò di
stritolare troppo Samuele per paura di affogare, anche se non
lasciava mai la sua mano.
Verso
le sei decidemmo di andare via e passare a prendere il gelato in un
chiosco, sulla via del ritorno.
Eravamo
sfiniti ma felici.
«Dovremmo
farlo più spesso» dissi mentre caricavamo i bagagli in
macchina.
«Che
cosa?» si informò Mia.
«Dovremmo
trascorrere giornate del genere più spesso, tutti insieme.»
«Hai
ragione!» esclamò Sara, con gli occhi rivolti al mare.
Ero certo che si fosse distratta e divertita la piccola Sara, proprio
come Stefano aveva previsto. Ero molto contenta che quei due si
fossero trovati, ero certo che si sarebbero sempre presi cura l'uno
dell'altra.
*
* *
«Allora,
vi siete divertiti?» domandò Francesco, mentre guidava.
Eravamo
appena risaliti in macchina dopo aver mangiato il gelato e io ero
soddisfatto.
«Sì,
più che altro spero che Sara si sia divertita» mormorò
Stefano, che sedeva sul sedile posteriore.
«Ma
sì, dai! Hai avuto una bella idea Ste, tranquillo» lo
rassicurò Francesco.
«Infatti»
aggiunsi.
Trascorremmo
il viaggio ad ascoltare Salmo, cosa che mi lasciò
indifferente. Non è che mi piacesse tanto, ma Francesco era
entrato in fissa e così io e Stefano lo lasciammo fare. Quella
tortura sarebbe finita, prima o poi.
Non
appena entrammo nel paese in cui abitavano le ragazze, Mia si diresse
verso casa di Jessica per accompagnarla e noi la seguimmo. Avrei
voluto che quella giornata non finisse, averla accanto a me e sentire
di poterla proteggere e rassicurare mentre tremava di paura all'idea
di affogare, era qualcosa di stranamente confortante. Questo
dimostrava quanto stesse imparando a fidarsi di me, anche se poteva
sembrare una stupidaggine.
Quando
fummo quasi arrivati, ebbi una strana sensazione alla bocca dello
stomaco e istintivamente mi sporsi in avanti, scrutando senza sapere
perché verso la macchina di Mia.
«E
quello chi è?» domandò Francesco, abbassando il
volume della musica.
«Chi?»
Poi
i miei occhi misero a fuoco una figura appoggiata al cancelletto di
casa di Jessica e la vista cominciò ad appannarsi, poi fu come
se qualcuno avesse dipinto tutto di rosso e le mani presero a
tremarmi mentre le sentivo stringersi a pugno.
Passai
accanto alla macchina delle ragazze, notando di sfuggita il corpo di
Jessica raggomitolato sul sedile posteriore. Non mi soffermai sui
suoi occhi, non avrei saputo come evitare di aprire lo sportello e
prenderla tra le braccia. Non era quello il momento.
Infatti,
proseguii per la mia strada, mentre alle mie spalle udii le proteste
di Francesco, ma erano soltanto suoni indistinti e per me non avevano
alcuna importanza, il mio obiettivo era un altro e pareva che tutto
intorno a me fosse improvvisamente inondato dal rosso del tramonto.
La
figura che stava appoggiata alla parete di casa di Jessica si staccò
improvvisamente dal muro e mi si parò di fronte, bloccandomi
il passaggio. Non era tanto più alto di me, ma in quel momento
avrei abbattuto anche un gigante con la sola forza del pensiero.
Tramavo
tutto quando lo raggiunsi e gli gridai in faccia: «Cosa cazzo
ci fai qui?».
Lui
stava sogghignando, piegò leggermente la testa di lato e mi
squadrò dall'alto in basso, incrociando le braccia sul petto.
Sembrava davvero divertirsi un mondo, il che non fece che accrescere
la mia rabbia.
«Chi
saresti, nanerottolo?» domandò con noncuranza.
Mi
venne da strozzarlo a mani nude, invece sospirai per cercare di
calmarmi e inchiodai i miei occhi ai suoi. Poi risposi: «Non
sono affari che ti riguardano, vattene di qui e lascia in pace
Jessica».
Lui
scoppiò a ridere e sciolse le braccia, grattandosi
teatralmente la nuca. Notai con disgusto che l'altra mano si era
tristemente posata sul cavallo dei suoi pantaloni.
«Non
penso proprio, sono venuto qui perché lei mi manca. L'altra
volta mi sono divertito, non era mai successo che una tipa rimanesse
così impressa nella mia mente» spiegò come se
fosse la cosa più naturale di questo mondo.
«Fossi
in te ci ripenserei» gli consigliai, mentre avvertivo una furia
rossa e densa risalirmi per lo stomaco.
«Perché
mai? Faccio come mi pare» ribatté spavaldo.
«Anch'io»
conclusi e poi partii. Scattai in avanti, sollevai fulmineo il
braccio e abbattei un pugno furioso sul suo naso. Subito
indietreggiai, notando che il sangue aveva da subito cominciato a
schizzare dalla parte lesa. Senza dargli il tempo di accorgersene,
gli sferrai un calcio nei genitali e lo osservai mentre rovinava a
terra, imprecando come un matto. Non sapeva dove portarsi le mani, il
dolore al naso era forte, ma doveva esserlo anche quello all'altezza
dell'inguine e il coglione cominciò a rotolarsi a terra,
prendendo a bestemmiare forte.
«Ma
cosa fai!» sentii gridare alle mie spalle, e poco dopo Mia mi
fu accanto. Mi afferrò per le spalle e mi scosse, guardandomi
in faccia con un'espressione profondamente preoccupata.
Solo
in quel momento mi resi conto che stavo tremando e mi abbandonai
contro il corpo della mia amica, senza spiccicare. Lei mi sostenne
con forza, mentre la sentivo parlare con Francesco e gli altri.
Stefano
ci raggiunse e mi trascinò via, sospirando. Non opposi
resistenza, del resto non avrei voluto pestare quel tipo, ma non
avevo potuto fare altrimenti. Del resto non avevo combinato poi
tanto, evidentemente quell'imbecille non si aspettava un attacco dal
nanerottolo. Mai sottovalutare il prossimo.
«Sei
un disastro, Samuele» borbottò il mio amico,
raggiungendo la macchina e facendomi riaccomodare sul posto del
passeggero.
Sara
ci venne accanto, preoccupatissima.
«Ti
sei fatto male?» domandò, scrutandomi attentamente.
Scossi
il capo con forza e chiesi: «Jess?».
«C'è
Francesco con lei. Credo...» Sara si interruppe di botto, con
lo sguardo rivolto verso quel pezzo di merda di Ignazio che si
dimenava ancora per terra. «Ehm...» aggiunse.
Qualcosa
non quadrava, perciò seguii il suo sguardo e notai la figura
di Jessica farsi avanti in quella direzione. Feci subito per alzarmi,
ma Stefano mi trattenne.
«E
sta' un po' fermo, cazzo» mi intimò.
Impotente,
seguii la scena da lontano.
*
* *
Mi
faceva schifo. Non riuscivo proprio a capire come si fosse permesso,
come avesse osato invadere i miei spazi, la mia vita, la mia privacy
in quel modo. Ci eravamo sentiti per un sacco di tempo a distanza,
avevo cercato di fargli capire quanto tenessi a lui e quanto
desiderassi incontrarlo, ma lui aveva sempre sviato l'argomento, si
era sempre tirato indietro.
E
adesso cosa pretendeva? Stavo riuscendo a passare oltre, a lasciarmi
tutto quel dolore alle spalle, e ora lui si presentava nuovamente e
faceva irruzione in quel modo? Non potevo crederci, ero veramente
allibita e indignata.
«Ben
ti sta» commentai, guardandolo malissimo. Poi gli assestai a
mia volta un calcio in mezzo alle gambe e Ignazio riprese a gridare
in maniera oscena, tanto da farmi indietreggiare di un passo. Non che
avessi paura, anzi: volevo solo preservare i miei timpani. Ormai non
temevo più niente, specialmente se si trattava di esseri
insignificanti come lui.
