Outsider

di reggina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Macerie ***
Capitolo 2: *** Devozione ***
Capitolo 3: *** Rimpianti ***
Capitolo 4: *** I care ***
Capitolo 5: *** Due volte ***
Capitolo 6: *** Buio ***
Capitolo 7: *** Outsider ***
Capitolo 8: *** Primo amore ***
Capitolo 9: *** Presente imperfetto ***
Capitolo 10: *** Fenice ***
Capitolo 11: *** Figlio unico ***
Capitolo 12: *** Risata di pancia ***
Capitolo 13: *** 15 anni ***
Capitolo 14: *** Promesse ***
Capitolo 15: *** Rinato il 4 luglio ***
Capitolo 16: *** Essere una moltitudine ***



Capitolo 1
*** Macerie ***


Il temporale estivo, uno di quelli che profumano di terra e fanno saltare la corrente, ha reso gli alberi traslucidi, sgonfiato i palloncini di una festa disorganizzata, sbavato gli striscioni esposti sul cornicione sporgente del portone in legno massello che sono tutti per lui.

Colin si sente come uno di quei lembi sgualciti: maceria tra le macerie.

Un bubbolio lontano, un residuo di tuono e un breve bagliore nel cielo che si schiarisce, lo fanno rabbrividire mentre le mani dei genitori si intrecciano dietro la sua schiena scossa in un esortazione silenziosa a proseguire insieme .

Non ha voluto feste movimentate e piene per il suo ritorno a casa: dopo i difficili giorni in ospedale chiudersi in sé stesso gli sembra la strada più semplice per non affrontare quello che, ancora, potrebbe distruggerlo.

Non vuole riempirsi di niente Colin: non di gente che gli graviti attorno piena di aspettative, non di emozioni o reazioni che possano trasformarsi in sbagli. È come il gatto che, una volta che si è scottato, non si siede più sulla stufa rovente.

Ma nemmeno sulla piastra fredda.


"Devo stendermi un momento!"

Il lungo viaggio in auto da Denver ad Everwood lo ha affaticato ma è l'altra stanchezza, quella che sa dare solo il vuoto, a scorarlo per davvero.

Sharon lo sostiene ma è costretta ad imitarlo e ad irrigidirsi assieme a lui dinnanzi allo specchio dalla cornice etnica posto all'entrata come biglietto da visita. E difronte a quella figura di rimando, al gonfiore del viso pallido e alle occhiaie, all'incisione vivida sul cranio rasato, lo sconforto represso a lungo esplode nella mente intorpidita di Colin.

I pensieri si affastellano, affollandosi di rumori ovattati e flash irradiati da una dimensione ancestrale, di medici ed infermieri che gli si affaccendano intorno. L'abbraccio in cui l'avvolge sua madre è saldo e protettivo ma non basta a salvarlo da quell'incertezza che lo fa impazzire e dall'imprevedibilità del futuro.

È solo in mezzo agli altri.


"Basta. Basta. Basta."

L'appello supplichevole ed impotente e la spinta risoluta di suo padre lo spingono lontano da quell'immagine distrutta. Residui di lacrime brillano negli occhi spenti di Colin come le ultime gocce di un temporale che pulisce tutto mentre Sharon improvvisa un letto di fortuna sul divano sfoderabile e Jim gli solleva sopra due cuscini le gambe ancora gonfie e doloranti.

Prima di cedere alla stanchezza, il ragazzo è attratto da una delle cornici esposte sul tavolino in vetro temperato: una talentuosa promessa del basket, in canottiera e con la palla d'ordinanza sottobraccio, dalla nerissima capigliatura fulgida e con un grande sorriso allegro sembra farsi beffa di lui.

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Capitolo 2
*** Devozione ***


È un momento in sospeso. I giocatori di football sono in posizione, immobili, sulla linea di scrimmage e rivoletti di sudore, sotto la grata protettiva dei caschi, tradiscono la tensione e l'adrenalina.

Poi tutto esplode in maniera irruenta e spettacolare, in una frammentarietà esasperata.


Colin viene strappato da quel mondo passivo e impersonale da una mano calda e gentile che si avviluppa attorno alla sua in una stretta a tenaglia. Amy cerca di rassicurarlo con quel suo sorriso fideistico, attingendo a quelle maratone di serate-tv e battaglie di solletico di quando il loro primo amore aveva le stesse parole e gli stessi respiri. Di quando non c'erano per nessun altro.

È coraggiosissima Amy: una demoiselle de la nuit , un po' folle, pronta a seguirlo nel vuoto.

Il ragazzo, però, si scansa arretrando contro il cuscino rettangolare del divano.

Non capisce se lei resti per pietà o per dedizione al passato. La percepisce così pura, così positiva e resiliente da esserne intimorito.

Vorrebbe essere come una di quelle api che succhiano il nettare dai fiori senza sciuparli o alterarne la freschezza.


"Vattene!"

L'imperativo, rigido e severo, riecheggia tra le pareti divisorie del soggiorno, intersecandosi con la telecronaca enfatizzata di un touchdown appena messo a segno.

Rimbomba nella testa frastornata di quella ragazzina pronta a risalire sulla loro barca rovesciata.

"Va via, Amy!"

Insiste Colin in quel suo estremo e sconclusionato tentativo di salvare almeno lei prima che sia troppo tardi. Prima che siano due vittime passive rimpicciolite da difficoltà giganti.

Amy, che ha visto trasformarsi quel valore assoluto in un amore vuoto, incassa e non insiste. Ha promesso a sé stessa di non essere irruente e pretenziosa come l'altra volta ed è disposta a concedere a Colin i suoi tempi, i suoi spazi e i suoi silenzi.

Si alza e gli lascia un bacio sulla fronte pulsante.

"Torno a trovarti domani!"


Si allontana, con rispetto e comprensione, coinvolta e stravolta da questa situazione precaria.

Sullo schermo i movimenti riottosi e risoluti dei giocatori paiono esagerati e Colin non può far altro che pigiare sul tasto rosso del telecomando e spegnere quel mondo di colori brillanti e brusii che gli fanno girare la testa.

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Capitolo 3
*** Rimpianti ***


Quei cinque minuti di evasione, davanti alla cassetta postale all'americana, sono diventati un irrinunciabile boccata d'aria nella mattina afosa e umida. Jim smista il quotidiano, un paio di lettere e un insieme di volantini fruscianti finché un plico più corposo non gli chiude, in maniera subitanea e definitiva, il cuore.

È una lettera di referenze da compilare e rinviare alla Notre Dame. L'università gli appare, in questo momento, come un progetto macchiavellico inconsistente, così sottile da infrangersi nella stessa fragilità in cui si sta logorando suo figlio.

Rientra e quel disincanto triste e consapevole gli impedisce di salire di sopra e di confrontarsi con il suo ragazzo che lotta in un inferno senza fiamme.


Nasconde la missiva in uno dei suoi giornali da collezione e cerca una via di fuga per non dover trovare risposte a domande che vorrebbe dimenticare, perché almeno per un po' i problemi siano degli altri.

Non riesce a restare sobrio di pensieri mentre si versa, uno dopo l'altro, un paio di old fashioned di brandy ghiacciato.

È un tonfo sordo e cupo, che rimbomba dal piano di sopra, a strapparlo da quell'autodistruzione e a fargli ritrovare la razionalità mentre si precipita su per le scale, salendo i gradini due a due.

