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di arsea
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


NA: Questa fanfic è un gigantesco esperimento. Credo che dovrò ringraziare le mitiche Dreamsie (se non avete letto le sue storie andate a farlo) e Mayth (come sopra, peccatori!) per avermi fatto scoprire un nuovo stile, con le loro storie ma anche suggerendomene un sacco di altre. Non so quanto io sia riuscita ad adottarlo, ma questo è il meglio che ho partorito! XD
Infine devo ringraziare la mia meravigliosa Fra (in arte Winchester_D_Fra), conosciuta in "Rimettere insieme i pezzi" e che anche qui per me è stata fondamentale con il suo lavoro di beta-reader (ti amo tesora <3 ).
Fatti i ringraziamenti di rito vi auguro buona lettura e spero che vogliate lasciarmi le vostre impressioni e critiche, che sono sempre ben accette!

 
Capitolo Primo
 
<< Non può andare da lui >> chiarì il medico senza mezzi termini, le braccia incrociate sul petto e lo sguardo fermo, ma lui era altrettanto convinto che sarebbe entrato in quella maledettissima stanza, anche a costo di farsi strada trai corpi.
Lasciò che i suoi occhi dicessero quel che la sua bocca trattenne, tutto il suo corpo parlò, travolgendo il povero dottore con una forza psicologica che non poteva sconfiggere in alcun modo << È debole. Instabile. Ha bisogno di riposo >> protestò ancora, più debolmente, come se volesse farlo ragionare, ma questa volta non si diede la pena nemmeno di ascoltarlo, limitandosi a superarlo senza dire nulla.
Era seduto contro la testata del letto, il corpo pallido collegato a macchine che non voleva comprendere e lo sguardo fisso sulla parete di fronte.
Le lacrime gli bagnavano il volto in una scia continua, gocciolando dal mento senza che si desse la pena di asciugarle, e per quanto miserevole e straziante fosse quello spettacolo non riuscì a non amare il modo in cui i suoi occhi brillassero come pietre preziose << Charles >> ansimò, macinando i pochi passi che li dividevano in una corsa per riuscire infine a stringerlo a sé.
Lo baciò perché niente di lui riuscì a trattenersi dal farlo, delicato, assetato, sentiva la debolezza nelle sue mani e nella sua bocca ma non riuscì comunque ad allontanarsi da lui << Hanno detto… hanno detto... >> singhiozzò quando gli permise di riprendere fiato, quel suono sofferente lo pugnalò al petto come una lama vera e propria, così lo zittì, un altro bacio, una supplica << Lo so, lo so… Andrà tutto bene. Ti giuro che andrà tutto bene, Charles >> << Cosa farò adesso? Erik… cosa sono adesso? >> gemette, con quelle lacrime salate e amare insieme che gli solcavano il viso.
Imprecò, lo baciò ancora e imprecò di nuovo, prendendo il suo volto tra le mani << Posso aggiustare tutto >> gli disse, guardando negli occhi quella speranza dolorosa << Come? >> estrasse la lama dalla fondina che teneva dietro la schiena, posandogliela in grembo.
Lo vide sbiancare ancora di più se possibile, cereo << Cosa vuoi fare? >> domandò spaventato << Non è la prima volta, Charles. È sempre così: ci incontriamo, ci amiamo e io rovino tutto. Mi dispiace… mio Dio… mi dispiace >> << Cosa stai dicendo? >> gli prese la destra, così debole, oh, così morbida, e la incatenò alla sua << Fidati di me >> disse << Ti troverò >> lo baciò mentre teneva la sua mano, lo immobilizzò con quel bacio e prima che potesse fermarlo affondò il pugnale dritto nel suo cuore.
Charles riuscì a malapena ad emettere un lamento contro le sue labbra, si dibatté un poco con il residuo di forza che gli era rimasta in quel corpo spezzato, ma alla fine esalò e giacque immobile, gli occhi spalancati per il terrore, le dita ancora strette alla sua camicia.
Si liberò con gentilezza mentre tutti gli allarmi cominciavano a suonare, sentì gli scalpiccii dei passi affrettati di infermieri e dottori che correvano nella loro direzione, baciò quelle dita mangiucchiate << Ti amo >> sussurrò chiudendo le sue palpebre sottili << Cosa hai fatto?! >> urlò una voce alle sue spalle, ma prima che potessero fare qualunque cosa, con un gesto Erik estrasse il pugnale dal corpo dell'amato e con il seguente si squarciò la gola.
 
*
Si svegliò senza sapere nemmeno lui cosa farne del batticuore che gli scoppiava in mezzo al petto.
Non era la prima volta. Non era nemmeno la decima o la centesima.
Faceva quel sogno da che ricordasse.
A volte c'erano dei lunghi intervalli, riusciva quasi a dimenticarsene, ma sembrava che si prendesse gioco di lui, nascondendosi chissà dove per tornare a tormentarlo quando meno se lo aspettava.
Al sogno non importava proprio nulla che lui avesse tre anni e che la sensazione di morire può essere uno dei peggiori traumi infantili. Non gli importava che una gola squarciata e la certezza matematica di essere un assassino potesse distruggerlo.
Doveva solo NON. DIMENTICARE.
Erik aveva saputo sin da bambino che aspetto avrebbe avuto una volta adulto.
Non si era mai preoccupato della sua statura, né dei muscoli che non collaboravano quando era un adolescente, non si era curato proprio di niente, perché il sogno gli aveva già trasmesso tutte le certezze di cui aveva bisogno.
Lui era Erik.
Erik Lenhsherr in questa vita, ma il cognome non importava, era solo il sigillo di un involucro, niente più.
Lui era Erik. Solo questo.
E di Erik sapeva più o meno tutto.
Non ogni cosa e non subito, ma con il tempo aveva scoperto abbastanza per far combaciare Erik con se stesso.
Ad esempio, aveva saputo sin dalle elementari che sarebbe stato un ingegnere.
E sapeva anche che non gli sarebbe piaciuto il vino rosso, anche se ovviamente sua madre non gli aveva mai permesso di assaggiarlo. Non era più intelligente degli altri bambini, ma ricordava, ricordava molto, e persino il peggiore degli stupidi può diventare eccellente quando frequenta la scuola per la seconda volta.
O la terza. O la decima.
Ma soprattutto, quel che sapeva sopra ogni altra cosa al mondo, quel che era impresso dentro di lui a fuoco e sangue, che lo teneva insonne e che da piccolo lo aveva fatto piangere senza alcun motivo, era che era disperatamente innamorato di Charles.
Charles.
Occhiazzurri-pellechiara-lentiggini-labbrarosse.
Questo sapeva di lui, nient'altro.
A volte aveva dei flash, una risata o una frase, l'immagine di un raggio di sole attraverso una ciocca castana o la consistenza di una mano nella propria, me per il resto… c'era il buio.
Si sollevò a sedere dal suo letto nella periferia di Brooklyn, si passò una mano sul volto e diede in un grosso respiro profondo, uno di quelli che gli servivano per farsi forza, costringendosi a mettersi in piedi.
Accolse la fitta al petto che seguiva ogni sogno, il ricordo insistente del fatto che Charles non era al suo fianco, la paura di non trovarlo, il terrore delirante di averlo ucciso e perso per sempre.
Era successo in passato. Quella paura nasceva da quei ricordi del resto.
Morire senza Charles era peggio che morire per mano propria nella speranza di rincontrarlo.
Andò in bagno e si infilò sotto la doccia per scacciare il sudore ghiacciato dalla propria pelle, attivando con un cenno il notiziario del mattino per attenuare un poco il silenzio dell'appartamento, e cercò di ricordarsi che aveva solo ventisette anni, che aveva ancora una vita per trovarlo, e anche altrettanto per riempirsi di lui.
Ma come?
Quel quesito lo tormentava come una lama infilata nel fianco, era lui stesso a rigirarsela nella carne, ripetendo a se stesso che non aveva diritto di smettere la sua ricerca o arrendersi, glielo aveva promesso, e lo doveva anche a se stesso.
La sua vita scorreva su rotaie di monotona tranquillità.
Si preparò un po' di uova e pancetta e bevve del succo direttamente dal cartone mentre finiva di legarsi la cravatta, quindi si fermò al chiosco sotto casa per prendersi un caffè, nonostante la colazione, prese il giornale e si mosse verso la metro, scandagliando le notizie con occhio attento.
Ricordava di lui delle dita macchiate d'inchiostro.
Poteva essere stato uno scriba, un contabile, un insegnante, uno stampatore, lo scrivano di qualche soldato o generale… le combinazioni erano infinite.
Certo chi citava Aristotele e Platone doveva essere una persona colta, quindi aveva fatto cominciare la sua ricerca dagli appartenenti ai circoli letterari più illustri, aveva frequentato convegni e seminari, aveva bussato ad ogni università degna di nota del Paese per passare in rassegna annuari e archivi, ma non aveva trovato niente.
Non tornavano mai lontani da dove erano morti.
Sarebbe stato fantastico se fosse stato in qualche isola sperduta nel nulla, ma no, Erik era nato nella dannatissima New York, otto milioni e quattrocentosei mila abitanti, metà bianchi e maschi, di cui gran parte con gli occhi azzurri e i capelli castani.
Aveva cercato trai registri d'anagrafe del quarto anno successivo alla sua nascita, ma c’erano migliaia di Charles.
Aveva cercato trai soldati, trai medici, gli avvocati, i maledetti bibliotecari persino!
Se c’era un elenco di persone in quella città, lui l’aveva consultato.
Negli anni aveva fatto ricerche che solo una folle ossessione può giustificare, l'avvento della tecnologia lo aveva facilitato ma aveva anche centuplicato la confusione, giacché spesso inseguire un’ombra nei vari social network lo portava solo ad una delusione cocente e divorante.
Ovviamente poteva essersi trasferito.
C’era quell’opportunità, ma non voleva prenderla in considerazione.
Lui era nato da immigranti tedeschi del resto, suo nonno era scampato alla seconda guerra mondiale, e non aveva la più pallida idea di come Erik-superstite-del-Vietnam fosse finito dentro il ventre di un’ebrea di Brooklyn, quindi come avrebbe potuto rintracciare Charles se tutto ciò che sapeva di lui erano le sue caratteristiche fisiche?
Scese alla sua fermata e gettò il bicchiere vuoto del caffè nel cestino in cui lo buttava tutte le mattine, finì di leggere le notizie di cronaca davanti al grande edificio di cristallo che ospitava il suo ufficio ed entrò per lasciare il giornale a Fred, il portiere, dopo averlo salutato.
Ovviamente c’era anche l’extra.
Aveva studiato molto delle teorie sulla reincarnazione naturalmente, aveva comprato riviste specializzate e incontrato persino un ipnotista, ma a livello conscio non riusciva a ricordare molto delle sue vite passate, tranne il fatto che le aveva effettivamente vissute e poche altre esperienze che si erano come fossilizzate dentro di lui.
La sfiducia nel prossimo, ad esempio. Non ricordava nemmeno un singolo episodio della sua vita che potesse giustificarla, eppure era radicata così in profondità dentro di lui che tutto ciò che lo circondava poteva semplicemente bruciare lasciandolo del tutto indifferente.
Se ricordava queste futilità dunque avrebbe dovuto ricordare anche qualcosa sul controllo che sapeva esercitare sui metalli e sul magnetismo, invece non era così, ergo erano una novità della sua vita attuale.
Che anche per Charles fosse lo stesso? Non ne aveva la più pallida idea.
Ma se era intelligente almeno la metà di quanto credeva che fosse, avrebbe nascosto qualsiasi capacità come il peccato << Buongiorno, signor Lehnsherr >> ricambiò il saluto della segretaria dello studio e proseguì verso il suo ufficio.
Progettava acquedotti e dighe, o almeno erano i suoi incarichi più frequenti, e questo lavoro giustificava gli anni di studio per due giganteschi motivi: prima di tutto lavorava da solo, lontano da chiunque altro, e secondariamente gli concedeva abbastanza tempo libero per occuparsi della sua ricerca.
Diede in un respiro profondo quando sedette sulla sua poltrona ergonomica, il secondo quella mattina, e si massaggio gli occhi con aria stanca mentre la segretaria bussava sulla porta di vetri per attirare la sua attenzione << Volevo solo ricordarle dell’incontro per la consulenza a mezzogiorno, signor Lehnsherr >> << Naturalmente, Margaret. Grazie >> le persone dicevano di lui che era cortese ed efficiente.
Non era proprio sicuro che “efficiente” fosse un aggettivo adatto ad una persona, le macchine sono efficienti, ma finché creava quest'aura di reverenziale timore intorno a lui non aveva di che lamentarsi visto che rendeva minimo il suo bisogno di interagire con gli altri.
Aprì il suo laptop, diede un'occhiata all'orologio anche se era appena entrato, e si preparò ad otto ore di efficiente e cortese lavoro d'ufficio.

 
*
Stava covando un'influenza.
Era abbastanza sicuro di questo, se la sentiva ronzare da qualche parte sulla nuca, lì dove partì il brivido di freddo che lo scosse non appena mise piede fuori dall'aereo e che lo costrinse a stringersi di più nella sciarpa di lana rossa.
Lui e l'influenza avevano stretto un patto a metà del semestre se non ricordava male, quando praticamente tutto il dipartimento si era ritrovato a letto, promettendole anima e corpo che se gli avesse permesso di studiare per gli esami del dottorato si sarebbe potuta divorare anche tutte le sue vacanze.
Sembrava averlo preso in parola.
Dio, come faceva ad avere pensieri del genere?
Si chiuse il cappotto e afferrò il piccolo trolley in cui aveva stipato più o meno tutta la sua stanza del dormitorio, cercando di non inciampare nei propri piedi nello scendere i minuscoli scalini resi scivolosi dalla pioggia, e trovò un nuovo motivo per maledire le scarpe di cuoio.
Adorava i mocassini con le suole di gomma, personalmente li reputava il più grande passo nell'evoluzione umana dopo la carta igienica, ma non la pensava alla stessa maniera sua madre, perciò, come per tutto nella sua vita del resto, aveva stretto un patto anche con loro, portandoli con sé come una specie di talismano con la ripromessa di indossarli non appena Sharon Xavier non fosse stata nelle vicinanze.
Il compromesso è la via del successo, giusto?
La fila degli arrivi era oscenamente lunga, un mastodontico girone infernale rigurgitante pendolari annoiati e turisti che fotografavano anche le mura di cemento, e trovò un altro motivo per odiare la donna che l'aveva messo al mondo.
La sua voce calda e suadente, incredibilmente irritante a suo parere, continuava a rimbombargli nella testa, ricordandogli i motivi per cui sarebbe stato molto meglio utilizzare il jet di famiglia.
Il jet.
Quella donna era pazza. Pazza.
Avrebbe potuto saltare la fila. Ogni sua più piccola e insignificante cellula lo supplicava di farlo, di farsi spazio in quella folla informe e claustrofobica come Mosè tra le acque, e invece rimase pazientemente al suo posto, conquistando un quarto di passo alla volta, ripetendosi come una litania gli inviti di Socrate alla sopportazione.
Stava purificando la sua anima. Migliorando la sua resistenza. Fortificando il suo… << Charles! >> la voce di Raven lo fece saltare sull'attenti quasi fosse quella di una SS in un campo di sterminio, quasi sentì distintamente il suo cuore tamponare il suo pomo d'Adamo, ma non riuscì comunque a trattenere un sorriso quando le braccia di sua sorella lo circondarono con trasporto ed entusiasmo. Che poi erano le due cose che fondamentalmente componevano Raven.
Gli era mancata da impazzire.
La strinse ignorando completamente chiunque altro li circondasse, ignorò gli spintoni dei turisti, le occhiatacce degli impiegati per l'ostruzione della fila, riempiendosi solo di lei, del suo calore e del profumo di shampoo e sole << Si può sapere come fai a saltare su così tutte le volte? >> fece allontanandolo, ma solo per illuminarlo del suo sorriso più pieno, un lampo bianco che lottava coi voluminosi riccioli biondi e gli splendenti occhi azzurri per la supremazia del volto << Ero distratto >> << Come sempre! >> afferrò con facilità il trolley, lasciando a lui solo la borsa del pc e il cappotto che nel frattempo si era tolto per non soccombere al caldo soffocante dell'aeroporto, quindi afferrò la mano di lui rimasta libera e lo trascinò con fermezza verso l'uscita << Aspetta, Raven... >> cercò di protestare, ma lei era inamovibile, un treno inarrestabile che travolgeva con il suo entusiasmo adamantino tutto ciò che incontrava, finché non raggiunse una seconda figura altrettanto incontrastabile, dritta e rigida come un fuso.
Sharon Xavier vestiva sempre in modo impeccabile, in vita sua Charles non le aveva mai visto nemmeno un singolo capello fuori posto, non una sbavatura di trucco, non un'unghia ammaccata, e più di una volta si era chiesto se non si svegliasse già così, perfetta, appena uscita dalla scatola, coi capelli biondi acconciati all'ultima moda, il tubino blu scuro che sottolineava la sua figura perfetta, i tacchi lucidati a nuovo e la giacca appoggiata elegantemente sulle spalle.
Forse non dormiva affatto.
Non se ne sarebbe stupito << Ben arrivato, caro >> disse, contenuta come sempre mentre si avvicinava per i saluti di rito, un bacio all'aria vicino alla sua guancia, un'occhiata a labbra strette al suo colletto senza cravatta e alle gote arrossate dall'arrancare dietro a Raven << Ciao, mamma. E salve anche a te, Iron >> il suo assistente/guardia del corpo/ombra era una copia esatta di lei, sempre se Sharon Xavier fosse stata afroamericana, calva e alta un metro e novanta, anche il suo completo era quasi dell'esatta tonalità del vestito di lei, e possedeva la stessa espressività ed emotività del suo nome << Mamma ha un appuntamento tra mezz'ora, Charles. Per questo siamo venute a prenderti >> disse Raven prima che lui potesse chiederlo, l'eterna mediatrice di Casa Xavier, e visto quanto gli era mancata decise di esserle grato e basta << Certo, grazie. Possiamo andare >> Iron si appropriò del trolley con l'impassibilità con cui faceva tutto, sollevandolo invece di trascinarlo, così Raven si sentì libera di circondargli il braccio con i suoi continuando a sorridere e guardarlo, senza parlare, felice di vederlo quanto lui lo era di vedere lei.
A volte era certo che l'espansività di sua sorella fosse una diretta conseguenza del gelo che permeava il resto della loro famiglia, una giusta compensazione che in tutti quegli anni era stata una vera e propria manna dal cielo << Come è stato il viaggio? >> Sharon camminava come se l'aeroporto le appartenesse.
Non degnò di uno sguardo i doganieri, fece lo stesso per tutto il resto dopotutto, l'intero edificio doveva essere grato di ospitarla, compreso il pavimento su cui ticchettavano i suoi tacchi, e anche i poveri diavoli in attesa agli arrivi dovevano esserle grati.
L'aria doveva esserle grata << Tranquillo. Ho dormito un po' >> raggiunsero l'esterno, un altro brivido per il freddo improvviso, e seguì sua madre fino alla berlina nera che attendeva ostentatamente in doppia fila, quindi entrò nell'abitacolo riscaldato e trattenne un sospiro trai denti.
Sua madre sedette davanti a lui, affiancata da Iron, mentre Raven ovviamente non lasciava il suo fianco << Per questa sera ho preferito lasciarti riposare, tesoro. Pensavo di festeggiare il tuo ritorno domani sera, ho prenotato all'Hilton >> << È perfetto >> la sua lingua si era già impostata sullo Sharonese.
Assentire, annuire, sorridere cortese << Tua sorella ha pensato che sarebbe stato più adatto restare in città, quindi vi accompagnerò al loft. Io purtroppo, come già anticipato, devo assentarmi questo pomeriggio. Spero che potremo vederci a cena >> “tua sorella”. Raven era sempre sua sorella, mai “mia figlia”.
Sentì la rabbia stiracchiarsi come un gatto nel suo stomaco, quella era l'unica persona sulla faccia della Terra che riuscisse a smuovere quella pigra creatura acciambellata nel suo corpo, ma si limitò ad un cenno del capo, senza dire niente, blandendo la sua ira con qualche respiro profondo.
Il silenzio rimase compatto per tutto il tragitto, perciò arrivare al palazzo di dieci piani che ospitava l'appartamento di Raven fu una vera e propria benedizione.
Salutò sua madre con il trasporto usato in aeroporto, attese che si allontanasse con la macchina e rilasciò tutta l'aria trattenuta nei suoi polmoni << Ehi... >> fece Raven preoccupata, ma si affrettò a tranquillizzarla con un sorriso << Mancanza di abitudine >> si giustificò << Dopo tre anni è difficile tornare a sopportarla >> lei assentì con un sospiro << Ti capisco fin troppo bene. Per mia fortuna non sono l'erede di famiglia, quindi non sono dovuta scappare nella dannata Oxford per sfuggirle >> aggiunse scimmiottando il suo accento << Oh, ti prego, Raven… sono troppo stanco per questa discussione >> lei alzò gli occhi al cielo, accettò la supplica e prese le chiavi del portone.
Aprì e fece strada fino all'ascensore, premette per l'attico e infine lo accolse nell'immenso appartamento/studio che era il loro rifugio << Preferisci prima mangiare o la doccia? >> domandò pratica, lasciando cadere le chiavi in una ciotola d'ebano vicino alla porta, ma Charles rispose crollando semplicemente a peso morto sull'enorme divano marrone del salotto, facendola scoppiare a ridere << Stasera faccio venire i ragazzi o fingo che non sei ancora arrivato? >> chiese, togliendosi la giacca prima di allungarsi a togliere la sciarpa a lui, seppur trai mugugni di protesta, quindi si accoccolò al suo fianco, metà sdraiata sul suo petto e metà allungata sul tappeto di lana del Perù che aveva regalato loro un'amica << Posso davvero fingere di essere ancora in Inghilterra? >> volle sapere lui, chiedendosi se l'influenza non si sarebbe arrabbiata troppo se avesse deciso di prendere un'aspirina << Solo se mangiamo messicano per cena >> << Possiamo mangiare anche insetti fritti per quanto mi riguarda. Sono il suo schiavo assoluto, mia signora e padrona >> lei ridacchiò ancora, gli diede una pacca sullo sterno e si allungò per un bacio sulla guancia << Bentornato, Charles >> mormorò.
Casa finalmente.
*
Sulla sua agenda vi era scritto “consulenza”, quindi si era aspettato l’ennesimo imprenditore senza la benché minima idea di cosa fosse un ingegnere, la maggior parte dei facoltosi clienti del suo ufficio erano così, che poi era anche il motivo principale per cui un altro settore della compagnia si occupava della loro gestione dall’inizio dell’anno, invece la donna che si era seduta sulla sedia davanti alla sua scrivania dava l’impressione di sapere tutto. Quel che non sapeva era sopperito egregiamente dall’energumeno al suo fianco, una sorta di guardia del corpo intelligente, sempre che una cosa del genere fosse possibile, perciò si era ritrovato più che a rispondere a qualche domanda a far fronte ad un vero e proprio dibattito, con scontro di opinioni più o meno su ogni cosa e un dispendio di energie non indifferente.
Quella donna sembrava fatta d’acciaio. No, se lo fosse stata l’avrebbe piegata con il suo potere.
Più cemento, ecco. O marmo.
Aveva una proprietà a Westchester, lui lo avrebbe chiamato castello ma lei insisteva con “villa”, e sembrava del tutto intenzionata a trasformarlo in qualcosa di simile ad un laboratorio di ricerca di qualche tipo.
Ovviamente no, non poteva chiedere di che tipo di ricerche si trattasse.
No, non le importava la scelta dei materiali, per questo lo pagava.
No, la stazione radio non poteva essere demolita, anche se obsoleta.
Che diamine ci faceva una stazione radio in un posto simile?
Chiuse il suo fascicolo trattenendo un’imprecazione a labbra strette, spingendosi via dalla scrivania stizzito per l’enormità del tempo speso con quella donna.
Non si era separata da lui nemmeno per il pranzo, aveva semplicemente mandato il suo robot da compagnia a “provvedere”, continuando poco dopo a parlare imperterrita mentre infilzava elegantemente carpaccio di pesce spada preso chissà dove in una forchetta di plastica.
Avrebbe considerato la sua pausa pranzo uno straordinario, su questo non c’erano dubbi.
Era esausto e di malumore quando uscì dal suo ufficio, aveva esaurito ufficialmente la sua dose di cortesia giornaliera, quindi non salutò né Margaret né Fred, limitandosi a stringersi nel cappotto contro il dannato inverno newyorkese.
Marciò per qualche minuto come se avesse la piena intenzione di frantumare l’asfalto sotto i suoi piedi, ma arrivato all’imboccatura della metro si disse che era assolutamente inutile covare una rabbia simile.
La cosa positiva era che non avrebbe rivisto quella donna impossibile almeno per qualche settimana, mai se fosse stato fortunato, e arrabbiarsi così per un cliente era stupido anche per uno come lui.
Si appoggiò alla grata che portava in basso e alzò gli occhi chiusi al cielo, prendendo qualche respiro profondo e focalizzandosi su l’immagine più tranquillizzante che aveva: un volto che amava, un sorriso timido, illuminato a malapena da un paio d’occhi azzurri grandi come l’infinito, e poi un gesto della mano per togliersi i capelli dalla fronte.
Era uno dei suoi ricordi preferiti, caldo e piacevole, così intenso e vicino che quasi si stupì di non averlo davanti quando riaprì gli occhi.
Un sospiro lungo spezzò le sue labbra.
Una vibrazione familiare nella tasca destra lo risvegliò dal suo torpore nostalgico, e si rimise dritto prima di rispondere al cellulare << Pronto? >> << Hai sempre quel tono sorpreso quando rispondi al telefono. Non hai salvato il mio numero? >> suo malgrado, Erik non riuscì a trattenere un sorriso al suo tono seccato << Sì, mamma. Ho salvato il tuo numero. Ero solo distratto >> il sospiro di scariche elettrostatiche si sentì forte e chiaro, e quasi poté vederla alzare gli occhi al cielo << Hai già mangiato? >> non per la prima volta, si chiese se sua madre fosse interessata più al suo stomaco che alla sua vita quale essere senziente e attivo all’interno della società << Non ancora. Sono uscito adesso da lavoro >> scese le scale della metro e puntellò il cellulare contro la spalla per prendere la tessera dell’abbonamento e posarla sul lettore << Non passare da quei chioschi di gente di cui non riesci a determinare il paese di provenienza >> << Mamma, sei conscia del fatto che tuo padre è un immigrato tedesco ed ebreo, vero? >> anche senza vederla, seppe che aveva fatto quel gesto della mano che significava più o meno tutto, da “sciocchezze” a “stai zitto”.
Ci fu una pausa in cui lei si ricordò di essere al telefono, quindi tradusse per lui il gesto: << Oh, stai zitto, Erik. Dammi ascolto, piuttosto. Verrai sabato? >> << Credo che nemmeno una pioggia di meteoriti potrebbe impedirmi di festeggiare il tuo compleanno >> la sentì scoppiare a ridere, un suono che amava naturalmente, e si scusò distrattamente con un passante per averlo urtato mentre raggiungeva il binario << Ho prenotato al tuo ristorante preferito, quello sulla quattordicesima. Ho intenzione di vestirmi elegante e fingere per tutta la serata di essere il tuo orgoglioso fidanzato, fissandoti adorante e guardando male chiunque osi voltarsi verso la mia giovanissima donna >> di nuovo rise << Oh Erik! >> sua madre era la persona più preziosa del mondo per lui.
Lo aveva cresciuto praticamente da sola dopo che suo padre era morto in un incidente di fabbrica, e aveva usato tutti i soldi dell’assicurazione per la sua istruzione, permettendo così ad un ragazzino di Brooklyn di frequentare la Columbia e diventare quello che era << Sai essere così sciocco a volte... Ma grazie. Ti voglio bene, tesoro >> << Anche io ti voglio bene. A domani >> ripose lo smartphone sentendosi ristorato dopo quella breve conversazione, e alzò lo sguardo verso l’orologio del tabellone appeso sopra la sua testa.
Fu in quel momento che lo vide.
Occhiazzurri-pellechiara-lentiggini-labbrarosse.
Il suo cuore si fermò. Lo sentì fermarsi.
Erano lontani, lui binario est e l’altro ovest, ma anche così vedeva distintamente il suo sorriso, riconobbe il suo sorriso, quel volto arrossato dal freddo per metà nascosto da una sciarpa rossa e i capelli castani disordinati come sempre intorno al suo volto.
Gli occhi, oh mio Dio i suoi occhi, quel turchese cangiante che raccoglieva ogni sfumatura e la rendeva brillante, quello sguardo che era incubo e sogno insieme.
Sul suo corpo lo stupore aveva fatto scendere un veleno gelido, era come paralizzato, non riusciva nemmeno a respirare.
Era lì. Vivo. Davanti a lui.
Non era pazzo, non era mai stato pazzo, non era innamorato di un’ombra o un fantasma, era reale, REALE!
Poi un lampo luminoso, il familiare suono del vagone in avvicinamento, niente più che uno stridore ovattato, ma fu peggio di una pugnalata al petto << Charles! >> urlò con quanto fiato aveva in gola, un attimo prima che la metro delle otto e cinque glielo strappasse via.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Dove Raven riuscisse a trovare la forza e la voglia di percorrere venti minuti di due metro diverse e quindici di taxi solo per mangiare lui non sapeva davvero spiegarselo, ma da bravo fratello/schiavo obbediente non gli restò che seguirla << Riesci a muoverti con tutte quelle cose addosso? >> volle sapere lei mentre lo vedeva vestirsi, ma l’occhiataccia che le rivolse prima di avvolgersi la sciarpa intorno al collo non sembrò sortire alcun effetto << Ho freddo. E sto covando un’influenza >> << È il risultato di qualcun altro dei tuoi riti voodoo? >> lei non aveva la borsetta, quindi rifilò a lui le chiavi, con annesso inutile e ovviamente voluminoso portachiavi di peluche, visto che le tasche della sua giacca striminzita a malapena avrebbero accolto le sue mani << Non sono riti voodoo. Compromessi >> lei alzò un sopracciglio scettica << È di questi “compromessi” che parlerà la tua tesi di dottorato? >> lui sospirò mentre scendevano la metro.
La prima metro, ovvio. Prima linea nord e poi ovest. Tutto per un ristorante.
Respira, Charles << La mia tesi tratterà dei risvolti sociali della teoria evoluzionista >> << Ovvio. Certo. Perché tu sei l’unico genetista sulla faccia del pianeta che abbia studiato anche psicologia visto che, parole testuali, “aveva tempo >> << Il tuo tono è quasi offensivo, sai? >> lei scoppiò a ridere e lui la imitò dopo un secondo, cingendole gentilmente il fianco con fare protettivo mentre entravano nella galleria dell’orario di punta, sua sorella non si rendeva minimamente conto di quanto corta fosse la sua gonna nonostante il freddo proibitivo, e lui poteva forse non leggere nel pensiero ma non era cieco.
Prese il biglietto per sé e per lei, ascoltandola mentre gli riassumeva più o meno tutti gli ultimi tre anni, anche se ovviamente si erano sentiti tutti i giorni, con skype più di una volta si era limitato a lasciare la webcam accesa anche mentre dormiva, quasi che a dividerli fosse solo una parete come succedeva a casa invece che un intero oceano, ma doveva ammettere che sentirla chiacchierare di sciocchezze non gli dispiaceva affatto.
L’argomento del momento era il suo nuovo ragazzo, un certo Steve Io-sono-il-sogno-americano Rogers, di cui sembrava invaghita ma che entrambi sapevano non sarebbe durato, e la sua improbabile tendenza a mandarle messaggi sdolcinati << Voglio dire, quale può essere lo scopo di mandarmi il messaggio del “buongiorno”? Non ho tredici anni! >> << Vuoi la risposta da fratello o da psicologo? >> lei gli lanciò una delle sue occhiate micidiali, ma attese che salissero sulla metro prima di continuare come se non si fosse affatto interrotta: << È davvero carino, Charles, te lo posso assicurare >> << Ma... >> la invitò lui, affrettandosi verso l’unico posto libero del vagone per farla sedere, e lei lo fece di riflesso, alzando gli occhi al cielo << Ma... è un pochino appiccicoso, ecco. Immagino che dipenda dal suo lavoro. Ti ho detto che lavora coi bambini, vero? >> << Insegnante per bambini problematici, se non ricordo male >> << Proprio così. Questo ha sviluppato parecchio tutta la cosa dell’empatia e del dialogo, ma...cristo Charles... a volte vorrei vederlo arrabbiarsi, almeno una volta, solo per vedere che effetto fa >> << Hai provato a... >> << Oddio, se dici “parlargli” giuro che ti strozzo! >> lui non riuscì a trattenere una risata, afferrandosi saldamente alla sbarra di metallo del soffitto per non finirle addosso all’ennesima fermata gentile della metro newyorkese.
L’unica consolazione che provava era che almeno anche gli altri pendolari sembravano contenti quanto lui di venire sballottati ogni pochi minuti come sgombri appesi ad affumicare << Abbiamo parlato praticamente per tutto l’ultimo mese! >> << Perché non provi a portarlo a casa allora? Se lo conoscessi potrei consigliarti meglio, e allo stesso tempo potrei vedere di sbloccare un po’ la situazione >> << Che vuoi dire? >> lui diede in un risolino, sciogliendosi un po’ la sciarpa intorno al collo perché il vagone era asfissiante << Dico che sei una personalità estremamente forte ed indipendente. Lui forse si sente intimidito da te, per questo ha bisogno di continue rassicurazioni >> gli occhi azzurri di lei si strinsero in uno sguardo indagatore e pensoso << Gli entrerai in testa? >> << Oh, Raven! >> << Non intendo in quel modo. Solo in quello normale >> << Non ho preso una laurea in psicologia per “entrare nella testa” del prossimo >> << Sì, sì... lo farai? Per me >> lui sospirò, e toccò a lui alzare gli occhi al cielo << Invita anche lui domani, insieme ai ragazzi. Ti dirò cosa ne penso sinceramente >> << Vuoi fare una bambolina voodoo anche con me? >> << E piantala con questa storia! Non puoi semplicemente pensare che io non voglia passare per il fratello svitato di Raven? >> lei gli prese la mano come per consolarlo << Mi dispiace, Charles, ma tutti pensano già che tu lo sia >> << Questo perché non fai altro che dire cose strane di me >> lei spalancò gli occhi fingendosi oltraggiata, portandosi persino una mano al petto << L’ultima volta, a capodanno, non ero certo io che trai “buoni propositi” ha messo “convincere i professori che la mia giornata consiste in venti ore”! Oddio, è una cosa così assurda! >> << Nessuno ti ha costretto a leggere a voce alta. Io non l’ho fatto con te >> rimasero a battibeccare ancora per qualche minuto, e stavano per continuare anche una volta raggiunta la propria fermata, ma mentre scendevano lui la afferrò per impedirle di inciampare sullo scalino della banchina e quel gesto così premuroso la fece scoppiare a ridere e dimenticare all’istante della discussione << Ti ho già detto che mi sei mancato? >> fece tornando dritta << Non abbastanza spesso >> la canzonò lui, accogliendo il bacio sulla guancia che seguì e porgendole il braccio perché lei vi incatenasse il proprio.
Aveva smesso di prenderla per mano più o meno con la terza media, quando si era reso conto che lei lo trovava imbarazzante, ma visto che non voleva che la folla li separasse né tantomeno perderla di vista, si era ritrovato ben presto a scegliere quel metodo, anche se accentuava ancora di più l’idea che fossero una coppia di innamorati invece che fratello e sorella.
Beh, almeno lei aveva la gentilezza di non indossare tacchi quando uscivano insieme, visto che avevano più o meno la stessa altezza, quindi per lo meno non sembravano una coppia male assortita.
Anche se lei era bellissima e lui era e sarebbe sempre stato solo carino << Spero che questo ristorante valga la pena >> sospirò, salendo le scale per cambiare binario << Ci puoi contare. Appena assaggerai le tapas lo capirai >> << Sì, sì... >> la assecondò, muovendosi per obliterare i biglietti la seconda volta, finendo però travolto da una spalla anonima che sbalzò entrambi di un passo << Scusi >> fu tutto ciò che riuscì a strappare all’uomo, che continuò a parlare al telefono come nulla fosse, superandoli senza degnarli di uno sguardo << Benvenuto a New York >> lo canzonò Raven vedendo la sua faccia irritata << Sono sempre così gentili in questa città >> sibilò lui sarcastico, scuotendo il capo prima di proseguire << A me piace da impazzire >> disse lei << È così viva, così elettrizzante! Non so davvero come tu sia riuscito a vivere in Inghilterra >> lui alzò gli occhi al cielo << Certo. Impossibile vivere in un paese in cui le parole “grazie” e “per favore” hanno ancora un significato. È stata una tortura >> si fece strada attraverso la calca e si fermò sulla banchina d'attesa, vicino alla linea gialla che non dovevano oltrepassare << Posso venire con te per la tesi? >> se ne uscì lei di punto in bianco << Naturalmente >> << Ma niente giro turistico per i musei. Ad aprile compirò ventun'anni, ricordi? Esigo d'ubriacarmi in un pub londinese >> lui diede in un lungo, lunghissimo, respiro profondo, ma prima che potesse risponderle acido un urlo gli attraversò il cervello come una pugnalata:
Charles!
Barcollò pericolosamente mentre la metro sfrecciava a pochi centimetri da lui, Raven lo trattenne a stento dal cadere << Che succede? >> fece allarmata, ma lui la sentì a malapena.
Si portò una mano alla fronte, sentendola pulsare dolorosamente mentre gli scudi che smorzavano il suo potere stridevano come se qualcuno o qualcosa cercasse di abbatterli.
Era impossibile. Gli inibitori esistono per questo, giusto?
In qualche modo Raven riuscì a portarlo sulla metro, e lui ricadde a peso morto contro le porte scorrevoli << Ti prego, Charles... mi sto spaventando >> lo vedeva che era spaventata, era bianca come carta, quindi si sforzò di risponderle << Qualcuno... qualcuno ha urlato il mio nome >> << Io non ho sentito nulla >> lui scosse il capo, portandosi un dito alla tempia << Oh >> << Già >> si fece più vicina << E' come te? >> volle sapere in un sussurro << No. Non credo almeno. Era solo un pensiero... intenso. Spaventosamente intenso >> uno scossone violento scosse il vagone, non avevano nemmeno lasciato del tutto la fermata, sbalzando tutti e facendo rovinare molti a terra, compresi lui e Raven, che lasciò andare un gridolino.
Riuscì ad impedire all'ultimo secondo che lei sbattesse la nuca contro il palo d'acciaio alle sue spalle, mettendo la mano tra lei e il metallo, ma il dolore del colpo fu poca cosa confrontato con la stilettata che per la seconda volta gli attraversò il cervello << Oh Dio... >> gemette e adesso spinse il suo potere contro le barriere dell'inibitore, anche sapendo dell'emicrania che sarebbe seguita, cercando di proteggersi da quella mente malata.
Charles, Charles, Charles...
Dio, chi diamine conosceva che poteva essere così?
Si rialzò in piedi tenendo Raven a sé perché facesse lo stesso, guardandosi intorno per cercare di capire chi fosse questo pazzo.
In lui – sentiva che era un lui – c'era un'urgenza che aveva del sinistro, ripeteva il suo nome ossessivamente, insieme ad un confusionario elenco di sue caratteristiche fisiche, ma Charles era certo, assolutamente certo, che nessuno tra le sue conoscenze avesse la sua voce.
Era in quella dannata città da nemmeno un giorno e già aveva il suo maniaco!
Imprecò tenendosi il capo, era doloroso usare il suo potere in quel momento, nonché incredibilmente faticoso, senza contare che non riusciva a fare molto altro oltre a captare qualche immagine fugace.
Basta!
Lo chiuse semplicemente fuori, tutta la sua concentrazione si focalizzò su questo, contando i secondi che li separavano dalla prossima fermata e guardandosi intorno per cercare di capire chi fosse << E' qui? >> domandò Raven in un mormorio preoccupato, senza protestare anche se lui si era messo davanti a lei come una sorta di muro umano << Non lo so. Troppe persone >> morsicò << Quanto manca alla prossima? >> << Un minuto al massimo >> fu il minuto più lungo della sua vita.
Quando la voce metallica annunciò loro che erano prossimi a fermarsi, si aprì la porta in fondo al vagone, dalla parte opposta rispetto a loro, e Charles riuscì a vedere un uomo entrare trafelato, gli occhi spalancati e la bocca aperta in brevi respiri, come se avesse corso; seppe senza alcun dubbio che era lui << Scendi! >> ordinò a Raven, accantonando ogni maniera per farsi spazio fino alla porta scorrevole da cui erano stati sbalzati durante lo scossone << No! Charles, ti prego! >> uscirono fuori mentre l'uomo gridava il suo nome, ma invece di correr via con il rischio che li seguisse, il telepate preferì fermarsi e sollevare una mano per fermarlo << Stai lontano da me >> ordinò con ogni briciolo di potere che riuscì a racimolare dentro di sé, la sua testa cominciò a pulsare come l'inferno, ma l'altro si immobilizzò.
Vide lo stupore sul suo volto quando si rese conto che non riusciva a muoversi, erano a pochissimi passi di distanza, tanto che gli sarebbe bastato alzare la mano per toccarlo, e fu scioccante vedere il modo in cui i suoi occhi grigio-azzurri si riempirono di lacrime, fu terrificante riconoscere tanta emozione nei suoi confronti in un estraneo, e forse fu questo a farlo tentennare, a fargli perdere la presa sulla sua mente: imprecò mentre quello se ne rendeva conto e sollevava una mano per afferrarlo, ma si strinse solo sulla sua sciarpa quando Charles indietreggiò istintivamente.
Lo vide perdere l'equilibrio quando mancò l'obiettivo, quindi ne approfittò per spingerlo dentro il vagone con tutta la forza che riuscì a produrre, anche se significò una brutta escoriazione al collo perché l'altro non lasciò la sua sciarpa.
Che la tenesse << Ti prego! >> furono le ultime parole che sentì da lui, poi le porte si chiusero a separarli e la metro proseguì la sua corsa, anche se lo vide distintamente battere contro il vetro con disperazione.
Raven era subito al suo fianco, quindi le prese la mano e si mise a correre verso l'uscita, deciso a mettere più distanza possibile tra lui e quell'uomo spaventoso.
Continuò a correre anche una volta fuori, si fermò solo quando si rese conto che Raven lo stava chiamando << Maledizione, fermati! >> fece, e strattonò la mano che la teneva per liberarsi, arrabbiata, ma le bastò vedere la sua espressione per mutare l'ira in preoccupazione << Ehi, Charles... Tutto bene? >> << No >> sentenziò lui senza mezzi termini, raggiungendo il primo muro per appoggiarsi e riprendere fiato << Lo conoscevi? >> << Come potrei conoscerlo?! >> poi, rendendosi conto di aver alzato la voce: << Scusa. Lasciami... lasciami un momento >> lei assentì lentamente, affiancandolo in silenzio, e attese che fosse lui a parlare di nuovo << Non ho mai visto niente di simile >> sussurrò << Continuava a ripetere il mio nome nella sua testa... mi ha fatto venire la pelle d'oca! >> << Cosa voleva? >> lui la guardò storto << Oh, certo. Perché non mi sono fermato a chiedere a quel pazzo cosa volesse? Cristo, Raven! >> << Okay, scusa, scusa... Intendevo solo dire... oddio, Charles, hai la gola tutta rossa! >> solo adesso si rese conto che in effetti sentiva un po' di dolore, sulla nuca soprattutto, e diede in un'altra imprecazione << Sembrava disperato... dannata città di pazzi! >> sentenziò, rimettendosi dritto e passandosi una mano trai capelli con un respiro profondo << Andiamo, su. Ma al ritorno prendiamo un taxi >> chiarì senza accettare obiezioni.
 
*
Erik tentò di fermare la metro una seconda volta, come aveva fatto per salire, ma sentì le proprie ginocchia cedere non appena provò, troppo spossate dallo sforzo probabilmente, e tutto ciò che riuscì a fare fu scivolare a terra, nello spazio tra due gruppi di poltroncine occupate, troppo scioccato e disperato per interessarsi a quel che lo circondava.
Strinse quella sciarpa contro il viso, nascondendosi dal resto del mondo, troppo sofferente e allo stesso tempo felice per pensare che era un adulto circondato da adulti, troppo colmo di amore, sì, puro e straziante amore, per riuscire a pensare a qualcosa di diverso dal suo volto... il suo volto!
E non erano ricordi di chissà dove e chissà quando, erano di ora, tempo presente, pochi metri di distanza...
Lo aveva quasi sfiorato!
Scoppiò a ridere follemente, baciò quella ridicola lana rossa, la colmò di baci come fosse stata la sua pelle, e si abbeverò al calore residuo intrappolato tra le trame del tessuto, al profumo di colonia costosa, e, forse, anche sigaretta?
La sua euforia/disperazione durò fino al capolinea, quando però dovette uscire fuori e la folla sotterranea e impersonale gli ricordò che era ancora al punto di partenza.
Charles era ancora uno in mezzo agli altri, solo che adesso, almeno, aveva la certezza che lui esistesse.
Si asciugò le guance e raddrizzò le spalle mentre usciva all'aperto, alzando lo sguardo al cielo troppo illuminato per contenere stelle, ma per la prima volta in vita sua oltre al dolore sordo della mancanza provò anche una calda determinazione.
Lo avrebbe trovato. Senza alcun dubbio.
 
*
Esattamente come aveva immaginato, la sua bravata lo fece svegliare con un fortissimo mal di testa.
Aveva bevuto solo un bicchiere di vino la sera prima, ma si svegliò con i sintomi del peggiore dopo sbronza della sua vita.
Si allungò verso il comodino per prendere le aspirine, affondando il volto nel cuscino per dare un po' di sollievo alla testa sul punto di esplodere, e dopo aver mandato giù un paio di pillole senz'acqua, prese anche gli inibitori sotto il cuscino e fece far loro la stessa fine.
Suo padre li aveva creati per lui quando aveva a malapena dodici anni, il suo lasciapassare per la normalità, ed effettivamente funzionavano in modo egregio, fermando il suo potere dall'entrare in ogni mente nel raggio di più di due miglia senza alcun freno, e allo stesso modo non privandolo completamente d'esso, anche se il prezzo per usarlo era appunto quello.
Non che avesse cominciato a prenderli per queste motivazioni.
Da bambino era stata sua madre a volerlo, e una volta lontano da lei era stato troppo pericoloso smettere di farlo: non poteva semplicemente lasciar scorrazzare libera la sua telepatia, sarebbe stata una catastrofe << Sei vivo? >> la voce di Raven gli arrivò tutt'altro che benvenuta, ma almeno ebbe la decenza di parlare sottovoce << Non hai proprio una bella cera >> continuò sedendosi al suo fianco > mugugnò ironico, e accolse con un sospiro di sollievo la mano fredda di lei sulla propria fronte << Ho preparato il caffè, se te la senti di venire di là. Sono quasi le sette, Charles... devi mangiare qualcosa. E farti una doccia. Gli altri saranno qui tra poco >> << Le sette? Non è così tardi >> << Di sera, Charles. Hai dormito per tutto il giorno >> gli uscì un “cazzo” anche se di solito si tratteneva almeno davanti a lei, ma la situazione lo esigeva senza ombra di dubbio.
Si tirò su con uno sforzo mastodontico e evitò di imprecare di nuovo quando un conato acido gli risalì lo stomaco, e l'unica cosa che gli impedì effettivamente di rigettare lì sul letto fu che non aveva mangiato nulla.
Raven lo squadrò per un momento, poi sospirò e pizzicò un lembo del pigiama di cotone di lui con fare eloquente << Mettiti dei veri pantaloni prima di venire di là. C'è Steve >> << Ovviamente. Perché non dovrei presentarmi al tuo ragazzo in questo stato? Magnifico. Assolutamente magnifico >> << Andrai benissimo >> di nuovo le rispose con un mugugno, si prese la fronte dolorante mentre si alzava in piedi e inforcò i suoi occhiali da vista prima di uscire dalla stanza e andare in bagno.
Odiava quel maledetto tizio della metro. Lui raramente odiava qualcuno o qualcosa, ma quell'uomo si era appena guadagnato un posticino speciale nel suo cuore, proprio di fianco a Lady Gaga e Snoop Dog.
Okay, non proprio accanto a Snoop Dog, ma vi era pericolosamente vicino.
Si spogliò calciando via i propri vestiti sudaticci e si infilò sotto la doccia con la ferma convinzione che l'influenza fosse infine arrivata ad esigere la sua libbra di carne, cosa ancora più avvallata dal fatto che la sua pelle percepì l'acqua molto più fresca di quel che era.
Avrebbe preso qualcosa dopo la “colazione”, per non urtare la sensibilità del suo stomaco già irritato per altri motivi, quindi usò i successivi venti minuti per racimolare un poco di decoro, infilarsi un paio di jeans e una camicia con un cardigan blu scuro anche se Raven li odiava, e si arrese a non indossare le lenti a contatto visto che aveva l'impressione che i suoi occhi stessero per esplodere.
Era quasi decente quando entrò in cucina, da cui sentiva provenire il chiacchierio, e si fermò un momento sulla porta per dare tempo ai due di accorgersi della sua presenza.
Steve era esattamente come si era aspettato che fosse: biondo, occhi azzurri, vergognosamente alto e altrettanto vergognosamente muscoloso, con un sorriso così luminoso che sarebbe stato perfetto per lo spot di un dentifricio e l'espressione più cordiale del mondo << Tu devi essere il fratello di Raven >> << Piacere, Charles. Steve, immagino >> il sorriso di lui si allargò mentre si stringevano le mani, una stretta gentile come tutto il resto di lui << Esatto. Non sapevo che avessi parlato di me a tuo fratello, Raven >> << Sono poche le cose che non dico a Charles >> disse lei con orgoglio, e come promesso posò una bella tazza di caffè fumante sul tavolo, insieme ad un piattino di biscotti al burro che aveva comprato appositamente per lui << Ti amo >> le disse di tutto cuore, sedendosi al piccolo tavolo per quattro e strappandole una risatina << Notte brava ieri sera? >> volle sapere Steve, dimostrando così che tutti i suoi sforzi di apparire normale non avevano sortito granché effetto << Non proprio... Raven, hai un po' di latte? >> lei lo accontentò con un sospiro, tornando poi a preparare le tartine per gli ospiti.
Era piuttosto brava in cucina, cosa in cui Charles era sempre stato negato invece.
Aveva imparato giusto un paio di piatti in dormitorio, e doveva ringraziare i suoi compagni di corso se non aveva ancora preso lo scorbuto o la gotta a causa della dieta a base di cracker e noodles con cui andava avanti << Sono felice di conoscerti, Steve. Vuoi del caffè anche tu? >> offrì, vedendolo negare con il capo prima di appoggiarsi con disinvoltura al ripiano della cucina proprio di fronte a lui, così da continuare a guardarlo << Raven mi ha detto che studi all'estero. Oxford >> << Sono un genetista, esatto. Uno dei laboratori ha accettato la mia ricerca per il dottorato, quindi ho continuato i miei studi >> << Tre maledettissimi anni >> aggiunse Raven come al solito, e Charles sospirò dopo un sorso di caffè, massaggiandosi le palpebre da sotto gli occhiali << Solo tre anni? Te la sei presa comoda >> fece Steve con incredula ironia, e di nuovo fu lei ad intervenire: << Charles è una specie di genio. Ha due lauree, sai? >> si vantò, avvicinandosi per scompigliare i capelli al fratello, che seppur soffrì per la sua testa maltrattata, non riuscì a risentirsene troppo quando lei si chinò per abbracciarlo e schioccargli un bacio sulla guancia << Ormai ho praticamente finito. Starò qui mentre preparo la mia tesi e tornerò laggiù solo per esporla. Anche a me è mancata la mia splendida sorellina >> lei si portò indietro i capelli con un gesto altezzoso << Hai sentito? Splendida >> sottolineò, facendo scoppiare a ridere tutti e tre << E anche intelligente >> continuò Steve, prima di cingerle il fianco con un braccio e depositarle un piccolo bacio sulle labbra.
Proprio come aveva pensato: quel povero ragazzo era terrorizzato dalla sicurezza di sua sorella << Oh, io sono solo la pecora nera! >> << Se lo fossi i tuoi quadri non venderebbero >> le fece notare lui, abboccando alla facile esca di lei, che infatti sorrise compiaciuta << Ovvio >> disse infatti, allontanandosi solo per infilare le tartine in frigo e passare a riempire un piccolo nugolo di ciotole di salse prese da vari barattoli << Dove vi siete incontrati? >> domandò Charles, tanto per fare conversazione visto che lo sapeva già, ma Raven capì e non si intromise << Al cinema. Sono un amico di Sean >> << Il ragazzo di Angel >> chiarì lei per amore di cronaca << Ci siamo ritrovati tutti insieme a vedere il film, l'ho adorata sin da subito, e quando siamo usciti a bere qualcosa dopo ero già cotto di lei >> << Ma piantala! >> Charles stava per vomitare di nuovo, solo che questa volta il suo stomaco era innocente.
Si spinse un sorriso sul volto e continuò a bere il suo caffè << Quando mi ha detto che era una pittrice non volevo crederci. Una ragazza così bella, spiritosa e anche amante dell'arte? Mi sento come chi ha vinto alla lotteria >> << Ne riparliamo quando la vedrai ad una partita di calcio >> << Charles! >> << Ti piace il calcio? >> volle sapere Steve << Lo adora. E' una tifosa scatenata del Manchester. Le ho regalato la tribuna d'onore per il suo compleanno, l'anno scorso. Ti piace il calcio, Steve? >> no, preferisco il baseball << No, preferisco il baseball >> ho visto qualche partita, ma non sono un esperto << Ho visto qualche partita, ma non sono un esperto >> Dio, più prevedibile di una replica del Titanic << Perché non andate ad una partita insieme? >> lui e sua sorella si scambiarono un'occhiata, una delle loro occhiate, ma lei scosse impercettibilmente il capo, invitandolo così ad abbassare un po' la tensione.
Posò la tazza ancora piena per metà e diede in un sospiro << Sinceramente anche io sono un completo ignorante in materia. Una volta ho visto una partita con lei, ma continuavo a chiederle praticamente il perché di ogni azione, quindi si è spazientita e mi ha piantato da solo davanti alla tv! >> Steve rise con lui per l'aneddoto, del tutto ignaro di aver appena bocciato il test “Sono Il Ragazzo di Raven Xavier”, e questo in qualche modo gli fece perdere ulteriori punti.
Per sua fortuna il campanello prese a suonare, perché Charles non era sicuro di riuscire a non umiliarlo pietosamente nei prossimi cinque minuti: era bello, certo, bellissimo probabilmente, ma poteva giusto pulire le scarpe di Raven, non certo camminare al suo fianco.
Dalla porta sfilarono uno dietro l'altro il piccolo stuolo di amici di sua sorella che erano diventati poi anche i suoi, e si alzò per accogliergli almeno un po' visto che si supponeva fosse la sua festa di bentornato.
C'erano più o meno tutti: Angel, Sean, i fratelli Summers, Anne e James, persino Emma con al guinzaglio il ragazzo di turno, un certo Bobby, che sembrava non essere del tutto felice di essere lì visto che non conosceva nessuno, ma che non aveva potuto dire di no per il semplice motivo che nessuno si può sognare di dire di no ad Emma Occhi-di-Ghiaccio Frost.
Aiutò Raven a portare in salotto i vari snack e antipasti mentre Steve si occupava delle bottiglie.
Facevano spesso festini in casa per ovviare alla piccola clausola con cui proibiva a Raven di bere qualcosa di più forte di un'acqua tonica non appena varcata la soglia, ed aveva ceduto invece a concederle qualche bicchiere di aperitivo all'interno delle mura domestiche perché non aveva modo di vietarle di bere vivendo in un altro continente e aveva optato quindi per una manovra di compromesso.
Lei sentiva di aver vinto una battaglia e lui d'altro canto si assicurava che stesse lontana dal pericolo di ubriacarsi in ambiente non protetto.
Due pesi e due misure. Se potevano mandare avanti la Costituzione Americana, non capiva perché non potessero funzionare con lo statuto di fratellanza della famiglia Xavier.
La prima mezz'ora di convenevoli trascorse abbastanza liscia, lui riuscì a mimetizzarsi abbastanza bene con il tessuto del divano e a schivare perciò la maggior parte delle domande visto che non possedeva l'energia psico-fisica per mandare avanti una conversazione decente, ma quando i bicchieri raggiunsero la metà i loro amici sembrarono ricordarsi del perché si trovavano lì e cominciarono ad esigere la sua attenzione.
Rispose in modo più o meno umano, non usò termini pomposi per spiegare la sua tesi e si lamentò come doveva dei ritmi estenuanti del laboratorio, perché a nessuno di loro poteva passare anche solo per l'anticamera del cervello che lui semplicemente adorasse il suo campo di studi.
Beh, Angel era una nota artista di strada, aveva venduto uno dei suoi lavori ad una famosa marca di calzature e adesso viveva tranquillamente di rendita, Sean era un musicista a tempo perso, i fratelli avevano fatto uno Economia e l'altro si era specializzato in una scuola professionale per prepararsi a prendere l'officina di famiglia, James gestiva una piccola galleria nel South End e sembrava avere soldi di cui nessuno sapeva o voleva sapere la provenienza, compresa Anne che viveva tranquilla sotto la sua ala, ed Emma ovviamente aveva studiato legge come suo padre, certa di un posto assicurato nel suo studio.
Ciascuno di loro, escluso lo sconosciuto Bobby, sembrava un pezzo dell'anima di Raven, che poi era la loro colla e il motivo per cui tutti loro si conoscevano.
C'era il suo lato ribelle e sfacciato, quello disciplinato e freddo, quello un po' timido, quello sbarazzino, quello da ragazza di buona famiglia che non si sente tale...
Non aveva la più pallida idea di che posti frequentasse sua sorella per conoscere persone tanto eterogenee, ma in qualche modo faceva funzionare il gruppo.
E poi in mezzo a tutti loro c'era lui, il gentile, un po' strano, fratello di Raven. Innocuo per lo più, viveva in Inghilterra del resto, e si chiese improvvisamente se e in che modo sarebbe cambiato qualcosa adesso che lui era tornato per restare << Prossimo passo dopo il dottorato? >> volle sapere James, mordicchiando il suo sigaro visto che non poteva accenderlo.
L'avrebbe fatto in realtà, ma Anne gli aveva rivolto un'occhiata micidiale quando aveva accennato a prendere i fiammiferi dalla tasca della camicia, quindi si era arreso a tenerlo solo in bocca << Vedrò nei laboratori dei dintorni... Oppure farò il mantenuto di Raven. Posso? >> chiese poi stiracchiandosi e lei gli diede un buffetto sulla spalla << Saresti capace di non uscire di casa se non ti trovi un lavoro! Dio ci protegga da un Charles annoiato! >> la battuta ebbe l'effetto desiderato, facendo scoppiare a ridere la compagnia, proprio come lui aveva voluto.
Era un gioco facile con Raven ad appoggiarlo.
Prese un altro sorso dal bicchiere nelle sue mani, sentendo un fiotto di bile risalirgli lo stomaco.
Sharon sarebbe stata fiera di lui.


NA: Ciao a tutti! Ho cercato di pubblicare presto approfittando dell'ispirazione finché c'è XD XD
Anche questa volta ringrazio la mia bellissima beta-reader Winchester_D_Fra per i suoi consigli (spero che vada meglio tesora!) e per aver salvato una certa parte (io so che tu sai che io so <3 ). Come sempre vi invito a lasciarmi tutti i vostri commenti/pensieri se vi va che una chiacchierata Cherik non si rifiuta mai!

