Furia Nera

di PawsOfFire
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** -- Capitolo 20 -- ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 29 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 30 ***
Capitolo 31: *** Capitolo 31 ***
Capitolo 32: *** Capitolo 32 ***
Capitolo 33: *** Capitolo 33 ***
Capitolo 34: *** Capitolo 34 ***
Capitolo 35: *** Capitolo 35 ***
Capitolo 36: *** Capitolo 36 ***
Capitolo 37: *** 37 - Tempi duri, difficili, non di certo migliori ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Neve.
Soffice, fottuta, neve.
Circondati dal candido e gelido nemico.
Da soli.
Immersi in un fottuto bosco di...pini russi.
Noi, cinque coraggiosi soldati dispersi nel nulla...più un Panzer VI Tiger lucido di fabbrica, soprannominato “Furia Nera” per il suo aspetto minaccioso e mimetica scura come il carbone, così malamente ridipinta per il clima invernale.
È gennaio, siamo in Russia, il 1943 è appena arrivato e la guerra non è ancora finita.
Oltretutto, a quanto pare, ci siamo persi.
Il mio equipaggio si sta lamentando.
C’è Tom Weisz, che ha sfidato le intemperie ed adesso riposa sotto un pino, incurante della neve che si sta depositando sul suo cappello.
Klaus Achen è nuovamente disperato. Mi sta accusando di essere un pessimo individuo, nonché capocarro.
 Adesso vuole sporgere un reclamo ufficiale: lui ha moglie e figli e non vuole morire.
Ingrato. Dovrebbe ringraziarmi per averlo salvato dall’idea di disertare, pensiero che più volte sembra accarezzarlo deliziosamente
Poi c’è Maik Gerste.
Grand’uomo, lui. Dal tettuccio sta spiando la landa deserta, puntando la mitraglietta verso un cumulo di arbusti. È seriamente convinto che quello sia il nord, i russi secondo lui arrivano sempre da nord.
Martin Jager sta scappando. Lo vedo imprecare contro di me, avviandosi nella neve a grandi balzi. Tra poco sarà di nuovo qua, perché è sempre stato così. Si inginocchierà piangendo chiedendo di non informare i nostri superiori della sua tentata fuga.
Infine, ci sono io, Bastian Faust.
Sono il perfetto stereotipo del capitano democratico ed ideale, che ascolta tutti i suoi sottoposti e prende sempre le decisioni migliori.
Per questo, quando è comparsa una pattuglia russa colma di missili anticarro, ho deciso alla mia totale unanimità di battere in ritirata, ordinando una saggia ritirata nella folta boscaglia, circondati dal nulla.
Lo dice sempre, mio fratello: “gli alberi sono i migliori amici dei soldati”.
Discorso semplice per un paracadutista come lui. Non è così semplice per noi camuffare tonnellate di acciaio nero sfrigolante.
La neve vaporizza a contatto con il motore caldo, così abbiamo optato per ricoprirlo con qualche foglia minuscola e molliccia.
Nel frattempo, Martin ha minacciato nuovamente di diseredare e Klaus ha iniziato a piangere, dicendo che non avrebbe voluto morire congelato, abbracciando la causa dell’incauto amico. Per fortuna Maik ha messo tutti a tacere, poiché era davvero convinto di aver visto un russo all’orizzonte.
Tom dormiva.
“Adesso” dissi, srotolando la mappa.
“Dobbiamo tornare al campo base”
“Ha ragione” Rispose Klaus, tremolante.
“Prima che ci diano per dispersi. Non vorrei mai che riportassero alla mia famiglia notizie false” Per fortuna i cari riescono sempre a farlo rinsavire, così abbandona il pensiero di fuga per tornare a prendere il posto sul carro.
 

 
“Herr Faust, ci sono dei russi laggiù” Questa volta è Maik a parlare. Con le sue dita tozze indica un cespuglio. È immobile e non assomiglia per nulla ad un soldato. Decido di ignorarlo.
Sveglio Tom con un calcetto nel fianco e quello si limita a grugnire, rialzandosi. È il più giovane del gruppo, credo abbia circa ventidue anni. Ha preso questa guerra come se fosse un gioco quindi, quando non è in servizio, dorme, fuma, o cerca rapporti occasionali con prostitute o commilitoni.
Teoricamente sarebbe punibile con qualche sentenza che a me sfugge, ma nessuno si preoccupa di ciò che facciamo finché combattiamo, quindi va tutto bene.
Ma questo non è il momento adatto per pensare a queste futilità. Dobbiamo rimetterci in marcia.
Dentro al carro si sta decisamente stretti, il rumore è assordante e Maik è paranoico e claustrofobico, così decide di prendere posto alla torretta esterna, abbandonando definitivamente il posto da marconista che gli spetta. Io, dalla mia postazione, lo affianco osservando con poco interesse una mappa.
Nonostante il rumore riesco chiaramente a sentire via radio la voce distorta di Tom che grugnisce svogliato. Lui è il pilota e crede di essere il migliore. Personalmente lo trovo tuttalpiù mediocre, ma lui si sente sprecato a stare con noi.
Klaus e Martin si occupano invece di caricare e sparare. Hanno una buona intesa, loro due.
Soprattutto quando si parla di diserzione.
È il loro argomento principale, nonché prediletto. Tanto li conosco, non lo faranno mai.
Non ne sarebbero capaci.
Klaus ha una famiglia a cui badare mentre Martin si è preso una cotta mostruosa per una bella infermiera e non sarebbe mai capace di abbandonarla. 
Non so se lei ricambi il sentimento. In ogni caso non sono discorsi che mi riguardano.
 

 
Il tragitto è deserto.
Mi rendo conto, stupidamente, che non ci siamo allontanati molto dalla base.
Nonostante questo, mi aspettavo che l’intera compagnia accorresse a me con ovazioni ed applausi, intonando canti al loro Capitano preferito al grido de “La Furia è tornata!”
Da piccolo il mio mito fu il Barone Rosso. Adesso sono un uomo e voglio davvero entrare alla storia come il migliore Carrista del Reich. Da qualche parte mi dissero che combatteva un certo Wittman, un tizio poco più vecchio di me, di ineguagliabile bravura, tanto da meritarsi un appellativo onorifico pari a quello di quella povera anima di Richthofen.
...Nel frattempo, mentre attendevo di entrare nella storia, avevo già provveduto a darmi un titolo da solo, di impeccabile eleganza, in modo tale che nessun altro avrebbe potuto appropinquarmi un nome che non avrei gradito.
 

 
“Oggi molti uomini valorosi sono morti, mentre il capitano Faust ed il suo equipaggio sono tornati praticamente illesi”
Il generale è furibondo.
Come sempre.
Forse la strada per la gloria è ancora lontana ma, nonostante tutto, credo di essere davvero un buon Capitano, nonché capocarro.
Certo...i miei uomini sono un po’ strani, si lamentano in continuazione e cercano in tutti i modi di farsi inserire in qualche squadra diversa ma, nonostante tutto, credo nutrano una forte stima di me.
Inoltre...siamo assieme già da un po’ di tempo. Mi devono la vita, li ho salvati dall’esplosione accidentale del vecchio Panzer II Luchs di cui ero pilota.
Fonti autorevoli dicono sia saltato in aria per colpa di una mina anticarro russa.
Invece fu colpa del motore.
In quanto eroe, merito almeno un po’ di riconoscenza da parte loro, anziché questa malsana ingratitudine.
Forse è questo il duro e triste destino di un capitano.
 
 
 
 
 
 
 
Spazio Autrice
 
 Buondì!
Grazie per aver letto questo capitolo!
I personaggi sono inventati ma, per esigenze di trama, verranno citate persone realmente esistite, essendo che il contesto si rifà ad un evento storico. Nonostante sia una storia comica (quindi con assurdità ed esagerazioni) cercherò di attenermi il più fedelmente possibile agli eventi della seconda guerra mondiale.
Nonostante mi stia documentando come una pazza per scrivere questa storia, qualche incongruenza potrebbe essermi sfuggita, ahimè. Per questo metterò le mani più e più volte sui capitoli. Se noterete qualche incongruenza di questo genere, fatemelo sapere, provvederò a sistemare!
 
Che dire ancora? ti ringrazio per aver dato una chance a questa storia. Spero che possa averti strappato almeno un sorriso. Alla prossima! ~ Paws
 

 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


“Herr Faust, siamo finiti in un fosso!”
“Moriremo tutti”
“Me ne vado”
“Zitti. C’è un russo all’orizzonte”
 
 
 
 
La guerra avrebbe dovuto essere già vinta da alcuni mesi, ed invece ci ritroviamo impantanati un torrente e non sappiamo come uscirne.
La missione doveva essere abbastanza semplice. Avevamo perso un po’ di terreno e dovevamo riprendercelo con la forza.
In mattinata notai negli sguardi dei miei commilitoni una specie di vaga sensazione di smarrimento, miscelata ad una tragica accettazione dell’immutabilità del destino.
Io, Bastian Faust, Capitano pluridecorato, nonché capocarro impavido e coraggioso del “Furia Nera”, il carro armato più efficiente e meglio gestito del fronte orientale, affrontai la decisione del Generale con coraggio e grande forza d’animo.
Solo più tardi mi accorsi che gran parte della nostra divisione corazzata (esclusa la mia compagnia) venne mandata a ripulire una città particolarmente strategica che l’Armata Rossa si era ripresa da poco.
Mentre noi, orgogliosamente, dovevamo occuparci da soli di un enorme nucleo abitativo che si diceva fosse tenuto sotto stretta sorveglianza da un gruppo di russi particolarmente agguerriti.
 “Come si chiamano quei tizi tra loro? Tovarish? E cosa significa?”
 Klaus, come sempre, era piuttosto timorato dall’idea della morte. Non che noi non lo fossimo ma, per lui, rappresentava una costante nella sua vita, qualcosa che aveva a che fare con la sua dolce famigliola che lo stava aspettando a casa con un piatto di deliziosi salsicciotti fumanti.
 “Sembra una minaccia, capite? Tipo...macellatori di bestie, conquistatori di occidente. Distruttori di panzer-”
 “Zitto, idiota” Maik, dall’alto della sua mitraglietta esterna, masticava rumorosamente una striscia di carne secca. Essendo un gran fumatore, finiva sempre prima del tempo le sue razioni. Così, per sopperirne la mancanza, arrivava a sgranocchiare anche i rami, arrivando addirittura a pezzi di cuoio e gomma di dubbia salubrità.
 “Significa “compagno” perché sono comunisti, Klaus” continuò, sollevando i binocoli per tornare a scrutare l’orizzonte alla ricerca di un nemico che non si palesava da giorni.
 “Non importa, me ne vado!” Questa volta fu Martin a parlare. Aveva abbandonato il suo posto da serviente per uscire a prendere una boccata d’aria fresca, incespicandosi con le sue lunghe gambe verso un minuscolo torrente gelido. Assetato, aveva provato a bere un po’ d’acqua, prima di ritrovarsi la lingua congelata.
 Se dovessi descriverli fisicamente, tanto per dare l’idea di come fossero i miei sottoposti, potrei affermare con certezza che l’unico che ricordava vagamente un soldato poteva essere Maik, quello con le spalle grosse, il mento quadrato e la voce bassa e rauca.
Lui sì, è dannatamente spaventoso.
Tom...beh, sembra un ragazzino. In realtà lo è per davvero. Ha un fisico così esile da sembrare sul punto di spezzarsi da un momento e l’altro. Eppure, eccolo, sano come un pesce, che dorme al posto di guida perché ha passato nuovamente la notte al bordello.
Klaus...lui è piccolo e tozzo, forte e testardo come un mulo.
Credo lavorasse in una fabbrica, prima. Ha una moglie piccola e grassa che ama alla follia e due bimbi che non credo superino i tre anni. Non è cattivo. Non è fatto per combattere, semplicemente.
Martin...non so cosa dire di lui. È molto alto e nella sua postazione sta scomodo, per questo soffre spesso di mal di schiena. Si lamenta sempre di quanto schifo gli faccia tutta questa faccenda, ma l’ultima volta che è riuscito ad avere un congedo ha sfruttato la sua divisa per fare stragi di cuori.
Poi ci sono io.
Onestamente spicco come un astro in cielo rispetto a loro. Anni fa, quando mi sottoposi al test medico, il dottore si complimentò con me per come aderissi perfettamente ai canoni razziali, chiedendomi perché non abbia scelto di entrare in un reparto privilegiato-
Averli, Capitani come me! Accidenti, sono sicuro che se questi quattro decidessero di collaborare faremmo davvero faville.
Ah, quanti carri nemici abbiamo distrutto?
Scesi dalla mia torretta per sgranchirmi un po’ le gambe. Li abbiamo segnati sul fianco, ma non riesco a trovare la striscia.
Chiesi a Martin e lui, con uno sbuffo, mi indicò una specie di graffio lungo la fiancata.
 “Uno” mugugnò, picchiettando sulla corazza.
 “Ma sono sicuro che siano molti di più...”
 “Si fidi, Herr Faust. Si ricorda quel carro russo che poi scoprimmo essere abbandonato?”
 Apprezzo sempre la spontaneità dei miei sottoposti, ma non possono mettere in dubbio il mio ruolo.
 “Ha preso un abbaglio, Jager. Questi” Picchiettai le dita contro altre righe, segni inconfutabili attribuibili ai mezzi nemici abbattuti che alcuni stolti avevano scambiato per graffi accidentali “Sono questi i simboli dei carri nemici abbattuti. Duecentoventicinque in pochi mesi di servizio. Forse non dorme abbastanza? Ha le allucinazioni?”
 “...Ha ragione, Herr Faust. Chiedo venia”
 Lessi scetticismo nei suoi occhi, ma lo ignorai. In cuor suo sapeva che io avessi sempre ragione.
 Quando riprovammo a fare marcia indietro, finalmente, riuscimmo miracolosamente a rimetterci in moto.
E, casualmente, Tom mise in discussione le mie capacità da leader, autoproclamandosi il migliore, sprecato per noi.
 Arrivati, scoprimmo che il villaggio era stato preso d’assedio da una manciata di disertori russi mal equipaggiati. Nel terreno c’erano ancora tracce fresche di ruote che conducevano dentro il paesino, scomparendo lungo una fitta foresta di pini.
 “Ed anche oggi il Reich ha guadagnato terreno. Una città in più per il nostro popolo!” Proclamai, saltando con agilità felina sul tettuccio del nostro Panzer.
 “Ma Herr Faust, il villaggio è vuoto” Tom indicò una casa in lontananza, mettendo in discussione la mia autorità.
 “Cioè?”
 “I russi sono scappati, temo che Maik li stia rincorrendo a piedi. Ci sono un paio di soldati tedeschi impiccati da qualche tempo e credo di aver trovato una bottiglia d’alcool...guardi, laggiù, in quella casa abbandonata, la vede? Con le finestre aperte. Sono sicuro che sia Vodka, potremmo rubare qualcosa-”
 “E’ comunque una vittoria per il popolo tedesco” Li rassicurai, sfoggiando il sorriso migliore che ho in repertorio.
 Quando stappammo la bottiglia Maik ci raggiunse. Aveva davvero inseguito ed ucciso i due russi, nonostante avessero lasciato l’esercito oramai da tempo. Aveva anche rubato loro alcune mostrine che ora sfoggiava orgoglioso sul cappello.
La bottiglia che trovammo si rivelò essere vero alcolico, non acqua scialba, ed aiutò i nostri morali a sollevarsi.
Prima di tornare alla base però ci sembrò giusto controllare i cadaveri dei nostri soldati.
Irriconoscibili se non per il colore della divisa, deteriorati dal tempo e dagli animali selvatici.
 “Non ci sono mostrine, Herr Faust”
 “Disertori”
Aggiunsi, allontanandomi dai due corpi.
Klaus e Martin tremarono. Forse la smetteranno di prendere in considerazione un gesto così stupido.
Così abbandonammo i corpi al loro destino, sotto la gelida tormenta di neve che imperversò poche ore dopo aver lasciato il paese.
Ma noi, fortunatamente, eravamo già lontani.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


