Lettere dal cielo

di Mary_la scrivistorie
(/viewuser.php?uid=648125)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un messaggio dalle nuvole ***
Capitolo 2: *** Un messaggio dall’Amore ***
Capitolo 3: *** Un messaggio dal Tempo ***



Capitolo 1
*** Un messaggio dalle nuvole ***


L e t t e r e  d a l  c i e l o


 
*


 
Note introduttive:
Premetto che introdurre questa storia un po’ mi emoziona: l’ho scritta velocemente e ferocemente e, a prescindere dal risultato, l’ho amata. Anche se ho inserito gli elementi Fantasy. Anche se ci sarà un sacco di gente che non concorderà.
Ho amato scriverla e buttarla giù, e questo primo capitolo è il frutto di una meditazione attenta della mia stessa mente ‒ vi avverto: non mi assumo la responsabilità di ciò che ci frulla in questi giorni.
Dai, un po’ di follia non guasta mai. Alla fine troverete una sfilza di note dal testo: già impreco al pensiero di dover stilare tutta la lista. XD
Un ringraziamento speciale a chi ha recensito la storia che introduce questa [JulyChan e Amaranthine] e spero che neanche questa vi dispiaccia!
Un caro saluto ai miei lettori: dai, la monotonia sarà breve, dal capitolo II comincia l’azione!
Un bacio dalla vostra fedele e svampita Mary.


 
Capitolo I - Un messaggio dalle nuvole
 
*
 
«One of these days the sky’s gonna break and everything will escape and I’ll know
One of these days the mountains are gonna fall into the sea and they’ll know...[...]
»

 
Terence Hewitt era assorto, come la maggior parte del tempo: se ne stava , meditabondo sotto il suggello della pioggia che gli lambiva prepotentemente la pelle che sbucava dalla giacca, seduto sulla pietra imperlata di cristalli d’acqua dei gradini di casa sua, cingendosi le spalle con le braccia magre ed eburnee, come a proteggersi da un gelo invisibile ‒ anche se la sua costituzione corporea era pressoché ipotonica ed era quindi un rimedio inutile.
Non che gli importasse più di tanto del suo aspetto fisico: il suo chiodo fisso, da quando suo nonno se ne era andato in cielo, era scavare nei più ottenebrati meandri della scienza ed esplorarli insistentemente fino a raggiungere il progresso. Il momento della “metamorfosi” era l’unica speranza che gli faceva proseguire il suo cammino in quella selva oscura e tenebrosa [1] che era la vita. Terence combatteva più che altro per la causa dell’umanità che per quella individuale: reduce di marchi invisibili ma vibranti d’Amore, s’era rifiutato di ridursi ad essere un artista tossicodipendente com’era stato in gioventù suo nonno Daniel e aveva scelto il percorso della Scienza, costellato di una grande varietà di risposte ‒ Terence ne aveva un frustrante, disperato bisogno.
La Scienza lo ammaliava molto ma era ancor più stregato dalle meno note “vie di mezzo”, le scienze che ricercavano la metodologia della logica per applicarla in tutt’altri settori del sapere. Uno degli ambiti che più lo intrigava era l’Alchimia: miscuglio dei temi di Fisica, Chimica, Astronomia e ricca di sfaccettature della dottrina dell’Orfismo [2], era un’arte densa di sottigliezze che stuzzicavano inevitabilmente la sua inestinguibile sete di conoscenza.
Terence si era informato dettagliatamente riguardo ai circoli d’Alchimisti di Londra e ne aveva frequentato anche qualcuno; tuttavia si era trovato costretto a ripudiarli poiché erano perlopiù affascinanti farse che avevano lo scopo di attirare quanta più gente possibile e di organizzare festini e orge per i tizi più eccentrici e folli. Nessuna di quelle sette studiava l’Alchimia vera e propria, quella che interessava a lui.
Aveva dunque cominciato a formarsi da autodidatta, sfogliando le letture che trovava in biblioteca e nella libreria di casa sua: aveva rimediato spunti interessanti per le sue indagini, soprattutto in merito alla questione di Sulphur et mercurius [3]. Terence si impegnava metodicamente in quella materia sconosciuta che l’appassionava così tanto ed era capace di divorare intere serie di tomi in una singola giornata: spesso era così coinvolto da quelle tesi filosofiche da trascorrere notti insonni piegato sulle pile di libri, ad aspirarne la fragranza cartacea e ad assimilare ogni concetto contenuto in quelle sacre pagine. Spesso gli s’offuscava parzialmente la vista durante la lettura ed era questo il principale ‒ e fastidioso ‒ motivo per cui interrompeva i suoi studi, per concedersi appunto una manciata d’ore fra le braccia di Morfeo. Il mattino dopo si ridestava all’alba per continuare il suo lavoro con smaniosa perizia. Nell’arco di un mese, Terence Hewitt aveva imparato già tutte le nozioni essenziali dell’Alchimia, e ne era assurdamente compiaciuto: nonostante i suoi occhi fossero solcati da livide occhiaie e la sua pelle fosse innaturalmente smunta, il suo volto sprizzava gioia da tutti i pori e questo rassicurava la madre che, in cuor suo, era segretamente preoccupata per la mania del figlio per l’Alchimia. Lui se n’era accorto e credeva che forse le ricordava troppo il proprio padre.
Terence non si era più confidato con nessuno da quando era deceduto il nonno: aveva perfino smesso di frequentare la libreria, il soave luogo d’incontro fra lui e la sua dolce Musa. Per anni era stato solito entrare in quel luogo fiabesco e riemergerne più fresco e vivo che mai, reduce dell’incantesimo del fatale bacio dell’Ispirazione. Per anni aveva seguito la via del nonno, come un apostolo fiducioso, riponendo nella scrittura la sua assoluta dedizione ed abbracciando ogni volta il divino intervento di Lei, che sbucava tra gli scaffali o negli alvei più sfavillanti dei suoi sogni di mezz’estate.
Quando suo nonno se n’era andato, tuttavia, tutta la sua passione era scemata via dalle sue membra, raggiungendolo in cielo, via per sempre. Come aveva fatto tanti anni prima il suo mentore, aveva allora riposto in un cofanetto la sua penna stilografica, dove ancora giaceva intatta: si trattava di un eterno giuramento, una promessa stretta sotto lo scintillio degli astri, sotto la luce del firmamento. Terence Hewitt non era più uno scrittore.
In quegli anni, aveva avuto nostalgia di afferrare lo stilo e di riempire le sue pergamene di caratteri traslucidi ed aure invisibili; di vivere nella carta e nelle effimere eco delle parole. Gli era mancato ascoltare ogni giorno le dritte di nonno Daniel ‒ che aveva riportato con fedeltà e cura in un’agenda tascabile dalla rilegatura di cuoio logoro ‒ e i suoi instancabili tentativi di applicarli immediatamente: Terence era stato uno scrittore molto impaziente. Suo nonno l’aveva talvolta reguardito in merito a questa sua caratteristica, che aveva definito come il suo «difetto fatale». Ogni scrittore, secondo suo nonno, ne possedeva uno; «E il tuo?», aveva chiesto più volte lui durante quei felici anni d’infanzia. La risposta era stata: «La superbia, figliolo. E, credimi, è una gran brutta bestia.»
Terence s’era domandato più volte se non fosse stato il «difetto fatale» del nonno ad averlo allontanato a suo tempo dalla scrittura, ma non ebbe mai il coraggio di chiederglielo. S’accingeva a scrivere, rendendolo fiero di lui, buttando giù tutte le parole che gli venivano in mente ed esprimendo ogni suo stato d’animo. Si era sentito nudo, privo di vincoli ‒ la libertà nelle sue sfumature più pure ‒ così come di barriere che lo difendessero dalla maestosità dell’aldilà, degli sconfini dell’“oltre”. Si era sentito a tutti gli effetti umano, vittima dell’immensità delle parole e viva preda degli istinti più ancestrali e primitivi. Aveva concentrato le sue energie più nello smarrimento in quella criptica seconda vita, piuttosto che a porsi degli esiti: dopotutto era stato bambino anche lui, attratto dall’idea di un universo parallelo più che di un labirinto di risposte. Quantera stato sciocco.
Terence Hewitt aveva preferito l’Alchimia alla Scrittura, e con questa scelta aveva ricevuto un altro sigillo da parte del Destino. Stavolta non intendeva perderlo: avrebbe dedicato quante più ore possibili al suo nuovo “svago” e avrebbe acquisito le competenze che presupponeva il mestiere da cui era così deliziato.
Le soffuse eco che sopraggiunsero al suo orecchio gli rammentarono il tepore dei ricordi in cui la voce ‒ morbido velluto tessuto d’amarezze ‒ del nonno gli scaldava il cuore quando soleva riprenderlo con cipiglio paziente ed amorevole; o quando gli arruffava i capelli con quei indimenticabili sorrisi raggianti per i quali in quel momento Terence avrebbe pagato; o quando si bloccava a metà strada con gli occhi velati smarriti nel passato ed il nipote si ritrovava a invidiare quel mondo estraneo che gli rubava talvolta l’anima del nonno; o quando gli raccontava delle splendide persone che lo avevano sostenuto durante la sua vita, persone insignificanti ma indelebili come la signora Jordan e il misterioso Z. Persone che suo nonno Daniel non aveva mai dimenticato, neanche quando il tumore ‒ che era fatto di lui ‒ aveva invaso lentamente ogni centimetro del suo corpo ormai deturpato ed arrendevole.
Terence, quella notte d’inverno, aveva perso non solo un nonno al quale era tanto affezionato ma anche il suo Mentore, colui che gli aveva insegnato fondamenta di Vita. Colui che lo aveva condotto nei sentieri della conoscenza e che lo aveva guidato verso la via della Redenzione.
Daniel Hewitt però era scomparso. Di lui non rimaneva altro che un vecchio e consumato stilo, interminabili papiri di parole totalmente distaccate dalla sua esistenza e un malandato taccuino che citava solamente i suoi discorsi intrisi di saggezza e vecchiaia ‒ di Vita.
Lui portava quel piccolo diario sempre con sé, perché quel minuscolo e tiepido rigonfiamento in tasca ‒ all’altezza del cuore ‒ lo rassicurava quanto bastava per andare avanti: era come un marchio, quasi a dire «Io sono sempre con te, Terence», quasi a illuderlo di poter ancora assistere a quelle preziose lezioni di Vita che gli erano state sottratte da un po’.
Estrasse dal taschino l’agenda e la consultò senza indugio: un sorriso malandrino, che non fioriva su quelle labbra da molto tempo, illuminò il volto del ragazzo che s’abbandonò alla lettura di quelle parole maledettamente vere.

