Occhi blu in calcio d'angolo

di Mavimat
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Domani farò goal ***
Capitolo 2: *** Correre ***
Capitolo 3: *** Quasi pioggia ***



Capitolo 1
*** Domani farò goal ***


"Mattia! Passale la palla!"
"No!"
"Ti ho detto di passarle la palla!"
"No! Lei è una femmina!"
"Anch'io lo sono!"
"Ma tu sei brava a giocare!"
"E chi ti dice che non lo sia anche lei?"
"È piccola!"
"E allora?"
"Non può essere brava a giocare così piccola!"
"Ma dovrà pure cominciare, no? Avanti, passale la palla!"
Tra uno sbuffo e l'altro, Mattia, piccolo grande uomo di dieci anni, passò la palla alla piccola bimba che si era presentata al limite del campo e che aveva chiesto a quei bambini più grandi di lei, di giocare a calcio. Tra di loro c'era una ragazza, forse di quindici o sedici anni, che l'aveva difesa quando Mattia le aveva urlato un deciso "No" per la sua richiesta.
"Come ti chiami?", chiese quella ragazza.
"Celeste"
"Bene. Io mi chiamo Ginevra e loro sono Mattia, Jacopo, Christian, Valentino e Renzo!"
"Ciao", fecero in coro gli altri, tranne Mattia che aveva un muso lungo un metro.
"Ciao", rispose Celeste.
"Quanti anni hai?", le chiese Ginevra.
"Quasi otto"
"Sei decisamente la più piccola! Stai in squadra con me che invece sono la più vecchia!", le disse Ginevra, ammiccandole e facendole un sorriso. "Che ragazza carina", pensava Celeste che la ricambiò con un sorriso.
"Forza ragazzi! Mettiamoci a giocare!", ed avvicinandosi ai ragazzi, cercando di non farsi sentire dalla nuova arrivata, aggiunse "e cercate di non tirare troppo forte quando la passate a Celeste! È pur sempre piccola!".
Iniziarono a giocare e Celeste si dimostrò velocissima. I suoi tiri non erano del tutto precisi e potenti però un paio di goal era riuscita a farli.
"È per questo che non volevi farla giocare Mattia? Perchè sapevi che ti avrebbe fatto goal?", scherzò Ginevra con Mattia, che faceva il portiere, ma lui non le rispose.
Erano quasi le otto di sera quando decisero di andare a casa.
"Dove abiti Celeste?"
"Qui vicino"
"Viene a prenderti qualcuno?"
"No, vado a casa da sola"
"È meglio se ti accompagno io"
"Sono venuta qui da sola, posso tornare da sola"
"Anche se è Luglio e c'è ancora il sole, sei pur sempre una bambina, meglio se ti accompagno! E poi mi piace fare due passi"
"Va bene", rispose Celeste e lasciò che Ginevra l'accompagnasse a casa.
Nel tragitto, a parlare fu soprattutto Ginevra. Celeste, imbarazzata perché non era abituata a persone che le parlassero così tanto, si limitava a rispondere brevemente alle sue domande, la maggior parte delle volte con un sì o con un no.
"Non sei una che parla tanto. Di solito alla tua età i bambini continuank a parlare". Celeste la guardò, mentre Ginevra le rivolgeva un sorriso dopo la sua constatazione. Abbassò lo sguardo a terra, non sapevo cosa rispondere.
"Non mi piace parlare tanto. Per questo i miei compagni non parlano mai con me"
"Che compagni antipatici devi avere!"
"Sì, davvero", ed entrambe si misero a ridere.
"Quella è casa mia", disse Celeste, indicando una casa gialla con un grande giardino poco più avanti di dove si trovavano loro.
"Passo molte volte da questa strada e mi sono sempre chiesta chi abitasse in quella casa bellissima"
Arrivate davanti al cancello, si salutarono.
"Ciao", disse Celeste.
"Ciao, a domani!"
"A domani?"
"Sì! Adesso sei una giocatrice anche tu! Ci vediamo domani al campo!", e voltandosi, tornò sulla strada che avevano appena percorso.
"A domani', disse fra sè Celeste, mentre gyardava Ginevra andar via.
A cena, Celeste, sua madre e suo padre, mangiarono immersi in un assoluto silenzio. Come sempre. Fu Celeste a rompere quell'atmosfera muta.
"Sono stata a giocare a calcio al campo, oggi"
Margaret e Sergio, i suoi genitori si fermarono con le forchette a mezz'aria e la guardarono. Lei proseguì.
"Ci andrò anche domani"
I suoi non si mossero. E lei continuò.
"Posso, vero?"
I due si ripresero come da un sonno profondo.
"Ma certo cara!", rispose Margaret.
"Che bella cosa! E con chi hai giocato?", disse Sergio.
"Con dei bambini. Hanno qualche anno più di me"
"Li conosciamo?"
"No, li ho visti per la prima volta oggi"
"Sono bravi bambini?"
"Dai Margaret, che domande! Certo che lo sono!"
"C'è anche una ragazza. Lei è più grande. Mi ha anche accompagnato a casa"
"Ma se c'è anche una persona grande non c'è da preoccuparsi! Vai pure a giocare quando vuoi Celeste!", disse suo padre.
"Grazie. Posso andare in camera mia ora?"
"Sì, tesoro. Vai pure", le disse la madre. Celeste si alzò dal tavolo e sparì in camera sua.
La stanza tornò avvolta nel silenzio. Margaret e Sergio avevano gli occhi fissi sul piatto immacolato che aveva lasciato Celeste.
"Ha anche finito la cena"
"Già"
"È la prima volta che finisce tutto quello che ha nel piatto"
"Davvero"
"Secondo te dobbiamo preoccuparci, Sergio?"
"O forse sta arrivando il momento di smettere di farlo"
I due si guardarono negli occhi e sui loro visi spuntarono dei timidi sorrisi di felicità.
Celeste, quella sera, sognò di correre su immensi prati verdi, con ai piedi un pallone da calcio e se si voltava poteva vedere Ginevra e gli altri bambini che la rincorrevano, mentre davanti a lei c'era una grande porta da raggiungere per fare goal.
"Domani farò goal", pensò e nel farlo si addormentò.