«Sei
una puttana, una lurida puttana... ora mi colpisci, ma il mio
cazzo...» delirava.
«Smettila
di dare spettacolo, sei ridicolo. Fosse per me te lo taglierei»
sbottai, senza che le sue parole mi scalfissero minimamente. Le sue
accuse erano infondate, non mi facevano né caldo né
freddo e mi sembrava veramente incredibile e lontano un passato in
cui avevo amato quel... quel... quel...
«Cosa
sta succedendo qui?» tuonò una voce che conoscevo fin
troppo bene.
Sollevai
lo sguardo e incrociai il viso paonazzo di mio padre, il quale era
appena uscito dal portone di casa e osservava il tutto con
espressione accigliata. Indossava una canottiera nera aderente e un
paio di bermuda grigi, aveva le braccia incrociate sul petto possente
e aveva sollevato gli occhiali da sole sulla testa rasata. Era
veramente incazzato.
«Puttana...
puttana...» continuava a gridare Ignazio, mentre provava a
rimettersi in piedi.
Indicai
quello schifoso a mio padre e lui parve capire al volo, poiché
cominciò a pestarlo e a insultarlo in tutti i modi possibili e
immaginabili.
«Cazzo,
chiamo la polizia» imprecò Francesco alle mie spalle.
Sì, era arrivato il momento di farla finita, effettivamente.
«Lascialo
stare, non ne vale la pena. Papà...» provai a dire,
accostandomi a lui.
«Ma
da dove sei venuto, eh? Ti faccio passare la voglia di vivere,
pezzente!» gridò, assestandogli un ultimo pugno sulla
faccia ormai gonfia e piena di sangue, poco prima che Francesco
arrivasse e lo trascinasse via.
«Vedi
cosa significa, Ignazio? Sei una nullità» gli sputai
addosso, poi gli diedi le spalle e mi avvicinai a Mia. Lei mi afferrò
per un braccio e mi trascinò verso Samuele, il quale si era
liberato di Stefano e si precipitò da me, per poi stringermi
possessivamente in un abbraccio.
«Samu,
non c'era bisogno» sussurrai, ricambiando il suo gesto. Era
madido di sudore e tremava come una foglia, non riuscivo a capire
perché fosse capitato tutto questo casino proprio adesso,
proprio a noi. Volevo vivere quella storia con Samuele, non mi
importava più niente dello squallore che avevo dovuto
sopportare a causa di quel mentecatto di Ignazio. Volevo che sparisse
per sempre dalla nostra vita.
Nascosi
il viso sulla sua spalla ed evitai che notasse i miei occhi appannati
di lacrime. Se qualcuno, solo poche settimane prima, mi avesse
preannunciato che avrei amato così intensamente quel ragazzo,
gli avrei riso in faccia senza ritegno.
*
* *
Ignazio
fu prelevato dai Carabinieri e improvvisamente tornò la
tranquillità nel nostro gruppo. Non avrei mai immaginato che
quel verme si potesse presentare in quel modo a casa della mia amica,
ero veramente stupefatta.
«Ha
più palle di quanto immaginassi» dichiarai, lanciando
un'occhiata a Francesco, il quale si stava rollando una canna e
cercava così di scaricare un po' di tensione. Non era un tipo
violento e non amava assolutamente le risse e i pestaggi, perciò
sembrava molto turbato da quanto successo poco fa.
«Eh?»
fece distrattamente, appoggiandosi meglio al cofano dell'auto.
«Non
pensavo che sarebbe mai venuto fin qui» mormorai
sovrappensiero, mentre osservavo mia sorella e Stefano conversare
concitatamente con il padre di Jessica. Quel tipo era un po' buffo,
uno dei classici spacconi che non perdono mai occasione per mettere
in mostra i propri muscoli e la loro fittizia virilità, se non
trovano situazioni in cui darsi alla pazza gioia con pugni e mazzate,
se le vanno a cercare. Non lo sopportavo tanto, ma per una volta
aveva fatto una cosa pseudo-giusta, anche se avrei preferito evitare
spargimenti di sangue e spettacoli raccapriccianti.
«L'ha
fatto, quindi lo avete sottovalutato» ribatté Francesco,
per poi accendere la sua sigaretta e impregnare l'aria di quel
profumo dolciastro e per niente fastidioso.
Lo
guardai con espressione seria, poi dissi: «Così
attirerai nuovamente gli sbirri».
«Macché»
minimizzò continuando a fumare. Notai che si rilassò
abbastanza in fretta e ne fui contenta, non volevo che stesse male
per qualcosa in cui né io né lui c'entravamo granché.
Mi dispiaceva per Jessica e per quella disavventura, ma anch'io avevo
una persona da proteggere, al mio fianco.
Quel
pensiero mi colpì piacevolmente e mi ritrovai a sorridere,
rendendomi conto che volevo davvero proteggere Francesco, tenevo
davvero a lui e non avrei mai permesso che gli capitasse qualcosa di
male, che soffrisse inutilmente e che fosse in ansia per motivi
stupidi o poco rilevanti.
«Perché
ridi?» mi sentii chiedere da Francesco.
Mi
strinsi al suo fianco e sospirai, chiudendo per un attimo gli occhi.
Non gli risposi, mi limitai a intensificare la presa su di lui, con
l'intenzione di trasmettergli quanto fosse importante per me la sua
presenza in quel momento e in ogni altro momento della mia esistenza.
*
* *
«Non
dire cazzate, secondo me ha sbagliato» sbottai, frugando in
frigorifero alla ricerca di qualcosa da mangiare.
«Ma
quando mai, sei un uomo o cosa?» mi gridò contro mio
fratello, seduto sulla sedia accanto al tavolo.
«E
smettila! Picchiare una persona non significa essere uomo»
ribattei portando fuori uno yogurt alla stracciatella. Non avevo
voglia di cenare, la giornata al mare mi aveva stancato e volevo
soltanto qualcosa di fresco che mi aiutasse a schiarirmi le idee.
Io
e Fabiano stavamo discutendo dopo che gli avevo raccontato della
rissa tra Samuele, l'ex di Jessica e suo padre. Io ero contrario alla
violenza, mentre mio fratello pensava che certe volte non si fosse
altra alternativa per far capire le cose alle persone.
«Ah
no? Scusa, e quello lì doveva stare a insultare la sua donna
mentre uno stronzo le dava della puttana? Ma non dire cazzate, Fra!
Avrei spaccato tutto, io!»
«Ma
pensa te che originalità» commentai, sospirando.
«Se
l'è cercata quel pezzo di merda» aggiunse
infervorandosi, mentre si preparava un panino con tutto ciò
che aveva trovato in frigo.
Ero
passato a casa con l'intenzione di salutare i miei, ma Fabiano mi
aveva informato che erano andati a una festa paesana e che lui era
rimasto solo. Mio fratello non usciva spesso, il che mi preoccupava
un po', ma aveva un carattere molto particolare e non era mai stato
troppo espansivo, non faceva gruppo insomma.
«Sì,
ma non c'era comunque bisogno di pestarlo. Dio, la cosa peggiore è
stato l'intervento del padre di Jessica. Certa gente mi fa pena.»
«Ha
difeso sua figlia, lo avrei fatto anche io.»
«Poteva
difenderla senza usare la violenza, Fabiano!» mi inalberai,
sbattendo il vasetto di yogurt sul tavolo.
«Col
cazzo. Tanto quello non avrebbe capito.»
Smisi
di rispondergli, non avevo voglia di discutere inutilmente: mio
fratello era cocciuto, ma non mi avrebbe mai fatto cambiare idea.
Mangiammo
in silenzio e mi resi conto che, nonostante tutto, gli volevo davvero
bene.
*
* *
«Sarà
giusto, Sara?»
«Cosa?»
mi rispose, cercando il mio sguardo.
«Tutto
questo. Abbiamo diversi anni di differenza, forse...»
«Ste!