Prima di tutto, noi artisti siamo uomini che vogliono essere inumani [4]. Lo diceva Apollinaire e lo dico io. Per quanto possiamo provarci, Terence, quelli come noi non appartengono alla razza umana; siamo eredi piuttosto del lignaggio quasi estirpato dei figli dellArte. Viviamo dei nostri talenti e della nostra vanità ‒ pura superbia, come ti ho già detto tante altre volte. Impara questo, e saprai ben presto chi sei.

Leggendo, Terence ritrovò le risa che erano andate perdute insieme a suo nonno. Tuttavia, un sapore dolceamaro tornò a infestargli la memoria: non era più un Artista, lui. Aveva scelto di essere qualcos’altro, un intellettuale, un rigoroso seguace del sapere. L’Arte non faceva più parte di lui: era sfuggita al suo controllo e s’era rintanata in qualche altra anima.
La sua era ormai già saldamente imbrigliata a Terra, senza avere l’opportunità di volare. L’espressione di Terence si era fatta vacua ed intorpidita, mentre il ragazzo rifletteva su chi era in quell’istante. Era forse una mente in metamorfosi, o brancolava nell’incertezza delle tenebre? Sfogliò bramosamente altre pagine del taccuino, volgendole alla sua vista e confrontando le memorie che corrispondevano a ciascuna proposizione. Leggeva, anziché scrivere, come soleva fare di recente.
Ancora non aveva recapitato la lettera del cielo.
*
 
«One of these days letters are gonna fall from the sky telling us all to go free
But until that day I’ll find a way to let everybody know that you’re coming back,
you’re coming back for me.
»

La lettera gli arrivò una notte di mezz’estate, qualche mese dopo, mentre stava contemplando l’orizzonte in riva al mare. In remota lontananza, una tempesta si stava avventando sulla landa scura dell’oceano. Lui era rannicchiato su una piccola sporgenza del promontorio, con le mani incrociate sulle ginocchia e lo sguardo smarrito nella danza delle onde, accompagnata da un dolce crepitio dovuto allo scontro con gli scogli: era uno spettacolo di sconvolgente bellezza. Se fosse stato un artista, avrebbe volentieri celebrato come meglio poteva le sensazioni che gli suscitava quello scenario d’incanto; avrebbe seguito senza esitazioni la penna che avrebbe ben fluito sulla carta sotto i suggerimenti del canto del mare; avrebbe intriso la pergamena degli scorci di Vita che quell’idillio gli regalava; avrebbe fuso cuore e mente fino ad esprimere al meglio il significato di quel mistico rituale della Natura.
Ma non era più uno scrittore.
In quei mesi, Terence s’era impegnato ad approfondire ossessivamente i suoi studi d’Alchimia. Sua madre, apprensiva, s’era a lungo preoccupata per il suo aspetto scarno e malaticcio e l’aveva costretto a raggiungere la famiglia alla loro villa al mare nel distretto di Kerrier, in Cornovaglia.
Lui aveva sempre odiato le vacanze al mare: non gli piaceva l’acqua, neanche un minimo, se non per osservarla e ispezionarla. Aveva raccolto vari campioni e condotto analisi in laboratorio per esaminare l’elemento secondo le teorie degli Alchimisti – ma questa è un’altra storia. Ciò che era certo era che Terence Hewitt era diventato un maniaco dello studio e della conoscenza: sapeva ormai ogni cosa riguardo quell’ambito. Era fiero di tutto ciò che aveva imparato sui libri e dall’esperienza che aveva acquisito con la pratica degli esperimenti consigliati dai suoi volumi.
Ormai era diventato un Alchimista esperto: la cosa gli piaceva. Era ormai molto versato in quel frangente: sapeva destreggiarsi tra i fattori numerici e quelli astrali e riconoscerli subito.
Stava appunto meditando compiaciuto sulle sue competenze, quando alzò gli occhi verso le stelle notturne ‒ sempre dedito alla sua silenziosa venerazione ‒ e uno scintillio catturò la sua attenzione. Barlumi di candore si distinsero nel cielo notturno: qualcosa stava aleggiando nell’ombra, precipitando dolcemente verso il mare. Terence mise a fuoco corrugando la fronte ed in una manciata di secondi riconobbe l’oggetto volante: si trattava di una lettera, con tanto di sigillo di ceralacca ‒ a giudicare dal piccolo cerchio rossastro sul colore inequivocabile della carta.
Dopo una serie di leggiadri fruscii guidati dagli spifferi dal vento, che la trascinava a destra e a manca, la lettera calò in picchiata verso la superficie dell’acqua. Avido di curiosità ‒ quel demone che si nascondeva nell’animo del ragazzo e gli prosciugava tutta la sua linfa vitale ‒ Terence si alzò di scatto e si sporse più del dovuto oltre la scogliera. Troppo tardi.
La lettera aveva già superato l’invalicabile confine della linea parallela all’altezza a cui si trovava lui: stava svolazzando sempre più in basso precipitando con maggior velocità. Il ragazzo si piegò aggrappandosi alla roccia estrema del dirupo ed osservò la lettera trasformarsi in un punto minuscolo e argenteo che alla fine, sempre più distante e fioco, accarezzò l’acqua con un armonioso sibilo d’aria.
Terence studiò per breve i lievi movimenti della lettera ormai impregnata del sigillo marino, poi fece due calcoli e decretò che la distanza fra lui e l’oceano non era poi così spropositata: si trattava forse di dieci metri o giù di lì. Se fosse stato impavido, si sarebbe senz’altro rallegrato dell’opportunità di una tale avventura e, senza tante esitazioni, si sarebbe tuffato per acciuffare quella maledetta lettera. Chiunque l’avrebbe fatto, e lui aveva bisogno di svelare il contenuto di quel messaggio: la sete di sapere gli stava letteralmente divorando lo stomaco. Percepiva l’insaziabile languore di quell’avidità farsi strada fra le sue membra ed appropriarsene gradualmente, facendo leva sull’arrendevolezza dei suoi muscoli e del suo cuore.
Se fosse stato impavido, non avrebbe indugiato a saltare e a soddisfare la sua sete di conoscenza. Cosa c’era, allora, che lo manteneva sulla terraferma?
La paura, innanzitutto. Era da un sacco che Terence non nuotava; e ancor di più era il tempo dal suo ultimo tuffo: non sapeva neanche se il suo corpo rammentava le basi essenziali. S’era del tutto dimenticato dei meccanismi che il corpo azionava quando si trovava in acqua: non sapeva se sarebbe riuscito a risvegliare in orario le sue terminazioni nervose mai allenate. Non sapeva se sarebbe sopravvissuto a quella bravata adolescenziale.
Non che ne avesse mai combinate: era sempre stato il tipo taciturno e misantropo, che preferiva mille volte contemplare una landa desolata in santa pace che partecipare a una festa caotica e chiassosa. Sua madre in origine ne era stata sollevata; in seguito aveva invece capito che c’erano cose ben peggiori di una crisi di ribellione giovanile. Terence non ne aveva mai avute, tuttavia era stato afflitto da un’altra catena di problemi, di radice più grave e traumatica. Sarebbe stato meglio vivere un’adolescenza comune a ogni altra, piuttosto che rinchiudersi nella propria mente ‒ con il lucchetto ‒ dopo la morte del proprio Mentore.
Terence non aveva mai infranto le regole: s’era sempre comportato da figlio modello, studente modello, uomo modello. Forte, ponderato, brillante: era così che lo vedevano gli altri. E lui, lui come si vedeva? Cercò di pensare a se stesso ma tutto ciò che gli balenò alla mente fu un paio di pupille vitree e inerti, quelle che tante volte aveva esaminato allo specchio ammirando la propria immagine. Era la sola cosa rilevante del suo aspetto: la proiezione dei suoi occhi spettrali, dapprima chiari e luminosi, ora invasi dall’ombra. Era ovviamente tutto celato dal suo animo astruso che non concedeva agli altri d’essere analizzato.
Il ragazzo fissò un’altra volta il mare sotto di lui e pensò che sarebbe senz’altro morto, se si fosse tuffato. Non c’era alcuna garanzia che l’acqua in quel punto fosse profonda abbastanza da permettergli di tuffarsi; non c’era alcuna garanzia che sarebbe uscito indenne da quel manto d’onde; non c’era alcuna garanzia che avrebbe scovato la lettera o che questa avrebbe resistito alle insidie del fondale.
Per un metodico studioso come lui, tutte queste incertezze equivalevano ad un solo esito: mai e poi mai. Stava già per voltarsi quando, al chiarore dell’argento lunare, la lettera ‒ un punto lucente in mezzo alla notte dell’oceano ‒ sfavillò, quasi a reclamare la sua attenzione.
Pensò che era già immerso nelle tenebre fino al collo e ne evinse che una in più non poteva guastare.
Contro ogni sua aspettativa, serrò le palpebre e si lasciò precipitare nel vuoto.
Contrariamente a quanto credeva, non ci fu alcuna sorta di rassicurante buio ad attenderlo. Sebbene i suoi occhi fossero ben chiusi, percepiva la prepotenza della brezza contro la sua pelle: l’accarezzava, la premeva, la spingeva, la graffiava, l’artigliava, la violava. Era una sensazione insopportabilmente fastidiosa: il vento lo inghiottiva a tal punto da non lasciargli il tempo di respirare. Sentì la gola fiacca ed intorpidita e sperò che quell’inferno svanisse al più presto: i suoi polmoni non ce la facevano più a reggere a corto d’aria. Una pulsazione improvvisa gli colse il petto: il dolore fu un effetto collaterale immediato e inevitabile, mentre i suoi organi bruciavano alla ricerca d’ossigeno e l’arsura dei bronchi non veniva placata. Perfetto ‒ sarebbe morto d’asfissia prima ancora d’annegare. Non sapeva se era un bene o un male.
Anche le sue tonsille andarono in fiamme durante la sua interminabile caduta; provò a tossicchiare ma non ce la fece: la sua bocca sembrava talmente stravolta da non riuscire a eseguire i comandi del corpo. Mentre piombava nel vuoto più totale Terence riuscì a reagire e a spalancare gli occhi.
Finalmente vide ogni cosa: l’aria fluì dentro ai suoi polmoni come conseguenza e, un attimo prima di raggiungere l’acqua, distinse i vellutati e immensi confini del mare.
L’istante dopo, stava oltrepassando il portale dell’oceano, per così dire. Si ritrovò annientato dalla violenza delle onde al di sotto della cresta mentre provava a muoversi e a restare a galla. Con un po’ di fatica, ce la fece. Con il busto aderiva alla gelida acqua notturna; s’accingeva intanto a sfregarsi braccia e gambe con urgenza nel tentativo di procurarsi un po’ di calore e sollievo. Tutto inutile: sarebbe morto d’ipotermia se non fosse evacuato al più presto dal mare. Si scostò i capelli fradici e sgocciolanti che gli offuscavano la vista e si guardò intorno: era attorniato dalle onde che danzavano ininterrottamente per tutto l’oceano. Senza più indugiare e con il gelo che gli lambiva la pelle, sondò la landa marina intorno a lui alla disperata ricerca della lettera caduta dal cielo. Gli s’insinuarono spirali di brividi lungo la schiena e ciò lo costrinse a dischiudere pacatamente le palpebre che gli roteavano incessantemente, accolte da un improvviso torpore. Non riusciva a tenere gli occhi aperti: l’Inferno era finito, voleva soltanto arrendersi dinanzi all’immensità del mare che lo aveva fatto prigioniero. Era stato stupido a tuffarsi: davvero uno sciocco, a comportarsi come un qualunque adolescente. Probabilmente aveva creduto di potersi concedere una qualche sottospecie di anarchica rivincita, per una volta. Probabilmente aveva decisamente sottovalutato il suo buonsenso.
Aprendo gli occhi ‒ una boccata d’aria ‒ percepì qualcosa di bianco luccicare a pochi metri da lui, sott’acqua. Concentrò la mente su quel punto e, raccogliendo un bel respiro profondo, s’immerse quel poco necessario per afferrare l’oggetto. Compiendo uno slancio in avanti sotto la cresta dell’onda, con le dita agganciò un angolo della lettera e la sospinse gentilmente verso sé, sottraendola alla presa del mare.
Cera riuscito. Osservò il premio del fatidico lavoro fra le sue mani: la carta era umida e sottile, intrisa della morbida fragranza della brezza di mare. Non c’era tempo, in quel momento, tuttavia, per i sentimentalismi e per la sua insaziabile curiosità: doveva sbrigarsi prima di morire assiderato.
Braccato dall’insostenibile gelo dell’acqua, arrancò verso un piccolo scoglio e vi si arrampicò di getto, cercando di non appigliarsi a sporgenze scivolose. Con un po’ di tentennamenti raggiunse la cima dello scoglio e si strizzò subito i capelli grondanti d’acqua e di salsedine. I suoi vestiti erano completamente fradici, perciò decise di togliersi almeno la giacca e di lasciarla asciugare sul calcare.
Risolta la faccenda più urgente ‒ la sopravvivenza ‒, si concesse circa mezzo minuto per studiare le piccole increspature della ceralacca e per formulare nel contempo ipotesi riguardo la provenienza del sigillo: riportava due lettere ricurve in rilievo, entrambe scritte in maiuscolo e separate da un punto fermo. La calligrafia era sì elegante e sinuosa, come se appartenesse a un autore provetto, ma stravagante: uno stile che Terence non aveva mai visto. Dopo un iniziale stordimento dovuto all’eccesso di ghirigori, fu in grado di decifrare le lettere: erano una “D” ed una “H”. L’unico nome che corrispondeva a quella combinazione era quello che infestava i suoi giorni e le sue notti e che l’aveva reso così algido e sofferente: Daniel Hewitt, suo nonno. L’uomo che per primo gli aveva insegnato ad amare il sapere e a custodirlo gelosamente nella propria mente. L’uomo che gli aveva perfino aperto il cancello del santuario dei sentimenti. Luomo che non cera più.
Con la sua febbrile avidità, Terence scorse sulla carta con le dita e, arrivato al sigillo, si bloccò appena per poterlo rompere con un brusco scatto. La ceralacca, ridotta in frantumi, scivolò a terra mentre il ragazzo sfiorava il biglietto all’interno, che a differenza dell’involucro era costituito da una spessa pergamena color vaniglia. Lo estrasse senza tanta fretta, sfilandolo con una lentezza metodica e quasi insopportabile, desiderando che le sue speranze non venissero infrante dall’asprezza della disillusione. Constatò con sollievo che non era così: la calligrafia somigliava terribilmente a quella di suo nonno.
Rigirò il foglietto fra le sue dita e lesse ad alta voce quelle parole cadute dal cielo:

