Acrostico in memoria di Lysandro

di Ally Dovahkiin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un tenebroso pregiudizio. ***
Capitolo 2: *** Una fulgida epifania. ***
Capitolo 3: *** Una sadica paranoia ed un appagante desiderio. ***



Capitolo 1
*** Un tenebroso pregiudizio. ***


È rinomato che più forti sono i sentimenti che si provano e più le parole faticano ad uscire.
Cosa sono le parole? E perché il loro significato cambia a seconda di chi le dice?

Pagina 13.




 

Mancavano pochi giorni a Natale, l'aria gelida accarezzava i volti portandone via il pallore per lasciar spazio ad un rossastro che tingeva le guance e le punte dei nasi rendendoli così lucidi da potersi specchiare davanti ad essi.

Le nubi che imbiancavano il cielo lasciavano intendere che da qui a poco si sarebbe vista una bella nevicata, era così tanto tempo che non vedevo più la neve, minimo tre o quattro anni. Mentre ci riflettevo realizzavo che era da quando mi ero trasferito in quella città insieme a mio fratello Leigh non l'avevo più vista.

In un certo senso mi mancava, perché il Natale con la neve era così bello. Perché mi ricordava casa e la nostalgia che portava con sé: il camino acceso che donava una flebile luce calda alla stanza, i volti assopiti nella penombra, la vecchia sedia a dondolo di mia madre, il profumo di cannella e nella bocca ancora il sapore di quei biscotti fin troppo friabili, ma che non avevano rivali nei supermercati di città. Speravo di poter tornare da loro durante queste vacanze. Speravo.

Una folata di vento ghiacciato mi avvolse ed io mi strinsi nella mia giacca, mi guardai intorno, il panorama era spoglio, quasi tetro, eppure così straordinariamente tranquillo. Il grigio era il colore che predominava il paesaggio. L'unica nota che mi stonava.

L'avevo sempre considerato un colore così vacuo, non mi ispirava assolutamente nulla, forse quando avevo deciso di tingermi i capelli avevo scelto una sua sfumatura per rendermi in qualche modo anonimo. Non so perché, ma in quel momento mi sembrava la scelta migliore.

Quando varcai il cancello della scuola notai che pochi studenti stavano in cortile, il freddo costringeva le povere anime a rinchiudersi in qualsiasi luogo anche di poco più caldo, sembrava che quel fabbricato chiamato “Liceo Dolce Amoris” sembrasse più accogliente che il grigiore esterno. Il grigio contaminava ogni cosa, si insinuava lieto nelle carni ed intorpidiva gli arti e i cuori.

Appena entrai venni investito da una brezza tiepida di riscaldamento acceso, percepii gli odori quasi amalgamati che provenivano da ogni singolo individuo che prima di me aveva percorso quel corridoio per recarsi in classe. Andai dritto per la mia strada come mio solito, senza guardarmi intorno, senza badare ai luoghi comuni che echeggiavano dalle bocche tenere degli abitanti della scuola. Non guardavo mai niente che potesse non interessarmi, e spesso dato questo lieve pregiudizio davo troppo per scontate cose che in realtà celavano un grande potenziale.

Mi sedetti silenziosamente al mio posto, ultima fila a sinistra vicino alla finestra. Salutai con un cenno le mie compagne Iris e Violet che erano già in classe e persi subito il mio sguardo al di fuori delle mura. Le sentivo vociferare del più e del meno e di come avevano passato il loro fine settimana. Era sempre un piacere sentirle parlare, Iris era così solare, sorrideva sempre, sembrava quasi che la sua vita fosse uscita fuori da uno di quei cartoni per bambini che trasmettevano la mattina presto; anche se in realtà non era proprio così. A volte credevo che fingesse soltanto di sorridere e che fosse un'adorabile falsa. Violet invece era una ragazza molto introversa, parlava sempre quasi sottovoce e qualora non fossi proprio tu il suo interlocutore era quasi impossibile sentirla parlare. La trovavo una creatura interessante, impregnava di sé fogli bianchi rendendoli pezzi della sua vita, un po' come facevo io col mio taccuino.

Mi chiedevo se fossero quelle le parole di noi persone riservate, una specie di linguaggio segreto che custodivamo in un oggetto il quale avremmo protetto anche a costo della nostra stessa vita, ma che in realtà non vedevamo l'ora che venisse decifrato da qualcuno. Qualcuno che ci somigliasse, qualcuno che riuscisse a placare la gelosia che abbiamo verso i nostri sentimenti ed eliminare la paura che qualcuno ci possa ferire, anche se il più delle volte eravamo proprio noi a farlo non permettendo a nessuno – o a pochi scelti – di entrare nel nostro piccolo mondo fatto di emozioni.

Man mano che i minuti scorrevano la classe cominciava a riempirsi. Mi turbò molto il fatto che la riga degli ultimi banchi fosse interamente vuota, c'ero solo io, a sinistra. Mi sentivo quasi scoperto, vulnerabile e non riuscivo nemmeno a ricordare se fosse già accaduto negli anni passati oppure no. Capitava spesso che Castiel, il mio migliore amico, nonché compagno di banco mancasse, e già quella condizione mi metteva un po' a disagio, ma questa era decisamente poco sopportabile.

Diedi uno sguardo al cellulare per vedere l'orario, mancava un minuto alle otto, ed ancora non si vedeva nessuno degli ultimi banchi, fino a quando, proprio sul trillare della campanella è arrivata lei. La nuova alunna di quell'anno.

Vestiva come di norma con lunghi abiti neri, che fossero soprabiti, maglioni, lunghe gonne o pantaloni a sigaretta; ma quello che mi colpiva era la leggerezza che quei vestiti portavano ad ogni suo passo. Sembrava che si vestisse di onde nere le quali si infrangevano contro l'aria ad ogni suo passo per poi tornare da dove erano partite. Era come se fosse un continuo eco di sé stessa. Anche i suoi capelli erano dello stesso colore, li portava raccolti in una coda alta e cotonata dalla quale si liberavano a tratti ciocche lisce ed elettrizzate che svolazzavano ad ogni suo impercettibile movimento. Dinnanzi a tutta quell'oscurità invece la sua pelle risplendeva quasi di luce propria, come la luna in una notte di tenebra senza stelle.

Tutti quando arrivava la fissavano come se fosse la prima volta che la vedevano, io invece non mi ci soffermavo molto sopra, lei non offriva altro che il suo aspetto per farsi conoscere alla gente, lei non comunicava con nessuno, nei mesi che aveva passato nella nostra scuola con noi non avevo sentito proferire dalla sua bocca una sola parola. Si esprimeva solo in poche, rare, occasioni con qualche gesto. La degnai solo di una leggera occhiata, che venne ricambiata subito, mi guardava spesso, ci avevo fatto caso. Ogni tanto sentivo i suoi occhi grigi su di me dal suo banco, fila centrale, sulla destra.