Si blocca dinnanzi a quella distrazione del destino, al corpo in diagonale di suo figlio riverso sul corridoio lungo e stretto.

"Cosa volevi fare?"

Jim non perde tempo e si affaccenda per aiutarlo ad alzarsi ma la mano stretta in un pugno rabbioso e la testa china, che nasconde uno sguardo misero ed umiliato, sono quelle di un naufrago che sembra aver imparato a nuotare soltanto per prolungare l'agonia.


"Volevo scendere di sotto . Da solo."

Nonostante tutto la risposta di Colin è orgogliosa e provocatoria mentre accetta di sostenersi a suo padre e capitolare, soltanto, su una sedia in cucina.

Ci sono due dolori paralleli che si incrociano nell'impaccio del ragazzo e nello scoraggiamento di Jim ma è quella bottiglia a metà sul mobile bar vintage, che scorge quasi per caso, a deludere profondamente Colin.

"Ti preparo qualcosa per colazione!"

L'uomo cerca di ingoiare quel fallimento doppio, di stanare il suo cucciolo da quel guscio massiccio nel quale vive con i freni dopo aver passato il confine.

"Ho lo stomaco sottosopra, inghiottire è uno strazio e non ho fame!"

La risposta piccata è un promemoria delle speranze tradite e di quell'indifferenza in cui Colin si è trincerato quasi in autodifesa.


Suo padre non ribatte e gli prepara, comunque, due pancakes glassati di sciroppo d'acero, una fetta di bacon sfrigolante e un bicchiere colmo di succo di frutta.

"Sforzati un pochino. Per favore."

La richiesta supplichevole e le dita tozze di Jim che sfiorano il dorso della sua mano fredda sembrano smuovere Colin: affonda la forchetta nella frittella e anche il tempo sembra indugiare su quel padre e quel figlio.

Due superstiti che guardano, semplicemente, scorrere la propria vita.

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Capitolo 4
*** I care ***


I piedi sono inchiodati sul tappeto a corda, tante volte calpestato con frenesia durante le finali di Super Bowl, mentre le mani continuano a sfregare contro il denim dei jeans, in una sorta di effetto Macbeth.

Alla fine gli occhi, seminascosti dai ricci morbidi, focalizzano quell'appendice lasciato sul tavolino in vetro, punta dello spazio a triangolo del soggiorno. Sono chiose sulle complicanze da non sottovalutare dopo una chirurgia cerebrale.

Bright si sente perso. Perso nei suoi sensi di colpa che non cambieranno il passato, perso in una strada a senso unico e senza senso.

Sorveglia il corridoio con impazienza e accoglie con un sollievo indefinito il movimento improvviso del dottor Brown che scende per le scale parlottando con gli Hart.

"Posso..."

Il ragazzo ingoia ogni remora ma la prontezza e il sorriso fermo di Sharon lo salvano da ogni imbarazzo.

"Va pure da lui, tesoro!"


Colin, mezzo seduto sui cuscini e una mano distesa a cercare di coprire le gambe fasciate da calze elastocompressive, sembra una di quelle parole crociate complesse e Bright non è certo di avere la soluzione giusta per stargli accanto.

"Aspetta, ti aiuto io!"

Rabbercia il piumone e riceve per ringraziamento un mezzo sorriso impacciato.

"Come stai?"

La domanda scontata serve almeno a rompere il silenzio granitico, nuovo e inaspettato.

"Il dottor Brown dice che va bene!"

Non ha avuto convulsioni, non ha problemi a respirare, i mal di testa non sono peggiori del solito...

La risposta sfuggente, però, non soddisfa Bright. Non riesce ad accettare questo modo di parlare, formale e gentile, senza conseguenze con il suo amico fraterno.

"Come ti senti per davvero?"


Colin, riappoggiando la schiena sui guanciali, dribbla quell'interesse sincero lasciando che lo sguardo guizzi oltre il vetro opaco, sulla nube rosa pallido del ciliegio in fiore.

"Perché non mi racconti tu qualcosa del mondo lì fuori, eh Bright?"

Quando ad una domanda si risponde con un'altra domanda significa che c'è qualcosa di profondamente sbagliato, eppure l'altro non insiste ad indagare. Sospira e dipingendosi la migliore espressione vivace che gli riesce comincia a raccontare.

Aneddoti sul nonno di Chris Burk che ha dilapidato mezzo patrimonio al gioco, sul coach che vuole proporre nuovi schemi di gioco, sui loro amici e su quel mondo che continua a vivere oltre la finestra.

Piano piano la verve del gioviale Bright si fa più sciolta e naturale e riesce addirittura ad inframmezzare i racconti con opinioni e battute divertenti.


È una doccia gelata quando l'amico, alienato nel suo mondo inaccessibile, finalmente parla.

"Mi sento come se mi stessi guardando dal di fuori!"

L'ammissione è straziante ma, ancora una volta, Colin anticipa ogni tentativo di conforto. Volta la testa dall'altro lato tagliando tutti fuori dalla sua vita.

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Capitolo 5
*** Due volte ***


Il sole del mattino, che filtra attraverso le tende oscuranti, riesce a scacciare gli incubi della notte senza però schiarire le ombre di un passato fantasma , rudere di un'antica felicità.

Puntellandosi ai braccioli imbottiti del canapè, Colin riesce a mettersi in piedi e compiere, maldestramente, i pochi passi che gli permettono di scostare gli spessi drappi per permettere alla luce del giorno di inondare il soggiorno.

Deve appoggiarsi un momento al davanzale interno per ritrovare l'equilibrio e raggiungere il cordless lasciato sulla madia moderna: abilità motorie compromesse le definisce il Dottor Brown.


Deve telefonare a Laynie ma l'improvvisa intraprendenza e la sensazione di star facendo la cosa giusta si spengono appena ha digitato la seconda cifra di quel numero impersonale, ritrovato nella rubrica telefonica.

Anche sua sorella, in questo momento, appartiene a quel mondo sepolto.

Risiedendosi schiaccia, inavvertitamente, sul telecomando avviando una videocassetta che qualcuno ha distrattamente dimenticato nel videotape.

Il nastro riavvolto è una selettività di gioie ingrigite: cene di Natale, gite fuori porta, spaccati di quotidianità durante le quali la voce del ragazzo ha una gradazione diversa: sonora, esuberante, provocatoria e allegra.

Questi istanti unici e irripetibili hanno su Colin lo stesso effetto di quando glieli facevano visionare in ospedale alla ricerca di un frammento di memoria: sono pezzi di mondo estranei, miniature di realtà che sembrano volersi rubare anche il suo futuro.


"Colin, tesoro!"

Sharon esita, i sacchetti della spesa ancora tra le braccia e una punta di imbarazzo quando le risate filtrate dallo schermo diventano un suono dominante e soprabbondante.

Suo figlio si volta lentamente rivelandogli uno sguardo ferito, colpevole e rassegnato.

"Non tornerà mai più. Se n'è andato per sempre, mamma!"

La voce gli si incrina in una sfumatura dolorosa mentre il Colin quattordicenne, l'alter ego distrutto, continua a muoversi disinvolto nel passato.

Sharon lascia cadere i sacchetti in terra e, con cautela, si siede vicino al ragazzo consapevole che c'è una cosa peggiore di perdere la vita: è perdere la ragione di vivere.

"Dobbiamo avere tanta pazienza bambino mio. Con il tempo tutto tornerà normale..."

