Creepy Tales

di Shetani Bonaparte
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Christmas Gifts ***
Capitolo 2: *** Mr. Mustaches - The Monster Under The Bed ***
Capitolo 3: *** Riflesso ***
Capitolo 4: *** Something's wrong ***
Capitolo 5: *** A STRANGE LOVE STORY ***
Capitolo 6: *** Nessuno è morto ***



Capitolo 1
*** Christmas Gifts ***


~~Ecco la prima creepy, gente!
Non è la prima che invento (quella è “Mr. Mustaches”, che pubblicherò prossimamente su ‘sta raccolta) ma è la prima che pubblico, essendo in tema natalizio – per quanto una cosa del genere possa esser natalizia.
Spero che vi piaccia, vi raccomando, lasciate una recensione, sia essa positiva o negativa.
Un bacione,
Shetani

 

 

Christmas Gifts


 

Il Natale.
Quel nome ha perso ogni suo significato, ormai: dovrebbe significare amore, umiltà, raccolta religiosa.
È la festa del consumismo, ora, dell’ipocrisia, è la festa dove alcuni mettono piede in chiesa per la prima volta dopo tanto tempo.
New York City è addobbata come la più ricercata delle puttane ponta a ricevere un ricco cliente.
Il tuo appartamento, formato da una piccola stanza e da un ancor più piccolo sgabuzzino, è un’eccezione: squallido, vuoto tranne che per una piccola branda, uno scatolone e una bottiglia contenente del nero liquido sopra di esso, illuminato da una lampadina quasi consumata che pende dal cavo come un impiccato sul patibolo.
Sorridi, giovane elfo, sorridi spiegando le labbra in un sorriso sincero come quello d’un bambino: è ora di preparare i regali che consegnerai di persona.
Le tue orecchie a punta captano un singhiozzo proveniente dallo sgabuzzino, il tuo sorriso si accentua, i tuoi occhi verdi brillano; ti alzi da terra, saltelli, stropicci il tuo verde vestito, gettando a terra quel ridicolo cappellino con uno stupido campanello sulla punta.
Per molti elfi il Natale è morto, producono giocattoli che non accontentano più nessuno, perdono la loro vivacità e i loro colori nella loro monotona routine mentre Babbo Natale se ne sta a casa a metter su peso. Ma tu no, non ti dai per vinto, mantieni il tuo colore e la tua allegria pagando un piccolo, insignificante, prezzo: la sanità mentale.
Ti avvicini allo sgabuzzino con passi leggeri contraddistinti dal tintinnio dei campanelli sulle tue rosse scarpette a punta. A denti stretti, canticchi ‘Jingle Bell’, mentre ridacchi.
Apri la porta dell’angusto sgabuzzino, essa cigola e scrocchia. Il tuo olfatto viene colpito dall’odore di vecchio, stantio, chiuso, odore di polvere, muffa e sangue.
Fremi d’entusiasmo.
Mio Dio… quanto ami l’odore del sangue. E il suo sapore ferroso, reso ancora più esaltante dall’adrenalina… ti manda in estasi. Il sangue è il migliore delle droghe, che si fottano l’eroina e l’LSD.
Quando lo afferri, il tuo materiale per i regali si è liberato una mano e ti tira i capelli neri e arruffati, graffia la tua pelle pallida e grigiastra, malaticcia.
Suvvia, calmati, calmati, vedrai che la tua famiglia avrà dei bei regali mormori al ragazzo che si contorce tra le tue braccia. Fermo, così rovinerai i tuoi bellissimi polsi!
Ma è troppo tardi: il filo spinato gli ha lacerato la pelle, forse anche le vene.
Sei stato un bambino cattivo. Molto cattivo, quindi ora verrai punito.
Gli occhi scuri del giovane sono pieni di lacrime, ogni volta che parli singhiozza e trema più forte. Sarà che parli sulle note di svariate canzoni natalizie, sarà che sembri allegro, sarà che sei tu, ma lo terrorizzi.
Sei stato cattivo: non si stuprano le persone! dici, mentre lo sleghi dal filo spinato e gli levi di torno la carta da regalo che lo avvolge.
Però i tuoi famigliari sono stati bravi, quindi avranno un regalo ciascuno!
Prendi un sacco di stoffa rossa macchiato di sangue secco, ne estrai svariati strumenti riversandoli sul pavimento accanto a te, seduto a terra a gambe incrociate con il ragazzo in braccio.
Sai… cominci, prendendo una siringa e iniettandogli in vena una dose piuttosto forte di antidolorifico e un po’ di sedativo – non ti piacciono le urla, affatto: potrebbero distrarti dal tuo lavoro e, si sa, per fare dei bei regali bisogna essere concentrati.
…quella cagna di tua madre è veramente brava a travestirsi per rubare, chissà… forse le piaceranno i tuoi capelli…
Afferri il bisturi, carezzi dolcemente la schiena della tua vittima che non ha più la possibilità di agitarsi, passi la lama sulla fronte e la fai circumnavigare attorno allo scalpo, ferendo appena il derma, così da non rovinare nulla.
…sono così setosi, morbidi… forse un po’ corti, ma le piaceranno, vedrai…
Passi nuovamente la lama sul perimetro dello scalpo, premendo nella carne, tagliando il profondità, ripetendo il passaggio più e più volte, fino a quando non togli lo scalpo, scollandolo dal cranio con un rumore liquido, rivoltante, che però ti fa sospirare di gioia.
Dì a tua sorella che è la migliore a guardar solo l’aspetto, sai, scoparsi il primo che le capita a tiro solo perché è bello! Che comportamento degno d’una lady!
Poggi a terra lo scalpo, prendi un cucchiaio e scavi nelle cavità oculari del giovane, estraendo i bulbi, strappandoli assieme ai capillari che leghi assieme.
Toh, un bel portachiavi!
Fai dondolare i due occhi, mentre l’altro geme, per quanto i sedativi glielo lascino fare.
Sai…
Con una sega manuale tagli le mani al ragazzo. Tagliare la carne è facile, ma imprechi mentre tagli le ossa.
Riduci le braccia in dieci pezzi totali; con un bastoncino di metalli togli il midollo dalle ossa, unisci i pezzi con del nastro colorato lasciando qualche centimetro di distanza tra un pezzo e l’altro, alle estremità attacchi e le mani e, sodisfatto, poggi il tuo lavoro a terra con il portachiavi e la parrucca.
…tuo padre è bravissimo ad allungare le mani e a picchiare a gente. Non ho mai visto nessuno tirar cazzotti come lui.
Fai cadere il corpo del giovane a terra, ti alzi, raccogli i regali e li incarti con cura.
E siccome sei bravo, pensi di donar loro anche una cosina caruccia ove metter dentro un lumino, giusto per bellezza.
Prendi la bottiglia che si trova sullo scatolone dove tieni le carte da regalo e i nastrini colorati, la poggi a terra, sollevi la testa della tua vittima e con un machete la mozzi di netto.
Del sangue entra nella bottiglia: diverrà un drink perfetto per quando scoccherà la mezzanotte.
Mezz’ora dopo hai già depositato i regali dinanzi alla porta dell’appartamento accanto al tuo, hai acceso un lumino, lo hai inserito nella bocca del ragazzo ed hai messo il tutto accanto ai regali. Sei tornato nel tuo appartamento dopo aver suonato il campanello ed hai messo via le tue cose, pronto a partire per un nuovo paese, a cercare una nuova famiglia modello.
Scocca la mezzanotte, culli la bottiglia in una mano.
Senti delle urla: i regali son stati trovati.
Ora è ufficialmente Natale.
Merry Christmas! mormori, poi fai il tuo macabro brindisi.