L’inverno è la stagione più dura.
In Russia, poi, è durissimo. Quando entrai in servizio, un paio di anni fa, sperai intensamente di poter fare una vacanza tra le campagne francesi.
Però, quando finalmente finii il mio addestramento da carrista, scoprii con mio immenso rammarico che il mio impiego al fronte occidentale sarebbe stato vano.
Così preferirono inviarmi come una cartolina postale dal vecchio Ivan, decisamente più tosto rispetto ai baguettofili.
Quindi servivano veri uomini, coraggiosi come il sottoscritto.
Ricordo ancora, con una certa nostalgia, le corse a perdifiato per le campagne bavaresi che facevo da bambino.  Avevamo costruito una specie di cingolo con cannone utilizzando del legno ed alcuni chiodi e ci divertivamo da morire a giocare ad una versione rivisitata di francesi contro tedeschi. Non ho mai capito perché il francese dovessi sempre farlo io. In ogni caso era un francese veramente tosto.
Una volta scavai una buca profonda almeno mezzo metro e la ricoprii con legnetti e trucioli. Così affondai metà dell’esercito tedesco, composto da due bambini più piccoli di me.
Tornavo a casa pieno di lividi e mia madre mi gonfiava come un pallone per riaffermare successivamente il concetto esclamando: “Bastian, sei uguale a tuo padre!” io l’ho sempre preso come un complimento.
Grand’uomo, lui! Le sue vicende sulla grande guerra hanno sempre un cipiglio eroico.
Una volta uccise una volpe intenta a divorare la sua razione di cibo.
La bestia divenne il suo pasto… e confezionò un bel cappello di pelliccia, con la codina penzolante, come quell’americano con il procione. Credo l’abbia perso, non ha mai voluto mostrarmelo*
 

 
Torniamo al presente. Sono stato addestrato per la sopravvivenza e la guerra.
Sono talmente bravo da potermi permettere il lusso di dormire ogni notte, anche durante le azioni di massima importanza.
Anche se, in stato di fermo, c’è solo la mia compagnia.
Gli altri stanno tenendo sotto scacco una città fondamentale per il Reich. Noi, però, dobbiamo fare di meglio.
Siamo alla ricerca di un traditore, si! Un certo Uwe Moller che si dice sia passato misteriosamente dalla parte dei russi e conviva con il nemico da oramai due settimane.
Il nostro superiore dice che siamo uno spreco di benzina: una volta ha osato perfino affermare di conferirmi missioni speciali per ricambiare un vecchio favore. Bah.
 

 
Partimmo di buon mattino, dopo aver controllato lo stato ottimale della Furia.
Tom, il nostro pilota, sembrava particolarmente scocciato. Aveva inviato una lettera chiedendo per l’ennesima volta la trasferta ricevendo, come sempre, un sonoro rifiuto.
Quel pazzo voleva salire fino a Stalingrado, dove sarebbe sicuramente morto da villano su qualche vecchia ferraglia cigolante. Feh!
Ha sempre reputato la mia Compagnia un totale fallimento. Anzi, è seriamente convinto che La Furia sia imbarazzante sotto il mio comando.
Eppure, guarda com’è bellino il nostro Panzer, con la neve sopra! Potrei ammirarlo per ore.
Soprattutto adesso che è fermo, in tutta la sua imponente forza…
“Cazzo, ci siamo di nuovo fermati! Merda...” Tom sembrava abbastanza furioso da prendersela con il cingolato, uscendo alla svelta per riempirlo di calci, seguiti da alti uggiolii di dolore.
 “Non si preoccupi, soldato. È solo un piccolo guasto che sistemeremo con rapidità” lo rassicurai, sistemandomi con la fierezza del mio rango il cappello.
 “Lo sa che bestioni hanno portato a Stalingrado, Herr? Mio cugino ha detto che sono talmente avanzati tecnologicamente che hanno bisogno solo di una persona per essere comandati! E fanno tutto, ma tutto!
Non come questo...ferrovecchio...”
 “Soldato, non si autocommiseri. Questo carro armato è un gioiellino dell’artiglieria tedesca.
Guardi gli altri, che sangue freddo! Vero?”
 Mi voltai con un enorme sorriso verso di loro.
Erano già spariti.
 
 
Martin e Klaus stavano seguendo le orme del nostro carro, cercando di tornare indietro.
Maik era semplicemente sceso per nascondersi, con il fucile carico tra le mani. Era sicuro di aver sentito dei rumori, che attribuiva sicuramente ai russi.
Questa volta non aveva torto, erano davvero loro.
Con sangue freddo diedi subito ordine di risalire.  I due che stavano disertando erano già ai loro posti, anzi: avevano caricato il cannone e lo stavano puntando in direzione di quella folle macchia che stava avanzando verso di noi.
Un T-34, carro medio sovietico particolarmente comune, avanzava lentamente verso di noi.
Sentii la fronte bagnarsi di sudore.
Non dovevo cedere a queste stupide paure da recluta.
Anzi, doveva essere lui a temerci, per forza… era di fronte all’asso nascente dei corazzati...snocciolai ordini via radio, ricevendo solo le bestemmie di Tom che svogliatamente stava cercando di ruotare la Furia per evitare colpi al carrello.
 “Adesso si calmi ed avanzi ancora, non disobbedisca al suo superiore!”
 “Moriremo come dei fottuti ratti, il rottame non si muove.”
 “Provi a farlo muovere, faccia qualcosa!”
 
 
Boom!
 
No, non fu un nostro colpo.
Il cannone nemico ci mancò per un soffio, sfiorandoci la fiancata fino ad incassarsi in un grosso pino, che crollò all’istante dietro di noi.
Mi rassegnai e diedi ordine di fare fuoco, puntando alla torretta.
“Lo abbiamo colpito?”
 “E’ lei il capitano, ha la visuale migliore della nostra”
 Hanno ragione, indubbiamente. Sporgendomi appena dal tettuccio notai una nuvola di fumo e rottami provenire dalla direzione opposta.
Colpito e affondato! Un solo colpo, eccellente.
Senza perdere tempo scesi dal carro per segnare l’ennesima vittoria. I miei sottoposti tentarono di fermarmi, ma quella linea andava fatta subito, giusto per apparire più minacciosi nei confronti dei nemic- 
 

 
“Capitano, si è svegliato!”
 “Temevamo fosse morto!”
 Ammisi, con mio rammarico, di avere un forte mal di testa.
Quando aprii gli occhi vidi i miei uomini crogiolarsi al mio capezzale, fingendo reale preoccupazione.
Dovevamo essere in ospedale e, indubbiamente, il ferito dovevo essere io.
Quei bastardi, a quanto pare, avevano mollato la vettura dopo averci mancato: alcuni erano morti a causa dell’esplosione ma i vivi, tra cui si annoverava il traditore a cui stavamo dando la caccia, avevano approfittato del mio orgoglio per spararmi vilmente alle spalle. Maik era riuscito ad ucciderne un paio, costringendoli alla ritirata.
Stando alle parole del mio equipaggio dovevano avermi caricato ed accompagnato all’ospedale più vicino, privo di sensi e con un buco nel fianco. Forse riceverò una licenza di guarigione in patria ma vedrò di oppormi a questa decisione.
 “Un’ultima cosa...” chiesi, rialzandomi coraggiosamente.
 Con una mano Maik mi spinse nuovamente nella brandina, facendomi affondare con un vile uggiolio.
 “Il traditore è morto?”
 “Ci è sfuggito, Herr”
 “Non importa” mormorai, stringendo i denti.
 “Ci vendicheremo”
Mi guardarono con occhi acquosi, misericordiosi.
Così, con il loro scetticismo, capii che, stavano approfittando del mio dolore per sottovalutarmi ulteriormente.
 “Andate al diavolo” mormorai, stringendo i denti e chiudendo gli occhi per riposare.
Dovevo rimettermi in fretta. Solo così avremmo ottenuto la nostra vendetta.
 
 

 
Note finali:
 
*Tutto ciò non è mai successo.
** Ovviamente sono frutto della fervente fantasia di Tom.
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


“Così ho fatto saltare in aria un’intera divisione di russi come fossero fuochi d’artificio!
Ecco...questo è il mio carro armato che avanza...bruumm…ratatatatata! Quando i crucchi fan la guerra tutti i russi sotto terra!"
 Mi hanno rispedito a casa con calcio in culo e due medaglie al valore.
Ho cercato in tutti i modi di dimostrare il mio perfetto stato di salute ma, ad un certo punto, la stampella ha ceduto ed io sono caduto rovinosamente a terra.
Nonostante tutto mi fa piacere essere andato in licenza. Monaco è ancora una città vivace, nonostante la guerra. Appena tornato nel mio quartiere ho incontrato un sacco di bambini di età compresa tre ed i cinque anni. Stavano tirando i calci ad una palla di cuoio quando uno si è voltato, additandomi come “soldato, un soldato!”
Ho dovuto correggerlo: sono un capitano, io. Gli ho fatto vedere colletto e mostrine, spiegandogli quietamente e con tono bonario i loro significati, senza escludere gli importanti seppur truci aneddoti di guerra.
 “Ha mai visto un carro armato esplodere, recluta? Ci sono rottami ovunque. E brandelli di carne carbonizzati. Una volta è rotolata una testa accanto al mio piede. È stato disgustoso”
 Il piccolo, sei anni e poche parole, sgranò gli occhi per optare infine in una vile ritirata.
Ah, i giovani d’oggi.
Ho cercato di spiegare loro i fondamenti dell’arte della guerra, soffermandomi sulle mie formidabili conquiste ed i miei valorosi piani strategici...invano.
In compenso mi rubarono la stampella di legno per usarla come fucile.
La Germania è davvero persa se questo è il futuro.  Ai miei tempi – e non sono affatto vecchio – era appena finita la grande guerra. C’era tanta povertà ma anche voglia di riscatto. Le città brulicavano di luci opulente e gioiose che io faticavo a capire, essendo in tenera età. Adesso versa tutto in stato di abbandono, come se la gente vivesse in una bolla di rassegnazione.
 
 
Sono tornato a casa dai miei familiari, dopo mesi, forse anni...
Avevo ventitré anni quando sono partito...i miei fratelli erano poco più giovani.
Ricordo ancora le lacrime in famiglia il giorno della nostra partenza. Questo è lo scotto da pagare quando il destino ti affida una discendenza totalmente maschile.
Fummo presto divisi. Io venni spedito all’est, Alfred in Nord africa e Stefan in Francia.
Oh, Stefan...
Quel piccolo cencio presuntuoso e terribilmente sagace.
A soli sei anni era riuscito a costruire una specie di aereo con qualche chiodo ed assi di legno. Non so come ma riuscì a procurarsi della lacca per tingere la sua scatoletta completamente di rosso, prima di buttarsi giù da un melo con la speranza di volare.
Diceva che sarebbe diventato un grande aviatore, un giorno. Io ed Alfred lo schernivamo, dicendo che non avrebbe osato così tanto. Che era piccolo e destinato a fallire. Eh, sì, eravamo ottimi fratelli maggiori...
Esplose in una limpida giornata di settembre. * Lo venni a sapere giorni più tardi, mentre facevo ancora la gavetta nella campagna boema.
Stavo sistemando il vecchio carro leggero quando arrivò la lettera. Era in servizio da poco più di nove mesi e si era spinto talmente in alto fino a toccare il sole, sciogliendosi come Icaro sotto i raggi cocenti della contraerea inglese.
È sempre stato il più coraggioso. Io ed Alfred siamo sempre stati simili, bravi a parole e pessimi a fatti...lui era speciale, era diverso.
Non ci rimaneva altro che il ricordo, dopotutto. E la sua gigantografia inquietante in bianco e nero dove, stretto nella sua magnifica divisa, ci fissava con gli occhi vacui e spenti di presto sarebbe partito per il fronte.
 