È un incoraggiamento troppo ottimistico, una microscopica fiducia che cozza, inesorabilmente, contro i fantasmi ingigantiti di Colin.


"Normale?! Mi hanno aperto la testa. Per due volte. Hanno messo le mani sul mio cervello. Per due volte. La notte non dormo perché per troppo tempo mi hanno ripetuto che sarei potuto morire. Ho il terrore di dover rivivere tutto daccapo...C'è qualcosa di normale in tutto questo?"

Lo sfogo agghiacciante, la recrudescenza di un'esperienza che faticano a lasciarsi alle spalle, il timore di una nuova tragedia spaccano il cuore di Sharon.

"C'è qualcosa di normale?"

Entrambi piangono innanzi a quella domanda senza risposta e un abbraccio incondizionato e la stretta forte contro il petto della mamma sono solo un cerotto che riesce a tamponare, in maniera provvisoria, una ferita troppo grande.

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Capitolo 6
*** Buio ***


Una luna perfetta illumina a giorno quella stanza stereotipata: il pavimento di linoleum colorato, il tappetino antifatica, la palla medica utilizzata durante la fisioterapia del pomeriggio assumono forme lievi e sfumate.

Colin non è più abituato ad un silenzio così denso ed irreale tanto che si tira su, tra le lenzuola inamidate, annaspando.

Si muove a tentoni in quell'ambiente rimodellato dalla notte, tra riflessi spezzati, fino a spalancare i battenti della finestra e respirare a pieni polmoni l'aria umida di Denver.

Puntella i gomiti sul davanzale e alza il naso verso il cielo che, nonostante le infinite stelle a trapuntarlo, è una gigantesca distesa buia.


È una carezza gentile a svegliarlo quando l'alba livida ha appena indorato ogni cosa e il reparto non si è ancora svegliato completamente. Colin stropiccia gli occhi assonnati accorgendosi di essersi addormentato in quella posizione scomoda, esposto al riflesso di quella vita che sembrava intoccabile e ad una solitudine infinita.

"Papà!"

Jim, uno spigolo vivente, sembra smussarsi difronte a tanta fragilità e alla consapevolezza che il dramma, prima di lui, lo sta vivendo suo figlio.

"Andiamo a casa, Colin."


Un Codice Rosso al Pronto Soccorso, i caffè all'aperto nella Denver dei trecento giorni di sole, i grigi nastri d'asfalto delle highway contornano un viaggio di ritorno lungo e sfiancante tanto che, a metà tragitto, il ragazzo si addormenta mentre suo padre rallenta e lo osserva con il cuore che sanguina come una melagrana scoppiata.

Arrivano ad Everwood che è quasi mezzogiorno, quando il resto della giornata trascorrerà da sé.

"Resto fuori!"

Jim asseconda quel desiderio, certo che un po' di sole e luce naturale non potranno che far bene a Colin e rincasa, lasciandogli una pacca sulla spalla.


Restato da solo, il ragazzo vaga come un viandante senza bussola tra la sterpaglia e i roveti che hanno infestato un giardino abbandonato all'incuria da quasi un anno.

Seminascosto da quegli arbusti aculeati nota il suo vecchio pallone da rugby: è di cuoio sintetico e ha cuciture laterali così simili al taglio che sta cicatrizzando, a malapena nascosto dai capelli in ricrescita.

Riesce ad afferrare l'ogivale ma non ad arrestare l'ondata dei ricordi degli ultimi giorni trascorsi in ospedale, di sensazioni indefinite che gli si affastellano in testa come ferite che sembrano non voler smettere di sanguinare.

Vorrebbe gridare, chiedere aiuto, ma la sua mano è più svelta ad acchiappare un paio di cesoie lasciate sull'erba e ad infilzare la palla.

La trafigge più volte finché suoi respiri affannosi non si regolarizzano e la punta aguzza non sfugge lacerando anche la pelle del dorso.

Colin guada esterrefatto un fiotto di sangue scorrere sulla mano pulsante: conseguenza di una ferita che inizia a dolere molto dopo che è stata inferta.

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Capitolo 7
*** Outsider ***


Il Dottor Brown, il taumaturgo capace di ricostruirlo, ricuce i lembi della ferita manovrando svelto l'ago atraumatico dalla punta lanceolata. Al suo occhio clinico non sfugge quella stanchezza latente, dietro la maschera inespressiva che è il suo giovane paziente, e quella paura che sembra morderlo dentro come un cane arrabbiato.

Capisce che non ci sono regole scritte difronte a quella vita che sta andando in pezzi.

Dati i punti di sutura, rassicura gli Hart su come mantenere la ferita pulita e disinfettata fino alla completa cicatrizzazione poi trattiene Colin, deciso a schierarsi e ad infrangere il distacco che il suo ruolo imporrebbe.

"Lo so che è dura. Tu, però, sei un ragazzo testardo. Ce l'hai fatta una volta, puoi riuscirci ancora."


L'esortazione del suo medico è uno stimolo e una sfida allo stesso tempo e, quando si ritrovano per strada, Colin è tentato nel fare un primo passo.

"Ho fame!"

L'esternazione inaspettata riscalda il cuore di Sharon che, finora, ha dovuto lottare contro l'inappetenza del figlio.

"Possiamo fermarci a mangiare un boccone qua vicino."

È visibilmente emozionata ma la successiva, inequivocabile, richiesta del ragazzo impensierisce sia lei che Jim.

"Voglio fare da solo!"

Suo padre sta per ribattere, dubbioso sul buon esito di quel tentativo, ma Sharon è più svelta: apre il portafogli allungando a Colin alcuni pezzi di dollaro.

"Torniamo a prenderti tra mezz'ora!"


Il Mama Joy's, con il suo arredamento rétro da diner americano anni Cinquanta, è tranquillo e domestico eppure le occhiate esitanti di quasi tutti gli astanti che accolgono il suo ingresso inchiodano il nuovo arrivato con lo sguardo basso e imbarazzato.

È Harold Abbott, fino a poco fa accalorato in un battibecco con un concittadino, il primo ad alzarsi e ad andare incontro al ragazzo, con il tovagliolo arricciato nel colletto della camicia a dargli l'aria di un eroe distratto.

"Ciao Colin, non ti vedo da un po' di tempo. Vieni a sederti con me: devi assolutamente assaggiare le crocchette di granchio e patate. Sono una nuova specialità della casa!"

Harold è genuino e spontaneo, gli tende la mano con semplicità, ma il giovane è un po' intimorito da quello sproloquiare. Siede sul bordo della sedia, un po' defilato, come per sottrarsi alla curiosità morbosa che lo circonda e si affida al Dottor Abbott.


"Non dovrebbe avere tutti questi riguardi per me!"

Nell'autoaccusarsi per l'infelicità in cui sta costringendo anche Bright ed Amy, Colin assomiglia a quei bambini che premono una mano adulta sulla loro guancia chiedendo una carezza. L'occhio paterno di Harold indica la mano fasciata.

"Cosa ti è successo?"

"Una serie di ferite che non sono riuscito a controllare!"

L'uomo intuisce che quella che tutti loro credono una guarigione prodigiosa è in realtà un far finta di vivere.

"Ascoltami Colin. Nessuno di noi capirà mai, fino in fondo, quello che stai passando. Permetti però ai miei figli, a chi ti vuole bene, di starti accanto anche se ti stai comportando come milioni di adolescenti. Non volete essere capiti e poi vi lamentate, sempre, di essere fraintesi."