Quando la professoressa arrivò ruppe un po' il vociferare comune, cominciò ad esporre un lavoro di gruppo che avremmo dovuto svolgere per la lezione successiva, il che suscitò un malcontento generale poiché vi erano solo due giorni dall'una all'altra. Lei rassicurò subito i suoi oppositori dicendo che si trattava di qualcosa di estremamente facile, dovevamo scegliere il testo di una canzone ed analizzarlo con il nostro compagno. Rimasi un po' interdetto, la nostra professoressa di letteratura si stava dimostrando forse un po' troppo new age e troppo poco professionale. Non capivo bene quale fosse lo scopo di questo lavoro di gruppo.

Qualora fossi finito con Castiel – cosa quasi inevitabile dato che era il mio compagno di banco – sapevo già che mi sarei trovato a cercare, o inventare, significati satanici celati nelle canzoni degli Iron Maiden, oppure giustificare l'utopia anarchica nei pezzi dei Sex Pistols.

Sospirai e cominciai a scarabocchiare sul mio taccuino cose molto astratte le quali non potevano essere classificate con un nome preciso, erano semplicemente emozioni trasfigurate in linee. Mi piaceva farlo quando non ero abbastanza ispirato per scrivere delle parole significative. Continuai per un po', fino a quando la professoressa, infida come non mai, pronunciò il mio nome e quello della nuova arrivata.

Alzai lo sguardo come d'istinto e la guardai. Dafne, ed i suoi occhi grigi cerchiati di nero che mi stavano fissando con la loro sproporzionata grandezza.

Abbozzò quasi un sorriso con le labbra pallide ma dal suo sguardo era percepibile che avesse voluto farlo con molta più enfasi. Per un attimo un brivido mi percorse le carni fino ad arrivare nelle ossa, era così enigmatica che non riuscivo a capire che genere di persona fosse, sapevo solo che per un'istante la sua espressione mi agghiacciò; ma non era solo quello il problema. La domanda che mi stavo porgendo in quel momento era come avrei fatto a comunicare con lei dato che non parlava. Oddio i suoi voti erano a dir poco brillanti, anche se per lei ogni interrogazione era come una verifica alla cattedra: il professore domandava e lei scriveva su di un foglio.

Trovavo curioso però quanta fiducia affidava nel professore d'inglese, al quale portava una chiavetta USB con le registrazioni dei brani che leggeva. Tante volte vedendo quella chiavetta e il professore con le cuffie mi era venuta la curiosità di sapere come fosse la sua voce. A guardarla non mi veniva in mente nulla, effettivamente data la sua figura non riuscivo a stereotiparla in alcun modo.

Poggiai il mento sul palmo della mano e sospirai chiudendo gli occhi, per quanto non ero entusiasta di rimanere del tempo da solo con quella era mio dovere farlo. Voltai ancora lo sguardo verso di lei, mi stava ancora fissando e le diedi un contentino, le regalai un piccolo sorriso, così incredibilmente piccolo e falso del quale sembrò non esser soddisfatta.

Alla fine delle lezioni la fermai poco prima che uscisse dall'aula, presi un po' di coraggio e cercai di non sembrarmi troppo patetico per cercare di parlare ad una che nel migliore dei casi mi avrebbe risposto con un gesto.

«Ciao...» allungai un po' l'ultima vocale un po' imbarazzato «Dafne» conclusi secco.

Non sapevo bene come muovermi, per me era già decisamente difficoltoso parlare con qualcuno con il quale non avessi confidenza, in quella condizione poi, già mi immaginavo le fragorose risate che si sarebbe fatto Castiel quando glielo avessi raccontato, se e solo se avessi deciso di farlo.

Lei allungò la sua bocca con un'innocenza così inaspettata che io non potei fare a meno di distogliere lo sguardo per quell'istante, tuttavia la ritenevo ancora un'astuta calcolatrice e lo sgomento che mi creava rimaneva tale e quale a quello che avevo sempre percepito quando ero vicino a lei.

«Ti sta bene se per il progetto ci incontriamo qui al liceo verso il tardo pomeriggio? Prima avrei da fare» mentii spudoratamente, forse volevo solo del tempo per prepararmi psicologicamente.

Annuì piegando la testa da un lato e socchiudendo gli occhi, quando li proiettò ancora sui miei mi sembrarono ancora più grandi e nevrotici di un secondo prima. Li fece roteare per un po' accompagnandoli con un movimento della testa e poi mi indicò l'orologio che portava al polso.

«L'orario? Emh… beh, le diciotto?» dissi per poi mordermi l'interno della guancia «Nathaniel mi ha dato le chiavi già altre volte, non credo che farà eccezione questa volta, dobbiamo solo essere discreti».

Dafne mi diede la conferma con la mano e poi mi accarezzò la guancia, il suo arto gelido percorse lentamente il mio viso, mentre, sempre con gli occhi mi salutò e se ne andò via per il corridoio con lo stesso leggiadro andamento con il quale era arrivata.

 

Mentre tornavo a casa non riuscivo a togliermi dalla testa quelle due sfere grigie, avevo ragione quando dicevo che era un colore contaminante, vacuo, triste.

Dopo pranzo Rosalya, la ragazza di mio fratello, fece tappa nel nostro appartamento. Cercai il più possibile di passare inosservato ma niente sfuggiva alle sue iridi feline e, vedendomi turbato, mi chiese se dovevo metterla al corrente di qualcosa. Cercai di essere vago, ma non era una tattica attendibile con lei, che volle sapere ogni cosa di quella mattinata a scuola. Così non ebbi altra scelta che ricordarle che ero stato messo nel gruppo con Dafne, la ragazza nuova, decisamente ambigua, che mi metteva sempre una certa inquietudine ogni volta che la incontravo. Le raccontai del suo comportamento insolito, dato che tutte le altre volte si era limitata solo a fissarmi di tanto in tanto.

Lei assottigliò lo sguardo e si fece strada fra i capelli argentei con le dita, il suo portamento deciso non si scompose di un grado, ma si vedeva che stava elaborando qualcosa nella sua mente scaltra.

«È semplice, le piaci!» sbottò lei.

Io ne rimasi impietrito e mio fratello ridacchiò un po' dall'altro lato della stanza, il quale era tangibile che non voleva metterci becco, tuttavia, non poteva fare a meno di ascoltare. Dal canto mio, non feci altro che arricciare il naso e abbassare lo sguardo sconvolto.

«Perché fai quella faccia? Dovresti esserne contento! È una bella ragazza alla fine, certo avrebbe bisogno di una piccola revisionata al guardaroba, ma anche con quegli abiti funebri fa la sua figura» trillò sorridendomi maliziosamente «magari in cuor suo sogna che tu possa diventare il suo Apollo!» concluse sognante.

Mi chiesi se Rosalya avesse capito a fondo il mito, ma decisi di non starci troppo a ricamare sopra, dovevo smorzare il suo entusiasmo prima che fosse troppo tardi. Magari poteva anche avere la brillante idea di organizzare un appuntamento al buio o cose del genere, era da troppo tempo che desiderava accompagnarmi con qualcuna e non riuscivo a spiegarmi come capisse che quella fosse la ragazza giusta per me.