 
Cenammo in silenzio. Erano mesi che non mangiavo un vero pasto.
Da quando Maik scambiò un russo per un coniglio, centrandolo con un solo proiettile mentre saltava. Cotto a puntino, divenne uno dei migliori pasti della campagna di Russia.
Le razioni sono piuttosto disgustose, ammetto. Un Capitano necessita di meglio che misere lattine dal gusto scialbo.
Desideroso di sporgere reclamo, lasciai perdere pur rimanendone terribilmente deluso.
Esattamente come quando, per scarsità di tabacco, riempirono le sigarette con un surrogato dall’odore disgustosamente pungente ed acre. Ci dissero che questa nuova miscela era meno nociva della vecchia ma, da quel giorno, smisi di fumare. Ricevetti perfino una razione extra di cioccolata tarocca per la mia buona azione. Divenni il simbolo della campagna anti-tabacco, un modello da seguire e da eguagliare. ***
 
 
Quando tornai in servizio era oramai primavera, anche nella gelida Russia.
Avevo preso un po’ di peso riposando e, sinceramente, mi sembrava di essere davvero in ottima forma. Non capirò mai perché tutte quelle dolci fanciulle di Monaco rifiutarono le mie avances.
Sono un ottimo partito, io! Ne ho conosciuta una, una certa Julia, che lavorava come cameriera in un piccolo bar. Era piccolina ed aveva delle tette enormi. Dopo tre boccali da litro le dissi che ero la migliore birra che il Reich potesse desiderare. Le suggerii un assaggio e suo padre – un armadio senza una gamba, maggiore durante la Grande Guerra – mi prese di peso cacciandomi dal locale con un calcio in culo, senza dimenticarsi di tirarmi dietro la stampella.
Non capisco, però...sono davvero la migliore birra della cantina del Reich. Il cavaliere delle favole a cavallo di un panzer, praticamente.
Non mi dilungherò oltre: la patria prima di tutto! Al prossimo rientro cadranno letteralmente ai miei piedi.
Un po’ come i miei sottoposti. Sembravano felici di vedermi.
 “Buongiorno, soldati. Possiamo ritornare a fare sul serio, ora” Li incitai avvicinandomi a loro.
Tom sussultò appena, abbassandosi il cappello. Stava dormendo all’ombra di un vecchio pozzo semidistrutto, tenendo una spiga ancora verde tra i denti. Martin e Klaus giocavano a carte, scommettendo un’intera bottiglia di un alcolico poco definito.
 Maik era sdraiato sul tetto di un vecchio capanno, intento a scrutare l’orizzonte alla ricerca del nemico russo.
“Buongiorno, Herr.” Mi salutarono con indifferenza, continuando a dilettarsi nei loro passatempi.
“Dobbiamo tornare attivi ed operativi. Abbiamo un traditore a piede libero”
“Herr Faust...” Klaus si voltò verso di me, lanciandomi un’occhiata preoccupata.
"È passato quasi un mese, oramai...sarà sicuramente morto...o forse è scappato...insomma-”
“Negativo, Achen.  Domani mattina alle sei dobbiamo già essere in marcia. Riposatevi, abbiamo tanta strada da percorrere” Dissi, congedandomi con un cenno di capo.
Allontanandomi udì un borbottio di dissenso.
Li avrei fatti ricredere, oh sì. Avremmo catturato il fuggiasco e fucilato per diserzione prima dell’ora di pranzo. Avevo giusto un certo languore…
 

 
L’Indomani ci alzammo di buon’ora. Come stabilito alle sei eravamo già in marcia. Purtroppo, questo bestione ha un’autonomia piuttosto limitata, quindi non potevamo allontanarci troppo.
Non che dovessimo averne bisogno, si intende. Il nemico è infido e sbuca sempre quando meno te lo aspetti.
...Così successe. Durante una sosta Maik trovò dei mozziconi di sigaretta su una chiazza d’erba fresca, che portò al naso annusandoli come un segugio.
“Sono passati di qua” Grugnì, annusando la cartina umidiccia.
“Puzza d’alcool, è sicuramente uno di quei bastardi, senta”  Mi porse la sigaretta, ma non sentii alcun odore.
Finsi di crederci, annuendo.
 “Herr, dovremmo proseguire in quella direzione. Guardi l’erba, è schiacciata laggiù. Devono essere passati per forza da quella parte”
 “Possibile. Ma io sono il capitano. Ergo, dobbiamo andare a sinistra” Conclusi, facendo svanire ogni dubbio.
Incitandoli a riprendere la marcia nessuno si mosse.
 “Maik ha ragione. Dovremmo...seguire la traccia” Azzardò Klaus.
In qualità di leader carismatico e democratico presi in considerazione la sua proposta, la confrontai con la mia e decisi infine che, indubbiamente, avevo ragione io.
“Ottimo punto, Achen. Ma sono quasi sicuro che procedendo alcune ore verso sinistra troveremo un intero campo russo.”
“Mi scusi, Herr, ma abbiamo delle prove, potremmo provare a seguirle”
“Negativo, soldato. Andremo nella direzione che reputo più opportuna...”
“Un cecchino all’orizzonte!”
Questa volta fu Maik a parlare.
“Un cecchino in campo aperto, impossibile” Affermai, abbassandomi il cappell-
 Il proiettile rimbalzò a pochi centimetri dai miei stivali.
“Una trappola geniale, devo ammettere, in postazione!” urlai, risalendo nel carro prima che il cecchino ricaricasse il fucile.
Snocciolando ordini andammo in direzione dello sparo, veloci come razzi, dimenticandoci di avere a disposizione un carro armato capace di centrare obiettivi a chilometri di distanza.
E, quando lo raggiungemmo, ci trovammo di fronte ad una spiacevole sorpresa.
“Ma quello è uno dei nostri!”
“Herr, è una trappola questa! È lui l’uomo che stiamo cercando”
Rannicchiato a terra con lo sguardo ancora fisso nel binocolo, l’uomo dalla nostra stessa divisa si alzò in piedi, facendo ampi gesti con le mani.
Sono quasi sicuro che sperasse di farsi notare e chiarire l’equivoco. Così, scendendo...bang!
Dovevamo portarlo vivo al campo, affinché potesse essere riconosciuto e giustiziato.
Ma...
“Capitano...”
“Abbiamo preso un fosso? Un sasso? guardi dove mette i cingoli, Weisz!”
“Lo abbiamo schiacciato, temo. Non sono riuscito a spostarmi...”
Scendendo assistemmo ad uno spettacolo decisamente macabro. Brandelli di carne e stoffa ovunque. Incastrato nei cingoli un braccio continuava a girare piano, fino a fermarsi cadendo a terra con un tonfo umidiccio.
“Ed anche oggi abbiamo concluso coraggiosamente la nostra missione. Ottimo lavoro, soldati” mi congratulai, sistemandomi il cappello.
“E se fosse stato semplicemente un disperso? Poteva essere chiunque anche senza essere un traditore...”
“Guardi, Jager. La testa è ancora miracolosamente intatta. La porteremo al campo e la processeremo. In fondo sarebbe stato giustiziato. Nemmeno uno spreco di proiettili, davvero un ottimo lavoro...”  Dissi, raccogliendo il capo sanguinolento del vile disertore.
 I miei sottoposti mi guardarono con occhi colmi di apprensione e capii che, ancora una volta, avrebbero voluto obiettare...se solo non fossi stato il loro diretto superiore.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


“Herr Faust, la prego, esca da questa stanza.”
“Ma...”
“Sparisca, ora!”
Credo che il Generale non abbia gradito l’esito della nostra missione.
Dopo un’analisi nemmeno troppo approfondita della piastrina scoprimmo che il malcapitato in realtà era un tale Ilya Zhdanov, camuffato da tedesco al solo scopo di eliminarci in modo semplice e pulito.
“Lo avevo detto io, che aveva la faccia da bastardo bolscevico” commentò Maik con uno sbuffo sonoro mentre caricavamo il nostro prigioniero di guerra nel carro.
In effetti il viaggio in compagnia della testa fu piuttosto disgustoso. Per un po’ il freddo riuscì a contenere l’odore ma, quando il caldo divenne asfissiante, fummo costretti a gettare fuori dal portello la maleodorante testa del prigioniero di guerra.
Rischiavamo un’intossicazione o qualcosa di simile. Insomma, quelle cose che si prendono con i cadaveri.
Una volta riuscimmo a catturare un coniglio ma il rigido inverno russo non ci permise di accendere il fuoco. Lo mangiammo crudo e ci ammalammo.
Non vorrei ripetere l’esperienza.
Torniamo al principio. Quando mi presentai dal Generale non ebbi il coraggio di confessargli l’esito negativo della nostra missione.
Dopo essermi imbottito di farmaci come un aviatore suicida dissi, semplicemente, che il nostro giro di ricognizione era costato la vita ad almeno qualche centinaio di russi. Poi sfoggiai la mia espressione migliore. Modestamente ho un sorriso bellissimo. Con le donne non funziona, ma con i camerati disperati si riescono ad ottenere un sacco di favori molto...intimi.
Ma sono incorruttibile, io! Riesco a tenere lavoro e vita privata separate.
...Difatti non trombo da mesi.
Sono sposato con la patria, io. Non posso tradirla.
Sto divagando.
Dunque, mentre cercavo di addolcire la pillola il Generale si alzò in piedi, furente.
È davvero grosso, quell’uomo. Non che io sia basso (con il cappello arrivo tranquillamente al metro e ottantacinque) ma il mio diretto superiore riusciva sempre a farmi sentire una pulce insignificante.
“Sentire” è una parola grossa, in ogni caso. Nelle vene avevo più anfetamine che sangue, così la metà del discorso lo passai a sudare freddo con la percezione assoluta di avere il nemico alle spalle quando in realtà era di fronte a me, con la sua faccia ovale e le dita tozze che sbattevano con furia quasi omicida sulla scrivania.
 “Ha capito, signor Faust? Se non fosse per...insomma, lasci immediatamente l’ufficio prima che decida di sbatterla senza remore a Stalingrado, mi ha capito? Una cosa doveva fare...”
 “Ma signore, la Russia è grande e potrebbe essere ovunque-”
“Ma vada un po’ a cagare”
“Mancano i bagni, signor General-”
 


 

Credo di non aver mai ricevuto una batosta così forte. Uscii dall’ufficio strisciando. Le orecchie mi fischiavano come un treno ma, tutto sommato, me l’ero cavata egregiamente grazie a qualche sana e divertente battuta.
“Ho parlato col Generale. E’...filato tutto liscio” Annunciai ai miei sottoposti, trionfante.
“Vada a riposare, Herr Faust. Oggi è stata una giornata particolarmente estenuante.” Tom, il pilota, mi prende per un braccio, strattonandomi al suo livello e trascinandomi via.
“Che cazzo gli ha detto?”
“Sono il tuo diretto superiore, Weisz. Capisco che lei mi trovi anche attraente, ma torni nei ranghi...”
Conosco il suo sguardo. Potente, penetrante, uhm…
“Santo cielo mi ascolti una fottuta volta. Quante pasticche ha preso? Due. Tre? Non importa. Siamo talmente vicini ad un richiamo ufficiale che non mi stupirei di finire in un battaglione di disciplina.
L’ho visto, il Generale. Era furente”
È andato tutto bene, ma adesso mi molli, conosco il suo sguardo malizioso...”
Tom mollò bruscamente la presa su di me, allontanandosi velocemente ed imprecando a voce alta.
Solo dopo qualche giorno, quando l’effetto dei medicinali mutò da euforia a profonda depressione, capii che il giovane stava cercando di scuotermi, non di scoparmi selvaggiamente, anche se sono quasi sicuro che lo desideri. Lo leggo nei suoi occhi carichi di giovane disperazione. D’altronde, sono la migliore bottiglia della cantina del Reich-
 

 
“Soldati, si torna in marcia. Non ci lasceremo scappare il fuggiasco, costi quel che costi…
Non è più questione di mero orgoglio, è questione di vita. Ho commesso un errore, dunque è compito nostro rimediare.
Siete pronti a seguire il vostro capitano verso la vittoria, o morire con lui?”
Vi fu un grugnito unanime in risposta. Nessuno dei quattro alzò lo sguardo.
Credo mi odino, in qualche modo. Insomma, siamo da più di un anno assieme, ne abbiamo passate tante e sarebbe carino se mi mostrassero un filo di gratitudine. Molti dei nostri sono saltati in aria nel frattempo mentre noi siamo in perfetta salute.
Era il lontano 1941 quando ci incontrammo.
All’epoca avevamo un vecchio Luchs. Uno spettacolo. Faceva un rumore terribile, ma era un vero gioiellino. Aveva un lanciafiamme montato sul cannone principale. All’epoca io ero ancora un carrista piuttosto semplice. Specifico, ero il pilota. Andavamo veloci come il vento a bruciare campi e russi come un aratro che trebbia il grano maturo.
Un giorno esplose. Si, esplose. Prima di essere utilizzabile il carro va aperto per evitare l’esplosione dovuta al surriscaldamento.
Fui io ad accorgermene e dare ordine di allontanarsi. Stava iniziando a fare davvero troppo caldo lì dentro. E puzza. Odore di metallo che si scioglie.
Il capitano diceva fosse assolutamente normale che un vecchio mezzo come quello tendesse a surriscaldarsi e fare fumo.
Tranne Tom, gli altri c’erano tutti. Maik, Martin, Klaus...non so perché decisero di seguirmi.
O meglio, in realtà lo sapevo esattamente. Martin e Klaus non vedevano l’ora di uscire mentre Maik aveva un sesto senso per il pericolo.
Litigando, anche il nostro superiore decise di scendere. Mi avrebbe ammonito severamente per aver disobbedito ai suoi ordini.
Ed invece… il carro esplose per davvero. Fu incredibile. Non so come abbiamo fatto a rimanere illesi, ma è successo.
Ricevetti una medaglia al valore. E, qualche mese più tardi, una bella promozione a sergente. **
Per le mie grandi doti strategiche e belliche…
Divenni ufficialmente capocarro ed ebbi il mio primo cingolato.
Tutto mio, da comandare! Ero esaltato come un bambino in un negozio di giocattoli.
Un altro Luchs, certo...ma andava bene così.
Mi dispiace non avergli dato un nome a quel piccoletto. Ci accompagnò per diversi anni fedelmente fino all’arrivo di Tom che, ancora inesperto, lo parcheggiò nel fiume e lì rimase.
Credo sia questo che li spinga ad essermi fedeli. Mi devono la vita. Se avessero seguito gli ordini di quell’imbecille sarebbero tronchi di carbone ora.
 