La faccia da bravo ragazzo ha un'espressione più fiduciosa adesso che quello strappo sembra un po' meno difficile da ricucire. Colin sorride con la bocca un po' aperta, rassicurato nel sentirsi e nel venire trattato come gli altri.

Allunga la mano dolorante verso l'uomo che l'ha fatto risentire normale.

"La fasciatura si è un po' allentata. Potrebbe risistemarmela, per favore, Dottor Abbott?"

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Capitolo 8
*** Primo amore ***


L'estate di Amy è fatta di giorni che si aggiungono ai giorni in un'addizione interminabile e monotona. Con romantica retorica, sfoglia album pieni di foto e di facce buffe.

Piene di quel ragazzo che arrivava sempre alla chetichella e la salutava con un bacio sulla punta del naso.

Rose entra in punta di piedi in quell'uniformità noiosa, nella cameretta romantica con la scrivania invasa da una collana intera di romanzi d'avventura e classici per ragazzi.

La mano di Amy è ferma a metà del libro che tiene sul grembo, vicino ad una viola mammola ormai appassita ma segnalibro colorato, appena un'estate addietro. Le dita scivolano sulle foglie cuoriformi mentre la madre le si siede accanto, pronta a raccogliere il suo sfogo.


"Li ho letti quasi tutti a Colin. I dottori dicevano che poteva essere un ottimo stimolo, che forse riusciva a sentirmi."

Ripercorrere quei quattro mesi nebulosi è penoso e Rose, la mamma restata sempre un po' in ombra, sfila senza esitazioni il libro, permettendo alla sua piccola donna di appoggiare la testa contro il suo petto.

"Lo so che il nostro non è un amore da favola, che non saremo mai come te e papà. Io, però, ho lottato così tanto per lui, per noi...Ed ho perso!"

Un amore può finire ma restarti, comunque, dentro per sempre e Rose, con molto tatto, decide di parlare senza filtri.

"Tesoro tu hai dato tutta te stessa perché le cose funzionassero ma devi renderti conto che Colin non sarà mai più Colin. Se ti innamori due volte della stessa persona, la seconda rischi di amare soltanto il suo ricordo."

Quell'ammonimento, materno e sincero, funziona come una cura d'urto che sveglia Amy.

Prende una decisione.


Sorprende Colin in quella stanza di memorie a metà tra una lanterna magica e un amarcord venato di rammarico e dispiaceri.

Anche lui sembra schiavo di quel presente sempre uguale e, per questo, meno doloroso.

Amy gli si avvicina cauta, prende tra le sue la mano fasciata e gli regala un sorriso attento.

"Ti fa molto male?"

Il ragazzo, però, arretra come un gattino selvatico: Amy sembra l'uccello della leggenda che cerca il rovo con la spina più lunga ed affilata e vi si precipita contro, cantando.

"Perché continui a tornare?"

È una recriminazione debole e Colin è costretto a voltarle le spalle per non cedere. Si chiede se anche questo è amore: non poter stare con lei, ma neanche distanti.

"Perché preferisco essere ferita piuttosto che continuare a brancolare in questo grigiore. Perché mi fai battere il cuore anche negli errori. Non rinuncio a te, Colin!"

La ragazzina è cocciuta ed il fervore con cui difende la sua decisione le imporpora le gote delicate come quelle di una bambola di porcellana. La mano ferita di Colin accarezza i lunghi capelli mentre lui decide di non poterla amare e farle del male allo stesso tempo.

Serra forte gli occhi, nell'illusione di risvegliarsi da quest'incubo ad occhi aperti mentre le successive parole rimbombano, come una pugnalata, nelle orecchie di Amy.

"Ti ho tradita!"

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Capitolo 9
*** Presente imperfetto ***


Quell'unica parola, tagliente come una lama, ferisce e provoca eppure Colin sa che è quella giusta. Tradire significa venir meno alla parola data, deludere la fiducia, infrangere un patto. Significa rivelare e lui lo sta facendo.

Non tituba nemmeno innanzi allo stupore e alla tenacia di quella ragazzina che lo fronteggia stoica, come un pino nel momento più freddo dell'inverno.

Nemmeno per un istante Amy si lascia fuorviare dal significato più generale di quella parola così pesante: quella confessione sottende molto di più di una semplice confusione adolescenziale.


"Accendi il computer!"

Cerca un segno in quello sguardo risoluto e stanco e si accorge di non voler leggere quello che c'è scritto così chiaramente. L'immagine che appare sul desktop è una slide beffarda che fa scricchiolare quella doratura di cinico realismo: sono loro due, eternati quindicenni sorridenti, con il Grand Lake in background.

È il fotogramma di un passato perfetto, delle lunghe pedalate in bici tenendosi per mano, dei tragitti verso scuola dividendo il walkman, delle litigate sciocche che si concludevano con una lotta di cuscini e solletico. Uno scatto che racconta quello che non hanno più.

"C'è un file indirizzato al Dottor Brown. Leggilo."

Non c'è costernazione nelle parole sicure di Colin ma soltanto un desiderio impellente di condividere anche con lei quella verità sfinita.

Le parole si dipanano davanti agli occhi sgranati di Amy provocandole una girandola incontrollabile di sentimenti contrastanti: sgomento, rabbia, orrore, incredulità. Sollievo.

Si volta lentamente, spaventata da questo lato oscuro che Colin non ha diviso con nessuno.

"Non volevi essere salvato. Perché?"

Confrontandosi con questo tradimento asimmetrico si accorge che anche lui ha preferito sfuggire a questa verità per non soffrire, per non rischiare.


"Guardami Amy! Sono soltanto chimica e nervi!"

Sbotta il ragazzo ma è lo sfogo, insofferente e sfrenato, che arriva immediatamente dopo ad annichilirla.

"Dovevo morire in quell'incidente."

Tutta questa autocommiserazione è una bomba inesplosa ma, ancor più inaspettata, è la reazione di lei: uno schiaffo, per risposta, così rapido ed istintivo da fargli fischiare un orecchio.

"Sei soltanto un egoista. Credi che per me, per Bright, per la tua famiglia sia semplice? Tu sei il grande assente delle nostre vite..."


La crudezza e le sferzate di quella ragazzina caparbia riescono a sgranare in mille pezzi il dolore sordo di Colin e, passata la tempesta, anche Amy si addolcisce lasciandosi scivolare accanto a lui. Gli prende la mano e appoggia la testa contro la sua spalla, come qualsiasi adolescente innamorata.

"Mi manchi Colin. Resisti. Insieme possiamo ricominciare."

Il loro abbraccio è un groviglio disordinato, una linea interrotta che, presto, diventa un cerchio perfetto. Quando si staccano da quella stretta così adulta, si sentono un po' più bambini. Amy sorride, consapevole che l'amore è difficile ma affrontare la prospettiva della morte lo è molto di più.

"Comunque anche innamorarsi è una reazione chimica che dura, soltanto, nove minuti. Noi, invece, siamo molto di più!"

Ed è un piccolo, essenziale, puntello di speranza per i due sfollati pronti a reinventarsi nel loro presente imperfetto.

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Capitolo 10
*** Fenice ***


Per la prima volta, dopo mesi, si abbandona completamente ad un sonno ristoratore e continuato che rilassa i muscoli e alleggerisce quel nugolo di negatività che sembrava senza via d'uscita.