E tu? Sei stato buono quest'anno? Lo so che non sei casto e puro, mormori a tutti coloro che hanno letto la storia, sfogando la loro sete di violenza, fissandoli mentre gli stai alle spalle, illuminato appena dalla luce del monitor del computer.

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Capitolo 2
*** Mr. Mustaches - The Monster Under The Bed ***


Il personaggio di questa creepy lo dedico al mio gatto Tigro, che è venuto a mancare qualche mese fa.
Spero che vi piaccia, ringrazio chi recensisce e segue ‘sta raccolta.
Se volete leggere di più, nella recensione ditemelo che vi dirò il nome della mia page Facebook ove posterò miei disegni, poesie e altri racconti principalmente horror.
Un bacione,
Shetani
 
 
 
 
 
Mr. Mustaches – The Monster Under The Bed
Personaggio dedicato al mio micione Tigro

Daniel non aveva amici; certo, conosceva molti altri bambini, ma nessuno di loro poteva esser considerato un amico.
In fondo Dan era figlio di una coppia di così detti ‘giostrari’, avevano un calcinculo da scorrazzare qua e là per vivere, non aveva una fissa dimora, la roulotte nella quale viveva con i genitori non aveva mai una fissa ubicazione.
Non v’era dunque motivo di sorprendersi, quando ti creò.
Oh, aveva una fantasia così sfrenata e un intelletto in continua evoluzione, in continua crescita…
Eri un bellissimo gatto antropomorfo, con dei lunghi arti, una lunga e calda coda, una pelliccia rossiccia con fantasiosi ghirigori, delle lunghe vibrisse a riccioli, un sorriso dolce, un muso piatto, privo di naso… e ora cosa rimane, della tua dolce bellezza, nel tuo corpo alto e possente? Nulla.
I tuoi grandi e bianchi occhi guardarono quel bimbo crescere con amore, il tuo cuore era ed è pieno di lui.
Ma Dan non era Peter Pan, quindi crebbe.
Quando ebbe quindici anni i suoi genitori abbandonarono la loro movimentata vita, comprarono una casa a San Francisco, nell’Iowa – “Come il Capitano Kirk”, scherzava sua madre, riferendosi al noto Capitano di Star Trek –, e vi si trasferirono.
Era il primo giorno del duemila.
Oh, Dan era così felice, e anche tu… una nuova, vera casa, nuovi luoghi da vedere, una stabilità ed una sicurezza fino ad ora sconosciute.
Ma se quel nuovo millennio vi aveva donato tanto, elargiva anche un pagamento. Lo pretese, ma non lo ottenne.
I problemi iniziarono dopo appena un anno.
In un primo momento non ci facesti caso perché la maggior parte del tempo la passava in tua compagnia, ma pian piano iniziò a parlare di alcuni ragazzi e specialmente di una certa Rosie.
Poi le vostre conversazioni si diradarono, si estinsero.
Daniel iniziò a passare il tempo con quelli che definiva ‘amici’, fuori casa. E con Rosie. Sempre con Rosie.
Ecco cosa voleva quel giovane millennio: voleva te, voleva la vostra amicizia, voleva portarti via Daniel.
Dopo alcuni mesi in cui t’ignorava, saresti dovuto svanire, come fa ogni Amico Immaginario una volta che il suo bimbo è oramai troppo grande per lui, ma tu no, tu eri debole, magro, affamato d’amore, sfinito, spezzato, ma persistevi.
“Dan”, chiedesti un giorno, con la voce arrochita dal troppo tacere, supplicante, ”andiamo a giocare a nascondino insieme, come una volta?”
Lui ti guardò, come se si fosse scordato di te, e mettendosi lo zaino in spalla ti disse: “Mi spiace, Mr. Mustaches, ma sono troppo grande per ‘sti giochi, e poi devo uscire con i miei amici”
Amici?
Chi? Quei ragazzini che conosceva da appena qualche mese? Quella Rosie?
Chi gli era sempre stato accanto? Chi lo amava come nessun altro? Chi gli faceva compagnia mentre i suoi genitori badavano al calcinculo? Chi, quando era piccolo, controllava che non ci fossero mostri sotto il letto? Chi lo conosceva veramente? Chi aveva sempre supportato i suoi sogni, per quanto stupidi fossero?
Chi?
Quei mocciosi? Rosie?
No.
Tu. Sempre e solo tu, dannazione! Tu, l’unico amico vero quanto Immaginario!
Dan è mio!, pensavi, continuamente, ossessivamente, con la tua mente stanca, a guisa di mantra. Mio, solo mio. Sono io il suo unico amico…
Ma lui si scordava di te e tu rimanevi accucciato accanto alla finestra, abbandonato…
‘Mio…’