 
Il giorno dopo, in ogni caso, eravamo già in marcia.
Il sole albeggiava sui fili di erba ghiacciati dalle notti rigide della foresta russa.
C’era qualcosa di piacevolmente magico in queste pianure boschive. Silenzioso ed ovattato, perfino il fischio del motore sembrava essere diminuito.
Col binocolo osservavo con atteggiamento dominante l’intera vallata, ritrovando solo betulle spoglie che si estendevano a perdita d’occhio fino alla linea dell’orizzonte.
Romantico, se non fosse per le file ordinate di elmetti che ogni tanto punteggiavano il manto nevoso.
Giungemmo ad un villaggio. Un posto davvero delizioso.
C’erano quattro case di legno ammuffito dalle finestre sfondate e le porte aperte. Ideale per una sosta.
Mi stavo preparando per mettere qualcosa sotto i denti quando Maik mi fermò, insistendo prima nel controllare che non ci fossero russi nei paraggi.
Casa per casa. Muore dalla voglia di ammazzarli. Credo abbia anche sviluppato una specie di macabro collezionismo: cappelli, medaglie, spalline, decorazioni. Se aveva la possibilità di strappare qualcosa alle sue vittime, lo faceva senza remore.
Avevamo quasi finito di ispezionare ogni catapecchia quando sentimmo dei rumori.
Con atteggiamento eroico feci indietreggiare i miei compagni e caricai la mitraglietta, trattenendo il respiro.
“Siete uomini morti!” Gridai, sfondando la porta decrepita con un calcio. Probabilmente era già aperta, ma desideravo da tutta la vita un’entrata del genere.
Inutile dire che non trovammo nulla.
“Sento dei rumori” disse Klaus, facendosi strada tra la mobilia rovesciata.
“E’ un bastardo comunista. Lo sento dall’odore” Grugnì Maik, caricando l’arma.
C’era un tavolo sfondato. E sotto...proveniva un rumore molto flebile, come un pianto…
Delicatamente mi chinai per spostare i legni, asse per asse. Qualcuno doveva essere entrato prima di noi in quelle case per lasciare una scia di morte e distruzione. Non mi stupirei se trovassi cadaveri in zona.
C’erano cocci di ceramica e schegge di legno marcio. Qualcosa di scuro, morbido.
Forse uno straccio... insolitamente caldo...
“Un cucciolo!”
Un soffice cuscino di pelo, praticamente. Il pelo marrone, gonfio e sporco, celava due occhietti tristi ed affamati. Chissà quanto tempo era rimasto lì sotto, povera creatura.
Lo presi immediatamente in braccio, stringendolo delicatamente al petto. Lo avrei infilato in tasca e protetto paternamente accanto al cuore
“Possiamo tenerlo?”
“Il Generale ci odia, non dovremmo compiere mosse azzardate...” Klaus era alquanto scettico a riguardo.
Mi interessava l’opinione dei miei uomini. Purtroppo, era differente dalla mia, così dovetti dar loro torto.
“Bene, recluta canina. Da oggi sarai il sesto membro dell’orgogliosa Furia. Guardate com’è carino, sa fare anche il saluto. Heil Hitler!”
Ancora una volta i quattro si scambiarono un occhiate rassegnate e capii, per l’ennesima volta, che non mi avrebbero preso sul serio.

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Per poter esprimere un’opinione alquanto oggettiva credo ci sia bisogno di un ulteriore punto di vista.
Il mio. Non il suo.
Sono Tom Weisz ed in tutta questa faccenda l’unico mio scopo è quello di fare da tassista a quei grandissimi idioti che compongono il resto dell’equipaggio.
Mio padre, prima che io partissi, mi disse che la guerra faceva paura e che non risparmiava nessuno. Lo lessi negli occhi di mia madre e delle mie sorelle, quella scintilla di muta rassegnazione nel fatto che, forse, non sarei più tornato a casa.
Ma, a giudicare dal mio anno di servizio, credo si stessero sbagliando.
Marzo è un bellissimo mese. L’erba è davvero verde qua in Russia. Rannicchiato sotto un albero cercavo di dormire, ignorando completamente il mio diretto superiore.
Ho detto che il mio equipaggio è composto da idioti, vero? Lui è qualcosa di più. Non credo esista un termine per definire la sua totale inettitudine.
Ultimamente è peggiorato, non credevo potesse essere possibile. Qualche giorno fa ha trovato un cucciolo di cane in una baracca abbandonata, una specie di lupo peloso che puzza come una fogna. Da quel giorno sono diventati inseparabili.
Il Generale, a seguito della strana richiesta di poter ospitare un cane all’interno di un carro, ha avuto un malore ed adesso giace in infermeria in preda a deliri febbricitanti, supplicando di essere fucilato poiché stanco di dover sopportare Faust e le sue assurde richieste.
Credo che il problema principale sia, appunto, il mio Capitano. Non lo voglio morto, per carità, solo sufficientemente ferito da poter essere esentato da qualsiasi conflitto per il resto della sua vita.
Non lo capirò mai per davvero. Ora si sta rotolando assieme al cucciolo, sembrano felici.
Quella bestia è molto più intelligente di lui. Avrà circa tre mesi e già risponde al saluto alzando la zampa ed abbaiando due volte. Maik ha provato ad insegnarli a riconoscere l’odore dei russi facendogli annusare la sua collezione di macabri trofei, ma il cane ha sempre reagito con una bavosa leccata di faccia.
Tornando al Capitano...mi sembra talmente assurdo che quell’uomo abbia ricevuto una carica così prestigiosa.
Dicono si sia distinto in alcune missioni particolarmente pericolose salvando diverse vite di soldati ma secondo me sono balle...non l’ho mai visto comportarsi da eroe o fare qualcosa di veramente intelligente.
Oltretutto è davvero convinto di essere dalla parte della ragione. Una volta gli chiesi come potesse essere così determinato. Cosa ci guadagnasse nell’infondere quella pietosa carica di energia in missioni talmente ridicole da essere vergognose.
“Weisz, lo vede l’orizzonte?”
“Si, Signor Capitano.”
“Un giorno sarà tutto nostro”
“Non ha risposto alla mia domanda”
Mi sorrise, sistemandosi il cappello.
“Sei troppo giovane per capire “Non credo sia questo il punto. Sono quasi sicuro che non lo sappia nemmeno lui. Stava sicuramente bluffando.
Forse è semplicemente un inguaribile ottimista. Ha sempre fatto il suo pessimo lavoro, guardando il lato positivo di ogni dannato casino che combinava.
Mi vergognavo ad ammetterlo ma, in fondo, lo ammiravo.

 

 
 

Mi sentivo stranamente osservato.
Tom Weisz, il mio sottoposto, stava fingendo di dormire per spiarmi.
Con il cappello che casca sopra i suoi occhi, studiava ogni mio movimento.
Credo volesse prendere il mio posto. Anzi, ne ero sicuro, anche se non aveva la benché minima possibilità.
Avevo con me il mio nuovo fedele compagno, nonché recluta canina.
Approfittando della convalescenza del Generale e di qualche scambio di favori, sono riuscito ad ottenere da un bravo soldato una piastrina di legno con sopra inciso il suo nome, ovvero: “Konig Friedrich I von Russland, leggendario campione di caccia al mugico della steppa*”
Fiete* per gli amici.
Questa creatura si era dimostrata molto più intelligente di tutti i miei sottoposti messi assieme. Oltre al saluto gli avevo insegnato tante altre mansioni, come portare le razioni e gli alcolici. Per lui ho cucito personalmente una specie di casacca con tasche ricavata da un cappotto sgualcito. Poteva contenere fino a due fiaschette di Vodka così, quando ne avevo voglia, mi bastava fischiare per far arrivare Fiete con il suo carico alcolico.
Da adulto avremmo potuto sicuramente raddoppiare il carico.
A riposo, però, Fiete era privo di qualsiasi cappotto identificativo. Correndo spensierato tra la terra battuta e le tende di fortuna, era solito a cercare attenzioni e compagni di gioco tra i commilitoni. In molti si porgevano a lui con un sorriso, chinandosi anche solo per una carezza.
Sono sicuro che la bestiola avesse portato una ventata d’aria fresca all’interno della divisione.
Non avrei mai creduto, ad esempio, che il cagnolino avrebbe fatto comparire un sorriso sul volto di Maik.  Tranne quando riusciva ad uccidere un russo, lui non sorrideva mai.
Bah. Io, a sua differenza, non ero un tipo violento.
Si, avevo già diverse persone sulla coscienza ma, in altre circostanze, ne avrei fatto volentieri a meno.
Se fosse per me il mondo dovrebbe essere votato alla pace ed all’amore. Possibilmente nei miei confronti.
Poteva essere peggio...anzi, vent’anni fa era molto peggio.
Avevo uno zio, un certo Bastian, che morì sul fronte orientale durante la Grande Guerra.
...In realtà avevo ben due zii con il suo stesso nome.
 Mio nonno aveva la memoria corta, così, per ricordarsi dei suoi figli dava loro gli stessi nomi. Mio padre si chiamava Sebastian quindi, ad essere sincero, non sapevo se il mio nome derivasse dal fratello defunto o dalla scissione di sé stesso in versione ridotta.
...Cosa stavo dicendo? Ah, sì, del cane. Aveva reso felici un sacco di persone, me compreso. La vita nel profondo est era terribile.
L’altra notte, mentre dormivamo come sassi, i russi attaccarono a sorpresa.
Io e Fiete riposavamo tranquilli, erano circa le tre, un orario in cui generalmente anche i russi riposano.
Quando venne lanciato l’allarme oramai era troppo tardi e l’Organo di Stalin già suonava il suo canto straziante.
Misi il cane in una tasca interna e scappai velocemente dalla tenda, imbracciando a due mani la mitraglietta.
Il nostro rifugio era malamente nascosto, un’accozzaglia di tende in una spianata nevosa circondata da pini, non esattamente un luogo desiderabile e sicuro per alloggiare.
L’unica cosa che potevo fare era raggiungere gli altri uomini, appoggiarmi ad un tronco di albero e tentare di ammazzare qualsiasi russo che si fosse palesato alla mia vista.
Non potrei descrivere la scena con esattezza, perché mentalmente io non c’ero. Ero ovunque, ma non lì. Quando una granata fischiò alle mie spalle, immediatamente la mia mente si colmò di ovatta e, per quanto mi sia difficile ammetterlo, dovetti stringere i denti e lottare spasmodicamente ancora una volta per la mia vita mentre il mio piccolo amico peloso guaiva e urinava terrorizzato nella mia giacca.
Riuscimmo a respingerli, ma non fu affatto facile.
Quando i nemici finalmente si ritirarono, davanti a noi si palesò la macelleria che avevamo causato.
Un miscuglio di corpi tedeschi e russi da seppellire e le nostre tende, i nostri spiccioli averi, distrutti dalle bombe.
Maik impazzì. Così tanti nemici abbattuti per lui rappresentavano una gioia incommensurabile. Accuratamente ispezionò più corpi possibili, ritagliando scalpi e depredando i cadaveri fin quando due uomini particolarmente grossi non si decisero a trascinarlo via e metterlo a tappeto con due pugni ben assestati.
Tom era rimasto abbastanza scosso dall’accaduto. Non lo avrebbe mai ammesso di essere un tipo sensibile.
La guerra segna nel profondo, è inevitabile. Era rimasto sdraiato sotto un albero per il resto della giornata, contemplando i timidi bucaneve sorti nella terra nuda e scoperta.
“Guardi, Capitano. Sta tornando la primavera. Potevo essere morto in questo preciso istante. Nessuno più mi avrebbe raccontato della magia della rinascita” mi disse, lasciando che una coccinella camminasse tra le sue dita. Non c’è niente di più tragico che morire in primavera. Non crede, Herr?Tutto fiorisce e qualcuno perisce. È talmente romantico da essere raccapricciante. La nostra tomba sarà la terra, il nostro drappo saranno i fiori. E nessuno potrà piangere sui nostri corpi, se non questa dannata distesa di salici. Guardali, sono così tristi, con le loro corone cascanti-” ***
Ovviamente ignorai le sue turbe psicologiche. Prima dovevo recuperare Martin e Klaus.
Non so cosa abbiano fatto durante l’attacco, ma ho come la sensazione che si fossero allontanati e, per loro fortuna, nessuno si accorse della loro assenza. Sono spassosi. Uno è una specie di gigante fifone, l’altro è la sua copia bassa e tozza. Questo posto non appartiene sicuramente a gente come loro. Mi chiedo se tra le lamiere del carro si sentissero più sicuri. Non posso difenderli in eterno.
Ricomparvero misteriosamente alle prime luci dell’alba.
Erano scossi ma, fortunatamente, non erano feriti.
Fiete corse immediatamente da loro, dandogli una parvenza di serenità.
Leccò loro le mani e li salutò alzando la zampa.
Quando li richiamai il cagnolino mi saltò in braccio, scodinzolando come un matto.
Aveva avuto paura anche lui ma, fortunatamente, eravamo tutti illesi.
Smaltimmo l’ansia con il gioco. Una breve lotta al russo ed il tedesco dove io, finalmente, potevo impersonare il ruolo che preferivo, dato che Fiete non avrebbe mai obiettato.
I miei sottoposti, forse gelosi, si riunirono in cerchio per lanciarmi occhiate colme di disprezzo, come se lasciarsi andare in un attimo di stupida follia fosse una cosa deplorevole.
Non è importante. Sono loro ad essere nel torto.
 