Colin si risveglia vivo e intero, con un sorriso pieno ad illuminare la mattina e con la fiducia che i giorni peggiori siano davvero alle spalle. Risponde all' sms di buongiorno di Amy e si veste da solo, senza aspettare l'aiuto di sua madre.

Ha addosso un entusiasmo nuovo, come se finora avesse vissuto di riflesso, come in delle proiezioni, e lì fuori ci sia molto di più. Un molto che non sa spiegare.


Sua madre è nel backyard sul retro: inginocchiata su un quadrato di terra sta allargando un vuoto, con il classico piantatoio, per rinverdire il suo piccolo paradiso. Colin resta ad osservarla in silenzio mentre il sole d'inizio estate che gli bacia la testa sembra una promessa, una lenta uscita dal letargo.

Nel raddrizzarsi e nel ritrovarsi inaspettatamente difronte a quella figura diafana ma ben salda sulle sue gambe, Sharon si commuove: questo è un dono che va ben oltre il desiderato.

Suo figlio si affaccia, spaesato ma incuriosito, tra quelle eleganze primitive ed armoniche e lei, con il cuore pieno di gioia, lo prende per mano conducendolo vicino ai semi dei girasoli che fioriranno a fine estate, svettando ed invecchiando solo a settembre. Colin rigira quei noccioli tra le mani e la donna gli porge l'annaffiatoio.

"Vuoi aiutarmi?"

In pochi minuti un paio di metri quadrati di terra vergine vengono plasmati e trasformati in un mare di colori: i fiori profumati, minuti e di incredibile bellezza agiscono su Colin come un tonificante dissolvendo, per magia, tutta la rigidità e i cattivi pensieri.


È un miagolio continuo e labile, simile al fischio del vento, a distrarlo dalla scoperta della floricoltura e a fargli raggiungere, ad andatura un po' incerta, l'erba alta a ridosso dello steccato.

Seminascosto dalle sterpaglie, un batuffolo soffice dal mantello tigrato arruffa il pelo reggendosi su zampe malferme come per rivendicare la sua indipendenza.

Colin, attirato dalla sua sfuggevolezza, non può far altro che raccattarlo e avvicinarlo al petto lasciandosi scrutare dai due occhietti a palla, vitrei e diffidenti.

"Deve essere molto affamato!"

La constatazione del ragazzo sottende un sottile mondo di persuasione che fa scoppiare a ridere Sharon, conquistata e grata per quel puerile tentativo di ingraziarsela del suo ragazzo ritrovato.

"E va bene resterà con noi. Devi trovargli un nome però!"

Il musetto lungo strofina contro la t-shirt dell'entusiasta padroncino in un gesto d'approvazione: è un gattino malconcio, resistente. Un diagramma di leggerezza.

Capace di rinascere, di sopravvivere. Un po' come è successo a lui.

"Sai il nome quell'uccello mitologico che rinasce dalle ceneri dopo la morte?"

"Fenice. Benvenuto in famiglia, Fenice!"

Sharon gli va incontro ma la mano che si allunga per fare una carezza al micio si congela a mezz'aria appena le parole ghiacciate di Colin la costringono a fare i conti con una realtà accantonata per mezza mattina.

"Io l'ho distrutta la nostra famiglia!"

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Capitolo 11
*** Figlio unico ***


La domenica di fine giugno è un tempo in sospeso che ripulisce le ruggini di una settimana intera. Per Laynie è difficile fare ordine, riabituarsi ai ritmi circadiani di Everwood: è tornata ieri sera con l'ultima corsa, quella di mezzanotte, e il fuso orario le ha provocato una forte emicrania. Ha dormito fino a tardi e adesso fatica ad abituarsi a quella nuova quotidianità in cui si è ritrovata sbalzata all'improvviso.

Jim è uscito: terrà aperto il negozio di ferramenta per mezza giornata. Sharon si è chiusa nella calma ovattata della sua cucina per preparare il pranzo mentre Colin resta trincerato dietro il suo cinismo stanco evitando, volutamente, sua sorella.


Laynie si sente un'intrusa, costretta a nascondere dietro sorrisi di facciata la sua inadeguatezza. Non la infastidiscono tutte le attenzioni che i genitori, sua madre in particolare, riversano su Colin.

Sa che questo fratello smagrito, smarrito, deturpato e paziente ha bisogno di quanto più sostegno possibile in questo momento e a lei non resta che osservare, da spettatrice esterna, i rituali entrati di prepotenza nelle vite dalle quali si è autoesclusa.

Studia Sharon mentre spezzetta integratori, antidolorifici e un'altra manciata di pillole colorate, squadra e invidia Jim che, sebbene in un mutismo perdurante, sorregge suo fratello nel breve tragitto tra il tavolo e il divano e gli resta accanto nel pigro pomeriggio davanti alla tv.

A lei non resta che ripiegare in ore morte davanti alla schermata del pc.


Finalmente, nella sera che profuma di tiglio, Laynie trova la determinazione necessaria per un confronto inevitabile. Colin è seduto sul dondolo in ferro battuto zincato, Fenice fa le fusa acciambellata sulle sue gambe e pare divertirlo leccandogli un dito con la sua lingua ruvida e porosa.

"Posso sedermi qui con voi?"

La ragazza sfoggia uno dei suoi sorrisi larghi ma il timore di essere respinta le si legge, palese, negli occhi pieni di rammarico.

Suo fratello acconsente con un breve cenno positivo e restano ad oscillare, per un pezzo, su quell'altalena per grandi.

"Quando eravamo bambini papà ci costruì uno di questi giochi da giardino assemblando quattro pali di pino, una grossa fune e sei bulloni. Non ci stancavamo mai: io volevo sfiorare il cielo con le dita e tu mi davi la spinta per farmi volare sempre più in alto. Sempre!"

Laynie scava in quel passato di complicità, di quando erano due rami di uno stesso albero. Cerca un segno negli occhi spenti di suo fratello e vi legge un pozzo senza fondo.

Si avvicina fino a sfiorargli una mano.

"Mi dispiace di non essere stata con te in questi ultimi tempi!"


Il corsaletto di una lucciola sfavilla tra ortensie e celosie inducendo la gatta a scattare in un felino gioco da predatore.

"Tu non sai come sono stati questi ultimi quattro mesi, Laynie. Sono peggiorato, sono arrivato ad un passo dalla morte, ho sofferto, sono stato costretto a lottare...Senza di te!"

Quello di Colin è uno sfogo atteso che inchioda, ma in parte solleva, la ragazza. Avvolge entrambe le mani sul braccio teso del fratello.

"Lo so, sono stata una codarda Cassandra: ho visto prima degli altri che le cose stavano andando, nuovamente, a rotoli. Dovevo insistere, dovevo convincerli ad aiutarti prima, dovevo restare con te. Sono fuggita perché mi è sembrata l'unica occasione per salvare me stessa. Sono un egoista Colin. Perdonami."

Lui percepisce quella stretta vibrante di amore e di paure e, ammorbidendosi, allunga una mano a carezzare i capelli della sorella.

"Sono qui adesso. Sono tornata e non ti lascio più...Se tu mi vuoi!"

"Non è facile stare con me!"

La mette in guardia Colin. Laynie, però, non vuole più tirarsi indietro.