«Rosalya, sai, nel mito è Dafne che fugge da Apollo, non il contrario» dissi un po' lagnante e sottovoce.

Lei si protese squadrandomi dall'alto al basso con diffidenza, così non ebbi altra scelta che essere cristallino.

«Rosa» dissi facendo un gesto deciso, come per stoppare bene le mie parole nella sua mente «Dafne non è Nina. Credo che sia una nevrotica da trattamento sanitario obbligatorio. Tu… tu non fai caso a come mi fissa, a come cerca di seguirmi inosservata. Lei mi spaventa, sul serio» conclusi diretto.

Sentendo quelle parole lei si allontanò quasi disgustata dalle mie parole, sembrava che avessi detto la peggiore delle ingiurie quando in realtà mi ero semplicemente limitato ad esporre la realtà dei fatti dal mio punto di vista. Lei sembrò non aver recepito questo dettaglio e mi girò le spalle dirigendosi verso la porta.

«Dimmi Lysandro, quante persone sanno che Leigh della boutique in centro è tuo fratello?» disse senza voltarsi con la mano poggiata sulla maniglia.

Aggrottai le sopracciglia e piegai la testa da un lato non trovando quella domanda nemmeno lontanamente pertinente alle mie precedenti parole.

«E quanti sanno che i tuoi genitori abitano in campagna e tu abiti qui con tuo fratello? Quanti sanno, o almeno si possono immaginare, cosa ci sia scritto dentro quel taccuino che porti sempre con te? Dimmi… quante persone sanno cosa ti ha portato ad essere quello che sei oggi? I tuoi gusti, le tue idee, i tuoi sogni… riflettici».

Detto quello aprì la porta e se ne andò via. Mi girai verso Leigh che mi fece spallucce come per dire che lui in queste faccende non voleva entrarci, scelta che approvavo a pieni voti.

 

Le parole di Rosalya sembravano non voler darmi pace, tanto che mi stesi sul letto e cominciai a rifletterci, sapevo benissimo cosa intendesse, ma non pensavo fosse il caso di Dafne, anche se in tutta onestà ci stavo male. Mi sentivo una persona oscena. Aveva saputo giocare bene le sue carte, quindi me ne stavo lì a fissare il soffitto con aria smarrita con un grande peso sul cuore e un nodo alla gola, fino a quando le mie palpebre non divennero così pensanti che non riuscii più a sorreggerle.



***
Spazio Autrice:


Beh, se non si fosse notato questa è una Lysandro (o Lysandre che dir si voglia) centric. Adesso io non sono chissà quanto brava con la prima persona, però ho cercato di sbrogliarmela meglio che potevo, anche se riguardando il resto della storia mi sto già odiando per questo!
Bene, detto questo spero che questo primo capitolo vi sia piaciuto! Grazie mille per aver speso il vostro tempo con la mia storia (: .

P.S. il personaggio di Dafne è leggermente ispirato a Lydia Deetz, un personaggio immaginario del film Beetlejuice di Tim Burton.

 

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Capitolo 2
*** Una fulgida epifania. ***


Quando mio fratello mi venne a svegliare non avevo l'impressione di aver dormito, ma di aver chiuso gli occhi per un istante e di averli riaperti subito dopo, non avvertivo nemmeno il torpore che invade il corpo appena ci si sveglia o il ricordo di scene che avevano abitato libere la mia mente per il tempo di un sogno.

«Allora? Com'è andata? Vedo che sei tornato vivo» rise lui mentre si alzava dalla sponda del mio letto.

«Che?» chiesi confuso.

«Con la ragazza, quella che credi sia isterica. Com'è andata?».

«Che significa com'è andata?» dissi guardandomi distrattamente intorno «Oddio che ore sono?» chiesi impietrito.

Leigh sgranò gli occhi e prese un profondo respiro, capii subito che in realtà avevo dormito, eccome se avevo dormito!

«Sono le ventidue» sibilò guardandomi con un'espressione di compassione.

Mi alzai di corsa dal letto e appena fui con i piedi per terra venni colpito da un immenso giramento di testa, ma in quel momento non potevo permettermi di perdere altro tempo così mi appoggiai all'armadio, guardai mio fratello e dissi: «Perché non mi hai svegliato?».

«Non sapevo che dormissi, sono uscito verso le diciassette con Rosalya, sono tornato ora!» si giustificò alzando addirittura le mani.

Io me le passai entrambe sul viso, non potevo credere a quello che era successo, mi tremavano quasi le gambe, tuttavia dovevo farmi coraggio ed affrontare la cosa. Era un piccolo errore di percorso che poteva capitare a chiunque, anche se mi dispiaceva veramente troppo di averla lasciata lì ad aspettarmi a vuoto.

«Dici che se vado lì ce la trovo?» gli chiesi in preda ai sensi di colpa.

Espirò rumorosamente scuotendo la testa e si mise una mano dietro il collo, non sapevo quanto volesse essere rassicurante, ma in quel modo non lo era di certo.

«Se è veramente pazza come dici, sì» disse scettico.

Presi un profondo respiro e annuii a Leigh, così di corsa presi il soprabito e corsi verso il liceo senza nemmeno portarmi con me un effetto personale tanta era la fretta. Mentre correvo le parole di Rosalya mi echeggiavano nella mente, io non volevo essere quel genere di persona e in cuor mio ero certo di non esserlo. Forse per una volta ero in errore, anche se non mi piaceva pensarlo dovevo accettare anche questa possibilità.

Da quando avevo messo da parte la gentilezza, a volte anche forzata, che mi aveva sempre caratterizzato per lasciar spazio al pregiudizio? No, quello non ero io. Era stato un errore, un terribile errore.

Quando arrivai ai piedi dello stabile avevo il respiro affannato dai nervi e dallo sforzo fisico, rimasi per un po' lì, ad osservare la porta con le mani sulle ginocchia e il viso che mi andava in fiamme. Provai ad aprire il portone principale e vidi che non era chiuso a chiave. Non mi sentivo per niente rassicurato però, non potevo avere nessuna garanzia che fosse lei, effettivamente non avevo chiesto le chiavi a Nathaniel, e Dafne, in totale onestà, non vedevo come avesse potuto farlo, dato che oltre a non parlare a nessuno sembrava non dare nemmeno confidenza.

Con il cuore in gola mi feci strada. I corridoi erano bui, sembrava che nessuna luce fosse accesa, camminai adagio fino a quando non vidi un barlume che proveniva dalla porta socchiusa della biblioteca. Bussai due volte ma non ricevette risposta, al che mi armai di buon spirito e feci scorrere la superficie legnosa sotto la mia mano.

C'era. Era lì; ma non era la Dafne malata di mente che mi fissava in classe, era una diversa e sicuramente addormentata. Aveva le braccia conserte sopra il tavolo della biblioteca e il volto appoggiato con i capelli che vi ricadevano sopra. La sua espressione era distesa, come se finalmente in un sogno avesse trovato la pace. Mi balenò subito in mente l'idea che potesse anche sognare me, ma scacciai subito via quel pensiero, in fondo le parole di Rosalya non erano proprio legge.