Note finali:
*  "Fiete" è un diminutivo di Friedrich, molto usato nella Germania del sud.
** Citazione Fantozziana. Ivan il terribile trentaduesimo...Il Muggico, in ogni caso, è un contadino russo.
*** Il dialogo sarà stato decisamente più lungo. Se fossero state lodi al capitano il discorso sarebbe stato riportato interamente, ma la storia è trattata quasi interamente dal punto di vista di Bastian Faust. Dopo venti parole avrà abbandonato il suo sottoposto ai suoi discorsi deprimenti per andare a specchiarsi in una pozzanghera.

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Temo di aver dimenticato un particolare decisamente interessante durante la narrazione delle mie vicende.
Il campo base. Un pittoresco ammasso di tende seminascoste lungo il limitare del bosco, ai margini di un laghetto che sconfina verso la palude. Se sapessi dipingere mi piacerebbe immortalarlo in una tela da appendere in salotto.
Romantico. Ogni tanto, attraversando le purulente acque della palude, ci imbattevamo in grotteschi e gonfi cadaveri che riemergevano lentamente dalla fanghiglia.
Tra tutte le piccole piramidi verdastre che ricoprono la vallata, la mia tenda era sicuramente la più formidabile, equiparabile ad un monolocale ampiamente fornito. Oltre alla brandina possedevo un tavolino con una lampada ad olio ed alcune mie foto che ammiravo prima di addormentarmi.
Santo cielo, sono meraviglioso. Sono un autentico, effettivo, inimitabile e formidabile portento. Un vero e proprio soprauomo*
Fiete dormiva accanto a me, ai piedi della cuccetta. Aveva il sonno molto più leggero del mio così, in caso di pericolo, era sempre lui a dare l’allarme.
Possedevo perfino un trofeo di guerra: una specie di stufetta che aveva cercato di mandarmi all’altro modo diverse volte. L’avevo trovata accidentalmente** in un villaggio abbandonato e, essendo oramai inutile a chi l’aveva costruita, decisi di farla mia. La legammo al carro e la portammo fino alle tende.
Nessuno si accorse dell’inusuale oggetto fin quando, una notte, la stufa demoniaca decise di uccidermi colmando la tenda con fumi tossici e maleodoranti.
Per sfuggire alla morsa del gas mi gettai nel lago. L’acqua era ghiacciata e questo fu un errore, poiché finii in infermeria con un congelamento da non sottovalutare.
 Fu molto divertente quando ripresi conoscenza e vidi davanti a me il dottore con un enorme ghigno.
Il signor Helmut Biermann era un chirurgo piuttosto cinico. Nonostante il cognome fosse sfacciatamente ebraico, nessuno riuscì mai a risalire alle origini, incontrando nel suo albero genealogico solo bravi cattolici di Amburgo.
Ciononostante, si poteva cogliere la sua sfumatura giudaica nella sua personalità. A parte l’amore incommensurabile per il denaro, sotto il camice nascondeva una personalità alquanto...determinata.
Mi spiegherò meglio con un esempio. Dopo il mio incidente nel lago il mio piede sinistro faticava a riprendere un colorito vivace, rimanendo in un limbo misterioso tra il guarire ed il marcire.
Il dottor Biermann, carico di alcolici come una distilleria, si presentò al mio capezzale per controllare la situazione.
“Qua bisogna amputare”
“Ma sto guarendo”
Tentai di replicare. Modestamente ho sempre avuto un talento nascosto. Riuscivo a raccogliere le matite con i piedi. Una miracolosa performance che spesso compievo da ubriaco.
“Riesco a muovere le dita, guardi! È sensibile. Non credo sia necessario, Herr Biermann. Mi dia la sua matita, le faccio vedere che ho ragione”
Lui mi osservò oltre i suoi spessi occhiali, ridacchiando divertito.
“Non sia stupido, Faust. Sappiamo entrambi a quale reciproco beneficio andiamo incontro.
Se io le taglio un piede destinato a marcire, lei potrà tornare a casa. Non ha l’autorità medica per giudicare lo stato di salute del suo arto”

Ebbene sì. Il chirurgo della nostra divisione adorava tagliare cose.  Se potesse affettare arti, lo farebbe in continuazione.
 Avevi una pallottola nel braccio? Si amputava. Avevi un problema ad un rene? Si asportava. Avevi scopato con un tronco e non riuscivi più a tirarlo fuori? kaputt. Il suo ragionamento era talmente semplice ed efficace da risultare vincente.
Fortunatamente esisteva una cosa che adorava più dei suoi attrezzi chirurgici: il denaro.
Se eri abbastanza ricco e sveglio da poterti permettere una contrattazione, lui era il medico che faceva al caso tuo.
Per quasi trecento marchi sono riuscito a salvare il mio piede. Non volevo assolutamente tornare a casa a trastullarmi con il mio moncone.
Avrei dovuto lasciare i miei sottoposti privi di una figura carismatica come la mia. Il fronte ne avrebbe risentito. Sono il miglior capitano carrista della Wermacht.
Quando all’orizzonte i sovietici scorgevano il cannone della Furia scappavano a gambe elevate, urlando con tutto il fiato che avevano in corpo.
 
 
La nostra missione era sempre la stessa: cercare il fuggiasco.
...Almeno, in teoria. Il Generale era ancora in infermeria con una lieve febbre. Inizialmente lamentava atroci dolori al fegato ma, quando il Dottor Biermann decise di procedere all’asportazione dell’organo, l’uomo miracolosamente guarì. Attualmente a comandare le operazioni è un Colonnello, un losco figuro famoso per le sue missioni suicida.
Senza apparente motivo aveva deciso di organizzare una nuova offensiva a Stalingrado.
Qualcuno gli fece dunque intelligentemente notare come nostra disfatta fu più che disastrosa e che un secondo tentativo, oltretutto disorganizzato e con alcuni giorni di marcia da preparare, avrebbe fatto crollare ciò che rimaneva della nostra armata corazzata.
Dunque, dopo una serie di arresti per opposizione al regime ed alcune condanne a morte, iniziammo a disfare le tende quando ecco il miracolo: il Generale, in perfetta salute, tornò a riprendersi il posto che gli spettava.
Revocando tutte le follie del suo predecessore tornammo alle nostre solite operazioni.
Tutto ciò, in ogni caso, lo venni a sapere con alcuni giorni di ritardo. Pur essendomi comportato come il prototipo del soldato perfetto, Colonnello mi aveva cacciato in cella per colpa del cane e condannato a morte quest’ultimo. Giocai d’astuzia.
Sfoggiando il mio miglior sorriso (posso ammettere con sufficiente modestia che durante la guerra è difficile mantenere denti favolosamente bianchi come i miei) riuscii a convincerlo di quanto Friedrich I von Russland avesse bisogno di scrivere una lettera alla famiglia prima dell’esecuzione.
Nonostante Fiete fosse un cane effettivamente più intelligente dei suoi simili, ancora non aveva imparato a scrivere, quindi riuscì a prendere sufficiente tempo per essere scarcerato ed avere la condanna revocata. Purtroppo, liberarono solo il cane. Io rimasi come un perfetto cretino in cella ad ingozzarmi di rape bollite, cercando di avere spiegazioni.
Quando Tom ottenne il permesso di salutarmi per una mezz’ora mi disse semplicemente che...era meglio così.  Che le operazioni stavano procedendo bene. Che non dovevo allarmarmi.
 
 
Sono vittima di una congiura. Qualcuno sta cercando di tenermi il più lontano possibile dal fronte.
Che sia per la mia sfacciata bravura oramai è noto. Dovevo aver pestato i piedi a qualcuno e per questo mi toccherà trascorrere il resto della mia vita in questo scantinato a mangiare rape bollite.
Iniziai a progettare un piano di fuga. Sul muro, con il cucchiaio, incisi l’intera, minuziosissima, mappa del campo. Al centro c’era la tenda medica, che indicai con una grossa X. A circa cento metri si trovava l’unico edificio di mattoni, ovvero l’ufficio del Generale ed alcune stanza adibite a prigioni. L’unica uscita era sorvegliata malamente da un certo Nowak, un mezzo polacco che passava le sue giornate a dormire, russando in modo talmente profondo da coprire ogni rumore.
Iniziai a scavare una buca. Se i miei calcoli non mi tradivano (ed io avevo fatto la scuola dell’obbligo, era il più istruito dell’armata) bastava solamente un tunnel di circa duecento metri per poter sbucare dalla parte del lago. Se avessi sbagliato direzione mi sarei ritrovato in Infermeria, il che non sarebbe stato nemmeno un grande errore. Però, sporco e ferito, Dottor Biermann mi avrebbe raccolto per sezionarmi diligentemente in grandi ampolle di formaldeide. Sarei stato l’oggetto di studio medico più ambito da qui al prossimo secolo, ma di certo non era la fine che avevo sognato.
Il pavimento di duro cemento non era facile da scalfire. I cucchiaini, di legno leggero, si spezzavano come grissini dopo un paio di solchi.
Dopo una settimana, tutto ciò che riuscii ad ottenere fu un piccolo foro di circa tre centimetri di profondità.
 Qualche giorno più tardi mi liberarono. Scoprii, con grande rammarico, che la mia permanenza prolungata non fu causata dalla mia pericolosità, bensì da una dimenticanza. Sapevano dove fossi, ma nessuno si era ricordato di aprirmi la cella, nonostante mi servissero la zuppa quotidianamente.
Sporsi un reclamo ufficiale. Speravo di ottenere un risarcimento morale, invece si scusarono regalandomi un paio di giorni di licenza a Colonia. Gli altri avrebbero fatto follie per due giorni di libertà.
Non io.
 
 
Tornammo presto alle nostre mansioni. Durante la mia assenza erano arrivati moltissimi volti nuovi: giovani facce imberbi e vecchi avanzi di unità distrutte avevano preso posto lungo il limitare del bosco. Volevo impartire del sano nonnismo ma i miei sottoposti mi fermarono prontamente.
 “Lei è pazzo!” Esclamò Tom, intento a lucidare con meticolosa cura la corazza della Furia.
“Devo solo impartire loro le basi per una convivenza civile. Io comando, loro mi seguono. Quando mi vedono, devono cedermi il passo. Quando fanno qualcosa di utile, devo prendermi il merito. Non è difficile”
“Li lasci perdere, cazzo! Potrebbe finire a pugni. Basta che scappi il ferito ed immediatamente finiremo tutti in un battaglione di disciplina. Stanno aspettando la volta buona per eliminarci-”
Piccolo, dolce, tenero soldatino di zinco. Mi avvicinai a lui, sfoggiando la mia espressione migliore, quel misto di compassione e delicata saggezza che tanto faceva impazzire i miei sottoposti.
“Finché io vivo non le succederà nulla, Weisz. Si fida di me, del suo superiore, il Capitano Bastian Faust, insignito della croce di latta*** nel ventinove febbraio millenovecento quarantatré?”
Vidi un vivido cipiglio di disappunto nel suo volto. Una lunga ruga si corrugò lungo la sua fronte mentre, con le mani, eseguiva un calcolo veloce.
“Ma febbraio non ha ventinove giorni”
“Quest’anno si”
“Non è vero”
“Osa contraddirmi?

 Con un ringhio Tom lanciò lo straccio per terra, biascicando un lungo e vivace insulto.
Difficile accettare la sconfitta.