Il mondo ha milioni di ragazzi prodigio, Terence. La razza umana non evolve perché scarseggia di geni, quelli pieni dinventiva e perché no? ‒ anche di follia. Non basta essere un prodigio, figliolo: diventa un genio, diventa un eroe ‒ trasforma il tuo mondo, lascia unimpronta per chi verrà.

Terence, pronunciata quella preghiera venata di saggezza, si paralizzò sul posto. Percorse con gli occhi malinconici e vacui la successione di quelle parole che si faceva mano a mano sempre più reale e dolorosa, mentre metabolizzava l’unico responso che poteva offrire.
Terence non era più uno scrittore. Non era più un artista e non era più un inventore. Aveva abbandonato la Scrittura tanti anni prima per una valida ragione: ormai aveva scelto e non poteva ritornare sulle proprie decisioni. Come avrebbe potuto dirglielo, se ne avesse avuto l’occasione? Non poteva disonorare in questa maniera le grandi lezioni che il suo Mentore gli aveva impartito; non poteva sigillare in un cassetto l’Arte che il nonno gli aveva affidato e dimenticarla per sempre; non poteva abbandonare le parole che lo reclamavano. Tuttavia l’aveva fatto ‒ aveva disonorato la sua memoria.
Con il volto sfigurato da un’orribile smorfia di dolore e fremendo per quel terribile pensiero, mollò la presa sulla lettera del cielo ‒ che cadde silente a terra ‒ e fuggì. Corse via più velocemente che poteva da quella cruda sentenza; da quella volontà troppo esigente; da quell’atroce dubbio. Corse via da ciò che era stato in passato e che non voleva che ritornasse ad angustiarlo.


 


L’Angolo di Mary
Salve, lettori [se ce ne saranno]! Questo è il primo capitolo, come avrete capito, del sequel di X&Y. La canzone da me utilizzata stavolta è la bellissima Letters From The Sky dei Civil Twilight, che mi ha ammaliato e sulle cui note ho scritto questa fanfic. Potete trovare il testo qui.
Sono di fretta perciò vi saluto – e ringrazio ancora JulyChan e Amaranthine per la recensione al prequel di questa storia.
Questo capitolo è il più noioso e descrittivo perché il personaggio è preda della malia che su di lui esercita la Scrittura.
Spero che qualcuno si fermi a recensire!
Ci vedremo presto con il secondo capitolo! ^^


[1] Selva oscura: sì, si riferisce al primo canto dell’Inferno, esatto! Per chi non lo sapesse {spero nessuno altrimenti la vostra sapientona Mary vi scuoia vivi} è un’espressione utilizzata da Dante Alighieri nella sua Commedia;
[2] Orfismo: movimento religioso sorto in Grecia presumibilmente verso il VI secolo a.C. intorno alla figura di Orfeo. {Fonte: Wikipedia & Mitico Libro di Filosofia};
[3] Sulphur et mercurius: “si tratta, letteralmente, di "zolfo e mercurio", cioè, nel linguaggio simbolico dell'alchimia, di due essenze primordiali viste nel quadro di un sistema dualistico che ritiene qualsiasi materiale come miscela di questi due componenti, vale a dire di un elemento "in combustione" (zolfo) e di uno "volatile" (mercurio), dotati di gradi diversi di purezza e in un diverso rapporto di mescolanza tra loro.” {Fonte: Wikipedia}
Mi sono documentata attentamente prima di affrontare i temi alchemici dato che non ero molto ferrata in materia, e trovando questa nozione mi è sembrato carino inserirla, quantomeno per conferire veridicità al racconto. ^^
[4] Citazione (riadattata) di Guillaume Apollinaire.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Un messaggio dall’Amore ***


L e t t e r e   d a l   c i e l o
 

*
 
 
 
Capitolo II - Un messaggio dall’Amore
 
 
Due anni dopo.
 