Mi chinai appena su di lei e le scostai i capelli dal viso, per poi scuoterla delicatamente per farla svegliare. Lei mosse gli occhi appena e poi li aprì, mi guardò e sorrise di gioia, scoprendo i suoi denti bianchi leggermente macchiati dal rossetto rosso che aveva messo. Vidi in lei l'istinto e la voglia di abbracciarmi, il quale non cercò di frenare in alcun modo. Le sue braccia mi cinsero il collo e subito arrivò alle mie narici il suo profumo dolce, che mi riportò a casa dei miei genitori, aveva un odore simile a quello che sentivo da piccolo, quando si mettevano a riscaldare i croissant con lo zucchero a velo sopra. Non resistetti, lasciai scorrere le mie mani sulla sua schiena, i suoi abiti erano così morbidi, mi piaceva la contrapposizione che le mie dita avvertivano fra loro e i suoi capelli ispidi, cotonati e pieni di lacca.

In quel momento capii che Dafne non parlava, lei dava e basta, non aveva altro mezzo di comunicazione se non quello. Da una parte la ammiravo, lei non aveva paura di agire, di esternare nel concreto quello che sentiva; repressione che io spesso non riuscivo a vincere data anche la timidezza che spesso mi vincolava.

Quando mi allontanai non riuscivo a nascondere l'imbarazzo, e lei rideva divertita, rimasi anche un po' offeso dalla sua risata poiché non fece altro che mettermi in ulteriore disagio. Quando se ne accorse non tolse il suo sorriso dalla bocca, ma moderò notevolmente. Infine mi prese la mano e la premette verso il basso, così mi misi seduto, nacque spontanea nella mia testa un'unica domanda, più o meno fondamentale.

«Come hai avuto le chiavi?» le chiesi un po' spaventato dall'eventuale risposta.

Mi mostrò l'indice teso dalla sua mano scarne e bianca, mentre con l'altra frugava vorticosamente nella sua borsa a tracolla nera piena di scritte fatte col bianchetto e toppe di vari gruppi musicali che ondeggiavano dal gothic metal al rock classico; alla fine trovò il suo cellulare, sbloccò lo schermo e mi fece vedere i messaggi che si erano scambiati lei e Nathaniel.

Ero ancora più confuso, come faceva ad avere il suo numero? Mi venne spontaneo scuotere la testa in segno di dissenso, così sospirò e mi fece vedere gli ultimi messaggi ricevuti, aveva la casella piena di contatti di persone della nostra classe, tra i quali lessi con una specie di orrore anche il nome di Rosalya. Cominciavo a riconsiderare chi dei due fosse veramente quello strano e asociale.

«Sono contento che ti sei integrata bene» dissi un po' secco.

Un'ombra si formò nel suo viso, poi scosse la testa e mi porse il foglio che aveva sotto il viso, nel quale vi erano stampati una parte di rossetto e la parte finale dell'occhio di Ra, dettaglio con il quale aveva arricchito il suo solito trucco nero già egizio. Quando lo vidi non potei far a meno di sorridere, vidi che era un testo di un gruppo del quale non avevo mai sentito parlare. Le parole erano scritte a macchina, cosa che gradii molto, poiché significava che non lo aveva solo copiato e incollato da internet. Lessi il testo “Acrostico in memoria di Laio”, del gruppo Area, mi sconvolse letteralmente. Non riuscii a capirne a pieno il significato, non comprendevo cosa mi volesse comunicare e dai suoi occhi era tangibile che volesse dirmi qualcosa.

«Credi sia un buona idea? Non sono riuscito a capirne granché» dissi io lievemente imbarazzato.

Lei abbassò lo sguardo e mi indicò il nome di Freud alla fine della canzone, dopo una piccola riflessione capii che era deliziosamente collegabile all'ultimo argomento che stavamo trattando con la professoressa, anche se ero certo del fatto che non avesse scelto quel brano solo per questo.

«Capisco...» sussurrai.

Mi voltai verso di lei, ma i suoi occhi questa volta non cercavano i miei, avevo compreso bene il mio errore, ma quel testo poteva significare così tante cose, che ne ignoravo il messaggio più elementare.

Lei cominciò a scrivere nel suo quaderno, la sua grafia era tondeggiante e curata nonostante scrivesse a gran velocità, questo mi lasciava intendere che fosse abituata a scrivere molto, e la capivo forse troppo bene. Mentre se ne stava rannicchiata a mezz'aria sopra il quaderno potevo osservare il suo profilo illuminato dalla fredda luce artificiale della biblioteca.

La sua fronte era una linea tondeggiante che si intersecava alla perfezione con il suo naso leggermente all'insù, il quale scendeva nelle curve morbide della sua bocca non troppo carnosa, tinta da quel rossetto rosso acceso che brillava a contrasto con la sua pelle bianca e i capelli corvini, i quali incorniciavano alla perfezione le sue orecchie lievemente a punta che sorreggevano un paio di orecchini argentei con delle croci rovesciate.

Dinnanzi a quella visione non potei far a meno di mordermi il labbro, era una visione così soave, forse era l'oscurità a renderla così bella.

Sì, la vidi, all'interno della mia fantasia, lei aveva oltrepassato la porta della mia sensibilità e se ne era vestita, entrando in quella dimensione che solo io potevo vedere. Quando le parole morivano e le luci si spegnevano, restava questo universo che mi cullava e rimetteva ordine nei miei pensieri così incredibilmente irrazionali. La sua visione era bellissima, come mai nessuna avevo visto. Lei si copriva di tenebra, veniva cullata dal pianto della luna che solo lei poteva udire e prenderne l'essenza senza rubarla. Lei se lo meritava, meritava di danzare fra le luci del crepuscolo fino a scomparire con l'arrivo della luce dagli occhi di chi non poteva vedere come una stella, poiché come le stelle, era sempiterna.

Quella visione mi inebriava, ma la mano ossuta di Dafne mi portò radicalmente alla realtà e mi guardò come per accusarmi che non la stavo seguendo, infatti era vero, ma se solo avesse saputo cosa in realtà stavo vedendo sono sicuro che mi avrebbe perdonato all'istante. Così con un mezzo sorriso da ebete stampato in faccia lessi quello che aveva scritto, tuttavia lo consideravo un po' esanime, freddo, e anche se era un testo veramente difficile da comprendere, sentivo che c'era dell'altro da metterci al suo interno.

«Secondo me non è completo, ma non credo che a quest'ora ci verranno delle illuminazioni...» dissi biascicando le parole.

Ricordo ancora con imbarazzo quella frase pronunciata con una dizione così oscena, la quale ancora oggi ha ben pochi rivali nel suo campo. Non seppi bene il come o il perché esse fuoriuscirono in quella maniera così confusa, cacofonica, forse quelle sono le prime parole prima di un'epifania. Un miracolo che si presta alla tua visione senza chiedere il permesso, quelle sono le parole che escono quando finalmente lo capisci.