Non dire un'altra parola» mi interruppe, posandomi due dita
sulle labbra. «Hai fatto un casino per conquistarmi, per
costringermi a uscire con te, adesso non puoi dire certe
cazzate!»
«Ma
non vorrei che tutti pensassero che...»
«E
a noi non deve interessare cosa pensano gli altri. Forse non posso
darti ciò che vuoi, non ancora, ma voglio starti
accanto. Ti libererai di me solo se non ne potrai più di
sopportarmi!» affermò, sorridendo con estrema dolcezza.
La
desideravo così tanto, eppure sapevo di dover aspettare.
Seduto in macchina con il suo corpo stretto al mio, mi sentivo
destabilizzato, ma felice. Avrei aspettato all'infinito pur di
renderla contenta, pur di essere il primo per lei anche in quel passo
così importante. Non le avrei messo pressioni, anche se
sentivo di avere dei momenti difficili, in cui mi risultava veramente
arduo resistere alla tentazione di toccarla, portare via i vestiti
che mi impedivano di accarezzarla e farla mia fino in fondo.
Però
dovevo aspettare, sarebbe stata un'esperienza ancora più bella
una volta che lei fosse stata pronta ad accogliermi e a fidarsi
completamente di me.
Mi
chinai a baciarla con trasporto, attirandola ancora più vicino
a me.
«Va
bene, mi hai convinto. E non temere, non voglio liberarmi di te.»
«Meno
male» concluse sulle mie labbra, poi si allontanò
bruscamente da me e prese a farmi il solletico.
Scoppiammo
entrambi a ridere e passammo ancora un po' di tempo in quella
perfezione, a coccolarci e a rotolarci per sfuggire l'uno al
solletico dell'altra, protetti dalla calda oscurità di quella
notte estiva.
NdA:
Cari lettori, prima di andare avanti con la lettura di questo
aggiornamento, se volete, potete dare un'occhiata allo spin off
Motherfucker,
show me your violence, poiché troverete dei riferimenti a
esso, anche se non vi anticipo nulla in proposito ^^
Per
chi invece l'ha già letto, be', spero di essere riuscita a
inserire bene ciò che intendevo!
Buona
lettura e grazie a tutti voi che ancora mi supportate/sopportate :D
Kim
♥
Ricominciare
«Non
andrai da nessuna parte» sbottò Samuele, fissandomi con
un'espressione strana sul viso.
«Dubito
che tu possa decidere per me» gli feci notare, mentre infilavo
le ultime cose nella valigia.
«Cosa
significa questo?» mi aggredì, afferrandomi per un
braccio.
Sobbalzai,
per poi spingerlo via. Lo fissai stizzita e replicai: «Significa
che ho preso la mia decisione».
«Jessica,
tu sei pazza.»
«Dici
sul serio? Sono stanca di vivere qui, di stare così male per
il mio passato, ho bisogno di riflettere e questa opportunità
lavorativa mi servirà per ritrovare me stessa.»
Lui
strinse i pugni e mi fissò con aria delusa, profondamente
addolorata.
L'estate
era ormai finita, si era consumata in maniera inesorabile e con lei
sembravano scomparire pian piano tutti gli eventi positivi che
l'avevano caratterizzata. Avevo provato a riprendermi, ma non era
stato possibile per me superare ciò che Ignazio mi aveva
fatto. Lui ormai era parte della mia vita, anche se avevo lottato con
le unghie e con i denti per buttarlo fuori; Samuele mi era stato
vicino, Mia anche, tutti erano stati carini con me, ma mi conoscevo
fin troppo bene e non potevo più mentire a me stessa e a loro.
Dovevo andarmene, ricominciare da un'altra parte, costruirmi una
nuova vita e non potevo certo obbligare le persone a me care a
mollare tutto per seguirmi.
Ci
avevo pensato molto prima di decidermi, ma inviare quella candidatura
per un lavoro in Svizzera è stato solo il primo passo; avevo
ricevuto un buon riscontro ed ero in procinto di partire, poiché
la mia domanda era stata accolta. Non ne avevo parlato con nessuno,
non prima che tutto fosse definitivo e pronto per la partenza.
Sì,
li avevo decisamente messi di fronte al fatto compiuto, ma non avrei
saputo come affrontare le loro reazioni, anche perché
sarebbero stati sicuramente in grado di farmi cambiare idea, si
sarebbero coalizzati e mi avrebbero impedito di spedire quella
candidatura.
«Non
capisco perché tutti vi sentiate in diritto di giudicare le
mie scelte, siete pesanti!» strillai in preda
all'esasperazione, poi mi precipitai ad aprire l'armadio per
recuperare degli altri vestiti.
«Non
ti rendi conto di quello che dici» mormorò Samuele.
Mi
bloccai nell'udire il tono rassegnato della sua voce, mi voltai a
guardarlo e lo trovai con lo sguardo basso e il corpo tremante.
Un
lacerante senso di colpa cominciò a impossessarsi di me e feci
istintivamente un passo verso di lui, senza però raggiungerlo.
Avevo preso la mia decisione, non potevo tornare indietro, non più.
«Jessica,
io e te stiamo insieme... stavamo insieme, cazzo. Hai deciso
da sola, non mi hai consultato. Io pensavo... quando due persone
stanno insieme...»
«Non
sopporto di rendere conto agli altri delle mie scelte. Mi fa sentire
oppressa» cercai di spiegargli, anche se avevo la netta
impressione che servisse a poco. Evidentemente avevamo una concezione
diversa della vita di coppia.
«Sei
insensibile e stronza. Dopo tutto quello che abbiamo condiviso,
dopo...»
«Basta
così. Non rendere le cose ancora più complicate, ti
prego» lo interruppi, rendendomi conto che sicuramente stavo
ferendo Samuele più di quanto intendessi. Stavo veramente
diventando insensibile? Perché ero improvvisamente scivolata
in una strana fase di apatia che mi portava a non provare nulla nei
confronti di quella situazione quasi surreale? Come ero arrivata alla
condizione di partire e lasciare tutto senza parlare con nessuna
delle persone che mi stavano care?
«Io
me ne vado. Sappi che è finita, non mi farò umiliare
ancora da te. Mi è bastato il casino con Julieta»
concluse Samuele.
E
come si era presentato a casa mia, se ne andò senza neanche
darmi modo di aggiungere qualcosa, di accompagnarlo o di spiegargli
cosa stava succedendo dentro di me.
*
* *
Un'accoppiata
strana. Non trovai altre parole per descrivere mio fratello e la sua
nuova amica.
Ero
certo che ci fosse sotto qualcosa, ma non volevo indagare troppo,
sapevo che Fabiano aveva un carattere particolare e che mi avrebbe
parlato di sua spontanea volontà non appena si fosse sentito
pronto a farlo.
Da
quando mi aveva detto di aver salvato quella ragazza dall'aggressione
di alcuni ragazzi riprovevoli, non avevamo più parlato di
loro. Comunque lui e Marika passavano tantissimo tempo insieme e lei
spesso passava in studio a trovarlo, a bordo della sua sedia a
rotelle.
Decisamente
un'accoppiata strana.
«La
smetti di fissarli? Sei proprio una pettegola!» mi
rimproverò Mia, mollandomi un pugno sul braccio. «E poi
è tardi, dobbiamo andare ad accompagnare Jess all'aeroporto»
aggiunse osservando l'orologio sul display del suo cellulare.
«Già,
povero Samu» commentai senza smettere di fissare Fabiano che
rivolgeva tutta la sua attenzione alla sua amica. Possibile che il
mio fratellino si stesse innamorando? Ne sarei stato molto felice!
«Non
parla, eh?» domandò Mia, afferrando la borsa.
«Samuele?
No, sembra stare davvero male, peggio di quando quella troia di
Julieta...»
«Non
me ne parlare, io quella la odio! Ma lei e Carlo si vedono ancora?»
«Non
lo so e, che tu ci creda o no, non mi interessa. Anche se mi accusi
di essere una pettegola, a me interessa solamente delle
persone che amo» precisai, alzandomi dal divano.