 
«‘Cause even though you left me here I have nothing left to fear
These are only walls that hold me here
Hold me here, hold me here.
»
 
 *
 
 
Terence scavalcò in tutta fretta il muricciolo che separava casa sua da quella di Beatrix Jordan e si sistemò la giacca trasandata con un cenno nervoso che non avrebbe convinto neanche il suo vecchio prozio Alfred, che era affetto dal morbo di Alzheimer e che non ricordava neppure il proprio nome.  Quanto a lui, avrebbe tanto voluto dimenticare chi era e che cos’aveva appena fatto ‒ ma non poteva. Il sigillo di quel pomeriggio era ben impresso in lui e nella sua immagine.
Aveva le labbra mangiucchiate ed in alcuni punti incredibilmente dolenti e sanguinanti, i capelli dorati ferocemente scarmigliati, i pantaloni spiegazzati e la cintura di cuoio slacciata: bastava fare due più due e perfino il più stolto del pianeta avrebbe intuito qual era stato lo svago di lui e Beatrix quel pomeriggio.
Terence meditò su ciò che aveva appena fatto: aveva ceduto, dopo mesi di strenuo diniego, all’irresistibile sensualità del corpo di Beatrix; aveva optato per un nuovo pegno carnale piuttosto che per il sigillo d’amore che attendeva da tempo immemore; aveva infranto un giuramento mai consolidato ma che riecheggiava nitidamente nei battiti del suo cuore ‒ aveva tradito la sua Musa.
Quando s’era arreso dinnanzi all’avvento del suo istinto animalesco ‒ da sempre seppellito ‒ non avrebbe mai creduto che dopo si sarebbe sentito così male. Oltre gli arroganti esulti in cui si crogiolava il mostro insonne che dimorava nel suo petto ‒ felice di aver assaporato il calore della carne femminile ‒ Terence era attanagliato da un tremendo moto di pentimento. La cosa lo mandava fuori dai gangheri: com’era possibile che Lei, flebile fiamma proveniente da remote memorie, dovesse rovinargli quel poco di felicità che era riuscito ‒ finalmente ‒ a guadagnarsi? Com’era possibile che la sua unica opportunità fosse ridursi ad essere l’ombra di quella fanciullesca infatuazione che gli aveva prosciugato ogni sorriso, ogni scorcio di vita? Il dettaglio che lo faceva svalvolare era però che ogni impeto d’angoscia e di nostalgia sorgeva soltanto per lui, come prevedibile. Lei, intoccabile e mistica com’era stata sempre, probabilmente non rammentava neppure il piccolo Terry che le s’era presentato con tanta foga e sfrontatezza quella mattina di mezz’estate; e al quale aveva replicato con la grazia di un angelo ‒ sceso in terra a miracol mostrare [5] ‒ esaudendo ogni suo giovane desiderio ‒ l’anelito di un sorriso, di un riso, di un altro specchio di sguardi, di quegli occhi tanto sconvolgenti, di Lei ‒ e trattandolo con gentilezza e dedizione.
Terence s’era convinto con il tempo che la dea per cui s’era invaghito non era altro che un demone di tenebra, che aveva preteso di persuaderlo e condurlo sulla via del Male ‒ e che cera quasi riuscito. Negli anni, aveva elaborato una gran varietà di supposizioni in merito alla misteriosa identità della fanciulla, tra cui molte erano esattamente contrapposte e confutabili l’una con l’altra: alla fine aveva rinunciato ad assegnarle un nome ed aveva optato per la decisione più ardua possibile ‒ andare avanti. Aveva dato adito ai consigli del suo mentore ed aveva abbandonato ogni sensazione superflua, isolandosi dalle circostanze terrene e vivendo negli alvei della Scrittura ‒ senza saperlo, Terence ci avrebbe vissuto per tutta la durata della sua vita.
Questo avrebbe dovuto comportare l’espulsione di Lei dal suo cuore, tuttavia non era accaduto. Nessuno seppe mai che il giovane non l’aveva mai dimenticata. Bramava ogni giorno di recarsi in libreria e di rivederla: un angelo divino dedito a danzare tra gli scaffali, circondato da un alone di magia e di malie. Stregava ogni dì il povero bambino, riversando su di lui il mortale potere del suo fascino, accendendo la sua mente d’Ispirazione e animando la sua penna di tutte le parole del mondo. Era allora che l’Arte lo invadeva ed il meccanismo cominciava ad azionarsi: ogni parola di Terence era soggetta ai dettami dell’Amore ed impregnata del suo marchio indelebile. Il giovane non aveva potuto fare a meno d’innamorarsi sempre di più e di sognarla ogni notte della sua infanzia, per quanto poteva: l’entusiasmo di incontrarla di nuovo il giorno dopo non gli permetteva di dormire il più delle volte, tant’era trepidante. All’epoca si diceva giustamente: «Sai di essere innamorato quando non riesci a dormire perché finalmente la realtà è migliore dei tuoi sogni.» [!] Così era accaduto anche per lui: nessun sogno avrebbe potuto rispecchiare i bagliori del suo volto e il suo ineccepibile splendore.
Era ovviamente tutto finito quando suo nonno era scomparso. Neanche il ricordo dell’accecante ossessione per lei aveva potuto rinsavirlo dall’ecatombe che quella notizia aveva provocato in lui. Terence aveva abbandonato la Scrittura e, con lei, la fanciulla che l’aveva Ispirato così a lungo.
Era svanita dal suo mondo ma non dai suoi pensieri, che ancora vertevano pericolosamente su quella cotta adolescenziale mai sigillata.
Anche in quel momento, seppur reduce da un intenso pomeriggio di passione trascorso con Beatrix Jordan, non facevano altro che tormentarlo. Terence avrebbe preferito mille volte concentrarsi sulle emozioni di poco prima, sull’istinto primitivo che l’aveva guidato nella scoperta dei doni di Beatrix e sul tepore di quei baci rubati, mentre si smarriva nella bionda e soffice corona di capelli della sua ragazza e si dimenticava chi fosse e a chi avesse giurato fedeltà ‒ almeno sulla carta.
L’aveva detto: ragazza. Fidanzata, innamorata, amica speciale, compagna, ragazza: erano tutti una moltitudine di epiteti che poteva affibbiarle ma che non le appartenevano totalmente. I mesi trascorsi con lei erano stati magnifici: Terence non s’era sentito mai così felice in vita sua – ma, come ben si sa, l’Amore è una creatura spietata: non si ferma alle apparenze e non s’accontenta di regalare gioia alle sue vittime.
Beatrix era una donna stupenda e Terence non s’azzardava a negare che gli piacesse: sarebbe stato impensabile il contrario, data la sua dirompente personalità e i suoi meravigliosi lineamenti. Quando entrava nella Sede, era come il miele in mezzo alle api: tutti ‒ anche chi la detestava con tutto se stesso ‒ si ritrovava a contemplare impotente la sua camminata sicura e maliziosa.
La verità era che c’era un’altra ad assillare i desideri più reconditi di Terence; e, se l’avesse saputo, Beatrix non gli avrebbe detto di andar incontro alla sua nemesi negli affari di cuore.
Invece gliel’aveva detto e Terence era stato troppo ignobile per non approfittare di quell’occasione d’oro.
Beatrix gli aveva chiesto di andare a prenderle un libro.
 
 
 
 
 
*
 
«[...]That you and I were made for this
I was made to taste your kiss
We were made to never fall away
Never fall away.
»
 