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


La domenica si svegliò alle otto in punto, come tutte le mattine, perché ormai non riusciva a svegliarsi più tardi nemmeno volendo, e si allungò per spegnere la sveglia del cellulare anche se quello ovviamente non aveva suonato, solo per semplice automatismo.
Sospirò.
La sera prima si era sforzato con tutto se stesso di essere impeccabile per il compleanno di sua madre.
Era venuto a prenderla in completo, e lei era davvero bellissima in quel vestito nero bordato di lustrini e scialle elegante sulle spalle, con gli immancabili tacchi a spillo vertiginosi che era certo avrebbe portato anche a ottant'anni, e i capelli orgogliosamente striati di grigio acconciati in un raffinato chignon sulla nuca.
L'aveva ricoperta di complimenti e l'aveva accompagnata a braccetto fino al tavolo, vedendola ridacchiare appena per tanta pomposità, ma si meritava di essere viziata e non si era risparmiato in niente.
Aveva progettato quella serata da settimane, dalla location al menù, con la meticolosità che usava nel suo lavoro, eppure al momento della cena lei aveva avuto bisogno di quindici minuti netti per capire che la sua mente era altrove.
Ovviamente sapeva di Charles. Nasconderle qualcosa era impossibile del resto, lei aveva sempre saputo leggerlo come un libro e anche quella volta non si era smentita.
Si era aspettato di vederla scioccata o incredula per quello che le raccontò, invece si era limitata a sbattere le palpebre dei forti occhi castani e lo aveva guardato severamente << Devi aver terrorizzato quel povero ragazzo >> aveva detto, e Erik si era sentito morire.
Imprecò per l'ennesima volta mentre si metteva in piedi.
Aveva ragione ovviamente. Certo che lo aveva spaventato!
Chi non lo sarebbe stato con uno sconosciuto alle calcagna che urla il suo nome?
Lo aveva tranquillizzato poi con qualche dolce rassicurazione, da brava madre, ma questo non cancellava la verità che aveva rivelato e a cui lui non era arrivato nonostante quattro giorni di riflessioni.
Le aveva parlato anche di come lo aveva immobilizzato davanti alle porte della metro, ma ancora una volta la signora Lehnsherr aveva incassato la notizia con un semplice cenno del capo, ipotizzando a voce alta quello che lui già pensava, e cioè che Charles possedesse un qualche tipo di potere, proprio come lui << Beh, almeno adesso so che non sei una specie di alieno, giusto? >> aveva scherzato per tirarlo su di morale, e per un po' ci era riuscita, o almeno lui aveva cercato di crederlo, sforzandosi di farle trascorrere una bella serata.
Tutto sommato non era stata così pessima, avrebbe potuto essere migliore ma lei gli era sembrata contenta, anche se ovviamente questo non alleggeriva di nulla il senso di colpa che provava invece lui per aver pensato a Charles per tutto il tempo invece che concentrarsi su di lei.
Si liberò delle coltri con stizza e si alzò, decidendo all'istante che aveva bisogno di correre un po' per sbollire la frustrazione e svuotare la mente, quindi si infilò la tuta, le scarpe da ginnastica e gli auricolari, infine scese in strada e cominciò a divorare il marciapiede.
Corse senza una vera e propria meta, aveva intenzione semplicemente di farsi qualche isolato per sgranchirsi un po', ma quando il suo corpo cominciò ad abituarsi al ritmo e i muscoli smisero di dolere, Erik si rifiutò di fermarsi.
Svuotò la mente, lasciò che la musica trovasse spazio sufficiente per espandersi trai suoi pensieri e per un po' scacciò Charles e il dolore che gli suscitava.
A volte si chiedeva il perché di questa benedetta maledizione, si chiedeva se in realtà non fossero destinati l'uno all'altro, se il suo fosse un forzare le cose che veniva punito con la reciproca sofferenza.
Perché solo lui ricordava? Perché Charles non lo cercava con lo stesso accanimento?
La disperazione avrebbe potuto mozzargli il fiato, ma lui era un ingegnere non un pensatore, a lui interessava che le cose funzionassero non come fosse possibile che lo facessero.
Nel passato del sogno Charles non sapeva niente della maledizione. Ovvio, come poteva rivelargli una cosa simile? Era assurdo anche solo pensarlo.
Si ritrovò in un quartiere piuttosto lontano da casa sua, la Brooklyn “ricca”, con palazzi degli anni venti ristrutturati per ospitare loft e gallerie museali per i borghesi ribelli e annoiati, ben diverso dal ghetto dove lui era cresciuto, dove la razza d'appartenenza scandisce a quale gang appartieni e un ragazzino ebreo può divenire la vittima di tutti.
Aveva scoperto il suo potere più o meno in quel periodo, quando la sua mania per i rottami e i pezzi di ricambio con cui giocava tutto il giorno si era trasformata in qualcosa di molto più complesso e potente, e doveva ad esso il timore con cui lo aveva trattato il quartiere per tutta la sua adolescenza, permettendogli di crescere lontano dai guai.
Si fermò non troppo lontano da un parchetto frutto del recente rinnovo urbanistico, con tanto di altalene e scivoli affollati dai bambini, e lo attraversò rallentando il passo lentamente per sciogliere i muscoli e rilassarli dopo lo sforzo.
Non era troppo lontano dalla casa di sua madre, solo cinque isolati, e sorrise chiedendosi se non si fosse mosso istintivamente verso di lei.
All'inizio aveva pensato fosse un po' ridicolo non vivere più con lei visto che si era allontanato solo di una decina di chilometri, ma quando era caduta e si era fratturata la gamba, due anni prima, aveva ringraziato il cielo di esserle così vicino perché l'aveva raggiunta prima dell'ambulanza.
Si abbassò il cappuccio della felpa e si fermò del tutto per riprendere fiato, svuotando la bottiglia che aveva portato con sé e avvicinandosi alla fontana pubblica per riempirla di nuovo.
Era sudato ma soddisfatto, più leggero di quando si era svegliato perché da sempre lo sforzo fisico gli dava l'impressione di fare qualcosa, anche se poi oggettivamente la sua situazione non era cambiata poi molto, quindi si incamminò alla tavola calda dall'altra parte della strada per fare colazione.
Sedette al tavolo più lontano dalla porta, contro il muro, in modo da mettere un po' di spazio tra sé e le famiglie riunite dopo la messa, erano quasi le undici e mezza infatti, e continuò a tenere gli auricolari per non ascoltare bambini chiassosi e parlottare inconsistente, sfilandoseli solo per il tempo sufficiente ad ordinare un piatto di uova e bacon con qualche toast insieme ad un caffè.
I tavoli erano tutti affollati, almeno tre o quattro persone per tavolo, giovani per lo più ma anche qualche nonno, tranne uno << Oh mio Dio >> ansimò senza fiato.
Si afferrò al tavolo, restando immobile, a malapena respirò, cercando di capire se fosse reale o solo un parto della sua mente.
Charles era proprio lì, ad un solo tavolo di distanza, se avesse sollevato lo sguardo lo avrebbe visto, invece continuava a tenere la testa appoggiata alle braccia, dei buffi occhiali dalla montatura enorme appuntati sul capo a fermare la folta chioma castana come una passata improvvisata, un cardigan sformato su una maglia blu scuro e l'aria di uno che non dorme da almeno una settimana.
Aveva delle occhiaie sotto gli occhi socchiusi, la pelle sottile era pallida e tirata e il naso era arrossato ai bordi, come di chi è costretto a soffiarselo spesso.
Era malato?
Si sollevò pigramente quando la cameriera tornò con la sua ordinazione, il sorriso che le rivolse era più luminoso dei raggi del sole fuori, nonostante il suo aspetto, e Erik si tirò nervosamente il cappuccio di nuovo sul volto per evitare di essere visto, con il cuore che batteva all'impazzata.
Si sentiva uno stupido a restare fermo lì quando l'amore della sua vita era così vicino, ma le parole di sua madre gli rimbombarono nelle orecchie, raggelandolo e togliendogli ogni volontà.
Che poteva fare?
Lo guardò abbassarsi di nuovo gli occhiali sul naso, si tolse i capelli dal volto con un gesto distratto della mano e aggiunse una quantità oscena di zucchero al caffè mentre sbadigliava indecentemente.
Era adorabile.
Erik si ritrovò a sorridere da solo come un'idiota, felice anche solo di poterlo osservare, così intimamente colmo di gioia che si ritrovò a soffocare le risate per non attirare l'attenzione su di sé.
Lo avrebbe fatto per ore. Non si sarebbe mai stancato di guardarlo, anche solo questo.
Poi Charles lo vide.
 *
Aveva resistito per un intero giorno senza fare niente, ma quando si era reso conto di star guardando l'ennesima puntata a caso di una serie tv sconosciuta sull'enorme schermo di sua sorella aveva deciso categoricamente che doveva iniziare la sua tesi.
Quando Raven era tornata dalla galleria in cui avrebbe esposto i suoi lavori per la fine dell'anno, lo aveva trovato sepolto sotto un numero improponibile di libri, giunti nel frattempo dall'aeroporto, con le tapparelle della finestra abbassate e l'unica illuminazione fornita dalla lampada da lettura; quando questo spettacolo si era riproposto ai suoi occhi anche quella mattina, come per tutti gli altri giorni del resto, lo aveva letteralmente strappato alla scrivania, lo aveva obbligato a togliersi il pigiama e costretto ad uscire a prendere un po' di sole prima che, parole testuali, cominciasse a fare la muffa.
Non gli aveva dato il tempo nemmeno di prendere un caffè… il caffè!
Non aveva una sorella, aveva una valchiria da guerra…
Si era trascinato in quella tavola calda con la grazia felina e l'attraente vitalità di un bradipo sotto morfina, e adesso giaceva abbandonato su quel tavolo dal rivestimento misericordiosamente freddo, cercando di ricordarsi di respirare dalla bocca anche se se la sentiva secca e amara.
La cameriera lo raggiunse dopo poco e lui cercò di racimolare la capacità linguistica ed intellettiva sufficiente ad ordinare un caffè e una fetta di torta, sì qualsiasi torta andava bene, quella alle more sarebbe stato magnifico, e tornò a spalmarsi sul tavolo subito dopo.
Ebbe bisogno di un po' per rendersi conto che il locale era affollato.
Famiglie prima di tutto, il che gli ricordò che era domenica, e cercò di ricordarsi se era mai appartenuto, anche in un lontano passato, ad una di quelle famiglie che si riuniscono intorno ad un tavolo almeno per i pasti.
Per lui domenica significava solo pranzo nel salone grande, la tata che gli pettinava i capelli con cura e Raven con uno dei bellissimi abiti che la rendevano un personaggio uscito da un libro di Dickens ma che lei tanto odiava e che poco si addicevano alla sua lingua alla Palahniuk, e non appena suo padre era morto e Sharon lo aveva sostituito a capo dell'impresa di famiglia anche quell'insulsa pantomima era andata a farsi benedire.
Domenica da allora voleva dire colazione sotto l'acero di suo nonno, lui e Raven scalzi sul prato e tutto il mondo più lontano possibile.
Sorrise tra sé e sé per quei pensieri, ringraziava ogni giorno per il legame che aveva con sua sorella, perciò fece del suo meglio per rimediare allo stato pietoso con cui si era offerto alla cameriera la prima volta e le rivolse un gran sorriso invece quando tornò con la sua ordinazione.
La sua positività durò quattro secondi esatti dopo quello, perché prese un sorso dalla tazza e l'amaro del caffè annientò ogni altra presunta dolcezza, rimpolpando il nero del suo umore.
Si morse la lingua per non imprecare e aggiunse cinque cucchiaini di zucchero, troppi forse, ma abbastanza per sconfiggere il mostro oscuro che aveva aggredito il suo palato. Rimestò il miscuglio dolciastro con il cucchiaino mentre si abbassava di nuovo gli occhiali sul naso, facendo a malapena in tempo a coprire la fine di uno sbadiglio degno d'un ippopotamo, e non appena la nebbia da miope si sollevò dalla sua visuale il suo sguardo si posò sull'uomo del tavolo di fronte.
Si immobilizzò, scioccato, e il suo cuore fece un balzo doloroso contro la cassa toracica, come se cercasse uno spiraglio da cui uscire.
L'uomo della metro.
Cristo santo, come aveva fatto a trovarlo?!
Il suo corpo decise per lui, si alzò in piedi di scatto, ma anche l'uomo fece lo stesso << Aspetta! >> lo sentì dire, non urlò questa volta, parlò abbastanza piano perché nessuno lo notasse ma abbastanza forte per farsi sentire da lui.
Nemmeno Charles sapeva perché lo ascoltò << Ti prego >> lo sentì aggiungere, e sollevò entrambe le mani, come a mostrare che era disarmato.
Non tentò di avvicinarsi, si rimise seduto invece, abbassò il cappuccio per mostrare il volto e posò i palmi sul tavolo, quasi volesse dirgli che non lo avrebbe fermato se avesse deciso di andare.
Tremava.
Charles vedeva le sue spalle fremere impercettibilmente e di nuovo vide i suoi occhi riempirsi di commozione, ogni centimetro del suo corpo esprimeva un forte sentimento, ma non c'era desiderio, no, non quanto avrebbe dovuto essere in un maniaco.
Lo stalking proviene da una proiezione delle proprie fantasie su una persona che non è consapevole di produrle, e da qui scaturisce la persecuzione e perfino la violenza quando lo stalker si rende conto che la vittima non soddisfa le proprie aspettative.
Conoscere comunque la definizione del manuale non lo tranquillizzò granché, tornò a sedere al suo posto per puro e semplice orgoglio maschile, quel lurido e vischioso sentimento che disprezzava negli altri ma che doveva a volte accettare in sé.
Non lo perse di vista un istante, ingoiò la propria paura e il disagio, facendo galleggiare sulla sua faccia l'espressione che gli aveva fatto guadagnare il nome di Maschera al corso di Psicologia Criminale.
L'altro sorrise debolmente, lo ringraziò con un cenno del capo e prese la sua tazza di caffè, sicuramente per simulare disinvoltura, ma il suo volto continuava ad esprimere un profondo senso di sollievo e allo stesso tempo qualcosa di simile al terrore.
Perché era lui quello spaventato?
Charles sapeva che non avrebbe dovuto restare, sapeva che ogni suo gesto poteva essere frainteso da quell'individuo, eppure qualcosa in lui non tornava.
Se quello che provava era un desiderio morboso e malato, perché evitava il suo sguardo adesso e fingeva di mangiare la sua colazione come se nulla fosse?
Prese un paio di respiri profondi, poi raccolse la torta e il caffè e lo raggiunse, sedendosi proprio di fronte a lui.
Lo guardò con tanto d'occhi, quasi che Charles si fosse messo a ballare nudo sul bancone della cassa << Voglio sapere chi sei e perché mi stai seguendo >> chiarì senza mezzi termini, gelido.
Era bene che quell'uomo sapesse che non aveva a che fare con una ragazzina terrorizzata dal fidanzato geloso, muscoli o non muscoli.
L'altro rimase un attimo in silenzio, ancora sotto shock, poi deglutì vistosamente e assentì due volte con il capo prima di rispondere: << E-Erik Lehnsherr. E giuro… giuro che non ti sto seguendo >> << Certo. Fingerò di crederti >> << Lo so che ti sembra impossibile, ma è un puro caso se ti ho trovato qui. È solo… oh Dio… mi dispiace per l'altro giorno, alla metro >> e sembrava davvero mortificato, per quel che poteva valere, ma Charles aveva fatto una ricerca per il suo professore riguardo i maniaci sessuali ossessivi e sapeva bene quanto bene sapessero simulare << Se è come dici dammi il tuo indirizzo e il tuo numero di telefono. Se ti vedrò ancora intorno a me giuro che richiederò un ordine restrittivo >> Lehnsherr, sempre che fosse questo il suo nome, si portò una mano alla tasca della felpa ed estrasse un portafogli di pelle scura, porgendogli poi patente e biglietto da visita << Puoi fare delle foto se vuoi. Ma ti prego, credimi… non voglio farti alcun male, Charles >> come aveva suggerito lui stesso, Charles prese il cellulare e fece delle foto ai suoi documenti << Come sai il mio nome? >> l'Ingegner Lehnsherr, come diceva il foglietto di carta spessa tra le sue mani, lo guardò come se gli avesse chiesto qual è la formula della fusione a freddo << Cosa? >> << Il mio nome, signor Lehnsherr. Come l'ha scoperto? >> trasalì quando lo vide usare il cognome, ma intendeva mettere un po' di distanza e la formalità non guastava << Non posso rispondere a questa domanda >> Charles corrugò la fronte << Non è esattamente il modo migliore di appianare la mia sfiducia nei suoi confronti >> << Te lo dirò. Poi però. Non adesso >> << Dubito che ci sarà un “poi”, ad essere sincero. O almeno lo spero per lei >> con molta calma, Charles tagliò un pezzo di torta con la forchetta e se lo portò alle labbra, mostrandosi sicuro di sé e affatto intimidito << Non voglio farti del male, te lo posso assicurare >> << E allora perché mi ha rincorso come un pazzo? >> << Volevo… mi dispiace. È stata una mossa stupida, me ne rendo conto >> << Cosa vuole da me? Cosa si aspetta che faccia se la trovo qui, mentre sto facendo colazione? Io non la conosco. Non so chi lei sia e non so cosa vuole da me. No, non vuole dirmelo. Perché non dovrei chiamare la polizia? >> << Non voglio niente da te. Niente. Solo… Oh Dio, come sono finito in questa situazione? >> si passò una mano trai capelli, ovviamente a disagio, che poi era esattamente ciò che Charles voleva, ma non si arrese comunque.
Il tipo di stalker non violento, come lui sembrava, di solito è restio ad approcciare personalmente la vittima, non in ambiente sicuro, quindi si chiese cosa lo trattenesse dall'andarsene, semplicemente.
Tornò a guardarlo invece, con un'intensità che aveva dello sconcertante << Senti, non sono granché bravo con le parole, ma questo non ti ha mai fermato, giusto? E allora cerca di farlo anche adesso: vuoi altre informazioni su di me? Ti dirò tutto quel che vorrai, non c'è problema. Non vuoi dirmi niente di te? Va bene anche questo, fai come preferisci finché non ti fiderai. Ma non sono un pazzo. Non sono un maniaco e non ti voglio fare del male. Voglio solo… conoscerti. C'è un perché. È improbabile e assurdo, ma ti assicuro che esiste, e proprio perché è così incredibile non posso dirtelo. Dammi solo una possibilità, ti prego. Non ti chiederò nulla. Solo… solo… posso venire a fare colazione qui? Non mi avvicinerò, non ti toccherò né ti parlerò se non vorrai. Solo per…  >> Charles sollevò una mano per fermarlo, cercando di nascondere il proprio cuore che di nuovo aveva accelerato << Vediamo di chiarire un paio di cosette >> lo freddò, e alzò il dito indice << Per prima cosa io sono etero. Non ho niente in contrario con l'omosessualità, va benissimo e tutto il resto, ma non sono interessato alle persone del mio stesso sesso. Secondo, non ho nessuna garanzia che lei non sia l'ennesimo squilibrato di turno. E terzo… questo posto non è mio, può andare dove vuole, ma non si avvicini a me >> fece per alzarsi a quel punto, e Lehnsherr si alzò di rimando, ma non fece alcun gesto per fermarlo << Sarò qui tutte le mattine >> gli disse << Alle sette in punto >> se sperava di trovarlo lì a quell'ora indecente si sbagliava di grosso, e sembrò quasi leggergli nel pensiero quando proseguì: << E anche la sera. Tutti i giorni tranne il sabato. Se ci sarai puoi ignorarmi. Non ti disturberò >> << Faccia come vuole. Addio >> gli mostrò il cellulare in una velata minaccia, ma quando si allontanò tutto ciò che gli rivolse fu il sorriso più felice e allo stesso tempo inquietante che avesse mai visto.
Quella città era un covo di pazzi.
Avrebbe dovuto fare la fine di Cartagine.
Ferro e fuoco.
E sale sulle macerie, che non si sa mai.
 *
Se le avessero chiesto perché avesse scelto di fare l’avvocato, Emma non avrebbe esitato un solo istante a rispondere: i soldi.
Era nata in una famiglia agiata, ogni mattina si svegliava con la certezza di essere su uno scalino più in alto rispetto agli altri, e per questo non solo non vedeva niente di strano nel veder realizzato in un istante ogni suo più piccolo desiderio, ma riteneva anche che le fosse in qualche modo dovuto.
Ovviamente quei pensieri erano prerogative imprescindibili della famiglia Frost, suo padre aveva dato un nuovo significato alla parola “materialismo”, e probabilmente anche sua madre non sarebbe stata da meno se fosse stata ancora in vita.
Era ovvio che desiderasse perseguire quello stile di vita, e il mestiere di famiglia le assicurava che così fosse; si assestò sulle lunghe gambe la gonna bianca del vestito italiano che indossava, raccolse la borsa di struzzo con le carte da firmare e attese che l’autista le aprisse la portiera prima di uscire.
Qualcun altro avrebbe trovato sgradevole il fatto che chi lavorava per suo padre raramente le rivolgesse pensieri piacevoli o riconoscenti, di solito nelle loro teste vorticava un’insieme indistinto che spaziava dal classico “viziata figlia di papà” al più gretto e diretto “stronza riccona”, ma ad Emma non dispiaceva affatto, anzi, e questo per il semplice motivo che si adoperava ogni giorno per ricalcare attentamente le loro aspettative.
Perché trattare con gentilezza qualcuno che riceveva un assegno per obbedirle?
Non si preoccupava della loro lealtà naturalmente, non quando poteva conoscere ogni loro più intimo segreto solo con un’occhiata.
Adorava il suo potere.
Le piaceva sapere che il suo autista era un cocainomane, le piaceva che il portiere non riuscisse a distogliere l’attenzione dal suo decolté, le piacque anche il “di nuovo quella puttana” della ragazza al bancone dell’ingresso.
Le rivolse il suo sorriso sgargiante e impeccabile, quella poveretta non riuscì a far altro che sbattere instupidita le palpebre truccate di mascara scadente, ed Emma la superò dimenticandosi della sua esistenza non appena raggiunto l’ascensore.
Suo padre la mandava spesso dai clienti, lei sapeva essere persuasiva dove carriera ed esperienza non possono, e la Darkholme & Co. aveva fatto esasperare più di uno studio associato, ma Frost&Frost non aveva di questi problemi.
Suo padre non sapeva della sua telepatia. O meglio, non voleva sapere.
Preferiva fingere che fosse solo una ragazza molto perspicace e si limitava a trattarla come una principessa, certo, non a torto, che finché lei fosse stata soddisfatta non ci sarebbero stati problemi.
Giocherellò distrattamente con una ciocca della lunga coda che le ricadeva sulla spalla, biondo tra le dita impeccabilmente smaltate, attendendo di raggiungere il piano.
Lei classificava gli altri su una base di purezza, come si fa con le gemme di una gioielleria.
Si passava dal pezzo di vetro scadente, come la ragazza della reception, fino al diamante che ovviamente era lei, ma questa scala non si basava né su ricchezza, né su etica e morale, né tantomeno su un valore estetico.
Emma classificava gli altri in base a quanto fossero onesti con se stessi.
Lei poteva non essere perfetta forse, ma perfetto e cristallino era sicuramente il suo approccio con il proprio io: non pretendeva di mostrarsi più buona o più intelligente di quel che era, non le interessava poi troppo il giudizio altrui, e non nascondeva né la sua curiosità analitica verso il prossimo né il desiderio egoista.
Non aveva interesse a passare l’esame delle occhiate altrui, sapeva di farlo, e questa certezza e sicurezza era sufficiente perché così fosse effettivamente << Salve, Miss Frost >> la salutò Margaret, la giovane assistente dello studio, una di quelle poche persone che raggiungeva un punteggio abbastanza alto nella sua classifica perché lei si desse la pena di ricordare il suo nome << Salve, Maggie. Ho un appuntamento per firmare alcune carte >> l’altra le sorrise, sincera, incredibile ma vero, e indicò la porta dell’ufficio proprio dirimpetto a lei, l’unica a non essere di vetro trasparente << Il direttore è occupato un momento con il nostro capo ingegnere. Se può aspettare qualche minuto sono sicura che non manca molto >> Emma assentì una volta sola, posò la borsa bianca portacarte sul bancone immacolato e diede in un sospiro << È successo qualcosa di spiacevole? >> volle saper e l’altra si strinse nelle spalle << Credo che sia richiesta la presenza del signor Lehnsherr nel cantiere della nostra ultima commissione, ma non ha accolto di buon grado la notizia di dover andare fuori città >> in un’immagine fugace nella sua mente scorse il profilo di questo Lehnsherr e sollevò un sopracciglio nello scoprire un uomo piuttosto giovane per la posizione che occupava, e non era quella la prima caratteristica che saltava all’occhio << Metà dell’ufficio si dispiacerà di non vederlo, anche se è solo per un paio di giorni >> aggiunse Margaret civettuola, ed Emma le sorrise di rimando, divertita << È qui da molto? Strano che io non lo conosca >> << Non esce mai dal suo ufficio. Entra, due parole striminzite come saluto, e lavora diligentemente fino a chiusura. Efficiente e freddo come le macchine che progetta >> << Interessante >> << Oh, terribilmente. Forse è solo un antisociale cronico, ma nessuna di noi qui in ufficio può evitarsi di ricamare sul suo atteggiamento >> << È fidanzato? >> Margaret la guardò con tanto d’occhi per quella domanda, fingendosi scandalizzata, ma sorrise ancora complice, avvicinandosi di un passo << Non è sposato, ma questo è tutto ciò che so. Se ha una fidanzata nessuno l’ha vista e lui non vi ha mai accennato, nemmeno le rare volte in cui abbiamo pranzato insieme >> << Vedremo >> commentò Emma sempre più divertita, proprio un momento prima che la porta del direttore si aprisse e Erik Lehnsherr ne uscisse, dirigendosi direttamente verso di loro.
Era alto e flessuoso come una statua greca, il completo dal taglio semplice ed elegante, color grigio acciaio, vestiva il suo corpo come la mano esigente di un amante, sottolineando le spalle solide e le gambe lunghe, ma era il volto che la sconvolgeva, quello sguardo di metallo fuso che non sembra temere niente e quella mascella serrata come se pronta ad azzannare, ancor di più ora che ogni sua fibra esprimeva rabbia repressa.
Macinava il pavimento come volesse frantumarlo e quando parlò sembrava che qualcuno gli avesse appena strappato un dente << Ho bisogno di un caffè >> disse a Margaret fermandosi loro davanti ed Emma, per la seconda volta in due settimane, si ritrovò di fronte una persona che non aveva la più pallida idea di dove mettere nella sua classifica.
La sua mente era un atrio pulito ed ordinato, invitanti pareti di metallo satinato con cassette di sicurezza lucide come quelle di un caveau, impenetrabili, o almeno non nel breve tempo di uno scambio di sguardi, e quelle protezioni la lasciarono così scioccata che le fu istintivo trattenerlo con un fiotto del suo potere << Emma Frost >> si presentò tendendo la mano, e lui sbatté le palpebre un paio di volte nel guardarla, interdetto, ma si liberò con facilità della sua blanda costrizione, sorprendendola ancora di più << Piacere di conoscerla, miss Frost. Margaret, torno tra pochi minuti >> << Naturalmente, signor Lehnsherr >> lui assentì una volta sola, proseguendo subito dopo, ma mentre si allontanava Emma non riuscì a trattenersi dal forzare un poco le sue barriere, riuscendo così a scorgere un volto che riconoscere le fece trattenere il fiato.
Come faceva quell’uomo a conoscere il misterioso fratello di Raven?
No, non era possibile, giusto?
Eppure non era possibile nemmeno che lei si fosse sbagliata...
Raccolse la borsa e si diresse all’ufficio del direttore continuando a rimuginare su quei pensieri, scrollandosi di dosso lo spiacevole ricordo di quando aveva rivisto l’ultima volta Charles Xavier.
Quel ragazzino le aveva messo la pelle d’oca sin da quando lo aveva conosciuto la prima volta, durante la festa per il suo compleanno a cui Raven l’aveva invitata, con quegli occhi così azzurri e trasparenti come specchi, quelle maniere educate e l’intelletto sopraffino nascosto o smorzato da battutine sagaci e frasi ben piazzate.
La sua mente era un solido blocco di cemento, senza il benché minimo spiraglio, liscia e impersonale, sorda e cieca, anche se lei non aveva la più pallida idea di come fosse possibile.
Anche Raven non era la persona più facile da leggere, ma una volta che aveva scoperto cosa nascondesse non se n’era stupita poi troppo, anche lei avrebbe protetto i suoi pensieri seppur inconsciamente se fosse stata al suo posto, ma cosa poteva mai nascondere quel ragazzo dall’aria più innocua e innocente di quella di un bambino?
Allontanò quei pensieri da sé per il tempo sufficiente a rispondere alle domande del signor Darkholme, il suo lavoro veniva prima del resto, ma quando vide con gli occhi di Margaret la sagoma di Lehnsherr che tornava al suo ufficio si ritrovò di nuovo a proiettare le dita del suo potere nella sua direzione.
Per la prima volta in vita sua si chiese se fosse come lei, se non avesse una qualche capacità che le impediva di accedere senza usare la forza, perché a differenza degli altri non riusciva a captare nemmeno un sussurro dalla sua mente.
Non era esattamente come Charles, percepiva la consistenza della sua mente e sentiva che se avesse premuto un po’ su quelle pareti di metallo sarebbe riuscita ad abbatterle, ma non conosceva le conseguenze di una simile intrusione, non le aveva mai saggiate, e per certo non voleva farsi scoprire nel tentativo di farlo adesso.
Ma magari un assaggio sarebbe bastato, magari...
Non riuscirò a vederlo.
Per carpire anche solo quel singolo pensiero senza farsi scoprire usò talmente tanto il suo potere che sentì una goccia di sudore scendere distintamente lungo il solco della sua spina dorsale << Tutto bene, miss Frost? >> doveva essere impallidita perché il signor Darkholme la guardò corrugando la fronte, ma lei si affrettò a tranquillizzarlo con un sorriso di circostanza, nascondendo invece quanto l’avesse turbata l’urgenza e il cristallino dolore che aveva accompagnato quella semplice frase.
Possibile che quel ragazzino fosse capace di suscitare qualcosa di simile? Come?
Si alzò quando il direttore ebbe finito e raccolse le sue cose meccanicamente, pensando ancora a queste due strane menti e al legame che potesse unirle, ma era così distratta da questi ragionamenti che quando fece per aprire la porta ed uscire si rese conto troppo tardi che qualcuno dall’altra parte stava per fare lo stesso, ritrovandosi così sbilanciata in avanti dalla maniglia che teneva tra le mani.
I tacchi alti non favorirono il suo equilibrio, stava per cadere in maniera molto poco decorosa e lo sapeva, ma uno strattone alla spalla, lì dove pendeva la catena della borsa, la rimise dritta prima del disastro, lasciandola così esterrefatta di essere ancora in piedi che si tastò nervosamente il corpo, quasi ad accertarsi che fosse tutto al suo posto << Stai bene? >> sollevò lo sguardo davanti a lei, ritrovandosi a ricambiare quello gelido di Lehnsherr, e seppe in quell’esatto momento, senza alcun dubbio, che era stato lui << Come hai fatto? >> lo mandò alla sua mente prima ancora di volerlo davvero, facendo rimbombare la sua voce per quel caveau così silenzioso con tale violenza che lui sussultò e indietreggiò di un passo.
Si guardarono per un momento, lui capì e lei capì, ma nessuno dei due disse nulla.
Emma si affrettò verso la porta e non si voltò indietro.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


NA: Siamo al terzo capitolo!!! Non ci posso credere, questa fic si sta rivelando davvero piena di soddisfazioni! Grazie mille a chi ha letto e grazie ancora di più a chi ha commentato, ma un grazie specialissimo va alla mia bellissima Winchester_D_Fra, che mi ha aiuta e mi consiglia <3: I love you, sweetheart, sei la beta-reader megliore!


Non aveva bisogno di molto tempo per prepararsi, venti minuti erano il massimo che aveva mai impiegato, compresi di doccia, barba e vestiti, ottenendo risultati perlomeno decenti vista la materia prima che aveva a disposizione, ma in qualche modo a Raven non parvero sufficienti quando la raggiunse in salotto << Torna indietro a toglierti quel maglione >> ordinò << Dove diamine l’hai trovato? Sembra una coperta di patchwork >> Charles se lo sfilò dal capo e lo lasciò cadere sul divano con un sospiro esasperato, lisciandosi distrattamente la camicia blu scuro che aveva indossato sotto per non tornare in camera << Andiamo, su... Non faremo in tempo a trovare nemmeno un ristorante aperto se non usciamo immediatamente >> << Cosa sentono le mie orecchie! È mio fratello quello che mi esorta ad uscire di casa? Sei sicuro di star bene? >> lui alzò gli occhi al cielo mentre si infilava il cappotto di cachemire e la sciarpa nuova, verde questa volta, circondandole delicatamente la vita per spingerla fuori << Non sono così restio ad uscire come sembro. È solo che finché non finirò... >> << Sì, sì, la tesi, certo. Non voglio sentirne parlare per tutta la serata, chiaro? >> lo frenò lei minacciosa, rabbrividendo poi nell’inutile giacca di pelle.
Lui schioccò la lingua, non avrebbe mai capito il perché di vestirsi poco anche in inverno, e le porse i propri guanti che teneva in tasca << Potevi metterti un paio di pantaloni almeno stasera. Si gela >> la rimproverò mentre lei accettava la sua offerta con un gran sorriso << Il posto in cui stiamo andando esigeva qualcosa di diverso dai pantaloni, Charles >> lui si fermò fissandola sorpreso << Dovevi dirmelo, accidenti! Mi sarei messo qualcos’altro >> Raven scoppiò a ridere di gusto e gli diede una spintarella con la spalla prima di tornare ad incatenare il braccio a quello di lui << Scommetto che sarei fantastico con uno dei tuoi vestitini striminziti. Cristo... ma non senti freddo alle gambe? Io non mi sento le dita dei piedi >> << Sei il solito melodrammatico. Oxford non è altrettanto fredda? >> << Ad Oxford non avevo nessuna pazza sorella a strapparmi al mio letto >> ribatté lui, e fece per raggiungere la fermata della metro, ma lei si diresse invece verso il parco in fondo alla strada << Andiamo a mangiare alla tavola calda. Cindy mi conosce, se le dico che siamo di fretta ci servirà in un batter d’occhio >> Charles si immobilizzò a quelle parole << Che succede? >> << Possiamo fermarci ad un chiosco se temi che non faremo in tempo >> << Non ho intenzione di sporcarmi i vestiti >> poi, accorgendosi di come sfuggisse il suo sguardo, Raven assottigliò il proprio per scrutarlo << Mi stai nascondendo qualcosa >> fece, e in pochi minuti, con l’efficienza di un agente segreto del Mossad e più o meno le stesse tecniche d’interrogatorio, riuscì a tirargli fuori tutto ciò che sapeva di Erik Lehnsherr.
Quando lui smise di parlare erano dall’altra parte della strada rispetto al piccolo locale e lei lo guardava con gli occhi azzurri spalancati d’incredulità << Mi stai dicendo che questo tizio ha detto che ti aspetterà qui tutti i giorni alle sette? Mattina e sera? >> << Tranne il sabato >> specificò lui distrattamente, ricevendo come ricompensa un pugno spaventosamente preciso alla spalla sinistra.
Gli scappò un piccolo gemito trai denti << E questo per cos’era? >> si lamentò, massaggiandosi il punto dolente con l’altra mano << Perché non me l’hai detto? >> gli sibilò contro << Mi è passato di mente. Ci ho ripensato solo adesso, perché hai parlato della tavola calda >> << Ma sei impazzito? >> lui diede in un sospiro esasperato << Non è pericoloso, l’avrei capito se lo fosse stato >> cercò di tranquillizzarla, ma per tutta risposta lei lo colpì di nuovo, quindi gli prese ancora il braccio e lo trascinò verso il ristorante per famiglie << Cosa vuoi fare? >> le chiese lui assecondandola per il semplice motivo che non poteva sognarsi di fare qualcosa di troppo diverso << Faccio quel che avresti dovuto fare tu, se non fossi così politicamente corretto: gli intimo di non farsi più rivedere intorno a mio fratello se non vuole che gli fracassi la testa con una mazza da baseball >> << Oh sì, in effetti credo che sia una tecnica più efficace del semplice lasciar perdere >> fece lui ironico, ma diede comunque un’occhiata all’orologio alla fermata del bus proprio davanti a loro << È comunque troppo tardi. Sono passate le otto ormai... Non lo troveremo >> Raven non gli prestò ascolto naturalmente, si catapultò all’interno e... e niente.
Lehnsherr non c’era, proprio come aveva pensato e detto << Non c’è >> chiarì soddisfatto, muovendosi verso lo stesso tavolo che aveva occupato l’ultima volta, e lei lo imitò ancora un po’ rigida per la rabbia, sedendosi mentre si guardava intorno nervosamente << Questi individui si cibano dell’attenzione di chi perseguitano, non capisci? Dell’ansia della vittima, della sua paura. Ignorarli è la tecnica migliore. Sono passate due settimane ormai e io non sono venuto qui nemmeno una volta... scommetto che si sarà stancato già dopo i primi quattro o cinque giorni >> Raven lo ascoltava ma non sembrava dargli ragione, continuava a mantenere un’espressione d’allerta, scettica, e si prese un lungo minuto prima di parlare di nuovo << E se invece lo avessimo solo mancato? >> Charles scrollò le spalle scorrendo il menù << Le mie conclusioni non cambiano. Ignorarlo è il modo migliore per... oh mio Dio >> quasi che a chiamarlo fossero state le sue stesse parole, in quell’esatto momento Erik Lehnsherr varcò la porta.
Indossava un completo da lavoro sotto l’impermeabile aperto, come se fosse venuto direttamente dall’ufficio, e aveva l’aspetto di chi ha appena corso la Maratona di New York in giacca e cravatta, con il volto arrossato, i capelli scompigliati e il respiro affannato.
Si guardò intorno e Charles sentì l’impulso di nascondersi sotto il tavolo, di nuovo fu solo l’orgoglio a salvarlo, ma quando i loro sguardi si incrociarono il sorriso che piegò quei lineamenti da statua greca fu così bello che persino il suo cuore fu felice per lui.
Non osò di più, si ricompose non appena si rese conto dell’espressione che aveva assunto, non accennò nemmeno ad un saluto, scegliendo come promesso il tavolo più lontano ma sedendosi comunque in modo da poterlo guardare << Vi devo lasciare soli? >> sbottò Raven riportando la sua attenzione su di lei, e solo allora Charles si rese conto di avere l’espressione meravigliata che ha un bambino davanti al proprio regalo di Natale.
La cancellò all’istante, si riappropriò della sua faccia con disinvoltura anche se Raven ovviamente era proprio davanti a lui e non le era sfuggita << Non dire sciocchezze >> disse, e questa volta era il suo cuore quello a correre maratone, anche se non avrebbe davvero saputo dire perché << È carino, vero? >> fece Cindy raggiungendoli proprio in quella, divisa gialla un po’ macchiata sul colletto e capelli troppo biondi per una donna della sua età << S-scusi? >> fece Charles cascando dalle nuvole, strappando una risatina alla cameriera e un’occhiata torva a sua sorella << Quel ragazzo. È carino, vero Raven? >> e le fece l’occhiolino con fare complice << Se non fosse un maniaco? Sì, davvero un bel ragazzo >> sbottò quella e Cindy sollevò talmente tanto le sopracciglia che quasi si scontrarono con l’attaccatura dei capelli << Un maniaco? Il signor Lehnsherr? Non credo proprio. È una persona per bene, invece. Lascia sempre almeno dieci dollari di mancia >> cara dolce America, dove la bontà di una persona si misura in mance lasciate al ristorante!
Charles riuscì comunque a non scuotere il capo con esasperazione << E sabato è venuto con sua madre. Una donna davvero squisita. Chi alla sua età porta la madre a pranzo e passa con lei tutta la mattinata? Dovevate vederli: sembravano una coppia di sposini >> questa volta anche Raven era sorpresa << Sabato? Viene spesso qui? >> domandò Charles, anche se dentro di sé conosceva già la risposta << Tutti i giorni. Deve piacergli parecchio la nostra bistecca perché non ci sono uffici nelle vicinanze che possano giustificare quei vestiti... >> infatti lavorava in centro, come testimoniava il suo biglietto da visita.
Raven guardò il fratello che si prese il volto tra le mani, preoccupata più per il senso di colpa che gli vedeva dipinto negli occhi che per la sua incolumità << Grazie mille per la chiacchierata, Cindy. Ci puoi portare due menù con le patatine piccanti? E due cole per favore >> la cameriera assentì con il suo sorriso gioviale, allontanandosi quindi prima di vedere Charles passarsi la mano trai capelli << Che devo fare? >> chiese a sua sorella, ma lei riuscì solo a stringersi nelle spalle << Sei tu lo psicologo. Io sono ancora per la mazza da baseball >> << La violenza non aiuterebbe. Ed è almeno dieci centimetri più alto di entrambi >> lei sollevò un sopracciglio << Parla per te, pappamolla. Io sono la migliore del mio corso di autodifesa >> << Oh, questo mi conforta, credimi >> ribatté lui sarcastico << Non sono io quella che prende gli inibitori. A quest’ora sapresti già cosa pensa >> << Vogliamo davvero cominciare questa conversazione? Ora? Dammi tregua, Raven... >> << Io vado a parlargli >> se ne uscì << No, che non lo farai >> lei sollevò un sopracciglio, e Charles seppe senza ombra di dubbio di aver fatto un errore << Scommettiamo? >> fece alzandosi subito dopo.
Lui la imitò si riflesso, sapeva che non aveva modo di fermarla e almeno al suo fianco avrebbe potuto limitare i danni.
Sedettero di fronte ad un Lehnsherr letteralmente sconvolto, gli occhi grigi che passavano dall’uno all’altra e la mano vicino alle posate che si strinse a pugno solo a vederli << Il mio ragazzo mi ha parlato di te >> esordì lei, e Charles cercò di non far rotolare i propri occhi sul tavolo, senza parole per quella trovata << Immagino non sia stato un racconto piacevole >> rispose l’altro, la voce pacata e fredda come Charles non l’aveva sentita la volta prima.
Lo guardò, lo guardò come dovrebbero fare solo le persone che si conoscono da tempo, con un’intensità che in qualche modo gli fece tremare i polsi << No, affatto. Non è divertente nemmeno quando sono le altre ragazze a volere la sua attenzione, quindi ti puoi immaginare quanto mi piaccia che siano i ragazzi a farlo. Lui è troppo educato per dirtelo come dovrebbe, quindi lo farò io al suo posto: sparisci, o te ne farò pentire >> Lehnsherr non scoppiò a ridere per quella ridicola minaccia da film di serie Z, non la sottovalutò né la derise.
Si limitò a guardarla e poi a parlare con lo stesso tono deciso: << Libera di fare come credi. Niente sarebbe peggio di come mi sentirei se assecondassi questa richiesta >> di nuovo quella forza, la testardaggine che Charles aveva visto già l’ultima volta, quella che si scontrava con il suo profilo e che rendeva la sua ossessione mostruosamente più importante del semplice desiderio sessuale.
Charles seppe senza alcun dubbio che se si fosse spogliato nudo di fronte a lui, l’unica cosa che Lehnsherr avrebbe cercato sarebbero stati i suoi occhi << Cazzo >> gli scappò alle labbra, facendo voltare entrambi verso di sé, quindi prese la mano di Raven e si alzò, senza scusarsi << Torniamo al nostro tavolo >> le disse, con tale serietà che lei cercò il contatto visivo, contrariata << Cosa? >> << A-aspetta >> disse invece Lehnsherr, e come alla metro, Charles sentì un tale muro di cocente sentimento proiettarsi da lui che persino le protezioni degli inibitori vacillarono, con conseguente fitta atroce alle meningi.
Sibilò un’imprecazione e si portò una mano alla fronte << Charles! >> esclamarono entrambi gli altri due, scattando in piedi con la stessa preoccupazione, la stessa premura, la stessa urgenza e paura negli occhi.
Vedere una reazione simile in uno sconosciuto gli fece male, male fisico, del tipo che prova chi passa davanti ad un mendicante per il quale ha pietà ma a cui non può dare più di qualche inutile spicciolo << Com’è possibile? >> riuscì a dire, e sentiva gli occhi gonfi di inspiegabili lacrime.
Dio, mai in vita sua aveva desiderato non aver respinto il suo potere come adesso.
Anche volendolo con tutto se stesso, tutto ciò che riusciva a racimolare erano stralci di emozioni che dovevano essere infinitamente più forti e potenti se riuscivano a toccarlo anche in quello stato << Siediti, per favore. Sei bianco come un lenzuolo. Me ne vado se devo, ma siediti >> fece lui, e prese il soprabito << Ha ragione, Charles. Siediti >> Raven lo tirò per la mano nel parlare invece, facendolo cadere di nuovo sui sedili di plastica del ristorante.
Con il tempismo perfetto che hanno solo i camerieri, Cindy si materializzò al loro fianco con le portate di tutti, ma prima che potesse posare il piatto di Lehnsherr davanti al proprietario quello prese il portafogli e posò una banconota sul tavolo << Io devo andare. Mi dispiace. Davvero, Charles... mi dispiace. Non ti disturberò più >> e si affrettò verso la porta.
Dire che Charles lo lasciò fare sarebbe esagerato, perché questi era troppo occupato ad evitare che la sua testa si aprisse in due come un melone in quel momento, ma ad onor del vero non lo avrebbe fermato nemmeno se fosse stato nel pieno delle sue facoltà.
Per dirgli cosa?
Piano piano l'emicrania si abbassò di tono, da fitte dolorose si trasformò in un delicato martellare sulle tempie, perciò riuscì ad allungarsi verso l'acqua e buttar giù qualche sorso prima di parlare << Non è ossessione >> disse << Cosa? >> << Non è... >> << No, ho capito. Ti davo modo di riformulare >> lo avvertì Raven interrompendolo e lui sbuffò ironico.
Si appoggiò allo schienale della seduta e diede in qualche respiro profondo, finché non riuscì a riaprire gli occhi senza vedere le stelle << È innamorato, Raven >> sussurrò << Non so come sia possibile, mi avrà visto in tutto forse mezz'ora, ma mi ama. Sul serio. In un modo così completo che ha dell'assurdo, credimi >> << Ti sembra assurdo perché è assurdo >> lo corresse << Per quanto mi riguarda significa solo che è più pericoloso di quel che pensassi >> << No, non hai capito >> le disse, con tale fermezza che lei si immobilizzò, stupita.
Persino Charles stesso lo era della propria sicurezza: << Mi comporto come gli altri, ma non sono come gli altri >> le disse << L'ho sentito, Raven. Così forte non l'ho visto in nessuno. Puro, cieco e assurdo amore. È stato devastante >> << Quando dici che l'hai sentito intendi... >> << Sì, con il mio potere >> azzannò lui, sentendosi come sempre un po' sciocco a dire quella parola, potere, come una sorta di stupido supereroe da fumetto.
La parola per descrivere quelli come loro c'era, era il motivo della scelta del suo corso di studi del resto, solo che non osava pronunciarla a voce alta.
Mutanti.
Molto tempo prima si era appropriato degli studi di suo padre, e le sue ricerche si erano ampliate al punto che era riuscito ad isolare l'esatto gene della sua mutazione, ma queste erano cose che teneva solo per sé; non avrebbe rivelato mai a nessuno, tanto meno a sua sorella, che dal punto di vista genetico non erano nemmeno umani.
Quella frase, per quanto condita con tutta la filosofia e la razionalità che poteva aggiungervi, non smetteva di essere meno che terrificante << Che vuoi fare? >> gli chiese con voce più morbida, come sempre accorgendosi di come si fosse rabbuiato anche prima di lui, con quella precisione che gli faceva dubitare se non fosse lei quella empatica << Niente. Ha detto che non mi disturberà più, quindi è finita. E poi io ho già la ragazza, ricordi? >> aggiunse canzonandola per la frase di poco prima e riuscì persino a ridacchiare, smorzando la tensione così accumulata.
Si sforzò di mangiare, ignorando il nodo allo stomaco che il dolore intenso di Lehnsherr gli aveva lasciato, una sofferenza che gli causava sensi di colpa che non avevano alcun fondamento dal momento che non era stato lui a suscitarla, eppure in qualche modo doveva averlo ferito, in qualche modo sapeva che era a causa sua se quell'uomo stava male.
Un transfer forse?
Forse lo aveva associato a qualcun altro, una sovrapposizione, o ancora, più semplicemente, somigliava a qualcuno che conosceva.
E aveva anche il suo stesso nome?
Non dimenticava la disperazione che aveva sentito la prima volta, quando il suo grido mentale lo aveva colpito come una martellata.
Come se da lui dipendesse la sua stessa vita.
Non aveva mai visto niente di simile in nessun altro, una tale forma di amore meritava rispetto, qualsiasi ne fosse la causa, e se a lui pareva una mania irrazionale o ingiustificata, per Lehnsherr aveva tutto un altro significato, profondo e radicato quanto quella disperazione.
Non era l'infatuazione di un momento, era la cristallizzazione di un'intera vita trascorsa insieme, quell'amore confortante che cercano di spacciare alcuni film o libri ma che nella realtà ricade nei “casi dalla rilevanza trascurabile” delle statistiche.
Chiunque lo avesse visto da fuori avrebbe detto che l'episodio appena accaduto non avesse avuto alcuna presa su di lui, continuò a ridere e scherzare con sua sorella mentre cenavano e si comportò come sempre quando uscirono, lamentandosi per il freddo e per il ritardo della metropolitana, ma dentro di sé Charles non smise un solo istante di pensarvi.
Analizzò di nuovo il suo comportamento, la gestualità, e fu così palese il suo sentimento, così urlato in ogni singola espressione che si diede dello stupido per non esserci arrivato anche prima.
Cominciò allora a chiedersi se fosse davvero uno sconosciuto.
Lo aveva conosciuto al liceo e non lo ricordava?
Improbabile, anche per qualcuno che non possiede una memoria eidetica.
Era nato negli Stati Uniti, certo, ma era cresciuto in Inghilterra fino ai sette anni, quando la sua famiglia so era trasferita e aveva adottato Raven, e aveva frequentato classi specialistiche fino al diploma.
Al college?
No, avrebbe ricordato qualcuno con quella faccia, tanto più se cercava trai pochi frequentatori dei suoi laboratori.
Lo avrebbe googlato se non fosse stato per Raven così vicina, ma si ripromise di farlo non appena ne avesse avuta l'occasione.
Si comportò impeccabilmente quando raggiunsero la nuova galleria di Angel, lo spazio espositivo era ricolmo di fotografi e critici d'arte, un ambiente che sarebbe piaciuto persino a sua madre e che giustificò del tutto il commento di Raven sul suo vestiario, quindi la ringraziò dal profondo del suo cuore per avergli tolto quel maglione sformato, ma anche così lui continuava a sembrare un pesce fuor d'acqua.
Fortunatamente l'arrivo tempestivo di Steve e del suo sorriso splendente gli risparmiò il penoso compito di fare la bambolina gentile e condiscendente al fianco della sua meravigliosa e solare sorella.
Si allontanò non appena ne ebbe l'opportunità, fingendo di vedere qualcosa nelle tele imbrattate appese alle pareti mentre beveva dal calice che teneva tra le mani, ma tutto ciò che riusciva a pensare invece era che se solo non avesse preso i suoi inibitori a quest'ora avrebbe avuto risposta a tutte le sue domande.
Da qualche parte dentro di sé sapeva che non sarebbe mai riuscito ad accettare se stesso se non avesse accettato anche la sua… mutazione, ma ricordava con troppa precisione quanta paura aveva provato in quei primi tempi, quando aveva pensato di essere impazzito, di sentire le voci, né tanto meno dimenticava l'impotenza quando i sentimenti degli altri soppiantavano i suoi senza alcun riguardo.
Se suo padre fosse stato ancora in vita probabilmente avrebbe insistito perché lui abbassasse il dosaggio, gradualmente man mano che cresceva, ma a ventitrè anni, di cui almeno dieci senza poteri, Charles era letteralmente terrorizzato all'idea di venir travolto di nuovo da quella forza inarrestabile che covava.
Doveva persino essersi fortificata con il passare degli anni perché lui aveva dovuto aumentare la dose.
Sospirò e si passò una mano trai capelli, svuotando il suo bicchiere mentre si guardava intorno.
L'ambiente di per sé non era male, i pannelli dividevano lo spazio in piccoli cunicoli dove le opere sembravano il fondo di un vicolo cieco, con qualche panca qua e là per chi volesse ammirare un lavoro più a lungo, e quella suddivisione creava tanti piccoli capannelli di persone diverse, intente a chiacchierare e conoscersi, divertirsi sembrava, ma lui riusciva comunque a passare inosservato seppur da solo.
Non aveva la più pallida idea di non esserlo affatto.
 