"Allora aiutami a capire come devo fare. Anche io ho bisogno di mio fratello!"

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Capitolo 12
*** Risata di pancia ***


Man on the moon risuona lungo la strada sterrata che conduce a Buck's Rock ,in quel limbo che confondeva l'amicizia, l'attrazione e i primi amori tra cestini da picnic e nuotate.

Era l'inno della loro estate da adolescenti fatta da un tempo da abitare e non da investire, dove il tempo appariva indeterminato e astratto e non sfuggevole.

La realtà adesso è rarefatta, quasi lontana dal vero, più vicina ad una sensazione o ad una suggestione: a Bright assomiglia ad un pop up tridimensionale dipinto con i pastelli a C'era.

Non resiste più a stare vicino al lontano e lontano dal vicino così l'inversione di marcia è automatica e istintivo è il tragitto verso casa degli Hart con il vetro giù, il gomito fuori e la musica in sottofondo per darsi un finto contegno da strafottente.


Jim, sulla scala a pioli intento a raccogliere un cesto di ciliegie punteggiate e acidule, pare il soggetto di un quadro impressionista dalle pennellate rapide e vibrate. Quella figura suscita in Bright una goffaggine e un imbarazzo che non gli sono mai appartenuti: troppo marcati sono ancora i paragoni, i rimpianti e quel vuoto incolmabile che secca la gola di entrambi.

"Colin è in casa!"

Nonostante il tono un po' burbero, Bright ne è sollevato e si sottrae in fretta a quelle occhiate ferite e accusatorie.


Colin, dritto sulla sedia in faggio curvata del soggiorno, tenta di ridefinirsi e di trovare un nuovo equilibrio. Nessuno, nemmeno il suo migliore amico, sembra davvero in grado di capire l'enorme fardello che gli è piovuto addosso ed essere in grado di raccoglierlo, anche solo per un attimo.

Bright si limita a sederglisi difronte, cercando una battuta per sciogliere quella postura rigida: tutto quello che gli scappa è una risata nervosa che proietta sul suo viso dignità e controllo.

A Colin non sfugge il suo disagio.

"Sai cosa vorrei adesso? Un mal di pancia. Uno di quelli che poi ti fanno stare bene."

Bright inarca un sopracciglio, spiazzato da quella richiesta enigmatica: non è una richiesta mal formulata e lui lo sa. Colin sta chiedendo una di quelle risate che scoppiano oneste, difronte a qualcosa di davvero divertente e che durano fino a farti stringere la pancia e lasciarti senza fiato. Una delle loro.

Lo sguardo errante e senza pace di Colin, però, vuole di più. Vuole far suo quell'evento che l'ha costretto a fermarsi. Vuole cogliere il senso di una realtà esplosa davanti ai suoi occhi che lo costringe a mettersi in discussione.

"Raccontami di quella sera, Bright!"


Il giovane Abbott deve fare i conti con una fame d'aria che gli mozza il respiro costretto, alla sprovvista, a confrontarsi con quel fantasma del quattro luglio, inchiostrato indelebile nella sua testa.

Deve chiudere gli occhi per scacciare l'immagine di quel corpo giovane ridotto a un manichino straziato sul terriccio grezzo, dei suo richiami cantilenati senza che lui si muovesse, mentre cielo e terra si confondevano.

Gli occhi sono lucidi quando li riapre ma non ce la fa a dargli la risposta che gli alleggerirebbe il cuore.

Non ce la fa a dirgli: Ti ho quasi visto morire.

Sorride Bright e poggia la mano sul polso sottile di questo Colin così fragile ed esposto, deciso a proteggerlo.

"Ciò che conta è il futuro."

Un po' deluso e un po' persuaso, il ragazzo alla ricerca di certezze allunga verso l'amico la lettera con il monogramma della Notre Dame: l'ha trovata, quasi per caso, tra i giornali di suo padre.

" È dell'università!"

Ammette Bright e, improvvisamente, il suo desiderio di scambiare tutti i suoi domani per un solo ieri svanisce dinnanzi alla disperata rassegnazione di Colin.

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Capitolo 13
*** 15 anni ***


È un'emozione talmente forte che Amy non riesce a contenerla nel cuore, che le batte all'impazzata e, sopraffatta, sente quasi la necessità di piangere per ristabilire un equilibrio interiore e una tranquillità emotiva.

Colin le ha inviato un sms. Un Vediamoci! Che, più che come un imperativo, ha il suono impaziente e tenero di un appuntamento vero.

Inciampa un paio di volte tra la rafia dei suoi sandali alla schiava ma non si ferma, nemmeno per riprendere fiato, finché il verde aghiforme dei larici e dei pini cembri non le si dispiega davanti come una pittura fiamminga.


La scena di vita urbana vissuta, tra ragazzine sdraiate sull'erba ridenti, adulti che fanno jogging lungo i viali alberati o portano a spasso i loro cani, mamme in bicicletta e ciclisti che sfrecciano sulla pista ciclabile, è lieve e rilassata e suscita sensazioni piacevoli.

Alla fine della pista ciclabile, assolutamente immobile su una panchina, la figura di Colin ha un aspetto quasi irreale, da scultura egizia.

Accortosi di Amy la accoglie con un mezzo sorriso, dietro il quale cela una speranzosa euforia ma, anche, uno sgradevole senso di panico. La cintura intrecciata, che gli tiene su i jeans, evidenzia anche il suo corpo nuovo, più slanciato adesso che ha perso le rotondità dell'infanzia e sta ritrovando una tonicità perduta a causa del lungo periodo costretto allettato.

È a metà tra il bambino che era e l'adulto che sarà.

Amy, invece, è il ritratto dei suoi quindici anni: il prendisole a bretelline, quadrettato e scampanato, le scivola perfetto lungo la pelle abbronzata e il cerchietto con il fiocchetto in tulle, che le tira dietro i lunghi capelli, rivela una giovane donna che sta sbocciando. Ma è quella fossetta che le incava la gota, mentre sorride, ad ipnotizzare Colin.

"Sei bellissima!"

Senza che se ne renda conto la sua mano pizzicotta, istintivamente, l'indentazione naturale sul viso da bambina.

La ritrae immediatamente, contrito e timoroso di essere stato troppo sfacciato. Amy, invece, sembra aver apprezzato quel timido approccio e, senza demordere, si porta alle labbra la mano cicatrizzata sedendosi accanto a lui, vicino al chiosco dei gelati dove le comprò un mega cono doppi gusti al loro primo appuntamento.


Per un po' la loro domenica pomeriggio è popolata da quelle figure geometriche, perfette e studiate, che animano il parco, poi, è la voce di Colin a smuovere quella scena statica.

"Non meriti di vivere questo inferno insieme a me!"

Questa volta Amy è decisa a non consentirgli di prendere, di nuovo, le distanze. Non vuole considerarla una relazione sbagliata e avere paura di impegnarsi. Vuole affrontare anche le sfumature più complicate.

"Avevi ragione tu, Colin: in qualche modo, eravamo preparati per il tuo intervento ma non per quello che sarebbe venuto dopo. Nessuno di noi due!"

Per ammettere i propri errori ci vuole una grande forza interiore, ma sa anche che è un passo per crescere e avere la pazienza di accettare e provare a cambiare le cose.

Colin, logorato ed esausto, vorrebbe gettare la spugna; rinunciare a questa vita che è già due o tre.