…come una bestia. Come un peccatore lasciato da colui che prometteva redenzione alla sua anima…
‘…solo mio…’
…come un lupo oramai umiliato e privato della sua fiera natura scordato dal San Francesco di turno. Un passatempo che ha stufato…
‘…Daniel è mio, di nessun altro…’
…smarrito nel dimenticatoio. Senza più via d’uscita.
‘…mio…mio…solo mio…MIO!’
Rosie.
Era lei il problema. Lei aveva rovinato tutto. Lei aveva spezzato la vostra simbiosi, il vostro equilibrio.
Ma, citando Game of Thrones, il libro favorito di Dan, perché districare il nodo se puoi reciderlo con la spada?
Sì, avresti reciso il nodo. Avresti potato quella tenera, innocente rosellina bianca non ancora sbocciata del tutto.
Fu semplice. Più semplice del previsto.
Con la notte come complice, l’avevi uccisa nel sonno, avevi immerso le tue lunghe ed eleganti dita dagli affilati artigli delle sue calde interiora e avevi trasposto i tuoi pensieri sul muro col suo sangue.
“Daniel è mio. Solo mio. Mio”, avevi scritto.
Avevi divorato quel piccolo cuore ed eri tornato a casa, inebriato dal proibito tocco del sangue, un tocco che ti aveva reso folle, avevi atteso spasmodicamente che Dan spegnesse la Play Station 2 e che venisse a letto.
Dopo qualche attimo avevi sentito il campanello suonare e la vostra vicina, la madre di Rosie, piangente, raccontare il macabro spettacolo di tua fattura. Dan non era rimasto ad ascoltare fino alla fine, no. Era corso in camera senza nemmeno accendere la luce, a piangere per quel suo primo amore spezzato.
Era corso da te.
Scosso dai singhiozzi si era stretto al tuo petto, artigliando le mani a tuo manto sporco, ispido e trascurato come mai prima d’allora, e nel mentre ignoravi il dolore dei denti che cambiavano morfologia aguzzandosi e delle dita delle mani che si storpiavano e spezzavano a causa del sangue di ragazzina che le impregnava – perché nessun Amico Immaginario dovrebbe uccidere, ma tu non eri più tanto immaginario all’epoca, figuriamoci ora.
‘Sei mio, sei solo mio’, pensavi, facendo le fusa, sorridendo sinistramente, quel sorriso malato che non avrebbe più lasciato la tua faccia.
“Cos’è ‘sto odore?” aveva bisbigliato Dan, dopo un po’, proprio al sorgere del sole.
Si era ritratto da te e aveva visto il sangue coagulato attaccato al tuo pelo, e aveva capito tutto. Tutto.
Aveva urlato e tu avevi chiuso a chiave la porta della cameretta, onde evitare interruzioni che dal canto tuo avrebbero potuto risultare spiacevoli. Lo avevi tenuto fermo, ignorando i calci che impattavano sul tuo stomaco, sorridendo.
“Ti ho liberato, Dan. Ora puoi essere mi, Dan. Insieme, staremo sempre insieme. Solo io e te” gli dicevi farneticando ossessivamente. Avevi fatto tutto per il suo bene. Lo avevi fatto per quello. Vivevi per lui. Solo per lui. “Non ti volterò mai le spalle, Dan. Sono il tuo unico vero amico e tu sei il mio, Dan. Vero, Dan?”
Ma lui non capiva, si contorceva e districava dalla tua stretta, urlava e qualcuno, mamma e papà, forse, sbatteva sulla porta, tentando d’aprirla.
“Non mi avrai mai! Non da vivo!!!” aveva urlato il giovane.
Oh.
Fu semplice risolvere anche questo piccolo disguido.
Non ricordi molto di quei momenti di lucida follia…
‘Sei solo mio…’
…solo qualche scena sfocata…
‘…mio…’
…come un incubo…
‘…il mio piccolo, dolce Daniel…’
E lo avevi messo al letto, stringendo il suo corpo contuso e graffiato, dalle ossa spezzate, rimboccandogli le coperte.
‘…solo mio…’
Avevi controllato che sotto il letto non ci fossero mostri, inconsapevole che il mostro eri tu.
Quando spirò, gli avevi baciato la fronte, come facevi quando era piccolo – una silenziosa ammenta, chissà – e te ne eri andato, incurante di tutto e di tutti.
Ora Daniel era tuo, tutto tuo.
Però ora, a distanza di anni, non basta più, vero? No, non basta.
I tuoi bambini non bastano mai. Mai.
‘I miei bambini, i miei bellissimi bambini’, pensi, mentre vagabondi nel mondo, seguendo i bambini, attendendo che dimentichino i loro Amici Immaginari che, una volta spariti, non potranno più controllare sotto il letto.
Allora diventi il mostro che si nasconde lì sotto, lo stesso mostro che Dan temeva.
‘I miei bambini, i miei dolci bambini… solo MIEI’