*
Aveva ricevuto il messaggio di Emma Frost mentre era sull'aereo per Seattle.
Salirvi era stato uno sforzo di autodisciplina non indifferente, soprattutto a quell'ora visto che avrebbe dovuto essere in tutt'altro luogo, ma aveva superato i controlli all'aeroporto quasi da persona civile, senza urlare in faccia a nessuno come avrebbe voluto o scaraventare la propria valigetta contro il muso di Darkholme seduto proprio al suo fianco fino a rendere la sua testa un ammasso informe e sanguinolento sul sedile.
In realtà fu riconoscente per la piccola vibrazione del suo cellulare, perché riuscì a distrarlo dal fatto che Charles avrebbe potuto varcare la soglia della tavola calda proprio quel giorno, a differenza di tutti gli altri, avrebbe potuto essere lì e rafforzare in sé la convinzione che Erik era solo un povero pazzo di cui aver pena.
Sarebbero stati solo due giorni, cercava di ricordarsene, ma l'idea di mancare la promessa che aveva fatto gli faceva ritorcere le viscere.
Non sapeva come lei avesse avuto il suo numero né se n'era preoccupato, era un avvocato dopotutto, ma leggere il suo “Dobbiamo parlare” non lo aveva lasciato poi così sorpreso.
Era stato un idiota a usare il suo potere.
Avrebbe dovuto lasciarla cadere su quelle gambe pallide come meritava.
Ma aveva sentito distintamente la sua voce nella propria testa, questo lo ricordava, e non era così stupido da lasciar perdere una cosa simile, quindi si era detto d'accordo, ma non aveva proprio immaginato che lei avrebbe proposto di accompagnarla in un posto del genere.
Non aveva comunque nessuna obiezione da sollevare, un posto valeva l'altro per lui, quindi aveva assecondato anche questo.
I due giorni a Seattle erano stati un inferno.
Aveva dovuto conoscere un sacco di persone, litigare con mezza dozzina di capi-cantiere e poi fare lo stesso coi loro diretti superiori, si era sporcato la sua camicia preferita per dimostrare ad un maledetto incapace come avrebbe dovuto fare il suo lavoro sotto lo sguardo attonito del suo capo e per finire in bellezza non aveva trovato il tempo nemmeno per rispondere alle chiamate di sua madre.
Darkholme si era detto molto soddisfatto di quella trasferta, aveva persino suggerito che fosse proprio il tipo di lavoro adatto a lui, ma con tutta la gentilezza che nasce dal bisogno di un lavoro stabile, Erik gli aveva risposto piuttosto fermamente che preferiva di gran lunga il suo ufficio.
Una volta di ritorno la prima cosa che aveva fatto era stato andare alla tavola calda, era stupido farlo e lo sapeva, il suo orologio gli ricordava che era troppo tardi e che avrebbe dovuto prepararsi per l'appuntamento con Emma, ma quando lo aveva visto si era sentito scrollare dalle spalle ogni preoccupazione o dispiacere.
Era lì!
Solo per intervento divino non si era messo a ridere come un idiota, riuscendo invece a mantenere la compostezza necessaria a sedere al suo posto.
Dio com'era bello.
La camicia blu scuro faceva risplendere il colore dei suoi occhi anche a quella distanza, ed Erik sarebbe stato felicissimo di passare il resto della cena a contemplarli, senza fare nient'altro, e invece quella maledetta bionda aveva dovuto rovinare tutto.
La sua ragazza.
La sua maledettissima ragazza.
Eppure glielo aveva detto, giusto? Non era interessato alle persone dello stesso sesso.
Erik imprecò per l'ennesima volta mentre usciva dal taxi per andare al suo appartamento, strappandosi di dosso la cravatta e cercando disperatamente di togliersi dalla testa l'immagine del Charles dagli occhi lucidi che aveva lasciato alle sue spalle.
Non nella realtà. Dio, ti prego… non nella realtà.
C'era già il sogno a tormentarlo, quella certezza matematica di aver affondato la lama nel suo cuore pulsante era di per sé un tormento sufficiente, non c'era bisogno di infierire.
Non aveva il tempo per la doccia, quindi si affrettò ad indossare un paio di pantaloni puliti e si infilò un dolcevita nero prima di tornare di nuovo sui suoi passi e fermare un altro taxi per il centro.
Tutto ciò che voleva era restare a casa e scolarsi qualche bottiglia fino a svenirne, con tutta l'intenzione di cancellare quell'odiosa serata dalla sua mente, e invece si costrinse a rispettare l'impegno preso con Emma perché le promesse mancate hanno sempre un effetto negativo, ed era ininfluente che lui credesse o meno al karma.
Lo aveva spaventato di nuovo?
Eppure non aveva detto nulla, era stata solo lei a parlare, solo… non poteva mentire proprio a lui, giusto? Dirgli che avrebbe lasciato perdere, che non lo avrebbe più cercato o voluto… come avrebbe potuto quella donna fargli qualcosa di peggio di quel che aveva passato negli ultimi ventisette anni?
Lei cosa ne sapeva di cosa volesse dire svegliarsi tutte le mattine sapendo che la propria felicità dipende da una persona che nemmeno sa della nostra esistenza?
Cosa sapeva del senso di mancanza, di perdita, cosa ne sapeva della paura di essere un folle tormentato da un'ombra?
Non poteva semplicemente strapparglielo via, non lo accettava, secondo nessun criterio lei poteva meritarlo più di lui!
La odiò.
La odiò ferocemente mentre scendeva dal taxi e raggiungeva l'edificio di mattoni a vista che Emma gli aveva indicato, e la odiò anche mentre scriveva all'avvocata per avvertirla che era arrivato, la odiò con tale intensità che quando entrò nella sala della mostra e se la vide proprio davanti pensò di avere le traveggole << Sei arrivato finalmente >> la voce seccata di Emma Frost lo fece trasalire, riportandolo coi piedi per terra, ma non diede peso alla sua irritazione, prendendola istintivamente per un braccio e nascondendo entrambi dietro uno dei pannelli espositivi, fuori dalla visuale della ragazza di Charles << Ma che diavolo ti prende? Lasciami subito! >> esclamò quella, liberandosi con uno strattone << Non volevo, scusa. E scusa anche per il ritardo >> << Ritardo! >> fece lei, assestandosi nervosamente i capelli elegantemente acconciati << Ti aspetto da quasi tre quarti d'ora! >> lo accusò << Ho avuto un contrattempo all'aeroporto. Sai che sono venuto qui direttamente da Seattle >> lei soppesò le sue parole e sembrò leggervi la menzogna, ma le importava troppo poco perché vi desse peso e lo sapevano entrambi << Perché ti nascondi qui dietro? >> volle sapere invece << Non mi sto nascondendo. Ho visto una persona che voglio evitare >> Emma si sporse oltre il pannello, dando un'occhiata alla sala, quindi tornò a guardarlo alzando un sopracciglio << Conosci davvero qualcuno qui dentro? >> fece scettica, ed aveva ragione ad esserlo perché Erik era tutto tranne che un cultore d'arte, ma questo non significava che lui non trovasse irritante quella sua espressione << Sono per caso tenuto a giustificarmi con te? Spiegami piuttosto perché sono venuto qui dopo due giorni di lavoro massacrante >> il sorriso bianchissimo di lei si allargò, i braccialetti d'oro bianco tintinnarono leggermente quando gli indicò di proseguire lungo il corridoio, fiancheggiando così dipinti che per lui avevano la stessa rilevanza artistica di una macchia di vernice su un muro << Credo che entrambi abbiamo qualcosa da spiegare, ma non sono sicura di volermi scoprire se non lo farai tu >> Erik si fermò e sbuffò ironico << Posso controllare i metalli >> disse senza mezzi termini << Non vedo che pericolo ci sia a dirlo visto che chiunque ti prenderebbe per pazza se glielo riferissi >> ed era decisamente troppo egoista e opportunista per utilizzare una simile informazione senza un guadagno personale.
Lei assentì lentamente dopo quelle parole, aprì la pochette bianca che teneva sotto il braccio e ne estrasse un portasigarette d'argento e una scatola di fiammiferi.
Ne accese una tenendola tra due dita smaltate d'oro e aspirò una profonda boccata << Io invece posso comunicare telepaticamente >> disse infine << Per questo mi hai sentito nella tua testa. Tu sai il perché della tua capacità? >> << No, ma non me ne è nemmeno mai importato >> di nuovo la vide assentire, gli offrì una sigaretta che però lui rifiutò, infine tornò ad incamminarsi << Nemmeno a me. Non finché funziona >> beh, non la pensavano troppo diversamente allora << Puoi leggere la mia mente? >> << Non proprio. Posso se è un pensiero riferito a me >> un potere affascinante, certo, e doveva essere davvero utile nel suo campo << Credevo che sarebbe stato difficile parlarne, invece... >> continuò lei distrattamente, fermandosi all'ultimo quadro del corridoio, guardandolo come se riuscisse a scorgervi qualcosa di più di una tela nera sporcata qua e là da macchie informi blu e rosse << Perché avrebbe dovuto esserlo? Non è che io possa giudicarti, giusto? Stiamo parlando di qualcosa con cui sei nata… Come prendersela perché uno è nato coi capelli rossi o la pelle nera. Un'assurdità >> << Non ti facevo così profondo >> << Non lo sono infatti. Mi rifiuto semplicemente di rendere complicata una cosa semplice >> << Conosci altri come noi? >> << Non credevo ne esistessero fino a quando non ti ho conosciuta >> Emma arrivò a metà sigaretta e la spense sul retro del portasigarette, rivelando così che faceva anche da posacenere << Siamo più di quelli che pensi >> gli rivelò << Vuol dire che tu ne conosci altri? >> lei si strinse nelle spalle << I più non sanno nemmeno di avere capacità. Qualcuno sì, è ovvio. Una è persino in questa stessa stanza >> << Chi? >> << Raven Xavier. Può cambiare il suo aspetto. Riesci ad immaginare una cosa simile? Può diventare me, o te… incredibile >> si mosse di nuovo verso la sala centrale, e lui la seguì un po' incerto, guardandosi intorno, ma la ragazza di Charles non era in vista << Deve essere uscita sul balcone insieme agli altri. Ormai sei qui: prendi qualcosa da bere? >> aveva ragione in effetti, tanto valeva rendere quella serata quanto meno decente << Vado io >> lo avvertì << Siamo nel ventunesimo secolo, ricordi? Anche noi donne possiamo fare i galantuomini >> e si allontanò ancheggiando.
Che strano personaggio.
Sembrava una persona frivola e sciocca, ma c'era qualcosa di elegante e profondo nel suo materialismo puro e semplice, qualcosa che valeva anche la pena invidiare per certi versi, perché per certo non poteva finire delusa dalle cose quanto lo poteva dalle persone.
Si dilungò un po' per la sala, cercando di non sembrare il completo profano che invece era, e si ritrovò perciò ad ammirare più che i dipinti il sistema di illuminazione ad alogene.
Chi le aveva installate aveva fatto davvero un buon lavoro in effetti, con cavi a scomparsa e… il mondo aveva deciso di fargli venire un infarto.
Che ci faceva Charles in quel posto?!
Si allontanò da lui come se avesse la peste, indietreggiando velocemente prima di dargli anche solo un secondo sguardo, ma fu comunque un passo falso: << Non posso credere che tu ci abbia seguito fin qui >> quella voce lo colpì come uno schiaffo, portandolo a voltarsi di scatto, e ugualmente fece l'animosità che vide negli occhi azzurri della ragazza << Io chiamo la polizia >> minacciò prendendo la borsetta << No! Aspetta, io... >> << Che sta succedendo? >> intervenne un ragazzo alle spalle di lei, biondo come lei e con gli occhi chiari come lei e perfetto come lei, forse suo fratello << Questo è il tizio di cui ti ho parlato prima. Quello che sta perseguitando Charles. Ci ha seguiti! Dov'è il mio dannato cellulare? >> Mr Perfezione lo fissò come se avesse appena bruciato la bandiera a stelle e strisce << Io non sto perseguitando nessuno. Sono qui con un'amica, è per puro caso che... >> << Oh, quindi vi conoscete! >> l'arrivo di Emma fu provvidenziale per lui, non sarebbe mai più stato felice di vederla come adesso.
Ci fu un momento di silenzio mentre li raggiungeva e consegnava ad Erik il suo drink, ma ovviamente lei non vi diede peso perché non la toccava, limitandosi a circondargli il braccio con il proprio << Emma? Conosci quest'uomo? >> fece la bionda e l'altra guardò Erik come se si fosse improvvisamente materializzato al suo fianco, sbattendo le belle ciglia lunghe perplessa << Certo. È Erik Lehnsherr, un collega. Mi ha gentilmente accompagnato questa sera. Ma perché quest'atmosfera sgradevole? Mi sono persa qualcosa? >> << Quindi è davvero un caso se è qui? >> << Perché dovrei mentire? >> ribatté Erik indignato, e quella fece un passo avanti minacciosa, fermandosi a pochi centimetri da lui << Stai lontano da Charles >> intimò in un sibilo, risvegliando in lui tutto l'odio che le aveva rivolto nell'entrare nella stanza.
Strinse i pugni lungo il corpo, furioso << Tu non sai niente di me. Non minacciarmi >> Mr Perfezione le prese il braccio cercando di allontanarla, ma lei se lo scrollò di dosso senza degnarlo di uno sguardo.
Era il ventunesimo secolo quello, Emma aveva ragione << So che sei un patetico malato che infastidisce qualcuno che amo, non mi serve di sapere altro >> << Raven, non... >> cercò ancora di intromettersi Mr Perfezione, ma questa volta fu Erik a fulminarlo con lo sguardo.
Per la prima volta realizzò che avrebbe potuto far loro del male.
Male vero, male fatale, aveva abbastanza ricordi delle sue vite passate per essere certo che avrebbe potuto farla pentire amaramente di quelle parole, ma… qualcuno che amo.
Non poteva dimenticare una cosa simile: lei era la ragazza di Charles, farle del male avrebbe significato farne anche a lui e questo era inaccettabile, quindi si limitò ad un respiro profondo trai denti, anche se sarebbe morto prima di abbassare lo sguardo per primo << Raven >> si voltarono entrambi al richiamo di quella voce, Charles era fermo a pochi passi di distanza, bello, bellissimo, persino nella rabbia velata da quella postura ingannevole, persino mentre lo fissava freddo come pietra.
Lei esitò ancora un momento, gli rivolse un'occhiata sprezzante, poi si allontanò per raggiungere l'altro, che le strinse dolcemente la vita con un braccio e le baciò la tempia, prima di essere lui ad avvicinarsi << Seguimi >> ordinò, proseguendo poi verso la porta, e ad Erik non restò che obbedire naturalmente.
Il suo cuore batteva furioso mentre guardava quella schiena dritta di fronte a sé, provava la voglia viscerale di raggiungerlo e avvolgerlo nelle proprie braccia per paura che scivolasse via di nuovo.
Sembrava composto d'acqua, sì, e lui era niente meno che un folle a volerlo trattenere.
Non si fermò una volta fuori, rabbrividì un po' perché era senza giacca e quelle spalle gli parvero incredibilmente fragili per il freddo che paralizzava la città, ma si limitò ad affondare le mani nelle tasche dei pantaloni e camminare per qualche minuto, fino a raggiungere una macchinetta per tabacchi.
Erik lo guardò in silenzio mentre trafficava coi pulsanti, le dita si erano già arrossate per il gelo, ma ugualmente non accennò a tornare indietro, limitandosi ad aprire il pacchetto appena comprato, estrarre una sigaretta e prendersi il tempo di una profonda boccata prima di voltarsi a fronteggiarlo, del tutto composto e padrone di sé, splendido, così splendido che lo avrebbe fotografato << Cosa avresti fatto se non ti avessi fermato? >> chiese, voce di velluto e camino acceso, sì, ed era un accento inglese quello nascosto tra le sillabe?
Inglese, certo!
Come si ritagliava bene quel nuovo aggettivo sulla sua forma << Cosa? >> le labbra rosse si strinsero in un'espressione irritata, no, non era irritata, era arrabbiata.
Ebbe bisogno ancora di un istante per uscire dalla sua contemplazione e rendersi conto che Charles era furioso << L'avresti aggredita lì davanti a tutti? Sei un uomo del genere? >> Erik sentì la terra minacciare pericolosamente di franare sotto i suoi piedi << Cosa? No! Certo che no! Dio, Charles, come... >> << Non dire il mio nome >> lo freddò << Siamo due sconosciuti tu ed io, non hai alcun diritto di usarlo. Io non ti ho dato il permesso di farlo >> fu come ricevere una pugnalata.
Rimase lì fermo a fissarlo, a bocca aperta, eppure amò anche quello di lui perché era disperatamente innamorato di ogni cosa che lo componeva << Come posso chiamarti allora? >> si risolse a dire dopo un respiro profondo, schiarendosi poi la gola quando sentì la sua voce uscire così roca << Usa il cognome, come le persone normali >> << Non conosco il tuo cognome >> lo vide sollevare un sopracciglio a quell’affermazione, ma Erik non mentiva e lasciò che se ne stupisse.
Fece un passo avanti, scrutandolo, così vicino che tornò a distinguere l’azzurro delle sue iridi grazie alla luce di un lampione << Non sai il mio cognome >> << No >> confermò, anche se non era una domanda << Non sai dove abito >> << No, certo che no >> << Non sai nemmeno se studio o lavoro, vero? >> Erik scosse il capo, cercando di non pensare dentro di sé a quanto misere fossero le sue informazioni << Eppure mi ami >> anche questa volta non fu una domanda, ma sapevano entrambi che non aveva bisogno di esserlo.
Non assentì, né negò, si limitò a guardarlo << Sai quanto questo sia folle, vero? >> << Sì >> << Ma non sembra importarti >> Erik si strinse nelle spalle, sorridendo anche se non aveva nemmeno una singola cosa che potesse rassicurarlo in qualche modo.
Lo sentì inveire di nuovo, sottovoce e morsicato, poi un’ultima boccata di sigaretta prima di gettare il mozzicone a terra e schiacciarlo con il tacco del mocassino << Mi fai uscire di testa >> lo accusò << No, quel che mi fa uscire di testa è sapere che puoi rispondere a tutte le mie domande ma non lo fai >> si corresse poi, come ripensandoci << Perché puoi farlo, non è così? >> << Sì. Ma non mi crederesti >> << Certo, certo... l’hai già detto questo >> sospirò, un lungo sospiro, poi alzò gli occhi al cielo per un momento prima di tornare a guardarlo << C’è qualche possibilità che tu possa semplicemente dimenticarti di me? Voltare pagina, lasciar perdere... Insomma, non ho fatto niente che... >> << No >> la sua obiezione fu così decisa da lasciarlo interdetto << Prego? >> << No, non posso lasciar perdere. O te o niente, non ci sono vie di mezzo >> ci fu un attimo di silenzio, poi Charles scoppiò a ridere, deridendolo palesemente, beffardo, ma Erik sostenne anche quello, senza proferire parola.
Lo aveva desiderato troppo, troppo a lungo per non resistere adesso << Che ti aspetti che faccia allora? >> fece sollevando le braccia con impotenza << Niente. Non voglio che tu faccia nulla per me. Voglio solo... il beneficio del dubbio. Posso sperare almeno in questo? Puoi tranquillizzare la tua ragazza, non... >> << La mia ragazza? Oh Cielo... no, no, Raven è mia sorella. Ha inventato quella storia solo per intimorirti, ma sembra che niente sia capace di farlo >> << S-sorella? >> << Sì, esatto. Questo non significa che sia meno pericolosa >> Erik ridacchiò, inevitabilmente tranquillizzato da quella rivelazione << L’ho notato. Era davvero spaventosa >> << È molto protettiva nei miei confronti >> la giustificò lui, ma tutto ciò che Erik pensò fu che la capiva perfettamente.
Charles sembrava proprio il tipo di persona che induce gli altri ad essere protettivi, solo che lui lo conosceva, sapeva quanta forza sapesse sprigionare.
Lo colpì un ricordo, vecchio e nuovo insieme, due braccia che lo trascinavano su un terreno duro e polveroso, una voce imperiosa che gli comandava di non mollare, di restare lì, due occhi grandi come il cielo che lo supplicavano di resistere.
Lui era ferito, sentiva la pallottola bruciare nella spalla, ma Charles non lo lasciava, sempre al suo fianco, pronto anche a caricarlo di peso pur di salvarlo.
Il suo Charles << Credi nel destino? >> chiese e l’altro di nuovo sollevò un sopracciglio, sembrò chiedersi se lo stesse prendendo in giro, tuttavia scosse il capo e prese un’altra sigaretta << Destino è il modo in cui gli uomini giustificano i propri errori >> rispose << Da dove proviene tanto cinismo? >> << Cinismo? Non è affatto cinismo. Siamo noi il nostro destino, lo costruiamo con le nostre mani ogni giorno. Non sono cinico, anzi, solo che l’unica cosa in cui ho fede è il genere umano e la sua capacità di autodeterminarsi, non attribuisco ad altri quello che solo noi possiamo >> la fiamma dell’accendino per un momento illuminò il suo volto di aranciato, Erik vide le sottilissime efelidi sotto gli occhi e all’attaccatura del naso, e si chiese che effetto avrebbe fatto toccare quella pelle bianca << Tu invece? Credi nel destino? >> << Credo che alcune cose non cambino mai >> << E questo che significa? >> Erik si strinse nelle spalle << Il mondo e le persone cambiano ogni minuto che passa, ma ci sono dei punti fermi in tutto questo movimento, dei pilastri immutabili >> Charles assentì lentamente, incamminandosi di nuovo verso la galleria infine, e per un po’ rimase silenzioso e pensoso << Immagino che sia un pensiero confortante >> disse << Tu dici? >> << Significa che si può sempre ricominciare, non credi? >> << Oppure che niente cambia poi davvero >> << Adesso chi è il cinico? >> Erik ridacchiò, anche quelle parole sapevano di vecchio e conosciuto, il suo cuore le riconobbe e ne gioì.
Raggiunsero la porta dell’edificio in mattoni e Charles si fermò e gettò il secondo mozzicone, voltandosi per fronteggiarlo << Senti cosa faremo adesso >> esordì, passandosi poi una mano trai folti capelli castani prima di infilarla nella tasca del retro dei pantaloni e estrarne il portafogli.
Gli porse un biglietto da visita di cartoncino, con le parole Professor Charles F. Xavier stampate in grafia elegante sopra ad un numero di telefono e un indirizzo in Inghilterra << Xavier >> lesse, inevitabilmente a voce alta, e si sentì sorridere senza poter far nulla per trattenersi << L’indirizzo non è più affidabile, ma il numero sì >> prese poi anche un altro bigliettino, il suo, e si infilò il pacchetto di sigarette nel taschino della camicia per prendere il cellulare.
Digitò qualche tasto prima di mostrargli la schermata della rubrica, su cui campeggiava un semplicissimo Lehnsherr << Ho salvato il tuo numero, visto? Se mi chiamerai ti risponderò. Non tutti i giorni e non a tutte le ore, ma... diciamo nei finesettimana? Potrebbe andar bene? >> che si aspettava rispondesse?
Lo guardò con tanto d’occhi, senza davvero capire quel che aveva in mente << Non c’è bisogno che tu vada a quel locale tutti i giorni >> << La loro bistecca è ottima >> Charles lo guardò per un istante, il suo bellissimo sorriso lo illuminò divertito, anche se poi si sforzò di sopprimerlo << Sei davvero assurdo >> fece scuotendo il capo << Posso davvero chiamarti? >> volle sapere << Ti ho appena detto che puoi farlo >> << La maggior parte delle persone concede il numero come scappatoia, come per scrollarsi di dosso ogni responsabilità per metterla nelle mani dell’altro. Pensi che non lo farò? Se non vuoi che lo faccia devi dirmelo >> << Penso che tu sia di gran lunga più ostinato della maggior parte delle persone. Vuoi il beneficio del dubbio, giusto? Ebbene, eccoti accontentato. Non aspettarti lo stesso da Raven, ma lei odia più o meno tutto ciò che respira a meno di un metro da me, quindi non stupirtene poi troppo >> << Mi piace tua sorella >> << Piace a molti >> confermò Charles con un sorriso, riportando al loro posto cellulare e portafogli.
Riprese le sigarette, ne sfilò una dall’incarto e se la portò alle labbra, ma non l’accese.
Rimase in silenzio ancora per un istante, poi se la tolse prendendola tra indice e medio e si appoggiò con la schiena allo stipite che portava alla mostra, incrociando le braccia al petto con disinvoltura << Ti ho già detto che non posso ricambiare ciò che provi >> << Non importa >> << Ti importerà, invece. Ma tutto ciò che posso essere per te è un buon amico. Sempre che sia possibile anche questo, naturalmente >> Erik si strinse nelle spalle.
Non aveva nessuna intenzione di preoccuparsi per il futuro.
Charles era lì, proprio davanti a lui, e qualsiasi compromesso sarebbe stato bene accetto purché vi restasse.
Amico, amante, nemico persino... non faceva differenza per lui.
Tutto era meglio che non averlo affatto << Non ti importa davvero >> fece l’altro sorpreso, in qualche modo glielo lesse in viso evidentemente, ma Erik non aveva motivo di negare e non lo fece.
Lo guardò giocherellare con la sigaretta tra le sue dita, ricordò cosa significasse il loro tocco, sentirle scivolare tra le proprie, e fu una sensazione così chiara e potente che fu scosso da un brivido << Per cosa sta la “F”? >> si ritrovò a domandare, doveva concentrarsi sul presente del resto, e allontanò il groppo che gli si era formato in gola << Francis. Sono nato in una famiglia dai secondi nomi. Tu invece? Lehnsherr non sembra un cognome americano >> << Tedesco. Mio nonno è venuto qui dopo la seconda guerra mondiale. È stato ad Auschwitz, per fortuna non così a lungo da morirvi, e non ha voluto più saperne della Germania >> << Oh, mi dispiace >> quella frase suonò strana, molto più intensa del banale commento di consuetudine, negli occhi azzurri passò vera sofferenza, lasciandolo senza fiato << N-no... è stato molto tempo fa. Io non l’ho nemmeno conosciuto, sono cose che mi raccontava mia madre >> perché ogni cosa in lui era così unica?
Parole, gesti... ogni singolo suono o movimento sembrava calcolato e misurato, perfetto certo, seppur parlandogli Charles trasmetteva anche un senso di lontananza, di distacco, come se stesse costruendo tra loro un’invisibile muro di cui Erik poteva persino sentire la consistenza graffiante sulla pelle, eppure bastava un singolo istante, un’emozione più vissuta, perché ogni barriera crollasse.
Tutta la sfiducia, tutta la diffidenza che in lui erano così innate, tutte le protezioni innalzate tra sé e il mondo con Charles non avevano più alcuna importanza, non l’avevano mai avuta, proprio per quella sua capacità: bastava che sollevasse una mano e ogni muro si frantumava sotto il suo volere.
E non si curava di lasciare Erik completamente esposto, nudo e vulnerabile, non ne era nemmeno conscio, era così ovvio per lui, così naturale esigere quell’Erik, da non rendersi conto che quest’ultimo invece ne era terrificato.
Sapeva di amarlo, Dio, lo aveva sempre saputo, eppure solo in quel momento, mentre gli parlava e rispondeva alle sue domande, solo adesso si rese conto di quanto lo amasse, quanto fosse disposto a rischiare per lui, quanto a perdere.
Se Charles gli avesse chiesto di strapparsi il braccio, in quel momento lo avrebbe fatto << Quando dici che non ti crederei se mi dicessi la verità, cosa intendi? Io ho profonda fiducia nella verità e nella sua capacità di farsi accettare. Sei così sicuro che io non lo farei? >> gli chiese d’un tratto << Mi crederesti se ti dicessi che posso volare? >> invece di scoppiare a ridere o commentare ironico, Charles lo guardò soltanto << Puoi farlo? >> Dio santissimo, chi può fare una domanda del genere?
Poi, come rendendosi conto di quel che aveva detto, fece un passo indietro e ridacchiò nervosamente << Come se fosse possibile una cosa simile! >> si grattò la nuca con la mano che ancora teneva la sigaretta spenta, ma Erik aveva visto una spiraglio in lui e non se lo lasciò sfuggire: << Giuri che non ti spaventerai se ti mostrerò una cosa? >> Charles raggelò, improvvisamente serio come la morte.
Assentì, immobile, in attesa.
Erik sollevò un dito, percependo facilmente le sue chiavi di metallo, e quelle si mossero docilmente dalla tasca del proprietario senza parole, si scossero un po’ una volta fuori dalla stoffa, come per scrollarsi di dosso la prigionia, e si depositarono sulla mano in attesa del tedesco.
Quando tornò a guardare Charles i suoi occhi brillavano.
Non c’era paura, né stupore attonito, solo... meraviglia, sì, la meraviglia pura e genuina di un bambino che scopre che Babbo Natale esiste << Stupefacente >> sussurrò, e fece un passo avanti istintivo, prendendogli la mano senza permesso per raccogliere le chiavi.
Ridacchiò, del tutto incurante di quel che suscitava, poi rise davvero, di tutto cuore << Puoi farlo anche con qualcosa di più grande? >> volle sapere eccitato << Qualcosa come? >> ci pensò su un momento << Quantificato in peso, qual è l’oggetto più grande che hai controllato? >> Erik ripensò alla metropolitana di qualche settimana prima << Circa due tonnellate, ma era in trascinamento più che sollevamento >> << Due... due tonnellate! Magnifico! Assolutamente magnifico! >> << Non più di quel che puoi fare tu >> azzardò, vedendolo però diventare di ghiaccio.
Il sorriso gli morì in gola mentre i loro occhi si incatenavano.
Non negò perché sarebbe stato quanto meno stupido, ma tornò a fare un passo indietro e il suo entusiasmo sembrò completamente scomparso << È stato un puro caso che io sia riuscito a fermarti, quel giorno >> << Non sembrava un caso >> << Ero spaventato e tu troppo scioccato per combattermi. Infatti non è durato che pochi istanti >> Erik scrollò le spalle << Se c’è una cosa che ho capito in questi anni è che usare il mio potere non è troppo diverso dall’usare un qualsiasi altro muscolo del mio corpo. Necessita allenamento e sforzo, mentale oltre che fisico >> << Quindi sarei fuori allenamento per te >> << Beh, non abbiamo bisogno tutti i giorni di immobilizzare le persone >> << Tu pensi che sia questo il mio potere! >> esclamò Charles divertito, rise ma non sembrò d’allegria, più amaro di quanto dovesse, quindi si incamminò verso l’interno dopo aver dato un’occhiata all’orologio << Dimmi tu qual è il tuo potere allora >> disse Erik seguendolo << Non ho nessun potere, Erik, credimi >> << Come posso credere ad una frase simile quando ho visto coi miei occhi che non è vera? >> Charles si fermò dal guardarobiere e gli consegnò un biglietto.
Ritirò il proprio cappotto ed Erik fece lo stesso, continuando a seguirlo anche quando tornò fuori e si incamminò lungo il marciapiede << Non aspetti tua sorella? >> << Raven passerà la notte da Steve ormai. E io ho fatto la mia comparsa sociale della settimana. È passata la mezzanotte da un pezzo >> << Domani devi svegliarti presto? >> Charles sbuffò ironico << “Presto” è un termine relativo, mettiamola così... Tu invece? Domani è sabato, quindi non lavori >> << Il sabato accompagno mia madre in sinagoga >> << Oh, è praticante allora >> << Posso fingere di cambiare argomento, ma non illuderti che voglia farlo >> con un grosso respiro profondo, Charles si fermò, le mani affondate nelle tasche e la sciarpa che pendeva dal collo sfiorandogli quasi le l’orlo inferiore della giacca << Prendo degli inibitori >> disse infine, ma Erik non era sicuro che questa frase rispondesse in qualche modo alle sue domande.
Doveva sembrare parecchio perplesso perché Charles continuò: << Non riesco a controllare il mio potere, quindi prendo dei farmaci che lo fanno al posto mio >> << È possibile una cosa simile? >> << Sì, se tuo padre è un geniale pioniere della genetica >> riprese a camminare, quel quartiere sembrava silenzioso e tranquillo a quell’ora, sembrava impossibile che fossero ad un passo dal centro della Città Eterna << È così terribile quando non lo controlli? >> domandò il più delicatamente possibile << Nel tuo caso è piacevole? >> Erik ridacchiò << Ho fatto saltare qualche lampadina da piccolo. E mio padre non mi voleva intorno quando guardava le partite alla tv, ma per il resto solo qualche incidente di poco conto >> << Il mio ultimo incidente di poco conto ha portato il mio patrigno al coma >> sussurrò Charles di rimando, i loro sguardi si incrociarono per un momento ma poi distolse velocemente il proprio, tornando a camminare.
Per un po’ nessuno dei due disse nulla, camminavano e basta uno di fianco all’altro, superarono la fermata della metro ma erano comunque in ritardo per l’ultima, così proseguirono << Sono un telepate >> disse infine Charles << Posso entrare nella testa degli altri, leggere i loro pensieri, le loro emozioni. Posso ordinare alla mente di chiunque di fare quello voglio >> rabbrividì e si avvolse la sciarpa intorno al collo per nasconderlo, come se fosse stato il freddo a suscitare quel fremito << All’inizio pensavo di essere pazzo, non avevo il coraggio di dirlo a nessuno, nemmeno a Raven. Sono sempre stato bravo a farmi ascoltare, persuasivo mi definiva mia madre, ma credo che fosse solo la fase embrionale di quello che poi sarei stato capace di fare >> << Non mi sembra comunque che questo giustifichi il tuo bisogno dei... come li hai chiamati? Inibitori >> << Non ti sembra che... mi stai prendendo in giro? Ti ho detto che posso farti fare quello che voglio! Cristo, è ovvio che abbia bisogno di qualche limitazione, qualche freno >> << Io ti ho detto che posso sollevare l’equivalente di due automobili, ma non mi sembra che tu mi abbia suggerito per questo di usare un freno o una limitazione >> << Non penso certo che tu possa usare una simile capacità in malo modo! >> questa volta Erik lo afferrò per un braccio, costringendolo così a fermarsi per guardarlo << Cosa fa credere a te che tu possa usare la tua telepatia in malo modo? >> fece, cercando il suo sguardo irritato dall’inevitabilità che aveva sentito nel suo tono << C-cosa? >> << La tua coscienza è un criterio sufficiente per stabilire l’uso del tuo potere. Siamo tutti potenzialmente pericolosi, Charles. Anche l’uomo qualunque può procurarsi un’arma e far male agli altri. Possedere quell’arma però non significa usarla sul prossimo >> << Non diresti lo stesso se io fossi dentro la tua testa. Non ti avvicineresti nemmeno a me >> ribatté, liberandosi poi gentilmente della sua stretta e abbozzando un sorriso amaro << Non c’è niente nella mia testa che io tema di rivelarti >> ed era la verità, la sacrosanta verità, né più né meno << Se gli altri temono per i loro segreti, è un problema loro, non tuo. Non puoi chiedere ad un uomo di cavarsi gli occhi solo perché pensi di non essere un bel vedere >> << Questa è la metafora più assurda che io abbia mai sentito >> << Ti ho già detto di non essere molto bravo con le parole >> << L’ho notato >> scherzò Charles scuotendo il capo, e questa volta quando tornò a camminare Erik si rese conto che non erano troppo lontani dalla fermata dei taxi << Possiamo dividercene uno, se per te va bene >> propose indicandola e l’altro acconsentì con una scrollata di spalle.
Quando lo sentì dire l’indirizzo al conducente per poco non scoppiò a ridere: solo dieci isolati l’uno dall’altro!
Anche lui riferì il proprio indirizzo, ma insistette che fosse Charles il primo ad essere riaccompagnato a casa visto che lui non aveva problemi di orario.
Il viaggio fu silenzioso e tranquillo, Charles guardava fuori del finestrino e Erik guardava lui, non aveva nemmeno senso nascondere di farlo visto che sapeva già quello che provava, senza contare che era troppo immerso nei suoi pensieri per accorgersene o imbarazzarsene.
Vide un’altra immagine di lui, lo stesso profilo ma i capelli più lunghi, la luce di un fuoco ad illuminare il suo volto con la stessa identica espressione persa nel vuoto.
Se lui non aveva avuto il suo potere prima allora anche per Charles era stato lo stesso, ma da cosa nascevano quegli scrupoli e paure?
Era assurdo che ne avesse proprio lui.
Era così palesemente e assolutamente buono che non si rendeva nemmeno conto che proprio i suoi dubbi erano la sua più grande legittimazione << Hai sonno? >> domandò quando non mancavano che pochi istanti alla destinazione << No >> il taxi si fermò davanti ad un palazzo di dieci piani dalla facciata palesemente ristrutturata e lui aprì la portiera << Allora vieni a prendere un tè >> beh, per quel che lo riguardava poteva essere anche una tisana alla cicuta.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Almeno una volta nella vita, Charles avrebbe voluto svegliarsi come in uno di quei film melensi che sua sorella a volte lo costringeva a sopportare, con il sole che fa capolino delicatamente dalle tende, le lenzuola ordinatamente scomposte e l’aspetto di un fiore nel pieno del suo sbocciare, magari al suono del cinguettio di un paio di uccellini, o al richiamo di una donna dalla voce dolce e gentile... e invece fu una mattina come le altre, più o meno, la prima cosa che pensò fu che di nuovo, di nuovo cazzo, si era dimenticato di tirare le tende, perciò il sole più che toccarlo delicatamente coi suoi raggi pareva del tutto intenzionato ad accecarlo, persino il ridicolo sole inutile dell’inverno di New York.
Il suo corpo si era in qualche modo fuso con le lenzuola nel sonno, in un modo che lasciava supporre non sarebbero mai più stati due entità distinte, e per quanto riguarda la voce della donna che lo svegliò, non fu né dolce né gentile << Cosa diavolo ci fa quel tizio sul divano? >> sibilò dandogli un colpo sulla spalla.
Senza occhiali vedeva più o meno solo i suoi capelli, una cascata d’oro che circondava un’ovale troppo conosciuto per confonderlo con altri << Oh, Raven... ho sonno adesso. Possiamo riparlarne più tardi? >> aveva rinunciato alla sua privacy più o meno nello stesso momento in cui suo padre gli aveva presentato quella bambina dai riccioli d’oro annunciandogli che era sua sorella, ma è sempre devastante quando qualcuno ti strappa le coperte di dosso riconsegnando al gelo il tuo corpo, anche quando indossi qualcosa di più dei semplici pantaloni del pigiama << Ne parliamo adesso invece! >> oh, Charles avrebbe voluto davvero tanto arrabbiarsi.
Afferrare le coperte e cacciarla fuori della sua stanza, sì, ma era così terribilmente faticoso.       
Avrebbe pianto se non fosse stato per l’età ragionevole di ventitré anni, per l’irragionevole essere maschio, per l’altrettanto ingiusto caso di essere il maggiore, ma invece era tutte queste cose, così invece di gridare al cielo le sue sventure si rassegnò ad alzarsi a sedere, riuscì a liberare le braccia dal lenzuolo e si allungò a tentoni per afferrare gli occhiali.
Riconoscere però lo sguardo furibondo di sua sorella non rese migliore la giornata << Perché è in casa nostra? >> volle sapere, con un dito inquisitore puntato verso la parete alla destra, e, per estensione, anche verso il divano del salotto dall’altra parte << L’ho invitato a prendere un tè. Poi si è fatto tardi, così gli ho detto di restare >> << Gli hai detto di restare?! Ma cosa hai fatto al tuo geniale cervello? Sei stato forse colpito da un fulmine mentre non c’ero? >> << Ti prego, abbassa la voce >> << Sai quanto me ne importa che mi senta! Anzi, voglio che mi senta. Per l’amor del cielo, Charles! È...è un uomo! È un pazzo, un... >> lui diede in un respiro profondo mentre cercava altre parole, insulti probabilmente, ma la fermò prima che ne trovasse << Prima di tutto non dovrebbe importarti che sia un uomo o una donna. Certo importa a me, ma io non ti ho mai chiesto di che sesso fossero le persone con cui uscivi >> << Ah, quindi adesso vi frequentate >> ribatté lei con sarcasmo, aggiustando il tiro da brava Xavier.
Erano sempre un esercizio di dialettica le conversazioni nella sua famiglia << Non ho detto questo. Dico solo che non dovrebbe importarti. Secondariamente, non è pazzo. Ho parlato con lui per tutta la notte proprio per accertarmene e tutto è tranne che questo. Strano, con dei segreti, ma non pazzo >> << Perché è perfettamente normale come si è comportato finora >> << Infatti ho detto che è strano >> concesse lui con uno sbadiglio, grattandosi il capo.
Cercò intorno a sé la parte superiore del pigiama senza trovarla, ma si accontentò di una maglietta per coprirsi dal freddo della stanza contro la pelle ancora calda per il letto.
Ci fu qualche istante di misericordioso silenzio mentre lui si vestiva, poi Raven diede in un respiro profondo e gli riconsegnò il piumone, sedendosi però al suo fianco e impedendogli così di tornare a dormire << Non mi importa che sia maschio o femmina >> disse infine in un mormorio, strappandogli un sorriso, quindi si sporse per baciarle la tempia e cingerla in un abbraccio << Lo so >> << Solo non mi fido di lui, capisci? >> << Farò finta che tu non tema per la mia virtù e capirò >> la fece ridacchiare contro il suo petto, lasciandola andare quando lo volle per poi rialzarsi in piedi.
Si stiracchiò, solo adesso Charles si rese conto che indossava ancora i vestiti del giorno prima, il che significava che era appena rincasata, ma decise di non cercare l’orologio per non sragionare << Vai a dormire un po’ >> la invitò, e lei ridacchiò ancora perché sapevano entrambi che aveva trascorso la notte a fare ben altro, ma lei non era una bambina, Charles non era suo padre e si era stancato di litigare con quella parte di se stesso.
La sentì allontanarsi lungo il corridoio verso la sua stanza e si gettò di nuovo sul cuscino, ma prima che potesse riprendere sonno lei tornò sui suoi passi e spalancò di nuovo la porta senza bussare.
Dovevano parlare di quell’ultima cosa << Ha chiamato mamma poco fa >> lo avvertì << Chiede se andremo a casa per la Vigilia >> << Sono ateo >> disse Charles in un mugugno assonnato << Siamo tutti atei, Charles. Il Natale è la festa preferita dagli atei >> << Allora dille che mi sono convertito a... qualcosa >> lei rise << Potrebbe venire lei qui. E sappiamo entrambi che sarebbe peggio >> quello era il loro tempio sacro, il rifugio duramente conquistato lontano da tutto ciò che Sharon Xavier era e portava con sé.
Improvvisamente era completamente sveglio << Andiamo a casa per la Vigilia >> disse << Infatti è quello che le ho detto >> convenne lei con un gran sorriso sornione, poi richiuse la porta e se ne andò.
Se il buongiorno si vede dal mattino, allora l’unica cosa rimasta da fare era farsi congelare con un timer di almeno ottant’anni.
Sempre che Sharon non avesse deciso di fare lo stesso, ovviamente.
 
 
Il suo secondo risveglio fu meno traumatico.
Uno dei suoi aiutanti di laboratorio lo chiamò per l’ennesima domanda superflua sulla propria tesi, Charles rispose con il telefono incollato all’orecchio e gli occhi ancora chiusi, ma per la fine della conversazione era inevitabilmente sveglio.
Il professore che aveva fatto da referente a lui lo avrebbe incenerito se avesse osato chiamarlo al telefono per una richiesta come quella, ma Charles era solo l’assistente del docente di Genetica, un modo elegante per dire che non aveva alcun diritto pur conservando tutti i doveri, senza contare che non era passato troppo tempo da quando aveva dovuto essere lui quello dall’altro capo della cornetta.
Ad ogni modo era ormai sveglio, quindi si tolse le coperte di dosso e afferrò l’astuccio delle sue pillole prima di andare in cucina a prendere l’acqua visto che la brocca sul suo comodino era vuota.
Si immobilizzò nel salotto, ricordandosi improvvisamente di Erik quando lo vide in cucina, con i pantaloni della tuta che gli aveva rimediato e una canottiera che scopriva un paio di braccia e un petto che lui poteva solo sognarsi, intento a trafficare con la macchinetta del caffè << Buongiorno >> gli disse voltandosi a guardarlo, e ogni persona sulla faccia del pianeta dovrebbe svegliarsi con un tale sorriso a ricambiarla.
Charles non aveva mai guardato nessuno come Erik guardava lui in quel momento, tantomeno di primo mattino, ma fu una bella sensazione accorgersi che qualcuno era felice solo e soltanto di vederlo << Buongiorno >> raggiunse il lavandino e si riempì un bicchiere d’acqua prima di buttar giù le sue medicine << Volevo fare un po’ di uova, per te va bene? >> chiese l’altro << Fai come se fossi a casa tua, tranquillo >> tornò sui suoi passi per andare al bagno a darsi una rinfrescata, e fu contento di aver costretto se stesso a farsi la doccia la sera prima nonostante l’ora, perché l’idea di infilarsi sotto l’acqua appena sveglio lo terrificava.
Non indossò le lenti a contatto perché lo faceva solo quando doveva uscire, tanto più che ormai Erik lo aveva visto al suo peggio, giusto?
Quando si accorse di quest’ultimo pensiero si diede dell’idiota, perché solo un idiota si preoccuperebbe di una cosa simile, e fu abbastanza immaturo per non passare a cambiarsi d’abito prima di tornare in sala da pranzo.
Erik, da essere disgustosamente e vergognosamente perfetto quale era, aveva preparato due bellissime omelette, con salsicce e pomodori grigliati, e stava riempiendo due bicchieri di spremuta << Tua sorella è sveglia? Pensavo di corrompere anche lei con le mie dote culinarie >> commentò accennando ad un terzo piatto, identico al loro, lasciato però a raffreddare sul ripiano della cucina << Ottimo metodo, ma temo che non si sveglierà prima di pranzo >> << L’ho sentita entrare questa mattina >> Charles sedette chiedendosi se non legare una palla di ferro a quell’uomo e costringerlo così a preparargli tutti i pasti.
Poi, ripensando al suo potere, si ritrovò a cercare un sostituto efficace al ferro tra gli elementi di sua conoscenza, passando così i successivi cinque minuti in un silenzio pensoso, probabilmente imbarazzante per il suo ospite, e che lo fece avvampare quando se ne rese conto, ancor di più visto che stava progettando la sua prigionia.
Erik comunque ebbe la decenza di scoppiare a ridere, evitandogli la morte per autocombustione << L’hai sentita urlare questa mattina >> disse riprendendo il suo contegno, fingendo che l’accaduto non fosse mai successo, e cominciò a mangiare accompagnandosi con una fetta di pane tostato << Anche. Non che mi aspettassi niente di diverso >> << Le è quasi venuto un infarto quando ti ha visto >> doveva assolutamente trovare un sostituto valente alla palla di ferro.
Della manette di plastica, magari?
Ma se gli dava accesso ai fornelli la plastica diventava inutile dal momento che poteva fonderla << C’è qualcosa che potrei fare per entrare nelle sue grazie? >> << Ho capito sin da subito che sei una persona intelligente >> commentò Charles ridacchiando << Tua sorella è pericolosa quanto bella. Non voglio averla come nemica >> << Nessuno sano di mente lo vorrebbe >> lo guardò tagliare la frittata con la forchetta mentre sorrideva divertito, e sembrava una persona completamente diversa da quella che gli era sembrato alla tavola calda, la tensione sulle sue spalle si era sciolta, come anche la rigidità delle sue espressioni e dei suoi gesti.
Sembrava molto più disinvolto, si permetteva di lasciarsi un po’ andare, e se da una parte Charles non condivideva affatto i motivi del suo buonumore non poteva negare che far stare così bene qualcuno con così poco era appagante << Aspetta un attimo >> fece poi, lanciando un’occhiata all’orologio appeso vicino al frigorifero << È quasi mezzogiorno! Non devi andare da tua madre? >> Erik fece un gesto noncurante con la mano, come a tranquillizzarlo << L’ho chiamata per tempo e l’ho avvertita che ero qui. L’ha accompagnata una vicina >> << Le hai detto che eri qui? Tua madre sa di... >> Erik notò inevitabilmente la frase tronca, ma come non lo era mai sembrato, nemmeno adesso gli sembrò a disagio a parlarne: << ... di te? >> completò per lui, abbozzando un sorriso << Certo. Non è che potessi nasconderle una cosa del genere, non credi? >> << C-certo. Hai ragione. E... cosa ne... pensa? >> a quella domanda l’ingegnere si fermò dal mangiare e lo guardò dritto negli occhi << Ha fiducia in me >> scandì, ci fu un istante di silenzio pesante, poi però l’altro tornò a sciogliersi in un sorriso accogliete << Non vede l’ora di conoscerti in realtà >> << Conoscermi? Immagino che nemmeno lei sappia chi io sia comunque... >> lo vide immobilizzarsi, il suo sorriso si smorzò un po’, e il suo sguardo si fece più cupo.
Non bisognava essere un telepate per capire cosa stesse pensando.
Charles diede in un respiro profondo, finendo poi il suo caffè << Ti ho detto che leggo nella mente eppure ancora temi che possa sorprendermi qualcosa >> << Dopo che mi hai spiegato la tua teoria sui “mutanti” le nostre capacità non mi sembrano più così incredibili >> << Ma lo resta a tuo parere il motivo per cui sapevi il mio nome prima di conoscermi. Ha a che vedere con la tua mutazione? >> Erik si accigliò, senza capire, quindi si affretto a spiegarsi << C’è qualcosa che puoi fare che non mi hai detto? Credimi, non può essere più terribile di quel che ho già visto >> << Hai delle teorie immagino >> commentò Erik con un sorriso un po’ canzonatorio, ma Charles invece di prendersela lo imitò divertito, assecondandolo << Certo. Spaziano dal vedere il futuro alla percezione di altri mutanti, ma in qualche modo so che nessuna di esse è giusta >> << Non posso vedere il futuro e né percepire altri come noi, no >> << Allora forse è qualcosa che ha a che vedere con... >> si fermò prima di finire la frase, grazie al Cielo, rendendosi conto che stava per dire qualcosa di potenzialmente pericoloso << Continua. Perché ti sei fermato? >> lo esortò Erik, il che era ovvio, ma la sua fortuna come al solito era impegnata altrove quindi niente se non la verità venne in suo soccorso.
Sospirò, prendendosi però qualche istante per formulare la frase più neutra possibile << Quel che noi chiamiamo “amore” altro non è che la risposta emotiva ad un impulso e bisogno fisico. Secondo alcuni studi ogni essere umano è capace di stabilire la compatibilità con un altro tramite l’analisi della sua saliva che avviene durante il bacio >> << Stai dicendo che quello che provo dipende da una qualche evoluzione di questo meccanismo? >> Charles si strinse nelle spalle << Forse ci siamo incrociati per caso, forse... >> << No >> ancora una volta, la risposta fu così lapidaria da mettere i brividi.
A lui non rimase che assentire, tornando a mangiare senza sapere davvero che fare per rimediare a quella cappa di silenzio che era scesa tra di loro.
Erik lo imitò, per qualche minuto l’unico suono nella cucina fu quello prodotto dalle loro posate, poi però un lungo respiro profondo proruppe dall’uomo, e Charles sollevò gli occhi appena in tempo per vederlo passarsi una mano trai capelli << Immagino che la situazione non sia affatto semplice per te >> disse << Perdonami, non sono abituato a preoccuparmi di quel che pensano gli altri. Sono così... Ad ogni modo, vorrei che non facessi troppo caso ai miei sentimenti. Ti amo. Ti amo più di chiunque altro su questo pianeta, ma non è necessariamente un problema tuo. Non ne parlerò più, non mi sentirai mai più dire o suggerire qualcosa di simile se non vorrai, non farò mai niente che possa essere meno che normale tra due semplici amici. Puoi permettermi di esserti amico a queste condizioni? Te lo giuro, Charles, su quanto di più caro io possegga: permettimi solo di esserti amico >> si poteva rispondere solo in un modo a quelle parole, e lo sapevano entrambi.
Charles assentì in silenzio.
*
Seduta con le gambe accavallate davanti a lui, Emma cercava di dare un senso a quel che Erik le stava dicendo, anche se le risultava molto più che difficile.
Dopo la sera alla galleria lui e lei avevano cominciato a vedersi più spesso, prima solo in ufficio naturalmente, ma una volta che aveva scoperto del suo “potere” lui le era sembrato più rilassato e adesso, seduti in quel ristorante a pochi passi dal grattacielo in cui lavorava, sembrava lontano mille miglia dal misterioso e affascinante ingegnere di cui le aveva parlato Margaret << Mi stai dicendo che non ti importa affatto di continuare questa allegra commedia del migliore amico? >> fece scettica, piegando accuratamente il carpaccio con la forchetta prima di portarselo alle labbra << Non è una commedia >> la contraddisse lui contrariato, lisciandosi la cravatta con la mano mentre guardava il proprio piatto << Charles è davvero il mio migliore amico >> << Tranne che non sa che tu e lui siete la versione mutante di Cime Tempestose >> la fulminò con quegli occhi di ghiaccio, ma se voleva intimidirla aveva bisogno di ben altro che di un'occhiata.
Si limitò ad una risatina, masticando poi con calma prima di parlare di nuovo << Credo che tu sia il peggior esempio d'amico che esista sulla faccia della terra >> lo accusò, riuscendo a farlo sorridere nonostante tutto << E allora perché vieni a pranzo con me, mi chiedo >> ribatté, Erik Lehnsherr raramente si accontentava di non avere l'ultima parola, ma Emma non era da meno << Perché non sei una persona completamente da buttare, mettiamola così... >> risero entrambi questa volta, che poi era il motivo principale per cui era stato così facile diventare amici.
Erik guardava i suoi modi e i suoi capi firmati, ma non si aspettava di trovare una bambolina senza cervello sotto trucco e capelli biondo platino. Lui non giudicava, mai, nemmeno se notava le sue occhiate sprezzanti o le sue bellissime gambe scoperte dal vestito, non gli importava niente dell'involucro, non formulava inutili aspettative o associazioni.
Per essere un solido pezzo d'acciaio temprato, lui era il primo uomo che incontrava i cui pensieri non si focalizzavano sul fattore estetico dopo due minuti di conversazione, anzi, era quasi offensivo il modo in cui trascurava tutto ciò che i suoi occhi trasmettevano.
La trovava bella, non era cieco fino a questo punto, elegante e sofisticata, apprezzava che fosse intelligente e sagace, gli piaceva anche la sua lingua pungente, ma nemmeno una volta l'aveva sottovalutata o l'aveva messa meno che al suo stesso piano.
Per lui la maggior parte delle persone erano trasparenti, niente più che mezzi per un fine, raramente si soffermava su di loro abbastanza per registrare nome o caratteristiche se non era prettamente necessario, un comportamento che avevano in comune a dire il vero, e forse proprio per questo essere notati da quello sguardo grigio-azzurro era in qualche modo appagante.
Restava ancora un'incognita la sua classificazione nella gerarchia mentale di Emma, dopo la prima volta non si era azzardata a violare quella mente precisa e ordinata perché qualcosa le diceva che lui se ne sarebbe accorto, e per il momento non voleva rovinare il loro rapporto solo per curiosità.
D'altra parte lui non era di certo il tipo che si preoccupa del giudizio altrui.
Vestiva bene e si teneva in forma, una punta di vanità si notava nella cravatta di seta o nell'orologio costoso, ma non si preoccupava nemmeno di nasconderlo perché era un bell'uomo e sapeva di esserlo << Credo che sia un bene dopotutto >> disse, e lei lo guardò un po’ perplessa, chiedendosi se non si fosse persa un pezzo del discorso, ma i pensieri di lui erano una botte di ferro come sempre e non le rimase che attendere che quell’uomo così difficile si spiegasse << Essere solo amici >> non ci fu bisogno di parlare, le bastò guardarlo per sottolineare il proprio punto di vista.
Emma non avrebbe esitato un solo istante a prendere ciò che voleva, non lo aveva mai fatto e di sicuro non avrebbe esitato se da quel qualcosa dipendeva la sua felicità.
Sinceramente non reputava Charles degno di tanto interesse, era un ragazzino troppo calmo e sorridente per i suoi gusti, la sua ingenuità aveva dell’offensivo a volte, ma non poteva negare che quel visino e gli occhi turchesi potevano essere un buon incentivo per dimenticare tutto il resto << Per quello che mi hai detto? >> domandò dopo aver lasciato agire il suo eloquente silenzio, continuando a mangiare << Non mi sei sembrata affatto turbata quando ti ho detto che l’ho ucciso in passato. E non una volta >> Erik naturalmente non sapeva che lei aveva visto ben più di qualche omicidio nella mente di chi la circondava, ma ad ogni modo per lei era troppo tardi per scandalizzarsi per una cosa simile.
Rise a labbra chiuse, facendo ricadere l’alta coda di capelli biondissimi sulla spalla sinistra.
Nessuno dei due sapeva perché le avesse raccontato dei sogni.
Era stato dopo una delle cene a casa di Raven, lei si era offerta di accompagnarlo a casa sulla sua BMW candida e lui non aveva saputo rifiutare un giro su una bella macchina.
Forse aveva bevuto più di quanto aveva voluto, forse Charles era stato più incauto del solito, con quelle labbra rosse e lo sguardo entusiasta vicino al suo amico, ma la verità era venuta fuori senza troppi sforzi, anzi, Emma aveva avuto l’impressione che Erik avesse il disperato bisogno di dirlo a qualcuno.
Non era stato troppo difficile credere alle sue parole, per quanto assurde, anche senza guardare nella sua mente, perché non le sembrava affatto il tipo da credere a stupide fantasie << Non ti facevo così vittimista >> lo rimbeccò << Non hai considerato per un momento che potrebbe averlo meritato? >> per sembrare più incredulo di quanto le apparve effettivamente, Erik avrebbe dovuto cavarsi gli occhi e lasciarli rotolare sul tavolo.
Sembrava che lei avesse appena confessato di aver ucciso il Presidente << Charles? Stai scherzando? E dire che dovresti conoscerlo più di me! >> << Io sono amica di Raven, non di suo fratello. Charles di solito finge più o meno di partecipare alla conversazione, sorride e annuisce come un idiota per tutto il tempo. Non so davvero come tu faccia a sopportarlo a dire il vero >> << Idiota? Sai che è il più giovane esperto nel suo campo di studi? >> lei alzò gli occhi al cielo esasperata << Sì, sì... ciò non toglie che sia un idiota. Forse tu sei innamorato e non vedi la sua stupidità, ma io non posso non trovare sinistro qualcuno che non fa che sorridere ogni volta che lo vedo >> le metteva i brividi a dire il vero, e le sue protezioni impenetrabili non lo rendevano più degno di fiducia << Quando alla galleria l’ho visto arrabbiato per poco non mi è venuto un colpo >> continuò << Sembra che non gli piaccia che qualcuno contraddica la sua sorellina >> << Raven è intoccabile per lui >> confermò Erik e a lei sfuggì un mormorio sospetto e condiscendente, che ovviamente però non passò affatto inosservato: << Che vuol dire quel tono? >> << Niente >> lui non aggiunse altro, si limitò a fissarla, immobile come una statua e forse per questo altrettanto inquietante << Beh, non è che sia questo gran segreto >> sbottò lei assestandosi nervosamente i braccialetti d’oro che portava ai polsi << Cosa non lo è? >> << Raven e Charles non sono davvero fratelli, lei è stata adottata dalla famiglia di lui >> Erik rimase un attimo interdetto, probabilmente non ne sapeva niente, ma si ricompose velocemente per simulare noncuranza << E con questo? >> fece infatti freddamente e lei scrollò le spalle spazientita << Avrai notato anche tu che sono molto legati... >> << Non mi sembra il caso per questo di fare stupide insinuazioni >> sibilò lui capendo dove voleva andare a parare, e si alzò subito dopo, anche se il suo piatto era ancora pieno per metà << Vado a pagare il conto. Devo tornare in ufficio >> si scusò telegrafico prima di allontanarsi, e non bisognava essere dei telepati per capire che Emma aveva aggiunto un altro doloroso dubbio a quelli che già lo tormentavano.
Se ne rammaricò suo malgrado, non avrebbe dovuto fare quello stupido commento, ma ormai il danno era fatto ed era inutile pianger troppo sul latte versato.
Avrebbe pensato il tempo ad aggiustare le cose, lei non poteva certo occuparsi di tutto.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


La routine del sabato era ormai consolidata e fissa da quando Charles lo aveva chiamato la prima volta per la colazione.
Per prima cosa raggiungeva sua madre a casa e le faceva compagnia durante la colazione, poi la accompagnava alla sinagoga per le dieci, quindi si incontrava con Charles alla tavola calda dove si erano conosciuti o a pochi isolati di distanza, in un piccolo caffè, e passavano insieme la successiva ora e mezzo, finché Erik non riaccompagnava sua madre a casa e Charles invece usciva con Raven, approfittando così delle rare volte che il fratello metteva il naso fuori dalla sua stanza.
Si rincontravano a sera il più delle volte, al loft o fuori se lei riusciva a convincerli, ma in entrambi i casi raramente le loro serate finivano prima dell’una del mattino, e l’ultima volta, quando Charles aveva scoperto che sapeva giocare a scacchi, si erano dilungati fino all’alba, crollando uno sul divano e l’altro sulla poltrona.
Quella mattina Erik si svegliò alle sette in punto, quasi avesse messo la sveglia, aprendo le palpebre sul soffitto color panna con un lungo respiro profondo.
Il sogno non era scomparso da quando aveva conosciuto Charles, anzi, si era fatto più vivido, più completo, arricchendosi di ricordi che spesso e volentieri lo seguivano nella veglia e gli lasciavano brividi in tutto il corpo.
Aveva scoperto perché piangesse ad esempio: durante una sparatoria Charles aveva intercettato una pallottola diretta a lui, perdendo così l’uso delle gambe.
Rabbrividì sotto le coperte, passandosi una mano sul viso stanco prima di mettersi in piedi, e ripensò alle parole di Emma di pochi giorni prima. Charles che meritava la morte.
Certo. E magari avrebbe nevicato all’Inferno.
Il sogno lo metteva di malumore e questa volta non fu un’eccezione, perciò usò il metodo consolidato e indossò la propria tuta direttamente dopo il pigiama, deciso a correre fino a casa di sua madre.
Prese un cambio e lo mise nello zaino prima di uscire, optò per la playlist dei Pink Floyd e si incamminò per la città che cominciava a stiracchiarsi sotto il cielo ancora grigio.
Perché sognava ancora di ucciderlo?
Perché non poteva essere qualcos’altro?
Perché proprio quella memoria doveva tormentarlo?
Si concentrò sui suoi ricordi più recenti, la sua risata e la sua voce, pensò con tale intensità al suo volto che poteva quasi visualizzarlo davanti ai suoi occhi, poteva sentirlo chiacchierare nelle sue orecchie, poteva percepire il suo tocco su una spalla o sul braccio, e in qualche modo ricacciò indietro quel venefico ricordo.
Ovviamente arrivò a destinazione troppo presto, quindi attraversò la strada e ripercorse i propri passi, e una terza volta, finché non vide la luce della stanza al primo piano della palazzina di sua madre accendersi, rivelando che si era svegliata, e si decise allora a fermarsi.
Aprì la porta con il proprio potere ed entrò ancora con il fiatone, rendendosi conto che la corsa sfiancante non aveva rimediato abbastanza al suo umore << Tesoro, sei tu? >> persino una domanda così sciocca, un’abitudine ormai, ferì i suoi nervi tesi allo spasimo.
Come non gli accadeva da quando era poco più che un moccioso, la lampadina del corridoio esplose non appena mise piede dentro, strappando un grido spaventato alla donna che lo stava raggiungendo << Mamma! >> esclamò spaventato, temendo di averla colpita, ma a parte un brutto inizio di giornata lei era incolume.
Anzi, sembrava molto più preoccupata per lui che per se stessa << Tutto bene, Erik? >> chiese prendendogli il volto tra le mani una volta che lui si fu accertato che non fosse ferita, perciò si sforzò di sorridere e tranquillizzarla, ma quando le baciò le mani e si allontanò sapeva bene di non aver sortito l’effetto desiderato << Mi faccio una doccia e sono pronto >> annunciò togliendosi la maglietta e rinsaldando la presa sul proprio potere << Lascia stare i cocci, li pulisco io appena esco. Fai colazione >> << Hai fatto di nuovo quel sogno? >> Erik si immobilizzò davanti alla porta del bagno, dandole così modo di raggiungerlo di nuovo << È sempre lo stesso, non è così? >> << Sì >> sussurrò lui, incapace di dirlo diversamente, ma sfuggì il tocco amorevole che stava per posarsi sulla sua spalla, rinchiudendosi nella doccia per sfuggire allo sguardo attento della donna.
L’acqua bollente lo aiutò a rilassarsi un poco, lasciò che gli scivolasse sul corpo in morbide onde mentre lottava con la sua mente e le spregevoli immagini che gli proiettava davanti, esasperandolo sempre più.
Cos’altro doveva fare? Lo aveva trovato, giusto?
I suoi sentimenti erano stati scoperti com’anche le sue intenzioni, cos’altro ci si aspettava da lui?
Quando uscì si sentiva esausto, prosciugato dallo sforzo, e sapeva senza guardasi allo specchio che il suo aspetto lo tradiva in tutto e per tutto.
Come promesso ripulì l’ingresso, trovando sua madre seduta al tavolo del piccolo cucinotto, la tazzina vuota di caffè ancora davanti a lei e la borsa di pelle nera posata sulle ginocchia << Sei pronta? >> si era acconciata i capelli in una treccia posata sulla spalla, elegante e sobria allo stesso tempo, anche il semplice abito blu rispecchiava lo stesso gusto com’anche gli immancabili tacchi, ma lo guardò esattamente allo stesso modo di quando indossava solo un grembiule e lo rimproverava per non aver finito i compiti << Quando hai intenzione di dirglielo? >> volle sapere mentre si alzava in piedi e lui sospirò perché non era la prima volta che glielo domandava << Non posso dirgli una cosa del genere >> si difese guidando l’orologio alla sua mano dalla tasca dello zaino per poi allacciarselo al polso con un cenno delle dita << Certo che puoi. Tu hai una bocca e lui le orecchie. Non mi sembra così difficile >> gli strappò una risatina, accostandosi poi per assestargli il colletto della camicia anche se ovviamente era perfetto così com’era ed era solo una scusa per toccarlo << Almeno fammelo conoscere >> suggerì prima di andare alla porta.
Lasciò che lui la aprisse per lei come sempre, senza preoccuparsi di prendere le chiavi dalla borsa visto che lui non ne aveva bisogno, continuando invece con il suo discorso << Ti sento parlare di questo ragazzo praticamente da quando hai imparato a farlo. Il minimo è farmi vedere che faccia abbia >> << Ti ho fatto vedere delle foto >> lei gli lanciò un’occhiataccia, cui lui cercò di farsi perdonare porgendole il braccio perché lei vi incatenasse il proprio, ma ovviamente era un povero illuso: << Foto! Una foto, tanto per essere precisi, dove a malapena riesco a distinguere il suo volto in mezzo a quello degli altri. Per l’Onnipotente, Erik... devo forse credere che questo fantomatico Charles sia una persona qualunque? Ti conosco un bel po’ ragazzo mio, non riuscirai a farmi credere che sia stato un bel faccino a rubarti il cuore >> lui rise del finto tono di rimprovero, guadagnandosi così un buffetto sulla spalla da lei, che sembrò rincuorata di averlo risollevato un poco << No, decisamente non è una persona qualunque >> disse << Anche se il bel faccino non mi dispiace >> << Fallo decidere a me quanto sia o non sia comune >> << Anche lui in verità vorrebbe conoscerti >> si lasciò sfuggire infine, vedendola sollevare un sopracciglio compiaciuta << Beh, direi che allora il problema è risolto. Invitalo a pranzo con noi oggi. Può portare anche sua sorella naturalmente >> << Non posso invitarlo! >> lei si fermò, corrugando la fronte << E perché mai? >> gli diede un altro buffetto, sulla mano questa volta << Non complicare una cosa semplice. Devo forse mandargli un invito per posta? >> schioccò la lingua scuotendo il capo, incamminandosi infine come se giudicasse chiusa con quello la faccenda.
E Erik la conosceva abbastanza per sapere con certezza che non sarebbe stato altrimenti.
 