«Francesco,
sei insopportabile! Andiamo!» tagliò corto lei,
trascinandomi per un braccio. Ci trovavamo a casa dei miei genitori,
avevamo pranzato con Fabiano e Marika perché i miei erano
usciti per andare chissà dove; quei due erano sempre in giro a
visitare qualche museo o sagra paesana. Facevano bene, anch'io avrei
voluto essere così alla loro età: godersi la vita fino
in fondo era l'unico modo per non limitarsi soltanto a sopravvivere.
«Noi
andiamo» annunciai rivolgendomi a Fabiano e Marika.
«Okay,
anche Samuele?» domandò lui scrutandomi con una leggera
preoccupazione dipinta in viso.
Annuii.
«Sarà
dura, ma ha detto che vuole salutarla» ammise Mia con un
sospiro.
«Che
casino» mormorò Fabiano.
«Ragazzi,
dovrete stare vicini al vostro amico» suggerì
timidamente Marika, come se temesse di risultare fuori luogo.
«Faremo
il possibile per lui, grazie Mari e... ci vediamo presto»
replicò Mia, avvicinandosi a lei per salutarla con due baci
sulle guance.
Prima
di lasciare il salotto, notai gli occhi chiari di mio fratello
brillare mentre indugiavano sul viso di Marika.
Ridacchiai
non appena salimmo in macchina: «Si sta innamorando».
«Lo
penso anch'io» convenne Mia per poi accendere lo stereo.
Ci
attendeva un momento molto difficile.
*
* *
«Mi
mancherai Jess, lo sai vero? Non ti perdonerò mai per non
avermelo detto prima!» disse Mia abbracciando Jessica.
«Lo
so, io... solo adesso sto realizzando che... ho combinato un casino!»
replicò l'altra con una punta di disperazione nella voce.
Io
rimasi muto e impassibile, non volevo dare troppo spettacolo né
troppe soddisfazioni a Jessica. Dentro mi sentivo morire: uscivamo
insieme da poco, ma mi ero affezionato a lei più di quanto
avrei potuto immaginare. La nostra si stava trasformando in una
relazione seria, poi lei aveva deciso da sola di mandare tutto
all'aria.
Ero
deluso, arrabbiato, ma soprattutto sentivo già la sua mancanza
e questo mi lacerava terribilmente.
«Forza,
ce la puoi fare» mi sussurrò Francesco, stringendomi il
braccio. «Ora noi vi lasciamo soli» aggiunse con un
sorriso.
Non
sapevo se ridere o piangere, era una situazione decisamente di merda
e avrei voluto che Stefano fosse con me. Io e lui ci capivamo pur
senza spiccicare parola, con un'occhiata lui sapeva subito cosa mi
stava succedendo e riusciva quindi a trasmettermi calma e
tranquillità.
Tenevo
a Francesco, eravamo amici e lavoravamo spesso insieme per via della
musica, ma non era la stessa cosa.
Mia
non poteva aiutarmi più di tanto, avrebbe rischiato di
prendere le difese di Jessica o le mie, perché entrambi
eravamo suoi amici e non avrebbe mai fatto un torto a uno di noi; era
una brava persona, sapevo che mi sarebbe stata accanto. Con lei era
un po' come con Stefano e la cosa mi faceva piacere.
Mia
abbracciò ancora una volta Jessica, anche Francesco la salutò,
poi si allontanarono e ci lasciarono soli. Non sapevo cosa fare, né
cosa dire: avevo insistito per essere presente, perché non mi
era piaciuto per niente come io e Jessica ci eravamo lasciati il
giorno prima; tuttavia, come al solito, non ero bravo con le parole e
l'unica cosa che riuscii a fare fu agire.
Mi
accostai a lei e la strinsi tra le braccia, sapendo fin troppo bene
che quella sarebbe stata l'ultima volta che avrei sentito il suo
profumo così intenso e avrei avvertito il suo corpo contro il
mio.
«Avrei
dovuto dirtelo, ora lo so. La vita mi ha reso insensibile e stronza,
hai ragione tu» la sentii dire contro la mia spalla.
«Ormai
non importa» mormorai.
«Grazie
di tutto Samu, per me sei stato importante e lo sarai sempre.»
Si scostò da me e proseguì: «Anche se non sembra,
anche se... non posso più rimanere qui, spero che un giorno
potrai perdonarmi e capire».
«Non
pensarci.»
«Samu,
non posso non pensarci, sei stato ferito. Di nuovo. Da me»
gemette stringendo convulsamente la stoffa della mia maglietta.
«Già»
ammisi abbassando il capo.
Jessica
mi attirò improvvisamente a sé e mi baciò con
tenerezza. Non la respinsi, non ne fui in grado, nonostante avesse
spezzato il mio cuore. Mi ritrovai a pensare che quel dannato cuore
non si sarebbe più ricomposto, ultimamente gliene erano
capitate di tutti i colori. Tutto questo mi fece quasi ridere, ma non
lo feci.
«Stammi
bene Samu, vai avanti e dimenticami» mi suggerì
staccandosi definitivamente da me.
«Anche
tu» mi limitai a ribattere.
Mentre
la osservavo dirigersi verso il gate del suo volo, seppi con certezza
che non l'avrei mai dimenticata.
Poco
dopo, Mia e Francesco furono al mio fianco e solo in quel momento mi
resi conto che calde lacrime avevano appena tradito la mia falsa
indifferenza.
*
* *
«Cosa
ti va di fare?» chiesi spezzando il silenzio che si era creato.
Mia e Francesco se n'erano andati da qualche minuto e io non riuscivo
a smettere di guardare Marika; in genere ero sempre loquace e avevo
tanto da dire, ma con lei spesso mi capitava di perdere il coraggio,
non trovavo le parole né gli argomenti più adatti.
«Vorrei
ascoltare la tua musica» rispose lei, con un sorriso sincero e
luminoso.
«Davvero?
Potrebbe deluderti, non so se...»
«Da
quando ti conosco, Fabiano, non mi hai deluso neanche una volta.
Perché ti sottovaluti?» mi interruppe bruscamente,
accostandosi a me con la sedia a rotelle.
«Non
lo so... okay, a tuo rischio e pericolo allora!» esclamai,
alzandomi dalla sedia. Recuperai il portatile e lo collegai
all'impianto, anche se mi sentivo estremamente insicuro all'idea di
farle ascoltare quella roba.
Avevo
smesso da tempo di auto-produrmi, non mi piaceva più quello
che scrivevo, non avevo più la foga di un tempo, l'energia di
scrivere in rima ciò che pensavo; il rap era sempre la mia
passione, più di qualunque altra cosa, ma ormai preferivo
ascoltarlo piuttosto che scriverlo. Ero semplicemente arrivato alla
conclusione che il talento come produttore andava sfruttato di più
e che come cantante valevo ben poco.
«Allora,
sei pronta? Sarai sincera e mi dirai cosa pensi?» sospirai,
lanciandole una breve occhiata.
«Non
solo sincera, ma anche spietata» mi canzonò, annuendo
energicamente.
Misi
in play il primo brano e un po' mi vergognai di quel che si stava
diffondendo attraverso le casse dell'impianto; tuttavia non lo diedi
a vedere e finsi di cercare qualcosa sul computer, per evitare
accuratamente lo sguardo di Marika.
Quando
il brano finì, lei applaudì e io mi voltai finalmente a
guardarla.
«Non
prendermi in giro» sbottai.
«Senti,
a me piace, ma secondo me dovresti valorizzare la tua voce. Non è
niente male. Tutta quell'elettronica nella voce, quegli effetti...
puoi lavorarci ancora e rendere tutto migliore. Ma i testi non sono
male, quindi ti do 7 per l'impegno» annunciò con
l'ilarità dipinta sul bel viso.
«Non
sapevo di essere sotto esame.»
«Me
l'hai chiesto tu. Comunque non scherzo, la penso davvero così»
disse tornando improvvisamente seria. «Vai forte.»