"Vorrei tanto potercela fare! Soltanto che ho già perso così tanto, sprecando i giorni nella certezza di avere una fine, una scadenza; sospettando che fossero riusciti a risvegliarmi giusto per farmi soffrire un altro po'!"


È una confessione amara quella che Colin sviscera, a cuore aperto, e tocca Amy nel profondo: lei è quella che ha combattuto più di tutti, per aggiustare le cose, per riaverlo, perché tutto tornasse roseo come nelle favole.

La realtà, però, cozza duramente con tutte quelle aspettative: anche se in maniera trasversale, Colin la ritiene responsabile, in parte, di quel calvario.

"Io non ti lascio. Siamo così giovani eppure abbiamo affrontato già così tanto! Può sembrarci di aver già fatto e detto tutto ma non è vero, ci sono un'infinità di cose belle che ancora ci aspettano!"

È un plurale che li rende ancora più coppia, due persone che sono un insieme, e quell'ottimismo candido e pertinace convince anche Colin che, forse, è davvero possibile.

Le lascia un bacio sulla fronte alta, poi la prende per mano e, cavallerescamente, la invita ad alzarsi.

"Posso offrirti un gelato?"

È un primo, importantissimo, passo e la loro domenica pomeriggio è aromatizzata da banane split e lip gloss alla frutta. Come le estati passate.

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Capitolo 14
*** Promesse ***


È una di quelle sere in cui vorrebbe restarsene rintanato in camera sua, magari a leggere un libro, magari a cercare di sbrogliare quel cumulo di contrasti che gli confondono la testa e il cuore.

E, invece, deve giocare anche se si tratta di una semplice amichevole. L'uniformità di rosso pompeiano, che unisce i tifosi sulle tribune in teak sintetico, vuole vedere il solito Bright. L'ala grande che sta spalle alla porta, che sovrasta gli avversari in altezza e si impone con il suo gioco massiccio.

Ma, stasera, il numero quattro dei Miners è spesso fuori fase, fuori ruolo, fuori gioco. Gli occhi inqueti vagano spesso a cercare l'altro intruso, appoggiato al parapetto d'acciaio, e il loro senso di inadeguatezza e sradicamento sembra fondersi.


"Vado a fumare una sigaretta!"

Il pretesto di Jim riporta Colin in quella palestra, in quella casa che non è più casa, ma non ha la prontezza di ribattere.

Si ritrova da solo, spaiato, ad affrontare i rimbalzi, gli incitamenti, le occhiate oblique che pungolano il suo orgoglio come la muleta di un matador.

Colto da un'emicrania in peggioramento, si getta nella sera di nubi nere e raffiche rabbiose che preannunciano un temporale. Il piccolo cilindro, incandescente, che si consuma tra le dita di Jim gli fa da guida e non ha nessuna esitazione quando si appoggia alla portiera dell'auto e guarda dritto negli occhi suo padre.

"Andiamo a casa!"


Il cielo nero si apre e i primi goccioloni iniziano a bagnarli proprio nel vialetto infiorato. Per un istante Jim vorrebbe prendere il suo ragazzo a braccetto, stringerlo forte ma, alla fine, si limita a camminargli davanti dandogli le spalle.

"Va a dormire, Colin!"

Cerca di liquidarlo, di archiviare quell'assaggio del loro mondo antico che ha riaperto la cicatrice di un futuro infranto.

Vuole restare da solo a rimpiangere quelle promesse che sembravano solide e sicure e che, adesso, sono inconsistenti ed insidiose come sabbie mobili.

Non sa Jim che, immobile sul secondo gradino sfalsato, Colin lo sta osservando di nascosto: ha visto le due dita di scotch che si è appena versato e la cornice, con una foto di lui in tenuta da basket, che regge con la mano libera.


"Non sarò mai come tu mi vorresti, vero?"

L'imbarazzo di essere stato colto in fallo porta Jim a mettersi sulla difensiva, a tentare, maldestramente, di schivare il confronto.

"Va di sopra Colin!"

La risposta è accalorata e vivace: uno strappo deciso gli sfila il bicchiere dalle mani e goccioline bronzee stillano sul pavimento.

"Parla con me, papà. Urlami contro, tirami uno schiaffo se ti fa star meglio ma non ignorarmi più. Sono stanco di essere soltanto un fantasma nelle vite di molti, di essere un miracolo ma, anche, un alieno!"

Un boato cupo romba nel cielo e Colin, travolto dalle emozioni, è costretto ad appoggiarsi al piano cottura mentre il vetro sfasato va ad infrangersi sulle mattonelle.


Le cose si rompono in continuazione: i piatti, i bicchieri, le promesse. I cuori.

Quei cocci suonano come una sveglia per Jim. Vorrebbe chiamare il Dottor Brown, portare suo figlio in ospedale ma il sorriso stiracchiato di Colin gli fa capire che basta lui.

Lo fa sdraiare sul divano e gli si siede accanto, non più cactus pronto a difendersi con corazze e spine ma tulipano pronto a dischiudersi al sole.

E anche Colin è pronto ad aprirgli il suo cuore, a costo di venir ferito.

"Te lo ricordi il nostro ultimo momento così, la sera prima che andassi in ospedale?"

Sono pronti ad abbandonare il loro deserto, a lasciare la loro corazza perché un cuore chiuso non permette ad alcunché di entrare: né a gioie, né a tenerezze e condivisione.

"Ti ho confidato le mie paure quella sera ma tu non mi hai voluto dire le tue. Io sono ancora bloccato da questo gigantesco punto interrogativo che abbiamo davanti a noi, da quello che succede dentro di me e intorno a me. Io ho bisogno anche di te per farcela per davvero, papà!"

Questa volta, invece che perdersi nei suoi desideri come dietro a stelle cadenti, Jim è determinato a mantenere tutte le promesse.

Anche quelle più piccole, quelle che si fanno la sera prima di addormentarsi e poi si dimenticano.

Si porta al petto la testa di Colin e la bacia convinto che, da oggi in poi, riuscirà a proteggerlo e a rispettarlo per davvero.

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Capitolo 15
*** Rinato il 4 luglio ***


Mentre tutti gli Stati Uniti, innalzando stendardi e cantando a squarciagola l'inno del Nuovo Mondo, rinnovano il proprio orgoglio a stelle e strisce; in un minuscolo fazzoletto di Colorado due famiglie si ritrovano, coese, a tentare di riappacificarsi con il passato.

Per gli Hart è stato impulsivo e quasi liberatorio accettare l'invito a pranzo di Rose e, tra imbarazzi e sottintesi, tutti si sforzano di integrare quest'anniversario doloroso ed irrisolto, sbucciando il presente dalla sua carica di veleno.

"Mezzogiorno in punto: nelle basi si starà realizzando il saluto militare con i tradizionali cinquanta colpi di pistola!"

Sistemando l'orologio al polso, Harold è portavoce di quei valori che i Padri Fondatori hanno installato nel cuore di ogni Yankee che si rispetti.

I discorsi scivolano, naturali, sulle parate della mattina e sugli irrinunciabili fuochi d'artificio della sera.

La tristezza in Colin arriva di colpo, una ventata che lo mette al tappeto, tra il ritmare metallico delle posate e le chicche del Dottor Abbott su Louise, sulla disorganizzazione della banda musicale di Everwood e sui passati quattro luglio a memoria sua.