 
Adorava parlare con lui.
Oh, l’argomento non aveva molta importanza, in qualche modo Charles riusciva a rendere interessante anche la cronaca di una televendita per battipanni, era più il suo entusiasmo, le domande argute, il sapere di starsi confrontando con una mente acuta e attenta.
Quella mattina gli stava parlando di una certa riflessione che lo aveva colto quella notte, si era di nuovo addormentato su uno dei suoi libri naturalmente, un’illuminazione riguardo la psicologia sociale, uno degli argomenti della sua tesi, e la funzione che l’ambiente ha sui mutanti e le loro stesse mutazioni << Mi chiedo perché sviluppiamo certe mutazioni invece di altre >> stava dicendo da sopra il menù del caffè, era troppo preso dalla conversazione per ordinare del resto, quindi Erik lo fece per entrambi pur continuando ad ascoltarlo << Tu perché controlli i metalli? Perché io leggo la mente? Forse dipende dall’ambiente in cui siamo nati? Forse è una diretta conseguenza dello stesso, non credi? Così come alcune specie mutano per adeguarsi all’ecosistema ospitante! >> << Credi che se mio padre avesse fatto il medico invece che il meccanico io non sarei quello che sono? >> << È più complesso di così >> disse Charles, prendendo quindi una penna dal proprio taschino e stendendo il tovagliolo per potervi disegnare sopra << Ti ho già parlato del Gene X, giusto? >> << Sì >> << Beh, se il Gene condizionasse il nostro corpo a seconda dell’ambiente in cui nasciamo? >> Erik corrugò la fronte, più attento << Cioè? >> Charles tracciò una X in cima al foglio, quindi segnò due diramazioni, una a destra, A, e una a sinistra, B << Molti nostri comportamenti psicologici dipendono dall’ambiente. Anche alcune conformazioni fisiche ne sono influenzate. Perché non il Gene X? Forse è una mutazione in potenza. In alcuni è ben formata sin dalla nascita, in altri è latente e si definisce con l’età e le esperienze dell’individuo. A questo modo due fratelli possono avere lo stesso tratto genetico, eppure evolverlo in maniera completamente diversa >> << E perché alcuni l’hanno già alla nascita? >> Charles arricciò le labbra, disegnando due altre diramazioni sopra A << Credo dipenda da quanto sia dominante la mutazione. Se il mutante è di prima o seconda generazione. Proprio come accade per gli altri geni >> sospirò, appoggiandosi allo schienale mentre la cameriera portava loro i loro piatti << Potrei confermare questa teoria se avessi altri mutanti da analizzare, ma direi che è impossibile trovarne. Ancora stento a credere di aver conosciuto te >> << Puoi mettere un annuncio se vuoi >> offrì Erik ridacchiando mentre cominciavano a mangiare.
Per qualche boccone Charles rimase silenzioso, probabilmente immerso nei suoi pensieri a giudicare dallo sguardo perso nel vuoto dietro agli occhiali enormi, ma quando tornò a parlare lo fece come se non si fosse affatto interrotto: << Mio padre mi ha detto che Raven è stata abbandonata da piccola per la sua mutazione >> lo disse come se nulla fosse, anche se non aveva accennato nemmeno una volta che non fossero fratelli di sangue.
Tipico di Charles. Dava per scontato che gli altri capissero e sapessero, senza rendersi conto di niente di quel che suscitava.
Per lui era così naturale che Raven fosse sua sorella che precisare che fosse stata adottata dagli Xavier gli pareva superfluo, come dire che era bionda o che aveva gli occhi azzurri.
Avrebbe dovuto ormai essersi abituato a questo tratto un po’ “tra le nuvole”, e invece si era di nuovo preoccupato per nulla.
Si limitò a sospirare comunque, senza farglielo notare << Non mi stupisce. L’essere umano sa essere spietato a volte >> gli aveva raccontato della capacità di Raven, della sua forma blu, ma tutto ciò che provava per lei era curiosità e sincero interesse, proprio come era stato per Emma << Quel che voglio dire è che forse i suoi stessi genitori erano mutaforma. Oppure ancora, ne possedevano il gene ma non sviluppato, come per i portatori sani di albinismo o emofilia >> << Quindi adesso siamo una malattia >> Charles gli lanciò un’occhiata torva << Sai cosa voglio dire >> << Sì, sì, certo. Continua >> Charles prese una grossa forchettata di uova sbattute e se la portò alla bocca, masticando poi con cura mentre pensava.
Erik aveva baciato molte labbra nella sua vita, aveva sempre amato Charles ma non aveva sempre voluto farlo, per un certo periodo aveva desiderato solo cancellarlo dalla sua mente e dal suo cuore e per farlo aveva accettato il calore di chiunque al suo fianco, ma nessuna donna e nessun uomo poteva eguagliare il desiderio viscerale che facevano nascere in lui le labbra di Charles.
Ricordava altri baci.
Poteva quasi sentirne la consistenza sulle proprie, riusciva quasi, quasi, a sentire il suo sapore sulla lingua, eppure entrambe le sensazioni erano fuggevoli, come un suono che si sa di aver già sentito ma non si ricorda dove << La settimana prossima dovrò tornare a casa >> disse di punto in bianco, Erik non aveva la più pallida idea di quale flusso di coscienza lo avesse portato dal Gene X a quella confessione, ma non riuscì a far altro che fissarlo sconcertato << A c-casa? Dove? >> forse qualcosa del suo terrore gli passò sul viso perché Charles si rese conto solo ora di quel che aveva detto << No, no, non... non per sempre! Solo... sai, è Natale. Mia madre ci vuole a casa >> Erik lasciò andare il respiro che aveva trattenuto, prendendo poi il bicchiere di succo di frutta per svuotarlo per metà e ricacciare così indietro il groppo che gli si era formato in gola << È importante trascorrere le festività con la propria famiglia, certo. Quando partirete? >> Charles diede in una smorfia << Con un po’ di fortuna non prima di giovedì. Se ci sarà anche il mio patrigno con suo figlio invece credo che non potremo ritardare più di martedì. Cristo, detesto il Natale >> sospirò, togliendosi gli occhiali per massaggiarsi gli occhi << Hai un altro fratello allora? >> << Cain >> la parola gli uscì come se qualcuno gliela stesse strappando insieme alla lingua << Oh. Non credevo che qualcuno potesse suscitarti tanta animosità >> << È un essere viscido e subdolo. Mi fa sempre venire un gran mal di testa. Anche lui è un mutante, e si diverte a ricordarmelo ogni volta che ci vediamo. Suo padre, Kurt, era il migliore amico del mio ed entrambi avevano cominciato i loro studi proprio sapendo delle mutazioni in me e Cain >> << Immagino quindi che il vostro rapporto sia ben diverso da quello che hai con Raven >> Charles sbuffò divertito, come se reputasse ridicolo il confronto, scuotendo poi il capo prima di spingersi di nuovo le lenti sul naso << Grazie al cielo la sua presenza ci è imposta solo una o due volte all’anno, vivono a Boston. Kurt mi ha sempre trattato come una sorta di esemplare da laboratorio, mi apprezza come si potrebbe di un esperimento ben riuscito. Una parte di me è ancora convinta che sia io uno dei motivi per cui si è sposato con Sharon, oltre che per il denaro ovviamente >> raramente Charles si rivolgeva a sua madre chiamandola diversamente.
A volte un “madre”, mai “mamma”, più spesso semplicemente “Sharon”.
Raven faceva quasi l’opposto, quasi che fosse lui quello adottato, non lei, anche se questo suggeriva che non avesse un ottimo rapporto con la donna.
Non osava chiedere di più, sembrava che l’altro non avrebbe gradito, ma non poteva fare a meno di chiedersi cosa potesse fare una madre per farsi odiare tanto << Scusa, non è piacevole sentire questi discorsi mentre si mangia >> << Puoi dirmi quello che vuoi quando vuoi, Charles, non preoccuparti >> Erik finì la sua torta e prese la tazza di caffè a due mani per giovarsi del calore che ne scaturiva.
Ci fu ancora un momento di silenzio, poi l’inglese diede in un respiro profondo e ripose le posate << Quali sono i tuoi programmi per oggi? >> domandò, probabilmente solo per cambiare argomento, ma questo riportò a galla l’ultima conversazione avuta con sua madre, compresa l’occhiata minacciosa con cui era finita, e si irrigidì << Che succede? >> << Ehm... mi chiedevo se tu non fossi occupato per il pranzo >> Charles si strinse nelle spalle << Oggi anche meno del solito. Raven è con Steve per tutto il giorno, quindi pensavo semplicemente di prendere qualcosa al take away. Perché? >> Erik si strinse nelle spalle, maledicendo la sua malvagia buona sorte << Beh, mia madre ti ha invitato a mangiare con noi, se per te va bene >> si guardarono, sembrò gli avesse posto un quesito irragionevole a giudicare da come rimase a fissarlo senza dire nulla, non sorpreso e non incredulo, semplicemente immobile << Ovviamente puoi rifiutare. Se pensi che sia una richiesta inopportuna... >> << No, verrò >> disse, con un gran sorriso ad armare le sue parole, ma visto quanto spesso gli piegasse le labbra Erik si prese un istante per analizzarlo e giudicare se non fosse falso << Sul serio, verrò. Volevo conoscere tua madre, del resto. Possiamo passare da casa prima di andare da lei? Si può fare solo una prima buona impressione e credo che per riuscirci dovrei quanto meno mettermi dei veri pantaloni >> e si indicò i jeans, che secondo lui non rientravano nella categoria, facendolo scoppiare a ridere per l’allentarsi della tensione << E le lenti. Non voglio che la signora Lehnsherr mi scambi per una talpa >> si torturò il labbro inferiore coi denti, tornando a mangiare << Dovrei portare qualcosa con me. Una torta? A tua madre piacciono i dolci? >> << Charles, non c’è bisogno di preoccuparsi così tanto... Sarà una mezz’ora indolore, ne sono quasi sicuro >> gli occhi turchesi si assottigliarono, scrutandolo per un momento prima di concentrarsi sul cibo.
Erik comprese che stava prendendo tempo, quindi lo lasciò fare senza interrompere il silenzio, finché non finì le uova e diede in un respiro profondo, tornando ad appoggiarsi allo schienale della poltrona << Lei sa del mio potere? >> << Le ho detto degli inibitori, se è questo che chiedi. E non approva >> << Come mi aspettavo dalla donna che ti ha cresciuto >> fece Charles scuotendo il capo << Perché? Non è ovvio lasciar esprimere le potenzialità del proprio figlio? >> si rese conto solo una volta finita la frase di quanto fosse indelicata.
Charles scrollò le spalle e assentì, sollevandosi in piedi per sfuggire al resto della conversazione, e Erik non riuscì ad insistere, nemmeno per rimediare al danno compiuto.
Si limitò a seguirlo fuori, sorrise mentre lo guardava stringersi nel cappotto e incassare le spalle, era incredibilmente freddoloso per una persona che aveva passato metà della sua vita in Inghilterra, ma riuscì a resistere all’impulso di cingergli le spalle con un braccio per riscaldarlo << Come sta andando la tua tesi? >> quello era un argomento tendenzialmente innocuo, perfetto per riempire i loro scomodi silenzi a volte, e sapeva prima di sentirlo che avrebbe sospirato << Continuo a trovare cose interessanti mentre faccio le mie ricerche, dimenticandomi il più delle volte che dovrei anche scrivere qualcosa. È snervante. Soffro di deficit d’attenzione probabilmente... >> si dilungò quindi sullo spiegare quest’ultima sindrome, gli occhi luccicanti mentre decantava la complessità della mente umana, per dirlo con le sue parole, e continuò imperterrito anche una volta al loft.
Aveva abbastanza buonsenso da non spogliarsi davanti a lui, oppure era pudico per natura e di questo ringraziava ogni divinità ogni giorno, ma questo non significava che la doccia frettolosa e il cambio d’abiti lo rendessero meno che bellissimo.
Lo raggiunse mentre si frizionava ancora i capelli con l’asciugamano << Ho lavorato coi criminali durante la mia prima tesi >> stava dicendo << Un’esperienza stancante e frustrante, ma anche incredibilmente appagante. Le menti dei criminali sono affascinanti >> << Non sono persone come le altre? >> Erik cercò di non guardarlo.
Aveva giurato, si ripromise, ma questo non significava che non fosse difficile ignorare il suo profumo, o la pelle arrossata dall’acqua calda.
Grazie al cielo andò a finire di asciugarsi perché non era sicuro del proprio autocontrollo << Beh sì, per certi versi >> ovviamente non si rendeva minimante conto dell’effetto che provocava in lui.
Erik sarebbe stato pronto a scommettere che non era il primo a scontrarsi con la sua completa cecità << Il loro ordine di priorità è completamente diverso dal nostro. Cose che per noi è normale non fare per loro sono quasi scelte illogiche >> visto che usava il phon alzò la voce, ma niente di meno grave di una pioggia di meteoriti poteva zittirlo quando partiva con le sue lezioni.
Oh, la cattedra era decisamente la sua vocazione, che ne fosse conscio o meno, per questo era ben poco credibile quando si lamentava dei vari assistenti e studenti che lo contattavano alle ore più impensabili e per i motivi più futili.
Prima di tutto era un caso clinico di “amico di tutti”, la tipica persona che non sa dire di no a chi ha bisogno d’aiuto, e secondariamente nessuno sano di mente metterebbe il proprio numero di telefono a disposizione di così tante persone, soprattutto non con la sua disponibilità irriducibile.
Erik non poteva che provare rabbia per un simile atteggiamento, rendeva Charles estremamente vulnerabile a chiunque, cosa che peraltro pensava anche Raven visto che era un argomento fisso delle loro discussioni, ma in qualche modo lui era proprio la persona che se ne preoccupava di meno.
Quando uscì di nuovo dalla doccia si stava abbottonando la camicia azzurra, senza naturalmente fare alcunché per nascondere quella meravigliosa vita sottile e quelle spalle, incurante della cintura di pelle che chiedeva a gran voce di essere percorsa con dita altrui, e improvvisamente Erik fu assalito da un flash di passato, un’altra camicia, un’altra cintura, un panciotto di seta damascata e una bocca rossa come il sangue bagnata d’assenzio davanti ad una casa da fumo nella periferia di Dublino.
Trattenne il fiato, ultimamente quei frammenti di ricordo erano sempre più frequenti, ma nonostante i suoi sforzi di nascondere il battito impazzito e il respiro lacero la cosa non passò inosservata: Charles si portò la mano alla fronte, appoggiandosi con l’altra alla parete mentre morsicava un’imprecazione << E-Erik >> lo richiamò, una supplica quasi, che portò l’altro a fare un passo avanti preoccupato, ma l’occhiata che seguì fermò i successivi << Tutto bene? >> fu lui a chiederlo, non Erik, rimettendosi dritto e abbozzando un sorriso mentre spostava il peso da un piede all’altro << Dovrei essere io a chiederlo. Cosa è successo? >> si guardarono per un momento, poi l’inglese si allungò verso il divano e raccolse la sua giacca di tweed per indossarla << A volte succede... quando sono vicino a persone che pensano a me molto intensamente >> Erik sentì il suo respiro di nuovo bloccarsi in gola, sapeva di essersi tradito e non c’era modo di rimediare, ma in qualche modo quel ragazzo meraviglioso non lo allontanò pensando di lui che fosse un orrendo pervertito << Mi dispiace >> si ritrovò a dire, si costrinse a dirlo, bloccando le sue mani prima di raccogliere il suo cappotto e aiutarlo ad indossarlo.
Non lo aveva mai fatto, eppure gli risultava così sbagliato trattenersi << Non devi. È così facile dimenticarsi che... beh, non importa. Andiamo >> lo seguì di nuovo fuori, attese che chiudesse la porta, e si incamminò prima di lui, cercando di togliersi dalla testa l’immagine di poco prima.
Quindi era stata colpa sua anche le altre volte << Non era niente di... irrispettoso >> disse, non riuscì a trattenersi, riuscendo così a strappargli una risatina per alleggerire la tensione << Ne sono sicuro! >> << Terrei a specificare che non è per pudore che mi trattengo dall’esprimermi a voce alta, non ho niente da nascondere >> Charles rise ancora di più per il tono eccessivamente formale, si avvolse la sciarpa intorno al collo nascondendo così metà volto << Immagino che per te certe cose siano più facili da accettare >> commentò affondando le mani nelle tasche << Che vuoi dire? >> << Beh, non so quante persone io conosca riuscirebbero a sopportarmi se fossi con loro come sono con te >> Erik aveva capito la differenza sin dalla prima volta che si erano ritrovati in mezzo agli amici di Raven.
Charles era... diverso, molto diverso, qualcosa in mezzo al mediocre inglesino che gli altri si aspettavano nel guardarlo e il tipico ragazzo tranquillo che si trova in qualsiasi compagnia << Sei mai stato innamorato? >> si ritrovò a chiedere, prima di poterci davvero riflettere probabilmente, perché Charles sussultò.
Ci fu un momento di silenzio, lo vide stringersi nelle spalle al suo fianco, quindi scuotere il capo << Non così >> mormorò, indicandolo con un cenno del capo << La cosa non mi stupisce più di tanto >> Charles di nuovo ridacchiò, si grattò il capo come quando era a disagio ma cercava di ostentare sicurezza << Non sono esattamente il quarterback di una squadra di football, eh? >> << Non dipende da questo e lo sai >> lo contraddisse Erik.
Ci fu silenzio per un altro po’, Erik fermò un taxi sulla strada principale e per qualche minuto lasciarono che il tragitto occupasse lo spazio lasciato dalla conversazione, finché non furono nei pressi della sinagoga e si incamminarono verso l’edificio esagonale << Hai sempre voluto fare l’ingegnere? >> domandò Charles come faceva sempre, senza dare alcun indizio del perché lo avesse fatto << Da quando avevo dieci anni, più o meno >> << Che risposta veloce! >> << Avevo le idee chiare. Per te non è stato lo stesso? >> << Il professore intendi? >> arricciò le belle labbra pensoso << Diciamo che non potrei fare molto altro. A parte rinchiudermi nello studio di mio padre e fingere che il resto del mondo non esista, ma credo che Raven me lo impedirebbe >> << Amo tua sorella >> le porte del monastero si aprirono proprio in quella, lasciando uscire una piccola folla di persone, tra cui la sua elegantissima madre.
Vide Charles irrigidirsi mentre la donna li raggiungeva, guardò con i suoi occhi quella figura minuta ed imponente allo stesso tempo, la sua roccia, sì, la colonna su cui si poggiava gran parte della sua vita.
Aveva qualche capello bianco, orgogliosamente ostentato per di più, ma le rughe erano ancora lievi sul suo volto, appena un po’ più accentuate sugli occhi e intorno alla bocca << Oh, tu devi essere Charles! >> fece lei aprendosi in un gran sorriso.

 
*
Edie Lehnsherr era una delle donne più belle che Charles avesse mai visto.
Alta quanto lui coi tacchi, bassa quindi, camminava con la dignità di chi sa di aver meritato di farlo, una morbida treccia di capelli neri appena striati di grigio posata sulla spalla destra e un corpo snello fasciato da un abito semplice ed elegante.
Non era bella solo esteticamente, cosa peraltro indubbia, ma anche bella dentro, lo capì non appena strinse la sua mano, un po’ sorpreso di vedersi baciare le guance con familiarità, ma era impossibile prendersela con tanta disinvolta gentilezza << Piacere di fare la sua conoscenza, signora Lehnsherr >> lei sorrise compiaciuta, posandogli una mano sulla spalla << Va benissimo Edie, caro. Il cognome di mio marito mi fa sentire vecchia >> prese il braccio che Erik le porse, lo baciò sulla guancia e lui la lasciò fare senza imbarazzo, ma non smise di rivolgersi a lui.
C’era qualcosa nel modo in cui lo guardò che gli fece stringere lo stomaco in una morsa dolorosa << Edie sia allora. Non sia mai che si possa offendere una donna così bella >> lei ridacchiò di nuovo, solo che... era sincera.
Sembrava davvero felice di vederlo.
Gli attenti occhi scuri non lo perdevano di vista un istante, fissandosi spesso nei suoi e impedendogli così di distogliere lo sguardo << Sei proprio cortese come Erik mi ha detto. Ti ringrazio per sopportare il mio sciocco figlio... abbi pazienza con lui, caro >> caro.
Il confronto aveva quasi del ridicolo << È lui ad avere pazienza, in realtà. Non è così male... >> << Oh, grazie tante! >> si lamentò Erik, facendola scoppiare a ridere di nuovo, una risata educata ma senz’altro sincera, vera, così dolorosamente vera.
Eppure lo sapeva.
Non era forse per questo che era stato tentato di rifiutare?
Bastava vedere la fiducia incrollabile del figlio per immaginare che persona meravigliosa fosse la madre, conosceva abbastanza della mente umana per saperlo anche prima di conoscerla << Potremmo andare a quel ristorante greco in cui siamo andati l’ultima volta. Sei allergico a qualcosa, Charles? >> << No >> dissero Erik e lui insieme, anche se fu solo il primo a guadagnarsi un’occhiataccia dalla donna << Però è un po’ lontano da qui... >> << Va bene qualsiasi cosa, signora... Edie. Non sono schizzinoso con il cibo >> l’ultima volta che era stato fuori a mangiare con Sharon aveva indossato un completo.
Aveva mangiato pesce cucinato da uno chef rinomato, aveva bevuto vino francese, ma non per questo aveva smesso di contare i minuti che mancavano alla fine del pasto.
Improvvisamente aveva la nausea << Possiamo andare al giapponese allora >> << Sei ancora fissata con il sushi? >> la rimbeccò Erik, ricevendosi un buffetto sul braccio << Non sono una di quelle donne ossessionate dalla linea dietro cui andate voi ragazzi. Trovo solo che sia squisito. Soprattutto quei piccoli involtini ripieni di pesce >> << Maki >> disse Charles senza pensare, guadagnandosi un altro sorriso, proprio la tipica espressione che un figlio impara essere il premio per un compito ben fatto << Esattamente. Maki. Ti piace il giapponese? >> << È una cucina migliore di tante altre >> smise di guardarla, abbassando lo sguardo sul lastricato del marciapiede, improvvisamente molto interessato a dove metteva i piedi << Visto, Erik? Questo ragazzo mi piace già >> le domande che seguirono furono educate e di circostanza, ma non per questo gli parve meno che curiosa, anzi, chiedeva chiarimenti per questa o l’altra cosa, cercando di metterlo a suo agio.
Quando raggiunsero il ristorante Erik era ormai da un pezzo un loro silenzioso spettatore, era impossibile trovarla antipatica o invadente, Raven l’avrebbe adorata.
Salutò con calore la cameriera orientale e le domandò come stava la figlia, ogni persona cui si rivolgeva si guadagnava la sua completa attenzione, e dopo aver ordinato tornò ad ascoltare lui con lo stesso interesse << Oh, quindi hai intenzione di lavorare nell’impresa di famiglia? >> Charles cercò di non rabbrividire a quella domanda, era il sogno di sua madre ma anche il suo personale incubo << No, no, sarei un vero disastro! Non si può insegnare ad un pesce a scalare un albero >> << Einstein >> mormorò lei riconoscendo la citazione << Erik mi ha detto che sei un ricercatore. Interessante. Sai già cosa farai una volta preso il dottorato? >> era una domanda che detestava porsi quella.
Da quando ricordava lui era semplicemente “lo studente”, era l’unica cosa che sapeva fare del resto, e per questo aveva deciso di fare il professore, ma dal desiderarlo a trovare effettivamente una cattedra nelle università dei dintorni c’era un abisso << Non ancora >> lei assentì senza scomporsi << C’è tempo, non farti fretta inutilmente. Sei ancora incredibilmente giovane del resto >> proseguì con un altro argomento, in modo fluido e capace, senza mai metterlo a disagio, eppure proprio quel comportamento rese sempre più pesante il nodo al suo stomaco.
Ad un certo punto non riuscì più a mandar giù nemmeno un boccone, il suo petto era così oppresso che si sentiva soffocare, eppure quella donna non ne aveva colpa.
Non era colpa di nessuno in realtà, semplicemente ci sono persone fortunate e sfortunate al mondo, chi per l’una e chi per l’altra cosa.
Sin da che ricordasse, Sharon lo aveva fatto sentire inadeguato.
Non era nemmeno colpa sua, ormai era abbastanza grande per comprenderlo, era semplicemente una donna povera d’amore, la meno adatta ad avere un figlio probabilmente, del tutto convinta che crescerlo bene significasse assicurargli una buona istruzione e un ottimo fondo fiduciario.
Charles era cresciuto con le tate, numerose finché non aveva cominciato a sviluppare il suo potere, ma con gli occhi di adesso riusciva facilmente a capire perché fosse così felice di sottoporsi agli esperimenti di suo padre, il suo bisogno di attenzioni lo avrebbe portato a fare qualsiasi cosa, e per fortuna poi era arrivata Raven e lui aveva potuto riversare su di lei tutte le cure che non aveva ricevuto.
Sua madre cercava di passare con lui meno tempo possibile, il bicchiere di vino nella sua mano era diventato onnipresente, e se c’era una cosa di cui ringraziava gli inibitori era aver smesso di sentire la sua disapprovazione in ogni dannato pensiero.
Mostro.
Essere normale, normale; cosa significava poi quella parola?
Sapeva di non esserlo, sapeva che le medicine di suo padre non sarebbero bastate, niente sarebbe bastato, perché qualsiasi cosa facesse per Sharon avrebbe continuato ad essere troppo disordinato, intelligente, ribelle, distratto... << Charles? >> trasalì al richiamo, si rese conto di essersi estraniato dalla conversazione e si sentì arrossire sotto lo sguardo dei due Lehnsherr << Ti senti bene? >> volle sapere Erik, ma in quel momento la sua premura lo infastidì.
Prese il bicchiere di sake e lo svuotò in un paio di sorsi per darsi il tempo di ricostruirsi e mettersi un sorriso sulla bocca << Scusate, mi sono distratto. Sono davvero spiacente, Edie... proprio come ti dicevo stamattina, Erik >> << Cosa ti ha distratto? >> cos’aveva quel dannato ragazzo che non andava?
Non capiva che doveva lasciar perdere?
Prese un pezzo di pollo dal suo riso e se lo portò alle labbra sforzandosi di masticarlo << Niente di che. Posso chiederti di ripetere la domanda? >> fece poi imbarazzato, o almeno cercò di esserlo più che della rabbia che invece provava, e almeno uno dei due ebbe la cortesia di non peggiorare la situazione << Parlavamo di tua sorella. Mi hai detto che ha frequentato l’accademia d’arte, giusto? >> Erik non smise di fissarlo, spietato.
Sembrava uno di quei cani da caccia che non mollano la scia una volta individuata, qualsiasi cosa si metta loro in mezzo << Ha finito l’anno scorso. Sta preparando la sua galleria espositiva per la fine dell’anno. È stata abbastanza fortunata da avere uno dei suoi professori ad appoggiarla >> << Deve essere davvero brava allora! Posso sperare in un invito quando la mostra sarà accessibile al pubblico? >> finalmente smise di guardarlo, ma non per questo sembrò aver cambiato obiettivo << Naturalmente >> si conoscevano da poco più di due settimane, giusto?
Perché riusciva a smascherarlo così facilmente, perché era così difficile nascondersi da quegli occhi grigi?
In qualche modo era certo che Erik fiutasse qualsiasi sua menzogna << Conoscerò anche vostra madre. Deve essere un’ottima persona per aver cresciuto due figli così splendidi >> sorrise automaticamente.
Che genere di persona sorride con tale naturalezza quando non vuole?
Mostro.
Probabilmente aveva ragione sua madre, c’era qualcosa che non andava in lui.
Sharon alla mostra di Raven! Gli veniva da ridere solo al pensiero << Quali sono i vostri programmi per il pomeriggio? >> domandò poi lei, dopo essersi scambiata un’occhiata con il figlio, uno di quei momenti che due persone si scambiano in un linguaggio tutto loro, Charles non riuscì a comprendere niente di quello sguardo, per quanto del tutto non intenzionale, ma lo ferì comunque.
Cominciava ad esasperarlo questa invidia gratuita, non credeva di poter essere così meschino, eppure non riusciva comunque a scacciarla dal suo cuore << ...si rinchiuderà nella sua stanza come al solito >> stava dicendo Erik con una punta di rimprovero cui poi armò anche gli occhi nel guardarlo << Devo finire una tesi io! >> si difese l’inglese fingendo di non aver perso di nuovo il filo del discorso << Spero che Raven torni prima di cena o ti dimenticherai ancora di mangiare >> continuò l’altro invece, con un sorrisetto supponente come quando scherzava.
Una parte di Charles lo odiava, se ne rese conto proprio in quell’istante.
Odiava la sua sicurezza, odiava che conoscesse il proprio futuro, odiava anche il suo sentimento così forte.
Charles non possedeva niente di così certo nella sua vita, l’unica colonna cui era vergognosamente dipendente era Raven e presto o tardi gli sarebbe stata tolta anche lei visto che non poteva occuparsi per sempre del fratello antisociale che si ritrovava << Charles? >> << Sto bene >> si affrettò a dire, schiarendosi poi la gola, ed ebbe la decenza di alzarsi in piedi prima di mostrarsi come la gelatina informe che era << Scusa, Edie. Torno subito >> e si diresse verso la toilette.
Era enorme per un ristorante come quello, con tanti lavabo e specchi a trasmettere la sensazione che fosse ancora più grande, così lui si infilò in uno dei cubicoli perché tutto quello spazio non dava certo l’idea di un nascondiglio.
Non pianse e non avrebbe pianto.
Decisamente un grosso passo avanti.
Si appoggiò alla porta della stretta e rassicurante nicchia, coprendosi il volto con le mani e tirandosi indietro i capelli che cominciavano ad essere troppo lunghi.
Il suo era decisamente un problema di autodeterminazione.
Sapeva che qualsiasi cosa avesse fatto Sharon avrebbe disapprovato, in parte aveva scelto in reazione a questo Genetica ad Oxford, no, forse non c’erano stati altri motivi in realtà, aveva persino abbandonato Raven pur di scappare a quel tagliente sguardo perennemente accigliato, e il fatto che sua sorella non glielo facesse pesare non significava che lui si sentisse meno che codardo.
Non ce la faceva proprio a non odiare Sharon. Era sua madre, Cristo, ma una madre... cazzo... una madre avrebbe dovuto essere diversa, giusto?
Oh, sapeva di dover affrontare il problema con lei un giorno, una di quelle mattine si sarebbe svegliato e le avrebbe vomitato addosso tutto ciò che imputridiva da qualche parte dentro di lui, avrebbe urlato e pianto e forse non avrebbe nemmeno più preso gli inibitori, ma per il momento non era ancora pronto.
A perderla.
Perché per quanto fredda, distaccata, per quanto perennemente delusa e persino disgustata da lui, era e sarebbe sempre rimasta la donna che l’aveva messo al mondo e lui, che lo volesse o meno, la amava.
Prese un respiro profondo, poi un altro, infine aprì la porta.
Erik era proprio di fronte a lui, appoggiato al ripiano di marmo nero dove erano incassati i lavandini, le braccia incrociate in semplice attesa.
Vide gli occhi grigi scandagliarlo dalla testa ai piedi, si soffermò sulle sue mani e poi risalì fino al volto, e Charles si sottopose al suo esame restando immobile, rilassato, certo di poterlo superare.
Si sbagliava: << Possiamo andare via se vuoi >> quel tono rassicurante poteva benissimo ficcarselo...
Altro respiro profondo << Sto benissimo. Un capogiro >> << Colpa mia di nuovo? >> << Felice di scoprire che ricami su di me più di quel che pensassi >> << Charles... >> lo superò per andare a lavarsi le mani, sollevato dell’acqua fredda sulla pelle bollente << È per qualcosa che abbiamo detto? >> << Possiamo rimandare per favore? Hai lasciato tua madre da sola al tavolo? >> aggiunse come se la cosa gli importasse davvero.
Gli importava?
Non ne era così sicuro.
Si incamminò, ma Erik lo fermò prendendolo per un braccio, portandolo così a liberarsi di riflesso << Se dico che sto bene significa che sto bene >> << Se dici che stai bene significa che non stai bene affatto >> ribatté Erik, con molta più confidenza di quella che avrebbe dovuto dimostrare dopo sole due settimane.
Ma ancora non era così arrabbiato da rinfacciarglielo << Direi che sono ufficialmente stufo di questa conversazione >> dichiarò, non voleva litigare nel dannato bagno di un ristorante, e riuscì a sgattaiolare fuori prima che potesse fermarlo di nuovo.
No, non era un segugio, era un treno.
Edie era al tavolo ad occuparsi dei suoi piccoli maki e quando sedette, grazie al Cielo, non gli fece pesare alcunché, limitandosi a parlare come se nulla fosse.
Non era stupida, non lo era affatto, ma a differenza del figlio aveva abbastanza tatto da capire che lui non poteva rispondere alle domande che sicuramente aveva suscitato in lei.
Parlò del notiziario, di argomenti lontani da loro ma in cui potevano comunque interagire, riuscì persino a farlo ridere quando cominciò a chiedergli di sfatare alcuni miti sugli inglesi.
Per la fine del pranzo non riuscì più ad odiarla.
L’invidia restava cocente e dolorosa, ma non si può portare rancore ad una persona simile, anzi, quando propose di fare una passeggiata per il ritorno non ebbe cuore di rifiutare << Vado a pagare >> fece Erik alzandosi, limitandosi ad un’occhiataccia quando Charles accennò ad accompagnarlo, quindi restò con Edie e la aiutò ad indossare il cappotto << Ti ringrazio >> gli disse lei non appena il figlio fu lontano, cogliendolo un po’ di sorpresa a dire il vero << Per cosa? >> lei indicò la cassa a poca distanza con un cenno del capo << Per Erik, naturalmente. Non tutti si sarebbero fidati >> << È una brava persona >> lei gli posò una mano sulla guancia in una carezza affettuosa << Anche tu >> chiuse i bottoni e strinse il bavero sotto il collo << Ha fatto qualcosa che non avrebbe dovuto? >> domandò poi, noncurante, ma Charles si sentì comunque infiammare le guance << N-no, perché avrebbe... >> << È peggio di un toro quando punta le corna verso un bersaglio, lo so bene. E tu sei una persona gentile... se vuoi che sia io a dirgli qualcosa, lo farò >> << Erik è rispettoso e impeccabile. Un po’ testardo, ma... lo sono anche io, quindi non posso lamentarmi. Niente in lui mi ha mai fatto pentire della fiducia che gli ho riservato >> lei prese il braccio che le porse nell’uscire, sorridendo soddisfatta, e si incamminò decisa verso la porta certa che Erik li avrebbe seguiti.
Cosa che effettivamente fece, senza mettersi in mezzo, affiancando semplicemente Charles senza dire una parola << Stai frequentando qualcuno, caro? È così che si dice adesso, giusto? >> lo fece ridere di nuovo, si fingeva più vecchia di quel che era e la cosa la divertiva << No. Da almeno un anno ormai >> cercò di non guardare Erik.
Cercò di non pensare che stava parlando alla madre del ragazzo che gli si era dichiarato meno di due settimane prima.
E che sapeva tutto.
C’era qualcosa di sbagliato in tutto quello, decisamente << Oh, mi piacciono i pettegolezzi >> commentò lei accomodandosi i guanti di pelle sulle dita << Lei si chiama Moira. Vive a Washington ma era a Londra in... vacanza? No, non era una vacanza. Più un lungo periodo di aspettativa dal suo lavoro. Aveva un lontano zio che viveva lì, ma lei è americana >> << Che lavoro faceva? >> << FBI >> la donna spalancò gli occhi << Sembra l’inizio perfetto di un buon poliziesco! >> come faceva a commentare una cosa del genere?
Erik si limitò a scuotere il capo senza interferire, come fosse una scena già vista << Beh, difficile contraddire una cosa simile. Era appena uscita da un caso lungo e complicato, l’ho conosciuta come paziente di uno degli analisti che ho intervistato per le mie ricerche. Una cosa piuttosto banale in realtà... >> << In sala d’attesa? >> indovinò lei attenta << Esattamente >> << Proprio come in un romanzo >> << Solo perché leggi troppi libri della Cromwell >> la contraddisse Erik atono, ricevendo un’occhiata truce in risposta, ma lo esortò a continuare << Ad ogni modo, per puro caso ci ritrovavamo in quella sala piuttosto spesso, perciò alla fine le ho chiesto di uscire >> le cose erano andate grossomodo proprio così, tranne per il fatto che lei era vergognosamente più bella di lui, più grande e affascinante, era ancora convinto che lo avesse assecondato solo e soltanto per pietà, ma non aveva mentito ad Erik: non l’aveva amata.
Lo aveva creduto, almeno all’inizio, lei era bellissima e brillante e lui invece un ragazzino appena libero dalla zavorra della famiglia, dopo il primo anno però si era reso conto che Moira non era troppo diversa dal resto che componeva la sua vita, troppo importante per separarsene del tutto, troppo poco per costruirvi qualcosa di vero.
Non le aveva parlato della sua mutazione, ma lei insisteva con le domande, aveva trovato gli inibitori e li aveva addirittura fatti analizzare pensando che lui fosse un tossicodipendente di qualche genere, un poliziotto resta un poliziotto dopotutto, perciò alla fine aveva dovuto raccontarle tutto.
Lei insisteva perché le mostrasse il suo potere, non gli credeva, così l’aveva accontentata anche a costo di nausea ed emicrania, e per un momento, quel minuscolo momento in cui le loro menti erano state unite, Charles aveva pensato dal profondo della sua anima che fosse lei, la Lei.
Poi aveva visto la paura, il sospetto, quel passo indietro che aveva fatto inconsciamente per sfuggire a quell’intimo tocco, e allora ogni incanto e finzione si erano frantumati.
Le aveva cancellato la memoria, aveva semplicemente eliminato dai suoi pensieri la sua presenza, era stato penoso non trovare nessun sentimento da soffocare in lei, e in pochi istanti Charles Xavier per Moira era diventato il ricordo sbiadito di qualcuno che non si vede da tempo.
Le aveva lasciato la macchina per tornare a casa, quindi si era trascinato nel primo hotel, aveva vomitato l’anima, poi aveva bevuto, di nuovo vomitato, e dopo due giorni di agonia aveva giurato a se stesso che non avrebbe mai più rivelato a nessuno quel che era capace di fare.
Un altro giuramento gettato alle ortiche.
A Edie comunque riservò la versione più breve << Non ha funzionato >> lei assentì come se la sua risposta fosse sufficiente, proseguendo poi senza parlare per qualche minuto, pensosa.
Ebbe conferma che era la madre di quel segugio grigio che li accompagnava con la domanda successiva << Sapeva della tua... telepatia? >> << Più o meno >> << Immagino che non sia una cosa semplice da digerire >> << In realtà io non uso le mie capacità, perciò... >> lei schioccò la lingua contro il palato con disapprovazione, ma non disse altro.
Si chiese come potesse accettare la cosa così facilmente da pensare che fosse sbagliato nasconderla.
Cosa l’aveva portata a pensare una cosa simile? Possibile che il solo fatto di essere sua madre le rendesse accettabile quello che era?
Era pur vero che la mutazione di Erik era magnifica, eccezionale, solo per puro autocontrollo non lo aveva costretto a utilizzarla decine di volte per soddisfare la sua curiosità, non voleva che il loro rapporto si complicasse ancora di più, ma quella donna non era preoccupata che un simile potere potesse renderlo diverso?
Erik si sentiva tale?
Mentre raggiungevano la piccola casetta a schiera con il minuscolo giardino sul retro però, mentre salutava quella donna troppo buona e troppo bella per non far male, Charles fu più consapevole che mai di essere l’unico a sentirsi diverso, e finché così fosse stato né Sharon, né chiunque altro lo avrebbe mai accettato.


NA: Grazie mille per essere arrivati fin qui!! Vi adoro tutti per il fatto che la leggiate e spero tanto che vi piaccia :) Personalmente mi sta dando parecchie soddisfazioni, quindi spero sia lo stesso anche per voi! <3

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


A mano a mano che il tempo passava e la partenza si avvicinava, quella che era stata solo irritazione e indolenza si era trasformata in vero e proprio terrore.
Non voleva partire. Ogni cellula che lo componeva non voleva tornare a Westchester.
Non voleva vedere sua madre, non voleva vedere Kurt, e sopra ogni cosa al mondo non voleva vedere Cain << Non andare allora >> gli disse Erik.
Era troppo tardi per la tavola calda e lui non voleva tornare a casa per non dover preparare la valigia, quindi il compromesso era stato ritirarsi in un piccolo locale del centro, non alla moda perché non era affollato, uno di quei pub irlandesi dove si può sempre trovare un posto lontano dalle orecchie di tutti perché è proprio il genere di luogo in cui si va per bere in santa pace.
Quella sera era anche più intimo del solito visto che era lunedì, Erik indossava ancora il suo completo da lavoro infatti, si era solo tolto la cravatta e aveva ripiegato la giacca sul sedile di ecopelle scura.
Lo aveva chiamato sapendo che stava lavorando? Sì.
Aveva saputo prima di farlo che avrebbe accettato? Sì.
Si era preoccupato che fosse stanco o avesse altri programmi? No.
Si sentiva in colpa per questo? Mmm... domanda di riserva?
Guardò il suo bicchiere di whiskey e lo mandò giù in un grosso sorso, provando una sorta di sinistra soddisfazione all’idea di presentarsi a casa con i postumi di una sbornia << Charles, se non vuoi fare una cosa, nessuno ti costringe >> da ottimo secondo bevitore, Erik lasciò che si riempisse il bicchiere e continuò a centellinare il proprio << Tu dici? >> era andato fiero della propria resistenza all’alcol.
La sua lucidità era un muro di granito che niente riusciva a buttar giù, tranne ovviamente liquore scozzese invecchiato di trent’anni, per il semplice motivo che niente può essere così solido, e il barista era sembrato entusiasta di trovare qualcuno che volesse usarlo per quello scopo, anche se ovviamente era un vero e proprio insulto alla Scozia << Charles... per favore. Tutto questo ha dell’assurdo >> ripeteva spesso il suo nome. Bisogno di conferme o bisogno di suscitarne...?
Il suo modo di farlo era molto particolare, come fosse un suono conosciuto e ripetuto più volte, e nonostante fosse un americano di nascita non aveva cercato di affibbiargli nessun “Charlie” e nessun “Chuck”, come quei mostri trogloditi cercavano di fare la maggior parte del tempo << Ti parlerò un po’ della mia famiglia, Erik. Vuoi? >> in qualche modo lo vide irrigidirsi, guardingo, e gli occhi di mercurio andarono alla bottiglia piena per metà.
O vuota per metà << È qualcosa che non mi diresti da sobrio? >> domandò cauto << Sono sobrio. Ti posso assicurare che lo sono >> << Ho delle riserve a riguardo >> << Posso elencarti gli elementi della tavola periodica se può farti stare meglio. Con peso specifico e numero atomico >> l’azzurro nelle sue iridi divenne più cupo, riverberò nel grigio come la nota di un diapason, dando profondità ad uno sguardo che già di per sé sembrava capace di attraversare i muri, ma ormai cominciava a farci l’abitudine, tanto più che non doveva temere nessuna minaccia da parte sua << Ti ho parlato di mio padre. Hai fatto qualche ricerca? >> << Non faccio ricerche sui miei amici >> Charles ridacchiò, perché da parte sua non era stato così onesto << Beh, di Brian Xavier ricordo solo due cose: aveva i capelli come i miei e le uniche volte che parlavamo era riguardo alla mia telepatia. Ne era affascinato. Kurt Marko, il mio patrigno, non era da meno. Lui rappresentava la parte del ricercatore antropologico, quel che in realtà è oltre che biologo e tante altre cose, quindi era quest’ultimo ad intervistarmi la maggior parte del tempo. Accanto a me, più grande di due anni, sedeva Cain >> << Il tuo fratellastro >> << Esattamente. È un mutante potente anche lui, ma meno di me. A detta di mio padre nessuno poteva essere più potente di me, giacché controllo le menti e di conseguenza anche le capacità dei possessori delle stesse. Un ragionamento che ha del terrificate già di per sé, ma prova a dirlo ad un adolescente che deve lottare per l’attenzione del padre e può diventare catastrofico >> << Parli di te o di Cain? >> lo guardò.
L’unica altra persona che sapeva quelle cose era Raven.
Perché le raccontava ad Erik?
La verità, per quanto cinica e bastarda, era piuttosto semplice: aveva bisogno di farlo, e Erik lo amava abbastanza da non giudicarlo per questo.
Se ne stava approfittando, probabilmente lo sapevano entrambi, ma non gli importava abbastanza.
Lo faceva avvicinare ancora a sé, eppure non quanto avrebbe voluto << Entrambi >> confessò, e bevve per suggellare le sue parole << Cosa è successo? >> Charles si appoggiò allo schienale a quella domanda, sentendo finalmente qualche muro tentennare, quindi si prese un istante per mandar giù un’altra pillola per sicurezza visto che aveva intenzione di lasciarsi andare << Avevo dieci anni, non sapevo controllarmi, ma quel che feci fu più o meno intenzionale. Durante l’ennesimo litigio, Cain si immobilizzò come una statua, si voltò verso il padre che stava registrando come al solito le nostre reazioni e lo scaraventò con un pugno dall’altra parte della stanza >> << Glielo ordinasti tu? >> Charles si strinse nelle spalle perché non c’era altro modo di rispondere diverso da quello << Probabilmente. Non posseggo un ricordo molto preciso della cosa >> << Dio, dev’essere stato terribile >> << Certo che lo è stato. Kurt si è ripreso dopo più di tre settimane di coma, pareva fosse stato investito da una macchina nel suo laboratorio e... >> << Per te, Charles. Dev’esserlo stato per te >> inutile dire che lo stupì quella precisazione << Per me? >> Erik sbuffò sollevando un sopracciglio, come credesse fosse ovvio << Immagino sia stato dopo quell’episodio che tuo padre pensò agli inibitori >> << Sì >> non poteva rispondere diversamente.
Vide rabbia in lui, qualcosa di simile al vero e proprio rancore, e toccò a lui prendere il bicchiere e prosciugarlo del suo contenuto, sibilando un’imprecazione che Charles non comprese << Fare una cosa sbagliata non significa essere sbagliati, Charles. Sei un dannato psicologo, giusto? Dovresti saperlo >> << Ti darei ragione se quel momento non avesse cambiato la vita dei Marko come invece è accaduto. Invece di essere terrorizzato da me come era giusto che fosse, per Kurt divenni una vera e propria ossessione. Continuava a blaterare sul fatto che potessi conquistare tutto il mondo se lo avessi desiderato, il mio potere e quello di Cain insieme mi avrebbe reso inarrestabile, e Dio solo sa cosa sarebbe successo se mio padre non avesse soffocato la mia telepatia, perché Kurt non sembrava affatto preoccupato dal fatto che Cain non volesse essere controllato >> << Questi due vivono insieme adesso? >> Charles scoppiò a ridere del tono incredulo di Erik << Cain è una di quelle persone a cui non è mai interessato lavorare e avere un padre come Kurt glielo ha permesso >> << Soprattutto dopo il matrimonio con tua madre, immagino >> eccome!
Dopo tutti quegli anni Charles ancora non si capacitava di come Sharon l'avesse sposato.
Forse era stato semplicemente la scelta più logica, forse si erano amati da prima, anche se una relazione clandestina implicava più sentimenti di quanti fosse umanamente possibile stipare dentro sua madre, forse somigliava a suo padre più di quanto lui non notasse << Beh, questo piccolo aneddoto spiega perché tu possa trovare spiacevole passare il Natale con loro, ma non perché ti stai ubriacando all'idea di doverlo fare >> << Non ho nessuna voglia di fingere di far parte della famigliola felice, Erik. È così difficile da capire? >> << Beh, Cain non dovrebbe più essere così preoccupato da te visto che sono passati più di dieci anni e sei ormai senza poteri >> certo.
Preoccupato << Quel che ti ho detto di lui, non significa che Kurt non gli faccia pesare quel che io sono. Sarebbe una persona decente se suo padre non gli ricordasse sistematicamente che ogni cosa che fa, qualsiasi, io potrei farla meglio. Mi odia. Quel che penso io è irrilevante >> << Odio addirittura? >> c'era una nota estranea nel suo tono questa volta, minacciosa, oppure preoccupata, ma ad ogni modo Charles decise che non gli importava abbastanza e si limitò a riempirsi il bicchiere dopo averlo svuotato per l'ennesima volta << Odio >> confermò << Hai presente quando ti ho spiegato la sensazione di qualcuno che pensa a me? >> << Hai detto che è come ricevere un colpo alla testa >> << Esattamente. Beh, con lui mi succede tanto spesso da farmi venire l'emicrania. Costantemente, capisci? E lo sa, solo non gli importa >> << Che gran bastardo >> beh, difficilmente poteva contestare una cosa simile << Naturalmente fingiamo tutti che così non sia. La prima volta sarà la peggiore, ma dirò che sono un po' stanco per il viaggio. Poi mi limiterò a nasconderlo, Raven sarà irritabile perché io lo sono, così dirò ad Iron di accompagnarla a fare compere, così non dovrà restare in casa con me e Cain che fingiamo di tollerare la nostra reciproca presenza. Sharon si fingerà entusiasta di vederci, i “suoi uomini” tutti insieme, proporrà di bere qualcosa e io rifiuterò per non vomitare sul dannato parquet, così darò a Cain il pretesto di pensare che io sia una ragazzina che non riesce a reggere nemmeno una birra. Oh, che cosa terribile ho appena detto… Raven mi ucciderebbe se lo sapesse >> << Siamo tra uomini. Non mi offenderò per il tuo sessismo, stai tranquillo >> << Molto gentile >> << Dovere >> lo assecondò quello con una risatina, continuando a guardarlo come se non vi fosse niente di altrettanto interessante nell'intero universo.
Charles avrebbe anche potuto abituarsi ad essere guardato così.
Erik non si rendeva minimamente conto di quanto lui fosse affamato di tanta attenzione.
Per tutta la vita aveva cercato di sembrare quello che non era, spaventato da quello che poteva essere al punto da non voler divenire affatto, cristallizzato nella propria condizione da quando era un ragazzino, e se Erik non fosse stato… beh, se non fosse stato ciò che era allora probabilmente non si sarebbe fatto molti scrupoli.
Se fosse stato una donna avrebbe detto a se stesso che l'amava, l'avrebbe baciata sin da quello strano incontro alla tavola calda, avrebbe facilmente fatto credere a lei di essere l'uomo della sua vita, crogiolandosi in quell'amore caldo e avvolgente senza doversi scontrare con tutto il resto.
Invece Erik era un uomo, e questo aveva fatto sì che quel primo momento d'incanto non vi fosse, aveva impedito di nascere alla menzogna che aveva facilmente intessuto con Moira in passato, e quando aveva finalmente realizzato di aver bisogno di quell'amore, aveva ormai anche metabolizzato il fatto di non poterlo ricambiare in alcun modo.
Eppure continuava a sfruttarlo. E Erik glielo permetteva per giunta.
Si sentiva un verme per questo, fingeva di non vedere e dava false speranze, eppure non poteva farne a meno << Davvero non capisco cosa ci trovi in me >> le parole gli uscirono prima che potesse trattenerle.
Erano ingiuste, se ne rendeva conto anche da solo, voleva rimangiarsele subito dopo, eppure non lo fece, ogni obiezione prosciugata da come Erik lo guardò.
E rispose.
 