Lei annuì mentre mi dava il foglio con la canzone e il suo quaderno, era logico che spettasse a me la parte introspettiva ed era anche giusto.

«Domani alla stessa ora?» le chiesi distrattamente e mi morsi la lingua poco dopo «Cioè… l'ora effettiva» risi per sdrammatizzare.

Lei sorrise un po' e mi accarezzò un'altra volta il viso, guardandomi intensamente negli occhi. Sembrava che volesse scavarmi dentro, quasi per andare a cogliere tutte le mie sfumature come se fossi un corpo iridescente, in realtà in quei frangenti sapevo essere relativamente criptico se volevo e non lasciavo trasparire niente che io non volessi dal mio sguardo.

Sospirò rumorosamente, dopodiché prese la sua roba e si incamminò verso l'uscita salutandomi con la mano, ma io la fermai e le proposi di riaccompagnarla a casa. Quella era sì, una città tranquilla, ma ai miei occhi lei era così fragile, volevo proteggerla in ogni modo ed anche passare un altro ritaglio di tempo con lei.

Mentre camminavo al suo fianco a passo lento non riuscivo a non guardarla, i suoi vestiti tracciavano le linee guida del suo corpo, ma in realtà bramavo di scoprire come esso realmente fosse, le sue guance erano scarni, evidenziavano gli zigomi, anche le sue mani lo erano, ma le sue gambe e il suo seno sembravano prosperosi quindi mi mandava decisamente in confusione. Sapevo che non dovevo vederla subito in quest'ottica, dovevo darmi un freno se non volevo vederla scivolarmi via dalle dita ancora prima di averla afferrata, ma non ero abituato a tutto quello. Quelle emozioni che mi avevano colpito durante e dopo al visione erano così tumultuose da togliermi il respiro.

Sentivo il cuore contorcersi e la gola chiudersi sotto quella morsa infernale, d'un tratto capii che sarebbe stato un fardello che avrei portato con me fino a quando mi sarei dichiarato a lei, ma come fare? Ero così dannatamente chiuso, mi sentivo in equilibrio fra inettitudine e razionalità, faticavo a capire cosa avrei dovuto fare una volta arrivato sotto casa sua. Mi sentivo in qualche modo minacciato dallo scambio di messaggi con Nathaniel, il bel delegato dai capelli biondi e gli occhi azzurri, sapevo bene che fosse ridicolo, ma non riuscivo a capire perché nascesse in me quella prorompente gelosia.

Ero terrorizzato dall'immediatezza dei miei sentimenti, ma mi sentivo anche avvilito da quel senso di profonda dolorosa repressione.

Arrivati sotto casa sua lei mi salutò con un gesto e restò per un po' a guardarmi con le sue stupende, iridi grige, sapevo bene cosa si aspettasse da me, ma io non potevo, non in quel momento, era troppo presto.

La salutai anch'io con la mano senza dire una parola, e me ne tornai verso casa nel dubbio atroce di aver sbagliato qualcosa, non mi voltai nemmeno per paura di vedere della delusione nel suo volto. Mi stavo comportando in una maniera così immatura e codarda che quasi mi facevo pena da solo, ma sapevo che non era naturale un sentimento del genere all'improvviso, l'amore non nasceva così di punto in bianco, oppure sì?



***
Spazio Autrice:


Ebbene sì, si può dire che finalmente sembra stia succedendo qualcosa. So bene che i ritrmi delle mie fic, soprattutto se sono corte come questa, prendono via d'improvviso dopo un capitolo o più di pura stasi, ne prendo la piena coscienza! Però sono un'inguaribile amante delle introduzioni, non posso farci nulla e sto attraversando il periodo dell'abominio dei dialoghi diciamo. 
Bene, se siete arrivati fino a questo capitolo vi ringrazio e ci tengo a dire che il prossimo, che sarà anche l'ultimo, sarà molto OOC, vogliate perdonarmi ^^"
Un saluto,
Ally!

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Capitolo 3
*** Una sadica paranoia ed un appagante desiderio. ***


Passai un'oscena notte bianca, piena di pensieri e rimpianti, la mia realtà faticava a mettere a posto le cose poiché troppe erano le sensazioni provate. Avevo come l'idea che si accartocciasse su se stessa, era molta pressione anche per un universo immaginario che comunque nasceva dalla mia mente, così alle tre di notte circa ebbi finalmente l'illuminazione. Dovevo scrivere una poesia per Dafne, ma non sapevo bene come impostarla. Un'ode? No, troppo esagerato; ma una poesia d'amore era veramente troppo scontata. Tuttavia una ballata non mi sembrava consona alla situazione, troppo antica. Cominciavo a riflettere sull'epigramma dato il mio stato d'animo, ma era decisamente poco fausto. Avanguardia? Non era proprio da me… .

Dopo un lungo ricamare e libri di letteratura sfogliati fino allo sfinimento ebbi forse la più semplice delle idee, una sestina narrativa, un classicismo rivelato nel suo stemma, ovvero l'endecasillabo, tuttavia non mi sentii di raffigurare in maniera esplicita la figura salvifica della donna, che sarebbe lei in questo caso. Ero così dannatamente imbarazzato, mi vergognavo a morte di ciò che stavo scrivendo, ma dopo vari tentativi riuscii a svincolare il tutto usando la tattica del correlativo oggettivo. Presi come ispirazione il panorama di questi giorni, monopolizzato dal grigio – colore che stavo nettamente riconsiderando - e il bianco di giorno, e la loro mutazione nella notte, stessa trasformazione alla quale avevo assistito su di lei.

Quando finalmente fui soddisfatto del mio lavoro non trovavo più conveniente andare a dormire – o per lo meno provarci – così riempii la vasca di acqua bollente e bagnoschiuma e mi immersi al suo interno. Mi lasciai coccolare da tutto quel calore e giocai distrattamente con la schiuma mentre riflettevo se fosse veramente il caso consegnarle quella poesia oppure lasciar perdere evitando così anche una probabile delusione nel caso non fossi ricambiato, l'ennesima delusione, anche se forse quella volta avrebbe fatto più male, ma ancora non potevo saperlo.

Sprofondai nell'acqua e mi immersi completamente trattenendo il fiato e tenendo gli occhi chiusi. A volte mi chiedevo come sarebbe stato respirare sott'acqua, ma ogni volta prendevo coscienza del mio pensiero stupido e mi chiedevo per quale ragione ogni tanto spuntassero nella mia mente pensieri del genere. Alzai le palpebre lentamente, il bagnoschiuma mi pizzicava agli occhi, ma era bella la visione da laggiù, era come se mi facesse scudo da ogni mio problema: «Ogni mio pensiero è al di là di questa parete» pensai.

Vi sarei restato all'infinito se dopo poco non sentissi il disperato bisogno di prendere aria e così riemersi ed ero di nuovo al punto di prima. Sentivo anche un briciolo di invidia verso Dafne, lei non aveva paura di esprimersi, io invece ero così coniglio quando mi ci mettevo, chissà cosa avrebbe pensato di me dopo quella sera, non sapevo con quale faccia mi sarei presentato da lei l'indomani mattina.