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Capitolo 3
*** Riflesso ***


Riflesso

Non avere paura, Amor mio, basta solo che non ti volti.

Mi vedi, nel riflesso dello specchio, alle tue spalle, vedi la mia altezza, la mia nera figura d'ombra.
Ma quello è solo un riflesso, una pallida imitazione di ciò che realmente sono. La realtà è ben peggiore, fidati, Amor mio.
No! Non farlo, non farlo!
Peccato, ti sei voltata...
Non vedi nulla, ti rigiri verso lo specchio, mi vedi ed urli.
Mi dispiace, ora quel che vedi non è più un riflesso...

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Capitolo 4
*** Something's wrong ***


SOMETHING'S WRONG


[IERI]

"Posso raccontare una storia?"
Il detective guardò una lavagna apparentemente normale; sapeva che gli altri, i suoi colleghi e l'avvocato Murdock*, stavano guardando l'interrogatorio attraverso la lavagna apposita, e sapeva che come lui erano curiosi di capirci qualcosa, di quel dannato caso.
Era un interrogatorio strano: era la piccola che lo aveva voluto, e dato che era lui, ad occuparsi di quella creatura priva di altri parenti, l'aveva accontentata, sperando magari di ricavare qualcosa di prezioso per il caso.
"Allora?"
Il detective - di nome William Greyson - sospirò di sollievo: dopo due settimane, finalmente la bambina si decideva a parlare.
Lei, la piccola Kate, aveva quattro anni, era paffutella e dei graziosi boccoli castani le incorniciavano il viso pallido, che faceva risaltare i suoi occhi neri come la notte.
"Sì, Kate"
"Bene"
Così, con espressione seria e voce atona, la piccola iniziò a raccontare...

Il mio papà aveva fame. Sa, di solito la notte si alzava ed era capace di rimpinzarsi con qualsiasi cosa. Credo soffrisse di sonnambulismo, ma non ne sono sicura perché quella notte era perfettamente sveglio.
Andò in cucina, intendendo mangiare tutto il bignè al cacao e, magari, anche la mezza pizza della sera prima.
Per qualche istante ponderò su cosa potessero essere i rumori in camera mia, ma ipotizzò che fosse quel monello del gatto, che gioca sempre con i miei LEGO, quindi tornò a pensare al bignè e alla pizza.
Sul frigo v'era un disegno: un clown con gli occhi tutti neri, i capelli arancioni e una specie di decorazione al collo, come quella dei nobili ottocenteschi, bianca.