Terence aveva conosciuto Beatrix in uno dei circoli d’Alchimisti che aveva frequentato. Sfrontata, avventata, ribelle: aveva da subito catturato l’attenzione del ragazzo, non in senso positivo. Aveva veramente detestato quella ragazzina impulsiva e capricciosa che sfruttava ogni opportunità per intralciare i progetti del Comitato: forse le piaceva mettersi nei guai o provocare la rabbia altrui; forse credeva davvero nelle sue ipocrite tesi; o forse nutriva risentimento verso i membri del circolo e verso suo padre, che mai la considerava alle riunioni. Sebbene fosse l’ultima ipotesi quella più accreditabile, Terence non comprese mai quale fosse l’origine di tale atteggiamento. Sapeva solo che la odiava a morte e avrebbe preferito mille volte che se ne andasse per sempre dal Circolo.
Beatrix era una ragazza avvenente sotto molti punti di vista: oltre ad essere estremamente intelligente ed accattivante, aveva lunghi capelli biondi che celava al mondo raccogliendoli sotto la nuca, la pelle luminosa ed ambrata che rimarcava le sue origini australiane ed occhi azzurri incredibilmente sfavillanti ‒ la loro sfumatura oceanica gli rammentava, almeno vagamente, la divina e ultraterrena espressività degli occhi di Lei. Probabilmente era stato quello il motivo per cui Terence l’aveva tanto disprezzata a prima vista.
Questa sua repulsione si era dileguata con il trascorrere dei mesi: aveva visto in Beatrix un’anima condannata in partenza ‒ simile alla sua ‒ e aveva smesso di odiarla di punto in bianco quando l’aveva sorpresa a piangere silenziosamente in un corridoio della Sede del Comitato. Allora si era seduto accanto a lei e, senza proferire alcuna parola, l’aveva abbracciata. Terence non conosceva ancora il motivo per cui aveva pianto quel giorno e, assurdamente, non gli importava più di molto.
Avevano iniziato da amici o conoscenti, non lo sapeva ‒ non era bravo a distinguere queste cose ‒, ed erano finiti a baciarsi circa una settimana dopo. L’aveva baciato lei.
Doveva ammettere però che non si era affatto opposto alla cosa: l’aveva stretta a sé, assaporando il tepore della sua pelle attraverso la felpa, e aveva ricambiato, ricorrendo a tutta l’esperienza che aveva ‒ ovvero nessuna. Si era sentito bene, per una volta nella vita. Sembrava che la coltre di nubi che sommergeva il suo presente fosse destinata ad estinguersi contro l’incandescenza del Sole ‒ di quel sole ‒ che lo stava surriscaldando sempre più, regalandogli vibranti squarci di luce.
Di certo il paragone fra Beatrix Jordan ed il Sole era fra i più azzeccati: tutto in lei pareva emanare calore, perfino un broncio o una smorfia di collera. A Terence piaceva chiamarla teneramente “Trix il piccolo Sole” perché era così raggiante in ogni suo aspetto che non avrebbe potuto denominarla diversamente.
Beatrix era bella. Lui apprezzava il colore pallido e vivido dei suoi capelli ‒ diverso dal suo, che era più scuro e corrotto ‒, gli piaceva la sua carnagione uniforme e levigata, amava il blu profondo dei suoi occhi ‒ sebbene gli ricordasse quello di Lei.
Lei. Terence si risvegliò bruscamente dalle sue riflessioni ed osservò cautamente la libreria che si stagliava dinnanzi a lui: i raggi di sole lambivano le vetrate e creavano piccoli arcobaleni tutt’intorno; la gente s’affollava fuori dalla vetrina per ammirare i romanzi in esposizione; riecheggiava il suono frastornante delle grida d’entusiasmo e di sollievo di chi trovava il libro ricercato o di chi aveva appena ricevuto un regalo; in sottofondo era percepibile il fruscio dei passi di chi usciva con dei pacchi in mano ed un sorriso taciturno dipinto sul volto.
A lui parve di sentire il suono di quella canzone di Baglioni che aveva ascoltato nella propria radio tanti anni prima con il nonno Daniel quando si erano recati in quello stesso negozio ‒ quando aveva visto per la prima volta Lei.
Senza più indugiare ‒ attratto dal richiamo di suo nonno e di quello di Lei ‒ si avviò verso l’ingresso, dove esitò appena.
Gli bastò una fugace occhiata per inquadrarla all’interno del negozio: gironzolava sempre attorno allo stesso scaffale, quello dei romanzi di narrativa, ma il suo portamento la faceva somigliare più ad uno spettro angelico che ad una persona in carne ed ossa. Era perfettamente identica a come se la ricordava: il trascorrere degli anni sembrava non averla scalfita, così come il maltempo o l’esperienza di Vita. Indossava tuttavia indumenti differenti dal solito: portava un lungo e candido peplo, ornato da un paio di motivi decorativi a forma di penna o rotoli di carta. Terence non ebbe più alcun dubbio sull’identità della fanciulla.
In quell’attimo, come per magia, Lei si voltò verso di lui: fu una caotica successione di riccioli bronzei, pelle nivea e occhi blu oceano. Il suo viso scintillò etereo fra tutti gli altri, illuminando la sala e Terence d’immensità [6], e lui dimenticò all’istante Beatrix e qualsiasi altro problema. In seguito se ne sarebbe a lungo vergognato, ma era perdutamente smarrito nella contemplazione della sua Musa svanita per anni. Per epoche.
Lei articolò un cenno di saluto con le mani soavi e sfoderò un sorriso abbagliante che gli mozzò il respiro. Gli spiragli di sole colpirono le ciocche ondulate di Lei, facendole rifulgere d’oro splendente, e Terence si lasciò guidare dall’armonia dei riccioli che le danzavano armoniosamente sulle spalle.
Senza accorgersene, la raggiunse con foga e le prese la mano d’alabastro ispezionandola a fondo, carpendone ogni millimetro ed ogni segreto. «Sei qua», gli sfuggì in un bisbiglio, mentre aspirava inebriato l’aroma che proveniva dal suo delizioso collo di cigno.
Lei lo inchiodò con il suo sguardo di zaffiro fino a fargli perdere quel briciolo di lucidità che gli rimaneva: quegli occhi color blu mare avevano la capacità di ammansirlo e stregarlo a suo piacimento ‒ di possederlo. Esibì in un sorriso malinconico e gli sussurrò flebilmente: «Sei tornato. Era ora.»
Terence percepì una fitta lancinante al petto e si sentì come se fosse marchiato dalla dannazione per averla tradita ‒ e non solo nel mondo letterario. Si ritenne uno stupido ad aver anche solo pensato di poterla rimpiazzare con Beatrix: lei era altro, era Luce, era Bene, era l’universo parallelo che lui agognava da tanto, troppo tempo. Era un sogno incastonato a cavallo fra la sua fantasia e la realtà e ciò lo faceva impazzire.
«Mio nonno è morto. Non ero pronto per tornare.», proclamò lui, annunciando la verità sintetizzando in brevi, fatali parole ciò che lui aveva vissuto in quegli anni terribili.
Lei si aprì in una smorfia di sconforto e mormorò mesta: «Daniel ha compiuto un bel viaggio, durante la sua vita. Che riposi in pace.»
Terence era ancora concentrato sui suoi lineamenti fatati quando s’accorse delle parole da Lei pronunciate: gli venne il sospetto che lei avesse conosciuto da vicino ‒ e non solo superficialmente ‒ suo nonno. Tutto ciò non fece altro che accreditare le sue teorie riguardo l’identità di Lei.
Annuì con solennità e contemplò incantato la pelle lattea che sbucava dal suo vestito. Gli era mancato poter volgere gli occhi verso quello scenario così paradisiaco; gli era mancato il fresco aroma della sua pelle così prossima alla sua; gli era mancato scrutare le sue iridi screziate di cristalli cangiare di tutte le sfumature marine che il mondo conosceva. Gli era mancata Lei.
«Ho saputo che hai trovato l’anima gemella. Sarò franca, sono contenta per te, ma non devi permetterti che ciò ti distragga dalla Causa.» Quelle parole, che tanto tempo prima gli sarebbero sembrate dense d’ambiguità, gli parvero invece nitide e chiare.
Come si trattasse di conversare alla pari con una vecchia amica, lui le spiegò: «Ho abbandonato la Scrittura, per sempre. Ormai quella vita non mi appartiene più, è solo un effimero ricordo di un’infanzia spazzata via da una bufera avernale.»
Lei chinò piano gli occhi mentre, con inesorabile lentezza, studiava le propria dita affusolate arcuirsi sotto la contrazione dei muscoli, come se non fosse abituata ai meccanismi del corpo umano. Terence la osservò a lungo ed infine constatò che no, tale bellezza non avrebbe mai potuto essere scambiata per umana: era forse la carnagione rilucente di stelle e altre mille cose belle; o forse gli occhi di sovrumana saggezza che sondavano la Terra come se non fosse nient’altro che una nuova, esaltante sfida e nulla di più; oppure ancora il suo sorriso consapevole, decisamente disumano, per quanto riguardava la figura ed i modi ‒ d’altra epoca ‒; o forse le fattezze del suo volto, incantevoli quanto regali e posate; o ancora le proporzioni del suo corpo armonioso, dalle gambe longilinee all’esile vita fino ad arrivare al seno piuttosto florido e tonico. O forse era l’insieme dei tratti di Lei, che così tanto lo ammaliava e lo conduceva nei fitti labirinti di un’Ispirazione appena recuperata ‒ e che avrebbe dovuto ben presto rifiutare.
«Non posso biasimarti per le tue scelte, Terence. È il tuo cuore che ha il diritto di decidere cosa più gli aggrada. Se non ti senti pronto, non importa. C’è solo un’ultima richiesta che avrei da farti prima di scomparire per l’eternità, se non ti arreca disturbo...». I suoi occhi si piantarono su quelli di lui, supplichevoli ma inconsapevolmente attraenti. Inconsapevolmente proibiti.
Lui emise un sospiro profondo, pensando al fatto che l’avrebbe ben presto persa di nuovo ‒ e per sempre, stavolta ‒ e si sforzò di sorriderle: «Ma certo, dimmi pure.»
Lei esitò giusto un attimo e gli rivolse una preghiera, la più importante di tutte, impregnata del chiarore del giuramento che li aveva uniti durante i loro incontri segreti e macchiata di ineluttabili tracce di Vita: «Non rinunciare, Terence. Mi va bene, non diventare uno scrittore, ma non rinunciare. Come ti è già stato detto, nel mondo non bastano i prodigi: occorrono i geni. Occorrono gli eroi. Puoi esserlo anche tu.»
Il suo tono di voce ‒ una melodia proveniente dai sette mari ‒ si affievolì e si spense, rendendo innaturalmente silenzioso lo spazio vuoto che s’interponeva fra loro due.
Lui, distrutto da quella perpetua richiesta, socchiuse le palpebre e, senza guardarla, la salutò per sempre: «Vedrò cosa potrò fare. Arrivederci, colei che ha una bella voce.»
A Lei scintillarono gli occhi di gioia e malizia: quel sorriso malandrino nei suoi occhi rese indubbia la sua natura ultraterrena. «Per gli amici mi chiamo Calliope.»
Sprazzi di vertigini elettriche troppo caotiche per essere distinte, e la Musa Calliope svanì, regalandogli una carezza in cui il ragazzo scorse l’infinito ‒ e oltre.
 
*
 
 
«One day soon I’ll hold you like the sun holds the moon
And we will hear those planes overhead and we won’t have to be scared
We won’t have to be, we won’t have to be scared.
»
 