«Okay...
grazie, ehm...»
«Fab,
se ci lavorerai, voglio restare aggiornata. E se mi piacerà,
be', pretenderò che tu mi passi tutti i pezzi. Ma fammi
sentire qualcos'altro, avanti!» mi incoraggiò,
portandosi una mano sull'orecchio.
Andammo
avanti così per un po': io mettevo in play, lei ascoltava in
silenzio e attentamente, poi faceva un applauso colmo di entusiasmo,
e infine passava a darmi dei consigli sinceri, rimanendo sempre
gentile ma mostrandosi schietta e senza peli sulla lingua.
Era
una ragazza a posto, una che aveva le idee chiare, una di quelle che
io consideravo donne. Mi piaceva, non faticai ad ammetterlo, però
rimasi comunque sulle mie.
Io
e Francesco eravamo stesi sul suo letto, nel suo appartamento.
Eravamo rientrati da poco dopo un giro con alcuni suoi amici,
dopodiché mi aveva chiesto di fermarmi da lui per quella
notte. Non avevo mai dormito fuori casa, non con un ragazzo almeno. I
miei non avevano fatto storie, ma era quasi certo che un po' fossero
preoccupati.
In
quel preciso momento stavo pensando a Samuele: da quando Jessica se
n'era andata, lo vedevo sempre più spento e distante.
Continuava a dedicarsi alla musica, ma di parlare con me o con
qualcun altro non ne voleva sapere, senza contare che aveva smesso
definitivamente di uscire con noi. La situazione mi dava fastidio,
perché io avevo fatto di tutto per stargli accanto da quando
ci eravamo conosciuti, però la cosa più grave era
rendersi conto che lui stava male e rifiutava di farsi aiutare,
fingendo che tutto fosse come prima.
«Samu»
mormorai, mettendomi su un fianco per osservare meglio Francesco.
«Secondo
me l'ha presa proprio male» concordò lui, carezzandomi
distrattamente un braccio.
«Cosa
possiamo fare?» gli domandai, come se sperassi che in lui
risiedesse ogni risposta ai miei cupi dubbi.
«Lasciare
che sia» rispose lui senza esitazioni.
Rimanemmo
in silenzio e io mi ritrovai stranamente d'accordo con lui. Anche se
per natura ero abituata a farmi in quattro per aiutare le persone che
amavo, in questo caso sapevo che non sarebbe servito a nulla,
semplicemente perché Samuele non voleva l'aiuto di nessuno.
Avrei potuto spronarlo all'infinito, cercare di convincerlo ad
ascoltarmi, ma la sua risalita dipendeva esclusivamente da lui e da
ciò che desiderava per il suo futuro.
«Mia,
non essere triste» sussurrò Francesco dopo un po',
prendendomi tra le braccia e cullandomi dolcemente.
Chiusi
gli occhi e abbandonai il viso contro la sua spalla, pensando a tutto
ciò che avevamo condiviso tutti insieme. Sapevo che Jessica
stava bene, che si stava abituando rapidamente alla sua nuova vita,
ma sentivo che anche per lei sarebbe stata lunga la guarigione. Sia
lei che Samuele avevano passato dei momenti davvero difficili
ultimamente e non avrei mai potuto pretendere che ne uscissero
illesi.
«Mi
sento quasi in colpa» ammisi con un sospiro.
«In
colpa?»
«Sto
così bene qui con te, sto sempre bene da quando ti ho
incontrato, noi due non abbiamo mai avuto grossi problemi. Loro
invece...»
Francesco
mi allontanò bruscamente da sé e cercò i miei
occhi, i quali erano smarriti in ricordi che parevano lontani anni
luce da quella sera di fine ottobre.
«Ascoltami
bene. Non puoi sentirti in colpa per il semplice fatto di essere
felice, non devi! Non è colpa tua se le cose non sono andate
bene tra Jess e Samu, hai capito? Forse non è colpa di
nessuno» mi rimproverò lui, sfoggiando un'espressione
talmente seria da sembrare quasi solenne.
Annuii
senza troppa convinzione, poi mi allungai verso di lui per baciarlo
sulle labbra.
«Ne
usciremo tutti più forti, Mia. Non temere» mi rassicurò
con estrema dolcezza, per poi tornare a baciarmi.
E
fu bellissimo fare l'amore con lui, fu come morire e rinascere senza
che esistesse distinzione alcuna tra le due cose, fu come ritrovarsi
finalmente a casa dopo un lungo e travagliato viaggio.
*
* *
Canta
che ti passa.
Mi
dicevano così quando ero piccolo. Ma ovviamente non potevano
sapere che le ferite del cuore e dell'anima che avrei dovuto
sopportare nel mio futuro sarebbero state così difficili e
dolorose.
Ero
in studio, dovevo registrare un singolo da far uscire in digitale e
in free download, giusto per avere un po' di pubblicità. Il
riddim era pronto, Fabiano ci aveva lavorato ed era riuscito, come al
solito, a fare qualcosa di spettacolare, rendendolo unico.
E
ora stavo lì, con il microfono in mano e non riuscivo a
concentrarmi. Avevo scritto da me il testo e lo conoscevo abbastanza
bene, eppure la mia testa era totalmente vuota.
Fabiano
sbuffò e si sporse nella mia direzione, poi domandò:
«Allora? Cos'hai?».
Spostai
per un attimo lo sguardo sul mio amico, incrociando i suoi occhi
chiari e indagatori, poi tornai a fissare il vuoto, non sapendo
minimamente cosa rispondere.
«Ce
la fai o no a cantare? Il singolo esce la settimana prossima, l'hai
annunciato. Non dimenticartelo» mi ammonì lui con
durezza, incrociando le braccia sul petto.
«Lo
so, oggi sono fuori» mi limitai a replicare.
«Non
hai il testo appresso?»
Scossi
il capo e mi ritrovai a fissare il microfono con il cuore in gola.
Avevo scritto quella canzone quando ancora una luce splendeva nella
mia vita, quando ancora credevo nel mio futuro e quando ancora ero
illuso che dopo il dolore infertomi da Julieta non potesse esserci
qualcosa di peggio, non così presto.
«Il
testo me lo ricordo» aggiunsi in tono piatto.
«Allora
andiamo?» ritentò Fabiano, pronto per andare in rec
non appena fossi stato pronto.
La
verità era una sola: avevo il terrore di provare le emozioni
che sapevo mi avrebbero invaso, non appena avessi pronunciato le
parole della mia canzone. Non sapevo come sarebbe stato, anche perché
ero un po' agitato ed emozionato per il semplice fatto di trovarmi in
studio a registrare un mio brano. A differenza di tante altre
persone, io non mi ero ancora abituato a quel magco momento in cui la
musica diventa perfezione.
«Andiamo»
sospirai.
E
la terrificante magia ebbe inizio, avvolgendomi in una spirale senza
tempo né pietà nei confronti del mio cuore martoriato.
Non
ero più lo stesso Samuele, non ero più capace di amare
con genuinità, non ero più in grado di lasciarmi andare
con il prossimo e progressivamente stavo diventando molto chiuso e
riservato; l'unico momento in cui riuscivo a espormi e dare tutto me
stesso si riduceva alla mia “carriera” musicale, per il
resto ero di pietra, di ghiaccio, di marmo.
Canta
che ti passa.
Chi
afferma ciò non ha mai conosciuto il vero dolore che solo la
musica riesce a comprendere e far affrontare, non permettendo a
nessuno di ignorarlo.
A
nessuno.
* * *
«Ho paura, Ste»
mormorai.
«Non devi, sono qui
con te.»
«Non mi lasci?»
«No, scema. Sono
qui. Allora?»
Sospirai e cercai lo
sguardo di Stefano, trovandovi sempre quell'ancora, quel porto sicuro
a cui appigliarmi nei momenti più bui. Grazie a lui stavo
crescendo, mi sentivo ogni giorno più donna, ed era una
sensazione strana e inebriante al tempo stesso.
«Devo proprio?»
mi lagnai.