 
 
 
 
 
 
 
Note:
*Citazione dal libro "Comma 22". Calzava talmente bene con il Capitano che non potevo esimermi dall'inserirla.
** Rubata. In qualche modo.
*** Quest'onorificenza non esiste. Potrebbe essere un contentino. Le date numeriche sono scritte nella loro interezza per sottolineare la grandiosità del fatto.
 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


“Come si sente, Herr Faust?”
“Determinato, assolutamente. Questo incarico è favolosamente ambizioso, ma il futuro del Reich è al sicuro nelle mie mani”
Non ricordavo come fossi finito in questo posto. Credo fosse una specie di comizio gigantesco come quelli che si vedono al cinema. A quanto pare il pezzo forte sono io, semisepolto sotto una marea di mostrine e rispetto reverenziale.
Il pubblico era esploso in un boato d’approvazione, un’ovazione unanime nei confronti di colui che, indubbiamente, era il migliore soldato del fronte orientale.
“La sua genia è talmente preziosa che sarebbe un peccato se svanisse con una eventuale e prematura morte al fronte. Dunque, è necessario che presti regolare servizio negli speciali reparti nascite.” *
Mostrai il mio sorriso migliore, salutando alcune dolci fanciulle con fare lascivo.
Mi divoravano con gli occhi, le golosone. Mettetevi in coda, carissime. C’è un po’ di Bastian per tutte voi…
“Sono lusingato, Herr. Questo lavoro non necessita paga. Per me è un onore, sono soltanto un piccolo ed umile servo della Nazione...ed ora mi scusi, ho molto lavoro da fare”
Ci congedammo con un’affabile stretta di mano, prima di allontanarmi verso l’orda di insaziabili fanciulle che allungavano la mano verso di me con la speranza di toccarmi come una specie di feticcio portafortuna.
Con movimento seducente mi sfilai gli occhiali da carrista, lasciando scoperti i miei profondissimi occhi azzurri. Toccate dal mio sguardo uhm...penetrante, alcune svennero in preda ad un’estasi quasi divina.
Avidissime, le delicate pulzelle mi saltarono addosso ferocemente, riducendomi a brandelli i vestiti e straziandomi la carne con le dita.
Baci, graffi e morsi vennero lasciati sulla mia pelle in pegno d’amore. Ferite sempre più profonde ed io, incapace di reagire, annaspavo in una dolce e lieta estasi, sempre più profonda, culminando infine in un dolce piacere…
“Herr Faust”
“Vi prego, dolci signore, mettetevi in fila, non siate ingorde...”
“Herr Faust, sono il Dottor Biermann, si svegli.”
“Si metta in fila anche lei, il buon Bastian non discrimina nessuno...”
“Se non fosse sotto anestesia potrei denunciarla per queste parole, con buona grazia di tutti”
Avevo gli occhi pesanti. Aprendoli, un fascio di luce mi investì, costringendomi a chiuderli nuovamente.
Sollevai un braccio, indolenzito. Aiutandomi con l’altra mano riuscivo a distinguere i contorni delle figure...
“Cosa...cosa mi è successo?”
“È stato ferito, Herr. Se non fosse stato per i suoi uomini probabilmente sarebbe morto…E va bene, morto no, ma sarebbe potuta andare molto diversamente, si fidi.”
 “Mi dica una cosa, dottore.”
“Cosa?”
“Dove sono le fanciulle?”
“Quali fanciulle?”
“Quelle fanciulle, le ragazze del progetto nascite. Erano centinaia e mi desideravano intensamente...” mugolai, rigirandomi sul lettino alla ricerca di una posizione migliore.
Nonostante la mia temperanza d’acciaio, quel giorno, avevo uno spasmodico bisogno di loro.
Oppure una doccia fredda, nonostante preferissi caldamente la prima opzione...
“Deve aver fatto un bellissimo sogno, a quanto pare. Se lo goda finché può. Ora, con permesso, devo andare a controllare gli altri pazienti. C’è un tale che ha perso tre dita durante un’esplosione ed io non vedo l’ora di levargli tutta la mano...con permesso...”
Così il dottor Biermann mi abbandonò, seguendo a grandi falcate due deliziose infermiere che trasportavano su una barella un pover’uomo con una vistosa fasciatura alla mano.
Tastai il mio, di braccio. Con un singulto, immediatamente mollai la presa. Quel dannato traditore doveva avermi sparato.
Ah! Che mira disgustosa, il traditore! Poteva uccidermi facilmente...invece tutto ciò che era riuscito a fare era una strisciata di proiettile...nonostante fossi fermo…
 
 
Chiamai i miei sottoposti. Circondando il mio capezzale come un lebbroso in procinto di morire, gli uomini posarono i cappelli ai piedi del letto, chinando la testa in un rispetto riverenziale.
“Capitano...” Klaus si fece avanti, tossendo rumorosamente. Batté un paio di volte le mani sul petto, come se stesse soffocando.
Poi parlò.
“Il fuggiasco...il traditore...non so come sia potuto succedere, sono desolato...”
A questo punto fui io a tossire e lo feci il più forte possibile, come se volessi rigurgitare i miei polmoni e, possibilmente, tutto ciò di cui era composto il mio corpo.
I miei uomini fecero qualche passo indietro, scambiandosi sguardi colmi di preoccupazione. Da lontano, il dottor Biermann mi lanciò un’occhiata soddisfatta, facendo scintillare un paio di enormi forbici metalliche.
“Sto bene, sto bene” Precisai, schiarendo la voce.
“Siete voi ad essere malati. Era esattamente dietro di me e non avete osato fermarlo...nemmeno un misero tentativo”
“In realtà, Herr, il cane ci ha provato ma...”
Il cane! Mi alzai in piedi, mugolando sommessamente. Tom cercò di sostenermi, appoggiando tutte le cinque dita sulla ferita. Grugnii per il dolore e persi l’equilibrio. Caddi stupidamente sul lettino, aiutato da quella manica di imbecilli che sembravano più propensi a peggiorare il mio soggiorno in infermeria anziché agevolarlo.
“Dov’è Fiete?”
“Fuori, non lo hanno lasciato entrare.”
Sono felice che stia bene. È un dolce cucciolo di circa dieci chili, coraggioso come un leone.
“Gli ha strappato la mostrina, Herr. Ora sappiamo chi sia”
“Lo sapevamo già”
“Ma ne ora abbiamo la certezza”
“Anche prima ne avevamo la certezza”
“Ma ora siamo più certi della certezza”
“...Andatevene” Implorai, facendo sprofondare la testa nel cuscino e socchiudendo gli occhi.
Si congedarono con tono sollevato, sparendo dalla mia vista in un colpo d’occhio.
 
 
Odiavo quel posto. l’ospedale... la puzza di sangue e disinfettante mi dava la nausea, letteralmente. Stranamente non c’erano sono molti feriti, così il dottor Biermann poteva passare le giornate diviso tra le infermiere ed i suoi amati soldi.
L’armata corazzata non perdona, niente come un carro armato può trasformarsi in una vera e propria trappola mortale. Chi viene colpito spesso vi rimane, ahimè.
Era tardo pomeriggio e, ancora in convalescenza, non trovai niente di meglio da fare che scrivere una lettera a mio fratello...dovevo assolutamente raccontandogli di quanto desiderassi farmi crescere i baffi a manubrio per fare la caricatura di Guglielmo secondo. Concentratissimo, stavo colmando la lettera di vanterie quando udii un forte vociare. Infermiere e dottori sciamavano a fiumi tra le stanze, sistemando lettini ed imprecando a gran voce. Qualcuno urlava, altri piangevano. Di sfuggita vidi questo soldato abbandonato nella sua branda che strillava come un disperato. Avrà avuto sì e no vent’anni e chiamava a gran forza la sua famiglia, in preda a deliri febbricitanti. Le gambe erano state tranciate di netto e non c’era posto per operare. Persi alcuni battiti quando lo riconobbi.
Era un ragazzetto di poco conto, una nuova leva. Si era presentato a me tempo fa con un enorme sorriso ed un saluto riverenziale e per questo gli avevo permesso di godere della mia compagnia.
Non ricordavo come si chiamasse, né la sua provenienza.
Cosa serve, adesso?
Quando un chirurgo si liberò oramai era troppo tardi. Le infermiere avevano tentato il miracolo ma non c’era più posto per lui. Spirò in un lago di sangue mentre l’equipe tentava l’impossibile.
Succedeva tutti i giorni, era oramai normale. C’è una specie di disgustoso appagamento nel pensare che sia successo a lui e non a me. Stracciai la lettera e mi rigirai sul fianco, osservando il muro bianco e marcio fin quando il sonno non ebbe la meglio su di me.
 
 ╬
 
Passarono i giorni.
Tempi quieti in cui non successe nulla, se non l’allungamento miracoloso delle vite di molti soldati che, finalmente, ebbero tempo di riposare.
Avevamo diversi passatempi: alcuni giocavano a carte, altri bevevano ed altri ancora giocavano a carte bevendo. Io, modestamente, facevo parte dell’ultimo gruppo.
Prima di finire i soldi e creare un giro di strozzinaggio tra camerati, decidemmo di organizzare un torneo di calcetto. Si sarebbe tenuto domenica, in modo tale da avere tutta la settimana per allenarci.
Raccolsi il guanto di sfida con determinazione. Essendo il capitano delle “furie nere” sottoposi i miei uomini ad un rigido allenamento: anticipando la sveglia di un’ora iniziavamo l’allenamento con una corsa di circa dieci chilometri, proseguendo con alcuni semplici esercizi. Cento piegamenti sulle gambe e cento sulle braccia una volta al giorno per sette giorni sarebbero stati sufficienti per garantire la vittoria. Facevamo tutto in gran segreto, nascondendoci nei boschi fitti, lontani da sguardi indiscreti di eventuali concorrenti desiderosi di strapparci la nostra preannunciata e meritata vittoria.
Io, ovviamente, non avevo bisogno di questo allenamento. D’altronde sono il loro capitano, sia nel gioco che nella vita reale. So decidere cosa sia meglio per me e, soprattutto, per loro.
Martin, nel tempo libero, adorava costruire cose. Sotto mio suggerimento aveva creato un pallone speciale per i nostri allenamenti top-secret, un sasso di circa cinque chili completamente levigato che rotolava meravigliosamente. Ci accingemmo dunque a pregustarci un allenamento vero in una terra piana e battuta, l’ideale per una partita di calcio.
Quando diedi il calcio d’inizio, però, la palla rotolò pigramente per qualche metro. prima di schizzare in aria con un lapillo, sollevando una nuvola di terra ed erba.
Eravamo finiti in un campo minato.
Nessuno cercò di riprendersi la palla.
Arrivò il sabato. Una bellissima giornata di sole, oltretutto. Come al solito ci svegliammo di buona ora per andare ad allenarci tra i campi d’erba e terra battuta, dove l’ultima neve stentava a sciogliersi.
Al nostro ritorno la brutta notizia: non ci sarebbe stato nessun torneo di calcetto domenica.
Maik trovò estremamente divertente il fatto che avremmo dovuto riempire di calci i russi e non uno stupido pallone.
Io, a sua differenza, non lo trovai così divertente. Feci notare al Generale che non potevamo essere inclusi nella missione perché avevamo la nostra personalissima da seguire. Lui mi rise in faccia e, congedandomi con una pacca sulle spalle, mi disse di fare l’uomo e di tirare fuori le palle.
Ora, io ho una paura fottuta di quell’uomo. Più di ogni singolo stalinista presente da qui alla Siberia. Ingoiai qualche pasticca giusto per rilassare un po’ i nervi. Forse per questo presi un po’ troppo alla lettera le sue parole e, per punizione, venni cacciato in prima linea per questo gesto che considerò estremamente irrispettoso.
Non imparai la lezione nemmeno questa volta.
 
 
Marciammo in colonna, cigolando rumorosamente tra le scie lasciate dai nostri compagni. Ironia della sorte, aveva ripreso a nevicare. All’alba scendevano i soffici e minuscoli cristalli, sospinti da un rivolo di gelido vento, prima di trasformarsi in una vera tempesta dopo mezzogiorno, rallentando nettamente il nostro cammino. Ci fermammo.
I miei sottoposti sembravano piuttosto tranquilli, a modo loro. C’era chi come Tom fremeva per poter entrare a buon merito nella storia e chi, come Maik, aspirava semplicemente ad ampliare la sua collezione di cimeli russi. Aveva notato, con feroce disappunto, che tra i suoi macabri cimeli mancava un paio di occhiali da carrista russi. Avrebbe saccheggiato ogni T-34 che avremmo incontrato pur di poterne ottenere un paio.
Martin e Klaus parlavano di diserzione, raccontandosi truci storie di carri armati dati alle fiamme e degli uomini arsi vivi al loro interno come in un toro di Falaride moderno.
Io non avevo esattamente idea su come pensarla. Avevo preso un po’ di roba ed ero stordito come una campana, con tanto di tintinnio alle orecchie tonante come il duomo di Monaco.
“Ehi, Weisz”
“Capitano qui è Tom Weisz che le parla”
“Lo so, sono stato io a contattarla”
“Vede qualcosa all’orizzonte?”
“No, ma senta: sa qual è il colmo per un graduato? Avere come fratello minore un Maggiore! Eh, che ne pensa, Weisz? Weiz?”
Quel bastardo aveva interrotto la comunicazione. La riattivai.
“Ed il colmo per per un crociato? Cosa fanno tre russi al bar?”
Questa volta mi mandò a quel paese talmente forte che non ebbi bisogno delle cuffie per sentirlo.
“Adesso la smetta con le sue stronzate! Sono occupato, io!”
“Weisz, è il Capitano Bastian Faust che le parla”
Il cielo era diventato tragicamente terso.
Sopra ogni grigiore un piccolo puntino ronzava chiassosamente sulle nostre teste. Planò leggiadro, sganciando una bomba a pochi chilometri di distanza.
Una, due, tre. La squadriglia mancò il ponte e risalì virando in cielo, rimettendosi in formazione.
“Prega che l’aviazione russa non ci veda. C’è un’intera squadriglia di bombardieri sulle nostre teste che potrebbe mandare a puttane la nostra armata corazzata”