[UNA SETTIMANA E MEZZA PRIMA]
"Ascolta, Will, qui è un vero macello"
Già, il commissario aveva ragione: il cadavere era riverso a terra, in una pozza di sangue. Quel liquido scarlatto era ovunque, nella piccola cucina: sulle pareti, dentro al frigo che però era chiuso e sporco anche fuori, e la medesima cosa valeva per il forno, i barattoli di cibo, le credenze, le merendine confezionate...
Uno della Omicidi aprì una scatola di tonno e trovò il pesce immerso nel sangue.
E quel sangue era della vittima ma - ed era un grosso, imponente MA - non vi era nemmeno l'ombra d'una ferita sul cadavere.
"La bimba dov'è, Commissario?"
"È fuori con uno psicologo. Non sa niente, non ha visto niente e dormiva beatamente. Che vuoi farci, ha solo quattro anni"

[IERI]
Il mio papà prese il disegno e ponderò a fondo su di esso. Pensò che era strano che io disegnassi così bene e che colorassi senza sbordare.
Poi tolse il disegno dal frigo per guardarlo meglio e si disse che quegli occhi erano disturbanti - non inquietanti o brutto, nemmeno spaventosi, solo disturbanti.
"Sono troppo vivi" disse. E si disse anche che io non avrei mai disegnato un clown: uno di loro era ricorrente nei miei incubi.

[OGGI - ore 23.50]
Will si stiracchia.
Badare alla piccola Kate non è affatto facile, ma lo rende felice e lo fa sentire bene.
Tende l'orecchio verso la culla e sorride: la piccola dorme pacificamente.

[IERI]
Papà sentì una strana sensazione, ripensando ai rumori in camera mia, anche perché il gatto dormiva sulla credenza.
Solo allora si accorse che c'era qualcosa di sbagliato.

[OGGI - ore 00.58]
Will non riesce a dormire, si sente strano.
Non sa cosa ci sia a tenerlo sveglio, non lo sa.
Guarda nella culla della bambina, ma non la trova. Nel panico, inizia a cercarla, la chiama sperando che lei gli risponda col suo gergo stranamente adulto...
'Come può una bimba di quattro anni parlare così? Come può sapere cosa è successo?' pensa il detective mentre agguanta un foglio da dietro il divano: il disegno di un clown.
Sbarra gli occhi, il detective, quando capisce che sì, il disegno ha ragione: c'è qualcosa di sbagliato.
Ma è troppo tardi.

FINE

---
* avvocato Murdock: ho voluto omaggiare un personaggio Marvel, ossia il cieco avvocato Matt Murdock, accecato da degli isotopi radioattivi e che, con i rimanenti sensi ipersviluppati è un 'radar' interiore, protegge Hell's Kitchen nei panni di Dare Devil!

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Capitolo 5
*** A STRANGE LOVE STORY ***


NOTA DELL’AUTRICE:
La precedente Creepy Tale non era ben chiara ad alcuni di voi.
Ecco una spiegazione: quando la bimba dice che suo padre sente degli strani rumori nella sua cameretta, è perché suo padre sentiva il clown (che la perseguitava negli incubi) aveva preso il suo posto.
Se volete, vi linko la storia pubblicata sulla mia pagina Facebook, così potete vedere il famoso disegno: https://www.facebook.com/889359094466601/photos/pb.889359094466601.-2207520000.1428346235./936337856435391/?type=3&theater
 Un bacione,
Shetani
 