«Certo che devi.
Insomma, vuoi o non vuoi fare qualcosa per te stessa?» mi
incoraggiò con un sorriso gentile.
Ci trovavamo in
biblioteca, piazzati davanti a un computer, io con le mani tremanti
sospese sulla tastiera e lui che mi cingeva la vita con un braccio.
Da un po' di tempo io e lui discutevamo sulla possibilità di
una mia iscrizione su un sito per scrittori emergenti, si chiamava
EFP. Mi era sempre piaciuto scrivere poesie a tempo perso, e un
giorno Mia aveva riesumato un mio vecchio quaderno, facendo leggere i
miei scritti a Stefano e Francesco. Io, neanche a dirlo, mi ero
sentita in profondo imbarazzo e mi ero rinchiusa in bagno per
nascondermi da qualsiasi giudizio.
Sorprendentemente, quei
due erano stati veramente entusiasti di ciò che avevano letto
e da allora Stefano si era attivato per cercare un luogo in cui
potessi pubblicare quelle che, a detta sua, erano meraviglie.
E così quel
pomeriggio mi aveva trascinato fuori di casa, annunciando che aveva
trovato una soluzione e che sua cugina gli aveva consigliato un sito
magnifico in cui era solita leggere e recensire anche lei. Avrei
potuto iscrivermi da casa, ma da sola non avevo il coraggio di farlo,
mi sembrava che stessi sbagliando tutto.
Ed eccoci qui, come due
anime nel purgatorio, in attesa di qualcosa che nessuno dei due
sapeva come sarebbe andato a finire.
«Dai! Basta un
indirizzo e-mail, un nick e una password. Se non ti fidi di me, mi
sposto e scrivi tutto da sola» riprese Stefano.
«No, ti prego!
Resta qui!» lo implorai, afferrandogli con forza la mano.
«Va bene, va bene!»
ridacchiò, baciandomi sulla guancia.
Fissai per qualche altro
attimo la schermata di registrazione di EFP, poi cominciai a
compilare i pochi campi obbligatori senza neanche accorgermene.
E la magia avvenne, senza
controllo, senza che io potessi evitarlo e senza che mi rendessi
conto di quanto stesse accadendo.
Allora Stefano mi insegnò
come fare per caricare dei file sul sito, insieme studiammo il sito
in lungo e in largo per un po' e alla fine fummo quasi cacciati dalla
biblioteca perché stavamo occupando la postazione più
del dovuto.
Quando fummo nuovamente
in strada, stavamo ridendo come due cretini.
«Non era difficile
come pensavo» ammisi saltellando come una scema lungo la via.
«Hai fatto la cosa
giusta, quando rientro a casa mi iscrivo al sito come lettore e
recensisco tutto quello che pubblichi!» finse di minacciarmi.
«Fai pure, ma non
devi essere di parte!»
«Invece sì,
perché tu sei la migliore!» affermò, attirandomi
improvvisamente a sé.
Ci ritrovammo labbra
contro labbra in un batter d'occhio, infischiandocene di trovarci
esattamente in mezzo alla strada.
Stefano mi baciò
con trasporto, poi mi sollevò da terra e mi fece volteggiare
in aria.
Scoppiammo entrambi a
ridere e io cercai di divincolarmi dalla sua presa.
«Sta arrivando una
macchina, andiamo!» gridai tra le risa.
«Sono orgoglioso di
te» mi disse Stefano, dopo avermi raggiunto sul ciglio della
strada.
«Dai, smettila,
sembri mio padre!» cercai di sdrammatizzare.
«No, sono serio. Il
tuo approdo su quel sito è solo il primo passo. Sono certo che
farai grandi cose, hai talento» proseguì serissimo.
«Sarà
difficilissimo, ma sognare non guasta!» minimizzai.
«Invece non credo
si tratti solo di un sogno. Dovrai lottare, forse affermarsi in campo
letterario non è facile, però da qualcosa bisogna pur
cominciare. È come per me alla fine. Non so se sarò mai
qualcuno nella scena reggae come dj, ma intanto faccio quello che mi
piace e me ne fotto, dando sempre il massimo.»
«Ste?»
«Eh?»
«Grazie. Senza di
te sarei persa» mormorai, profondamente commossa dalla sua
persona e dal fatto che ancora mi sopportasse.
«Non esagerare ora!
Andiamo, scrittrice, ti offro una cioccolata, ci stai?» mi
propose, prendendomi per mano e riprendendo a camminare.
Non risposi. Ero felice
e, per la prima volta, intravidi qualcosa di positivo nel mio futuro.
Forse Stefano aveva ragione: dovevo fare ciò che amavo, il
resto non contava poi tanto.
* * *
«Sai, è come
se i limiti scomparissero» sospirò Marika.
«Allora perché
non ci andiamo subito?» saltai su, afferrando d'istinto la sua
mano. Quasi mi vergognai di quel gesto avventato, rendendomi conto
che non potevo semplicemente prenderla per mano e camminare con lei
al mio fianco. Mi sentii un idiota e abbassai lo sguardo, tentando di
sottrarmi alla stretta delle sue dita.
«Smettila di fare
così, non è successo niente! Fabiano, guardami!»
mi rimproverò, strattonandomi per attirare la mia attenzione.
«Scusa... ehm,
volevo dire che possiamo andare in piscina se vuoi» balbettai.
«Non hai da
lavorare?»
«Per oggi ho già
dato. Allora?» insistetti.
«Devo passare a
casa a prendere le mie cose e...»
«Facciamo tutto.
Pronta?» tagliai corto, posizionandomi dietro la sua sedia.
«Okay, ci sto»
accettò finalmente con entusiasmo.
Dopo essere passati a
recuperare ciò che le serviva, ci avviammo chiacchierando
verso la piscina. Si trattava di un edificio abbastanza grande con
varie vasche e una piccola palestra all'interno.
«Hai problemi per
cambiarti?» domandai a Marika, una volta giunti di fronte alla
porta degli spogliatoi femminili.
«No, ma tu qui non
puoi entrare in ogni caso!» mi schernì, spingendosi
all'interno.
Mentre la aspettavo,
pensai che fosse una buona cosa il fatto che la piscina fosse
disponibile anche per delle ore di nuotata libera, senza che si
dovesse necessariamente usufruire di un istruttore.
«Eccomi!»
esclamò lei all'improvviso, distogliendomi dai miei pensieri.
La osservai e trovai che fosse molto buffa con la cuffia in testa e
gli occhialini sulla fronte, ma allo stesso tempo non potevo negare
che fosse attraente.
Distolsi lo sguardo e la
accompagnai alla vasca deserta, insistendo per darle una mano a
scendere in acqua.
Faceva un caldo bestiale
là dentro, ma quando Marika cominciò a nuotare
sinuosamente, dimenticai ogni cosa e venni completamente catturato
dai suoi movimenti; stentai a riconoscerla, era come se di fronte a
me si fosse palesata una nuova Marika, una persona completamente
diversa da quella che avevo conosciuto fino a poco prima.
Fu come una strana magia,
un momento stupendo e indimenticabile; mi pareva impossibile che in
quel corpo apparentemente fragile e debole si nascondesse tanta forza
ed energia, che quel corpo funzionante per metà potesse
sprigionare tanto fascino e tanta voglia di vivere e di non
arrendersi.
Rimasi così
stregato da Marika e dalla sua storia, comprendendo che ormai era
troppo tardi per evitare i sentimenti che in me crescevano
inesorabili.
Più
il tempo passava, più mi rendevo conto di tutti gli errori
commessi.
C'era
un pensiero assillante che non osavo condividere con nessuno, anche
se ormai non condividevo più niente con nessuno.
La
partenza di Jessica mi aveva scosso, questo non potevo negarlo; ma la
verità che non ero più in grado di reprimere era una
sola: Julieta mi mancava.
Forse
non avrei dovuto parlare così dopo tutto ciò che era
accaduto, ma una parte di me sperava stupidamente che le cose si
potessero sistemare. Ma come?