*
Non era stato particolarmente entusiasta quando Darkholme lo venne a trovare nel suo ufficio per annunciare che aveva del lavoro per la Vigilia.
Di nuovo sul campo per giunta, e l’unico motivo per cui aveva accettato fu che gli aveva garantito i giorni per le sue festività.
Si rifiutò categoricamente di visionare il progetto prima del giorno dopo, non aveva alcuna intenzione di far tardi per un lavoro che non aveva voglia di fare, ma fortunatamente la chiamata di Charles giunse prima del suo senso del dovere, donandogli il pretesto giusto per andarsene senza sensi di colpa.
Non aveva pensato che volesse ubriacarsi.
O meglio... tra le cose che sapeva di lui la propensione all’alcol non era un mistero, il suo allarme inconscio lo avvisava che poteva essere un potenziale pericolo, forse già affrontato in passato, ma cercava con tutto se stesso di non darlo a vedere.
Di solito beveva solo qualche bicchiere di vino a casa, qualche pessimo aperitivo scelto da Raven quando uscivano, ma quel che il barista aveva posato sul tavolo era vero e proprio scotch, annata 1983, di un ambrato scuro che preannunciava il magnifico profumo che emanò non appena fu versato nei bicchieri.
Vederlo mandar giù il primo in un unico sorso fu quasi uno shock, trasalì, ma Charles non cedette di nulla, limitandosi a versarsene ancora.
La bottiglia si svuotò ad un ritmo vertiginoso mentre parlava, cercava con tutto se stesso di non pensare ai danni che quell’alcol avrebbe potuto fargli, si sentiva un vero idiota a lasciarlo fare quando avrebbe potuto perderlo a causa di questo, ma continuò a focalizzarsi sulla conversazione, da bravo migliore amico, rispose e commentò, anche se dentro di sé tutto ciò che voleva era strappargli quel bicchiere di mano e ficcargli due dita in gola per fargli vomitare tutto il veleno che aveva ingerito.
Quanto pesava? Settanta chili scarsi...
Scoprire che era ancora sobrio non lo tranquillizzò.
Probabilmente aveva a che vedere con la sua mente, non doveva essere facile mettere a tacere quel posto così affollato e stipato, ma per certo l’alcol non era la migliore soluzione.
Dio, non aveva certo provato qualcosa di peggio, giusto?
No, non era così stupido. E teneva troppo alla sua intelligenza per bruciarla con qualche schifezza.
O almeno lo sperava.
Nemmeno ascoltarlo lo tranquillizzò.
Dovendo lottare principalmente per i soldi, Erik non si era mai preoccupato delle migliaia di altri problemi che sopraggiungono quando di soldi se ne hanno in abbondanza.
Aveva sempre pensato che i ricchi figli di papà con la vita spianata non avessero preoccupazioni se non quelle che loro stessi creavano per sé, ma ascoltare la vita di Charles lo aveva fatto ricredere.
Avrebbe dovuto trovarlo prima.
Prima di Cain, prima di suo padre, prima di ogni cosa.
Lo avrebbe protetto da tutto quello schifo e adesso non sarebbe stato così terrorizzato all’idea di tornare a casa da doversi ubriacare per trovare il coraggio di farlo.
Sembrava che, esclusa Raven, ogni persona intorno a lui non si preoccupasse minimamente di ferirlo, come se fosse invulnerabile o intoccabile, e invece il suo corpo era letteralmente ricoperto di cicatrici causate da questa incuria.
Quel modo di sorridere ad esempio, lo sguardo che si perdeva nel niente in alcune occasioni, l’ostinazione con cui nascondeva tutto ciò che pensava.
Si chiese se fosse sempre stato così, in ogni sua vita.
Si chiese come fosse riuscito a conquistarlo << Davvero non capisco cosa ci trovi in me >> quella domanda lo colpì con violenza fisica, se la sentì sulla pelle, completa dello sconforto, dell’incredulità e della disillusione che trasudavano da Charles sin da quando aveva preso il primo sorso da quella bottiglia.
Si ritrovò a fissare quello sguardo turchese, le pupille dilatate galleggiavano sulle iridi spalancate come un cervo pronto al proiettile, le labbra rosse di sangue erano leggermente umide, un invito per chiunque e che lui si sforzò di ignorare con ogni briciolo del proprio autocontrollo, aggrappandosi al tavolo per non fare gesti stupidi << Sei una persona meravigliosa, Charles >> riuscì a dire infine, dopo un paio di tentativi, scegliendo con cura le parole.
Aveva giurato, e niente gli avrebbe fatto spezzare quel giuramento, anche a costo di andarsene.
Cercò di distogliere lo sguardo, finendo però per osservare la vena guizzante che tremava fuori del suo colletto slacciato, così vicina e la pelle così chiara che traspariva verdognola anche alla luce fioca del locale, quindi scese ancora più in basso, verso il legno del tavolino, ma anche guardare quelle mani mangiucchiate e forti non fu d’aiuto << In tutta sincerità non capisco perché tu ti nasconda, odio che qualcuno sia stato capace di farti disprezzare tanto te stesso da sentire la necessità di non mostrare a nessuno come sei veramente, eppure ne sono anche intimamente felice perché il fatto che lo mostri a me significa che ti fidi. Non sottolineerò l’ovvio, quindi tralascerò l’aspetto fisico, ma non riesco ad immaginare una singola persona che dopo aver visto chi sei possa ancora odiarti o evitarti. Sei speciale, anche un cieco se ne accorgerebbe. Probabilmente è questo che odia Cain. E anche tua madre. Ti temono. E fanno bene a farlo >> si schiarì la gola perché se la sentiva tesa e secca, quindi bevve un altro sorso di scotch anche se probabilmente non era una buona idea.
Lo aveva appena fatto quando sentì la mano di Charles sulla sua guancia per voltargli il capo, un gesto gentile eppure esigente per obbligarlo a guardarlo.
Si immobilizzò, il suo fiato evaporò nel nulla, lasciandolo ad occhi spalancati mentre fissava l’altro a brevissima distanza.
Per la prima volta da quando si conoscevano, ebbe l’impressione che Charles lo guardasse.
Non mosse un muscolo mentre le pupille tracciavano i contorni di ogni suo lineamento, il suo cuore accelerò d’adrenalina e ogni suo neurone lo supplicò di coprire quella distanza ridicola e prendere la sua bocca, ma il timore ghiacciò le sue vene come un cancro, l’immagine del pugnale affondato nel suo petto lo investì ferocemente, ricordandogli che già altre volte aveva mandato tutto a monte << Vorrei essere come te >> disse Charles, solo un sussurro, eppure parve una confessione proveniente direttamente dal cuore << Ti invidio. E mi dispiace per questo >> << Cos’hai da invidiarmi? >> la mano tornò ad abbassarsi, gli occhi anche, e la frangia di capelli gli nascose il suo volto per il tempo sufficiente a sentirlo imprecare.
Adorava il modo in cui lo faceva.
Quel suono morsicato, trattenuto, le labbra serrate per un istante << La forza. Il tuo affrontare ogni cosa senza timore delle conseguenze. Non so davvero come tu faccia >> << Se solo ti permettessi di essere chi sei veramente... >> si interruppe, rendendosi conto che non erano parole sue quelle che stava pronunciando.
Le aveva già sentite altrove, un deja-vu, ma prima che il ricordo si ricostruisse nella sua mente sapeva già chi lo aveva fatto << Se solo lo permettessi a te stesso, potresti superare qualsiasi ostacolo o sofferenza. Abbi fiducia nelle tue capacità e troverai senz’altro qualcuno che farà lo stesso >> sussurrò con un sorriso sulle labbra.
*
Con un forte strattone si liberò della sua presa, cercò di sfuggire, ma l’altro si gettò su di lui subito dopo, atterrandolo e facendolo sbattere forte contro l’asfalto sudicio.
Imprecò mentre per un momento vedeva le stelle, ma il suo corpo non smise di dibattersi: sollevò il peso che lo immobilizzava con relativa facilità, ma un pugno nelle reni lo fece ricadere di nuovo, e un altro lo convinse a non riprovarci << Maledizione, Erik, sta fermo! >> << Fermo? Mi prendi per il culo? >> cercò di nuovo di divincolarsi, ma quel maledetto ragazzino sapeva decisamente il fatto suo.
Teneva un ginocchio premuto sul suo osso sacro, l’altra gamba immobilizzava la sua mano destra mentre le sue invece trafficavano tra le manette e la sua sinistra << Non posso lasciarti andare e lo sappiamo entrambi >> << Sappiamo anche che non verrò con te, quindi è meglio che mi piazzi una pallottola in fronte e la facciamo finita >> con una torsione lo ammanettò, ma non si sollevò, limitandosi a farlo voltare per mettersi di nuovo cavalcioni su di lui, una posizione che, lo sperava di tutto cuore, non assumesse con gli altri quando li arrestava.
La camicia bianca era fradicia per la pioggia, gli aderiva addosso come una seconda pelle, e le bretelle blu adesso parevano nere sotto l’acqua impietosa << Perché non mi hai ucciso? >> volle sapere, anche se la risposta era ovvia, ovvia come la voglia che aveva di prenderlo lì e subito, anche ammanettato perché non importava, ovvia come il fatto che Charles gliela leggesse negli occhi << Piantala con le idiozie, Erik! Sono morte due persone! >> << Non mi importa >> si chinò su di lui, così bello, cazzo sì, anche con la barba non fatta e le occhiaie e i capelli così grondanti.
La sua bocca sapeva di tabacco, un profumo inebriante per lui perché significava Charles, significava baci e labbra morbide e lingua che danza, significava caldo e anche sesso divino.
Il profumo del tabacco era diventato parte integrante della sua vita ormai, più familiare e ben voluto del sole nella fottuta Parigi << Non posso, non posso, non posso! >> gemette contro di lui, il suo uomo di legge combattuto tra il consegnare alla giustizia il criminale che terrorizzava la città o fuggire invece insieme a lui << Certo che puoi. Vieni con me. Andiamo via. Possiamo andare in America. Non ci troverà nessuno >> lo colpì con un pugno alla spalla, il che fu doloroso visto che era ammanettato con le mani dietro la schiena << Per te è tutto così facile, vero? Ci troveranno. Sospettano già che io ti stia aiutando! Se non ti porto alle prigioni ora... >> con un piegamento si sollevò, divorando la distanza che li separava e zittendolo con un bacio.
Sentì le sue mani frai suoi capelli, l’urgenza nei palmi, nel respiro << Erik... no... Erik... >> cos’era il suo nome se non l’ornamento per quella voce?
Aveva senso possederlo se non era Charles a pronunciarlo?
Sentì le manette sparire senza che lo chiedesse, si ritrovò a cercare la sua consistenza, abbassò le bretelle senza smettere di baciarlo, Charles aderiva a lui come potessero unirsi tramite quel contatto, e non importava che fossero in un vicolo buio, non importava che uno vivesse nella luce e l’altro nelle tenebre, perché in quel momento nessuno dei due desiderava qualcosa di diverso dal fondersi e perdersi nel calore dell’altro << Lo farai di nuovo >> ansimò Charles, straziato, eppure non lo lasciò andare.
Erik fermò le mani che lo stavano spogliando, specchiandosi nel suo azzurro << Francia, America... non importa. Tu non vuoi cambiare >> << Posso farlo per te >> gli prese il volto tra le mani, lo baciò casto, poi appoggiò la fronte alla sua, chiudendo gli occhi << Non voglio che tu lo faccia per me >> sussurrò << Se solo ti permettessi di essere chi sei veramente... potresti superare qualsiasi ostacolo o sofferenza, Erik >> << Chi sono veramente? Credo che tu lo sappia più di me >> << Abbi fiducia nelle tue capacità e troverai senz’altro qualcuno che farà lo stesso, proprio come ho fatto io >> << Nessuno è come te >> lo fece sorridere, ma prima che potesse rispondergli un boato assordante spezzo l’aria.
Charles spalancò la bocca, ma non emise un suono, ricadendo invece di fianco a lui << Lurido figlio di puttana, lo sapevo! >> sentì Erik, ma non si voltò a guardare l’uomo in uniforme all’entrata del vicolo che aveva urlato.
Trattenne la caduta di Charles invece, finendo sbilanciato nel vederlo incapace di fare altrettanto, quindi il massimo che riuscì a fare fu impedire che cadesse malamente.
Vide il sangue.
Un fiore rosso sbocciò sul davanti della sua camicia, rubandogli il respiro.
Non decise di uccidere il gendarme: afferrò la pistola che Charles portava alla cintura e sparò senza nemmeno prendere la mira, fulmineo, gli scaricò nel torace tutto quello che aveva.
Fu colpito ovviamente, sentiva il sapore del sangue e da qualche parte il suo cervello gli trasmise anche dolore, ma non aveva oggettivamente spazio per pensare a se stesso << Va tutto bene >> sussurrò Charles, anche se tremava come una foglia, pallido adesso, e sollevò una mano a toccargli il viso.
Erik sentì il suo tocco, ma subito dopo il suo corpo si accartocciò su se stesso, facendolo crollare al suo fianco << Ti ha colpito >> ansimò colui che deteneva la sua stessa anima, e fu grato ad ogni divinità conosciuta e non di star morendo con lui << Mi dispiace >> si ritrovò a dire << Non importa >> tentò di avvicinarsi a lui ma ormai non ne era più capace, non ne sarebbe stato mai più capace, perciò fu Erik a farlo.
Strisciò sull’asfalto ruvido e lo strinse a sé, lo baciò, lo riempì di baci, finché nessuno dei due  fu più in grado di darne altri e si ritrovarono semplicemente a guardarsi, uno di fronte all’altro mentre la morte si avvicinava.
Il loro sangue si era fuso come i loro respiri, bagnava non solo i loro abiti ma anche il terreno, mescolandosi con la pioggia e formando così una macchia sempre più grande sul nero che pian piano stava invadendo ogni cosa.
Erik sentì alcuni passi avvicinarsi in lontananza, ma Charles aveva già le palpebre pesanti e non importava nient’altro ormai << Pensavo che avrei avuto freddo a questo punto >> la voce uscì fioca, non l’avrebbe sentito se non fossero stati così vicini.
Sentì altre voci, ma ignorò anche quelle << Ti amo >> fu l’ultima cosa che Charles disse.
E che Erik sentì.
 
 
A differenza del solito Erik non si svegliò di soprassalto dopo il sogno, aprì semplicemente gli occhi invece e si ritrovò a fissare l’armadio attraverso una patina di lacrime.
Era stato diverso questa volta. Un altro ricordo, probabilmente dovuto alla conversazione avuta con Charles la sera prima.
Si passò la mano sugli occhi per asciugare quel pianto di un se stesso che non era più lui, e per un momento soffocò il volto nel cuscino per allontanare le sensazioni terribili che gli erano rimaste impigliate addosso.
Aspettò il suono della seconda sveglia anche se non lo faceva mai, ma anche una volta che si fu costretto in piedi la sensazione del proprio corpo sempre più freddo e del cuore di Charles sempre più lento non lo abbandonò.
Quindi c’erano state volte in cui non era stato lui ad ucciderlo.
Restava colpa sua, ma almeno...
Si sollevò in piedi con un’imprecazione, il che la diceva lunga su come si sentiva visto che la giornata era solo al suo inizio, e in quell’esatto momento qualcuno trovò opportuno suonare alla porta.
Era solo martedì mattina, maledizione!
Di nuovo un trillo << Arrivo! >> disse al niente, nessuno poteva sentirlo perché era dall’altra parte della casa, ma si costrinse ad alzarsi e andare ad aprire.
Aveva percorso metà corridoio quando gli eventi della sera prima si ricomposero nella sua mente ancora assonnata e improvvisamente fu molto contento di dormire vestito << Oh, cazzo >> gemette nel vedere Charles abbandonato sul divano.
Erano stati tutti e due troppo ubriachi per raggiungere il loft, quindi avevano deciso di fermarsi al suo appartamento, anche se dire che avevano deciso sarebbe stata un’esagerazione visto che a malapena ricordava il tragitto che avevano compiuto.
A stento si era tolto il cappotto e le scarpe << Erik! È inutile che Charles si sia nascosto qui! >> la voce di Raven lo fece sorridere suo malgrado, quindi decise di andare ad aprirle e lasciare che se la sbrigassero da soli.
L’occhiata che lei gli rivolse voleva essere minacciosa, invece divenne vagamente divertita mentre lo scandagliava dalla testa ai piedi.
Probabilmente appariva uno schifo come si sentiva << Lui è qui, vero? >> Erik si fece da parte per lasciarla passare, vedendola quindi avanzare a passo di marcia verso il divano << Charles! >> chiamò puntando le mani sui fianchi, con tale veemenza che i riccioli biondi si mossero con lei.
Dopo un istante il suono agonizzante di un “merda” proruppe dal divano e Erik sorrise ancora di più nel sentirlo << Metto su il caffè >> informò andando in cucina e dando un’occhiata all’orologio.
Aveva un’ora per entrare in ufficio, un’ora e mezza se avesse preso un taxi << Non riesco a credere che ti sia ridotto in questo stato quando dobbiamo andare da mamma! >> << Ti prego, Raven... Ti prego >> non disse altro, la supplicò e basta, alzandosi a sedere con un gemito da moribondo.
Tornò in tempo per vedere lei gettargli in grembo una borsa di pelle << Renditi decente. Iron ci passa a prendere tra mezz’ora >> ordinò, incurante del colore verdastro della pelle del fratello o delle borse sotto gli occhi iniettati di sangue << Ti odio >> disse lui, ma lei non fece una piega << È un tuo diritto. Puzzi di whiskey... a mamma verrebbe un infarto a vederti. Erik, può usare la doccia, vero? >> il suo tono non ammetteva repliche, quindi si limitò ad indicare la porta alla fine del corridoio soffocando le risate << Odio anche te >> lo avvertì Charles nel notarlo probabilmente, puntandogli contro un dito incerto prima di proseguire verso il bagno con la borsa stretta al petto come se lo aiutasse a mantenere l’equilibrio.
Raven diede in un lungo respiro profondo quando fu fuori dalla loro vista, sollevando quindi una busta di carta che prima Erik non aveva notato << Ciambelle >> disse, raggiungendolo e poi prendendo un piatto con noncuranza, come se fosse casa propria, posandole poi sul minuscolo tavolino davanti al ripiano della cucina << Grazie >> << Grazie a te per avergli impedito il coma etilico >> disse lei con un altro sospiro.
La macchinetta trillò per avvertirlo che il caffè era pronto, quindi versò una tazza per tutti e due, le posò lo zucchero perché lui lo prendeva amaro e la guardò sedersi con noncuranza e addentare una ciambella con glassa al cioccolato.
Ora che lo notava non era vestita come al solito.
Indossava un abito blu come i suoi occhi, con le maniche lunghe a sbuffo e la gonna al ginocchio, lei che di solito vestiva sempre alla moda e piuttosto casual, la sua borsa era firmata e dello stesso colore delle scarpe col tacco << Non sei così male >> disse lei << Beh, lo prenderò come un complimento >> ridacchiò Erik, ben conscio di essere ancora in “fase di prova” con lei, e bevve un sorso del suo caffè << Ha bevuto molto? >> chiese poi << Abbastanza >> non voleva mentirle, ma nemmeno tradire Charles << Probabilmente se fosse stato solo sarebbe stato peggio. Dovevo capirlo quando mi ha detto che usciva... >> << La prossima volta ti avvertirò se pensi che sia il caso >> << Lo faresti davvero? >> Erik si strinse nelle spalle << Capisco che tu sia preoccupata per lui e non deve essere piacevole non sapere dove sia. Pensavo ti avesse detto dove andava >> lei scosse il capo e posò il dolce, portandosi indietro i capelli con un respiro profondo << Sapevo che sarebbe stato qui se non era a casa. Non ha molti posti dove andare e amici anche di meno. Per fortuna mi ha dato il tuo indirizzo >> si prese un altro momento, massaggiandosi gli occhi prima di tornare a guardarlo << In realtà non dovrebbe andare >> rivelò in un mormorio << Se tenessi davvero a lui lo terrei qui. È andato ad Oxford perché era esasperato... non voglio che parta di nuovo. E lì sono sicura che non abbia qualche Erik a riaccompagnarlo a casa >> << Charles sa badare a se stesso anche se non sembra, è un adulto. E tu non puoi tenerlo da nessuna parte, non darti colpe che non hai >> lei sollevò un sopracciglio, sorpresa, poi ridacchiò << Credevo tu avessi una cotta per mio fratello, non per me >> risero entrambi, Erik non riuscì a trattenersi, posando infine la tazza per andare a vestirsi.
Avrebbe voluto farsi una doccia anche lui, ma se non voleva far tardi a lavoro doveva accontentarsi dei vestiti puliti per quella mattina: si vestì meccanicamente come faceva tutti i giorni, si prese qualche attimo di più solo per annodarsi la cravatta, e stava finendo quello quando dallo specchio vide Charles sulla porta.
Non sapeva da quanto fosse lì, non lo aveva notato, ma non permise a se stesso di fare pensieri sciocchi, comportandosi come doveva: << Ti serve qualcosa? >> << Hai un paio d’occhiali scuri? >> domandò l’altro, tenendosi per un momento la radice del naso con aria sofferente.
Aveva ripreso un po’ di colore, ma non smetteva di sembrare appena uscito da un brutto incontro con un tir << Certo >> andò alla cassettiera e glieli prese, fermandosi però un momento sul comodino per aggiungere un astuccio di aspirine << C’è il caffè ancora caldo di là. Arrivo subito >> non si avvicinò troppo.
Non dopo averlo avuto così vicino meno di mezz’ora prima.
Il sogno era stato così reale che sentiva ancora la sensazione della pioggia sulla pelle, ancora il profumo del respiro di Charles << Grazie >> gli disse quello << Fa nulla >> prima di indossare però gli occhiali gli prese la mano, fermandolo.
Troppo vicino << Di tutto, Erik >> non riuscì a parlare sotto quello sguardo.
Doveva ringraziare il cielo che non usasse i suoi poteri.
Si rendeva conto di quanto fosse... respiro profondo, Erik.
Assentì con il capo, così Charles lo lasciò e passò oltre.
Vedergli indosso i propri occhiali non avrebbe dovuto essere niente di che, e invece gli accorciò il fiato << Ecco il mio fratellone di ritorno dal regno dei morti >> disse Raven nel vederlo entrare << Guardati, sembri quasi un laureato di Oxford >> << Oh ti prego... dammi tregua >> incassò la presa in giro semplicemente versandosi il caffè, schermandosi il viso dal sole anemico che entrava dalla finestra del soggiorno.
In effetti Raven non aveva tutti i torti: indossava una maglia viola scuro su una polo bianca, pantaloni gessati neri e scarpe di cuoio lucidate a specchio.
Sarebbe sembrato davvero il ragazzo di buona famiglia che era se non fosse stato per i capelli umidi e la fronte corrugata.
Senza parlare del sibilo con cui camuffò l’imprecazione dopo il primo sorso di caffè << È amaro >> aggiunse, come se fosse un crimine contro l’umanità, anzi, come fosse un crimine contro di lui << È così che lo bevono i veri uomini >> commentò Raven indicando lo zucchero e Erik si sforzò di non ridere prima di prendere il latte dal frigorifero e posare anche quello sul tavolo << Che Dio ti benedica >> disse l’altro con sollievo << Sai che sappiamo tutti che sei ateo, vero? >> gli fece notare lei ancora, e questa volta Erik non riuscì a trattenere una risatina.
Charles aggiunse il latte nella sua tazza, bevve un lungo sorso e diede poi un’altrettanto lunga occhiata alla sorella << Dimenticavo che ti odio >> disse infine, ma accettò con un sorriso il bacio che lei gli diede sulla guancia.
Il campanello suonò ancora, questa volta quello del portone << Deve essere Iron. Andiamo >> << Hai bisogno di un passaggio, Erik? Il tuo ufficio è di strada e.. beh, direi che è il minimo >> propose Charles andando alla porta, e indicò l’orologio << Hai perso la metro ormai >> << Beh, ammetto che non sarebbe male arrivare in tempo >> il sorriso che gli rivolse era bello nonostante i postumi e il modo in cui vestiva i suoi Rayban gli fece capire chiaramente cosa gli avrebbe regalato per Natale.
Uscì per ultimo e chiuse la porta dietro di sé, raggiungendo gli altri due sull’ascensore << Mamma se ne accorgerà >> disse Raven << Beh, vorrà dire che per una volta sarò io quello meno sobrio ad un tavolo, tanto per cambiare >> << Il tuo umore peggiora parecchio quando sei in questo stato, te l’hanno mai detto? >> invece di risponderle, Charles si limitò ad attendere che le porte d’acciaio si aprissero di nuovo.
Davanti all’uscita li attendeva un uomo di colore in un abito di sartoria grigio scuro, di fianco ad un autista biondo in uniforme invece.
Erik guardò entrambi, e in qualche modo il primo, quello che Raven salutò, gli ricordò vagamente qualcuno anche se non avrebbe saputo dire chi.
Forse un attore. Oppure lo aveva già visto, seppur fosse improbabile.
L’auto era una Bentley blu scuro, talmente inglese che non si sarebbe stupito di sentire le cornamuse nell’aprire la portiera, ma non sarebbe rimasto a fissare come un idiota quel capolavoro di ingegneria meccanica, nossignore, avrebbe fatto la persona normale che doveva essere.
Quindi ignorò i cerchi, la linea che sembrava ripercorrere la mano di un uomo sulla sua donna, e si infilò di fianco a Charles e Raven sul sedile posteriore, senza dar peso nemmeno alla pelle chiara del sedile che non scricchiolò sotto il loro peso.
Sapeva che era ricco, non era un mistero.
Come non fosse felice di esserlo, quello lo era << Vostra madre sarà a casa per cena, signor Xavier >> disse Iron con voce profonda e chiara, senza accento.
Anche quella gli fu familiare e si odiò per non essere affatto fisionomista << Dillo pure a Raven, che è l’unica a cui importa qualcosa >> ribatté Charles acido, voltandosi poi verso il finestrino.
La sorella lo guardò, sospirò, poi si sporse per parlare con l’uomo << Cain e Kurt invece? >> << Sono arrivati questa mattina >> << Allora fai in modo di arrivare in ritardo per il pranzo. Io e mio fratello preferiremmo mangiare fuori >> << Come desidera, signorina >> signorina.
Non che non lo fosse, ma sembrava avere un altro significato quella parola detta da quell’uomo, quasi fosse un titolo vero e proprio.
E Raven, per la prima volta, gli sembrò persino ricalcarlo.
Quando raggiunse il suo ufficio aveva chiare almeno due cose.
La prima era che Charles possedeva molti più soldi di quel che avesse pensato.
La seconda era che se aveva capito almeno un po’ della sua famiglia, il fatto che fosse etero era l’ultimo dei suoi problemi.


NA: Scusate tantissimo per l'immenso ritardo, ma sono stata in vacanza e quindi ero un po' fuori dal mondo XD XD

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


 

La prima cosa che Emma aveva fatto quando glielo aveva detto era stato scoppiare a ridere.
Poi si era sforzata di tornare seria, ma alla fine aveva riso di nuovo e anche adesso era difficile farla trattenere << Quindi hai già conosciuto tua suocera! >> lo canzonò continuando a ridacchiare mentre mangiavano al solito ristorante, ma lui non riusciva a mandar giù nemmeno un boccone << Non ho fatto caso al nome. È stato prima che lo conoscessi...hanno un dannatissimo stemma, riesci a crederci? Una X bianca su sfondo blu. È sulla carta intestata, è sul fascicolo e io non l’ho visto fino a questa mattina! >> << Beh, vorrà dire che passerai la Vigilia con Charles. Romantico >> lui la fulminò con lo sguardo, ma come al solito quello le scivolò addosso come acqua.
Aveva ricordato Iron non appena si era seduto sulla sua sedia ergonomica.
Il segretario della donna bionda che sembrava scolpita nel marmo, sì, ma aveva controllato comunque il fascicolo che non aveva aperto la sera prima, riconoscendo sconfortato la firma elegante di Sharon Xavier sul contratto di inizio lavori << Oh, andiamo, non farne un affare di stato: basta che lo avverti, no? >> << Non mi risponde al cellulare. C’è solo la segreteria telefonica >> << Lei non vi ha lasciato nessun recapito telefonico? >> << Sei impazzita per caso? Chiamarla per chiederle di passarmi il figlio? Sento la voce di Darkholme che mi licenzia solo a pensarlo. Io ho bisogno di un lavoro per vivere >> lei tagliò il suo filetto di pesce con un sorrisetto furbo << Immagino tu abbia provato anche con Raven >> Erik però non rispose, rabbuiandosi << Se le chiedo di passarmi Charles mi chiederà perché >> << Puoi dirglielo, che male c’è? >> lui strinse le labbra d’impazienza, fissando il proprio piatto come fosse la causa di tutti i mali << Ho conosciuto la loro madre prima di loro. Penserà che abbia saputo da Sharon di Charles. Dubiterà di tutto di nuovo >> << Ottima occasione per vuotare il sacco >> << Al telefono? Tu ti prendi gioco di me. Non so nemmeno perché te ne parli a questo punto >> lei lo guardò da sotto la frangia di capelli biondissimi, e non ci fu dubbio che avesse capito dove voleva andare a parare << Me ne parli perché io sono amica di Raven e potrei spiegarle senza che fraintenda perché un certo stalker si presenterà a casa loro per la Vigilia di Natale >> un altro avrebbe negato, ma Erik non aveva alcun motivo per farlo, tanto più a qualcuno che poteva vedere in lui << Lo farai? >> si limitò a chiedere e lei sbatté le lunghe ciglia perfettamente truccate mentre masticava il suo boccone di spigola, prendendosi tutto il tempo prima di rispondere << Ad una condizione >> << Adoro il tuo affetto disinteressato >> ribatté sarcastico, ma avrebbe mentito se avesse detto che gli dispiaceva quel fare calcolatore << Mi inviterai come accompagnatrice al gala di fine anno della Fondazione Darkholme >> << Starai scherzando! Non andrò a quel ritrovo per... >> << Non sono io che ho chiamato te, ricordi? >> lui prese un lungo respiro profondo, lo trattenne per un attimo trai denti e poi lo rilasciò lentamente, ingoiando così la prima risposta che gli venne da dare a quell’arpia dal sorriso bianco e il cuore freddo come il suo nome.
Giunse quindi alla seconda risposta, più diplomatica << Va bene, ma perché? >> << Si tiene a casa Darkholme, giusto? C’è qualcosa che voglio verificare in quel posto >> sapeva che non le avrebbe strappato di più, quindi assentì.
Lei diede in un altro sorriso, bella e pericolosa come una tigre siberiana, e tornò alla sua spigola.
Erik si sentiva un poco sollevato a dire il vero, abbastanza da riprendere a mangiare << Sta funzionando la cosa del migliore amico, vedo >> << Oh, chiudi il becco >> non aveva bisogno di guardarla per sapere che stava gongolando, quindi si concentrò molto sul proprio piatto << Come hai conosciuto Raven? >> ci fu un momento di silenzio dopo quella frase, strano per una come lei, quindi sollevò il capo per capire cosa non andasse, ma l’unica cosa che lo ricambiò fu un sorriso smagliante e una perfetta faccia da poker << È una cosa di voi psionici quel sorriso, vero? Charles ne ha uno proprio uguale >> << Non capisco di cosa tu stia parlando. Io e Raven ci siamo conosciute semplicemente ad una festa >> << E come è successo che la figlia di uno degli avvocati più famosi di New York finisse alla stessa festa di Raven-Sono-Un-Artista-Ribelle Xavier? >> << Mi piace l’arte, è così strano? Cafone >> lui sbuffò << Una bionda a cui piace l’arte, figuriamoci. Questa è l’America, Emma >> fece sarcastico, la fece ridere, ma era vero che non credeva all’incontro casuale.
Qualcosa gli diceva che niente nella vita di quella donna avveniva senza una ragione << È così fondamentale che io non sappia come vi siete conosciute? C’è qualcosa che vuoi dagli Xavier? Oppure... Emma, non ti perdonerei se intendessi far loro del male >> non era una minaccia, non ancora, ma vi era terribilmente vicino.
Lei lo ricambiò immobile per un momento, poi fece un gesto di noncuranza con la mano e prese un altro boccone << Sono amica di Raven da più di un anno ormai, le voglio bene, ma è vero che non sono diventata amica sua per caso. Te ne parlerei, ma sei troppo... coinvolto. Ci sono delle cose che devo verificare prima, e credimi se ti dico che è per il loro bene >> << Sai qualcosa che potrebbe danneggiarli? >> la vide stringersi nelle spalle << Forse. Probabilmente no. Ma ad ogni modo è da verificare >> gli parve sincera.
Aveva un radar particolarmente sensibile per le bugie, ma lei era così cauta nel cosa dire che lo tranquillizzò: stava omettendo qualcosa, ma non lo nascondeva, chiedendogli anzi di fidarsi di quanto non gli diceva << Va bene, come vuoi. Tu ti sei fidata del mio assurdo passato quindi io farò lo stesso. Ma non tradire la mia fiducia >> aggiunse vagamente.
Lei corrugò le sottili sopracciglia curate, scrutandolo, poi posò forchetta e coltello e prese un sorso di vino bianco << Non sai perché vi accade >> non era una domanda, ma Erik scosse il capo lo stesso << L’unica certezza che ho è che una volta morti torniamo in vita nello stesso luogo della nostra morte >> << Dovete morire insieme? >> lui si strinse nelle spalle, facendosi cupo << Ci sono state delle volte che non sono riuscito a trovarlo >> rivelò in un mormorio << Siamo morti in posti diversi allora, ma... credo in tempi vicini >> << Sempre morti violente >> Erik si immobilizzò a quelle parole.
Non ci aveva mai pensato, ma Emma aveva ragione. Non ricordava moltissime delle loro morti, non come le due che aveva sognato, eppure era certo che non fossero morti naturali, anzi, raramente aveva ricordi di un se stesso molto più vecchio di come si sentiva adesso.
Si sentì raggelare: aveva una data di scadenza?
Non sapeva che faccia avesse assunto in quel momento, ma spinse quel pezzo di ghiaccio di Emma a fare un’espressione preoccupata << Ehi... è solo una supposizione la mia. E la tua memoria non è così precisa >> << Ogni volta, Emma. Perché? Dio... non ci avevo pensato. Sono sempre morti violente >> << Questo non significa nulla >> << È una specie di punizione? Torno qui ogni volta per cercarlo, solo per morire con lui dopo poco tempo. Ha senso? Perché? Lui... lui non merita tutto questo >> << Perché tu pensi di meritarlo? >> Erik la guardò con uno sbuffo ironico, spingendo via il piatto e appoggiandosi con il gomito al tavolo per accostarsi a lei << Non c’è dubbio che sia causa mia in qualche modo >> mormorò << Sono l’unico che ricorda, l’unico che sa cosa fare. Per me è un dannato chiodo conficcato nel cervello, che mi ha fatto credere di essere pazzo ad un certo punto. Se c’è un perché dietro questa storia, e non sono sicuro che vi sia, allora sono io che ho causato tutto >> << Perché ne sei così sicuro? >> Erik scrollò le spalle << Potendo scegliere non avrei coinvolto Charles. Non potendo farlo avrei limitato i danni, condannando solo me alla memoria. Se c’è una cosa che ho capito è che nessuno dei due è cambiato granché con il passare del tempo >> lei si fece ancora più incerta, gli occhi azzurro chiaro si assottigliarono, come se potesse guardare attraverso di lui.
Gli fece venire la pelle d’oca, e l’istinto gli suggerì di allontanarsi, anche solo addossandosi allo schienale della sedia << Cosa vuoi fare? >> domandò lei infine, pulendosi la punta delle dita nel tovagliolo << Sto pensando al futuro. Mi chiedo quanto durerà questa storia. Se c’è una soluzione. Penso a Charles, e l’idea che possa morire a causa mia mi... ma lo amo. Non posso stare senza di lui, non dopo averlo trovato. È egoista, lo so, eppure... >> << Egoista? >> lo fermò lei incrociando le braccia al petto << E cosa si suppone che sia l’amore? È necessariamente egoista. Amiamo qualcuno che ci fa stare bene, giusto? Amiamo gli altri quanto amiamo noi stessi, non possiamo fare diversamente. Accettare che non puoi vivere senza di lui non è egoismo, è semplice amore. E se c’è davvero qualche maledizione, qualche ciclo cosmico che con voi due si è inceppato... direi proprio che è meglio affrontarlo insieme piuttosto che da soli >> scrollò poi il capo, portandosi indietro una ciocca di capelli perfetti con un gesto elegante e abitudinario << Quel ragazzino ha molte più chance di sfuggire alla morte con te piuttosto che senza >> indicò il ristorante con un dito sufficiente prima di puntarglielo contro con fare minaccioso << Chiunque di questi mediocri ipocriti ti direbbe che se lo ami devi lasciarlo andare. Proteggerlo magari, una di queste idiozie da romanzo rosa. Ma io so cosa provi, e se c’è qualcosa in cui credo è non tradire mai se stessi: se morirete di nuovo avrai un’intera vita per riprendertelo >> terminò infine con una scrollata di spalle, poi scostò la sedia e si alzò in piedi << Preferisco pentirmi per anni di aver agito che rimpiangere di non averlo fatto >> sentenziò infine.

*

La cena era stata per lo più indolore.
Esattamente come da copione, non differì molto con quello che aveva raccontato ad Erik, se non per il fatto che Cain si era rivelato ancora più insopportabile del solito, con battute divertenti solo per lui e altrettanto unilaterale conversazione durante il pasto.
Per lo più aveva parlato Sharon.
Oh, almeno in quel periodo dell’anno si impegnava a tenere “unita” la famiglia, con un sacco di “caro” e “tesoro” a condire il tutto, solo che Charles non riusciva a pensare a niente se non al mal di testa epocale che gli stava bombardando il cervello.
Quel poco che mangiò a cena lo vomitò non appena tornato nella sua stanza, e aveva avuto un aspetto tanto pessimo che Raven aveva preso il suo cuscino e aveva dormito al suo fianco.
Dormito, certo.
Aveva chiuso occhio solo all’alba, quel bastardo era rimasto fino a tardi a guardare la televisione del salotto, e Charles si chiedeva adesso che cazzo aveva da pensare di lui per tutto quel tempo.
Insomma, non è proprio umanamente possibile concentrarsi tanto su una persona così a lungo.
Cominciava a pensare di aver sottovalutato le capacità del fratellastro.
Tornare a Westchester non era spiacevole solo per lui naturalmente: Raven non avrebbe lasciato il suo fianco per i prossimi giorni, ne era sicuro, come quando erano bambini e Charles era l’unico scudo contro il resto degli abitanti della casa.
Aveva vent’anni certo (vent’anni e mezzo, avrebbe detto lei) ma era pur sempre una ragazzina e le occhiate di Cain avrebbero fatto rabbrividire chiunque, quindi lui fingeva semplicemente di non accorgersi del suo attaccamento, anzi, glielo giustificava il più delle volte, chiamandola lui o pregandola di sedersi vicino.
Lei sbuffava e alzava gli occhi al cielo, così il suo orgoglio restava intatto.
E d’altro canto anche Charles era tranquillizzato dalla presenza di lei.
Si alzò a sedere sul letto enorme, attento a non scoprire la sorella ancora addormentata, e trattenne uno sbadiglio prima di andare alla doccia.
Grazie al cielo il mostro dormiva ancora, quindi il mal di testa era solo un ronzio sopportabile, ma proprio per questo doveva approfittare di quella pace.
Si infilò sotto il getto caldo e si sentì rinascere, adesso che le tossine dell’alcol avevano completamente abbandonato il suo corpo, ma di contro aveva anche una certa fame << Charles? Sei sveglio? >> chiese la voce assonnata di Raven dall’altra parte, una di quelle domande assurde che sottintendono già la risposta, ma lui la assecondò comunque << Ho quasi finito. Mi vesto ed esco >> << Fai con comodo. Io ho lasciato il cambio di là... per colazione muffin? >> << Andrebbe bene qualsiasi cosa >> lei diede in un mugugno d’assenso, quindi lui sentì la porta chiudersi alle sue spalle.
Non tutte le camere avevano un bagno privato, ma ve n’erano comunque abbastanza perché ciascuno della famiglia avesse la sua, il che era un gran bel vantaggio visto che la sola idea di lavarsi dopo Cain gli faceva ritorcere le viscere.
A differenza di quanto avrebbe fatto se fosse stato al loft, non cambiò il pigiama semplicemente con un altro, indossò un paio di pantaloni e una camicia azzurra sotto ad un maglione quasi della stessa tonalità dei suoi capelli.
Riuscì a convincersi che le pantofole potevano andare per sua madre, e una volta pettinatosi velocemente allo specchio dell’armadio afferrò le sue pillole e uscì per prendere l’acqua visto che la sera prima non aveva portato con sé la brocca.
Cain attraversò il corridoio proprio in quel momento, grosso e imponente come solo lui sapeva essere, tanto che le cuciture della camicia color panna che indossava parevano sul punto di saltare sotto la pressione dei muscoli possenti delle braccia e del torace, eppure lo vestiva incredibilmente bene nonostante tutto, anche i pantaloni gessati color antracite cadevano dritti sulle sue gambe tornite.
I capelli castani, più scuri dei suoi, erano tagliati corti, quasi militareschi, e gli occhi color fango avevano sempre qualcosa di sgradevole ogni volta che Charles si ritrovava a fissarli.
Chiunque sarebbe parso minuscolo confrontato con lui, ma venir squadrato dall’alto della sua improponibile altezza lo fece sentire ancora più basso di quel che in realtà era << Buongiorno, fratellino >> oh, quel nomignolo era solo la più digeribile delle sue fastidiosissime abitudini << Salve, Cain >> anche se non avrebbe voluto, la sua voce rispecchiò esattamente il suo stato d’animo: detestava quell’uomo, sapeva di essere detestato a sua volta, perciò tutto ciò che poteva provare era il nulla assoluto, talmente profondo che il suono avrebbe potuto rimbombare dentro di lui.
Fece per proseguire per la sua strada, quando l’altro proseguì: << Tu e Raven non siete un po’ troppo grandi per dividere la stanza? >> l’insinuazione gli fece ritorcere le viscere prima ancora di voltarsi per fulminarlo con lo sguardo, ma dentro di sé non c’era che gelo, ghiaccio duro e solido che poteva ustionare.
Lasciò che Cain ne avesse un assaggio, solo una minuscola lingua del suo potere che circondò l’uomo in spire ghiacciate, e lo vide irrigidirsi con attenzione << Non ho ancora preso le pillole >> lo avvertì atono, quasi annoiato, gli occhi marroni si limitavano a scivolare sulla sua figura, come se Charles avesse appena fatto comparire un coniglio dal cilindro.
Si spinse un finto sorriso sulle labbra << Dividiamo un appartamento, Cain >> tornò quindi ad incamminarsi, scendendo le scale di legno scuro controllando la propria rabbia per non tradirla nei passi o nella postura.
Una fitta alla fronte mentre andava in cucina gli ricordò che quel sadico poteva facilmente riprendersi la rivincita, ma per il momento preferì crogiolarsi semplicemente nella paura che aveva visto in lui.
Ai fornelli c’era Janine, la stessa donna che aveva preparato i suoi pasti da piccolo e che probabilmente avrebbe continuato a farlo per sua madre ancora a lungo.
Era una creola di New Orleans e gli aveva insegnato a parlare francese quando era bambino, e oltre ad essere l’unica persona vagamente umana che avesse abitato la sua infanzia, per quanto sempre tenuta alla larga da Sharon, era anche l’unica a pronunciare il suo nome con una dolcezza che poteva somigliare a quella di una madre << Oh, Charlie sei venuto a trovarmi! >> era ancora bellissima, nonostante tutto il tempo passato: alta e snella, la divisa le cingeva i fianchi con un’eleganza che gli faceva desiderare vederla in abito da sera una volta tanto, con capelli biondi tagliati corti e riccissimi ad incorniciarle un volto tondo e luminoso, decorato da sottili rughe d’espressione che comunque nascondevano abbondantemente i suoi cinquantasei anni.
Ricambiò il suo abbraccio quando lo strinse, profumava di lavanda come al solito, e non si sottrasse nemmeno ai baci che gli diede sulle guance, per il semplice fatto che glieli avrebbe dati che lui lo volesse o meno.
Lo scostò quindi, gli aggiustò una ciocca di capelli che gli era ricaduta sulla fronte e i suoi occhi verde salvia si illuminarono << Sei diventato un ragazzo splendido. Farai impazzire tutte le ragazze! >> tornò alla padella sul fuoco, con abilità sfrattò un pancake per sostituirlo con altro impasto.
Non chiese alcunché, si limitò a posare il piatto con i dolci appena sformati sul tavolo davanti a lui, gli riempì una tazza di caffè e lo spinse sulla sedia << Mangia prima che tua madre si svegli >> lo avvertì facendolo ridacchiare.
Lo trattava come un ragazzino, probabilmente avrebbe continuato a farlo per sempre, ma in qualche modo non gli dispiaceva affatto.
La colazione era ottima come al solito, lo sciroppo di mirtilli magnifico, il caffè aveva un vago retrogusto di vaniglia che non trovava da nessun altra parte << La testa come va? >> chiese posandogli un bicchiere d’acqua accanto all’astuccio degli inibitori << Come al solito >> << Significa bene o male? Non ti vedo da tre anni, Charlie >> << Ma abbiamo parlato al telefono. E anche su skype un paio di volte >> << Sono troppo vecchia per quelle cose. Non posso sapere come sta il mio ragazzo attraverso uno schermo >> lui scrollò il capo e diede in un respiro profondo << Mi sei mancata anche tu, tante >> lei ridacchiò e gli scompigliò affettuosamente i capelli prima di tornare al suo lavoro.
Finì il suo piatto e continuò a sorseggiare il suo caffè con soddisfazione, per questo fu l’ultimo ad accorgersi dell’entrata di Raven << Mon petit corneille! >> esclamò Janine nel vederla, e la raggiunse sulla porta per abbracciarla con trasporto.
Raven non fu troppo diversa da lui, Janine non ammetteva molte proteste quando si trattava di abbracci, la ricoprì di baci e nel giro di qualche minuto erano immerse in un chiacchiericcio compatto e allegro che cinse Charles come una coperta calda, facendogli dimenticare per qualche momento dove si trovasse.
Un trillo soffocato avvertì che la torta era pronta, e subito dopo un suono più profondo segnalò invece che qualcuno aveva bussato alla porta.
Lui e Raven si immobilizzarono lanciandosi un’occhiata, chi poteva mai essere la mattina della Vigilia, mentre invece Janine si prese il tempo di sfornare la torta prima di andare all’interfono digitale che stava vicino alla porta: << Iron, l’ospite è arrivato >> << Abbiamo un ospite? >> chiese Raven prendendo posto anche lei al tavolo con una tazza di tè in mano << Madame mi ha avvertito ieri mattina che sarebbe arrivato un esperto >> << Esperto di cosa? >> Janine si strinse nelle spalle alla domanda di Charles << Sono alcune settimane che c’è un viavai continuo di persone. Credo che Madame stia pensando di ristrutturare qualcosa >> << Cosa? >> la creola indicò il pavimento con un dito, e di riflesso Charles si sollevò in piedi << I laboratori? >> << Non lo so, Charlie, non vale la pena fare quella faccia. Potrai chiedere a tua madre non appena si sveglierà. Finisci il tuo caffè >> lui ovviamente non ne aveva alcuna intenzione.
Anzi, si mosse verso la porta e affrettò il passo per intercettare questo fantomatico ospite nel salotto, facendo così appena in tempo a farlo perché subito dopo Iron varcò la porta insieme all’ultima persona che si aspettava di vedere.
Per un istante rimasero semplicemente a fissarsi, uno più sorpreso dell’altro, finché Iron non richiamò l’attenzione del nuovo arrivato con un sopracciglio inarcato << Mr Lehnsherr? >> << Erik >> disse Charles, mentre invece l’altro sibilò qualcosa che sembrava molto yiddish e molto poco consono al suo ruolo in quel momento, e infatti Iron si schiarì la gola rumorosamente, fingendo di non aver capito ciò che aveva capito perfettamente << Potevi avvertirmi >> riuscì a dire Charles infine << Ho provato >> e nel dirlo rovistò per qualche istante nella tasca della sua borsa di pelle, estraendo infine il suo cellulare << L’hai lasciato sul divano >> mormorò, con qualcosa di molto simile alla paura che gli aveva visto negli occhi la prima volta che si erano incontrati.
Charles lo prese, vide lampeggiare sul salvaschermo le chiamate perse –quattordici – e diede in un grosso respiro profondo << Potevi chiamare Raven >> con un altro sibilo, indecifrabile questa volta, Erik estrasse il proprio telefono e digitò un numero dalla rubrica prima di portarselo all’orecchio, l’espressione tanto tesa che le pupille erano piccole come spilli nel ghiaccio delle sue iridi << Emma >> azzannò, nello stesso momento in cui Raven faceva capolino sulla porta << Avevi detto che... maledettissima... >> un altro ehm-ehm di Iron lo fermò, e il silenzio fu così tangibile che Charles riuscì a sentire distintamente il << Passamela >> dall’altra parte della cornetta.
Erik obbedì, porgendo il cellulare a Raven, che lo guardò un po’ perplessa e stranita prima di accettare.
Ascoltò per qualche secondo, senza espressione, poi scoppiò a ridere sonoramente << Beh, su questo non c’è alcun dubbio! Sembra che abbia ingoiato un rospo >> Charles immaginò che la descrizione fosse riferita ad Erik, perché era l’unico presente che la rispecchiasse << Dice che mamma gli ha assegnato un lavoro senza che lui sapesse chi fosse. Non pensare male >> riferì, portandosi via infine il cellulare per finire la chiacchierata con l’amica, del tutto disinteressata al proprietario << Credo che Emma stia ridendo un po’ a tue spese >> mormorò Charles con una risatina, sollevato dopotutto di vederlo lì << Questa volta me la pagherà >> dichiarò Erik fieramente, e solo allora, solo nel vedere il rilassarsi della tensione in lui riuscì ad uscirsene con un sorriso nervoso << Possiamo proseguire? >> domandò Iron, ma era una di quelle domande retoriche che hanno una sola risposta.
Erik assentì, raccolse di nuovo la borsa e diede in un cenno del capo a Charles, seguendo infine Iron verso la biblioteca << Aspetta Iron, cosa... >> << Charles? >> la voce di sua madre lo fece immobilizzare prima che potesse finire la frase, anche gli altri due fecero lo stesso, quindi Erik si avvicinò educatamente e le strinse la mano, augurandole persino buon Natale << Iron mi ha detto che lei e Charles siete amici >> disse, con quella voce che, Erik non poteva saperlo, significava “hai l’onore di conoscere mio figlio ritieniti fortunato”.
Se lo sapeva avrebbe potuto quanto meno avvertirlo, e invece non si era degnata nemmeno di quello << Ho il privilegio della sua amicizia, esatto >> la risposta di Erik in qualche modo lo innervosì ancora di più << Sarebbe un piacere se restasse per il pranzo allora. Naturalmente dopo il suo lavoro. Iron la accompagnerà dove avrà bisogno. Charles, la colazione è pronta >> << Erik è qui per i laboratori? >> chiese Charles invece, ignorando la conversazione precedente, ma di contro lei si limitò a sbattere le palpebre con leggerezza e a sorridere << Possiamo parlarne dopo? Signor Lehnsherr, ci rivedremo più tardi >> e con questo troncò qualsiasi altra insistenza.
Beh, per lo meno Charles poteva davvero sperare in una spiegazione, se non da lei, e di questo era certo, almeno da parte dell’ingegnere.

*

Il sotterraneo di Casa Xavier sembrava direttamente uscito da un film di fantascienza, anche se uno di quelli girati negli anni settanta a giudicare dalla tecnologia, con lunghi corridoi rivestiti di asettici pannelli blu e strisce luminose a percorrerne la lunghezza sul soffitto, luminosi abbastanza da far male agli occhi se non fosse stato per qualche misericordioso guasto qua e là a gettare qualche ombra.
Erik seguiva l’uomo di colore che si era presentato semplicemente come Iron mentre scendevano prima delle scale, e il suo occhio attento e allenato registrò facilmente le modifiche necessarie, e poi gli illustrava l’utilizzo di ciascuna stanza.
C’erano diversi laboratori, come aveva visto già nelle planimetrie, un caveau, un bunker persino, a testimoniare il fatto che il padre di Charles avesse problemi più gravi di quelli che già gli aveva attribuito, ma fece il suo lavoro con la dovizia di sempre, prendendo appunti e fermandosi qua e là per controllare questo pannello elettrico o quel sistema di aerazione.
La padrona di casa aveva delle idee ben precise sulla destinazione dei vari ambienti, gli aveva ordinato di non risparmiarsi per quanto riguardava materiali e tecnologie, ma avrebbe dovuto consultarsi con gli architetti per alcune modifiche, anche se ovviamente la possibilità di un budget illimitato è il sogno di chiunque nel suo ambiente: se era venuto lì pensando più a Charles che al suo lavoro, adesso non poteva fare a meno di eccitarsi un poco alla prospettiva di realizzare un simile progetto.
Aveva giusto un contatto con un certo pazzo fissato di robotica che avrebbe fatto i salti di gioia all’idea di rendere quel posto “intelligente” in ogni senso, ma naturalmente non si prese la briga di spiegare niente dei suoi pensieri al suo cicerone, risparmiandosi per i progetti da esporre alla sua datrice di lavoro.
Esplorò ogni anfratto di quel posto, cosa che richiese almeno due ore, giungendo infine ad un’ultima stanza, la più lontana rispetto alla rampa di scale che lo aveva portato sin lì, e Iron si fermò a pochi passi di distanza dalla porta, sollevando un sopracciglio con sorpresa nell’accorgersi che era aperta << Aspetti qui un momento >> gli disse fermandolo prima di proseguire quindi da solo.
Superò lo stipite, Erik sentì la sua voce anche se non comprese le parole, quindi udì una risposta e si irrigidì un poco perché aveva pensato che fossero da soli in quel posto, infine un uomo sconosciuto uscì fuori per venirgli incontro.
Aveva capelli e occhi neri, i primi lunghi fino alle spalle e disordinati con una calvizie incipiente sulle tempie, i secondi piccoli e slavati oltre un naso adunco e sottile, e una sottile barbetta screziata di grigio che spuntava sul mento appuntito e nascondeva un poco delle labbra che sarebbero state belle su un altro volto.
Gli trasmise una sensazione sgradevole, ma non era certo l’unico con cui succedeva, quindi si forzò il suo sorriso professionale sul volto e tese una mano educata, ritrovandosi a stringere quella leggermente sudata dell’altro << Erik Lehnsherr, piacere di conoscerla. Sono l’ingegnere contattato dalla padrona di casa per la ristrutturazione del piano interrato >> un sorriso fuggevole e scaltro toccò la bocca dell’uomo, che si lisciò la cravatta nera con la mano libera << Kurt Marko, il piacere è mio. Sharon mi ha parlato di lei >> il patrigno.
Quando si lasciarono Kurt si chiuse la giacca del completo grigio che indossava, troppo bello per un uomo così sgraziato, e fece un passo indietro come a mettere distanza fra loro << Spero che sappia ridare a questo posto il suo giusto pregio >> << È il mio obiettivo, naturalmente >> << Naturalmente >> gli fece eco, quel sorriso irritante tornò per un attimo prima di sparire ancora.
Non si allontanò mentre Iron lo invitava a proseguire, Erik sentì un brivido lungo la schiena al pensiero di dare le spalle a quell’uomo, e infatti i suoi sensi rimasero sull’attenti mentre lo sentiva seguirlo con lo sguardo prima e con il corpo poi.
Dentro la stanza era persino più assurda delle precedenti.
Nelle altre aveva trovato già abbastanza stranezze, tra cui apparecchi mai visti e alambicchi che avrebbero fatto l’invidia di un alchimista del medioevo, ma questa lo lasciò ancora più spiazzato: era composta da due parti nettamente distinte, una arredata come un comune salotto, con due divani di velluto marrone, un tavolino di legno e una libreria ben fornita, un tappeto di pregio e persino una lampada in stile bau house in un angolo, mentre la seconda metà era asettica come tutto il resto, con pavimenti e pareti bianchi, un’enorme scrivania invasa da schermi e altri apparecchi troppo obsoleti per avere un significato per lui, nonché un archivio di quelle che sembravano registrazioni in VHS attentamente catalogate.
A dividere le due parti c’era una parete di plexiglass trasparente, adesso opaca di sporcizia.
Notò le telecamere prima di tutto.
Nessun angolo del “salotto” ne era risparmiato, nonostante fosse piuttosto grande, e ugualmente era per i microfoni.
C’erano dei giocattoli in un angolo vicino alla libreria, alcune macchinine e mattoni da costruzione, ma prima ancora di vederli Erik sapeva già che posto fosse quello.
Un fiotto di bile gli risalì le viscere, improvvisamente si rese conto che Charles doveva aver passato molte ore della sua vita in quel posto, messo in una teca per essere studiato come un animale in uno zoo, e la rabbia che provava era talmente intensa che non riuscì a far altro che restare immobile, fremente, costringendosi a non urlare come un ossesso e distruggere ogni singolo mattone di quel posto.
Il suo potere urlava nelle sue vene << Che idea si è fatto? >> chiese Marko, e il fatto che lo avesse avvicinato senza che se ne accorgesse la diceva lunga su come si sentisse << Iron dice che non ha fatto domande, non mostra neppure stupore. È qualcosa che ha già visto altrove? >> oh, Erik aveva piuttosto bene in mente quale sarebbe stata la risposta adatta ad una simile domanda.
Ne aveva almeno un paio di risposte adatte, ma nessuna di esse gli avrebbe permesso di evitare il carcere.
Nella migliore delle ipotesi.
Si chiese per un istante se non ne valesse la pena, poi diede in un respiro profondo, molto profondo, e si voltò a guardarlo con uno sguardo talmente gelido da strappargli un brivido e portarlo a fare un passo indietro << Non vengo pagato per fare domande >> rispose asciutto e incolore << Tuttavia mi ha sfiorato il dubbio che quel che ho visto oggi sia ben più che strano >> Marko ridacchiò nervosamente, guardandosi intorno << Sembrano i laboratori di uno scienziato pazzo, non è così? >> scrollò le spalle, avvicinandosi fino a toccare la parete di plexiglass << Può trasformare questo posto in un archivio se vuole. Non ha più alcuna utilità una stanza del genere >> ci puoi scommettere, maledetto.
Erik si morse la lingua per non dire quel che pensava, limitandosi ad assentire meccanicamente prima che Iron richiamasse la sua attenzione muovendo un passo verso la porta << Se ha finito il suo lavoro, signor Lehnsherr... >> colse l’allusione e andò alla scrivania per raccogliere la sua borsa prima di raggiungerlo.
Sentì un sospiro provenire da Marko mentre lo affiancava e si incamminava con lui dietro ad Iron << Mi dispiace che si sia disturbato persino oggi, signor Lehnesherr >> << Nessun disturbo, non si preoccupi. E vostra moglie è stata così gentile da invitarmi a pranzo qui con voi >> l’uomo diede in un sorriso più ampio dei precedenti, anche se non per questo più sincero, dandogli una pacca sulla spalla << Ha fatto benissimo, è un’idea splendida. Non siamo una famiglia molto numerosa, una persona in più ci farà guadagnare un po’ di convivialità. Ha già conosciuto i ragazzi? >> << Posso dirmi un amico di Charles e Raven in verità >> quello si fermò, perdendo un passo per lo stupore prima di proseguire << Interessante >> << Cosa lo è? >> << Non ho mai conosciuto nessuno dei loro amici, questo lo è. Sono molto... riservati >>Erik non seppe che pensare di quelle parole: forse poteva valere per Charles, ma anche se Raven poteva essere molte cose, per certo “riservata” non era fra queste.
Anche senza il suo biondissimo e patriottico fidanzato, di rado l’aveva vista da sola << A dire il vero ho creduto a lungo che Charles non potesse avere amici >> lo sentì mormorare pensoso, suscitandogli un fiotto di gelida rabbia alla base dello stomaco, ma si tenne per sé i suoi pensieri ancora una volta.
Raggiunsero la porta a scomparsa da cui erano scesi nel sotterraneo, sbucando così nel corridoio di fronte alla biblioteca proprio nello stesso momento in cui Charles ne stava uscendo con un libro tra le mani.
Non fu sorpreso di vederli, o almeno non si mostrò tale, proseguendo invece nella loro direzione e rivelando così Raven che gli trotterellava dietro con un sorriso tranquillo sulle belle labbra.
E che prontamente le scivolò via dal volto una volta posati gli occhi azzurri sull’uomo che lo affiancava << Salve Kurt >> disse il telepate con voce cordiale seppur incolore, lo stesso tono che aveva usato con lui alla tavola calda, la prima volta che gli aveva parlato.
Lo sorprese, ma non lo diede a vedere << Charles, Raven! Mi dispiace non essere venuto a fare colazione con voi... Spero che abbiate dormito bene >> << Magnificamente >> mormorò lei, ma Erik avrebbe giurato di aver sentito una piccola nota sarcastica.
Ripresero a camminare, Charles evitò attentamente il suo sguardo anche se invece lui lo aveva cercato, affiancando Kurt e prendendo la mano di Raven con fare protettivo.
A volte era geloso di come si comportava con sua sorella, non poteva farne a meno, ma non riusciva a biasimarlo con quello sgradevole personaggio a poca distanza.
E se pensava che Kurt lo fosse, quel che provò per l’uomo in fondo al corridoio superava di gran lunga il concetto di sgradevole: Cain, perché quello doveva essere Cain, e lo seppe anche prima di sentire l’ansito morsicato che spezzò le labbra di Charles, sembrava la versione addomesticata e moderna di un Ercole latino, sia per la stazza imponente che per l’espressione in qualche modo ferina, irritando in una volta sola tutti i suoi allarmi e le sue protezioni, tanto che il suo potere si espanse intorno a sé senza un vero e proprio comando, istintivamente alla ricerca di armi e cose che potevano diventarlo.
Era un mutante anche lui, ricordò, Charles aveva parlato almeno di forza sovrannaturale, ma Erik non si lasciò intimidire, limitandosi a pensare al modo più veloce per renderlo inoffensivo.
Non sapeva perché, ma qualcosa in lui lo classificò automaticamente come nemico, un pericolo fatale che andava tolto di mezzo.
Non aveva mai provato niente di simile. Non in questa vita almeno, ma stranamente quella sete di violenza non parve troppo estranea al suo corpo e alla sua mente, si unì agli altri frammenti che lo componevano con abbastanza naturalezza da lasciarlo sconcertato << Stavo venendo a chiamarvi per il pranzo >> anche la sua voce gli risultò spiacevole, greve, con un cupo rimbombo nell’ampio petto che gli irrigidì tutti i muscoli.
Ma fu il suo sguardo a fargli stringere ferocemente i pugni lungo il suo corpo fremente, quei luridi occhi melmosi si soffermarono su ciascuno di loro a malapena un istante, indulgendo invece su Charles con attenzione, con... con desiderio, sì, non c’era altro termine, squadrandolo dal basso verso l’alto fino a piazzarsi impunemente sul suo volto << Hai intenzione di rinchiuderti in biblioteca per il resto del tempo che io e Kurt saremo qui? >> domandò, ignorando Erik senza rivolgergli nemmeno uno sguardo, ma in qualche modo non gli sembrò solo maleducazione la sua, esattamente come non era solo familiarità quella che lo mosse di fianco al fratellastro, c’era un che di possessività, un fare che inequivocabilmente tracciava un confine tutt’intorno a Charles, che quest’ultimo ne fosse consapevole o meno.
Per certo Erik lo percepiva, eccome << Devo preparare una tesi, Cain. Sto studiando >> una piccola smorfia attraversò il volto del telepate, una ruga tagliò la sua fronte quando strizzò le palpebre e si portò una mano alla tempia << Tutto ok? >> domandò Kurt, non preoccupato, no, semplicemente... curioso.
Erik sentì un brivido risalirgli lungo la spina dorsale nel rendersi conto che quello sguardo somigliava terribilmente a quello di un bambino che con crudele indifferenza punzecchia il cadavere di un rospo o una lucertola con un rametto << Sto benissimo >> fu la risposta, si rimise dritto anche se impallidito, e fu il primo ad incamminarsi anche se la mano di Raven era ancor stretta nella sua.
Fece pochi passi ancora, Erik fece appena in tempo a vedere un ghigno sadico piegare i lineamenti del colosso rimasto a pochi passi di distanza, poi un sottile lamento spezzò l’aria lo vide crollare su un ginocchio << Charles! >> sentì Raven esclamare, poco prima di raggiungerlo e vederlo piegarsi in due con un’imprecazione.
Era paonazzo, i tendini tirati come corde mente si teneva il capo, le labbra tanto strette per non emettere suono che erano un segno bianco in mezzo al suo volto, e nonostante le palpebre disperatamente serrate Erik vide una grossa lacrima di dolore scivolare sulla sua guancia << Piantala! >> sibilò prima di riuscire a trattenersi, lanciando un’occhiata di fuoco a Cain << Non sto facendo nulla >> ribatté quello candidamente, facendogli ritorcere le viscere di rabbia << Sai benissimo che non è vero! Smettila! >> si rialzò in piedi per affrontarlo, ma Charles lo afferrò per una manica << N-no, Erik... >> ansimò, prima di estrarre un astuccio di pillole dalla tasca dei pantaloni.
Erik avrebbe voluto fermarlo. Avrebbe voluto urlare che quella situazione aveva dell’assurdo, che non aveva alcun senso possedere una capacità del genere e soffocarla con qualche veleno chimico, si sarebbe accontentato anche solo di metterlo in macchina e non fermarsi prima di essere abbastanza lontani da quel perfido mostro, e invece si limitò ad uno stringato << Scheisse >> prima di strappare la confezione degli inibitori dalle sue mani tremanti e porgergliene una pillola perché la mandasse giù senz’acqua.
Non si sentì meglio subito, per alcuni minuti ancora non riuscì a muoversi, le mani strette a pugno sulle tempie e il corpo rigido, poi però esalò un lungo sospiro di sollievo, ricadendo contro la spalla di Raven a peso morto.
Lei lo accolse stringendolo a sé con fare protettivo, affondando le mani nei suoi capelli e mormorando qualche parola tranquillizzante << Vado a dire a Sharon che state arrivando >> disse Cain solo allora, come se importasse ancora del pranzo a qualcuno di loro, mentre Kurt si limitò a guardare loro tre senza dire nulla, solo osservare con quegli occhi sinistri << Va meglio? >> domandò Raven infine, un sussurro in realtà, ma Charles assentì con un gesto languido e lo sguardo vagamente appannato.
Erik vide la disapprovazione in lei, ma nonostante lo conoscesse da più tempo e avesse più diritti di farlo, nemmeno lei gli disse nulla, limitandosi ad imitarlo quando si rialzò in piedi.
Con una naturalezza da pelle d’oca Erik lo vide asciugarsi il volto con le mani, avvicinò la sorella e le baciò la tempia con la cura amorevole di sempre, quindi si ravvivò i capelli distrattamente prima di voltarsi verso di lui << Non fissarmi con quella faccia >> gli disse, paradossalmente scherzoso, ma Erik non riuscì a dire nulla, solo guardarlo.
Una parte di lui voleva ancora portarlo più lontano possibile da quel posto, ma la più grande era concentrata solo ed unicamente nel non raggiungere Cain e strappargli i bulbi oculari.
In qualche modo si sentiva perfettamente capace di fare una cosa del genere << Raven, Kurt... vi dispiace se ci precedete? Io e Erik saremo a tavola tra pochi minuti >> << Naturalmente >> disse lui << Mi piacerebbe parlare però di queste crisi più tardi, figliolo >> << Certo >> acconsentì Charles con il suo sorriso incolore, infine fece un cenno rassicurante con il capo anche a sua sorella e li seguì con lo sguardo finché non furono al di là della sua visuale << Cosa avevi intenzione di fare prima, per l’Onnipotente? >> se ne uscì non appena furono soli, ma ancora Erik non seppe che dire.
O meglio, sapeva perfettamente cosa volesse dire, ma non sapeva quanto poteva.
Quindi tacque << Volevi aggredirlo per caso? Non hai visto il suo corpo? Cosa speravi di fare? >> si rendeva conto che per lui avrebbe fatto molto più che aggredire una montagna di muscoli?
Per lui Erik era morto. Decine di volte.
Non avrebbe esitato ad uccidere, non solo aggredire.
Ma non lo disse << È capace di piegare una trave d’acciaio a mani nude, riesci a comprenderlo? Non avresti avuto alcuna speranza! >> perché si soffermava su queste sciocchezze quando era un altro il problema principale?
Perché restava in quella casa?
Perché non schiacciava la mente di quel mostro rendendolo poltiglia sbavante ai suoi piedi?
C’era qualcosa che non andava in Charles, un modo di fare e pensare che lo avrebbe portato all’autodistruzione, ne era sicuro, e che anzi gli raggelò il petto al solo pensiero che fosse già accaduto in passato << Erik? Non hai niente da dire? >> << Succederà ancora? >> fu tutto ciò che riuscì a chiedere, giacché tutto il resto sarebbe stato troppo intimo o troppo ricolmo di urla << Cosa? >> indicò il pavimento, il punto in cui poco prima Charles era piegato in due, schiacciato dal proprio potere.
Silenzio per un istante, poi una mano nervosa andò all’attaccatura del suo naso, seguita da un sospiro profondo << Non per oggi, no >> assentì, non poteva fare altro anche se era una ben misera consolazione, quindi gli porse le pillole rimaste ancora nelle sue mani << Immagino tu abbia messo a tacere completamente il tuo potere >> << È la soluzione migliore finché sono qui. E non che ne avessi particolare bisogno a dire il vero >> sentirlo parlare così gli fece sentire il sapore della bile in bocca, abbastanza che non riuscì a trattenersi questa volta: << Perché non ti tagli anche un braccio allora? O una gamba. Potresti non aver bisogno nemmeno di quelli >> fece, e fu talmente strano da parte sua, talmente tagliente il suo tono rispetto al solito che Charles rimase a bocca aperta, stupefatto.
Rimasero a fissarsi ancora per un momento, Erik attese una risposta pur sapendo che non ci sarebbe stata, quindi si incamminò scuotendo il capo spazientito, sennonché Charles lo fermò prendendolo per un braccio << Che vuoi dire? >> la sua voce era a malapena un soffio, per poco Erik non riuscì a distinguere le parole << Sai cosa voglio dire. Sei un genio, giusto? Puoi capirlo anche da solo che questo tuo fingere che vada tutto bene, che tu sia una persona come le altre non porta da nessuna parte. Sei diverso Charles, sei superiore, me l’hai spiegato tu stesso: siamo il prossimo passo dell’evoluzione. Ma tu dici che non ne hai bisogno >> si liberò della sua stretta afferrandogli il polso, e con fin troppa facilità riuscì a spingerlo contro la parete alle sue spalle e immobilizzarlo con le braccia sopra il capo.
Lo guardò ad occhi sbarrati, incredulo, ma ancora senza nemmeno una traccia di paura, come se Charles Xavier non potesse provarne << Cosa farai se Cain decidesse di aggredire te? >> gli sibilò ad un centimetro dal volto << Se non si accontentasse più di vederti gemere di sofferenza ai suoi piedi? Cosa faresti se fosse qui ora al mio posto, una delle sue mani sulla tua gola e quella forza mutante che dovrei temere usata per ridurti all’impotenza? >> lo vide deglutire dolorosamente, più pallido adesso, ma non perse il suo incrollabile contegno: << Lasciami >> ordinò con voce limpida e chiara, non minacciosa, solo ferma, come se fosse certo che Erik avrebbe obbedito.
E lo fece, indietreggiando di un passo per permettergli di riconquistare il suo spazio.
Si schiarì la gola e si assestò i polsini della camicia << Non lo farebbe mai >> << Forse non sono un telepate, ma so comunque leggere uno sguardo quando ne vedo uno >> << Può essere un gran bastardo, ma non cercherebbe mai di... >> << Di fare cosa? >> lo interruppe in un sibilo irato << C’erano due paia di occhi che fissavano il tuo culo quando ti sei voltato e io ne posseggo solo uno >> aggiunse ruvido nell’incrociare le braccia al petto e per la seconda volta in pochi minuti lo lasciò a bocca aperta.
Gli occhi blu divennero enormi per la sorpresa, scioccati, ma invece di credergli si limitò a scuotere il capo e uscirsene con una risatina nervosa << Avevi detto che non avresti più tirato fuori la cosa >> << E non lo sto facendo. Sei abbastanza adulto da essere consapevole del tuo corpo, niente di quanto posso dirti ti dovrebbe stupire >> << Ti sorprenderà sapere invece che non ritengo affatto il mio corpo degno di tutta questa attenzione. Per questo mi sembra ancora più incredibile che quel concentrato di razzismo, misoginia e bigottismo guardi me allo stesso modo in cui lo fai tu >> << Io non ti guardo così >> << Oh, Erik... hai capito >> << No, sei tu che non hai capito >> fece un passo avanti, puntandogli contro un dito, anche se più per assicurarsi la sua attenzione che per minacciarlo << Lo chiarisco qui perché non voglio che vi siano fraintendimenti, a dispetto del giuramento che ho fatto: io ti amo, Charles, non sono semplicemente attratto da te, questa è la differenza sostanziale. Cain vuole fotterti. Io voglio fare l’amore con te >> ci fu un lungo momento di silenzio dopo queste parole, poi Charles spostò il peso da un piede all’altro, abbassò lo sguardo sul pavimento e si schiarì la gola << È meglio se andiamo a mangiare >> disse riappropriandosi del proprio contegno di sempre.
Erik si limitò a seguirlo senza emettere suono.