Note:
*Una visione personale del capitano riguardo il progetto Lebensborn 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Ivan Bykov era, probabilmente, uno dei migliori bombardieri russi in circolazioni.
Enorme e taciturno, ricordava vagamente un orso, con la sua mascella grossa e quadrata ed il naso rotto tristemente pendente verso destra.
Non tornava mai due volte sullo stesso obiettivo. Mai. Le bombe cadevano sempre nel punto designato, con un margine di errore pari allo zero.
Quella missione non doveva essere complicata. Qualcosa di semplice da aggiungere al numero delle missioni conseguite prima del congedo. Se avessero distrutto il ponte avrebbero impedito ai rinforzi nemici di raggiungere il loro obiettivo. Forse sarebbero riusciti perfino ad anticiparli, scaricando loro addosso una crivellata di colpi. Sarebbe finito tutto in poco tempo e lui avrebbe potuto far ritorno alla tenda per bere fino allo svenimento.
Quel giorno, però, colto dai fumi alcolici della serata precedente, mancò il ponte.
Le bombe caddero miseramente in acqua, esplodendo in una cascata di lapilli. Il ponte tremò appena e lui si maledisse, ringhiò forte ed iniziò a prendere a pugni la fusoliera, facendola vibrare leggermente.
Scoppiò una rissa. Il navigatore tentò di fermarlo, guadagnandosi un dente rotto.
Un secondo aereo, preoccupato per la rotta confusa che stavano seguendo, si mise in comunicazione con loro per chiedere chiarimenti. Una due, tre persone in collegamento che sbraitavano insulti minacciosi. Il giovane pilota, confuso e zigzagante, venne colto dal panico.
Persero quota, scendendo in picchiata, con il muso dell’aereo che trivellava verticalmente come una ballerina di classica.
Optarono per una fuga. Abilmente i quattro figuri si lanciarono col paracadute mentre, sotto di loro, l’aereo si schiantava in una nuvola di fumo e fuoco.
Dalla sua postazione, il capitano Bastian Faust poté godersi in diretta la fusoliera decorata dell’aviazione nemica schiantarsi abbastanza vicina da poter contare, al binocolo, le ventiquattro stelle rosse sul fianco e vedere la tigre spirare in una vampata di fuoco. *
 
 ╬
 
Ho avuto paura, davvero. Nessuno ci aveva avvertito di una squadriglia in azione.
Non siamo coperti! Dalla loro altezza credo ci vedano come delle aberranti formiche in fila.
Col binocolo ho seguito i loro spostamenti colmo di sincero interesse. Se tanto dovevo morire almeno prima mi sarei goduto un bello spettacolo.
Credo di essere stato graziato, da un certo punto di vista. Quando l’aereo è precipitato gli altri, confusi, hanno ordinato una ritirata e sono tornati indietro, seguendo una direzione opposta alla nostra.
Sempre detto io! Mai volare con il cattivo tempo!
Non so cosa sia successo. Però è stato divertente. Adesso potevo scorgere i figuri degli aviatori che scendevano malamente con i loro paracaduti aperti, zigzagando confusamente tra le spire gelide del vento.
Maik aveva già preso la mira.
“Aspetta” Lo intimai, lucidando maldestramente le lenti del binocolo.
“Per quanto mi riguarda, quei bastardi potrebbero essere già morti prima di toccare terra. Fa abbastanza freddo, non mi stupirei di ritrovarli a terra con mezzo dito di ghiaccio addosso”
Avevo ragione, come sempre. I figurini brunastri per un po’ vorticarono in cerchio tra le spire del vento, cercando di atterrare in un luogo sicuro.
Toccarono terra con suono soffice, sollevando maldestramente i loro musi rabbiosi verso di noi.
Non dovevano essere lì, assolutamente. Il vento li aveva portati fin qui come i semi dei soffioni.
Tremanti i soldati si alzarono, cercando impacciatamente le loro armi. Cosa potevano fare quattro pistole congelate contro un’intera divisione corazzata?
In risposta, intimai i miei sottoposti di direzionale il cannone verso di loro, nel caso si fossero dimenticati con chi avessero a che fare.
Dalle retrovie avanzò un vecchio ed inquietante sergente particolarmente poco avvezzo alle scalate sociali.
Con i suoi cinquant’anni e la schiena inclinata a quarantacinque gradi, diceva di essere lì per lo stipendio. Non aveva mai fatto nulla per meritarsi una promozione per questo da almeno venticinque anni ricopriva il medesimo ruolo, trascinato da una ignavia quasi leggendaria.
A suo vanto, però, sapeva molte lingue, tra cui il russo. Lo parlava delicatamente e fluentemente. Si diceva, per questo, che fosse un fervente sostenitore del comunismo. Sguinzagliarono un po’ di persone deliziosamente pronte a sbatterlo in galera, ma nessuno ci riuscì. Forse per questo è costretto a vivere incastrato per sempre nel suo ruolo in un girone di ignavia, senza poter salire o scendere.
Il Sergente si avvicinò a passi lenti ed affabili. Li avremmo presi come prigionieri, interrogati ed infine spediti lontano da qui a farsi una bella vacanza assieme ai loro simili.
Quelli, però, si spaventarono. Gracchiarono qualcosa tra loro ed aprirono il fuoco, sparando diversi colpi alla rinfusa prima di scappare a grandi balzi nella neve, inciampandosi tra i fili dei paracaduti mentre cercavano di sfilarsi gli zainetti di dosso.
Solo in quel momento diedi l’ordine di aprire il fuoco.
Caddero nella neve in un tonfo muto.
Quando ci avvicinammo per controllare, uno di loro era ancora vivo. Con un proiettile nella gamba cercava di strisciare come un grosso verme, urlando feroci parole a noi incomprensibili. Divenne nostro prigioniero.
Fu una giornata particolarmente piatta, in un certo senso. La tempesta di neve era cessata da un po’, lasciando il posto ad un cielo candidamente bianco ed un silenzio ovattato.
Almeno, nella più magra delle consolazioni, nessun altro aereo avrebbe potuto alzarsi in volo con tutta questa neve per terra.
In serata, in ogni caso, riuscimmo a ricongiungerci con uno spaurito gruppo di alleati brutalmente asserragliati sotto una coltre di ghiaccio. Dalle tende uscirono un paio di soldati infreddoliti, seminascosti sotto uno spesso di passamontagna. A stento si riuscivano a distinguere le minuscole fessure degli occhi.
Mal equipaggiati ed al limite dello sfinimento, possedevano un’inquietante numero di tende vuote, spiritualmente occupate dalle anime dei caduti. Le occupammo noi, due per tenda, stretti stretti, senza osare toccare i piccoli reliquiari dei vecchi ospiti.
Facendo valere il mio grado, cercai di farmi assegnare la tenda vuota più prestigiosa. Riuscii a strappare il posto di un maggiore rivelatosi, successivamente, un covo di soldati semplici deceduti per il freddo esattamente in quella tenda.
Passai la notte senza chiudere gli occhi. Ero abbastanza convinto che il mio giaciglio fosse infestato.
Avevo i brividi. Il riscaldamento era fiochissimo e dovetti ringraziare, a posteri, il buon Weisz che decise di tenermi spontaneamente compagnia per creare una specie di effetto stalla generato dal suo rotolare e russare nel sonno.
Nascosi la pistola sotto il cuscino, senza sicura e caricata con le pallottole dalle sfumature più argentee che possedevo.
In caso di...fantasmi, ecco.
 
 
Successe il fattaccio.
Nessuno ci aveva minimamente avvertito di un tale che ogni notte, alle due, emetteva un urlo straziante, colto dal medesimo incubo che si ripeteva incessantemente ogni volta.
A suo detto sognava di svegliarsi morto, per questo urlava-
Così, quando sentii la sua voce straziare la notte, venni colto dal panico.
Con sangue freddissimo sfilai la pistola dal cuscino. A questo punto ebbi l’assoluta certezza che la tenda fosse infestata perché partì** un colpo che sfibrò la brandina, piantando il proiettile a terra in un’esplosione di fanghiglia e tessuto e provocando un rinculo straordinariamente potente che mi fece cadere vergognosamente sulla schiena, ritrovandomi ad annaspare come un enorme scarafaggio.
“Weisz”
Chiamai il giovane pilota, ancora abbracciato teneramente al suo cuscino e con un rivolo di bava che scivolava dalla sua bocca socchiusa e russante.
“Weisz, non disobbedisca agli ordini di un suo superiore. Mi dia una mano prima che sporga un reclamo ufficiale per...al diavolo”
Dato che il mio sottoposto pareva ancora dormire della grossa, decisi di alzarmi da solo, grugnendo infastidito. Per tutta la notte non riuscii a chiudere occhio.
Rimasi seduto sulla brandina con la pistola in mano, rigirandola tra le mie dita come una vecchia granata inesplosa finché il sole non sorse.
Uscii dalla tenda inondato dal sole. Fu una sensazione deliziosa per le mie membra indolenzite da una pessima nottata.
Non avrei dovuto preoccuparmi di ciò che succedeva attorno a me – è sempre cosa buona e giusta tenersi lontani dai casini, come se non ce ne fossero già abbastanza- ma, di sfuggita, seguii un vecchio maggiore che, a quanto pare, stava scortando l’aviatore russo catturato il giorno prima.
Seminascosti tra alcune casse di vecchia legna umida, i due uomini ebbero una semplice discussione fatta di grugniti ed incomprensibili parole. Si scambiarono alcune sigarette in silenzio prima di accorgersi della mia ingombrante presenza intenta a farsi i cazzi altrui.
“Ohi, Faust” Il Maggiore accolse con inusuale allegria la mia presenza. IL superiore era un bonaccione dedito al vino, che trattava tutti come se li conoscesse da una vita.
“Non mi piace prendere decisioni affettate, sa. In realtà non mi piace proprio prendere decisioni. Il Generale mi ha parlato di lei” Sghignazzò, puntando l’indice verso di me, prima di inspirare l’acre e disgustoso finto tabacco.
“Non so cosa farmene di questo qua. Secondo lei è giusto fucilarlo? Sarebbe così gentile da farlo al mio posto. Sa, non ho più l’età per fare certe cose”
Il bombardiere, in risposta, grugnì forte, schiacciando la sigaretta tra le dita. Mi rivolse un flebile sguardo, prima di abbassare lo sguardo in un profondo disgusto.
Imprecai mentalmente. C’è un intero staff di uomini pronti a decidere per la sorte di un uomo, perché cercare me, umile carrista bavarese con un buco nella branda ed una feroce insonnia.
“Un mio sottoposto sarebbe molto lieto di farlo”
“Sta disobbedendo ad un mio ordine. Deve prendere una decisione al mio posto”
“Per errore sono stato imprigionato una settimana e si fidi, con la zuppa di rape parlerà-”
“Sta travisando la mia domanda, Faust. Dobbiamo fucilarlo?”
“Forse ha bisogno di tempo-”
“Sì o no”
“No”
“Non è la risposta che desideravo”
“Allora fuciliamolo”
“Lo faccia lei”
“Perchè io”
“Perchè l’ha deciso lei.”
“Ma ha deciso lei di far decidere me.”
“Vada ad ammazzarlo nei boschi e non torni finché non sarà morto per bene. Tanto ha una pistola, no? L’ho sentita stanotte. Non vuole che faccia un reclamo, nevvero? “
 
 
L’aviatore mi seguì senza fare storie.
“Senta, buon uomo. Io non ho niente contro di lei, davvero. Io volevo un po’ di gloria personale, sa. Tornare in patria pieno di lustrini e deliziose e provocanti signorine che non desiderano altri uomini all’infuori di me. Sa no, cose così. Stanotte ho dormito male, la mia tenda era infestata ed un fantasma ha fatto partire un colpo dalla mia arma. Ho mal di schiena ed un sonno allucinante...”
Заткнись” ***
“La ringrazio per la comprensione. È un grand’uomo. I migliori muoiono sempre, lo dico, io! Tranne me, ovviamente. O forse morirò anche io, chissà. Mi faranno un gigantesco monumento e tutti studieranno le eroiche gesta di Bastian Faust, la furia nera. Anche se, a detta tutta, preferirei vivere ancora un po’. Vorrei avere tanti dolci nipotini un giorno a cui raccontare grandiose storie di guerra davanti al camino. Mi adoreranno...”
Заткнись
“Anche lei? Ha figli in patria? Non sono sposato ma chissà...”
Sentii uno schiocco sordo e soffocato. Mi sentii umido in volto.
Toccandolo, scoprii di essere sporco di sangue.
Accanto a me l’aviatore aveva decisa di farla finita piantandosi qualcosa nello stomaco. Un pezzo di ceramica affilato, che trivellò nelle sue carni fin quando non fu abbastanza profondo da fargli perdere l’equilibrio, cadendo a terra in preda a spasmi di dolore incontrollati.
 
 
 
Ivan Bykov accettò di buon grado il suicidio d’onore. Meglio morto che prigioniero tedesco, pensò, mentre quell’affare petulante ronzava nella sua incomprensibile lingua.
Non sarebbe andato molto lontano con quella ferita alla gamba.
Forse i lupi lo avrebbero trovato prima dei tedeschi e lo avrebbero ammazzato. O forse avrebbero provveduto i suoi stessi compatrioti ad ucciderlo. Gli avevano sequestrato tutte le armi, così era rimasto con un coccio di piatto affilato e discreto, nascosto all’interno di una manica.
Nonostante nella notte avesse avuto qualche dubbio sul suo suicidio, quel tipo petulante aveva consumato tutte le sue forze e, soprattutto, la sua pazienza.
Mentre il silenzio annebbiava i suoi sensi Ivan sorrise nervoso, riacquistando quella quiete che quel dannato tedesco lo aveva privato.

 
 
“E’ stavo un lavoro semplice e pulito” Dissi trionfante, con il volto ancora grottescamente incrostato di sangue.
“Ottimo, Faust. Può andare.”
“...E basta?”
“Mi provoca ribrezzo con quella macchia rossa in faccia”
Ferito ed incompreso me ne andai a testa bassa, raggiungendo i miei sottoposti che, confusi, non fecero domande, nonostante fossero desiderosi di sapere cosa fosse successo durante quella dura e lunga notte.
Quel campo era davvero infestato.
 