Una volta finito il bagno misi un accappatoio e dato che era ancora presto spulciai ancora una volta nel suo quaderno, mi piaceva vedere la sua grafia, scorreva lieta nel foglio donando la forma che quelle parole meritavano, il mio sorriso ebete venne però spezzato da una nota sull'ultima pagina, c'era un numero telefonico, sicuramente il suo numero.

«Perfetto» pensai fra me e me «altre paranoie».

Passai pesantemente la mano sulla faccia come a volerla strappare via, ma come avevo fatto a non farci caso? Eppure avevo letto ogni cosa... come avevo fatto a soffermarmi solo alle righe che aveva scritto?

Senza ricamarci ulteriormente troppo su salvai il numero in rubrica e decisi di fare un'azione decisamente scellerata, quasi al limite delle mie capacità. Salvai il numero in rubrica e cominciai a scriverle un messaggio: «Buongiorno. Oggi dopo le lezioni ricordami che devo consegnarti una cosa, è importante».

Meditai profondamente sul tasto INVIA, sembrava un po' subdolo, come se volesse dire che una volta che avessi accarezzato il suo corpo non avrei avuto più modo di tornare indietro, ed era vero, mi stava forse sfidando?

Girai lo sguardo da un'altra parte e lo feci, INVIA… inviato.

Chissà se anche le ragazze si facevano tutti questi problemi quando si trattava l'ambito amoroso? Di sicuro non mi avrebbe calmato i nervi, ma almeno mi sarei sentito meno solo. I miei pensieri si posarono così su Rosalya, beh, no. Proprio no. Lei non era tipo; ma perché io sì?

A volte credevo che non fosse poi così grandioso vedere le cose come le vedevo io, con la mia odiosa sensibilità amplificata che mi rendeva le cose più semplici o immensamente belle o drasticamente disastrose, anche se in realtà, un pensiero razionale le avrebbe analizzate per ciò che erano, senza complessi che si andavano a ramificare come piante rampicanti ad ogni singolo dettaglio di un pensiero ricoprendolo di felicità o tristezza. Non era bello essere così sensibile, mi faceva sentire fragile, ed io non volevo esserlo, immagino che nessuno vorrebbe.

E poi non riuscivo a togliermi quel titolo dalla testa, “Acrostico in memoria di Laio”, mi rilessi il testo per cercare questo famoso acrostico, ma non lo trovavo. E poi chi era Laio? L'eroe greco o una persona normale chiamata Laio? Dato che si nomina anche Freud mi veniva da pensare più al mito, dato che il caro Sigmund era decisamente fissato con i miti greci, bastava vedere Edipo, il quale alla fine era proprio figlio di quest'ultimo, e conoscendo le dinamiche del mito, beh sì, aveva senso.

Alla fine mi convinsi che quel testo non aveva alcun senso e che Dafne si era solo divertita a farmi sgocciolare il cervello giù dal naso, e ci era riuscita! Anche molto bene. Stavo lentamente piombando in un leggero baratro di isteria, ma ciò che ora è più divertente è che stavo facendo tutto con le mie mani.

Mi stavo finendo di preparare per andare a scuola e mentre mi lavavo i denti il cellulare vibro dal mobile a specchio che si ergeva appena sopra il lavandino, il quale fece un rumore infernale. C'era un messaggio di Dafne, diceva: «Buongiorno anche a te, Lysandro».

Disperato poggiai l'apparecchio lì dove l'avevo lasciato l'ultima volta, non avevo più la forza nemmeno di farmi domande – alle quali tanto non avrei trovato risposta – mi faceva male la testa ed ero esausto sia fisicamente che psicologicamente.

Dopo una decina di minuti ero per strada, impeccabile come al solito, ma con un uragano in testa ed anche nello stomaco dato che non mangiavo nulla dal pranzo del giorno prima, tuttavia mi ero accontentato di una dose doppia di caffè; nonostante i continui brontolii non avevo voglia di mettere qualcosa nello stomaco, non mi andava nulla.

Nel tragitto non riuscii nemmeno a focalizzare la mia attenzione su qualcos'altro, qualunque cosa potesse catturare la mia attenzione, ma nemmeno l'albero solitario del parco vicino al bar riuscì a suscitarmi qualcosa. Dovevo sopportare quel senso di inadeguatezza cosmica.

Appena arrivai a scuola venni subito fermato da Rosalya, la quale sorridendo mi disse: «Oh, Lysandruccio! Vedo che sei sopravvissuto» ammiccò.

Per un attimo mi si raggelò il sangue nelle vene, ma dovevo rassegnarmi alla sua profonda curiosità scimmiesca. Dal canto mio, mi limitai ad annuire, ma si leggeva nei suoi occhi gialli da gatta che voleva sapere altro, anche se effettivamente non c'era niente da raccontarle, perché era una che delle parole se ne faceva poco, per lei contavano molto di più i fatti.

«Non sperare di prendermi in giro così, Leigh mi ha detto che sei rientrato a casa che era quasi mezzanotte!» sussurrò maliziosa.

«Rosa, Leigh magari ha dimenticato di dirti che sono uscito di casa che erano le ventidue…» dissi alzando lo sguardo ed intravedendo appena Castiel che entrava a scuola straordinariamente in orario «suona molto meno scandaloso così, non trovi?».

Lei rimase decisamente delusa e sembrò quasi mettermi il muso, allora io la liquidai con un saluto veloce dicendole che dovevo assolutamente andare a parlare con Castiel per le prove, la più squallida delle scuse, ma anche la più credibile data la mia attività sociale e Rosalya sembrò crederci, forse perché si era già offesa sulla base di non so cosa a dir la verità.

Quando entrai vidi con sollievo l'ultimo banco a sinistra, occupato a destra. Quando il mio vicino mi vide mi diede una veloce occhiata e poi ridacchiò, dovevo avere davvero un aspetto pessimo per farlo divertire in quel modo, già, perché di solito quello che arrivava a scuola con le occhiaie, pallido in volto e poca voglia di parlare era lui. Quella mattina i ruoli si erano un po' invertiti.

Mi sedetti senza dire una parola e mi girai subito verso la finestra, ma quando lui appoggiò rumorosamente i piedi sopra il banco capii che lo stava facendo per attirare la mia attenzione. Ruotai di poco la testa mentre un piccolo sorriso mi sfuggì via dalle labbra, non volevo dargli la soddisfazione di vedermi da vicino, oh no.

Data la sua insoddisfazione davanti al mio gesto lui mi prese la testa fra due mani e mi girò di scatto facendomi scrocchiare tutte le vertebre – esistenti e fantastiche – del mio collo. Un dolore atroce mi colpì per qualche istante, poi passò adagio.

«Ti sei dato ai rave?» ironizzò.

«Ma sei pazzo?» sbottai io.

«Droga?».

Sospirai socchiudendo gli occhi.

«Donne?».

Io lo guardai storto, cominciavo ad essere scettico della sua ironia.