 
A STRANGE LOVE STORY
 
Io e Silvia ci conosciamo da quando eravamo bambini.
Sapete come sono alcune amicizie infantili: basate sull’utile. Infatti, le nostre mamme si conoscevano e alle volte ci facevano giocare assieme, ma poi, se ci trovavamo da soli, non ci salutavamo nemmeno.
Che volete farci, prima di essere veramente amici avevamo solo quattro anni…
Un giorno mia madre, piangendo, mi disse che Silvia e la sua mamma avevano avuto un terribile incidente e, per un po’, non la rividi. Mamma ripeteva in continuazione che ero il solo bambino con il quale Silvia aveva mai giocato, perché gli altri avevano paura di lei, dicevano che era strana, eppure a me non era mai sembrata tale.
I bambini sanno essere crudeli.
Iniziai ad esserle amico durante un funerale.
Non ricordo bene di chi fosse – probabilmente della mamma di Silvia, perché lei piangeva e abbracciava la bara – e non ero molto interessato.
Andai da Silvia e ci mettemmo a giocare in un luogo abbastanza lontano dalla cerimonia funebre. Ricordo ancora quanto ci divertimmo a rincorrere le bianche farfalle tra le lapidi vecchie dei bambini morti di peste o durante le guerre. Lo so, suona macabro, ma ero piccolo, e pensavo solo a divertirmi.
Passarono svariati anni e in quel lasso di tempo, specialmente durante i week-end, invitavo Silvia a giocare da me, e spesso a dormire. Ricordo che, durante la notte, la stringevo a me perché la sentivo tremare, ed era sempre fredda, ma quando l’abbracciavo stava meglio.
“Silvia” le dicevo, qualche volta, “perché non vengo mai a casa tua?”
“Perché la mia mamma non vuole. Pensa che la nostra casa non possa piacerti e che mi troveresti strana” mi diceva. Allora rimanevo perplesso, sapendo che sua madre era morta, allora la logica mi suggeriva che si riferisse alla donna che suo padre aveva sposato un mese dopo il funerale grazie al quale ci eravamo conosciuti.
Quando compii dieci anni, Silvia non volle venire al mio compleanno perché i miei amici la maltrattavano.
Ora vi spiego: la ignoravano, le passavano accanto fregandosene se la colpivano e cose così.
Allora invitai solo lei: era la mia più grande amica, era come una sorella e sapevo che si relazionava solo con me, forse perché ero l’unico a non spingerla, stando attento che non sforzasse troppo la sua gamba destra che, quando camminava, scricchiolava e, alle volte, assumeva delle angolazioni preoccupanti – colpa dell’incidente.
“La mia mamma ti ringrazia” mi disse quel giorno. “Guardala, ti sta salutando!”
Guardai fuori dalla finestra e lei era lì, sorridente, coi capelli castani un po’ arruffati e gli occhi verdi fissi su di me. Ricordo anche che trovai il suo sorriso e il suo sguardo estremamente tristi. E il suo viso particolarmente famigliare.
Negli anni seguenti, iniziarono a starmi antipatici quasi tutti i miei amici, così stavo in compagnia di Silvia. Mia madre era preoccupata da anni, ormai, non voleva che le parlassi di Silvia. “Non va bene avere solo lei come amica” mi diceva, “devi stare con altra gente”
La ignoravo, e tornavo dalla mia amica.
Alle volte succedeva qualcosa di strano, però: mia madre mi faceva parlare per svariati pomeriggi con una sua cara amica, che mi diceva che mi stavo comportano male, che dovevo lasciar perdere la mia amica. Ma non capivo perché essere amico di Silvia e aver abbandonato dei ragazzacci stupidi fosse considerato un peccato.
Dopo quei pomeriggi, Silvia mi raggiungeva nella mia cameretta, entrando in casa senza nemmeno chiedere perché aveva il mio permesso e le bastava – e io partivo già a sorridere sentendo i suoi passi lenti e strascicati a causa della gamba destra su per le scale –, e mi abbracciava.
Una volta stava piangendo. “Quella donna e tua madre non vogliono che siamo amici perché dicono che è troppo strano. Secondo te sono strana?” mi chiese. Io la abbracciai forte forte, e le risposi che no, non era strana, non era affatto strana, le dissi che era bella come una principessa.
E lo era davvero, per me – e lo è ancora.
A quindici anni mia madre mi prese da parte, senza accorgersi che Silvia stava origliando, mi disse, per l’ennesima volta, che Silvia non poteva più essere mia amica. E lei, la mia più cara amica, iniziò a piangere, ferita da quelle taglienti parole.
Pioveva. Pioveva come se il cielo piangesse per lei.
La rincorsi in giardino e la trovai a terra, con la gamba destra maledettamente piegata in tre, come se fosse disossata.