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Non che fosse estraneo alle situazioni imbarazzanti.
A dire il vero poteva tranquillamente dichiarare di essere un esperto a riguardo, tanto da aver sviluppato una certa destrezza nell’affrontarle, aveva imparato piuttosto bene ad incassarle e non permetter loro di segnarlo.
Non che fosse particolarmente sfrontato, solo certi argomenti non lo scomponevano quanto poteva accadere ad altri.
Non lo faceva la sessualità ad esempio.
Riusciva a parlare di sesso con una certa tranquillità, con la maggior parte degli interlocutori per lo meno.
Aveva passato nel suo dormitorio situazioni che avrebbero rivaleggiato con gogne medioevali senza lasciarsi prendere dallo sconforto, compresa quella volta che si era risvegliato su un letto sconosciuto e aveva scoperto di aver urlato Amazing Grace per metà della nottata.
Questo per dire che avrebbe dovuto essere abbastanza preparato, ecco.
Ma nessuno può essere preparato a sufficienza ad Erik e Cain seduti allo stesso tavolo.
Con Kurt da una parte del tavolo e Sharon dall’altra, i rimanenti commensali si erano ritrovati a spartire il resto dei posti e caso aveva voluto che lui e Erik si fossero seduti vicini, con Raven di fronte e il fratellastro faccia a faccia con il loro ospite.
Avrebbe potuto evitarlo, non poteva negarlo.
Ma le parole di Erik nel corridoio continuavano a ronzargli in testa, inutile dire che le sue conclusioni lo avevano colpito, perciò non si era reso conto della gravità della situazione fino a quando Raven non lo aveva colpito con un calcio sotto al tavolo, richiamando la sua attenzione sui due che si stavano letteralmente mangiando con gli occhi.
Se poteva dirsi relativamente abituato alla sadica violenza di Cain, era rimasto incredulo dell’animosità di Erik invece: i suoi pugni erano stretti ferocemente vicino al piatto, il suo intero corpo era in tensione, e gli occhi brillavano sinistramente, il grigio delle iridi era quasi trasparente, così che l’azzurro e il verde fossero ancora più taglienti, con le pupille che vi annegavano nel mezzo quasi fossero pozzi oscuri.
Aveva sempre saputo della minaccia che incarnava il colosso a poca distanza, Cain da sempre era sinonimo di pericolo in qualche modo per lui, ma quel che emanava Erik era altrettanto palpabile, una sensazione quasi fisica, la stessa che si può avere davanti ad una fiera selvaggia.
Persino con il suo completo perfettamente appuntato, cravatta e gemelli e scarpe lucide, Charles aveva l’impressione di sedere accanto ad un lupo, o uno squalo, un animale pronto ad azzannare.
Non aveva mai fatto attenzione agli oggetti metallici che vedeva intorno a sé, ma Charles si ritrovò a pensarvi adesso, improvvisamente consapevole del numero di lame e possibili armi a disposizione dell’uomo.
Non sapeva in base a cosa potesse dirlo, eppure gli pareva perfettamente in grado di usarle.
Forse non era un pensiero molto lusinghiero, ma non poteva impedirselo.
Era stato solo dopo queste riflessioni che si era reso conto di essere lui il motivo di tutto quello.
Erik non si era mai mostrato possessivo o geloso, c’erano giorni in cui riusciva persino a dimenticare quel che l’altro provava per lui, l’amico perfetto persino, eppure adesso niente in lui trasmetteva la parola “amico”, in nessuna accezione, era talmente palese che il sorriso beffardo di Cain sembrava essere perfettamente consapevole dei suoi sentimenti.
Non che Erik facesse sforzi per nasconderlo, ovviamente << Di cosa si occupa principalmente nel suo lavoro, signor Lehnsherr? >> domandò Kurt dopo qualche minuto di silenzio, e per un lungo momento Charles temette che lo avrebbe ignorato, poi però quello diede in un respiro profondo, riluttante distolse lo sguardo da Cain e lo volse all’altro, anche se non doveva sembrare affatto cordiale << Opere architettoniche >> rispose, e la sua voce aveva una nota glaciale che non gli aveva mai sentito << Ponti, dighe, grattacieli. Anche se mi trovo più a mio agio con le costruzioni di metallo >> << Erik >> Charles non riuscì a dire altro, né tantomeno riuscì a fermare del tutto la sua lingua, ma quello gli rivolse semplicemente un sorriso, volgendosi ancora a fissare Cain prima di tornare al padre, che adesso aveva sollevato un sopracciglio incuriosito << C’è qualche allusione che non ho colto nel suo tono? >> << No >> disse Charles, attirando così l’attenzione di tutti loro.
Aveva preso una dose così alta di inibitori da essere completamente sordo alle vibrazioni emotive o psichiche di chi lo circondava, ma desiderò con tutto se stesso avere il potere di zittire Erik.
O almeno capire perché stesse agendo in quel modo, e invece si limitò a guardarlo, si sentì quasi trapassare da quello sguardo << Sono sicuro che il tuo amico sia capace di rispondere da solo, fratellino >> intervenne Cain passandosi una mano trai capelli perfettamente tagliati.
E accadde allora proprio ciò che temeva: << Non vedo perché nasconderlo, tantomeno a questo tavolo. Sono un mutante >> dichiarò fieramente, per Dio, usando proprio quella parola, mutante, con una tale disinvoltura che persino Raven trasalì.
Il silenzio scese denso come melassa, anche Sharon aveva smesso di mangiare, eppure Erik continuò impietoso, incurante << Posso controllare i metalli. Beh, Charles mi ha spiegato che in realtà ciò che controllo davvero sono i campi magnetici, ma il risultato è lo stesso >> e nel dirlo indicò con un dito uno dei cucchiaini per farlo sollevare, ma il telepate vi posò la mano sopra per impedirglielo.
Fu un gesto istintivo, era regola tacita dei presenti fingere di essere persone perfettamente normali, umane, e Charles sbiancò alla sola idea di tradire questo comandamento.
Non con sua madre presente.
Non aveva uno specchio davanti, ma sapeva di avere tutto il corpo contratto e in tensione, la mascella tanto serrata che gli doleva e la mano così stretta su quell’innocente cucchiaino che le nocche erano bianche.
Quel che Erik vide in lui non lo sapeva, ma lasciò perdere << È stato Charles a trovarti? >> domandò Kurt, di tutte le cose che poteva chiedere, con quella sua snervante e apatica curiosità che faceva risalire i brividi lungo la schiena a Charles << Non sono un radar per mutanti, Kurt >> ribatté caustico, ascoltando con un orecchio soltanto il modo in cui Sharon si schiarì la gola.
La mano di Raven attraversò il tavolo e si unì alla sua sul cucchiaino, invitandolo alla calma.
Quando la guardò gli occhi di lei avevano la pupilla piccola come uno spillo, spaventati a morte << Da quanto tempo si trova nel suo campo? >> domandò Sharon con il suo tono assurdamente controllato, come se Erik non avesse appena fatto una rivelazione sconvolgente << Tre anni >> << Il signor Darkholme mi ha raccontato meraviglie su di lei, pare che sia uno dei suoi collaboratori più fidati e capaci a quanto mi ha detto >> << Mio padre era un umile operaio, signora Xavier, ma mi ha insegnato che devo dare il meglio in tutto ciò che faccio, ancor di più se vengo pagato per farlo> << Un uomo moralmente elevato >> commentò lei << Direi più che altro onesto. Del resto non c’è limite a quel che un uomo può fare se non se stesso >> e nel dirlo sorrise, un sorriso sinistro che fece inspessire di nuovo la tensione.
Qual era la sua intenzione?
Charles lo guardò infilzare i fagiolini con disinvoltura, come se quell’atmosfera pesante come piombo non lo sfiorasse nemmeno << Ovviamente la mia mutazione non fa eccezione >> continuò imperterrito << Erik. Per. Favore >> sapeva che lo avrebbe ignorato.
Non avrebbe dovuto stupirsene << È dell’idea che le vostre capacità non debbano essere sottoposte a limitazioni? >> chiese Kurt, mentre Charles invece desiderò disperatamente che quel dannato pasto giungesse alla sua fine << Limitare le capacità di una persona può essere giudicato in modo diverso dalla tortura? >> << È sufficiente >> intervenne il telepate adesso, attirando la sua attenzione battendo debolmente il pugno sul tavolo.
Quel che provava nemmeno Charles avrebbe saputo definirlo.
Rabbia di certo, o qualcosa che le somigliava, con un retrogusto di vergogna e umiliazione, anche se non sapeva dovuto a che cosa, o almeno non voleva saperlo.
Ad ogni modo Erik lo percepì.
C’erano state altre volte in cui aveva avuto l’impressione di sapere per certo cosa l’altro pensasse, altre in cui invece era lui ad esser sicuro di essere compreso come con nessun’altro, ma in quel momento quando i loro sguardi si unirono Charles seppe senza alcun ombra di dubbio che Erik condivideva le stesse identiche sensazioni.
Odiava Kurt perché vedeva il mondo come il suo laboratorio sperimentale personale.
Odiava che Raven fosse costretta a restare in quella forma anche in casa propria.
Odiava che Charles prendesse inibitori solo per timore.
Odiava Cain... beh, odiava Cain per tutti i motivi per cui una persona può essere odiata.
Solo che lui, a differenza di Charles, aveva il coraggio di mostrare quel che pensava.
Lo vide nei suoi occhi, un fiume di parole passò in quel semplice scambio d’occhiate, una comprensione cristallina, Charles si sentì nudo e scoperto, per la prima volta in vita sua sperimentò cosa significasse essere letto da qualcun altro << Ma le mie sono solo le parole di un profano >> disse, falso come una banconota da tre dollari, falso come il sorriso che gli piegò le labbra subito dopo.
I loro occhi faticarono ad allontanarsi gli uni dagli altri, ma le iridi grigie si spostarono sul resto dei presenti << Non mi permetterei mai di giudicare le scelte di qualcuno in proposito >> riprese a tagliare la sua carne, perfettamente padrone di sé.
Charles fissò il suo piatto, si costrinse a continuare a mangiare nonostante gli occhi di tutti puntati su di lui, nonostante gli occhi di Cain puntati su di lui, e si chiese quanto sarebbe stato terribile se non avesse preso una pillola extra << Posso chiedere invece di cosa si occupa lei, signor Marko? >> lo ascoltò proseguire con la conversazione con un orecchio soltanto, in qualche modo aveva visto in lui qualcosa che lo aveva fatto desistere dai suoi intenti, ma non rendeva più facile da ingoiare il fatto che sapesse.
Sapesse che Charles non aveva il fottuto coraggio di parlare.
Si chiese se lo avesse mai avuto.
Quanto debole e patetico doveva apparirgli?
Arrivare alla fine di quel maledetto pasto richiese tutte le sue energie residue, lo lasciò prosciugato, tanto che sentirlo congedarsi a causa di un impegno sicuramente inventato gli procurò un senso di sollievo << Ti accompagno alla porta >> disse soltanto, inevitabilmente seguito dallo sguardo del fratellastro, ma ormai era troppo stanco anche per curarsi di quello.
Non appena fuori dalla portata degli sguardi degli altri Charles vide tutte le finzioni dell’altro sgretolarsi, tornò l’ira e la frustrazione, ne emanava come fossero il suo profumo, ogni passo ne era intriso << Come puoi sopportare tutto questo? >> azzannò una volta che furono fuori.
Il sole stava già tramontando, ma i lampioni del giardino illuminavano abbastanza perché i loro occhi non faticassero nella penombra sempre più incombente << Ci vediamo lunedì >> fu tutto ciò che riuscì a dire.
Il silenzio che seguì quelle parole aveva consistenza solida, dura e aguzza come la lama di un bisturi << È tutto quel che hai da dire? >> ribatté l’altro, dritto e testardo come un muro.
Charles poteva sbattervi contro o girargli intorno.
Decise di prenderlo a testate: << Con quale diritto mi chiedi una cosa simile? >> sibilò, e una rabbia cocente avvampò in lui, alta e ustionante come la fiamma di un incendio estivo, tanto improvvisa che si chiese se invece non fosse sempre stata dentro di lui, brace silenziosa che aspetta solo il pretesto per scatenarsi.
Lo lasciò senza parole << Non sai niente di me. Non sei nessuno, Erik. Tre fottutissime settimane non ti danno alcun diritto di giudicare la mia vita, la mia famiglia e le mie scelte >> o almeno avrebbe dovuto essere così << Puoi prendertela con me, ma sai che ho ragione >> rimandò l’altro senza fare una piega << Prendermela con te? >> soffiò Charles, con un’ira divorante, violenta, così violenta che lo raggiunse con un passo minaccioso e lo spinse a mani aperte sul petto << Prendermela con te?! Tutto questo non ti riguarda! >> gridò << Ho detto quel che tu non hai le palle di dire >> << Vaffanculo >> << È la verità. Diventi sempre sboccato quando ti usano contro la verità >> << Direi che possiamo finirla qui. Arrivederci >> fece per andarsene, ma Erik lo afferrò per una mano, un tocco ancora gentile, cauto, lasciò la presa subito dopo averla stretta.
In qualche modo questo rese Charles solo più furente << Per chi mi hai preso, Lehnsherr? >> fece, velenoso, sì, non riuscì ad impedirselo << Non so cosa tu abbia visto in me, ma non sono la tua damigella in pericolo. Non ho alcun bisogno di te. Se finora ti ho permesso di ronzarmi intorno è stato solo per pietà, è chiaro? >> ringhiò, un altro passo minaccioso in avanti << Niente che tu possa dirmi può farmi allontanare da te. Non ci provare nemmeno >> << Su questo non posso che dirmi d’accordo, certo >> lo derise, ridacchiò persino.
Desiderò ferirlo.
Lo fece: << Posso sopportare una scopata senza impegni anche da parte di un uomo, ma non venire a propinarmi lezioni di vita, per favore >> lo vide tentennare.
Se ne accorse chiaramente, solo non gli importò << No, certo che no. Sei senz’altro tu quello che fa lezioni, Professore >> << Puoi andare adesso >> gli uscì in un cupo ringhio << Puoi liberarti di me, certo, ma cosa hai intenzione di fare per quel te stesso che soffochi come il peccato? >> << Vattene! >> urlò Charles fuori di sé, e di nuovo lo spinse, ma questa volta Erik gli afferrò entrambi i polsi, immobilizzandolo con la sua forza, fisica e non, con quegli occhi e quell’animo d’acciaio temprato.
Insopportabile.
Non poteva competere con una cosa simile.
Il suo sguardo gli rapì il fiato dai polmoni, si rese conto che qualsiasi parola, qualsiasi sfogo o insulto non avrebbe affatto nascosto quel che provava, Erik era capace di vedere oltre ogni menzogna.
Lo lasciò andare e Charles indietreggiò di un passo << Ci vediamo lunedì >> lo sentì dire, per poi allontanarsi verso la macchina.

*

Si allentò il cravattino con un’imprecazione, sbottonandosi il colletto mentre si sedeva sullo scalino della porta della servitù.
Aveva indosso lo smoking delle occasioni e le scarpe lucide, con i capelli ben pettinati all’indietro e la barba fatta, la perfetta incarnazione della persona che avrebbe dovuto essere.
Davanti a lui c’era il giardino, ammantato di neve e silenzio, ben lontano dalla parte illuminata a festa del viale e della facciata, vicino alla fontana.
Lì era nella parte nascosta della tenuta, quella che non doveva esistere, quella che tutti fingevano di non vedere.
Un posto perfetto per lui.
Tirò fuori dalla tasca un pacchetto di sigarette insieme ad uno zippo che non aveva la più pallida idea di dove l’avesse procurato, portandosene quindi una alle labbra rabbrividendo contro il freddo dell’esterno.
Dentro c’era senz’altro più caldo, ma nonostante l’aria di festa e il chiacchiericcio che vibrava attraverso le mura anche a quella distanza, Charles preferiva di gran lunga quel piccolo angolo lontano dagli occhi di tutti rispetto all’interno, freddo glaciale compreso.
Non era strano che sua madre organizzasse un ricevimento per Natale.
Sarebbe stato solo più felice di esserne avvertito prima, tutto qui.
Inspirò a pieni polmoni, sentendo il fumo scendere giù caldo e confortante fino a perdersi da qualche parte vicino al suo stomaco.
Lo assaporò per un istante, sapore di tabacco e amaro, poi esalò in una lunga scia di fumo bianco contro il nero che lo circondava.
Il suo cellulare vibrò per l’ennesima volta, e lui lo tirò fuori per scorrere altri messaggi d’auguri, scoprendo se stesso a rispondere meccanicamente con una gioia che non provava.
Se Babbo Natale lo avesse giudicato per il cinismo che provava in quel momento Charles non avrebbe meritato nessun regalo, questo era certo.
Aveva fatto il bravo bambino all’inizio.
Aveva accolto gli ospiti, aveva sopportato le prime venti battute stantie, si era mostrato felice di rivedere persone di cui conosceva a malapena il nome, aveva posato per le foto.
Dal suo punto di vista il suo ruolo istituzionale era stato perfettamente ricoperto, che nessuno avesse da lamentarsene, ma se aveva costretto Raven a togliergli l’ennesimo bicchiere di mano significava decisamente che aveva bisogno di una pausa.
Si passò una mano sul volto, cercando di allontanare lo stordimento, e si rialzò in piedi per fare qualche passo nell’aria gelida con la speranza che lo aiutasse a sbollire, dirigendosi riluttante verso l’area illuminata della facciata.
Il freddo era quasi insopportabile, infilò la mano che non teneva la sigaretta nella tasca del pantalone, come se fosse sufficiente a riscaldarlo, e gironzolò per un po’ tra le aiuole e i cespugli, fino a raggiungere la macchia di alberi da cui partiva il viale, sul limitare della luce prodotta dalle luminare che decoravano il davanti della villa.
Un’altra sigaretta e sarebbe rientrato, promesso.
Si appoggiò al muro di pietra sotto alle finestre del salone centrale, incrociando le caviglie e facendo vagare lo sguardo per le costose macchine parcheggiate nello spiazzo intorno alla fontana.
Dopo il litigio con Erik non era più riuscito a liberarsi della spiacevole e invadente sensazione della rabbia velenosa che lo aveva portato ad urlargli contro e a cacciarlo via come un nemico.
In realtà sapeva perfettamente di averlo usato come capro espiatorio.
Se c’era qualcosa di cui era sicuro era proprio quello.
Ora la rabbia aveva solo trovato un nuovo bersaglio: se stesso.
Eppure la soluzione era semplice, sarebbe bastato chiamarlo per chiedere scusa, Erik non gli avrebbe portato rancore per uno stupido sfogo, ma proprio quella consapevolezza lo faceva desistere.
Rendersi conto di quanta forza possedesse quell’uomo non era stato piacevole, lo aveva messo di fronte alle proprie debolezze con crudele precisione, e chiedere scusa era un po’ come accettarle in se stesso, anche se non c’era assolutamente nulla che potesse e volesse fare per cancellarle.
Non solo a tavola. Anche prima, quel “Io ti amo” scandito come fosse una verità immutabile e indissolubile, un sentimento cristallino e inamovibile come lo era lui.
La verità più dolorosa era che Charles per un momento avrebbe voluto cedervi.
Sarebbe stato così terribile farlo ad un tale sentimento?
Abbandonarsi ad esso, lasciare che quel che Erik provava bastasse per entrambi?
Inutile fingere che non importasse, che non lo desiderasse, che nascondersi dietro l'ombra di una tale forza non lo allettasse.
C'era solo l'orgoglio a trattenerlo, il timore di finire risucchiato da una tale personalità, no, anzi, dover accettare il proprio bisogno di una persona simile, ingoiare la consapevolezza del fatto che si sentiva tanto vuoto e inconsistente che avere qualcuno che riuscisse a trovare in lui qualcosa di cui colmare uno sguardo lo rendeva felice.
Un pensiero che aveva del ripugnante di per sé.
Non era forse per questo che era stato così crudele nell’urlargli contro?
Che Erik poi non lo meritasse affatto non faceva altro che farlo sentire peggio.
Non importava chi avesse ragione e chi torto.
L’unica cosa che importava davvero era che lui non riusciva a vedere alcuna soluzione per la sua situazione, non senza mandare all’aria tutta la sua famiglia, aprendo voragini che probabilmente non era in grado di affrontare né tantomeno risanare.
La sigaretta finì e lui diede in un sospiro mentre schiacciava il mozzicone sotto il tacco << I patti esistono per essere rispettati >> si disse per darsi la forza di tornare dentro, ma mentre si avvicinava al portone sentì la voce di sua madre e istintivamente tornò a nascondersi dietro uno dei cespugli che decoravano l’entrata: << Non hai alcun diritto di dirmi una cosa simile >> la sentì dire, glaciale nel rivolgersi ad un uomo che Charles non conosceva, un distinto signore in smoking e lungo cappotto di cachemire << Ti sto solo consigliando, Sharon. Lo rimpiangerai >> << Non credere di sapere cosa rimpiangerò o meno! >> era sicuro di non averla mai sentita alzare la voce, e anche adesso non lo fece propriamente, si limitò ad usare un’enfasi più accentuata, ma anche solo quella era così inusuale in lei che ebbe lo stesso effetti di sentirla ululare << L’hai detto alla tua famiglia? A tuo figlio almeno. Charles merita di saperlo >> << Lo saprà quando sarà opportuno >> << Quando sarà troppo tardi per nasconderlo >> la corresse lui con aria rassegnata << Non ha alcun senso dirglielo. Ha i suoi studi, la sua vita... non voglio che abbia pietà di me >> dichiarò fermamente << In questo momento la tua famiglia dovrebbe starti vicino. È Natale, Sharon. Non avresti dovuto fare un galà, ma goderti la vicinanza dei tuoi cari >> lei gli ridacchiò in faccia, amara, asciutta, persino un po’ sarcastica << Non siamo quel tipo di famiglia >> sentenziò incrociando le braccia al petto con fare sostenuto.
Il tubino di velluto verde che indossava brillava sotto le luci dell’entrata, riverberando nei suoi riflessi dei gioielli d’argento e smeraldo che portava a collo e braccia << Stai morendo, Sharon >> disse l’uomo con voce grave.
Per Charles fu come uno schiaffo improvviso << Qualsiasi tipo sia la tua famiglia, questo fatto non cambia. Non li rivedrai mai più. Questo è il tuo ultimo Natale e lo stai sprecando >> ci fu un momento di silenzio, gli occhi gelidamente azzurri di Sharon Xavier si posarono sull’uomo come potesse trafiggerlo con lo sguardo << Mi sono occupata della mia famiglia riguardo a questo. Non è certo lo stupido Natale quello che conta, Robert. Non ho alcuna intenzione di vivere gli ultimi mesi che mi restano circondata da sorrisi condiscendenti e sguardi di commozione. Resterò viva finché sono viva >> << M-mesi...? >> ansimò Charles, senza rendersi conto di essere uscito allo scoperto, ed entrambi si voltarono di scatto nel sentirlo.
Sharon inorridì nel riconoscerlo, sconvolta anche più di lui, eppure non si mosse né per avvicinarlo né per allontanarlo << Charles >> disse soltanto, poi un piccolo movimento delle dita per sistemarsi l’acconciatura ancora perfetta, e fece un passo avanti << Robert, questo è mio figlio, Charles Xavier. Charles, lui è Robert Stenford >> << Il tuo oncologo >> terminò per lei il telepate, non decidendo di sondare la mente dell’uomo, ritrovandosi semplicemente a farlo.
In qualche modo quello non sembrò né stupito né spaventato dalla sua precisazione, anzi, i piccoli occhi castani si appannarono e persero nel vuoto, catturati dal potere del ragazzo che inconsciamente stava dilagando intorno a lui.
Avrebbe dovuto prendere un’altra pillola, solo che non riusciva a muovere un muscolo << Mamma...? >> gli uscì invece, un suono straziato, ferito, così colmo di sofferenza che nemmeno lui lo riconobbe come proprio.
La donna guardava Stenford, preoccupata dalla sua immobilità << È a causa tua? >> chiese senza riuscire ad evitarsi di fare un passo indietro.
Charles guardò quello.
Guardò la propria casa, o quella che chiamava tale, la propria madre, i propri piedi << Morirai >> disse << Non c’è bisogno di essere così sconvolti, caro. Perché non vieni dentro? Ti spiegherò ogni cosa >> gli porse la mano ma lui non la prese.
Sentiva il suo sangue scorrere così velocemente da suonare assordante alle sue stesse orecchie << Dammi le chiavi della macchina >> ordinò al medico con voce atona, a malapena si rese conto di averlo fatto, ma l’altro obbedì meccanicamente sotto lo sguardo attonito di sua madre << Charles! >> le voltò le spalle, a lei e al suo rimprovero, a lei che moriva, a lei che presto non sarebbe più stata << Torna qui, Charles! >> non lo seguì, anche se lo avrebbe voluto, anche se forse era l’unica cosa che voleva in quel momento.
Non poteva restare lì.
Non aveva la lucidità necessaria per farlo, c’era una tale confusione in lui, un tale venefico silenzio nei suoi pensieri che non aveva la più pallida idea di come avesse trovato l’auto di Stenford e si fosse immesso in carreggiata.
Non percepiva le lacrime che scorrevano sul suo volto, né il battito assordante del suo cuore, né tantomeno il pulsare atroce delle sue tempie.
Si fermò sul ciglio della strada e vomitò ad un certo punto, ma aveva come l’impressione di trovarsi in un sogno, di galleggiare a metà tra realtà e incoscienza, non del tutto sicuro di nessuna delle due.
Non era sicuro di niente in realtà, nemmeno di dove fosse o dove stesse andando, solo una certezza rimbombava nel suo cervello con la veemenza di un urlo ferino.
Sharon aveva il cancro.
Sharon sarebbe morta.
Mesi.
Mesi.


PS. Grazie a tutti per essere arrivati fin qui e spero tanto che la storia vi stia piacendo quanto a me <3
Per chi ha letto "Rimettere insieme i pezzi" ci sarà un piccolo deja-vu ma sappiate che è voluto e spero tanto che questa volta vada come non è andata nell'altra fic XD XD
*spoiler, spoiler ovunque*

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Il sole arrossava il cielo del tardo pomeriggio, lambendo l’orizzonte coi suoi raggi pigri mentre lui raccoglieva il cesto di vimini con le offerte e usciva dalla casa di pietra.
La donna camminava a pochi passi di distanza, un vestito pulito seppur semplice di stoffa azzurra che le fasciava il corpo minuto e la treccia di capelli bruni coperta in parte da un pudico velo fermato sulla sommità del capo da una spilla di bronzo.
Gli sorrise quando vide il suo sguardo, tese una mano che lui prese automaticamente, cercando di farlo come doveva.
Sposarla era stata una necessità più che una volontà, uno dei suoi compiti quale lo era stato il lavorare i campi o il cacciare, e come tale lo aveva assolto.
Raggiunsero la collina dove altri si erano già raccolti, riconobbe i visi del villaggio ma anche molti sconosciuti, stranieri che come sempre si riunivano in quell’occasione speciale.
La donna prese il paniere che lui teneva e lo posò a terra, aiutandolo a togliersi la camicia per rivelare il corpo temprato e sfilando con un sorriso timido il pugnale che teneva al fianco per avvolgerlo in un panno e poi nasconderlo nel proprio grembiule, poi si avvicinò ancora e lo baciò sulle labbra << Torna da me >> si raccomandò, lui assentì una volta sola, poi avanzò insieme agli altri uomini verso la sommità della collina.
La Caccia segnava la fine dell’anno, colui che trovava e uccideva il cervo sacro avrebbe benedetto la sua famiglia e il suo villaggio per quello a venire, e Erik sapeva bene che in quanto figlio del capoclan spettava a lui vincere contro gli stranieri, come era avvenuto le ultime due volte.
Si era fatto un nome per questo, una reputazione da mantenere, eppure la cosa che lo muoveva in realtà era ben un’altra...
Raggiunse lo spiazzo della cerimonia, alte pietre degli antichi svettavano come porte dell’ignoto sul prato bagnato dalla nebbia dell’imbrunire, e a combattere contro l’oscurità alti e ampi fuochi erano stati accesi tutt’intorno, spandendo nell’aria l’odore famigliare della legna bruciata e quello più alieno dell’incenso e delle erbe rituali.
Il suo sguardo fu focalizzato da un gruppo di tredici ombre proprio al centro, tuniche grigie fermate da cinture nere, uguali sia per maschi che per femmine, e con il cuore in gola vide lui.
Era alla destra dell’Alto Sacerdote, il capo rispettosamente chino e i capelli fermati da una corona di fili d’erba intrecciata, così da lasciare scoperta la pelle bianchissima del volto.
Non vedeva gli occhi a quella distanza, la volontà di avvicinarsi era così forte che avanzò di un audace passo, costringendosi poi a tornare al suo posto mentre i druidi raccoglievano le conche d’argento e si dirigevano verso i giovani come lui in attesa.
Nessuno parlò in quel silenzio, solo un tamburo scandiva il passare del tempo, oppure era solo Erik che non ascoltava il Sacerdote parlare e il tamburo era il suo cuore.
Prese il fango blu dal primo e si tinse la faccia e il petto in lunghe e larghe strisce, prese il sangue dal secondo e disegnò le rune sacre sulla sua fronte e sul suo cuore, ma quando arrivò l’acqua e lui gli porse il calice d’argento perché ne bevesse le loro mani si sfiorarono e per poco il liquido non si rovesciò a terra.
Gli occhi di fiordaliso lo guardarono spalancati di qualcosa molto simile al terrore, le sue labbra sanguigne tremavano palesando ancora di più la sua giovane età, e la sua voce uscì fievole come un refolo di vento in primavera quando parlò:  << Perdonami >> soffiò, porgendo di nuovo la sua offerta.
Erik bevve da lui, sotto quello sguardo incredulo e ingenuo riscaldò le sue mani fredde tra le proprie, e nel tempo di quell’unico sorso parve che avessero consumato un bacio << Grazie, Charles >> sussurrò in rimando, vedendolo scappar via verso il successivo.
 
Era la prima volta in assoluto che non sognava la loro morte.
Era assurdo a pensarci bene, visto che avveniva proprio dopo il loro primo litigio, ma forse era il modo che il suo cervello aveva per tranquillizzarlo dopo una delle giornate peggiori della sua vita.
Non aveva propriamente dormito.
Ricordava il giorno prima dopo che aveva lasciato Westchester, come una sorta di miscuglio indefinito di senso di colpa, rabbia repressa e rimorso straziante.
Una parte di lui voleva solo tornare strisciando da Charles e supplicarlo di dimenticare quello che aveva detto, ma la più grande era semplicemente furiosa, per la sua arrendevolezza e sottomissione, per quel suo temere qualcosa che avrebbe dovuto invece temere lui.
Non riusciva a sopportare che il suo orgoglio riuscisse a convivere con... con tutto quello.
Lo aveva odiato quando lo aveva visto prendere l’ennesima pillola di veleno. Era stato insopportabile.
Eppure non riusciva a dimenticare nemmeno la sua supplica, l’impotenza e la vergogna che aveva visto nei suoi occhi e che lo avevano fatto desistere dal continuare.
Le sue parole erano state crudeli, sapeva esattamente dove colpire del resto, ma non riuscì a volergliene per questo, non sapendo per certo che si era infuriato con lui solo e soltanto perché poteva.
Quel che gli biasimava era il suo assoluto non agire.
Perché permetteva a Cain di torturarlo? Perché restava in quella casa? Cosa lo tratteneva?
La verità pura e semplice era che Charles aveva ragione: non lo conosceva, tre settimane non gli davano alcun diritto.
Ma non lo aveva forse saputo anche prima di parlare? Ma come non parlare dopo quel che aveva visto?!
Si sollevò in piedi ripensando ancora una volta al sogno che lo aveva svegliato quella mattina, non aveva pensato a molto altro per tutto il giorno, finendo persino a rimpiangere il suo ufficio visto che non aveva niente a tenerlo occupato.
Cominciò a cucinare solo per noia, o esasperazione, finendo così per preparare per sé un buon risotto alla zucca, anche se la cosa più piacevole fu proprio avere la mente rivolta ad altro per quaranta misericordiosi minuti.
Mangiò davanti alla televisione, saltando da un canale all’altro stracolmo di repliche di film natalizi e pubblicità di uomini e donne sorridenti, bevve la birra importata che Emma gli aveva fatto trovare sulla porta come regalo e la fece seguire da del buon gin per passare la serata senza ulteriori pensieri, e stava giusto decidendo quanto fosse patetico bere ancora lì da solo quando qualcuno suonò il campanello.
Decise di non aprire.
Chiunque fosse poteva importunare qualcun altro per quella notte.
Ma chi poteva essere la sera di Natale?
Di nuovo un trillo, poi il qualcuno bussò, ripetutamente, infine una voce: << Erik, so che sei dentro >> Charles?
Si ritrovò in piedi prima ancora di deciderlo e dopo un istante era alla porta.
Quando i loro sguardi si incrociarono gli parve di avere davanti il ragazzo del sogno, quel poco più che fanciullo spaventato e sperduto, il suo cuore si strinse in una morsa atroce, tanto che il suo fiato si spezzò a metà di un respiro << Posso entrare? >> chiese, voce roca e fioca, fu quella a tradire per prima il fatto che avesse pianto, solo dopo quella Erik notò le guance irritate e gli occhi arrossati, e provò un doloroso senso di protezione nei suoi confronti.
Avrebbe voluto avvicinarsi e abbracciarlo, immaginò di cingere quelle spalle sottili e nasconderlo al resto del mondo, invece indietreggiò di un passo con un mormorio d’assenso, incapace di parlare semplicemente perché niente di quel che voleva dire poteva essere detto.
Fu Charles a fare tutto.
Lui divorò la distanza che li separava in due brevi falcate, lui lo afferrò per il bavero e si inerpicò su di lui per raggiungere le sue labbra e infine premerle sulle proprie.
Erik non riuscì a far altro che assecondarlo, l’esigenza del telepate era così veemente che lo fece indietreggiare fino alla parete mentre la lingua febbricitante chiedeva il permesso di entrare, e nell’incontrarla con la propria Erik sentì il sapore amaro dell’alcol e del tabacco, quel gusto che già nella sua memoria significava Charles, perciò ebbe bisogno di ogni molecola del suo autocontrollo per prendere quelle mani e allontanarlo da sé.
Solo qualche centimetro, solo per poterlo guardare, solo il sufficiente a far scontrare i loro petti ansimanti ad ogni respiro << Solo un attimo >> si costrinse a dire mentre Charles si tendeva di nuovo verso di lui.
Le iridi turchesi erano vitree, colme di desiderio ma non abbastanza da soppiantare il dolore delle lacrime << Sei ubriaco, Charles? >> << No >> lottò con la sua stretta, lo lasciò andare e lo vide liberarsi della giacca scura con gesti spazientiti << Sicuro? >> la gola di Erik era stretta e secca, lui stesso era incredulo di riuscire ancora a formulare pensieri coerenti.
Charles si avvicinò ancora, insinuò una gamba tra quelle di lui e si premette contro la sua coscia, allungandosi fino al suo orecchio << Sicuro >> affermò con fiato bollente.
Erik si aggrappò alla parete, chiuse gli occhi e richiamò alla mente i propri giuramenti anche se il calore di Charles sulle sue labbra minacciava di farlo capitolare << Vuoi amore o sesso da me? >> chiese, la voce a metà tra una supplica e un ringhio.
Non era sicuro di poter offrire il secondo senza il primo, ma se Charles glielo avesse chiesto lo avrebbe fatto. Avrebbe fatto qualsiasi cosa se Charles glielo avesse chiesto.
In risposta il telepate lo baciò ancora, ed Erik era solo carne per Dio, e niente e nessuno può resistere a qualcosa di simile.
Sentì le dita fredde insinuarsi sotto la maglietta mentre lui lo stringeva a sé, troppo incredulo per quella situazione per capacitarsi di averlo davvero tra le braccia, si lasciò spogliare senza osare fare altrettanto, perché quello era Charles, era l’uomo della sua vita, di tutte le sue vite, e sotto la gioia e il desiderio e il sesso era anche mortalmente terrorizzato di mandare tutto al diavolo << Mi vuoi così tanto... >> lo sentì mormorare, un altro bacio, tanti piccoli baci mentre Erik scivolava a terra e Charles con lui, il primo seduto e l’altro cavalcioni sulle sue gambe sollevate, così che i loro centri pulsanti fossero a brevissima distanza per quanto ancora completamente coperti dai pantaloni << Nessuno mi ama come te >> con mani tremanti raggiunse il suo colletto slacciato e continuò a guardarlo per tutto il tempo mentre apriva un bottone dopo l’altro della camicia inamidata, titubante, quasi si aspettasse che lo allontanasse da un momento all’altro.
Charles sorrideva e aveva gli occhi lucidi.
Charles aveva il petto ampio e la vita stretta, la pelle bianca come il latte e la pancia piatta e liscia pur senza un solo muscolo in evidenza << Sei bellissimo >> lo disse perché non poteva non farlo.
In quella posizione il più giovane era più alto di qualche centimetro, una postazione privilegiata per entrambi a dire il vero, perciò si tese verso di lui come un assetato fa all’acqua per accogliere di nuovo la sua bocca sulla propria, e le sue dita trai capelli, e quel profumo di sapone e tabacco che poteva fargli dimenticare il suo stesso nome.
Scese a baciare il collo teso, assaggiò quella pelle finora solo sognata, lo adagiò sul tappeto sotto di loro e l’altro lo lasciò fare come una palla di creta nelle mani di un artista.
Lo liberò della cintura e per la prima volta gli occhi tradirono paura oltre che... cos’era che brillava negli occhi di Charles?
Lo carezzò e vezzeggiò fino a vedere le palpebre abbassarsi languide, ogni resistenza abbandonò il corpo dell’uomo che aveva rubato il suo cuore, per questo quando lo spogliò del tutto non ci fu alcuna pudica censura, niente e nessuno nascose al suo sguardo quel che aveva davanti.
Il suo fiato si mozzò ancora, il suo cuore batteva così veloce da dolere contro la cassa toracica, e fu lui a sentirsi gli occhi lucidi adesso, era così felice, così meravigliosamente felice che comprendeva senza alcuna incertezza quel che aveva spinto gli altri se stesso ad andare incontro alla morte.
Cosa importava la sofferenza?
Cosa erano mai ventisette anni di tormento se alla fine poteva aver quello come ricompensa?
Non bastava una vita sola, non sarebbero bastate nemmeno cento vite, e ognuna d’esse valeva la pena d’esser vissuta se era accanto a quel capolavoro << Non guardarmi così >> lo rimproverò, malizioso comunque, lascivo, l’uomo sicuro di sé che poteva essere sempre e che invece lasciava risalire solo qualche volta.
Si sollevò a sedere con gesti languidi, torpidi di lussuria, e sciolse il laccio del suo pantalone da tuta, insinuandovi la mano senza distogliere lo sguardo da lui nemmeno per un istante.
Erik esalò, il sorriso che di nuovo piegò le labbra carminio non riuscì a nascondere del tutto due gocce salate che scesero sul suo volto, e fu così bello quel dolore incomprensibile, fu così squisitamente straziante quella vista che Erik avrebbe potuto farne un’ossessione.
Amava quelle lacrime sul volto di Charles, era un pensiero orribile ma non riuscì a reprimerlo, proprio come non riuscì a fare nulla contro quelle dita spudorate che lo solleticavano.
Il telepate si avvicinò ancora, tornò a sovrastarlo e Erik lo assecondò accogliendo quelle natiche nude sulle proprie cosce troppo vestite, cinse i suoi fianchi sottili con le mani mentre si faceva più preciso, più esigente, e serrò le palpebre per non cedere a quel piacere troppo presto << C-Charles >> esalò a mezza voce, non sapeva nemmeno lui perché, un richiamo, una preghiera, che fu esaudita con solerzia dalle labbra truccate di salato << Amo il modo in cui lo dici >> sussurrò mentre lo baciava, mentre lo stringeva, mentre lo piegava << Amo il fatto che mi ami >> raggiunse il suo intimo e lo toccò di rimando, pizzicò le sue corde con delicatezza per vederlo inarcarsi in una curva perfetta nel buio della stanza.
Sapeva dove toccare.
Conosceva la sporgenza appuntita delle clavicole, le sue mani ricordavano esattamente quanto e come avvolgerlo, dove accarezzare e dove premere, quasi che stesse imparando a suonare di nuovo uno strumento già maneggiato in passato.
Non fu facile.
Il corpo di Charles era freddo in tutti i termini in cui poteva esserlo: la pelle sensibile si arrossava con facilità, ogni bacio e ogni tocco poteva essere sufficiente a strappare un ansito logoro, ma non riusciva comunque ad ottenere il risultato che voleva, i piccoli denti affondavano spesso nelle labbra per trattenersi, un fremito fermava le sue mani e il suo corpo si irrigidiva quando Erik diveniva troppo preciso << Puoi lasciarti andare >> gli disse, raccogliendogli le mani quando fu al limite per allontanarle da sé, e le baciò, percorse con la lingua le dita e poi il polso, strappandogli un brivido e uno sguardo di occhi spalancati e increduli.
Lo sollevò con una flessione, perdendosi nel suo cielo azzurro, si lasciò annegare e soffocare, non importava finché era Charles, voleva annullarsi in quell’essere, cedere la sua anima perché quella di lui la sporcasse e risanasse, giacché era l’unica cosa che potesse renderlo davvero di nuovo integro.
Non era come se l’era immaginato. Peggio. Meglio.
Continuò a stringerlo a sé finché non lo adagiò sul letto, la moquette era troppo ruvida per quella pelle sottile, anche se forse era solo lui a pensarlo, e si prese solo un istante per spogliarsi del tutto prima di raggiungerlo di nuovo e affondare il volto in quel corpo magnifico << Va tutto bene, Charles >> disse contro il suo sterno, baciò quel lieve incavo e ripassò con la lingua un’aureola mentre sentiva la sua durezza scontrarsi con la propria << Erik >> fu un suono strozzato, finalmente scomposto, finalmente stonato, si aggrappò a lui come fosse sul punto di cadere << Sono qui >> disse, raccolse una di quelle mani e lasciò che le sue unghie affondassero nelle sue nocche mentre la stringeva, con l’altra invece fece premere il proprio turgore con quello dell’altro, estorcendo in entrambi un respiro lacero dopo l’altro << Sarò sempre qui >> continuò, e lo baciò, lo baciò ancora, era impossibile trattenersi dal farlo, finché il piacere non fu troppo, semplicemente troppo, e tutto quello su cui riuscì a concentrarsi fu il suono dei loro corpi che si stringevano spasmodicamente l’uno all’altro, il suono dei loro cuori assordanti, dei nomi ripetuti come una litania disperata, il minuscolo e assordante rumore delle gocce di sudore che disegnavano ogni muscolo e ogni arto.
Charles fu il primo a venire, un ringhio lacerò la sua bocca e lo soffocò nel cuscino stretto ferocemente ai lati del viso, mentre invece fu proprio quell’ultimo spettacolo a far perdere Erik.
Con uno sforzo non ricadde a peso morto su di lui, riuscì a convincere le sue braccia tese e tremolanti a sostenere il suo peso, riuscì a non perdersi il modo in cui il telepate si abbandonò sul lenzuolo tremante e sfatto, il petto che sussultava ad ogni respiro spezzato e le labbra rosse e gonfie per le cure che aveva riservato loro.
Lo guardava tremare come una foglia del piacere residuo, così bello che avrebbe potuto piangere di una simile visione, e fu senza tempo, senza luogo, un momento che poteva appartenere ad adesso e a sempre, ed era così importante proprio per questo << Mi dispiace >> fu la prima cosa che lo sentì dire, seguita poi da un singhiozzo, un altro, e continuò a tenere le palpebre serrate, come se non riuscisse a guardarlo << A me no >> lo contraddisse Erik, abbassandosi su di lui ancora una volta, languido e pigro come un gatto per leccare quella pelle lucida di loro << Erik! >> finalmente lo guardò, incredulo ed esterrefatto, ma ad Erik non importava, con un gesto volutamente lungo lappò l’addome bagnato d’entrambi e ingoiò senza distogliere lo sguardo da quello di lui, inchiodandolo e lasciandosi inchiodare.
Scese ancora, carezzò le cosce seriche e le scostò con delicatezza per aprirle davanti a sé << Non... non c’è bisogno che tu... >> balbettò l’inglese sollevandosi sui gomiti, spaventato o sconcertato, non sapeva bene quale delle due, ma seppe invece quale fu l’espressione che assunse quando lo prese tra le labbra << Oh Dio Santissimo >> ansimò, ricadendo sul materasso con un lungo gemito << Non posso! Non... Gesù...! >> << Divieni incredibilmente religioso tutto d’un tratto >> lo canzonò Erik ridacchiando, fermando però la sua risposta con un altro tocco di lingua.
Charles si irrigidì ancora, sapeva che lo avrebbe fatto del resto, mentre in contrasto tutto il suo corpo si fece di malleabile gelatina << Niente di impegnativo per stasera. Non sei pronto. Solo qualche giochetto appagante >> << Quello che vuoi. Dio! Non... fermarti... >> Erik obbedì, rise in un brontolio cupo contro il suo turgore, vedendolo tendersi come corda in risposta.
Fu solo allora che percepì per la prima volta la sua voce.
Un gemito, più intenso, più vero, sussurrato direttamente alla sua mente.
Sobbalzò suo malgrado, di sorpresa per un istante, ma sapeva che l’altro avrebbe notato qualsiasi reazione e per questo si affrettò a continuare il suo lavoro certosino.
Charles non parlava perché era la sua mente a farlo.
Rosso, giallo e bianco esplodevano dietro le palpebre di Erik ogni volta che lo sfiorava, colori brillanti e puri come non ve ne sono in natura, lampi che possedevano la consistenza della carne e dei baci << Cazzo >> lo sentì dire d’un tratto, doveva essersi accorto del proprio controllo perduto perché cercò di allontanarsi, di divincolarsi da quella delirante stretta, ma era impossibile giacché prima di tutto doveva vincere se stesso << No... no... no! >> era impossibile perché voleva cedere, lo voleva disperatamente, mentre tutto ciò che Erik voleva era che si fidasse di lui, che capisse che non lo temeva, non lo avrebbe mai temuto, che con lui poteva perdere ogni freno e inibizione.
Anche se ne era terrorizzato.
Ci fu un momento esatto, un istante di attesa esasperata e supplica inascoltata, poi Charles si arrese, non poteva fare altro del resto, e si morse ferocemente un braccio per soffocare il grido che seguì.
Smise di lottare con se stesso, smise di restare immobile, smise di accontentarsi.
Afferrò Erik per i capelli e lo strappò da sé, spingendolo poi sul letto con lo sguardo famelico e vitreo di una belva mentre gli cingeva il capo con i palmi aperti, scatenando sul suo corpo le sensazioni di decine di mani diverse, decine di tocchi e decine di bocche, la sensazione soverchiante di venir raggiunto contemporaneamente in ogni sua parte sensibile.
Non urlò semplicemente perché non possedeva più nemmeno un refolo d’aria nei polmoni.
Meraviglioso e terribile insieme, sentirsi inerme contro quella forza inarrestabile aveva dell’intrigante, ancora di più se poteva specchiarsi senza impedimenti in quelle pozze d’acqua chiara.
Era comunque troppo per entrambi, sensazioni troppo nuove e troppo forti per non travolgerli, e infatti il piacere ben presto schiacciò tutti e due, facendoli venire per un bacio come fossero due ragazzini.
E questa volta né Erik né Charles riuscì a vincere la stanchezza e il torpore, nemmeno il sufficiente a coprirsi con un lenzuolo.
 *
La prima cosa che pensò appena sveglio fu che non era sul suo letto.
Il materasso era troppo duro, il cuscino troppo alto, le coperte troppo sottili.
Eppure non sentiva freddo, il che era strano per uno come lui, ancor di più visto che il termostato dell’appartamento si fermava la mattina presto giacché Raven era fissata con il rispetto dell’ambiente.
Solo allora arrivò la domanda più ovvia e allo stesso tempo più evitata.
Non aveva freddo perché non era solo sul letto, ecco perché.
C’era un’abbondante dose di muscoli e calore a pochissima distanza da lui, no Cristo, pochissima era un eufemismo a dire il vero visto che Charles era letteralmente spalmato sulla suddetta mole.
Nuda.
Cazzo.
Cazzo.
Si tirò su di scatto mentre la notte prima si abbatteva su di lui come un muro fisico, nello stesso momento in cui tutte le sue percezioni, il suo potere non avendo un altro nome per definirlo, spazzava l’intero appartamento e lo faceva boccheggiare.
Erik aprì gli occhi non appena le sue mani mentali lo travolsero, trasalì ma non lo ostacolò, limitandosi a fissarlo preoccupato << Le... le mie pillole >> ansimò Charles, anche se sapeva benissimo di non averle con sé.
Erano a Westchester, nel suo cassetto, lontane mille miglia per quel che potevano essergli utili adesso << Va tutto bene. Tranquillo >> lo vide alzarsi in piedi, quasi due metri di nudi muscoli scolpiti in marmo brunito, ma quando cercò di toccarlo Charles lo evitò, rannicchiandosi su se stesso e tappandosi le orecchie con le mani.
Sentiva le proprie protezioni scricchiolare ogni istante di più, sobbalzò quando la voce della vicina gli trapanò il cranio, e forse Erik se ne accorse perché si chinò su di lui e lo abbracciò, coprendolo con quel corpo troppo grande come volesse creare un muro fisico per qualcosa che di fisico non aveva nulla << Ho bisogno di... devo... >> << Calmati solo un momento. Charles. Mi senti, Charles? >> lo prese per le spalle e lo fece sollevare di nuovo così che potesse guardarlo in volto.
Non si rendeva conto che così assottigliava soltanto il velo che li divideva?
Non aveva paura per l’amor del Cielo?!
Perché Charles ne aveva, eccome, abbastanza per entrambi forse, ma gli occhi grigi invece non ne trasmettevano nemmeno un briciolo << Chiamerò Raven e le dirò di portarti gli inibitori. Nel frattempo... cerca solo di resistere >> si allungò per prendere il cellulare dal comò, ma prima che potesse completare il gesto Charles era dentro di lui, non perché lo aveva deciso ma perché non poteva essere altrimenti, e lo vide rabbrividire prima di voltarsi di nuovo nella sua direzione.
Charles vide se stesso attraverso i suoi occhi, vide la propria paura, il volto cereo, due macchie tanto azzurre da parere dotate di luce propria che trasmettevano senza filtri il puro e semplice terrore che provava << Charles >> fu solo il suo nome, nient’altro, eppure era così carico di... di tutto, che Charles sentì il suo cuore scoppiarne.
Si portò una mano al petto, ansimò, e si piegò in due sopraffatto da quel che Erik provava << Mi dispiace! Oh mio Dio... mi dispiace! >> esclamò quello, lo raggiunse ancora ma non seppe più se toccarlo, Charles sentiva il suo panico come un gusto acre sulla punta della lingua, e d’improvviso aveva l’impressione di non riuscire più a respirare.
Spinse via Erik da sé, si sollevò in piedi e barcollò fino alla porta, ricadendo però contro il muro del corridoio quando lo strillo acuto di qualcuno che non avrebbe dovuto sentire gli risalì lungo la spina dorsale.
Era nudo.
Se ne accorse solo adesso, solo nel sentire la moquette graffiargli le gambe, nudo e vulnerabile come un maledettissimo bambino, incapace anche solo di mettersi in piedi da solo mentre voci sempre più numerose e discordanti rimbalzavano nella sua testa.
Si rannicchiò su se stesso, chinandosi sulle proprie gambe pallide e tremando come una foglia, uno spettacolo a dir poco patetico lo sapeva, eppure era troppo spaventato per fare qualsiasi altra cosa, nemmeno pensare.
Perché era lì innanzitutto? Perché non aveva portato le pillole con sé? Perché era nudo per Dio?!
Conosceva la risposta a tutte queste domande, naturalmente, tuttavia restava dietro un solido muro di cemento che lui stesso aveva costruito, un muro tra se stesso e l’orribile realtà.
Un tiepido peso ricadde sulle sue spalle, una coperta probabilmente, ma a malapena ne fu cosciente << Charles >> << Sta zitto... sta zitto...  >> singhiozzò il telepate << Ho chiamato Raven. Sarà qui tra poco. C’è qualcosa che posso fare per te? >> << Whiskey >> Erik assentì in un mormorio, sentì i suoi passi allontanarsi concitati e poi tornare dopo poco.
Charles si sollevò solo il sufficiente per prendere la bottiglia, ignorò il bicchiere e cominciò a berne lunghi sorsi come se da essa dipendesse la sua stessa vita, ad occhi chiusi, ogni grammo della sua forza concentrato nell’allontanare da sé il resto del mondo.
Non era whiskey ma gin, se ne accorse dopo che si staccò per riprendere fiato, più per l’etichetta che per la sua lingua completamente anestetizzata dall’alcol, e rilasciò un piccolo sospiro di sollievo quando all’intontimento seguì un meraviglioso abbassamento di volume.
Bevve ancora, automatico, si chiese vagamente se fosse sufficiente a fargli del male, ma Erik gli tolse la bottiglia prima che potesse rispondersi << Basta >> accanto a lui c’era un cambio di vestiti accuratamente ripiegato, Charles focalizzò lo sguardo su quello per non pensare al motivo per cui fosse necessario, ma quando si allungò per prenderlo le mani dell’altro lo fermarono ancora << Che succede? Ho bisogno di saperlo >> era preoccupato, non lo aveva mai visto così preoccupato, con una ruga profonda che gli attraversava la fronte << Sto bene >> << Non rifilarmi le tue stronzate >> ribatté Erik trai denti, strattonandolo poi per obbligarlo a guardarlo.
Per un momento si guardarono e basta, Charles assaporò i suoi pensieri, i suoi sta male, oh Dio cosa gli è successo, cosa ho fatto questa volta, assaggiò ciascuna di quelle sensazioni come un gourmet, senza distogliere gli occhi un secondo da quello sguardo composto di minuscole scaglie grigie, azzurre e verdi << Mi fai male >> lo lasciò di scatto, anche se senza smettere di guardarlo << Ti prego Charles. Io... io non capisco >> << Non è necessario che tu lo faccia >> avevano fatto sesso.
Oh sì, proprio così.
Erik ci provava a non pensarci, provava a non ripensare alla sera prima, ma era un ricordo così luminoso dentro di lui, così forte, che Charles non trovò molto altro a governare la sua testa.
Ovviamente Charles lo ricordava. Adesso sì.
Ogni cosa.
Anche il motivo che lo aveva spinto a venire da quell’uomo e approfittarsi impunemente del suo calore e del suo sentimento, trattandolo alla stregua di un fuoco caldo a cui ci si accosta quando si ha freddo e che poi si calpesta una volta che ha terminato il suo scopo.
Erik era una persona, lo amava, e Charles invece lo aveva trattato come una cosa.
Questa volta desiderò il gin per ben altri motivi...
Si tese di nuovo verso il cambio, non trovò impedimenti adesso, e si infilò la maglietta troppo grande con un’imprecazione morsicata << Sei stato tu a venire da me >> disse Erik.
Perché lui era come un treno, non si fermava mai, non capiva e non voleva capire, bruciava e basta senza rendersi conto di che irresistibile richiamo fosse per chi non si sentiva altro che una falena abbacinata << Lo so >> azzannò Charles, cercando di infilarsi anche i pantaloni della tuta senza esporre più di ciò che già aveva esposto in abbondanza.
Era stato gentile.
Erik lo aveva trattato con la massima cura << Mi dispiace, va bene? Ero solo... solo... >> stai morendo, Sharon.
Scosse il capo con veemenza, afferrò di nuovo il collo della bottiglia sul pavimento e bevve ancora, ingoiando con il liquore anche quella voce molesta.
Non doveva pensarci, non adesso << Charles >> << Smetti di dire il mio nome! >> gridò il telepate a quel punto, esasperato da...da... tutto!
Da quel sentimento cristallino e soffocante che non poteva ricambiare, dalle voci di sottofondo che continuavano imperterrite, dal proprio cuore che gridava per la sua attenzione!
Non riusciva a respirare << Come devo chiamarti? >> non era arrabbiato, anzi, c’era un lieve sorriso su quella bocca avara, e ancora una volta in quell’uomo che pareva composto di ferro e ghiaccio Charles vide solo amore e premura, il migliore amico che aveva tradito nonostante gli avesse dato il proprio cuore da custodire << Mi dispiace, Erik >> si ritrovò a dire, incapace di sopportare oltre quella fiducia incontrastata e incontrastabile, incapace di sostenere il peso dell’aver infangato qualcosa di così puro e vero << Di cosa? >> Charles si sollevò sulle ginocchia e lo accostò sapendo bene che l’altro non lo avrebbe fuggito.
Lo sapeva quando gli posò le mani sulle tempie perché anche la sera prima era successo lo stesso, quel magnifico uomo di cui non era all’altezza non aveva temuto né lui né il suo potere nemmeno per un millesimo di secondo << Per questo >> e con il respiro successivo Charles cancellò se stesso da quell’ordinata mente di acciaio, prese il proprio nome e lo relegò nell’angolo più oscuro e nascosto della sua memoria, raccolse quel sentimento accecante e lo rinchiuse in una teca di cristallo, scavò una fossa profonda in quella coscienza e ve lo seppellì così che mai più dovesse tormentarlo.
Piangeva quando si allontanò da lui, lo sguardo di Erik era vitreo e sperso, come di chi sogna ad occhi aperti << Adesso vai a dormire >> sussurrò cercando di parlare chiaramente attraverso i singhiozzi << Dormi e non sognare. Dimenticami. Al tuo risveglio continuerai la tua vita come se io non ne avessi mai fatto parte >> Erik si sollevò in piedi meccanicamente, non lo degnò di uno sguardo, andò nella sua stanza e si chiuse la porta alle spalle.
Charles la fissò per un lungo momento, continuando a piangere con le ginocchia strette al petto finché un paio di occhi azzurri non entrarono nella sua visuale << Mi dispiace >> gli uscì quando le mani fredde di Raven gli presero il volto << Va bene, tranquillo. Andiamo a casa >> << Lui è stato così onesto con me! Ma io... io... non merito di essere amato così. Sapevo che avrei ceduto. Non sono così buono >> ed era vero, vero tanto da far male.
Lasciò che lei lo rimettesse in piedi, ingoiò due pillole quando gliele porse e si trascinò fino alla porta mentre sua sorella raccoglieva i vestiti del suo patetico fratello << Non lo merito >> ripeté a nessuno mentre usciva << Non merito niente >> singhiozzò ancora.
 