«Nemmeno quelle donne? Niente di niente?» trattenne a stento una risata «E cosa ti ha tenuto sveglio? Lovecraft?».

«Mh...» storsi la bocca tornando a guardare lo stesso panorama di sempre alla finestra «e se ti dicessi che forse ho incontrato il mio zombie di vudù?».

Castiel cercò di analizzare bene la mia frase, lo si poteva notare dalla finissima, quasi impercettibile, ruga d'espressione che gli veniva sulla fronte, sapevo che lui sapeva ascoltarmi, era in grado di capire quel che dicevo, perciò l'avevo preferito a molti altri.

«E, se si può sapere, cosa ti fa credere che sia “il tuo zombie” e non “uno zombie”?» domandò avvicinandosi.

«Secondo te è possibile innamorarsi in un giorno?»

Se c'era una cosa che odiavo fare era rispondere ad una domanda con un'altra domanda, ma dato il mio caos mentale in quell'attimo, nel quale mi sembravo sul ciglio di un baratro prima dell'isteria, era forse l'unico escamotage attuabile.

«Boh, le ragazze lo chiamano colpo di fulmine» rispose vago, poiché giustamente non poteva sapere dove volessi andare a parare.

«No, io intendo un'altra cosa: una persona che conosci da un po', con la quale non hai mai parlato, ma d'improvviso quando vi trovate soli è come se la vedessi in una luce del tutto diversa, e diciamo che ti genera una serie di complessi dai quali difficilmente puoi divincolarti» sussurrai a mezza bocca.

Non volevo che il trio delle oche mi sentisse, anche se erano impegnate a starnazzare degli affari loro non potevo sapere se i loro ricettori da pettegole fossero funzionali o meno.

Castiel mi guardò e dall'espressione che gli dipinse il volto, stupore misto «ma tu sei pazzo», capii che aveva compreso. Dovevo ammettere che in quel momento che mi confidai con lui il peso che avevo sullo stomaco si alleggerì di molto, mi sentivo, per quanto in maniera relativa, più leggero.

«Cioè, ma come...» disse quasi scioccato «ma com'è possibile? Ma stai parlando della muta?».

Gli feci cenno di abbassare il tono e poi gli annuii. Lui sgranò gli occhi, era incredulo quasi quanto me da quella situazione paradossale, eppure era accaduto.

«Ma com'è successo?» chiese vagamente interessato.

Io gli raccontai tutto quello che era successo, lui sembrava ad ogni parola più attonito, ma quando capì che si trattava di una cosa seria, e non di uno scherzo come lui avrebbe desiderato, cercò di essere comprensivo.

«Beh, ma allora che problema c'è? Dagli questa poesia e finisci questa analisi dell'acrostico in memoria di… Nonmiricordo. Sbaglio? Se ti liquida te ne troverai una che parla, il danno è poco».

Io accettai il suo consiglio, era curioso come quanto io me lo sia ripetuto per tutta la notte nella speranza di convincermi, e poi arriva lui, che mi dice le stesse identiche cose – in modo decisamente più diretto e poco rispettoso nei confronti di Dafne – e credevo che magari potrebbe essere la cosa giusta da farsi.

Forse a volte abbiamo solo bisogno di qualcuno che ci dica le parole che vogliamo sentirci dire, solo così, armandoci del coraggio infuso da altri cuori impavidi, possiamo arrivare a compiere quegli atti che prima credevamo impossibili, o almeno ci illudiamo di questo i primi cinque minuti. Diciamo che nel mio caso avrebbero dovuto essere ancora meno, poiché trenta secondi dopo, Dafne entrò in classe. La salutai con moderazione e lei fece lo stesso. Cercai di mantenere il mio coraggio saldo, e superando ogni mia aspettativa ci riuscii anche dopo la fine delle lezioni.

Aspettai che tutti, lei compresa, uscissero dalla classe, poi presi furtivamente dal mio taccuino il foglio dove avevo scritto il componimento per lei e mi avviai fuori dalla stanza.

Dafne mi aspettava attaccata agli armadietti del primo corridoio, aveva le mani dietro la schiena e si dondolava con un'innocente grazia. Mi avvicinai lentamente, anche se notai dalla sua espressione vagamente colpevole che si era accorta del mio arrivo, ma continuava a trastullarsi ed a far finta di niente.

Appena fui abbastanza vicino mi schiarii un po' la voce e lei si girò falsamente sorpresa, era veramente una pessima attrice, ma era adorabile. Non le dissi nulla, ma le lasciai solo il foglio con la poesia per lei. Guardò il pezzo di carta con stupore, vero stupore, e mi fece cenno di avvicinarmi, dopodiché mi schioccò un bacio sulla guancia e se ne andò battendo sul suo polso con due dita, come a voler ricordarmi l'orario. Per niente al mondo sarei arrivato in ritardo quel pomeriggio.

Arrivata l'ora di pranzo mangiai parecchio, anche se mi trovavo a farlo da solo, Leigh aveva avuto un grosso ordine alla boutique e doveva fare gli straordinari con Rosalya. Era ovvio che dovessi compensare tutto il digiuno patito. Una volta mangiato e sistemato mi misi a ragionare su quel dannato acrostico, il quale mi stava letteralmente rovinando la vita, anche se dopo che avevo consegnato il mio scritto a Dafne non sembrava poi erodermi il fegato così diabolicamente come faceva prima.

Pensai un po' al concetto di famiglia, sicuramente voleva comunicarmi che nella sua le cose non andassero benissimo, anche se speravo non vi fossero gli incesti strani che si trovavano nel testo. Cominciai a fantasticarci sopra, spesso quando scrivevo i pensieri che nascevano da quel mio mondo onirico ci azzeccavo. Provai a dare una forma più realistica alla cosa, ascoltandomi anche la canzone originale e smettendola di leggerlo solamente in quel foglio di carta.

L'introduzione smodatamente lunga mi lasciò il giusto tempo per pensare, la sua melodia a metà strada fra il jazz e il vecchio rock mi avevano trasportato ed alla fine colsi anche un po' la triste ironia che vi era in quel pezzo, anche se dell'acrostico non se ne vendeva nemmeno l'ombra e la cosa mi faceva innervosire.

L'orario del nostro appuntamento, sembrava così lontano che mi ritrovai ad aspettarla davanti al liceo quasi un'ora prima, il cuore mi martellava forte in petto, era in quel momento che si fece sentire l'ansia. Ero agitato nel sapere cosa avesse pensato della mia poesia, speravo solo non mi prendesse per un disadattato, insomma, i tempi in cui i ragazzi scrivevano poesie alle ragazze che gli interessavano erano forse un tantino surclassati, ma io, come lei, avevo forse un unico metodo di comunicazione, ed era quello. Sapevo che lei poteva capirmi, ne ero certo.

Dafne arrivò con mezz'ora di anticipo, sentii il cuore perdere un battito, mi avvicinai spontaneamente a lei, mi sentivo tempro e dovevo essere sicuramente arrossito, avevo così tanta voglia di sapere cosa ne pensasse. Purtroppo però lei estrasse sadicamente dalla tasca del suo soprabito un piccolo blocchetto di post-it azzurri e me ne attaccò uno sulle labbra.