La feci alzare da terra, stringendo tra le dita il suo abito da principessa, lo stesso abito che portava sempre da quando diventammo amici, a quel funerale, eppure sempre fresco e profumato, che pareva crescere con lei, un abito così bello che, oh, la faceva davvero sembrare una principessa: bianco, semplice, lungo fino alle ginocchia, con qualche piccolo glitter argentato qua e là, una rosa bianca in petto, con quelle calze lunghe e bianche a coprirle le gambe e quelle nere ballerine piedi…
Sorreggendola per l’esile vita, la guardai in viso. Le tiepide gocce di pioggia si perdevano nei suoi boccoli castani, scivolavano sulla sua pallida pelle e si mescolavano alle sue lacrime. Anche ora, nel pieno sconforto, era così bella. Era sempre così bella, con quei suoi atteggiamenti un po’ infantili e puri.
“Non ascoltarla”
“Sono strana”
“No”, controbattei, “sei la mia principessa”
E baciai quelle sue morbide labbra per la prima e non ultima volta, sentendo una scarica elettrica scorrermi nelle vene, intenerendomi al suo pudore e alla sua dolcezza, la sua reazione a quel semplice bacio a stampo che, lo giuro, fu l’esperienza migliore della mia vita.
Lei nascose il viso nell’incavo del mio collo e io le carezzai la schiena esile, dicendole che era la principessa più bella del mondo.
La presi in braccio come m’ero abituato a fare negli ultimi tempi, dato che la sua gamba destra dava sempre più problemi – problemi, comunque, meno fastidiosi dei pettegolezzi della gente – e la portai in camera mia, la avvolsi in una coperta e così, fradici ma felici, ci appoggiammo al termosifone, seduti a terra, un po’ imbarazzati, estremamente confusi a causa delle endorfine rilasciate dai nostri cervelli e ancora presenti nei nostri organismi.
Avvolti in quella nuvola di torpore, ci addormentammo, tenendoci per mano.
Mi svegliai qualche ora dopo, il sole illuminava con gli ultimi morenti raggi il cielo sempre più scuro. Silvia non era più lì, anche se, per un attimo, m’era sembrato di sentire il dolce peso della sua testa sul mio petto.
Non ci feci molto caso, pensai che fosse solo una sensazione dovuto al lieve torpore del sonno.
Quando andai in cucina sentii mia madre parlare con qualcuno, forse la tizia con cui mi faceva parlare, dato che erano sempre in contatto.
“…funerale. No, no, era solo un bambino, non può ricordarsene, insomma, quando vide il cadavere di Silvia, con quella sua gamba contorta e spezzata, dopo l’incidente, e quello di sua madre, quando la fissava negli occhi verdi… aveva solo quattro anni. Eppure… sì, prima delirava… diceva di averla baciata. Penso che sia ora di curarlo veramente…”
S’interruppe appena mi vide e con un breve saluto terminò la comunicazione.
Mi stavo annoiando da morire, quando vibrò il cellulare: una notifica di Clash of Clans – elettronico appiglio nell’oceano della monotonia e dell’apatia nel quale affogavo, senza Silvia.
Quando ero senza di lei, secondo l’amica di mamma, ero in ‘fase depressiva’, non sapevo cosa volesse dire, però so che spesso mi chiudevo in camera mia, senza aver voglia di mangiare o far altro. Quando però lei era con me, i miei pensieri si accavallavano l’uno con l’altro, spesso combinavo qualche ‘epic fail’, perché l’amavo da così tanto tempo, e volevo sempre fare un figurone, apparendo invece un po’ più che goffo, mi sentivo potente, il re del mondo, mi credevo invincibile.
Eh, gli effetti dell’infatuazione…
Però da quel giorno son passati due anni e… e dopo un po’ non la vidi più.
Quel giorno accettai di sottopormi alla cura farmacologica di cui l’amica di mamma e mia madre dicevano che necessitassi.
E Silvia cominciò a venirmi a trovare sempre meno, alle volte mi pareva di vederla accanto a me, di sentire i gradini scricchiolare sotto il suo lieve peso e il lieve e sinistro scricchiolare della sua gamba, ma quando provavo a guardarla o toccarla… svaniva. Ero disperato, mi sembrava – e mi sembra – che i medicinali strappassero una buona parte di me, che martoriassero il mio cuore e la mia anima. Poi, col tempo, non la vidi più.
Stavo guarendo la mia mente, ma a quale prezzo?
Se ne è andata, come fece Ted, il mio coniglio parlante.
Se ne è andata, però alle volte sento la sua voce, il suo profumo, mi sembra di riaverla lì, con me, con quel suo carattere così simile al mio.
Penso che smetterò di prendere le medicine che mi dà l’amica di mia madre, così forse la mia amata tornerà. E forse anche Ted, ma di lui poco m’importa.
Dio, quanto la amo.
Voglio che a farmi sentire bene e invincibile sia lei, non Billy, il mio nuovo amico ippogrifo.
No, non hai letto male, è tutto vero.
È la strana storia d’amore di uno schizofrenico.
Una strana storia d’amore.
Quanto mi manca, la mia bellissima principessa…