Mollare Beatrix si rivelò più complicato del previsto. A Terence non era mai capitato di dover rompere con una ragazza ma di certo non si sarebbe mai aspettato che fosse così tremendo. Era appoggiato al muro, quasi come se gli fungesse da sostegno, e stava osservando con cautela la sagoma slanciata della sua ormai ex fidanzata che camminava avanti ed indietro per il viale. La cosa buffa era che pareva che lei stesse sfogando la sua collera sul libro che lui le aveva appena consegnato, dato che lo martoriava artigliando la rilegatura con le unghie e sbattendolo a sinistra e a manca. Povero Tolstoj: se la sua anima avesse potuto riemergere dai meandri della Sapienza e parlare, ne avrebbe sicuramente cantate quattro a quella ragazza tanto aggressiva e maleducata che lo stava molestando. Anna Karenina fremette nuovamente fra le mani di lei, segno che stava per ricominciare un discorso: Terence si preparò al peggio.
«Cosa sta a significare, “devo andarmene?”». Nonostante il tono gracchiante ed iracondo, era più bella che mai: a braccia conserte, con una canottiera trasparente che lasciava ben poco all’immaginazione e la pelle dorata costellata dai brividi per il freddo ‒ e forse per il terrore che lui se ne andasse.
Lui cercò di reprimere il singulto che gli s’era incastrato in gola e proseguì con la sua interminabile lista di menzogne: «È stato un errore, Beatrix, non dovevamo. Tu non mi piaci ed io non piaccio a te: siamo colleghi e come tali dobbiamo rimanere.»
Lo sguardo diffidente e al contempo colmo d’implorazione che gli lanciò lei lo spiazzò per una manciata di secondi, abbastanza a lungo affinché lei riuscisse a ribaltare le sorti di quel dialogo. «Beh, questo dovevi dirlo prima di fare sesso con me, non dopo. O sei anche tu un adorabile bastardo come la maggior parte dei maschi?», rincarò con determinazione, puntandogli l’indice contro e riversando su di lui chissà quante maledizioni. Chissà quanto era grave la ferita che le aveva inferto al cuore.
Lo scrutò a lungo, indignata, mentre il respiro di lui si faceva sempre più affettato e meno controllato. Meno credibile: non ci crederà mai.
Beatrix doveva essere tanto dura di comprendonio quanto attraente perché ci cascò in pieno. Con un’espressione dapprima affranta e poi piccata, notò seccamente: «Oh. Quindi sei un adorabile bastardo anche tu. Scusami per non averti riconosciuto prima: dovevo essere proprio cieca. Sono solamente un’illusa, ho capito.»
Terence pensò ‒ con un certo spavento, a dire il vero ‒ che avrebbe tanto voluto baciarla e appartenerle, fin quanto poteva. Pensò che forse un giorno in una vita prossima avrebbe avuto la fortuna di avere al proprio fianco una ragazza come Beatrix: per ora, avrebbe dovuto accontentarsi di ricordi, di quei ricordi. Registrò gli scorci più definiti del volto di lei: i suoi capelli biondi e scompigliati dal vento, le labbra corrugate in una smorfia d’odio e d’ira, gli occhi che lampeggiavano minacciosamente sui suoi. Stava esercitando ‒ perfino in quel frangente ‒ su di lui un’incredibile malia ‒ totalmente umana, stavolta.
A dispetto di quei sentimenti inequivocabili, Terence aveva paura di Beatrix e di quella situazione. Forse gli sarebbe saltata addosso per ammazzarlo ‒ o peggio: castrarlo ‒ o picchiarlo; forse si sarebbe accontentata di un calcio; meno probabile di un pugno...Si aspettava comunque una reazione da parte sua, che fosse catastrofica o riduttiva. Era scritto nelle stelle: la personalità esplosiva di lei non poteva permetterle di mettere da parte l’orgoglio e rassegnarsi a quella fine. Era un altro dei tratti che Terence amava di lei: era una combattente nata, che non s’arrendeva dinnanzi agli ostacoli ma li affrontava con coraggio e spavalderia.
Ma lei lo stupì ‒ come faceva ogni volta. Rilassò i muscoli del collo e inarcò le sopracciglia: sembrava piuttosto volersi sciogliere in lacrime. «Vattene, Terence.», sibilò, ma la sua intenzione di apparire distaccata fallì quando le sue parole si spezzarono in una sottospecie di singhiozzo convulso.
Lui, teso come una corda di violino, cercò di osservare il suo volto un’ultima volta ‒ giusto per carpire altri frammenti, altra vita in lei ‒ ma probabilmente doveva essere già in preda alle lacrime e perciò gli sfuggì, voltandosi con un brusco scatto e divincolandosi malamente dalla sua stretta.
L’ultima cosa che Terence Hewitt vide di Beatrix Jordan fu la sua folta chioma ondeggiare prepotentemente sulla schiena mentre era lei, furiosa e addolorata, ad andarsene. Via.
Contemplò ancora per un istante il ritmo inferocito dei suoi passi veloci che la trascinavano via ‒ via da lui, oltre l’orizzonte ‒ con la stessa violenza di un’onda anomala.
Lui tentò di soffocare il rimorso che l’attanagliò subito dopo, trovando consolazione nella promessa che quello scricciolo dai capelli biondi e dagli occhi azzurri sarebbe stata da quel momento in poi la regina segreta dei suoi sogni.
 

 

 
L’Angolo di Mary
Ave, di nuovo! Eccoci al secondo capitolo di questa Mini-long: ho deciso di pubblicare tutto stasera, in modo da togliermi dall’impiccio.
Mi è piaciuto molto il personaggio di Beatrix Jordan e spero di approfondire la sua storia un giorno. Intanto godetevi (?) il capitolo e, se avete voglia e tempo, recensite – sono sempre apprezzati i commenti, perfino le critiche che spronano a migliorare! Ed io riconosco di averne piuttosto bisogno.
Spero che la storia vi piaccia.
Ci vediamo presto con il terzo ed ultimo capitolo! ♥
 
[5] Tratto da “Tanto gentile e tanto onesta pare”, sempre di Dante Alighieri.
[6] Tratto da “Mattino” di Ungaretti (riadattata).
[!] Citazione del Dr. Seuss [prompt del contest].
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Un messaggio dal Tempo ***


L e t t e r e   d a l   c i e l o
 
*
 
 
 
 

   
Capitolo III - Un messaggio dal Tempo
 
 
Due anni dopo ancora [di nuovo].
 
 
*
 
Era pronta.
Terence strinse la fiala fra le dita, facendo tintinnare il cristallo lucido contro l’unghia dell’indice: lanciò un’occhiata guardinga all’orologio. Erano le undici e mezza di mattina.
Era ancora troppo presto per testare la sua invenzione nuova di zecca, ma decisamente l’ora per godersi il tepore di un buon caffè nel bar “Hourglass” [7].
Uscì dal suo appartamento dieci minuti più tardi, mentre si sistemava il colletto del maglione e giocherellava con le chiavi, privo dell’allegria con la quale qualunque altro uomo avrebbe compiuto quel suo gesto. S’avviò con placida lentezza verso il viottolo dietro casa sua, studiando con minuzia i dettagli delle foglie decidue che s’innalzavano in aria quando erano sopraffatte dalla sferzante e gelida brezza autunnale. Era una scia infinita che si estendeva per chilometri disegnando spirali accese della luce del Sole e rilucenti d’oro. Perso nella venerazione di quel piccolo idillio, proseguì nella sua avanzata fiera ed audace ‒ come non lo era mai stata.
Raggiunse il locale in cinque minuti ‒ la mano in tasca a sfiorare possessiva l’ampolla del Destino di cui aveva recentemente fabbricato il contenuto ‒ e chiese con distacco la sua abituale bevanda. Il bar era una locanda angusta dove regnavano aloni rossastri di luce che incitavano una sensazione d’intimità che, per un ragazzo come Terence, non potevano guastare. Era un posto frequentato più che altro dagli anziani imprenditori di immobili della zona che approfittavano dei comodi sofà di cui era provvisto il bar per sostare una mezz’oretta e concedersi un breve ozio. Il numero di giovani era piuttosto esiguo: ve n’erano forse una dozzina ‒ perlopiù turisti che non conoscevano il luogo e si erano lasciati invitare dall’insegna trabocchetto che da fuori preannunciava una sorta di Anti-paradiso. Terence era immobile nella sua postazione: intorno a lui aleggiava l’aroma del sudore e dei cocktail che, miscelati insieme, producevano un odore nauseabondo.
Le persone s’accorsero di chi era appena entrato e cominciarono a parlottare fitto. Terence Hewitt, lAlchimista autistico, asociale, psicotico... era stato definito in molti modi ed aveva ancora da capire come certe idee potessero sorgere nella mente delle persone.
La gente non ne voleva sapere d’accettare la motivazione che lui se ne stava da solo perché era un tizio solitario. No, no e no: meglio additarlo come un sociopatico da manicomio; o come ragazzo affetto da una grave patologia; o come un criminale con i documenti falsificati ed un passato in carcere alle spalle... Se fosse stato uno scrittore, avrebbe riconosciuto che quelli erano in realtà ottimi spunti per tessere un’allettante trama su un «antagonista».
Ma non lo era più.
Si limitava a scrollare il capo dinnanzi a tanta stoltezza e a sorseggiare il suo caffè amaro ‒ senza dolcificanti ‒ quando l’eco del suono della campana della chiesa di St. Mary-le-Strand [8] sopraggiunse  al suo orecchio.
Era mezzogiorno.
Trrence pensò al volto di Beatrix che aveva riposto fiducia in lui; a quello di Calliope che l’aveva ammaestrato all’Arte; a quello del nonno che gli aveva impartito fino alla morte le più severe lezioni di Vita ‒ e anche oltre. Pensò che quelle erano state le Cause che lo avevano imbrigliato a Terra fino a quel giorno.
Assaporò un’ultima sorsata, posò la tazza vuota e bollente sul banco, e via col vento.
 
 
*
 
 

 
 
Terence piombò in casa e chiuse la porta a chiave in fretta e furia. Gettò bruscamente sul letto il suo marsupio ed estrasse senza indugio la sua preziosa provetta dalla tasca. Osservò bramoso la superficie di vetro che lo divideva dalla sostanza che aveva creato dopo tutti quegli anni di fatidici studi e desiderò che quel confine maledetto non esistesse più. Stava per oltrepassarlo, disse a se stesso per trovare una rassicurazione.
Ipnotizzato dal colore innaturalmente argenteo del miscuglio, passò le dita sul cristallo alla ricerca di un contatto con l’esito del suo arduo lavoro. Ce laveva fatta.
In quegli anni Terence aveva dato finalmente adito alla lettera del cielo e si era impegnato a rispettare le ultime volontà di Calliope e di suo nonno. Aveva studiato per il piacere di farlo ma aveva spremuto le meningi ‒ attingendo a tutto il suo bagaglio delle conoscenze ‒ al fine di innovare, come gli avevano insistentemente suggerito i propri mentori.
E alla fine c’era riuscito: il piccolo miracolo era sopraggiunto anche per lui e gli aveva regalato la giusta dose di fortuna ed illuminazione che l’aveva, nel suo poco, sradicato nel profondo. Tutte le sue convinzioni erano state capovolte: da erede della Conoscenza e seguace di questa in tutte le più svariate forme era diventato un abile traduttore. Traduceva il linguaggio del sapere in labirinti di possibilità e svicoli: il suo compito era esplorare, scavare a fondo nelle terre della Fantasia per trovarvi sbocchi che avrebbero potuto rivelarsi brillanti.
Ed ora era lì, con in mano un infuso bollente e con un mucchio di sogni infranti ai piedi. La decisione da prendere era banale e forse per questo motivo tanto importante: provare o no?
Per tutta la sua vita aveva evitato ogni sorta di rischio, preferendo sigillarsi nel cristallino tepore delle rassicurazioni e delle certezze ‒ nonostante come persona non ne avesse mai avute. Addentrarsi in quell’oceano di dubbi ‒ non molto diverso da quello in cui s’era immerso per salvare la lettera del cielo ‒ era stato come una boccata d’aria: aveva avuto paura ed aveva trattenuto il respiro, ma alla fine aveva concluso che tentar non nuoceva. Anzi, offriva alla sua vista solamente una grande e magnifica moltitudine di portali immaginari.
Terence ‒ sebbene la giovane riscoperta della creatività ‒ non aveva ripreso a scrivere: era davvero terrorizzato all’idea. Era stato diverse volte sul punto di regalare di nuovo la luce al suo stilo sepolto e alle parole che aveva sigillato nel proprio cuore, ma non ce l’aveva fatta: quello era troppo complicato. Non riusciva ad affrontare dirimpetto l’assenza di suo nonno Daniel e di Calliope: gli incubi ed il rimorso l’avrebbero assillato sino a renderlo folle. Non voleva, non poteva.
In quel momento, tuttavia, Terence sapeva chi era: un Hewitt. Avrebbe lottato sino alla fine dei suoi giorni al costo di difendere i valori del proprio nobile lignaggio.
Perciò, quando alzò la fiala che scintillò sotto i barlumi del sole che filtrava dalla finestra, non esitò ad abbeverarsi di tutto ciò che aveva creato, di tutto ciò che era.
 