Non
riuscivo a pensare ad altro e mi ritrovai ancora una volta a comporre
un pezzo con lei come protagonista. Erano passati mesi dal giorno in
cui scoprii il suo tradimento, poi c'era stata la storia con Carlo...
eppure non ero più arrabbiato con lei.
Intavolare
una nuova relazione mi aveva fatto capire tante cose, tra cui la più
importante: non sarei mai stato felice senza Julieta.
Non
volevo essere giudicato, così ancora una volta tenni tutto per
me, facendo preoccupare Mia, Francesco e Stefano. Loro cercavano di
strapparmi una confessione, io tenevo duro e mi chiudevo a riccio.
Forse
questo mi faceva apparire un pessimo elemento ai loro occhi, ma non
riuscivo a fare altrimenti; ormai era come se i rapporti con le
persone del passato si fossero spezzati per sempre, incrinati in
maniera irreparabile.
Non
ero più quello di un tempo, di questo ero consapevole anch'io:
prima ero allegro, mi bastava poco per sorridere e per risollevarmi
da una brutta esperienza. Il Samuele di un tempo non avrebbe mai
abbandonato i suoi amici, ma soprattutto il Samuele di un tempo non
avrebbe mai pregato qualcuno di riaccoglierlo tra le sue braccia.
E
mentre, in una gelida sera di dicembre, ero appostato sotto casa di
Julieta, sperai con tutto me stesso che nessuno mi vedesse. Quella
era una cosa che dovevo affrontare per conto mio, senza farmi
influenzare dal parere altrui.
Finalmente
mi decisi a suonare il campanello, pronto a tutto pur di riprovarci.
Forse non avrebbe funzionato, ma ero stanco di vivere in un rimpianto
perenne.
Ad
aprire la porta fu il padre di Julieta; avevamo avuto pochissimi
contatti, visti i rapporti conflittuali che intercorrevano tra lui e
sua figlia, perciò dubitavo fosse a conoscenza di tutto ciò
che era accaduto tra noi.
A
confermarlo fu lo sguardo indifferente che mi rivolse, per poi
affermare: «Ti chiamo Julieta». Rientrò in casa
senza degnarmi di uno sguardo e io mi strinsi nelle spalle. Cosa me
ne fregava? Ero lì per mettermi in gioco, non avevo più
niente da perdere.
Ero
arrivato al capolinea.
*
* *
Quando
uscii dalla porta d'ingresso e vidi la figura familiare di Samuele,
il cuore accennò un balzo nel petto.
Per
un istante mi parve che il tempo non fosse passato, fu come se lui
fosse lì per uscire con me e andare a vedere uno stupido film
al cinema. Poi tornai bruscamente alla realtà e mi resi conto
che era tutto cambiato. Anche io ero cambiata.
Samuele
sgranò gli occhi, notando immediatamente il mio mutamento
fisico: avevo messo su parecchi chili e non facevo che abbuffarmi da
quando... da quando... non riuscivo neanche a dirlo a me stessa, era
troppo doloroso da ammettere, nonostante la scelta fosse stata mia e
continuassi a pensare che era la cosa migliore da fare.
Da
quando avevo ucciso il mio bambino.
Mi
imposi di mantenere la calma e ripensai alle parole che mi diceva
sempre il mio psicologo, grazie alle quali riuscivo ad andare avanti
ogni giorno, ripetendole come un mantra.
Non
hai ucciso nessuno. Non te la sentivi di essere madre, eri sola. Hai
fatto la scelta che ritenevi più giusta. Non devi sentirti in
colpa.
«Samuele»
mormorai.
«Cosa...
cosa ti è successo?» balbettò lui, continuando a
fissarmi.
Se
prima non desideravo altro che essere guardata, ora mi sottrassi ai
suoi occhi con un gesto inutile ma significativo: strinsi le braccia
intorno al corpo e gli lanciai un'occhiata colma di risentimento.
«Smettila
di fissarmi. Chiaro? Non è successo niente» sputai
irritata. «Cosa vuoi? Perché sei qui?»
Samuele
chinò il capo e sospirò. «Volevo sapere come te
la passi.»
«Avresti
potuto telefonarmi o mandarmi un messaggio.»
«No,
Juls, ascolta... io... mi dispiace. Non volevo che finisse così,
mi sono lasciato condizionare, non... okay, mi sono accorto che senza
di te... non è più lo stesso» arrancò,
torturandosi un dread con le mani tremanti.
«Ma
davvero?» lo schernii, poi scoppiai a ridere.
«Devi
credermi!» affermò, cercando il mio sguardo.
Non
riuscivo a spiegarmi come avessi potuto amarlo. Forse un tempo era
diverso, forse ero riuscita a scorgere una luce diversa dal resto del
mondo in lui; non lo sapevo, ma in quel momento mi resi conto che era
estremamente patetico e ridicolo.
«Pensi
davvero che io ti creda, Samuele?»
«Senti...
non è detto che funzionerà, però... perché
non ci riproviamo? Vuoi?» insistette, facendo un passo avanti.
Fui
quasi annebbiata dai ricordi, le immagini di quei momenti bellissimi
vissuti con lui, nonostante le mille difficoltà; poi la
durezza di tutto ciò che avevo dovuto affrontare mi riportò
bruscamente alla realtà e l'idillio venne nuovamente
sotterrato in un angolo buio e invalicabile del mio cuore infranto.
«Non
voglio.»
Due
parole possono distruggere un universo. E così fu per Samuele,
che vidi sgretolarsi davanti ai miei occhi senza provare niente, se
non una punta di compassione per quel ragazzo che ormai era soltanto
l'ombra di se stesso.
«Ma...»
«Sei
arrivato tardi. Troppo tardi. È sempre troppo tardi. La vita è
una sola» ribattei in tono piatto.
«Avremmo
potuto almeno...»
«Ti
prego di andartene. O se vuoi stare qua fuori... fa' come vuoi, io
rientro. Ciao Samuele, buona vita.»
Detto
questo, tornai in casa e mi richiusi la porta alle spalle.
La
vita è una sola.
Una lacrima solitaria mi
rigò la guancia.
L'avrei
vissuta anch'io, in un modo o nell'altro.
*
* *
Andai
a quel concerto di Capodanno solo perché Francesco voleva a
tutti i costi che fossi presente: doveva esibirsi e non sopportava
l'idea che rimanessi a casa da sola. I miei avevano un impegno con
degli amici e Sara aveva già deciso da tempo di partecipare al
concerto insieme a Stefano.
Non
ero entusiasta all'idea perché sapevo che ci sarebbe stato
anche Samuele. Non lo vedevo da tempo, più precisamente dal
giorno in cui Jessica partì. Io e Francesco ci eravamo
occupati di lui, raccogliendo i pezzi del suo cuore e rimettendoli
insieme alla meno peggio.
E
da allora non aveva più voluto avere a che fare con me. Lui e
Francesco si vedevano per lavoro, ma Samuele evitava di presentarsi
in studio di registrazione se sapeva che Francesco era presente,
lavorando prevalentemente con Fabiano.
Non
mi aveva più risposto ai messaggi e alle chiamate, su facebook
si limitava a visualizzare senza rispondere e non era servito a
niente chiedere aiuto a Stefano, poiché anche lui aveva
raccontato che Samuele era distante e non parlava più con lui
come un tempo.
Quando
entrai nel locale con Francesco, lo individuai subito: portava i
dread legati in una maniera impossibile, tutto sembrava essere come
al solito e agli occhi di un estraneo sarebbe facilmente apparso come
il solito Samuele.
Ma
io notai qualcosa nel suo atteggiamento, nel suo sguardo, nei suoi
gesti... qualcosa che non riuscii a definire, ma che mi spaventò.
Forse si trattava di freddezza, di risentimento verso il mondo
intero, di tristezza, di dolore. Probabilmente era un mix di tutte
queste emozioni negative, un mix che lo rendeva quasi
irriconoscibile.