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Capitolo 6
*** Nessuno è morto ***


Salve. Sì, son tornata.
Per chiunque segua questa mia raccolta, e tutte le mie altre storie, chiedo scusa: è quasi un anno che non sfioro EFP, tra la scuola e gli impegni ho trovato più facile aggiornare solamente la mia pagina FB dove posto tutti i miei racconti – chiunque sia interessato ad essa, lo dica nelle recensioni, così gliela linkerò.
E niente, ho già scritto il seguito di questa storia, quindi non dovrete attendere per molto il prossimo aggiornamento.
Un bacione,
Shetani.
 
NESSUNO È MORTO:
 
È morto.
Qualcuno è morto.
Ma chi era quel qualcuno? Nessuno.
Nessuno è morto.
Trovarono il cadavere dopo tre settimane, nella sua lussuosa casetta. Un ratto gli girava attorno, senza nemmeno darci un assaggio. Faceva schifo anche a lui.
Aveva chissà quanto denaro, oggetti rari e preziosi. Vestiva in smoking, quando lo trovarono. Ma era povero: nemmeno al ratto importava di lui.
Adesso sono qui. In obitorio.
Devo capire perché è morto.
Nessuno è morto e a nessuno importa. Che senso ha capire perché è qui? A nessuno importa. Nessuno ha fatto domande.
Ha le occhiaie. È magrolino, ma non troppo sotto peso.
Che palle. Chissà se Maria ha comprato la pizza... magari potrebbe venire qui e io potrei fare una pausa.
Sbadiglio. Non sono nemmeno le otto di sera e già ho sonno. Uff.
'Sto tizio ha dei capelli corti e biondi. Ben curati e penso fossero puliti, all'ora del decesso. Con le dita, coperte dai guanti in lattice, tasto tutto il cranio, in cerca di qualche punto molle, qualche ematoma, livido o ferita.
Niente. Non trovo nulla.
Quasi quasi chiedo a Maria di venire qua con una pizza. Magari le faccio portare anche qualche birra per me e il Mike, quello che ha a cura questo caso.
Sì.
Una birra ci sta.
Apro le palpebre. Ha gli occhi verdi, resi opachi dalla Morte. Dovevano essere bellissimi.
Chissà se Maria è stata con un tipo del genere. Con un così bel ragazzo. Spero non se ne trovi uno: non sono il marito perfetto ma la amo.
Hm.
Con che prendo la pizza?
Sbruffo, prendo il cellulare e scrivo a Maria.
"Ceniamo qui? Se sì: per me pizza con patatine. E tre lattine di birra. - Dav"
Mi stiracchio, poi esamino le braccia del cadavere. Nessun segno di siringhe o altro. Il mio collega non ha trovato nessuna traccia di droga et similia.
Tasto il torace e il costato: nessun ematoma o osso rotto, qui. E nemmeno nelle gambe o nei piedi.
Ha una pelle bellissima. Rosea e fresca. Peccato sia insozzata dalla polvere e dal piscio del ratto.
La sua casa era in vendita. Chissà se a Maria piacerebbe. Bah, troppo sfarzosa.
Controllo il cellulare: "Sono lì tra venti minuti. - Maria"
Perfetto. Ho una fame assurda.
Aggrotto le sopracciglia: Maria non è andata nella pizzeria sotto casa, vero? Lì le patatine fritte sono mollicce, insapori.
Il sangue è colloso e denso, esce piano dal taglio che faccio sul petto. Che schifo, puzza come non so cosa ed è di un rosso scurissimo. Per carità, se fai autopsie è normale sentire certi odori nauseabondi, ma questo... questo li batte tutti.
Uff. Ci metterò secoli a pulire l'attrezzatura.
Col seghetto asporto lo sterno e la parte anteriore delle costole. Strano: i bordi tagliati hanno come delle schegge.
Osservo il cadavere per svariati minuti.
"Tesoro..."
Mi volto: Marie è qui. Mi sorride, ma la scaccio via: "Aspettami. Finisco qui e arrivo."
"Avevi detto che..."
"Ho quasi finito."
Gli organi sono strani, a vederli.
E... chi cazzo è questo tipo? La sua pelle è dannatamente rosea, sembra vivo eppure non ha polso, nessuno lo cerca, nessuno se ne frega...
A nessuno importa? No, non più. Adesso a me importa.
È troppo strano.
Non ha un nome, non ha una storia, non ha niente. Nessuno: ecco chi è.
Estraggo il cuore ed è pesante. Pesante e non uniforme.
Lo apro, col bisturi, tutto quel sangue appiccicoso non mi fa vedere niente ma sono troppo agitato per farci qualcosa.
È tutto così sbagliato!
Nel cuore trovo dei... dei sassolini? No, sono biglie.
Frettolosamente le lavo: sono di svariati colori e su ognuna di esse vi è scritta un'emozione.
"Dav... tutto bene?"
"Sì, cara!" dico, mentre quasi ribalto il carrellino degli attrezzi. Non ci sto credendo. La puzza del sangue deve essere andato alla testa.
Sempre se quello è sangue.
"Sicuro? A me non sembra."
Ignoro Maria, mentre pulisco alla meglio le costole: sono di legno.
Gli organi interni sono semplicemente pezzi di plastica, il sangue sembra colla...
I suoi occhi. Li apro e li estraggo. Sono di vetro. Uno è scheggiato.
Il topo non lo aveva nemmeno assaggiato. E i cani lo avevano ignorato.
Non penso saprò mai l'artefice di questo macabro scherzo, di questa bambola perfetta. Non lo saprò mai e nemmeno mi interessa.
Non importa a nessuno.
Nessuno ha fatto domande.
"Dav, chi è morto?"
"Nessuno. Nessuno è morto."

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