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Capitolo 2
*** Correre ***


Arrivata a casa, Ginevra entrò in cucina dove sua madre le stava preparando la cena. Le diede un bacio e prese una delle carote che Angela, sua madre, stava tagliando per metterle nell’insalata.
“Ciao mamma”
“Ciao tesoro, dove sei stata fino adesso?”
“A casa di Camilla, a leggere”
“E perché sei così sudata?”
“Perchè quando abbiamo finito di leggere ci siamo messe a giocare un po’ ”
“Ah, ho capito”
“Vado a farmi una doccia”
“Sbrigati che tra cinque minuti mangiamo”
“Va bene”, e Ginevra corse su per le scale.
“Ma dove stai andando? Lo sai che la doccia su non funziona!”
“Devo prendere una cosa in camera!”
Così Ginevra andò in camera e tirò fuori dalla sua borsa le scarpe da calcio, nascondendole con cura in una scatola sotto il suo letto. Se sua madre avesse scoperto che andava a giocare a calcio tutti i giorni, sicuramente non l’avrebbe più fatta uscire di casa. “È un gioco da maschi! E poi rischi di farti male!”, le aveva detto l’ultima volta che le aveva chiesto se poteva giocarci. “Non è vero che è sono per i maschi! Ci sono anche le squadre femminili!”, le aveva risposto, ma lei non voleva sentire ragioni e le vietava di giocare, soprattutto dopo quello che era successo cinque anni prima.
Nascoste per bene le scarpe, volò in doccia e dopo cinque minuti era già seduta a tavola a cenare.
“Ginevra ti devo parlare”
“Dimmi mamma”
“Sai che non è un periodo molto bello questo, non navighiamo nell’oro”
“Sì, lo so”
“Per fortuna riusciamo a tirare avanti con le tue borse di studio per la scuola, ma con il resto, sai che facciamo fatica, con uno stipendio solo”
“Sì”
“Quindi ho pensato che potrebbe arrivare un momento in cui dovremmo sacrificare qualcosa”
“Qualcosa…cosa?”
“Questa casa”
“Scusa?”, Ginevra aveva sbarrato gli occhi”
“Dovremo venderla”
“E dove andremo a stare?”
“Pensavo in affitto, in qualche casa più piccola di questa. Ma è ancora tutto incerto, volevo solo dirtelo per tenerti aggiornata”
Ginevra non riusciva a parlare.
“Mangia adesso, stai tranquilla, in qualche modo ce la faremo”
“Sì”, e riprese a mangiare.
Dopo cena, Angela lavò i piatti e poi lei e Ginevra si misero a guardare un po’ di televisione. Poi, verso le ventitrè, Ginevra decise di andare a letto e salutò sua madre.
Quella notte, Ginevra fece fatica a dormire. Non vedeva l’ora che arrivasse il pomeriggio del giorno dopo, per tornare sull’erba, con le sue scarpe da calcio e correre dietro al pallone. Correre fino a non avere più le gambe per farlo.