Francesco,
dopo aver seguito il mio sguardo, mi circondò le spalle con un
braccio e sussurrò: «Lo so, è cambiato».
Poco
dopo raggiunsi mia sorella, mentre Stefano, Francesco e Samuele si
preparavano per la serata.
«Non
dovrebbe esserci anche Carlo?» mi domandò Sara.
«In
teoria sì. Si sarà perso per strada!» commentai
con disinteresse. Non riuscivo neanche a ridere di Carlo come al
solito, che diamine mi stava succedendo? Perdere un amico non è
mai facile, certo, ma non potevo farne un affare di stato. Dovevo
smetterla di preoccuparmi per qualcuno che ormai non lo meritava più.
Finalmente
Carlo arrivò e il concerto poté cominciare.
L'energia
sprigionata da tutti fu strepitosa: Samuele fu in grado di superare
se stesso, forse perché con quelle esibizioni era in grado di
sfogarsi e rendere la sua vita migliore; Francesco divenne un
tutt'uno con la musica, era talmente bravo ed emozionante che durante
un pezzo dovetti trattenere le lacrime; e Carlo, be'... lui fu
l'altra faccia della medaglia, la dimostrazione palese che la
perfezione non esiste e non è di questo mondo, l'unico
elemento che stonava in tutto quel momento idilliaco.
Durante
quella serata provai più volte ad attirare l'attenzione di
Samuele, anche quando l'esibizione si concluse e Stefano rimase in
console a selezionare un po' di musica per permettere ai presenti di
festeggiare il nuovo anno nel migliore dei modi. Provai ad
avvicinarmi diverse volte a lui, ma rinunciai non appena notai che
raggiungeva un gruppo di ragazze molto più piccole di lui e
scherzava parecchio con loro, senza più degnare nessuno di uno
sguardo.
Si
stava rifacendo una vita, e in quella vita noi non potevamo entrarci.
Eravamo
esclusi.
*
* *
Fu
complessivamente una serata molto triste.
Ci
ritrovammo io, Mia, Sara, Stefano, Fabiano e Martino, a fine serata,
un po' brilli, stanchi e sfasati, a chiacchierare nella sala fumatori
del locale che ci aveva ospitato.
Mio
fratello e Martino ci avevano raggiunto a notte fonda, reduci da una
cena con il loro gruppo di amici, i quali avevano poi optato per i
festeggiamenti in discoteca.
«Non
fa per noi» aveva asserito Fabiano, storcendo il naso.
«Marika
dove l'hai lasciata?» indagai, armeggiando con l'accendino.
«Non
te li sai proprio fare i cazzi tuoi, eh?» sbottò mio
fratello.
«Acido.
Hai le tue cose?» lo presi in giro, accendendo finalmente la
sigaretta che mi ero costruito poco prima.
«Lascialo
in pace» intervenne Mia, alzando gli occhi al cielo.
«Come
fai a sopportarlo?» le chiese Fabiano.
«Non
saprei...»
«Raga,
ma Samu? Dov'è? Volevo salutarlo!» proruppe Martino, che
era il più ubriaco di tutti e biascicava ogni volta che apriva
bocca.
Tutti
ci scambiammo occhiate incerte, e lui parve accorgersene. Infatti
aggiunse: «Ma è successo qualcosa? Perché non è
con voi?»
Nessuno
di noi rispose. Era bastato che Martino lo nominasse per farci
ricordare la situazione che si era creata tra noi e Samuele. Ormai
non voleva avere a che fare con nessuno dei suoi vecchi amici, era
come se avesse dato un taglio netto ai fili che lo legavano al
passato.
«La
sapete l'ultima?» tuonò Fabiano, stringendo il cellulare
in mano.
«No,
sentiamo» volli sapere io.
«Julieta
è diventata uno scaldabagno con i piedi!» rise,
mostrandoci una foto che l'ex di Samuele aveva caricato sul suo
profilo.
Tutti
scoppiammo a ridere per quell'appellativo, ma io tornai serio non
appena notai il cambiamento che era avvenuto in quella ragazza;
sicuramente stava soffrendo molto e forse si era pentita di aver
combinato tanti casini nei mesi passati.
«Sotto
la foto c'è scritto: La vita è una sola. Il passato
non esiste, il presente è già futuro. Si è
data alla filosofia?» ci informò Sara, per poi rendere
il cellulare a Fabiano.
«Leggi
i commenti!» suggerì Martino.
Scoprimmo
così che Samuele era andato a trovarla e le aveva chiesto di
ricominciare insieme, ma lei l'aveva rifiutato. O almeno, questo si
poté intendere dalla conversazione che Julieta aveva
intrapreso pubblicamente con una sua amica.
«Bello
sputtanare così la gente» borbottò Mia
contrariata.
«Ormai
Samu non è più lo stesso» commentò
Martino, stranamente ancora in grado di ragionare con un minimo di
lucidità.
«Ha
chiuso con noi. Ci evita» concordai.
«Ha
difficoltà a concentrarsi quando registriamo. È come se
avesse la testa altrove» raccontò Fabiano, rimettendosi
il telefono in tasca.
Poco
dopo qualcuno uscì nella sala fumatori e rimasi stupito nel
riconoscere proprio Samuele.
Si
fermò a pochi metri dalla soglia quando si accorse di noi; non
tutti si accorsero subito di lui, così sobbalzarono
leggermente quando lui si schiarì la voce.
Ci
scambiammo delle occhiate strane e indescrivibili per qualche
istante. Avrei voluto dire qualcosa, chiedergli se volesse fumare con
noi o domandargli come stava. Tuttavia rimasi in silenzio, avevo
paura che rifiutasse e mi guardasse con più freddezza del
solito.
«Ah,
ciao» disse soltanto. Il suo tono fu piatto e intriso di
indifferenza, gelido come una tempesta di neve.
Poi
ci voltò le spalle e si accese una sigaretta per conto suo.
Nessuno
di noi osò ribattere né avvicinarsi; ormai si era
creato un muro invalicabile tra noi.
Ormai
eravamo al capolinea.
E
anche io sono al capolinea, proprio come i ragazzi che hanno
popolato questa storia.
Cari
lettori, anche questa lunghissima storia è giunta al termine.
Lo so, lo so: molti di voi mi vorranno strangolare a mani nude, forse
non se lo aspettavano o forse volevano leggere ancora di Samuele e i
suoi amici.
Ma
ogni cosa ha un termine, perciò eccoci qui alla resa dei
conti.
Ho
iniziato questo racconto millemila anni fa, e ancora non so come sono
arrivata a questo punto, però di una cosa sono certa: tutto è
avvenuto grazie a voi, alle vostre recensioni e al vostro continuo
supporto.
Quindi,
passando ai dovuti ringraziamenti, sono grata a: DreamNini
che c'è stata fin dal principio e non mi ha mai abbandonato, e
non parlo solo per quanto riguarda questa storia; Marss,
che non è certo da meno, addirittura spesso fa delle maratone
di miei capitoli, roba da nobel :D; Hanna
McHonnor, che trova sempre il tempo per me, nonostante di cose da
fare ne abbia a bizzeffe :3; Soul_Shine,
che è approdata un po' in ritardo, ma ha saputo illuminare lo
spazio recensioni con la sua grande passione per il mio ennesimo
esperimento; TheAuthor99,
perché ha avuto il coraggio di imbarcarsi nella lettura di
questa storia quando ormai era già quasi finita e aveva già
un numero eccessivo di capitoli, perché non ha avuto mai paura
di essere sincero e perché, se avrà il coraggio di
arrivare alla fine... be', meriterebbe una statua in Piazza del
Popolo a Roma!
I
miei amati e fedeli lettori e recensori siete stati voi, perciò
ancora mille grazie per tutto ciò che avete fatto per me,
facendomi crescere come scrittrice e come persona. Senza di voi non
sarei mai e poi mai arrivata a questo punto. Siete fantastici ♥
Ovviamente,
ringrazio chiunque abbia letto questa storia in silenzio e chi l'ha
inserita tra le varie categorie di gradimento!