 
*
 
Tempo. Terence ne percepiva i rintocchi, mentre il vortice in cui era immerso mulinava attraverso le correnti dell’oceano e lo trasportava aldilà delle coste ‒ alla deriva. Attorno a lui, il mare della Cornovaglia ‒ uno scenario che gli era ormai caro ‒ brillava delle rosee sfaccettature del tramonto che in esso si rispecchiava. Eppure Terence rammentava che nella sua realtà fosse l’ora del mezzodì, e non pomeriggio inoltrato.
La risposta gli arrivò istantanea nel frattempo che il turbinio elettrico che lo lambiva lo scorrazzava di qua e di là: non si trovava in un universo in cui il tempo era scandito con rigore, ma si trovava in un piccolo squarcio dell’entità incorporea che era il Tempo. Poteva benissimo essere il tramonto o l’alba: questo altro non era che una nota passeggera della melodia che lo trascinava indietro.
Si guardò intorno e scorse nelle onde che sopraffacevano gli scogli immagini fioche del proprio passato, talmente flebili che pensò che fossero una mera allucinazione: nell’acqua di zaffiro fu in grado di distinguere scorci della propria infanzia, di Calliope e del nonno che gli insegnavano la Vita.
Terence sospirò, sfiancato da quella corsa infinita, e si rassicurò affermando che almeno il suo esperimento non era fallito ‒ stava viaggiando nel tempo. Avrebbe ben presto vissuto i momenti del passato sotto la guida di un’altra delle Muse ‒ Clio, la protettrice della Storia [9] ‒ e avrebbe assaporato i brividi della conoscenza spiritica di un contesto temporale antecedente alla propria nascita ‒ alla propria vita. L’idea lo mandava in uno stato di estasi catartica: era da sempre stato uno dei suoi sogni, totalizzare la propria saggezza personale e conformarla alla vastità del mondo che si offriva alla sua indagine. Era sempre stato uno dei suoi sogni, conoscere i principi di ogni cosa e studiare i collegamenti causa-effetto che si erano sovrapposti nel trascorrere delle epoche.
Perciò, quando s’appigliò al vortice con ogni briciolo della sua forza, il Tempo raddoppiò la sua danza e accelerò.
Un battito di cuore furioso e spaurito tradì la sicurezza di Terence: si sentiva sì in parte come se stesse governando quel mondo parallelo ed immaginario ma al contempo vittima della fatale breccia che quell’Entità stava aprendo sulla via del Destino. E se non avesse ben calibrato gli equilibri spazio-temporali? E se non avesse analizzato a dovere le controversie di una visita nelle vicende storiche? E se non fosse sopravvissuto?
Ormai era troppo tardi pensarci: Terence non era più nella realtà e non poteva rivalutare la sua creazione ‒ sebbene avesse una tremenda nostalgia di casa.
Si disse che era qualcosa che doveva fare: per se stesso, per l’ipnotica Calliope ‒ , per l’ombra ancora vivida di Daniel Hewitt.
S’aggrappò ancora di più alla bufera che lo sovrastava con la sua mortale nebbia argentea e osservò il panorama di fronte a lui che si era intanto radicalmente trasformato: come per incanto, il mare sembrava essere sfociato in un immenso lago ‒ sempre riflettente le eco superstiti del tramonto dorato e purpureo che sormontava con tutta la sua incandescenza l’acqua profonda e gelida ‒ che si trovava alle falde di un’imponente montagna che somigliava al Monte Fuji del Giappone, costellato da lande floride di vegetazione e da un prominente ghiacciaio.
Se non fosse stato a pochi chilometri da quella meraviglia, Terence non ci avrebbe mai creduto: il monte si stagliava sulla distesa oceanica quasi come se fosse un’isola a parte.
Era ancora lì, in piedi in mezzo alle furenti raffiche del tornado, con gli occhi dominati d’oblio smarriti nella meraviglia della Rocca del Tempo. La bufera lo trascinò con un profondo impetp ai piedi della montagna dove si trovava un enorme cancello d’oro costituito da clessidre e sormontato da un orologio grande quasi quanto il Big Ben londinese.
Terence ne ammirò le sfaccettature luccicanti e caotiche: i granelli delle clessidre si mescolavano continuamente gli uni con gli altri, confondendo l’orientamento delle lancette che si muovevano ininterrottamente in direzioni contrapposte e creando una cascata di sabbia che confluiva nell’oceano con ineccepibile armonia. Sembrava che il Tempo compisse una danza ultraterrena prima di stabilire il suo equilibrio universale, quasi come se i suoi “sottintendenti” si consultassero prima di definire il loro scorrimento.
Fu in quel momento che il cervello del ragazzo andò in tilt e lui crollò dinnanzi allo sconvolgente scenario di quella scrosciante pioggia d’oro.
 