NA: Okay, siamo arrivati al giro di boa. Da qui la storia prenderà forma e comincerà la parte più "succulenta". Spero che continuerà a piacervi, spero di essere riuscita a trasmettere con le mie parole tutto quel che ho provato mentre scrivevo, e spero anche che mi fornirete le vostre impressioni <3
Un grazie ancora a tutti coloro che leggono, un grazie ancora più grande a coloro che spendono il loro tempo per recensire, un grazie immenso anche solo per aver dato un'occhiata!

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Le persone mentono.
Il mondo non è composto da sorrisi gentili e dolci promesse.
Charles non era mai stato abbastanza ingenuo da crederlo, semplicemente era composto da questa scomoda e cristallina fiducia indistruttibile, nonostante i fatti, le situazioni, nonostante tutto ciò che l’esperienza gli aveva insegnato cercava comunque di pensare bene degli altri, di dare una possibilità.
Cosa aveva ottenuto?
Una paura fottuta dei legami, una faccia ipocrita e la totale incapacità di incassare le delusioni.
Puoi vedere il bene in chiunque, ma cosa fai quando smetti di vederlo in te stesso?
Si sollevò dal libro su cui si era addormentato la sera prima, tenendosi il capo con un gemito perché la luce dello schermo del suo pc lo accecò nell’oscurità della stanza, e si allungò per prendere una pillola dal contenitore poco lontano.
Per un momento pensò di essersi svegliato da solo, poi il bussare alla porta lo fece ricredere << Charles, apri la porta >> Raven non lo lasciava solo nemmeno per un momento.
Poteva sembrare asfissiante, ma anche lui non avrebbe fatto diversamente se l’avesse vista versare in stato catatonico per un’intera giornata << Sto bene >> mormorò << Non voglio sentirtelo dire, voglio vederti. Apri la porta o la distruggo. Sai che posso farlo, non costringermi >> sospirò ancora, si passò una mano sul volto stanco e si sollevò in piedi per trascinarsi alla porta.
Raven era ferma di fronte a lui, capelli stretti in una treccia e completo elegante.
Tenuta da Westchester, il che era strano << Mamma ha un appuntamento alla clinica. Dobbiamo andare con lei >> lui sbuffò, non si diede la pena nemmeno di risponderle, volgendosi invece per lasciarsi cadere sul letto << Charles, so che non condividi la sua decisione, ma siamo la sua famiglia. Dobbiamo stare al suo fianco adesso >> << La sua famiglia >> le fece eco lui ironico.
Raven per un po’ non parlò, restando ad osservare il relitto che era suo fratello senza saper che fare.
Non lo aveva mai visto così.
Quando era andata a prenderlo da Erik aveva pensato che fosse stato il suo potere a ridurlo così, che avesse bisogno solo dei suoi inibitori, ma poi era successa quella cosa orribile, lui si era come spento, lo sguardo fisso e assente, perso nel vuoto, insensibile a qualsiasi stimolo.
Aveva smesso di risponderle, di guardarla, per questo lo aveva portato a Westchester terrorizzata.
Era stato allora che Sharon le aveva raccontato tutto.
Del cancro, del suo rifiuto delle cure, di come Charles lo avesse scoperto.
Voleva bene alla donna, non poteva negarlo, ma quando aveva saputo l’unica cosa che aveva pensato era che suo fratello aveva tutte le ragioni di essere in quello stato.
Poi il giorno dopo si era come risvegliato, aveva sbattuto le palpebre e le aveva sorriso, come se nulla fosse successo, ma niente avrebbe cancellato dalla sua memoria l’immagine di lui immobile come una bambola.
Si avvicinò al letto e sedette al suo fianco, tirando indietro i capelli che gli nascondevano la faccia << Lo so che è dura >> << Noi non siamo la sua famiglia. Non ci avrebbe detto nulla se non l’avessi scoperta >> << Questo non puoi saperlo >> << Lo so perfettamente invece >> di tutte le emozioni che provava era la rabbia a prevalere, o almeno a quella lui permetteva di farlo giacché era l’unico modo per dimenticare il dolore << Vuoi essere arrabbiato con lei anche adesso? Potresti pentirtene per il resto della tua vita >> Charles si sollevò a sedere, fulminandola con lo sguardo << Ha rifiutato le cure, Raven. Sai cosa significa? Che ha smesso di lottare. Forse non ha mai nemmeno cominciato. Non vuole affrontare il suo cancro solo per il suo dannatissimo orgoglio. Non parlarmi di famiglia. Siamo il suo staff delle pubbliche relazioni, niente più >> << Non lo pensi davvero >> << Sei una telepate anche tu? >> nel dirlo si allungò verso la bottiglia abbandonata sul pavimento, ma prima che potesse berne lei gliela tolse di mano << Non posso aiutarti se non mi dici cosa sta succedendo >> << Cosa vuoi che ti dica esattamente? >> << Non ti stai comportando troppo diversamente da Sharon >> lui trasalì, lo vide impallidire, poi però sbuffò con amaro divertimento e tornò a sdraiarsi << Sarà una cosa di sangue allora. Sei fortunata >> per tutta risposta lei si sollevò in piedi, imprecò, e fece alcuni passi rabbiosi per la stanza prima di parlare ancora << Odio quando fai così. Non ti riconosco >> aveva gli occhi lucidi, ma ancora non si era arresa alle lacrime << Io ce la sto mettendo tutta, Charles. Davvero. Ma... ma... non ce la faccio da sola, lo capisci? Non mi dici cosa ti sta succedendo. Non mi dici cosa è successo con Erik. Non so nemmeno cosa ti sta capitando con il tuo potere! >> << Sto benissimo >> << Se devi mentire allora è meglio che tu stia zitto >> lo aggredì, e lui non era l’unico a preferire la rabbia al dolore << Sei un fottuto codardo, ecco la verità >> disse, vedendolo spalancare gli occhi di incredulità.
Per un lungo momento non successe nulla, si limitarono semplicemente a scambiarsi occhiate indecise tra furia e desiderio di pace, poi però qualcuno suonò alla porta, prendendo per entrambi la decisione di rimandare il conflitto.
Raven marciò fino alla porta d’ingresso con un sibilo a mezza voce, ma non era l’unica arrabbiata quando la aprì: davanti a lei c’era Emma, gli occhi azzurri taglienti come spade e il bellissimo volto stretto in un’espressione d’ira palese << Dov’è lui? >> azzannò, superando però l’amica subito dopo, senza attendere alcun permesso, e gettò la borsa sul divano per proseguire fino alla stanza di Charles, sorda a qualsiasi protesta.
Sotto lo sguardo attonito di Raven raggiunse il ragazzo e lo afferrò per le spalle, sollevandolo come fosse un fuscello con quelle esili braccia per poi sbatterlo contro la parete << Cosa gli hai fatto?! >> lo aggredì << Lascialo andare! >> gridò Raven entrando nella stanza << Dormi >> fu il semplice comando dell’avvocatessa, e sotto lo sguardo attonito di Charles sua sorella crollò al suolo subito dopo, in un sonno profondo << C-come...? >> << Rispondi alla mia domanda! >> intimò l’altra, strattonandolo furiosamente facendogli sbattere la nuca contro il muro.
Gemette, ma lei non si lasciò intenerire << Sei un telepate, non è così? >> << Come te a quanto pare >> lei diede in una risatina beffarda << Sei anche arrogante oltre che stupido allora. Cosa hai fatto ad Erik? >> << Gli ho cancellato la memoria >> << Perché? >> << Non credo sia cosa che ti riguardi. Lasciami andare adesso >> per tutta risposta lei rinsaldò la stretta sul suo bavero e di fronte all’incredulo inglese si trasformò in una figura vivente di puro diamante.
Non la sua pelle si ricoprì d’esso, niente di così superficiale: il suo intero corpo si trasformò in una gemma semovente, trasparente come vetro e intagliata in innumerevoli sfaccettature mutevoli ad ogni movimento << Per il Signore Onnipotente >> ansimò quello, poco prima che lei lo gettasse sul letto come pesasse nulla, immobilizzandolo con quelle mani adamantine e gravando con un ginocchio di cristallo contro il suo stomaco << Hai idea di quello che gli hai fatto? >> gli sibilò contro << Ho cancellato la mia presenza dalla sua memoria. Non è così grave: ci conosciamo da poche settimane, un vuoto facile da riempire >> << Razza di...! Poche settimane! >> Charles non si rese conto del suo attacco mentale finché non sentì la prima fitta lancinante perforargli il cranio.
Un grido gli spezzò le labbra, ogni sua protezione si infranse, ma invece di sentire il suo potere dilagare come accadeva di solito adesso gli inibitori lo tenevano ben imbrigliato e il risultato fu la completa incapacità di difendersi dall’intrusione della donna.
Raggiunse la sua biblioteca con facilità disarmante, si diresse senza indecisioni verso lo scaffale di Erik e con altrettanta incuria si appropriò dei ricordi che cercava.
Quando Charles riemerse nella realtà con lei, seguendola impotente così come l’aveva seguita nell’inconscio, aveva le guance bagnate e la gola che bruciava per le urla oltre che dolore straziante alla testa << Avete fatto sesso >> << Vai a farti fottere >> cercò di liberarsi della sua stretta, cercò di far presa su quel corpo adamantino, ma aveva rinunciato volontariamente alla sua unica arma, lo sapeva bene, e non poteva biasimare che se stesso se era completamente alla sua mercé adesso.
Fu lei a lasciarlo, con un passo indietro, e tornò l’innocua amica di sua sorella per cui l’aveva scambiata per tutto quel tempo, ma era abbastanza intelligente per non aggredirla nemmeno adesso visto con quanta facilità lo avesse contrastato << Tu non sai niente di lui >> sentenziò sprezzante << Fai bene a sentirti un verme. Non hai la più pallida idea di quello che hai fatto >> << Sono abbastanza sicuro che riuscirà a sopravvivere anche senza di me >> ribatté lui a tono, sotterrando la vergogna per non umiliarsi ancora di più di fronte a lei.
Sapeva benissimo di essere fuggito a quello che aveva fatto, non era stato abbastanza forte per affrontare Erik e il proprio tradimento, non lo era nemmeno adesso, ma non aveva messo in conto quanto sarebbe stato tormentoso affrontare con se stesso le conseguenze della sua scelta << Lui non può dimenticarti. Tutto ciò che hai fatto è stato tradirlo e ingannarlo. Quando lo scoprirà, e non ho detto se ma quando, te la farà pagare >> << Non ti facevo così sentimentale. Adesso mi dirai che il potere dell’amore può ogni cosa? Stiamo parlando di memoria, di dati mnemonici. Il nostro cervello non è troppo diverso da un computer >> << Curioso che tu abbia fatto proprio questa associazione. Mai sentito parlare di dati fantasma? Niente si cancella mai davvero >> di nuovo un’occhiata disgustata, lo fissò dall’alto in basso con sufficienza, quindi si voltò verso la scrivania e prese il suo flacone delle pillole, osservandolo con un sopracciglio sollevato << È così migliore la normalità? >> << Chi sei tu per entrare in casa mia e sputare sentenze sulla mia vita? >> << Non ti sei comportato troppo diversamente con colui che hai chiamato migliore amico o sbaglio? >> stappò il contenitore con il pollice dall’unghia perfettamente smaltata, afferrando una compressa bianca e anonima tra due dita, come potesse capirne la composizione solo guardandola.
Ne posò due sulla scrivania e prese il resto << Sai almeno che tutti i problemi che stai cercando di ignorare prima o poi busseranno di nuovo alla tua porta? Stai solo rimandando l’inevitabile >> << Ho proprio bisogno di una bionda che mi spieghi come affrontare... >> << Puoi fare di meglio >> lo zittì << Non so cosa Erik abbia visto in te, ma per un momento gli ho creduto, sai? Uno zaffiro, ho pensato, un diamante blu come quegli occhi immeritati che ti ritrovi. Invece a malapena sei uno zircone da quattro soldi. Buono per ingannare un occhio disattento, ma non cambia ciò che sei: bigiotteria da bancarella >> e con queste parole se ne andò sbattendo la porta.
 
*
Come ogni mattina si svegliò al suono della prima sveglia, il suo corpo troppo abituato ai ritmi lavorativi per indugiare ancora nel sonno, e sospirò mentre fissava il soffitto.
La prima cosa di cui fu cosciente fu il mal di testa, una sensazione pulsante all’altezza della tempia, e si maledisse perché aveva finito le aspirine la sera prima, ma si ripromise di fare una piccola sosta in farmacia prima di prendere la metro.
Scelse un completo grigio, il che gli ricordò anche che doveva passare in lavanderia, e lo stese sul letto rifatto con militaresca routine prima di infilarsi sotto la doccia.
Il mal di testa proseguiva da quattro giorni ormai, infastidendolo sul lavoro e sul resto della sua vita, facendolo arrivare in ritardo da sua madre ad esempio, e il venerdì prima, quando era appena iniziato, aveva perso il filo del discorso durante una riunione con Darkholme.
Aveva sperato che passasse con il riposo, il giorno prima aveva rinunciato anche alla sua corsa della domenica, ma non era servito a niente evidentemente.
Si vestì come faceva ogni mattina.
Pantaloni, camicia, cintura, cravatta, gemelli, scarpe, giacca.
Si versò il succo di frutta mentre con un pensiero manovrava il mestolo che cuoceva le uova e un altro gli allacciava l’orologio al polso.
Ripensò alla donna della sera prima, una certa Emma Frost, e il mal di testa si fece ancora più forte nel ricordare la sua espressione scioccata quando lo aveva visto.
Era stata lei a presentarsi a casa sua, quello scioccato sarebbe dovuto essere lui.
Come sapeva dove abitava?
Non ricordava di averla vista da nessuna parte, anche se lei gli aveva detto che era un’avvocatessa dello studio.
Non gli aveva detto perché si era presentata alla sua porta, quasi si fosse scordata perché aveva suonato il campanello, si era limitata ad andarsene sui suoi tacchi vertiginosi senza degnarlo della benché minima spiegazione.
Aveva cercato di fermarla, ma in qualche modo non era riuscito a muoversi di un passo per seguirla.
Avrebbe confermato la sua identità una volta raggiunta Margaret, su questo non c’era alcun dubbio, e questa volta sarebbe stato lui quello a presentarsi ad un campanello.
Afferrò un sacchetto di mirtilli sottovuoto mentre usciva, anche se non ricordava di averli comprati, e scese in strada.
Si fermò a prendere il caffè come faceva tutte le mattine, lasciò la solita mancia, comprò il giornale per abitudine anche se le notizie di cronaca gli interessavano ben poco.
Non aveva la più pallida idea del perché lo facesse.
Il mondo poteva anche bruciare per quel che lo riguardava, la notizia non lo avrebbe toccato minimante visto che se si escludeva sua madre non c’era nessun altro nella sua vita.
Un pensiero confortante, non c’è che dire.
La metropolitana era stracolma come al solito, fastidiosa ma sopportabile, soprattutto se si concentrava a bere il suo caffè e ignorare tutto il resto.
Arrivò puntuale, perciò non si affrettò nella calca, bevve l’ultimo sorso in tempo per gettare il bicchiere nello stesso cestino in cui lo faceva da anni e ripiegò il giornale per consegnarlo poi a Fred una volta raggiunto l’ufficio << È morto qualcuno d’importante oggi, signor Lehnsherr? >> fece quello ridacchiando, strappandogli un sorriso mentre andava all’ascensore << Nessuno che valga la prima pagina >> sentì la sua risata poco prima che si richiudessero le porte e tanto bastò a mantenere il suo buonumore.
Irrimediabilmente guastato una volta che si accorse di essersi scordato ancora le aspirine in qualche assurdo modo, persino con il mal di testa ancora a perforargli le tempie, e sperò con un sospiro che Margaret potesse aiutarlo mentre si dirigeva alla sua scrivania << Signor Lehnsherr >> lo richiamò proprio quella, prima che potesse parlare lui per primo, guardandolo con un misto di nervosismo e disagio pesante sulle spalle, il che lo mise istintivamente sul chi vive << La Frost è qui di primo mattino e si è piazzata nel suo ufficio. Non vuole andarsene, dice che deve parlarle assolutamente >> << Frost? Emma Frost? >> la segretaria parve un momento un po’ perplessa da quella specificazione, ma si assestò gli occhiali distrattamente e assentì << Esattamente >> << È davvero un’avvocatessa associata? >> di nuovo Margaret parve non capire quello che aveva detto.
Sollevò un sopracciglio << Mi ha chiesto di chiamarla più di una volta, signor Lehnsherr. Credevo... beh, credevo che usciste insieme >> fu come venir colpito da uno schiaffo in pieno volto.
Impallidì, non poté fare diversamente, chiedendosi se non fosse un brutto scherzo.
O un incubo.
Prima sua madre che gli chiedeva di un fantomatico amico e adesso scopriva anche che aveva una ragazza che non conosceva.
Non ricordava di aver battuto la testa << S-sì. Certo. Scusa, una brutta nottata >> lei sorrise da brava segretaria professionale e fece per tornare alla sua postazione << A questo proposito, posso chiederti un’aspirina? >> il sorriso di lei si allargò ancora << Certamente, signor Lehnsherr >> si mosse verso la caffetteria quindi, mentre lui andava nel suo ufficio.
La trovò seduta di fronte alla scrivania, molto bionda e molto bianca, capelli chiarissimi acconciati in uno chignon elegante, abito firmato di un candore niveo che le scopriva due paia di gambe lunghe e invitanti, occhi di un azzurro di diamante che quasi feriva lo sguardo nel riverberare il luccichio dei brillanti che portava al collo e ai polsi << Sei in ritardo >> dichiarò piccata nel guardarlo << Non sapevo avessimo un appuntamento >> non si lasciò intimidire né distrarre dalla bella confezione, togliendosi il cappotto con disinvoltura prima di prendere posto sulla sua poltrona << Normalmente non mi immischierei >> esordì, come se lui capisse a cosa si riferiva << Ma si da il caso che il legame che avevo istaurato con te sia stato intaccato in qualche modo. Quel ragazzino è più incapace di quel che pensassi >> << Legame? Ragazzino? >> << Oh, sta’ zitto e ascolta, non ho molto tempo. Tra un’ora devo essere da mio padre >> fece spazientita, ripassandosi un sopracciglio curato con un dito altrettanto curato.
Le unghie parevano di vetro tanto brillavano << So delle tue capacità. Puoi controllare i metalli >> buttò lì, senza preamboli, anche se Erik sentì il proprio cuore saltare un battito << C-come...? >> lo ignorò, come se non avesse visto la sua faccia incredula << Anche tu sai delle mie. Sapevi almeno. Non proprio tutto, ma qualcosa. Sono una telepate, posso leggere la tua mente. Mi hai detto che siamo una sorta di evoluzione della razza umana, dei mutanti, hai usato questa parola. Non sappiamo da cosa derivi la nostra mutazione. A me non importa, a te non del tutto >> << Chi sei? >> lei alzò gli occhi al cielo << Mi sono già presentata. Ti ho detto che non ho molto tempo. Devo farti un riassunto veloce >> << Io credo di volere quello lungo invece >> sibilò l’uomo, facendo scattare la serratura con un gesto della mano per far intendere che non l’avrebbe lasciata andare.
Non parve molto preoccupata dalla cosa << Se potessi ti ridarei tutto quello che hai perso, ma oltre che essere maldestro e stupido pare che la causa di tutto questo abbia anche un potere spropositato >> << Causa? È il ragazzino di cui parlavi? >> Emma sospirò, si appoggiò per un momento alla sedia, poi tese la mano << Dammi un attimo il tuo cellulare >> una richiesta del genere lo avrebbe lasciato interdetto in ogni caso se posta da una sconosciuta, ma in quel momento parve tanto assurda che non riuscì a far altro che assecondarla.
Lei lo posò sul ripiano di mogano tra loro, in modo che potesse guardare quel che stava facendo << Ti conosco abbastanza da sapere che non mi crederesti in ogni caso, quindi ecco le prove >> toccò l’icona della rubrica con l’indice sottile, digitò poche lettere perché i suoi contatti non erano così tanti e gli mostrò un nome e un numero che non aveva mai visto << Charles Xavier >> lesse per lui << Questo nome dovrebbe dirmi qualcosa? >> la apostrofò, anche se lui stesso si stupì della sua presenza.
Forse aveva semplicemente sbagliato a salvare il numero di un cliente, mettendolo nel gruppo dei personali invece che di quelli del lavoro << Direi di sì visto che avete fatto sesso non più di quattro giorni fa >> mentre parlava, con tutta la tranquillità di questo mondo per di più, selezionò l’archivio fotografico e cominciò a scorrere le sporadiche foto salvate, fino a fermarsi su una che non ricordava di aver scattato.
Era in un appartamento sconosciuto, non conosceva nemmeno una persona di quelle immortalate in un brindisi dimenticato, tantomeno riconobbe il ragazzo su cui lei attivò lo zoom << Lui >> sentenziò la Frost, lasciando infine il cellulare per tornare ad appoggiarsi alla sedia.
Erik stava per cominciare ad urlare subito dopo la parola “sesso”, era del tutto intenzionato a sollevare quella presuntuosa barbie e sbatterla fuori del suo ufficio, ma nel guardare la foto ogni parola o emozione gli morì in gola, lasciando solo una sensazione viscida e fredda lungo la schiena.
Paura.
Il suo cuore accelerò i battiti in maniera furiosa << Anche lui è un telepate, ma come ti ho detto, è stupido. Ha cancellato la tua memoria, ma non ha fatto nient’altro. Io avrei fatto un lavoro più pulito >> << Ha... ha fatto cosa? >> lei sospirò con una punta di esasperazione, guardando infine l’orologio << Posso raccontarti di lui per tutto il giorno, ma non cambierà nulla. Non puoi ricordartene. È stato così radicale che ha cancellato persino tutti coloro tra le sue conoscenze con cui sei entrato in contatto >> << Non... n-non è possibile >> << Cosa hai fatto per la vigilia di Natale, Erik? >> chiese lei invece, incrociando le braccia al petto.
Già, cosa aveva fatto?
Il mal di testa lo colpì con una martellata violenta mentre si concentrava, ma a parte il vago ricordo di un viaggio in macchina non riusciva a mettere a fuoco nient’altro.
La paura attivò la rabbia adesso, e come non gli accadeva da secoli il suo potere aggredì l’intorno facendo tremare ogni singolo oggetto di metallo.
Un fremito solo, ma fu impressionante, come un’onda d’urto che si propaga invisibile << Perché l’ha fatto? >> non dubitò più di lei, era chiaro che stava dicendo la verità, e se non si fidava per lo meno era certo che non mentisse << Mettiamola così: avete parecchie cose non dette >> << Ne parli come se fossimo una coppia >> << Cosa della parola “sesso” non ti è chiara? >> << Lui è un uomo! >> << A quanto ho capito non è mai stato un gran problema per te >> anche di questo non si ricordava.
Come fa un uomo a non ricordarsi di una parte così importante della sua vita?
C’era qualcosa di vago, sensazioni incomplete e residue, un tocco o una voce, ma non ricordava nemmeno uno dei volti del suo passato, come se in realtà non fosse mai stato con nessuno << Da... da quanto lo conosco? >> ansimò << Poche settimane >> << Come può aver influenzato così tanto della mia vita in poche settimane?! >> esclamò battendo un pugno sulla scrivania.
Emma guardò la sua mano, guardò lui, e per la prima volta Erik vide qualcosa di simile all’empatia in lei.
O per quella che credeva fosse la prima volta << Non credo che tu sia pronto per qualcosa di più. Speravo che a questo punto i ricordi tornassero, a dire il vero >> << Di più? Cosa ci può essere più di questo? >> << C’è parecchio di più, credimi. Ma non credo di essere la persona giusta per parlartene >> << E chi potrebbe? A quanto pare sei l’unica che abbia avuto la decenza di farlo in quattro giorni >> lei sospirò, lisciandosi le ciocche perfette con una mano, un gesto superfluo che però le diede il tempo di riflettere un poco << Hai bisogno di una fonte attendibile. Io non lo sono per te in questo momento. Qualcuno di cui ti fidi. Quel che posso dirti non ha prove, io stessa ti ho creduto solo perché ho verificato il tuo racconto leggendoti la mente >> accantonò la mostruosa violazione della privacy per amor di dialogo << Non c’è nessuno di cui mi fidi. Tantomeno in questo momento >> << Tua madre >> ribatté lei invece, lasciandolo spiazzato << Chiedi a tua madre di parlarti di Charles. Ti spiegherà quel che manca >> << Mia madre? Che c’entra mia madre? >> lei si strinse nelle spalle << Non posso dirti molto altro senza parlare io stessa >> il mal di testa era un trapano nel cranio ormai, ma Erik era troppo preoccupato dal resto di quel che stava accadendo per curarsene davvero.
Continuò a guardarla invece, e lei a ricambiarlo con tranquillità, finché non lanciò un’altra occhiata all’orologio << Noi siamo... amici? >> lei si strinse nelle spalle a quella domanda e raccolse la borsetta << Hai promesso di portarmi al Galà dei Darkholme per la fine dell’anno. Memoria o non memoria mi aspetto che rispetti il nostro patto >> che razza di risposta era quella?
Ma in qualche modo le si addiceva << Domani sono libera per pranzo. Dico a Margaret di prenotare al solito posto? >> continuò, quasi che la conversazione appena avvenuta fosse completamente passata in secondo piano.
Oppure era il suo strano modo di rispondergli in realtà.
Si guardarono ancora un momento, in verità non gli importava affatto che lei potesse vedere i suoi pensieri, e questo istinto lo sorprese vista la sfiducia che rivolgeva a tutto il resto.
Un segno più che chiaro del suo corpo di avvertirlo: quella donna non era il nemico << Perfetto >> le disse, lei capì, e ridacchiò prima di uscire.




NA: Ciao a tutti!
Prima di tutto mi dispiace tantissimo per il ritardo. Non ho scusanti, lo so, ma vi prego comunque di essere comprensivi: tra università e lavoro non ho davvero più molto tempo, spremere questo capitolo è stato davvero difficile, ma spero che vi piaccia.
Come sempre sono ansiosa di leggere le vostre impressioni, non fatevi problemi ad essere spietati!
Infine ringrazio dal profondo del cuore chiunque sia riuscito a leggere fin qui. Vi voglio bene <3

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Raven aspettava quel momento praticamente da tutta la vita.
Sin da quando era una bambina Charles l’aveva sempre incoraggiata ad essere creativa e seguire la propria vena artistica, tanto da averla appoggiata nella scelta dell’accademia.
Aveva lavorato per gli ultimi due anni a quella mostra, lui aveva seguito ogni passo attraverso la piccola videocamera di un pc, era stato il suo primo critico spietato, il suo primo ammiratore, il suo principale mecenate.
Non aveva mai seguito un singolo campo.
Mutevole come lei, la sua arte rispecchiava la sua volubilità: da una parte c’erano le sculture, intrecci di ferro e legno sospesi nell’aria come non possedessero peso, dall’altra dipinti della sua rabbia blu e del suo animo nascosto, infine c’erano le foto, innumerevoli scatti di migliaia di occhi diversi che però erano sempre lei, uniti in un immenso quadro che ricopriva un’intera parete.
Aveva vissuto nascosta per tutta la vita.
Mostrare così tanto di sé a quella moltitudine di umani la faceva sentire più libera di quanto non fosse mai stata, anche se loro non sapevano, anche se non comprendevano, possedevano comunque abbastanza sensibilità da vedere.
Il colore dominante era il blu naturalmente, in ogni sua sfumatura, ogni sfaccettatura della sua pelle la circondava.
Passeggiò per i corridoi della mostra quando mancavano solo pochi minuti all’apertura al pubblico, blusa nera e pantaloni gessati, e nel silenzio che avvolgeva ogni cosa si permise di essere se stessa, lì dove nessuno la guardava e presto l’avrebbero vista tutti, i capelli di rame che scendevano mossi fino al bacino e la carnagione indaco che riluceva sotto la luce sapiente delle alogene << Sei bellissima >> sentì alle sue spalle, e si voltò con un sorriso per accogliere la persona più importante della sua esistenza.
Charles era stato malissimo in quell’ultima settimana, ma si era comunque trascinato fuori dal letto, aveva indossato uno dei suoi orrendi cardigan di Oxford, blu naturalmente, e un paio dei suoi pantaloni veri visto che i jeans erano troppo giovanili per il suo animo di vecchio intrappolato in quel corpo ingannevole.
Si era fatto la barba e pettinato, rivelando così però quanto il suo volto fosse smagrito e pallido, ma quando la avvicinò per baciarle la guancia l’unica cosa che Raven riuscì a pensare era che senza di lui sarebbe stata perduta.
Era il suo mondo, un mondo di carne e ossa, fragile come vetro e duro come diamante, un mondo di sorrisi dolci e rabbia morsicata, un mondo di occhi che guardavano come nessun altro riusciva.
Occhi blu.
Vedere quel minuscolo pezzo di sé incastonato in lui le riempiva il cuore di calore, stabiliva un legame, creava qualcosa lì dove il sangue non riusciva a fare.
Erano alla stessa altezza, non indossava i tacchi proprio per questo del resto, e lui le carezzò le ciocche rosse con un gran sorriso colmo d’orgoglio << Sei pronta? >> domandò premuroso come sempre, ansioso anche, con quella mania di volere ogni cosa sotto il proprio controllo << Pronta >> lui assentì e le raccolse la mano tra le sue fredde.
Attese che fosse lei ad incamminarsi, percepì il suo sguardo ammirato quando cambiò forma per tornare l’immagine che tutti conoscevano di lei, e insieme attesero che passasse il minuto che mancava all’apertura delle porte << Un giorno smetterò di nascondermi >> annunciò, attirando la sua attenzione << Mi sveglierò un mattino e uscirò nella mia vera pelle >> Charles non disse nulla, si limitò a stringere un po’ di più la mano che teneva << Non posso restare così per sempre >> si sentì la gola stretta in una morsa, come sempre quando ci pensava, ma lo sguardo di lui le diede la forza che le mancava: << Io sarò lì accanto a te, Raven >> assicurò, non c’era alcuna incertezza in lui, una roccia.
Poi tornò il suo sorriso-maschera, indossò la sua pelle umana anche lui proprio come lei, e la lasciò per accogliere gli ospiti.
All’inizio furono strette di mano e benvenuti, brindisi di inaugurazione e discorsi preparati a memoria, la prima ora passò con la velocità sfrecciante di un treno in corsa, a malapena ne ricordava qualcosa, l’unico punto fisso era la presenza costante di Charles al suo fianco.
C’era anche Steve naturalmente, c’erano i suoi amici, ma Charles era diverso, Charles era lì dove ne aveva più bisogno ed era sempre stato così.
Se perdeva il filo di un discorso, lui attirava l’attenzione su di sé con una battuta.
Se le sue mani cominciavano a tremare per l’emozione, lui le stringeva tra le sue con noncuranza.
Se nessuno riusciva a vedere, lui ci riusciva ogni volta.
Aveva sempre desiderato essere altrettanto per lui, voleva essere disperatamente alla sua altezza, farlo sentire al sicuro quanto faceva con lei, aveva sperato persino di esserci riuscita qualche volta, per questo quando lo vide impallidire come la morte ogni altra cosa passò in secondo piano.
Stavano chiacchierando con Angel e Sean, un bicchiere di vino in mano e il resto intorno, quando una distinta signora varcò la porta.
Indossava egregiamente un abito di velluto verde stretto sotto il seno, le spalle morbide erano coperte da una giacca nera coi bottoni di agata lucente, ed erano d’agata anche gli eleganti orecchini e una spilla a forma di gatto sul risvolto.
I capelli striati di grigio erano acconciati in una crocchia morbida, le labbra ripassate di rossetto sobrio piegate in un sorriso curioso, mentre gli occhi scuri vagarono nell’intorno come alla ricerca di qualcosa di preciso.
E parve anche trovarlo a giudicare da come puntò loro due senza alcuna indecisione.
Era bassa, anche coi tacchi non la superava, esile come un giunco, eppure ogni passo possedeva la risolutezza di una regina << Charles, mio caro, è un piacere rivederti >> disse, tendendosi per baciarlo sulle guance, e lui ricambiò come un automa, raggelato.
Tese una mano a Raven << Tu devi essere la famosa Raven. Io sono Edie Lehnsherr, la madre di Erik. Tuo fratello mi ha raccontato meraviglie su di te e a giudicare da questo posto sembra che sia stato anche sincero >> la madre di Erik?
Cercò di non mostrare il proprio stupore, anche se fu piuttosto difficile.
Persino Charles era rigido come una statua al suo fianco << Erik non è qui >> disse soltanto, mentre Raven indicava ad Angel di lasciarli soli con un’occhiata.
Non avrebbe lasciato suo fratello solo con quella donna.
Non sapeva cosa fosse successo con Erik, ma non doveva essere stato nulla di piacevole se gli aveva dovuto cancellare la memoria << Lo so >> rispose lei soltanto e il suo sorriso si affievolì un poco << A dire il vero era con te che speravo di parlare >> << Con me? >> Edie si strinse nelle spalle << Mi hai parlato di questa mostra, ricordi? Mi hai anche invitato a dire il vero. Mi duole tuttavia ammettere che non è stata l’arte a portarmi qui, non del tutto, ma più il bisogno di scambiare con te due parole. C’è un posto appartato in cui farlo? >> << So cosa vuole dirmi >> la anticipò lui con fare colpevole << No, mio caro, ne dubito fortemente >> lo contraddisse lei con un respiro profondo << Non sono qui per biasimarti. Se hai cancellato la sua memoria avrai avuto i tuoi motivi e io non voglio immischiarmi fra di essi. Ma sono piuttosto sicura che il tuo giudizio potrebbe dipendere molto da quanto ho da dirti >> Raven seguì in silenzio lo scambio di battute, notando come lui si accigliò senza capire.
Aveva aumentato di parecchio la dose di inibitori in quel periodo, a volte era persino più svampito del solito, ma le parve che cercasse comunque di entrare nella testa della donna.
Senza riuscirci a giudicare da come sospirò << Andate di sopra >> consigliò, indicando l’ufficio dello staff nel soppalco, poi, per lui: << Ce la fai da solo? >> chiese, e non le importava affatto che l’altra la ascoltasse.
Charles le rivolse uno dei suoi sorrisi incoraggianti, poi fece un cenno con la mano, attirando così l’attenzione di Steve che stava parlando con un paio di ospiti, indicandogli di prendere il suo posto << Non ho bisogno di un cavaliere per tutto il tempo, Charles >> lo rimproverò lei, ricevendo in cambio un bacio sulla guancia << Lo so, lo so... Ma a lui serve una dama >> fu la sua assurda risposta, prima di incamminarsi verso la scala a chiocciola insieme alla donna.
Lo seguì con lo sguardo finché non fu fuori della sua vista, quindi sospirò e svuotò il bicchiere che teneva tra le mani << C’è qualcosa che non va? >> volle sapere Steve, carezzandole i capelli affettuosamente.
Sapeva che uno accanto all’altra sembravano la coppia perfetta, da copertina patinata, e forse il fatto che lui fosse inconsapevole della sua scultorea bellezza era una delle cose che lo rendeva interessante << Charles è un disastro in questo periodo >> lui assentì in un mormorio, cingendole la spalla con un braccio << Dov’è Erik? Mi è parso che avessero legato, giusto? >> << Hanno litigato. E non è proprio il momento perfetto con quello che è successo a mamma... >> << Hai proprio ragione. A dire il vero non credevo che avrebbe reagito così dopo che mi hai detto che lei e tuo fratello non sono molto legati >> Raven lo scostò malamente a quelle parole, trattenendosi a stento dall’urlare: << Come puoi dire una cosa del genere?! >> sibilò, vedendolo spalancare gli occhi d’incredulità << Ma... >> << È sua madre! >> << Lo so, certo, solo che... No, è stato stupido pensarlo, hai ragione >> << Puoi dirlo forte >> azzannò lei, allontanandosi poi a grandi falcate.
Si diresse alla stanza degli occhi come la chiamava Angel, era più buia e appartata rispetto al resto, l’unica cosa illuminata era la parete con le foto, perciò si nascose in uno degli angoli, occupò la panca e rimase a guardare la propria opera come i due sconosciuti poco lontano.
C’erano momenti in cui vedeva qualcosa di più grande nell’immenso collage, sguardi severi che si univano in un monito oppure occhiate più indulgenti che le rivolgevano compassione, ma adesso non riuscì a sentire nulla, non si riconobbe in quell’accozzaglia informe.
Ripensò agli occhi di Sharon.
Comprendeva che non la considerasse parte della famiglia, Raven non l’aveva mai biasimata per questo, ma perché non veniva da Charles?
Sapeva quanto stesse male, l’aveva visto, anche lei aveva assistito al suo mutismo catatonico. Come poteva tenerlo così lontano?
Possibile che non provasse affetto nemmeno per il frutto del suo ventre?
Eppure conosceva già la risposta a quella domanda.
Vide Steve sulla porta ma finse di non farlo e continuò ad ignorarlo anche quando sedette al suo fianco.
Per un po’ non disse nulla, poi si appoggiò al muro alle sue spalle e diede in un respiro profondo << Adoro questo posto >> mormorò, la voce morbida e bassa che l’aveva fatta avvicinare la prima volta, insieme a quel sorriso da bravo ragazzo << Mi sembra di guardare dentro di te >> << Stiamo insieme, Steve. C’è poco che non conosci di me >> lui ridacchiò, si passò una mano trai capelli, poi sospirò << Devi reputarmi davvero uno stupido >> sussurrò poi, senza rabbia, lui non era mai arrabbiato, giusto?
Eppure Raven non aveva mai sentito quel suo tono rammaricato << Cosa stai dicendo? >> << So bene che a me mostri giusto un decimo di quello che sei. Immagino che sia stato lui ad insegnarti visto che non ho mai la più pallida idea di cosa stia pensando, e io non sono un genio né uno psicologo, ma vedo persone con problemi ogni giorno, è il mio lavoro. Non si crea un legame tra fratelli come il vostro senza ostacoli. In due contro il mondo intero, giusto? Basta guardarvi per capirlo >> non si sarebbe stupita di più nemmeno se gli fosse cresciuta una seconda testa mentre non guardava.
Era senza parole << Una famiglia scostante è il primo sintomo, ma c’è dell’altro. La tua diffidenza cronica da cosa dipende? Quale trauma ti porta a pensare che chiunque ti circonda non sia degno di fiducia? Lo percepisco, mi ci scontro il più delle volte. Io vorrei... >> sospirò ancora, continuando a guardare il pavimento per evitare lei << Voglio essere di più per te. Se solo me lo permettessi >> << Se te lo permettessi fuggiresti da me. O peggio >> Steve la guardò come se avesse bestemmiato, sconvolto.
Ferito << Cosa di me te lo fa pensare? >> lei strinse le labbra e lo imitò nel sedere, appoggiandosi anche lei alla parete << Tu sei il tipico ragazzo boy-scout. Bello, buono, onesto. Mi fido di te, Steve, davvero, molto più di quanto non faccia con il resto delle mie conoscenze, ma... ci sono cose che semplicemente non posso dirti >> << Puoi dirmi ogni cosa >> le assicurò, facendola ridacchiare con la sua risolutezza << Credi che io stia scherzando? >> fece lui contrariato e lei tornò seria.
Si mosse per baciarlo lieve sulle labbra, quindi si strinse nelle spalle << Io non sono stata abbandonata >> mormorò infine << Sono stata venduta. Il padre di Charles mi salvò comprandomi >> le parole le uscirono strozzate, cavate a forza dalle sue labbra.
Steve trattenne il fiato, sbiancò, e lei quasi rise visto che non era certo la più sconvolgente delle rivelazioni che poteva fare << C-cosa? >> << Non ricordo molto, ero molto piccola e la paura ha cancellato quel poco che restava. Ero dentro un magazzino, avevo fame, e il giorno dopo ero in questa casa enorme, con un fratello entusiasta che soffriva di solitudine. Charles mi ha raccontato solo molto più tardi quello che era successo davvero. Suo padre era venuto a sapere della mia esistenza per via... mmm... del suo lavoro, ecco. Così mi ha salvato. Dopo nemmeno un anno è morto, ma gli sarò grata per sempre per la vita che mi ha regalato >> si alzò in piedi subito dopo aver parlato, come per fuggire alle sue stesse parole, e Steve la seguì di riflesso, cingendola poi tra le sue spalle ampie.
Si permise di usufruire di quel calore solo per un momento, subito dopo si ricompose, tornò se stessa, forte e fiduciosa << Grazie >> le disse il ragazzo di tutto cuore, e aveva gli occhi lucidi.
La baciò, passionale e amorevole, stringendola con dolcezza << Grazie per avermelo detto >> << So che non è facile essere il mio ragazzo >> disse lei << Ho capito quello che hai detto e mi dispiace. Cercherò... di aprirmi di più, va bene? Ma non è semplice per me >> << Alle tue regole, Raven. Io sono qui >> assicurò, lei si tese per un altro piccolo bacio, quindi si incamminò di nuovo verso la stanza principale.
Appena in tempo per vedere Erik varcare la soglia.




NA: Ciao a tutti!
Scusatemi per il ritardo stratosferico prima di tutto e, secondariamente mi dispiace per il capitolo breve, ma ho preferito mettere qualcosa seppur breve piuttosto che farvi aspettare ancora una settimana -_-''
Primo Raven Pov! Vi è piaciuto? Che ne pensate di questo personaggio?? Fatemi sapere come sempre!! <3 <3

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


L’ufficio dello staff altro non era che un soppalco dal tetto spiovente, ma i mobili di design e l’elegante pavimento in mosaico di legno, trasformava quel luogo piccolo e nascosto nel locale degno di una galleria d’arte.
Raven gli aveva presentato solo quella mattina la curatrice e quel posto la rispecchiava in gran parte, una donna elegante e sofisticata che indossava abiti africani sopra scarpe con il tacco di Parigi.
Proprio come la prima volta che l’aveva vista, Edie portava scarpe spaventosamente alte, abbastanza da essere alla sua stessa altezza, e Charles preferì concentrarsi su quello piuttosto che sul motivo per cui fosse lì.
La fece accomodare sul basso divano vicino all’unica finestra visto che l’alternativa sarebbe stata la sedia davanti alla scrivania, ma quello fu l’unico pensiero coerente che riuscì a formulare, ogni sua cellula lo pregava di evitare quel che sarebbe venuto.
Se non avesse temuto di peggiorare la situazione, avrebbe cancellato la memoria anche a lei << Siedi accanto a me, caro >> lo invitò lei invece, del tutto ignara, battendo piano il palmo sulla seduta di fianco a sé, con quel sorriso buono e cordiale che pungeva il fegato.
Obbedì anche se rigido e a disagio, non voleva essere lì e non voleva ascoltarla, per la prima volta in vita sua volle cacciar via qualcuno in malo modo.
Solo l’orgoglio che protestava per un gesto tanto vile lo fermò.
Edie prese un respiro profondo e il sorriso si affievolì, lasciando sul volto un’espressione di assoluta serietà, proprio come lui, quando azzannava e non aveva alcuna intenzione di lasciare l’osso << Quanto sto per dirti ha dell’incredibile. Non te ne parlerei se non fosse per... la situazione >> lo avvertì << C’entra con il fatto che Erik conosceva il mio nome prima di conoscere me? >> la donna diede in una risatina e scosse il capo, anche se alla fine non sembrava né felice né divertita, no, sembrava sofferente << Erik conosceva il tuo nome prima di conoscere il proprio >> disse, lasciandolo interdetto.
Sospirò ancora, fissandosi le mani strette in grembo, e per un lungo momento non fece altro, raccogliendo il coraggio << All’inizio io e suo padre pensammo ad un amico immaginario >> mormorò, stringendosi le mani una nell’altra << Non è raro coi bambini, giusto? Non faceva che parlarci di questo Charles, di come dovesse trovarlo, della sua missione la chiamava >> << T-trovarmi? >> questa volta quando lo guardò pareva sul punto di piangere << È quello che diceva >> la sua voce si fece fievole, si spezzò, ma quasi quel suono le fosse inaccettabile, raddrizzò le spalle, sbatté le palpebre un paio di volte e si fece più salda << Un sogno >> disse << Sempre lo stesso. Un uomo che Erik ancora non era ma che era già capace di descrivermi, e un altro, più giovane, quattro anni più giovane, ne era sicurissimo. In un ospedale. Tu... tu stavi male, piangevi, Erik non faceva che ripetere che non avrebbe mai permesso che una cosa simile succedesse di nuovo. Sai quanto sia terribile vedere un bambino giurare una cosa simile? >> << Non è possibile >> ansimò Charles, sentendo il proprio cuore accelerare << È quello che pensavo anche io. E lo avrei pensato tutt’ora se non avessi visto coi miei occhi le sue capacità. Se può controllare i metalli perché non conoscere chi non conosce? >> << Quella è la sua mutazione! È... è scienza! Lei... lei mi sta parlando di... cos’è che mi sta dicendo? >> << Vite passate >> dichiarò la donna, estraendo dalla tasca un foglio di carta spiegazzato, dai bordi consumati, piegato in quattro.
Glielo porse e Charles lo prese con una mano tremante, rivelando un disegno a carboncino, bianco e nero, il tratto un po’ incerto, grossolano, eppure era impossibile non riconoscere se stesso in quelle linee.
Era senza parole << L’ha disegnato quando aveva quattordici anni >> rivelò lei in un alito di fiato << Occhiazzurri. Pellechiara. Lentiggini. Labbrarosse >> scandì << Quando era troppo piccolo per capire, quando il suo cuore ancora non era pronto per provare quello che doveva, era così che ti descriveva. Puoi immaginare cosa significhi per un bambino? Ti disegnava, ti cercava nei passanti, a volte piangeva disperato senza nemmeno sapere perché. Come poteva dare un nome a quel che provava? >> Charles la ricambiò con gli occhi sbarrati, spaventati a dire il vero, qualcosa di molto simile al terrore vero e proprio << Come posso credere ad una cosa simile? >> lei lo ricambiò severamente questa volta << Conosci Erik. Ti è mai parso un bugiardo, Charles? Puoi dire tutto di lui, ma non questo >> aveva ragione naturalmente, ma come poteva essere la verità?
Tornò a guardare il foglio impossibile, senza saper che pensare.
Quindi si limitò ad ascoltare << Lo abbiamo fatto parlare con degli specialisti, abbiamo cercato in tutti i modi di fargli capire che eri una menzogna, una costruzione mentale, ma lui era inamovibile. Quando è stato abbastanza grande da capire cos’era l’amore ha cercato lui stesso di rinnegarti, non capiva come potesse amare qualcuno, un uomo, che nemmeno conosceva, eppure quell’amore è rimasto. Non l’ha mai abbandonato. Ma questo tu lo sai bene, vero? >> non riuscì a far altro che assentire, ricordando con un brivido quel sentimento cristallino che aveva calpestato con incuria << Un giorno è venuto da me in lacrime, terrorizzato. Era inconsolabile, spaventato, continuava a ripetere che non poteva essere felice se tu non c’eri, che sarebbe stato condannato ad amare il ricordo irraggiungibile di un se stesso che non era più lui, e da allora non ho più avuto alcun dubbio. Quella sofferenza era vera, Charles, e non poteva scaturire da qualcosa di falso. Non ha mai smesso di cercarti, nemmeno per un momento, ogni giorno da quando ha memoria >> << Tutto questo... >> << Non ha senso, certo >> lo anticipò lei indulgente, posandogli una mano sulla coscia << Ma prova a pensare per un momento che ne abbia. Pensa se fosse davvero così. Nemmeno lui sa da quante vite ti sta cercando, mi ha parlato di alcune di loro, quando siete stati insieme, quando non lo siete stati, quando ti ha trovato e perso. Non voglio essere io a raccontartele, quanto ti ho detto serve solo per... >> prese un respiro profondo, molto profondo, stringendo la sua gamba nel suo palmo << Capisci adesso perché sono qui? Quel che hai cancellato della sua memoria è ciò che maggiormente lo compone, Charles. Senza di te mio figlio non è nessuno, per il semplice motivo che finora ha vissuto in tua funzione  >> se c’era un modo di farlo sentire anche peggio di quanto si era sentito finora era quello.
Il suo cuore fu stretto da un morsa d’angoscia terribile, abbastanza da prosciugarlo di ogni colore << P-perché non me l’ha mai detto? >> gemette, ed era lui in lacrime adesso, sconvolto << Come poteva dire qualcosa di così anormale a qualcuno che già lotta strenuamente per accettare la propria diversità? Charles... tu non volevi la verità, altrimenti l’avresti carpita dalla sua stessa mente >> aveva ragione naturalmente, ma ammetterlo non lo rese più facile da accettare.
Cosa aveva fatto?
Cosa diavolo aveva fatto?!
Si alzò in piedi senza vera e propria coscienza di sé, una mano sulla bocca mentre il pianto continuava, cominciando a marciare avanti e indietro incapace di star fermo << Charles >> lo richiamò, e sembrava preoccupata questa volta << Mi dispiace! >> esclamò lui, perché era vero, perché era l’unica cosa che potesse fare << Io... io non posso... Non so come tornare indietro >> ammise stringendosi nelle spalle << Ero spaventato! Ero... stavo... Dio, stavo così male >> << Non devi dirmi nulla, caro. Calmati adesso. Perché non vieni qui e... >> << Non se lo meritava! >> gridò lui invece, e non importava che quella donna fosse un’estranea, non importava che non sapesse un accidenti, perché l’unica cosa che era importante, l’unica che non poteva più, per nessun motivo, restare celata era che lui si sentiva soffocare << So che non se lo meritava >> gemette << Ma continuava a guardarmi! Continuava a... con quegli occhi che ti entrano dentro, e... cosa dovevo fare?! >> << Charles, per favore... >> << Ho fatto una cosa terribile >> esalò lui crollando sulla sedia poco lontano, prendendosi il volto tra le mani << Sono stato egoista, e vigliacco, e così dannatamente stupido! >> Edie lo raggiunse un po’ titubante, gli posò una mano sulla spalla anche se non era certa di averne il diritto, e quando la guardò Charles avrebbe tanto voluto che un po’ dell’amore che vedeva nello sguardo castano fosse rivolto a lui.
Quella donna aveva creduto ad Erik. Per quanto folli o assurde fossero le parole di suo figlio, lei gli aveva creduto.
Questa volta non provò gelosia o invidia, provò solo e soltanto dolore, anche quando lo abbracciò amorevole, e forse era proprio ciò di cui aveva bisogno perché non la allontanò.
Rimasero così per un po’, poi lei lo scostò gentilmente per guardarlo in viso, e anche se Charles provò vergogna per la propria debolezza e la propria reazione, lei sembrava solo preoccupata << La mia mamma sta morendo >> gli uscì fuori così, senza un pensiero a deciderlo, senza alcun criterio.
Quella frase era rimasta intrappolata dentro di lui per giorni, relegata nel suo angolo più nascosto soffocata da inibitori e alcol, ad imputridire, a marcire, e adesso lo aveva infettato così tanto che in lui non restava molto altro.
La donna lo guardò con tanto d’occhi, incredula, ma prima che potesse pronunciare un’altra parola qualcuno bussò alla porta.
L’incantesimo fu rotto.
Charles tornò consapevole di dove era e con chi era, si ricordò che non aveva più l’età per le scenate isteriche e gli abbracci materni, perciò si affrettò a ricomporsi, si alzò in piedi e si allontanò da lei con imbarazzo frettoloso, asciugandosi le guance con le dita prima di andare alla porta, in tempo per un altro deciso colpo di nocche << Arrivo >> si schiarì la gola dopo, riappropriandosi anche della sua voce, ma quando aprì la porta quel che vide la prosciugò ancora una volta << Mamma! >> esclamò Erik entrando a grandi falcate, raggiungendo la donna immediatamente.
Non lo degnò di uno sguardo.
Lo ascoltò dire qualcosa in yiddish che non comprese << Mi hai spaventato >> la sua voce arrivava concitata e grave, sentirla di nuovo gli ricordò sussurri che aveva giurato di dimenticare << Ti ho chiamata almeno dieci volte >> << Non si tiene la suoneria in una galleria d’arte >> lo rimproverò lei blandamente << Potevi avvertirmi. Pensavo che... mi sono preoccupato >> Edie gli diede un buffetto sul braccio, come a dire che stava esagerando, e sospirò alzando gli occhi al cielo << Come mi hai trovata? >> << Il gps del cellulare >> l’occhiata che gli rivolse conteneva biasimo questa volta, abbastanza perché quell’uomo che la superava di quasi due spanne si stringesse nelle spalle mortificato << E perché mi hai cercato così disperatamente da impicciarti nelle mie uscite serali? >> << C’è una cosa che... Devo parlarti >> lei assentì lentamente, ma invece di avvicinarsi a lui si volse invece verso Charles, raggiungendolo.
Solo allora gli occhi color piombo notarono la figura ancora immobile sulla porta, lo scandagliarono impietosi dall’altro in basso una volta sola, gelidi e incolori come non erano mai stati, a malapena si soffermarono sul corpo e il volto, conficcandosi invece direttamente in quelli annacquati e pallidi di Charles << Tu sei quel ragazzo >> disse, la voce pareva composta di sabbia graffiante, anche quella era un suono nuovo, anche quella incise in lui come una lama, facendolo persino trasalire.
Era davvero Erik quello davanti a lui?
Quella fredda sagoma che pareva giudicarlo niente più che un altro pezzo di mobilio era davvero stato il suo migliore amico?
Non si sentì più aria nei polmoni nel rendersi conto di aver distrutto qualcosa di così prezioso, e forse questo trasparì sul suo viso, forse impallidì, forse i suoi occhi cangiarono come a volte facevano, trasformandosi in due laghi d’acqua sporca e ghiaccio << Charles >> lo richiamò la donna preoccupata, ma ancora una volta l’unica cosa che notò era che il tono non era quello giusto, mancava qualcosa, mancava calore.
C’era ancora calore?
Stava tremando perché aveva freddo? Oppure era freddo perché tremava?
Edie stava ancora parlando? No, era fuori adesso. Dove?
Che domande. A casa, dove altro doveva essere?
Doveva solo andare a letto e ogni altra cosa sarebbe andata a posto.
Doveva riposare.
Riposare.
 