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Capitolo 3
*** Quasi pioggia ***


“Era successo una domenica pomeriggio di Luglio di cinque anni fa. Mia mamma era arrivata qui sul campo, io non me n’ero nemmeno accorta. Stavo giocando una partita con degli altri bambini, mancava poco alla fine ed eravamo pari. Non mi ero accorta che fosse arrivata perché io stavo sfrecciando dritta verso la porta, con il pallone attaccato ai piedi. Arrivata all’area di rigore tirai forte, il pallone superò il portiere e entrò in porta, proprio nel centro. Feci appena in tempo a vederlo entrare perchè l’attimo dopo averlo calciato, scivolai. Caduta per terra tirai un urlo perchè mi faceva malissimo il piede. Vidi i miei compagni che si accerchiavano attorno a me per aiutarmi a rialzarmi e poi arrivò mia madre che, spostandoli, cominciò ad urlarmi contro. “Ti avevo detto di non giocare!”, mi disse. “Mamma non mi sono fatta niente!”, le risposi mentre mi spendevano i lacrimoni per il male che avevo alla caviglia. Mia madre mi prese per un braccio e mi alzò. Non le interessava se continuavo a piangere, mi strattonò fino alla macchina. Salii e lei chiuse la portiera dietro di me. Dal finestrino potevo vedere le facce degli altri bambini. Alcuni avevano disegnata sul viso un’espressione triste, mentre altri si erano messi a ridere. Rientrata in macchina, mia mamma si avviò, in silenzio sulla strada. Non era la strada di casa, ma non avevo il coraggio di chiedere dove stessimo andando. Lo scoprii poco dopo, dopo che lei si fermò nel parcheggio del pronto soccorso. Parlando con gli infermieri sembrava un’altra: la donna silenziosa della macchina, si trasformò in una persona loquace e carina, che spiegava agli infermieri quello che mi era successo. La mia caduta non aveva fatto altro che slogarmi la caviglia, così mi lasciarono andare poco dopo che delle pomate da mettere ed una fascia. Mia madre non fiatò più fino a quando arrivammo a casa e con un sorriso mi disse : “Vai pure a farti il bagno. Mettiti il piagiama e poi vai a letto”. Quel suo sorriso mi rincuorò. Mentre l’acqua si mischiava con il sapone e mi avvolgeva in quella nuvola di calore, pensai a quel goal che ero riuscita a fare. La pancia mi brontolava perchè in tutto quel trambusto non avevo mangiato, così prima di andare a letto avrei chiesto alla mamma di farmi del tè. Arrivata in soggiorno, vidi la mamma seduta sul divano. Stava leggendo. Poco distante da lei, vicino alla porta, vidi un buco nella fila di scarpe che si trovavano lungo il muro. Era il posto dove di solito mettevo le mie scarpe da calcio, l’unico paio che avevo. Me le aveva date mio zio perchè lui non giocava da anni. Erano un po’ vecchie, ma per me erano bellissime. Blu, con i lacci ed i tacchetti bianchi e la scritta “Diadora” in un giallo fosforescente. Mentre tutte le mie amichette sognavano di fare le principesse con le scarpette con il tacco, io mi sentivo una regina quando calzavo quelle prima di entrare in campo. “Mamma dove sono le mie scarpe da calcio?”, chiesi. “Le ho buttate”. Come un bicchiere che cade e si distrugge in mille pezzi, così mi ero sentita io a quelle parole. “E anche quando la tua caviglia starà meglio, tu non giocherai più a calcio”. Cosa stava succedendo? Cosa? Non avevo più il coraggio di dire una parola. Volevo solo piangere. “Mi dovevi dire qualcosa, Ginevra?”