*
 
 
«You’re coming back for me
 
Terence si risvegliò con la faccia immersa nel fango: in genere ne sarebbe rimasto disgustato, ma quella era tutt’altra occasione. Aveva ancora bisogno di riprendersi dalla bizzarra vicenda a cui aveva appena assistito e che avrebbe dovuto essere soltanto uno scorcio della sua avventura, se tutto era andato bene. Era perciò più rapito dalla valanga di quesiti che s’affollarono nella sua mente che da altro.
Si guardò intorno e non riconobbe il luogo dov’era finito: sembrava tutt’altra città rispetto a Londra. Regnava un forte odore di smog ‒ proprio come nella sua città madre ‒ , questo era vero, ma lo scenario era, se possibile, ancor più deleterio: era finito in una terra di fabbriche circondate da mucchi di pattume disordinato e dal marciume dei rifiuti organici buttati per strada. Somigliava più ad una discarica che ad un complesso industriale.
Lui si rialzò a fatica, esausto da quel viaggio che l’aveva scombussolato, e osservò ripugnato le scorie ammuffite che aveva appena calpestato. Ottimo, stava camminando nella merda ‒ letteralmente.
Tentò di non guardare in basso e di non annusare quell’infimo putridume mentre s’avviava cautamente verso una catapecchia aperta a ridosso di una delle fabbriche minori. Non sapeva perché ma era incondizionatamente attratto da quel rottame di porta: un impeto d’animo gli suggeriva di addentrarsi in quel capanno e di scovare il segreto che cercava lì.
Esitò un attimo, allertato da quell’impulso sospetto, ma decise di scacciare via quell’inquietudine e di proseguire. Quando s’avvicinò alla baracca e fu in grado di sbirciare al suo interno, constatò che era in rovina esattamente come aveva immaginato: la stanza era squallida, a soqquadro e priva perfino di un briciolo di dignità. Regnava un fetido odore di spazzatura che invase le narici di Terence facendogliele contrarre fastidiosamente: cercò di trattenere più possibile il fiato e di non respirare quell’aria marcia. Le pareti erano a tratti lignee a tratti brunite ‒ in prossimità dell’ingresso ‒ , percorse da venature screziate di mille sfumature di marrone ‒ da un tiepido color argilla ad un mattone intenso.
Con suo sommo stupore, s’accorse che dentro c’era una persona. Era immobile, accomodata su una sedia reclinabile, con la pelle imperlata di sudore e con i capelli quasi del tutto rasati appiccicati sulla nuca.
Quando Terence s’avvicinò di soppiatto, la figura misteriosa si voltò verso di lui. Quel viso era deturpato dall’età e dai marchi di Vita: la sua pelle era bronzea e rugosa, i suoi occhi cangianti di limpide sfumature verde mare e le sue labbra raggrinzite in un’eterna smorfia di dolore.
Non appena piantò gli occhi su quelli del ragazzo, si aprì in un minuscolo, fatidico sorriso e bisbigliò con voce spezzata e debole: «Fa sempre piacere ricevere visite dal futuro. Non è così, Terence Hewitt?».
Tutte le sue supposizioni crollarono dopo aver recepito quelle parole: e così quell’uomo sapeva.  Sapeva chi era, sapeva da dove veniva: incredibile quanto l’anzianità contrapponesse una consolidata arguzia alla decadenza fisica. Terence fissò la sua pelle scheletrica con autentico orrore, spaventato dall’eventualità che potesse sparire da un momento all’altro dalla sua visuale.
Quel vecchio era decisamente decrepito.
Nonostante il suo corpo dovesse aver prosciugato ogni sua energia solo per sostenersi autonomamente e non cadere inerte, il vecchio raccolse fiaccamente un respiro e proferì: «Sì, so chi sei. La ragione è un’altra storia. Tu sei qui per me e per i nostri fati intrecciati.»
Terence si domandò cosa diavolo potesse lui aver a che fare con un vecchio rachitico conosciuto nel passato, quando una minuscola breccia d’illuminazione si dischiuse nella sua mente. Oh. Quel vecchio rachitico era Z, il personaggio che suo nonno aveva celebrato più volte nelle sue opere e che non aveva mai scordato. Un vecchio folle che gli aveva lanciato un anatema d’amore ma a cui aveva voluto tanto bene. Quand’era scomparso dalla vita di nonno Daniel, quest’ultimo aveva a lungo sofferto per l’assenza dell’amico.
«Hai sempre avuto un cervello lampante, non è così? Hai già capito chi sono. La Musa Calliope ha tentato di persuadere anche te: sei l’erede di tuo nonno e guardacaso porti anche lo stesso cognome.»
La sua voce era così flebile che Terence ebbe l’assurdo istinto di afferrargli saldamente le mani e tenergliele. Riconobbe devastato che erano soltanto le eco del ricordo della sofferenza del nonno ammalato e dei piccoli gesti che faceva per rasserenarlo quand’era con lui in ospedale. Non riuscì a reprimere un singhiozzo strozzato.
Come aveva sempre fatto, esiliò il pensiero con fredda spietatezza e si concentrò sulla risposta da dare all’uomo: «I miei genitori sono divorziati da quando sono nato e ho mantenuto il cognome materno, tutto qua.»
Z s’illanguidì in uno stanco sorriso a fior di labbra: «Tuo nonno è un eroe. Mi ha salvato dalla strada, regalandomi ciò che di più caro possedeva: il cuore. Si è offerto di darmi ausilio e così facendo è diventato un mio amico ‒ lamico. Ho scoperto che se ne è andato ed è per me un messaggio infinitamente luttuoso. Ricorda, Terence: anche gli eroi muoiono
Sembrava un infimo spregio che mirava a giustificare qualcosa. Anche gli eroi muoiono.
Sembrava una frase messa lì a caso, come a vanificare tutto ciò che era stato suo nonno ‒ un maestro di Vita. Anche gli eroi muoiono.
Sembrava l’ennesimo plagio di una riedizione di aforismi stucchevoli inventati da chissà quale stolto. Anche gli eroi muoiono.
Terence non voleva crederci: non era in grado di immaginare un mondo in cui l’ombra di suo nonno fosse un altro marchio destinato ad estinguersi nell’oblio, non era in grado di digerire il fatto che suo nonno fosse destinato a bruciare come qualsiasi altra creatura del pianeta; non era in grado di accettare che lui non ci fosse più.
Una volta per tutte, gli occhi gli bruciarono di collera e la sua implosione fu distruttiva. Cominciò ad urlare e a strepitare, sotto gli occhi pacati del vecchio Z; lo accusò perfino di averlo maledetto anni prima e di aver quindi contribuito alla sua lesta partenza; gridò in tutte le lingue che conosceva che gli eroi non potevano morire perché erano invincibili e immortali ‒ e la morte di suo nonno laveva falsamente disilluso.
Si ricordava che tutta la famiglia aveva compianto la perdita di Daniel Hewitt al funerale, ma lui no. Non aveva versato neanche un cenno di lacrima. Sua madre l’aveva ritenuta una cosa innaturale e l’aveva fatto analizzare da uno psicologo. L’esito era stato che il paziente era assolutamente normale e aveva accettato la cosa.
Proprio lui, il nipote preferito di Daniel, quello a lui più affiatato e affezionato!
Gli psicologi non avevano mai capito che una parte di lui era deceduta con il nonno. Tumore ai polmoni da overdose di sigarette, dicevano: il suo era stato più un tumore allanima, sebbene non fosse certo della sua esistenza.
Anche gli eroi muoiono.
Menzogne.
Fandonie.
Bugie.
Z chiuse le palpebre grinzose e le riaprì in fretta, lasciandosi sfuggire un ansimo, come se fosse stato colpito da un dolore improvviso. Si piegò in due e Terence poté scorgere nitidamente una ferita dietro le spalle: somigliava ad una pugnalata.
Avanzò di corsa e fece per aiutarlo a sollevarsi, ma Z lo bloccò: «Fermo, non ne vale la pena. Ormai anche la mia ora è scaduta. Ho lasciato tuo nonno ‒ anche se io lo ricordo come un adolescente ‒ pochi anni fa. Non interferire con la sua vita, te ne prego, ma se puoi accetta il mio dono. Il suo dono.»
Volse un cenno verso il tavolo scombinato ‒ l’ennesimo rottame là dentro ‒ ed il ragazzo vi scorse un piccolo scrigno. Lanciando una rapida occhiata d’insieme, intuì che era l’unica cosa di valore là dentro. Assaporò con il tatto le sporgenze dei cristalli ivi incastonati e si soffermò sulla serratura esitando. Poteva, doveva, voleva?, aprirlo?
Si voltò nuovamente verso Z, con l’intenzione di manifestargli la sua gratitudine, ma non trovò nulla in quella direzione se non dei fogli bianchi e stropicciati. Dovera finito?
Un’altra lampadina: anche gli eroi muoiono. No, no, non poteva essere. Terence tentò di convincersi che non fosse in quella maniera, ma quale altra spiegazione poteva esserci?
Restò lì, con il dubbio, pietrificato sul posto, fino al momento in cui il tornado non tornò a lambirlo dolcemente per portarlo a casa sua, giusto un paio d’anni più tardi.
 
 
*
 
 
Terence diventò uno scrittore a tutti gli effetti.
Dopo l’esperienza nel Tempo, aveva finalmente compreso che la sua “stella fortunata” non era l’Alchimia ‒ bensì la Scrittura.
Il giorno dopo il suo viaggio nel tempo prese il suo cofanetto e liberò da quella prigione la sua penna stilografica ‒ quella che era appartenuta a suo nonno ‒ con un’indescrivibile gioia: realizzò anche da quei suoi sentimenti quanto anelasse di ritornare a scrivere.
Non ci fu bisogno di fare acquisti: lo scrigno lasciatogli da Z era un set da scrittura completo di pergamene antiquate e stili obsoleti che francamente lo facevano impazzire.
Z si chiamava Zarijan. Aveva condotto ricerche su Internet e, risalendo agli archivi anagrafici, lo aveva individuato. Zarijan Alcott. Era un peccato non poter informare il nonno della cosa: si era a lungo interrogato sull’identità del suo amico Z ed era morto senza mai scoprirlo. 
In quel momento, Terence sorseggiò un po’ d’acqua dalla sua borraccia e osservò con tanto d’occhi la ragazza bionda che gli era appena sfilata davanti. Sorrise come un bracconiere che ha appena carpito la propria preda e si lanciò all’inseguimento.
Non si sarebbe mai riavvicinato a Beatrix ‒ non poteva innamorarsi: era un precetto degli Scrittori ‒ ma nulla vietava di contemplarla a debita distanza, no?
Stava appena entrando in farmacia: a giudicare dalle narici arrossate e dalla tosse fastidiosa, una brutta influenza. Tentò di non preoccuparsi troppo, convincendosi che era autonoma e capace di prendersi cura di se stessa. Non doveva interferire.
Quando lei uscì, notò che s’era nel frattempo legata i capelli ordinandoli in una lunga treccia. Era bellissima. Stava sbuffando controllando lo scontrino e imprecò sottovoce su quanto fossero bastardi i farmacisti per il prezzo di una stupida bustina di Fluimicil.
Se avesse potuto, sarebbe immediatamente corso da lei. Abbassò il proprio berretto, raccolse da terra la sua ventiquattrore ‒ non gli era necessaria ma lo rendeva un tizio più interessante e serio: cosa potete fare contro la stravaganza di uno scrittore? ‒ ed imboccò un vicolo a caso.
Contemplò le terrazze dove rampicavano piante d’edera e la nebbia londinese che gli penetrò i polmoni con la sua freschezza.
Anche gli eroi muoiono.
Era la verità: presto anche lui sarebbe morto ‒ e non era decisamente un eroe. Forse poteva commemorarli in un altro modo, tuttavia.
Li avrebbe fatti vivere sulla carta, nelle sue parole, dovunque avesse posto il timbro della sua anima.
Né Z, né Calliope, né Daniel Hewitt sarebbero svaniti dalla faccia del pianeta. Aveva lui quel poco di Vita che bastava a renderli spettri abbastanza corporei da poter essere ricordati.
Anche gli eroi muoiono.
Non se impressi nell’anima dell’Arte.
 
 
*
 
 
«You’re coming back to me
 
Quando Terence aprì lo scrigno, vi trovò un cumulo di pergamene. Vuote, scritte, abbozzate: tutta quella carta in un primo momento lo disorientò. Sembrava null’altro che l’invito a terminare il lavoro di quegli Scrittori.
Consultò brevemente alcuni appunti, e fugò ogni suo dubbio.
Alcuni scritti di Daniel Hewitt erano andati perduti, allora. Lì si raccontava di un’enigmatica fanciulla incontrata in libreria, tanto bella quanto irraggiungibile: una sorta di donna angelo, per così dire.
Sfogliando instancabilmente quelle bozze, trovò uno schizzo a mano di un volto. Stupefatto, sfiorò la carta e s’appropriò di quel disegno che era già ‒ incredibilmente ‒ presente nelle sue memorie. E così Calliope aveva angustiato anche l’anima di suo nonno, prima della sua.
L’ultimo foglio era ricoperto d’alghe e Terence non stentò a distinguerlo: la lettera caduta dal cielo. Come aveva fatto Z a recuperarla? Mille quesiti gli mulinarono in mente ma si accontentò di leggere le parole intrise d’oceano ed assaporarle come se fosse la prima volta.
Rimaneva un ultimo mistero: scoprire il mittente di quella lettera benedetta.

 
 
FINE
 
 
 
L’Angolo di Mary
Eccoci arrivati al terzo ed ultimo capitolo di questa storia, dopo un intervallo di pausa di dieci minuti. XD
I prompt del contest erano: la citazione già vista, viaggiare nel tempo e anche gli eroi muoiono - credo di poterlo rivelare, ora. Lo ammetto, ero indecisa sul da farsi: alla fine, li ho interpretati in questo modo e spero di non aver combinato un pasticcio. E spero che non sia un esperimento finito male.
Quel che è sicuro è che Mary tornerà, più folle che mai, con qualche altra storia a sorpresa [in verità già le mancate]! Un ringraziamento a chi segue ormai la pazza Mary e a ch leggerà. Le recensioni sono sempre gradite! A presto, miei fanciulli! ♥
 
[7] Hourglass è un bar inventato: significa “clessidra”, mi piaceva: si calibrava al contesto.
[8] St.Mary-le-Strand: chiesa di Londra.
[9] Clio è la Musa della storia.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3501120