Lo staccai e lo lessi, vi era scritto sopra una sola parola, un nome, quattro lettere: «Laio».

«Lo ucciderei io se non ci avesse già pensato suo figlio, capisci a che punto mi hai portato?» ironizzai, più o meno.

Lei sorrise e ci facemmo strada dentro il liceo, Nathaniel aveva ancora una volta lasciato le chiavi a lei, mi lasciava quasi intendere che lui se ne fidasse più che di me. Quando arrivammo alla biblioteca percepii una strana sensazione, come se vi fosse una leggera elettricità nell'aria che mi solleticava nonostante quella stanza odorasse di chiuso e polvere.

Le porsi quello che avevo scritto sull'enigmatico testo, ed in quell'istante speravo mi facesse capire cosa significasse esattamente quel testo per lei.

«Ci sei andato vicino» disse guardando il foglio.

Io sgranai gli occhi sbalordito, Dafne mi aveva parlato. Aveva una voce così dolce e melodiosa, un po' bassa, quasi annoiata. Era incantevole.

Lei sorrise ancora, e mi indicò il cuore: «tu sei Laio?» mi chiese.

Io non sapevo esattamente cosa risponderle, ma nel dubbio scossi la testa in segno di negazione.

«Bene, questo brano varia di significato a seconda di chi lo ascolta… volevo solo che tu capissi».

«Cosa?» balbettai appena.

«Perché non parlo» prese un respiro «non voglio essere notata dentro casa mia, tanto non lo sarei ugualmente. Mio padre è il Laio moderno, solo con una nuova compagna più giovane e due figli maschi, io sono Edipo. Io sono stata abbandonata da mio padre per qualcosa di migliore. Per assicurarsi un buon futuro per lui» dette quelle frasi si fece una croce sopra la bocca.

«No, ti prego, non smettere di parlare… io adoro la tua voce» le dissi accarezzandole la guancia.

Lei mise la sua mano sulla mia e mi guardò scuotendo la testa.

All'improvviso mi ricordai del pensiero che avevo avuto con Castiel, quello che mi convinse a darle la poesia, forse se le avessi detto quello che voleva sentire lei avrebbe riconsiderato la sua posizione, tuttavia non sapevo se con lei fosse adatto il linguaggio verbale. Mi lanciai totalmente nel vuoto, ci provai.

Le presi il viso fra le mani e la baciai, quando le nostre labbra si incastonarono una scarica di adrenalina mi percorse tutto il corpo e lei mi strinse forte in un abbraccio quando le nostre lingue si sfiorarono. Il suo odore di zucchero a velo caldo mi inebriò ancora una volta, sentivo la passione scorrere in me, era una voglia così prorompente che non riuscivo a trattenermi, tanto che la feci distendere sul tavolo della biblioteca. Non potevo credere a ciò che stavo facendo, ma non volevo tirarmi indietro.

Lei aveva capito ormai bene le mie intenzioni e non sembrava dispiacerle, le passai una mano sulle gambe longilinee, un po' ginoidi, fino ad insinuarmi all'interno del vestito lungo e nero per cercare l'inizio di quelle calze che ostacolavano il nostro incontro. Si sfilò le scarpe semplicemente strisciandone una contro l'altra, a quel punto io mi insinuai fra le sue cosce e le sfilai le calze e gli slip. Lei si irrigidì per un istante, così io la baciai dolcemente sulle labbra pallide, sul collo e sul suo petto mentre le accarezzavo quelle gambe così lisce, e l'interno coscia già vagamente umido. La sua fisionomia era strana, ma era la più bella che avessi visto. Aveva le fattezze di quella ninfa greca di cui portava il nome. Passai svariati secondi ad accarezzare la sua pelle bianca con la punta delle dita, passai dalle braccia che si allungavano fin sopra di me, accarezzandomi i capelli con una dolcezza tale che mi spinse a cercare le sue labbra ancora una volta, quella bocca di neve che aveva il sapore dell'infinito.

Con la mano mi feci strada nella scollatura del suo vestito e le toccai il seno morbido e già così deliziosamente maturo. Lei ansimava, ogni suo respiro entrava nella mia mente e accaldava ancor di più il mio corpo già bollente, ma non volevo che tutto si consumasse troppo in fretta, io volevo che quell'istante rimanesse impresso nella mente di entrambi. Lasciai fuoriuscire appena uno dei suoi seni, mi avvicinai cautamente con la bocca come se fosse la più delicata delle cose. Le baciai il fulcro della sua femminilità, strisciai appena il naso nella sua pelle e lei si fece strada con le mani attraverso la mia camicia accarezzandomi la schiena ricurva. Mi incitò a togliere il soprabito e mi sbottonò la camicia bianca. Quando mi poggiai ancora su di lei potei sentire tutto il suo mai ancora svelato calore, il suo dolce desiderio che si univa al mio. Avevo su di me la grande responsabilità di far sbocciare quel piccolo fiore delle tenebre, avevo il bisogno di comunicarle con il corpo ciò che lei era per me. Avevo voglia di fare l'amore, avevo voglia che per lei fosse la più bella delle notti.

La toccai nella sua intimità, sembrava fisicamente pronta, così decisi di dirle ciò che secondo me aveva bisogno di sentirsi dire, mi allungai sul suo corpo e sussurrai all'orecchio un: «Ti amo».

Lei mi guardò con gli occhi sgranati che poco dopo divennero lucidi dall'emozione, le baciai ancora il collo mentre lentamente entravo dentro di lei. Le sue gambe si chiusero dietro la mia schiena e mi porsero in avanti.

«Ti amo anch'io...» disse nella mia bocca «Lys».

 

Per Dafne fui il primo ragazzo, per me fu il primo, vero, unico, amore.

Tornato a casa non riuscivo a togliermi dalla faccia quel solito sorriso inebetito che aveva caratterizzato quegli ultimi giorni.

Contai le pagine del mio taccuino, erano dodici scritte, quel giorno si cominciava una nuova esistenza insieme a lei, la mia musa.

 

20 dicembre.

È rinomato che più forti sono i sentimenti che si provano e più le parole faticano ad uscire.

Cosa sono le parole? E perché il loro significato cambia a seconda di chi le dice?

Pagina 13.

Un nuovo inizio.

 

 

 

***

Spazio Autrice:

 

Bene, ora che ho modificato questo capitolo mi sembra essere decisamente migliorato, devo ringraziare il mio betareader di fiducia, Nichi per avermelo fatto presente. Mi è piaciuto concludere una storia, anche se breve, il giorno del mio compleanno ** detto questo si parte con i ringraziamenti:

Ringrazio tantissimo (ovviamente) Nichi, Kiritsubo83 che ha recensito questa storia dalle sue origini e linda84 per averla messa addirittura fra i preferiti! Inoltre un grazie va anche a chi ha letto questa storia silenziosamente, ve ne sono grata :)

 

Un bacione grande,

Ally!

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