*
Emma aveva scelto il bianco naturalmente per il vestito che indossava, un semplice abito a sirena che sottolineava il suo corpo nel perfetto modo in cui doveva essere sottolineato prima di gettarsi sulle sue gambe in una cascata più morbida, l’unica traccia di colore era la manica sinistra, un traslucido pezzo di stoffa dorata abbastanza leggero per far trasparire la sua pelle candida, e i bracciali d’oro zecchino che portava al polso destro.
E i suoi capelli, certo.
Le scendevano in ordinate e morbide onde sulle spalle, non aveva bisogno di guardarsi allo specchio per sapere che sarebbe stata al centro dei pensieri di chiunque avesse posato lo sguardo su di lei, esattamente come sapeva che a malapena aveva sfiorato invece quelli dell’uomo al suo fianco.
Si era vestito in maniera inaspettatamente decente, completo nero giacca e cravatta, con tanto di panciotto e scarpe lucide, insieme parevano una coppia di star del cinema più che un impiegato e la sua accompagnatrice.
I suoi pensieri in realtà, tanto per cambiare, erano incentrati su Charles.
La sera prima quel pezzo di vetro scadente si era scheggiato una volta di più per chissà quale ragione e Erik lo aveva visto andar via prima che potesse rivolgergli le domande che gli servivano.
Era curioso notare come la sua mente fosse cambiata dopo l’intervento del telepate, la camera blindata era stata completamente stravolta, le cassette di sicurezza erano rovinate, graffiate, alcune sventrate con tale violenza che il loro contenuto si riversava sul pavimento di metallo.
C’erano libri, mozziconi di candela, un pacchetto di sigarette, decine e decine di oggetti accatastati senza un ordine preciso.
Aveva parlato con sua madre, era evidente, e questo in qualche modo aveva smosso i ricordi cancellati, ma non abbastanza per farli riaffiorare nella mente cosciente.
Lei non era capace di altrettanta forza.
Questo la infastidiva, non era invidiosa ma solo irritata dal fatto che un simile potere andasse sprecato, ma scacciò quegli stupidi pensieri non appena entrarono nell’enorme salone dei ricevimenti.
La villa era sontuosa, stile neoclassico per l’ingresso, con ampie colonne che ricordavano il Lincoln Memorial, morbidi tappeti nell’atrio decorato con stucchi e un bellissimo giardino al chiuso al centro della rampa di scale che portava al piano superiore, e la sala dove furono accolti che pareva un piccolo mondo di sfumature azzurre << Ancora non so perché sono qui >> lo sentì sospirare per l’ennesima volta, la mascella irrigidita dalla rabbia e gli occhi grigi fissi sul calice di champagne tra le sue mani come volesse disintegrarlo << Perché me l’hai promesso, è ovvio >> ribatté lei con una pacca sul braccio che teneva, affettuosa per chiunque e beffarda per loro due.
Il capo della polizia si avvicinò per salutare lei, lui e suo padre erano amici naturalmente, e lei presentò quell’uomo ingrato a mezza città, tutti sembrarono incuriositi dal fatto che Emma Frost avesse deciso di partecipare al semplice Galà di una Fondazione, ma lei continuava solo a sorridere e loro a pensare che quel sorriso fosse tutto ciò che la componeva << Fai quello per cui sei qui e andiamocene >> le disse lui accostandosi al suo orecchio << Ti vedo a disagio. Non ti piacciono le feste? >> lui svuotò il bicchiere e sospirò ad occhi chiusi, come per calmarsi << Non è così. È solo... devo parlare con quel ragazzo. Con Charles. Devo capire cosa è successo >> << Tua madre ti ha spiegato, giusto? Cos’hai ancora da capire? >> lui corrugò le folte sopracciglia, come se non capisse quel che aveva detto << Davvero per te è stato così semplice da accettare? La storia delle vite passate... solo a me pare assurda? >> lei si strinse nelle spalle sottili, ma a dir la verità lo ascoltava con un orecchio soltanto, ben più concentrata a sondare le menti che la circondavano << Sembravi piuttosto convinto >> mormorò, carezzando infine i pensieri della misteriosa signora Darkholme.
Si era ritirata a vita privata da quasi quindici anni, scomparsa dalla società, si presentava di fianco al marito solo una volta all’anno.
E solo lei conosceva la verità << Non mi stai ascoltando, vero? >> Emma tornò a focalizzarsi sull’uomo sbattendo le belle ciglia e lui schioccò la lingua contro il palato scuotendo il capo << Sono una specie di accessorio vedo. Oh, fa come vuoi. Io sono al bar quando hai bisogno >> << La perspicacia è la tua maggior qualità, l’ho sempre detto >> lui si trattenne dal risponderle in malo modo, allontanandosi infine.
Il signor Darkholme non era responsabile e lei ne era certa. Aveva controllato con puntiglio tutte le carte, aveva scavato a fondo, e nemmeno nei suoi ricordi aveva scoperto alcunché.
La figlia era semplicemente scomparsa nel nulla all’età di tre anni, rapita secondo gli atti, e da allora la famiglia aveva istituito la Fondazione in nome di Mystica Darkholme per l’assistenza di coloro a cui era successo lo stesso.
Che razza di nome è Mystica? Chi chiamerebbe così la propria bambina?
Eppure aveva un che di profondamente giusto se quel che pensava fosse risultato vero.
Aveva avuto fortuna con un paio dei precedenti, aveva seguito le briciole di pane e non era stato difficile scoprire chi era stato abbandonato, chi venduto, chi preso con la forza, ma i Darkholme erano tutta un’altra storia.
Non erano disgraziati ai bordi della società, non si trattava di qualche villaggio sperduto del Brasile o del bambino strano di un operario polacco. Erano gente di spicco, difficile da avvicinare, difficile anche solo da incontrare.
Negli ultimi tre anni non si era occupata di nient’altro.
Da quando aveva scoperto la lista nelle cartelle di suo padre era diventata la sua personale missione, il suo obiettivo, l’unico modo che aveva per riuscire a dormire continuando ad essere un diamante lucente.
La prima parte era stata la più semplice: distruggere ogni legame della Frost&Frost con quel nome, cancellare gli accordi, disperdere le collaborazioni.
Poi era cominciata la caccia naturalmente.
Il primo era stato un bambino indiano, un uomo ormai, trovarlo aveva richiesto ogni briciolo di energia per più di otto mesi, ma mandare la lettera alla sua famiglia aveva ripagato ogni sforzo.
Il secondo un giovane irlandese, il terzo una ragazza del New Jersey.
Il quarto Mystica Darkholme.
Aveva fatto i salti mortali per diventare un avvocato associato, eppure l’amicizia con Erik non era stata programmata, no, aveva pensato che Margaret fosse sufficiente per rimediare un invito per il Gala, ma alla fine aveva ottenuto due piccioni con una fava.
Le restava ormai l’ultimo passo.
Karen Darkholme era una donna come molte, anonima, capelli neri tagliati alla spalla, perfettamente tinti e perfettamente acconciati, corpo snello ma ammorbidito dall’età, e occhi di un verde un po’ opaco, spento, lo sguardo di chi non trova nulla che valga la pena essere guardato.
Era assediata da un piccolo capannello di donne troppo truccate e troppo ingioiellate, le classificò spietata con un’occhiata soltanto, ma questo non le impedì di avvicinarsi abbastanza per usare il proprio potere.
Fu cauta, delicata per non far danni circondata com’era da così tante persone, e questo significava concentrarsi abbastanza da esternarsi da tutto ciò che le stava intorno.
Si appoggiò ad uno dei piccoli tavolini intorno a cui la gente chiacchierava, ignorò le parole e la musica, scostò il delicato velo che oscurava la donna e si immerse in quella mente delicata e silenziosa.
Non si soffermò su insulse scene quotidiane e ricordi mediocri, cercò il punto più nascosto, recondito, proibito.
Tutto era grigio intorno a lei, incolore e smorto, tranne una piccola porta luminosa.
La scostò con delicatezza, nonostante tutto non poteva non provare un po’ di estraneità quando scendeva così tanto in profondità in una persona, e fu sorpresa di sentire il suono zoppicante di un carillon.
No, non era un carillon, era una giostra per bambini.
Si trovava in una stanza che non conosceva, completamente in ombra se si escludeva un cerchio di luce dorata che illuminava una sedia a dondolo e una culla bianca.
Sulla sedia c’era Karen, addormentata, inconfondibile nonostante i capelli più lunghi e il viso ringiovanito, mentre dentro la culla...
Si avvicinò ancora, in punta di piedi anche se non poteva svegliare la donna in alcun modo con la sua presenza impalpabile, e trattenne il fiato nel riconoscere un minuscolo batuffolo blu in mezzo alle lenzuola candide, una neonata dalle guance gonfie composte di frammenti di lapislazzulo e fragili palpebre di iridescenti scaglie cobalto.
Un ciuffetto ramato spuntava in mezzo alla testolina spelacchiata, altri due erano un accenno di sopracciglia, ma non aveva bisogno anche di quella caratteristica per identificarla senza alcun dubbio << Si sente poco bene? >> Emma trasalì nel sentire quella voce rimbombare tra quelle mura oniriche, sbatté le palpebre e le riaprì di nuovo nella sala dei ricevimenti, gemette quando la musica tornò ad aggredirla insieme al chiacchiericcio, ma subito dopo mise a fuoco la persona che aveva davanti.
Era molto vicino prima di tutto, forse troppo, con una mano tesa verso di lei come se temesse stesse per cadere, ma non fu la vicinanza a metterla a disagio, no, fu lo sguardo.
Una perla purissima, rara e inimitabile.
Non ebbe bisogno di sondare i suoi pensieri o le sue emozioni per capirlo, erano più che sufficienti quegli occhi blu, più scuri dei suoi, trasparenti, gelidi, colmi di una scintilla cristallina che non aveva mai visto altrove.
I suoi pensieri erano come il suono prodotto da un diapason: puliti, assoluti, possedevano l’accecante limpidezza di una lama d’argento.
È bellissima pensava, una voce bassa e vibrante come una carezza di velluto.
Si guardò coi suoi occhi ed Emma si vide bellissima, adamantina, splendente sotto le luci nonostante il volto congelato in un’espressione sconvolta << Signorina? Si sente bene? Ha bisogno di aiuto? >> << N-no >> riuscì a formulare lei dopo un istante, nello stesso momento in cui Erik tornava al suo fianco e la accostava con fare inaspettatamente protettivo << Emma? Ti senti bene? >> << Sì... credo di sì >> era rimasta folgorata da quell’essenza, non aveva mai visto nessuno come lui.
Quell’uomo camminava conformando ogni singolo passo ai suoi desideri, non era lui a muoversi secondo le regole del mondo, no, era il mondo a piegarsi alle sue << E lei? >> continuò Erik rivolgendosi all’uomo, che sollevò un sopracciglio curato per squadrarlo dall’alto in basso, quindi si lisciò il risvolto di seta della giacca in un tocco distratto prima di tendere una mano con disinvoltura << Dottor Schmidt >> si presentò con un sorriso che in qualche modo non parve meno genuino del resto di lui.
Erik fissò prima la sua mano per un momento, poi la prese e ricambiò con il proprio nome << La signorina... Emma, se ho capito bene, stava avendo un mancamento temo >> << Nessun mancamento >> dichiarò lei, ricacciando indietro ogni tentennamento.
Era stata guardata altre volte dagli uomini, ne era persino compiaciuta, ma il modo in cui quegli occhi la sondavano le fece accapponare la pelle.
Nemmeno lei avrebbe saputo dire però se fosse piacevole o meno << Sono uno degli amministratori della Fondazione. Mi occupo del reinserimento attivo delle famiglie delle vittime >> spiegò con la sua voce cadenzata e musicale, la voce di un uomo che non aveva alcun bisogno di essere bello per il semplice motivo che era incredibilmente affascinante << Piacere di conoscerla >> fece Erik sbrigativo, affatto interessato, del tutto ignaro che lo sguardo di Schmidt lo stava scandagliando attentamente.
Qual è il suo potere?
Emma sussultò nel leggere quel pensiero, impallidì, e di nuovo alle iridi blu non sfuggì affatto l’impercettibile brivido che la scosse << A-andiamo via >> sussurrò senza fiato.
Due insieme. E lei? Quale potere può avere?
Strinse la mano di Erik con urgenza << Andiamo via >> ordinò quando lui la guardò, e anche se dal suo sguardo sembrava che non avesse capito il perché, si fidò di lei e della paura che gli trasmetteva << Se non le dispiace... pare che la mia amica non stia troppo bene, dopotutto >> era un telepate anche lui?
Come aveva fatto a scoprirli?
Era uno di loro? Un mutante?
Perché allora sentiva quel gelo ghermirle il petto?
Il suo cuore continuò a battere furioso anche quando furono ormai fuori, persino al sicuro nell’automobile la paura non la abbandonò, non aveva mai provato niente del genere << Emma? Puoi dirmi quel che sta succedendo? >> domandò Erik una volta che le luci della villa furono fuori dalla vista << Lui lo sa >> mormorò lei << Chi? Quell’uomo? Che cosa sa? >> << C-chi siamo. Cosa siamo. L’ho visto nella sua testa >> la stretta sul volante aumentò il sufficiente a farle capire che nemmeno per lui era una buona notizia << Come? >> << Non lo so >> << Non hai visto dentro di lui? Come fai a non saperlo? >> la verità era tanto semplice quanto complessa da spiegare.
Emma non si era mossa per razionalità, era stato il puro istinto a comandarle di andarsene, lo stesso che invita a temere le tenebre e a fuggire le belve.
Non aveva visto impurità in lui perché non c’erano state emozioni, era cristallino perché possedeva un cuore morto, incapace di provare alcunché.
Schmidt era sì una perla, puro e assoluto, ma una perla nera come l’oscurità più atroce.

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


Erik la assecondò quando gli indicò di raggiungere Brooklyn, ma a dire la verità non aveva la più pallida idea del perché << Spiegami che senso ha >> ripeté per l’ennesima volta, esasperato dal suo silenzio << Perché dobbiamo andare da quei due? Cosa ha a che fare il dottor Schmitt con gli Xavier? >> lei sospirò guardando fuori dal finestrino, massaggiandosi poi le palpebre con aria stanca << Ho scoperto qualcosa, va bene? Ho verificato esattamente quello che avevo bisogno. Ma devo parlare con Raven e devo farlo al più presto >> << Puoi aspettare domani. È quasi mezzanotte del resto >> << Tu vuoi parlare con Charles, giusto? Saremo entrambi contenti >> rimbeccò la donna inamovibile << Siamo quasi arrivati comunque. Rallenta, è quell’edificio di mattoni >> lui assentì a labbra strette, seguendo con lo sguardo le sue indicazioni, ma niente della facciata davanti a lui gli ricordava qualcosa.
Doveva essere appena ristrutturato, il suo occhio esperto poteva capirlo facilmente, con un portone di legno scuro alla fine di una piccola rampa di scale di marmo candido e finestre dai vetri rinforzati e intelaiatura in alluminio ultraresistente.
Stava giusto pensando che la scelta dell’illuminazione non era molto efficiente quando notò una seconda coppia di fari alle loro spalle, una berlina nera che non aveva notato dietro di loro parcheggiò a poca distanza, in doppia fila, restando però con il motore acceso << Andiamo >> fece Emma aprendo la portiera e facendo ticchettare leggermente il tacco della destra contro l’asfalto, ma lui continuò a fissare gli abbaglianti dell’altra auto attraverso lo specchietto retrovisore, tormentato da una specie di prurito al centro delle scapole, la sensazione spiacevole di un pericolo non identificato.
Quella macchina gli era familiare senza che sapesse perché.
Perché aveva l’impressione che fosse lì per loro?
Aveva controllato la strada mentre raggiungevano Brooklyn? Perché fare una cosa del genere?
Poi i fari si spensero e lui si diede dello sciocco: il racconto di Emma su quello strano Schmidt doveva averlo preoccupato più di quanto ammetteva a se stesso se aveva scatenato anche la sua paranoia << Erik. Scendi >> continuò la bionda ormai fuori, spazientita dal suo ritardo, perciò decise di assecondarla anche se nemmeno lui sapeva esattamente perché.
Pareva estremamente nervosa, non la ri-conosceva da molto ma qualcosa gli diceva che non era semplice scuoterla tanto, eppure quel che aveva scoperto dai Darkholme doveva essere molto importante se non poteva aspettare il mattino per suonare alla porta di un appartamento di sconosciuti nel bel mezzo della notte.
La seguì dentro il palazzo e poi nell’ascensore, in silenzio teso visto che la sensazione tra le scapole non si attenuava << Che ti prende? >> lui scrollò le spalle, spazientito da se stesso << Cos’è? >> insistette però lei << Questa sensazione che provi... cos’è? >> << Non so darle un nome >> una minuscola ruga si formò sulla fronte di lei, perplessa, ma quando le porte si aprirono di nuovo davanti a loro si appianò, sostituita da concentrazione e determinazione.
Raggiunsero l’unico stipite del piano, un appartamento che puzzava di soldi esattamente come l’intero palazzo, ma non se ne stupiva: aveva googlato “Charles Xavier” dopo aver parlato con sua madre, e se non fosse stato sufficiente lo fu per certo revisionare i suoi appunti della residenza di Westchester per  fugare ogni dubbio.
Sentì il trillo di qualcuno che richiamava l’ascensore al pianterreno nello stesso momento in cui Emma premeva invece sul campanello.
Alla porta si presentò la stessa ragazza bionda della mostra, Raven Xavier a dar credito a Wikipedia, artista stravagante fissata con il blu e sorella adottiva di Charles.
Charles.
Era così naturale per il suo cervello quel nome, sapeva di conosciuto, di familiare, rassicurante in qualche modo.
Ben diverso dall’occhiataccia ostile che stava rivolgendo loro la bionda << Sparisci, Emma >> la sentì dire, un istante prima di trasformarsi in un energumeno dalle spalle enormi.
Erik rimase senza fiato a quello spettacolo, lo sfarfallio che agitò la pelle della ragazza aveva dell’ipnotizzante, e vederla in simili fattezze subito dopo, grande grossa e minacciosa,  avrebbe fatto indietreggiare chiunque.
Ma non Emma: si limitò a sbattere le palpebre, senza fare una piega << Devo parlarti. È importante >> in quel preciso istante quello che era stato solo un prurito divenne un’unghiata atroce sulla schiena, che lo fece trasalire, e se poterono salvarsi negli istanti successivi fu solo perché il suo corpo di soldato addestrato, gli istinti che albergavano in lui che erano ben lontani da quelli di un ingegnere e che nessun telepate poteva cancellare, reagì di riflesso e si voltò di scatto, parandosi di fronte ad Emma e intercettando così i sottili aghi di un teaser con il suo potere, fermandoli a mezz’aria.
Davanti a loro c’erano due uomini sconosciuti, uno più basso dell’altro, ma questo semplicemente perché il più alto superava anche l’aspetto mastodontico che Raven aveva assunto, con zanne, per Dio Onnipotente, zanne, a fuoriuscire dalle labbra, e artigli.
Sarebbe stato sufficiente a sconvolgerlo, ma il basso, che era comunque alto almeno quanto lui, era invece rosso, rosso come il sangue, rosso come... come un diavolo.
Di nuovo l’istinto lo salvò quando il diavolo scomparve in uno sbuffo rossastro, riuscì a prevedere il fatto che apparisse alle sue spalle perché lui avrebbe fatto lo stesso, e per questo mandò a segno due pugni su quella mascella mefistofelica prima di spingere le due donne all’interno dell’appartamento e riuscire a chiudere la porta << Chi erano?! >> esclamò Raven sconvolta, nessuna delle due era riuscita a muovere un muscolo, ma non poteva nemmeno biasimarle visto che il tutto si era svolto in pochi secondi << Non lo... >> non riuscì a terminare la frase perché il diavolo comparve esattamente davanti a lui, un turbine rosso che non gli avrebbe lasciato scampo, era troppo vicino per riuscire a schivarlo o impedirgli di toccarlo, ma prima che l’altro potesse aggredirlo in qualsiasi modo si afflosciò a terra senza un suono, come una marionetta a cui hanno tagliato i fili << Ma c-cosa... >> Emma, accanto a lui, aveva ancora la mano sollevata contro il nemico, in qualche modo era riuscita ad usare il suo potere per neutralizzarlo, ma si ripromise di chiedere delucidazioni in seguito perché la porta fu scossa da un violento fremito << È blindata >> mentre non guardava Raven aveva cambiato di nuovo aspetto, il suo aspetto, una bellissima donna dai capelli di un rosso metallico lunghi fino in vita e la pelle blu come i lapislazzuli.
Emma gliene aveva parlato, la sua mente sapeva e capiva, ma averla davanti non aveva prezzo << Non sembra >> la voce di Emma uscì ferma, ma le sue mani tremavano nel guardare la porta fare lo stesso.
Erik percepì la lastra metallica nell’anima del legno, percepì i cardini rinforzati, la serratura d’acciaio, e con la forza del suo potere li spinse contro le spinte del mostro fuori della porta << Non entrerà >> assicurò con la mascella contratta << Non puoi fare con lui come con l’altro? >> domandò Raven all’altra, che però scosse il capo irrigidita << È troppo... animalesco. Non è umano >> << Nessuno di loro lo è >> sentenziò Erik << No... non so capire gli animali. È puro istinto adesso, non... non ha una mente da controllare >> Raven andò verso il cellulare sul tavolo mentre i colpi sulla porta continuavano furiosi << Chiamo la polizia >> annunciò << Oh bella idea >> sibilò Erik sarcastico, immobilizzandola << Cosa vuoi dire loro? Che un diavolo e una specie di orso senza pelliccia ci hanno attaccato? E come spiegherai il tuo aspetto? Hai il modo di spiegare qualsiasi cosa di ciò che sta succedendo? >> nonostante l’occhiata ostile che gli aveva rivolto all’inizio Raven dovette concordare con un’imprecazione.
Un colpo più violento degli altri ruppe il loro contatto visivo perché Erik dovette usare maggiore concentrazione << Quanto puoi durare così? >> volle sapere Emma e lui le rivolse un sorriso da squalo << Anche tutta la notte >> assicurò, e parve quasi che il mostro lo avesse sentito perché si fermò << Se ne sta andando >> annunciò la telepate << Dove? >> ribatté l’altra << Non capisco. Dal capobranco, ma ha qualche senso per voi? >> << Ce ne sono altri come lui? >> tutti sentirono la lingua di gelido panico nella voce di Raven, era lo stesso che abitava in tutti loro, e lo avvertirono chiaramente mentre la domanda giaceva senza risposta.
Il passo successivo fu fissare il diavolo, con la stessa sgradevole sensazione che si prova quando si vede qualcosa completamente fuori contesto e si desidera solo non averla vista affatto.
Cosa farne di lui?
Cos’era per Dio?!
Quelle silenziose parole rimbombavano tanto nella mente di ciascuno di loro che parevano urlate << Dov’è tuo fratello? >> fu invece l’unica domanda che Emma riuscì a fare, le altre schiacciate dall’ovvia impossibilità di risposta, e Raven si volse verso il corridoio a destra << Sta dormendo >> << Dormendo?! >> fece Erik incredulo, ma lei si limitò a stringersi nelle spalle << Ha preso dei sonniferi. Ha avuto emicranie per tutto il giorno ed era esasperato >> << Ecco perché non sento la sua mente >> Emma si volse verso la stanza << Provo a svegliarlo. Non posso battere la chimica ma almeno potrà muoversi in caso di pericolo >> << Non avvicinarti a lui! >> quel comando imperioso ricordò ad Erik l’ostilità con cui erano stati accolti sulla porta e con essa tornò anche il motivo per cui erano giunti sin lì << Non fare l’isterica, Raven. Non voglio fargli del male. Loro lo vogliono >> e indicò il diavolo ancora riverso a terra << Preferisci che sia in grado di vederli arrivare o... >> si fermò a metà frase, il fiato rapito dai polmoni << È qui >> ansimò volgendosi verso la porta << Chi? >> << Schmidt. Non... non riesco a fermarlo. Non è possibile... come...? >> fece appena in tempo a formulare questa frase prima che una fitta atroce le attraversasse il cranio.
Urlò, si tenne il capo e barcollò costringendo l’amica a sostenerla, ma dopo pochi altri lamenti toccò ad Emma perdere i sensi, schiacciata dal dolore << Emma! >> la porta gemette quando una forza sconosciuta si abbatté su di essa, e con lei Erik nel contrastarla, sentì il metallo piegarsi e diventare caldo sotto le spinte sue e di Schmidt dall’altra parte, era impossibile ma in qualche modo quell’uomo stava usando una forza incredibile, inarrestabile, tanto che ben presto fu costretto a cedervi.
La porta si piegò su se stessa come sottile lamiera invece che acciaio e piombo, rivelando il sorriso che aveva giudicato inquietante già al Galà.
Bastò un guizzo di pensiero per comandare a coltelli e acuminati frammenti di metallo strappati in ogni dove di schizzare verso l’uomo, ma quello non faticò a difendersi, sollevando con una mano i resti dell’uscio per usarli come scudo << Stupefacente >> lo sentì dire, e i suoi occhi brillavano quando tornò visibile.
Alle sue spalle l’energumeno che era più animale che uomo marciò nella loro direzione, ma Raven aveva abbandonato lo shock iniziale e adesso lo attaccò con sinuosa violenza, per quanto inutile vista la differenza di stazza, tuttavia non poté raggiungerla perché Schmidt gli sbarrò la strada << Qual è il tuo nome? >> volle sapere, con lo stesso sguardo di un intenditore di fronte ad un taglio di carne scelta.
Che fosse possibile ragionare con quell’uomo?
Il mostro riuscì a immobilizzare la ragazza, com’era prevedibile, e lei cominciò ad urlare di frustrazione passando da una forma all’altra, costringendolo così ad uno sbrigativo colpo di taglio per farle perdere i sensi.
Non volevano ucciderli almeno, il che era un passo avanti << Cosa vuoi da noi? >> azzannò mettendosi in posizione di difesa, abbassando il baricentro per maggior stabilità.
Non aveva mai fatto arti marziali, la sua esperienza si limitava a qualche rissa di quartiere, eppure percepì l’asciutta efficienza del suo corpo, la consapevolezza che possiede un soldato, un combattente, anche se lui non era né l’uno né l’altro << Non ho mai trovato tre di noi nello stesso posto >> noi?
Che voleva dire?
Il colosso si caricò Raven sulla spalla sinistra e si avvicinò ad Emma per fare lo stesso, rivelando così che come minimo volevano rapirli << Lasciale stare! >> << Pensi sul serio che sia il caso di preoccuparsi per loro? >> infierì Schmidt divertito.
Sadico bastardo << Cosa vuoi?! Non ti abbiamo fatto nulla! >> si lanciò sull’uomo a testa bassa, deciso ad atterrarlo per avere il tempo di colpire il mostro con le giovani in spalla, ma con facilità estrema Schmidt non solo non si smosse di un centimetro quando impattarono, riuscì anche a lanciarlo dall’altra parte della stanza con un piccolo tocco delle dita.
Atterrò contro il muro che divideva la cucina dal salotto, sbattendovi contro con tale violenza da rimanerne accecato, senza fiato, ricadendo infine sul pavimento con un tonfo sordo.
Sentì il sapore del sangue in bocca, poi, seppur non molto chiaro: << Prendi anche lui e andiamo >> comandò la voce gelida di Schmidt, probabilmente rivolto alla bestia, seguita da uno schiocco di lingua compiaciuto << Una telepate, una mutaforma e un controllore di metalli. Oggi deve essere il mio giorno fortunato >> vaffanculo pensò Erik con rabbia, ma nonostante questo non riuscì nemmeno a sollevare le palpebre << C’è qualcun altro >> questa volta chi parlò possedeva la rozzezza dei ringhi nelle corde vocali, i suoni erano ruvidi, graffianti << Qualcun altro? Chi? >> << Maschio >> i passi di Schmidt risuonarono leggeri sul parquet dell’appartamento, Erik li sentì ad un solo respiro di distanza quando gli passò davanti, e fu per puro riflesso che le sue mani si strinsero su di lui.
Afferrò il polpaccio con tutta la forza che gli era rimasta, poca quindi, eppure non poteva comunque restare fermo mentre qualcuno minacciava Charles.
Quel pensiero così istintivo non lo spaventò come avrebbe dovuto, era perfettamente naturale, così suo da venir accettato con facilità anche dalla sua mente senza memoria << Sei resistente >> commentò il dottore chinandosi sui calcagni e seppur con difficoltà Erik aprì gli occhi per fissarlo con odio << Faremo grandi cose insieme, io e te >> sentenziò l’uomo prima di farlo svenire con un tocco di dita sulla tempia.

PS: chiedo umilmente scusa per il ritardo. So di non avere giustificazioni, se non la mia immaginazione in completo sciopero, ma è stato un luuuuuuungo periodo di silenzio per la mia vena da "scrittrice" (o presunta tale XD ) quindi se non posso aspirare al vostro perdono spero almeno sulla comprensione. A tutti coloro che resistono non posso non dire GRAZIE. Vi adoro, vi voglio bene, e sappiate che siete preziosi come l'aria.

Arsea

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Per la seconda volta in pochi giorni, aprì gli occhi e si rese conto di non trovarsi sul suo letto, anche se questa volta il pensiero non fu seguito dal ricordo di come aveva raggiunto il nuovo giaciglio.
A volte quando prendeva i sonniferi restava intontito per un po’, forse si era spostato e non lo ricordava, tuttavia non conosceva nessun posto come quello << Non muoverti >> sentì, un ordine seppur appena sussurrato, ma riconoscere la voce non lo tranquillizzò.
Voltò il capo ancora un po’ pesante e riconobbe Erik dall’altra parte della stanza, seduto nell’angolo più lontano rispetto a lui << Ovviamente >> sospirò quello scuotendo il capo esasperato << Perché non dovrei muovermi? >> << Perché adesso sanno che sei sveglio >> no, non era semplicemente una stanza.
Era una cella.
Tre pareti di nuda pietra e una di robusto plexiglass che avrebbe mostrato tutto l’interno a chiunque fosse passato per il corridoio, anch’esso nero seppur illuminato da alogene.
Un brivido di reminescenza gli risalì lungo la spina dorsale mentre si metteva seduto sul pavimento di linoleum, e farlo gli rivelò che aveva i muscoli abbastanza indolenziti per tradire un sonno prolungato << Dove siamo? >> << Se non ti fossi drogato come una casalinga isterica lo sapresti >> sibilò Erik rabbioso, un tono che non gli aveva mai sentito, ma anche quello sguardo cupo era una novità.
Non si sarebbe affatto “drogato”, come diceva lui, se non fosse stato per colpa sua << Non hai sentito nulla! >> lo accusò ancora, e i pugni poggiati sulle ginocchia si strinsero con forza.
Trasmetteva pericolo, anche se non avrebbe mai associato quella parola ad Erik prima, e pensarlo lo portò a chiedersi perché non lo avesse mai giudicato tale.
Era palese che lo fosse, anche al di fuori della sua mutazione, quegli occhi gelidi possedevano una spietatezza inconfondibile, eppure non lo aveva mai considerato meno che innocuo << Sono entrati in casa tua, Xavier! Hanno rapito tua sorella mentre dormivi >> fece sprezzante, imprecando poi in yiddish << Puoi urlarmi contro se preferisci, ma preferirei che prima mi spiegassi quello che sta succedendo >> ribatté infine, nascondendo il senso di colpa sotto la rabbia, anche se solo sentire quello Xavier fu quasi uno shock.
Non lo aveva chiamato per cognome nemmeno quando erano davvero degli sconosciuti, non lo aveva mai considerato tale, eppure adesso... adesso Charles lo era.
Si alzò quando vide che l’altro non parlava, raggiunse il plexiglass e guardò fuori, ma riuscì a scorgere solo un’altra cella, accanto alla loro; nonostante le luci accese all’interno però non riusciva a vederne gli inquilini << Dov’è Raven? >> << Potresti dirlo tu a me >> << Ho capito, va bene? >> ribatté, ricacciando il panico sul fondo del suo stomaco, lì dove abitava di solito.
C’erano miriadi di ragioni per farsi sopraffare da esso, una peggiore delle altre, ma lo conosceva troppo bene per non saperlo controllare adesso << Hai capito? >> azzannò Erik alzandosi in piedi, e per la prima volta Charles fu dolorosamente consapevole che fosse più alto di lui.
Vide del sangue sulla nuca e impallidì << C-cosa...? >> << Erano come noi >> lo freddò << Come noi? >> << Mutanti. Emma mi ha detto che è così che ci definisci >> il suo cuore cominciò a battere furioso come le ali di un colibrì, ma di nuovo Charles lo tenne a bada << Dimmi... dimmi cosa è successo >> Erik rimase a guardarlo in cagnesco ancora per un momento, poi scosse il capo e lo accontentò.
Non che servisse a molto visto che le sue informazioni restavano esigue, tuttavia lo aiutò a capire quanto meno di più.
L’incognita più grossa era chi fosse questo Schmidt, non aveva mai sentito parlare di lui, perciò non riusciva nemmeno ad immaginare cosa potesse volere da loro.
Denaro? Beh, avrebbe avuto senso se avesse preso solo Raven e lui, oppure Emma, ma Erik... d’altro canto sembrava che avesse seguito i due dopo il Galà, quindi forse lui e Raven non erano affatto gli obiettivi principali << Cercava mutanti. Lui stesso lo è >> << Che genere di potere? >> << È molto forte, abbastanza da scaraventarmi dall’altra parte della stanza con un dito >> come Cain allora?
Charles si lasciò scivolare a sedere lungo il muro, pensoso << Forse non vuole farci del male >> ipotizzò << Non posso credere che tu l’abbia detto >> << Perché farcene? Ci ha rapito, è vero, ma siamo incolumi >> << Tranne per il fatto che siamo in una cazzo di cella >> << Non cercava nessuno in particolare a quanto ho capito, questo significa che non siamo bersagli specifici. Esclude l’estorsione come movente almeno >> << La ringrazio per l’ovvietà, professor Xavier >> fece l’altro sarcastico, tornando ad occupare il posto da cui si era alzato, e sostenne con gelida sfida l’occhiataccia che Charles gli rivolse << Questa ostilità non aiuta >> << Non ho alcun motivo di non esserti ostile >> ribatté Erik rabbiosamente << Vuoi sentirmi dire che mi dispiace, Erik? È questo che... >> << Lehnsherr >> lo interruppe lui gelido << Non chiamarmi per nome. Io e te siamo degli sconosciuti, ricordi? L’hai deciso tu stesso >> fu peggio di un pugno.
Lo lasciò senza fiato, con la stessa cocente sensazione, solo che non gli avrebbe lasciato solo un livido e niente più, quelle parole si irradiarono dentro di lui come veleno, prosciugandolo di ogni risposta.
Distolse lo sguardo, fissandolo sul pavimento di fronte a sé, e rimase a fare i conti col fatto che probabilmente Erik non lo avrebbe mai perdonato.
Si era forse aspettato che lo facesse?
Perché?
Maledetto ragazzino.
Fu come se qualcuno gli avesse urlato nelle orecchie; trasalì nel rendersi conto che era la voce di Erik quella che gli aveva attraversato la testa e il groviglio duro e freddo che riposava all’altezza del suo stomaco si stiracchiò come un felino pigro, ricordandogli che era un mostro.
È bianco come carta.
Sta per svenire?
Forse è spaventato << Non sono spaventato >> ci fu un istante in cui si guardarono e basta, uno rendendosi conto di aver risposto ad un pensiero e l’altro scioccato nel vederglielo fare, tanto che i suoi occhi si spalancarono di vero e proprio terrore << Non farlo più >> comandò << S-scusa. Io... non so controllarlo >> << Stai zitto >> << È stato un riflesso. Non sono entrato nella tua... >> << Stai zitto! >> urlò allora Erik, con tale violenza da raggelarlo.
Forse Charles era più spaventato dalla situazione di quanto osasse ammettere a se stesso, ma quel comando gli gelò il sangue nelle vene << Il fatto che non conoscano il tuo potere è l’unico vantaggio che abbiamo >> gli ringhiò contro, ma quella spiegazione non rese più piacevole la sensazione di aver ucciso Erik.
Quello davanti a sé non era lui, non il suo migliore amico, non l’uomo che aveva conosciuto alla tavola calda.
Era qualcun altro, uno sconosciuto come si era dichiarato, perché cancellare la sua memoria non aveva semplicemente eliminato un uomo qualsiasi da una vita qualsiasi, non era stato come con Moira; Erik aveva vissuto ventisette anni cercandolo e amandolo, Erik era stato l’unica possibilità che aveva di essere amato con assoluto e cieco sentimento e l’aveva distrutta con le sue mani.
Per questo si era imbottito di farmaci e aveva preferito dormire, per questo il mal di testa lo aveva tormentato straziante: aveva ucciso Erik e niente di quel che poteva fare avrebbe rimediato a questa azione << Non ho le mie medicine con me >> parlò come un automa, le uniche parole vagamente innocue che gli erano rimaste, e non riuscì neppure più a guardarlo << Ah... Mia madre me l’ha detto. Quanto è pericoloso senza? >> << Non lo so. Non sono mai stato senza >> lo sentì schioccare la lingua, e non era preoccupato, era seccato.
È inutile << Lo so >> ansimò Charles ingoiando il groppo alla gola << Ti ho detto di non farlo >> << Mi dispiace >> << Chiedere scusa non aiuta. Anzi, mi fa solo innervosire >> << Non volevo farlo. Ero... ero sconvolto, ho agito senza pensare >> << Niente di quel che puoi dire aiuterebbe quindi stai zitto e basta >> con una mano Erik si toccò la nuca e diede in una smorfia, ritirandola sporca di sangue << Sei ferito? >> << Niente di grave >> << Le ragazze in che stato erano quando le hai viste l’ultima volta? >> più per automatismo che per coraggio, Charles prese il proprio fazzoletto dalla tasca e lo raggiunse per porgerglielo.
Grazie << Hai davvero un fazzoletto di stoffa? >> la discrepanza tra pensiero e parola fu abbastanza evidente da lasciarlo interdetto, ma Erik si limitò a guardarlo intensamente.
Ascoltami. Ehi! Non è il tuo potere? Xavier!
Una fitta alla tempia gli spezzò il respiro, ma si costrinse ad ingoiarla << Ti ascolto >> con un gesto repentino Erik gli tappò la bocca con la mano, afferrandolo malamente per il bavero.
Non parlare << Vuoi che legga i tuoi pensieri? >> Finalmente!
La ruga ostile sulla fronte di Erik si distese, rivelando anche un accenno del vecchio sorriso.
Lo lasciò andare, tornando ad appoggiarsi alla parete di pietra.
Sei parecchio ottuso per essere un genio << Pensavo non volessi che ti leggessi la mente >> Non volevo che tu rivelassi di poterlo fare. Se parli lo capiranno.
Charles sedette sul pavimento di fronte a lui << Non hai paura? >> Di cosa? << Di questo. Della telepatia >> Non ho paura di Emma, mi pare, e lei è come te << Lei è più potente di me >> Non a quanto mi ha detto. Altrimenti avrebbe potuto farmi tornare la memoria, ma non ha potuto. Tu sei solo fuori allenamento.
Lo disse come se Charles avesse trascurato di andare in palestra per qualche settimana, lo stesso tono noncurante, e in qualche modo riuscì a smorzare un po’ la paura sorda che invece tormentava il telepate.
Tra poco gli inibitori avrebbero terminato il loro effetto del tutto, Erik lo sapeva, ma in qualche modo non pareva preoccupato.
Puoi uscire di qui? << Intendi cercare qualcun altro? >> Qualsiasi informazione sarebbe utile. Presto verranno qui << Posso... posso provare. Ma non sono così preciso. Sinceramente mi sto stupendo anche solo del fatto che riesca a parlare con te senza farti scoppiare il cervello >> Questo è rassicurante.
Non è facile mentire quando si parla nella mente.
Avrebbe potuto farlo in realtà, era un telepate, avrebbe dovuto saper controllare la propria testa, solo che non era affatto così, non ricordava nemmeno un momento della sua vita in cui lo fosse stato, e adesso era troppo tardi per rimediare.
Aveva mai cercato di leggere qualcuno che non fosse a pochi passi di distanza?
Eppure sapeva di poterlo fare, in passato quando aveva ritardato gli inibitori aveva sentito le voci di persone anche a miglia di distanza, tuttavia... mai con controllo << Ehi >> la voce di Erik lo richiamò al presente, portandolo di nuovo a focalizzarsi su di lui, e sussultò quando gli prese la mano.
Vide un piccolo guizzo del vecchio Erik in lui, dolcezza e preoccupazione per un istante, spazzate via poi subito dopo.
Di cosa hai paura?
Forse era più pratico elencare le cose di cui non aveva paura.
Non era un codardo. Si rifiutava di esserlo, eppure la paura restava.
Chiuse gli occhi e diede in un lungo respiro profondo.
Molto tempo prima aveva dato corpo agli inibitori nella sua mente, alte mura di pietra che lo circondavano in un rassicurante abbraccio, poteva a malapena spostarle quando si sforzava, ma non per questo erano meno solide.
Adesso erano fragili come carta, sottili, l’orologio che si portava incastonato nel petto gli annunciò che l’effetto stava per finire, e questo significava che doveva agire subito: una volta che fosse successo non avrebbe avuto più alcun potere, solo...
Un altro respiro profondo.
Raven fu la più facile da trovare, la sua voce risuonò come una campana di cristallo in mezzo alle altre sconosciute, e fu così grande il sollievo di vederla sana e salva che lei sussultò nel venirne investita << C-Charles? >> ansimò, in qualche modo riuscì a percepirlo, e lui ne fu sorpreso in egual modo.
Stava bene, non pareva ferita, e anche lei come loro si trovava in una cella, solo che questa era di metallo, asettica, con due brande e un piccolo tavolino, tutto incassato nel pavimento.
Davanti a lei, rannicchiata sul sottile materasso, stava Emma, con le ginocchia strette al petto, gli occhi azzurri fissi nel nulla e i lunghi capelli biondi scomposti sulle spalle.
Il trucco solitamente perfetto era colato sul suo volto, tradendo lacrime e accenni di lotta a giudicare dai vestiti sgualciti e strappati << Cosa le è successo? >> non ci fu bisogno di dire a Raven di non parlare, lei era di gran lunga più perspicace di lui.
Non lo so. Quando sono rinvenuta era già così. Non parla e non si muove, come... come è successo a te.
Anche lui aveva avuto lo stesso inquietante aspetto?
Non vi aveva dato affatto peso, ma cosa gli era successo in quelle ventiquattro ore di buio? Il suo cervello si era come spento, quel che gli aveva lasciato da affrontare era stato semplicemente troppo.
Cosa aveva visto Emma per ridurla in quello stato?
Il suo potere reagì alle sue domande come possedesse volontà propria, si allontanò da Raven e si focalizzò su qualcun altro, una voce che non conosceva.
Non la comprendeva nemmeno, non aveva mai imparato il russo, eppure capì le immagini, i ricordi.
Era stato lui a portare Emma nella cella, e sempre lui l’aveva portata al laboratorio.
Cos’era quel posto?
Vide un’enorme stanza circolare tappezzata di pannelli blu, vide un giovane con il camice, vide...
Un urlo straziante gli perforò le tempie, facendolo boccheggiare, e fu terrificante rendersi conto che era stata Emma ad urlare.
Erano nella strana stanza sferica, su una pedana sospesa nel vuoto, e la vide davanti a sé, legata ferocemente ad una seduta di metallo mentre si dibatteva come una folle.
Urlò ancora e Charles la schiaffeggiò.
No, non era stato lui, com’era possibile?
Era dentro un ricordo. Di chi?
La luce improvvisa lo accecò, un altro grido disperato della ragazza lo infastidì, ma prima che potesse scorgere altro Charles si ritrovò da tutt’altra parte.
Era in una camera da letto completamente bianca.
Lo era il pavimento e le pareti, lo erano le lenzuola del baldacchino, il tappeto, l’armadio.
Il silenzio improvviso fu doloroso quasi quanto le urla, eppure gli permise di riprendere fiato, ingoiando il cuore che gli stava tamponando il pomo d’Adamo.
Poi un singhiozzo, appena accennato, e si voltò di scatto.
Emma era rannicchiata in un angolo, irriconoscibile vista la fragilità che palesava e l’aspetto scosso, non l’aveva mai vista così, non terrorizzata e piangente << Charles? Sei tu? >> in realtà non sapeva cosa risponderle.
Non era sicuro di trovarsi in un lungo reale. Come poteva esserlo?
Nello stesso momento in cui pensò questo, il suo corpo si materializzò dal nulla, un suo se stesso identico alla realtà, con tanto di cardigan sformato e mocassini con la suola in gomma.
Non si diede il tempo di essere troppo sconvolto da se stesso comunque, anzi, gli era fin troppo naturale a dire il vero.
Il pugno di panico si allentò un po’, solo un po’, il sufficiente a permettergli di assaporare la soddisfazione di riuscire ad usare il suo potere senza stare male << Devi andartene >> ansimò lei con gli occhi fuori dalle orbite, e senza che notasse il suo movimento se la ritrovò davanti, l’espressione spiritata mentre lo afferrava per le spalle e lo scuoteva malamente << Lo capirà, non capisci?! Non deve sapere che sei un telepate! >> << Cosa stai dicendo? Chi non deve saperlo? Schmidt? >> << Shaw >> lo corresse, sputando quel nome con rabbia feroce, come fosse un insulto esso stesso << Sebastian Shaw. È un uomo terribile, Charles. Non sai cosa ha fatto... non sai cosa è capace di fare! >> << Spiegamelo. Come può sentirci qui? >> << Non lo so >> gemette lei, e le sfuggì un singhiozzo prima di allontanarsi da lui e voltargli le spalle.
Non avrebbe mai immaginato di vederla così.
A dire il vero non era nemmeno sicuro che potesse piangere << Sei più meschino di quel che pensassi >> gli disse, palesando che sentiva i suoi pensieri chiaramente quanto le sue parole.
Probabilmente però fu una fortuna perché l’orgoglio schiacciò la disperazione e quando tornò a guardarlo tra le lacrime c’era il duro sprezzo che gli era più familiare << Hai nascosto la tua natura in modo eccellente questi anni. Devi solo fare in modo che sia così anche con lui >> << È impossibile. Non ho gli inibitori qui con me. Presto... quando finirà il loro effetto... sarà terribile, lo so >> lei sollevò un sopracciglio, avanzando di un passo di nuovo nella sua direzione, e quel solo gesto bastò per trasformarla completamente.
Tornò Emma Frost, fasciata in un magnifico abito di seta candida che le sfiorava le caviglie e diamanti che le circondavano il collo e la fronte in gioielli niente meno che magnifici << Noi siamo i re e le regine delle nostre menti, Charles. Sei tu a controllare tutto, non il tuo potere >> << Tu non riesci a capire. Non sono io a non voler controllarlo! È solo... è passato troppo tempo, capisci? Non l’ho mai controllato, come posso farlo adesso?! >> la donna lo fulminò con lo sguardo, con tale livore che lui fu certo lo avrebbe colpito, invece si limitò a venirgli vicinissima, un respiro di distanza, sensuale in un altro contesto, ma adesso solo terribile come un serpente << Sai cosa vuole fare Shaw? >> sibilò, e Charles percepì chiaramente il gelo cominciare a pervaderlo, una lingua di freddo gli risalì la schiena in un tocco impalpabile, eppure abbastanza forte da raggelargli il fiato << Rinchiuderà tua sorella in un laboratorio finché non dimenticherà la luce del sole, torturerà ogni persona che è cara ad Erik finché non lo trasformerà nella sua arma personale e non appena scoprirà che sei un telepate ti legherà ad una dannata sedia e ti farà scoppiare il cervello con la sua macchina >> anche le sue parole erano aghi di ghiaccio, tanto potenti che il suo cuore arrancò << L’unica cosa che può salvarci, per quanto odi ammetterlo, è il tuo potere. Non mi importa nulla che tu sia terrorizzato. Siamo tutti terrorizzati. Portaci fuori di qui e poi torna a circondarti delle tue illusioni rassicuranti, a me non importa, ma adesso piantala di fare l’inglesino educato che non sei e fai quello che ci serve >> quasi lo avesse scacciato fisicamente, Charles rinvenne con un ansito nella cella, i polmoni urlanti per il bisogno d’aria e il cuore quasi fuori dal petto.
Rabbrividì mentre le sensazioni trasmesse da Emma ristagnavano in lui, era come riemergere da una pozza d’acqua gelida, per questo ebbe bisogno di qualche istante per rendersi conto di trovarsi tra le braccia di Erik << Stanno arrivando >> lo avvertì concitato, rimettendolo dritto praticamente di peso.
Cazzo sembri un fantasma << Emma non è stata troppo gentile >> si aprì il colletto della camicia con le dita che tremavano come foglie.
È sveglio.
La voce che sentì possedeva la pesantezza e l’oscurità vischiosa del petrolio.
Se Emma lo aveva raggelato, questa mente fu veleno annichilante, fu come toccare l’essenza stessa della paura.
Il figlio di Brian Xavier. Non sapevo fosse un mutante... per questo voleva la figlia dei Darkholme?
È come lei?
L’uomo che si fermò dall’altra parte del plexiglass non aveva anima.
Charles non percepì alcuna emozione provenire da lui, i suoi pensieri possedevano la vacuità di una voce che rimbomba in una stanza vuota, e se non fosse stato per il vero e proprio ruggito che sentì invece nell’essere al suo fianco e che lo scosse, solo contemplare quel vuoto oscuro poteva scioccare << Finalmente la vedo sveglio, dottor Xavier >> per quanto assurdamente, l’unica cosa che riuscì a formulare fu: << Non sono ancora dottore >> il sorriso che piegò le labbra di Shaw era sincero, per Dio, sincero come quello di una bambola.
Un sociopatico assoluto.
Charles aveva studiato questa condizione, sapeva della sua esistenza, aveva incontrato criminali definiti tali, ma quello... quello era l’incarnazione di quella parola << Naturalmente! Ho sentito meraviglie sui suoi studi da genetista. Ho letto anche la sua tesi. Interessante, ancor di più vista la nostra natura. Non avrei mai immaginato però che parlasse per esperienza propria >> non senza un certo sforzo, si sollevò in piedi e si rassettò gli abiti sporchi e sgualciti, fissandolo ingoiando la paura.
Forse non poteva controllare il suo potere, ma per certo sapeva controllare il suo corpo.
Non era la prima volta che si trovava dietro una parete di plexiglass come un animale allo zoo, né la prima che una telecamera e due paia di occhi tenevano d’occhio ogni sua espressione << Lei è un mutante quindi? >> Erik era subito dietro di lui, rabbia odio e feroce concentrazione, la sua solidità era quasi palpabile, e sentirla irradiare nella sua schiena lo tranquillizzò un poco << Mutante, certo. Ho apprezzato il suo modo di definirci, signor Xavier, rende il tutto molto meno pericoloso >> << Perché ci troviamo ospiti di Sebastian Shaw, se posso chiedere? >> il sorriso si incrinò un poco al suono del nome, sorpresa e sospetto passarono in lui, ma non si sbilanciò ulteriormente.
Si avvicinò invece alla console di fianco al muro e premendo un pulsante fece sollevare la parete trasparente per avanzare.
Quello che sembrava una mutazione animale rimase alle sue spalle, Charles cercò di non far affiorare la sua parte di studioso eccitato all’idea di avere un simile esemplare a portata di mano, tuttavia non riuscì a nascondere del tutto la curiosità << Sono sicuro che lei sia la persona più adatta a comprendere >> disse Shaw seguendo il suo sguardo divertito << Comprendere cosa? >> << Quello che faccio >> mentre parlava la mente di Shaw lo stava analizzando.
Forza? Velocità? Adattamento? Che tipo di mutazione poteva avere?
Charles era letteralmente incredulo dalla moltitudine di poteri che riuscì a formulare.
Quanti mutanti aveva incontrato?!
Charles!
La voce di Raven lo raggiunse come un’unghiata sulla lavagna, tanto violenta da farlo barcollare.
Vide sua sorella braccata da due uomini armati nella sua cella << Signor Xavier? >> fu con uno sforzo immane che tornò in sé, non era capace di isolarsi, i suoi amati scudi erano quasi del tutto crollati << Cosa vuole farci? >> << A dire il vero vorrei la vostra collaborazione >> << Direi che siamo un po’ oltre la collaborazione, signor Shaw. Ci ha rapiti. Cosa vuole da noi? >> Shaw si avvicinò ancora, scandagliandolo dalla testa ai piedi, ma Charles non si lasciò intimidire.
O almeno non lo diede a vedere << Non ho mai incontrato un gruppo di mutanti >> << È stato un caso se ci siamo ritrovati, nient’altro >> l’altro sollevò un sopracciglio << Crede che sia un caso che Emma Frost sia amica di sua sorella? Crede lo sia il fatto che suo padre abbia adottato una bambina mutante? >> si volse verso Erik << Non vedo il caso nemmeno nell’ingegner Lehnsherr a dire il vero >> lo pensò solo adesso, ma aveva ragione.
Sapeva perché lui ed Erik si erano conosciuti, non capiva ma sapeva, tuttavia riguardo ad Emma...
Era una telepate.
Lui era stato lontano per la maggior parte del tempo, ma cosa aveva impedito a lei di usare il suo potere su Raven?
Il suo cuore saltò un battito, non riuscì ad impedirselo, e Shaw parve capirlo da come il suo sorriso si allargò << A dire il vero credevo volesse studiarla >> continuò, indietreggiando di un passo come per osservarlo meglio << Quando gli ho venduto quella bambina ho creduto che volesse farne oggetto di studio... non pensavo certo che avesse già suo figlio. L’ha presa per farti sentire meno solo? Il giocattolo da compagnia del principino di Westchester? >> << Vai a farti fottere >> azzannò Erik, ma Shaw si limitò solo a sorridere di più, falso come una banconota da tre dollari, e i suoi occhi blu splendettero di sadico compiacimento << Qual è il tuo potere, Charles? >> domandò senza guardarlo, fissava ancora Erik, ma la voce si era fatta più morbida, melliflua, come volesse condividere una confidenza.
 
Charles! Aiutami! Charles!
 
Sentì le cinghie stringersi sui propri polsi e caviglie, con un ansito nel petto vide la luce bianca e asettica con cui i suoi occhi vennero accecati mentre lo immobilizzavano su quella brandina.
No.
L’uomo che stava per iniettare in sua sorella qualche porcheria si immobilizzò, stupito lui stesso dal pensiero che gli attraversò la mente, poi lasciò cadere la siringa e cominciò a scioglierle i legamenti << Va tutto bene >> disse alla ragazza blu che si dimenava disperatamente << Sono io, Raven. Va tutto bene, mi senti? Sono qui >> lei si immobilizzò << C-Charles...? >> << Sì >> << Voleva... voleva! Dobbiamo scappare! >> adesso che il pericolo era diminuito il ragazzo sentì il potere sul corpo dell’uomo affievolirsi, era stata la gelida paura a farlo agire, non una decisione vera e propria, e adesso se ne rendeva conto chiaramente << Devi scappare. Cercare aiuto. Kurt. Chiama Kurt >> << Come? >> si tolse il badge appuntato al taschino con mano tremante e glielo consegnò << È un mutante anche lui. Nascondilo e diventa lui. Hank. Hank McCoy. Mi senti? Ricorda il suo nome >> bastò volerlo per fargli perdere conoscenza e non appena tornò in sé si accorse di essere sul pavimento e a giudicare dal pulsare violento all’altezza delle ginocchia era caduto a peso morto << Bentornato >> sibilò la voce di Shaw alla sua destra e nel voltarsi vide che teneva Erik per il collo, il pollice premuto sulla trachea, del tutto incurante dei pugni che quest’ultimo gli sferrava per liberarsi.
Era cianotico ormai << Cos’hai fatto? >> ringhiò Shaw << Qual è il tuo potere? >> << L-lascialo andare >> << Rispondi e forse non ucciderò il signor Lehnsherr stanotte. Sarebbe un peccato, lo ammetto, ma posso permettermi di romperlo un po’. Le mie risorse hanno fatto fare passi da gigante alle tecniche di tortura, Charles. Posso guarirlo dopo averlo scuoiato vivo, riesci ad immaginarlo? Forse sarebbe persino più utile dopo >> << Lascialo! >> << Qual è il tuo potere?! >> Non dirlo.
Il pensiero di Erik era freddo e controllato come sempre, assurdamente controllato vista la situazione, eppure riuscì a calmarlo il sufficiente per pensare << Lascialo e lo dirò. Non respira. Lascialo >> Shaw allentò la presa subito dopo, Erik crollò a terra tossendo convulsamente, ma quando lo guardò i suoi occhi restavano forti come montagne << Parla >> comandò Shaw e Charles non riuscì a fare a meno di accontentarlo.


PS: Okay, l'ispirazione è tornata. Non so per quanto durerà, ma per il momento ne approfitto! So che la storia sta prendendo una piega imprevista, so che forse non è quello che vi aspettavate, ma spero anche si non deludere le aspettative. Ovviamente i vostri commenti sono preziosissimi, se volete lasciarmi le vostre impressioni sappiate che vi sarò molto grata, e per coloro a cui non ho ancora risposto... lo farò prestissimo! Grazie ancora, vi voglio bene.
Arsea


 

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