. Abbassai lo sguardo, e risposi con un ” Sì. Buonanotte mamma”, e volai in camera mia. Non andai più a giocare. Non solo perchè avevo paura che mia mamma mi scoprisse, ma anche perchè non mi sentivo completa senza le mie scarpe. Cominciai a diventare silenziosa a scuola e i miei amici non mi chiedevano più di giocare con loro dopo tutti i miei rifiuti delle loro richieste di andare sul campo. Ero andata un paio di volte a guardarli giocare, ma me ne andavo quasi subito perchè mi veniva da piangere. Ero sempre stata dall’altra parte della rete, dove c’era la terra, l’erba, non sul cemento di fuori, dove c’erano le panchine per gli spettatori che venivano a vedere i propri figli, nipoti, amici. Arrivata la prima superiore, ho cambiato compagni di classe, perchè abbiamo tutti preso strade diverse. Tra le mie compagne di classe, legai in particolare con una, Camilla. Parlavamo un sacco e così le raccontai della mia passione per il calcio e quello che era successo con mia madre. Il Natale di quello stesso anno, mi regalò un paio di scarpe da calcio di suo fratello maggiore, che non usava più perchè ormai gli andavano strette. Penso che quello fosse il regalo più bello che qualcuno mi avesse mai fatto. “Quando parli di calcio, ti si illuminano gli occhi. Ricomincia a giocare, ma cerca di non farti scoprire dalla mamma!”, e così, l’estate dopo, cioè l’estate scorsa ho ripreso a giocare. Avevo comprato un pallone che nascondevo negli spogliatoi del campo, dove la porta era sempre aperta. Mi allenavo e giocavo da sola e poi sono arrivati Mattia, Jacopo, Renzo e Christian, ai queli ho fatto promettere di non dire mai e poi mai che gioco qui. Camilla ogni tanto mi tiene il gioco. Se mia mamma scoprisse che gioco ancora, penso si arrabbierebbe un sacco. Ecco, questo il momento più bello e più brutto che ho legati al pallone. Mia madre che mi butta le scarpe da calcio e il mio rientro in campo con le scarpe che mi ha regalato Camilla.”
Ginevra stava seduta con le braccia attorno alle ginocchia sul muretto fuori dalla rete che circondava il campo. Guardava diritto davanti a sè. Il suo sguardo se perdeva sull’erba bagnata del campo.
Vicino a lei, Celeste, seduta in modo composto, con le mani appoggiate al muretto, la stava ascoltando. Loro due, Jacopo e Mattia erano arrivati per giocare, ma avevano trovato gli addetto alla manutenzione che stavano sistemando l’erba, le linee e per ultimo avevano acceso gli innaffiatoi. Gli altri due avevano deciso di andare a casa, ma loro si erano sedute su quel muretto, sperando che il sole avesse asciugato al più presto l’erba. Era ormai da poco più di una settimana che giocavano insieme e ogni volta, Ginevra accompagnava a casa Celeste. Se erano particolarmente stanche, stavano anche in silenzio, ma riuscivano lo stesso a farsi compagnia. Poi si salutavano e si davano appuntamento per il giorno dopo, anche se non sapevano se si sarebbero viste davvero. Sedute su quel muretto, in silenzio, mentre aspettavano che l’erba si asciugasse, Celeste guardava con la coda dell’occhio Ginevra, che aveva lo sguardo fisso sul campo e le venne in mente una domanda. Si girò verso di lei e le domandò : “Raccontami il ricordo più bello e quello più brutto che hai legati al pallone”.
Ginevra si voltò verso di lei e Celeste si rese conto per la prima volta della profondità dei suoi occhi blu. Ginevra cominciò così a raccontare di quel pomeriggio di Luglio di cinque anni prima.
“E tu?”, disse Ginevra.
“Io?”
“Qual è il tuo ricordo più brutto e il tuo ricordo più bello legati al pallone?”
Celeste guardò, in alto, verso il cielo.
Era quasi sera e un sole, che fino a poco prima era stato accecante, sembrava assopirsi dietro le nuvole che adesso riempivano l’immenso azzurro.
Era quasi sera e stava per mettersi a piovere.

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