È finito in un posto che esiste soltanto nella sua mente, freddo e ostile, fatto di una malinconia che gli entra fin nelle ossa. Non può fare spallucce e ignorare quel segnale: le occhiate dei commensali, sollecite e apprensive, esigono spiegazioni.

"Ho bisogno di una boccata d'aria!"

Suoni familiari come il fischio del bollitore e il tintinnio dei bicchieri, cessano ai suoi passi incerti.

Le smorfie allarmate e nervose di Bright ed Amy si incrociano ma nessuno dei due vuole essere precipitoso ed oppressivo, lasciando a Colin i suoi tempi e i suoi spazi.

"Andate da lui!"

L'input, inaspettato, giunge dalla voce accorata di Sharon che, nonostante le sue inquietudini, pare intuire quali siano le corde giuste da toccare per smuovere suo figlio.


Colin è seduto sui gradini esterni, sul porticato abbellito dai gigli dalle foglie lanceolate. Senza esitazioni, Amy si inginocchia, cingendogli il torace da dietro e appoggiando la testa contro la sua con infinita dolcezza. Bright lo scruta con circospezione.

"Vuoi parlare con noi?"

"È stato come se, all'improvviso, non fossi più a tavola con voi, nel posto dove sarei dovuto essere. Sapevo di dover combattere, di dover zittire quella sensazione e sostituirla con qualcos'altro ma l'amarezza è diventata ancor più indefinibile, più forte...E non sono riuscito a scacciarla via!"

I fratelli Abbott hanno ascoltato lo sfogo con attenzione e sono decisi a non sottostimare nessuna di quelle parole, che evidenziano una cicatrice ancora non rimarginata: forse l'unico modo per superare la tristezza è darle spazio, non ostacolarla perché riporti a galla energie sepolte.

Entrambi cercano un modo per superare quella buca vuota allignata in Colin e, alla fine, Bright indica il suo pick-up cassonato parcheggiato sotto il carpot in legno.

"Vi va di fare un giro?"


Sullo sfondo azzurrino delle montagne calcaree, i lineamenti del lago, modellato dai ghiacci, e delle piante lacustri cambiano a seconda delle emozioni.

Colin, incantato dai rami onusti e da un tronco diroccato di leccio che cade a spiovente sull'acqua, vuole gustare fino in fondo ogni nuova scoperta, le tife con le loro pannocchie di un denso colore bruno e la borraccina che avvolge i tronchi più vecchi.

"È davvero bello qui!"

Imita Bright e arrotola i pantaloni alla pescatora per osservare nell'acqua verde, con il fondo sabbioso cosparso da pietre, il dorso scuro di un pesce.

"Questo è un posto speciale: ci abbiamo trascorso molti pomeriggi, tutti e tre insieme!"

Amy incoraggia i suoi ricordi, cercando un equilibrio e limitandosi per non diventare insistente.

"Qui abbiamo combinato i nostri guai peggiori. Una volta abbiamo pescato, a mani nude, una tinca melmosa e poi abbiamo optato per farle un acquario di fortuna con il vaso di Boemia di tua madre!"

Colin non è infastidito da quei ricordi sfumati e vaghi, anzi cerca tra i chiaroscuri della sua mente una voce, una sensazione, un puntello.

Strofina le dita sulla corteccia dura, ruvida e robusta di quell'albero simile a quercia.

"Una cosa la ricordo: salivamo su questo tronco semidistrutto e facevamo il verso ad Amy, aspettando che l'eco ripetesse i nostri versi buffi!"

È un piccolo riscatto verso quella tristezza arrivata per fargli ritrovare il sorriso ed Amy e Bright non possono che gioirne. La ragazza lo prende per mano e, con un gesto eloquente, lo invita a ristabilire quella tradizione bambinesca.

Immerso nel verde, nella natura inafferrabile, Colin ha la sensazione di smontare ogni singolo pezzo di sé stesso per poi rimetterli insieme secondo un nuovo e naturale ordine.

"Voglio vivere!"

Come un soffio di vento, il suo proposito rimbalza da superfici levigate e solide e quando torna con l'eco trova un ragazzo che non ha più solo domande ma, finalmente, anche delle risposte.

Nell'approvazione di Amy e Bright incrocia le sue stesse cicatrici: sono cresciuti.

"Io voglio vivere!"

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Capitolo 16
*** Essere una moltitudine ***


L'ultima discesa delle Montagne Rocciose, cattedrali della terra con i loro portali di rocce e mosaici di nubi, si scorge in lontananza insieme agli imponenti grattacieli della città.

Denver è lì, a separare due mondi spesso in antitesi tra di loro.

Colin cammina lentamente, per vedere e sentire con tutti i sensi mentre, da solo, si dirige verso la fermata dell'autobus. Ha il cuore gonfio di un orgoglio nuovo, una sicurezza solida da ai suoi passi un andamento più certo e la fiducia, appena incassata, lo rende cautamente ottimista.

Ha chiesto a Jim e Sharon di poter tornare ad Everwood in autobus, per provare a loro, ma soprattutto a sé stesso, che ce la può fare. Euforico, vorrebbe mettersi a correre ma sa che quei quartieri, dagli splendidi palazzi dalle facciate in mattoni a vista, non sono campi da ginnastica.

Anche la ginnastica medica, patita soltanto fino a qualche ora prima, gli sembra adesso più sopportabile e gestibile difronte a quello skyline variegato che arricchisce il guscio vuoto nel quale ha vissuto per mesi.


Nel pomeriggio umido e appiccicoso di metà agosto, intravede una sagoma familiare dritta sui seggiolini informi sotto la pensilina.

"Ehi Grover!"

Ad Amy tremano le gambe per l'emozione di quel nickname rispolverato, frutto di ricordi infantili e dell'amore dato, ricevuto, difeso. Un vero nome di battaglia.

Guarda Colin costretto ad appoggiarsi contro il cartellone con le pubblicità e il suo sorriso non tradisce nessun vacillamento. Capisce di amarlo, oltre le fragilità e i limiti, oltre quelle catene che sta, stoicamente, cercando di spezzare. Ama questo Colin che, quasi in un'aritmetica rudimentale, non è solo uno, due o tre. È una moltitudine.

"Cerco qualcuno che mi faccia compagnia per viaggio di ritorno!"

Civetta lei con la giocosità dei suoi quindici anni quando è evidente che si trova lì per il motivo opposto. A Colin non dispiace affatto ma quando l'autobus si ferma ed Amy ha già un piede sul paragradino, istintivamente, la tira indietro.


"Aspetta!"

Lo scintillio curioso ed interessato della ragazzina spazza via le esitazioni, le imposizioni e le proibizioni che torneranno, prepotenti, più di una volta.

Non vuole pensarci, non in questo momento. Vuole soltanto sbizzarrirsi, immagazzinare energie e felicità nuove.

La bacia. Le loro labbra si sfiorano, veloci e leggere come il battito d'ali di una farfalla. È un gesto simbolico, pieno di affetto e di futuro.

"Forse, prima di ripartire, potremmo fare un giro per Denver. Sai che vanta il titolo di miglior città d'America per single?"

Un vestigio del Colin brillante e scanzonato, sbiadito dal dolore, è quello che cinge i fianchi esili di Amy dandole un brivido.

Non ha più paura ad essere vero, a mettersi a nudo davanti agli altri, ha la forza di essere uomo. Quella forza che da senso ai suoi limiti, trasformandoli in energia.

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