 
 
 
 
 
Note finali:
*Si fa riferimento ad un bombardiere Tupolev Tu-2
Spesso gli aerei, soprattutto quelli americani, possedevano fusoliere decorate con animali, pin-up o simboli. Molte volte segnavano i nemici abbattuti con simboli, in questo caso stelle rosse.
** Il colpo lo ha fatto partire lui.
*** Stai zitto.  In cirillico per accentuare il senso di incomprensione tra i due.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Eravamo giunti da poche ore al nuovo campo e già stavo avendo problemi.
Aggirandomi tra le tende come un fantasma errante, studiavo la zona con vago interesse, impegnato più a non crollare dal sonno che a calcolare la distanza tra la mia tenda e quella dell’infermeria.
Non era molto diverso dagli altri: un’immensa pianta rettangolare delimitava i confini, cintata disordinatamente da massicci cumuli di terra schiacciata ed assi di legno che dovevano servire, teoricamente, ad impedire entrate ed uscite indesiderate.
Dall’ingresso una compatta fila di camioncini sfilava tra i sentieri di fango e nevischio, suonando stupidamente il clacson per avvertire gli altri del loro trionfale ingresso.
Era arrivato un rifornimento massiccio di alimenti.
Rape, per la precisione. Sei enormi vani di rape violacee e terricciose con le loro cime verdastre segnavano l’inizio della nostra ignobile fine.
Il Generale, seguendo il buon e pacifico esempio del nostro Fuhrer, aveva deciso di limitare il consumo di quella carne oramai rara a favore di un’alimentazione strettamente basata su verdure, in particolare rape, cavoli, patate ed asparagi bianchi che giungevano dalle nuove e floride terre polacche.
Fu un successone. Limitato l’uso del surrogato di tabacco nella divisione, il Generale si accingeva a stringere il cappio sui suoi uomini creando un disastroso malcontento tra le truppe ma ricevendo i complimenti per iscritto da una segretaria del grande capo delle SS* che aveva davvero a cuore l’ambiente e gli indifesi cuccioli di bosco.
Dunque, dopo dieci giorni passati a far scivolare nei nostri stomaci acqua sporca di rape, decisi di agire.
Chiamai i miei uomini in raccolta nella mia nuova e personalissima tenda sei posti che occupavo da solo. Dopo l’incidente di qualche sera prima avevo chiesto di essere trasferito, così mi avevano assegnato questa solitaria bellezza dove potevo regnare incontrastato.
Li misi in fila, sull’attenti.
“Soldati” dissi, passeggiando con sguardo torvo dinnanzi a loro per manifestare appieno l’influenza del mio grado su di loro.
“Oggi faremo una battuta di caccia. In tutta franchezza mi ci pulisco il culo con i nuovi ordinamenti.
La carne, il tabacco e la cioccolata sono i tre pilastri della vita militare. Assieme alle baldracche ed il Pervitin ** rendono questa vita del cazzo un po’ più sopportabile.
Il fumo è praticamente sparito, la cioccolata ha un sapore orribile, la carne bandita ed io non ho intenzione di sapere cosa succede nelle vostre tende.
Ci rimangono le pastiglie, a conti fatti. Quindi andiamo in quei boschi e cerchiamo di prendere quante più bestie possibili. No, Gerste, non intendo fare cannibalismo mangiando carne di soldati russi. Con questo è tutto. Obiezioni?”
Martin e Klaus alzarono timidamente la mano. Sicuramente avevano da avanzare codarde ipotesi di condanne a morte ed epiloghi vigliaccamente tragici. Li ignorai.
“Nessuno, ottimo. Lucidate le armi, partiremo tra un’ora
 
 
Sfruttammo quella giornata di intenso nevischio ed azioni militari sospese per cacciare.
Poco distanti dal campo vi era un fitto bosco di sempreverdi diligentemente posizionati a scacchiera, intervallati da piccoli massi freddi ricoperti di muschio.
Nascosto comodamente dietro un pino, fischiai un ordine al mio cane.
Fiete, il cane, aveva localizzato una tana dove alcuni conigli avevano trovato rifugio. Con la loro pelliccia bianca e gli occhi rossi, sembravano dei teneri demoni.
Guaendo rumorosamente la bestiola si accucciò poco distante dalla tana, scodinzolando nervosamente e puntando il muso verso il nostro prossimo pasto.
Diedi ordine di sparare. I conigli, spaventatissimi, balzarono via dalla tana.
Fu uno spettacolo incredibile. Non ne avevo mai visto così tanti in vita mia. Decine di leprotti bianchi che correvano maldestramente lungo le pendici delle soffici colline coperte di ovattata neve, sparendo tra le lunghe file di alberi a grandi balzi.
Non ci rassegnammo. Sparammo fin quando non esaurimmo le munizioni.
“Ottimo lavoro, soldati“ Constatai, alzandomi in piedi. Ero rimasto accucciato per parecchio tempo, così le mie ginocchia si erano intorpidite un po’.
Scrollandomi gli aghi di pino e la neve di dosso, realizzai di quale carneficina eravamo stati gli artefici.
C’erano macchie di sangue ovunque. E, tra tutto quei piccoli puntini rossi, scorgevamo con difficoltà le livree bianche dei conigli che ruzzolavano giù dai lievi pendii del terreno.
Ci impegnammo per recuperare i deliziosi e mimetici bottini disseminati ovunque. Con tutto quel casino mi stupii di averne abbattuto solo cinque. Li posammo per terra, in fila, e scattammo una foto commemorativa.
Poi il dubbio.
“Adesso cosa facciamo con questi? Dobbiamo sbarazzarcene. Se dovessero scoprirci, Herr...”
Klaus tremava e non ne ero stupito. Dal freddo o dalla paura l’importanza era poca. Si era perfino rifiutato di partecipare alla foto di gruppo offrendosi di scattare la foto.
Una prova, la definiva. Se avessero sviluppato quel rullino sarebbe morto fucilato, diceva.
Uno lo mangiamo. Weisz, prepara lo spiedo”
“Ricevuto, Capitano!”
Avevo nascosto un bel coltello a serramanico in una tasca interna.
Facendo scattare la lama mi accinsi a pulire il coniglio. Lo avevo fatto più di una volta, piccoli trucchi di sopravvivenza militare. Con una piccola incisione sotto la gola, attraverso la pancia e sulle zampe si poteva sfilare la pelle, per…
“Capitano Faust”
“Sono impegnato. Se non mangio adesso questo fottuto coniglio rischio di impazzire”
“Mi duole immensamente interromperla, ma non crede anche lei che se accendessimo un fuoco qua, nell’ipotesi effettiva che attizzi, non sarebbe pericoloso? Ci vedrebbero tutti...il fumo”
Sbuffai. Aveva ragione ma non potevo comunque ammetterlo.
“Lo cucineremo nella mia tenda. Ho una stufa fantastica. Ci faremo un surrogato di caffè mentre aspettiamo che la carne cuocia. Ho delle mele selvatiche, potremmo farcirlo”
Così fu. Infilammo i conigli dentro un grosso sacco di iuta e silenziosamente scivolammo lungo i pendii del bosco, tornando alla minuscola conca pianeggiante dove sostava il campo base. A questo punto incaricammo Tom, particolarmente smilzo e non troppo alto, ideale per il ruolo, di arrampicarsi oltre la barricata e strisciare sotto le assi di legno per passare dall’altra parte senza essere visto. Sgattaiolando sotto i legni il salto era approssimativamente di un metro. A quel punto gli avremmo lanciato i conigli senza dare nell’occhio e saremmo passati dall’entrata fischiettando, come se nulla fosse accaduto.
E funzionò. Non avevamo i permessi per uscire, ma nessuno si accorse di noi. Solo il Dottor Biermann, intento a fumare dell’acre tabacco fuori dalla tenda-ospedale.
Era un genio incompreso, quell’uomo. Soffiava nuvolette di fumo forma di anello, osservando nostalgicamente il cielo. Congedai gli altri e mi diressi verso di lui.
“Il mio Capitano preferito. Passato il mal di stomaco?”
“Colpa della zuppa di rape”
“Peccato” Il dottore si schiarì nuovamente la voce prima di inspirare nuovamente dalla sigaretta.
Me ne offrì una, ma la rifiutai.
“Senta. Si ricorda del piede...dei trecento marchi...” Mi avvicinai a lui, rendendo la mia voce più flebile di un sussurrò. In risposta il medico si sporse appena verso di me, annuendo.
“Non li ho. Però abbiamo dei conigli”
“Conigli?”
“Abbattuti in giornata “
Biermann arricciò le labbra, corrugando la fronte in un’indubbia espressione pensierosa.
“Pensavo che, dopo settimane passate a mangiare rape, potesse essere un’offerta interessante”
Nei suoi occhi chiari si poteva scorgere l’ombra di una tacchinella ripiena ed una bottiglia di rosso d’annata. Due portate di cinghiale, una di cervo e qualche lepre arrosto. Una distesa di funghi che dal Reno scendeva fino al Danubio e da lì risaliva…
È fatta”
“Stanotte mi raggiunga in tenda. Faremo una partita a carte e le consegnerò il coniglio. Non lo faccia sapere in giro, il generale potrebbe insospettirsi”
“Si fidi di me”

 
 
Si creò un traffico illegale di carne.
Lepri, fagiani, cervi. Ogni uccello del cielo ed ogni pesce del mare.
Ogni sera, uscendo dalla mensa, mi ritrovavo attorniato da voci sussurranti provenienti da ogni anfratto del campo militare.
 “Ehi” mi sussurravano, nascosti tra le casse di legno e le ruote bucate.
 “Hai della pernice? Posso darti del tabacco. Tabacco vero”
 “Desidero mangiare merluzzo prima di morire. Ho delle bende, possiamo barattare”
Ehi, ehi ehi. In un battibaleno mi ero ritrovato il magnate delle carni.
Tutta colpa di Biermann che, ingenuamente, aveva deciso di dividere quel dannato coniglio in cambio di mezza brocca di vino vero.
Doveva essersi lasciato sfuggire qualcosa in preda agli effluvi alcolici.
Piccoli, insignificanti particolari che conducevano a me.
Li ritrovavo in tenda, in missione, ovunque.
Perfino dentro al carro armato.
“Ehi” mi chiamavano, mettendosi in collegamento con noi.
 “Hai del coniglio? Non mangio carne da una vita”
Era Becker che parlava. Un capocarro insignificante di cui probabilmente continuerò ad ignorare l’esistenza come ho sempre fatto.
 “Siamo in missione, soldato” Chiusi la comunicazione all’istante mentre quello tentava disperatamente di convincermi a cedergli il coniglio nonostante avesse, perfettamente davanti agli occhi, il lungo e minaccioso cannone di un T-34 pronto ad aprire il fuoco...
Avevamo passato quel dannato ponte mai bombardato e nessun aereo russo era più tornato sull’obbiettivo con l’intenzione di demolirlo. Non era una posizione particolarmente importante ma, in qualche modo, necessaria e di utilità assoluta.
Davanti a noi si stagliava una distesa di capannoni, fabbriche dismesse dalle lunghe ciminiere in mattoni traballanti che minacciavano di cadere da un momento all’altro.
Addentrandoci tra quel reticolo di strade di gelida terra brunastra capimmo subito di cosa si trattasse: una vecchia e dismessa fabbrica di armi.
Carapaci abbandonati di carri armati giacevano accatastati dentro i capannoni, tra i nastri di montaggio e strani apparecchi tecnologici. A giudicare dai gusci ossidati doveva essere passato molto tempo da quando la fabbrica era stata occupata ed i lavori cessati. Una piccola vittoria prima che i russi si spostassero abbastanza lontano da permettersi di tornare a produrre carri con una frequenza disgustosamente elevata. Tutto il materiale utile era stato prelevato: rimaneva un gigantesco cimitero di metalli consumati dal tempo ed occupati da uccelli o piccoli animali selvatici.
Per un po’ ci illudemmo di essere soli. L’aria rarefatta e pesante si condensava sui nostri volti spiritati, ghiacciandosi all’istante. Riemersi dalla mia postazione armato di binocoli per osservare eventuali movimenti. Le lenti si appannarono, così come i miei occhiali.
Maledissi il mondo prima di rientrare, chiudendo quel minuscolo sportello che divideva me dall’immensità del cielo.
Attivai la comunicazione con gli altri. Il morale dei miei uomini era basso, ma quello degli altri era forse peggio: neanche quando quattro furgoni sovietici ed un paio di carri sfilarono davanti ai nostri occhi loro si rassegnarono. Non era uscirne vivi che importava a loro. Era quella maledetta carne che contava.
“La prego, Capitano. Ho freddo...una mina anticarro ha fatto saltare in aria il nostro...fianco...sopravvivrò per quel coniglio o la perseguiterò negli inferi...” miagolavano, cercando di smuovere quella briciola di sentimento che mi era rimasta.
Così, mentre i carri sotto il mio comando continuavano a disobbedire e morire nel tentativo di corrompermi, decisi di proclamare l’anarchia e di agire da solo.
Facendo scivolare in gola altro Pervitin, promisi a me stesso che non avrei più toccato un fottuto coniglio in vita mia.
Un furgone da incursione ci tagliò la strada. Un passeggero alquanto coraggioso aprì il finestrino, dirigendo la testata di un Panzerfaust verso di noi.
Ci passammo sopra. Letteralmente. Sotto il peso dei nostri cingoli il mezzo roteò sulla sua stessa asse prima di ribaltarsi completamente.
Il nostro obiettivo era il T-34 che, come una sentinella, proteggeva l’ingresso del capannone principale.
Doveva essere stato appena prodotto, quel carro. Ergendosi prepotentemente nella pianura il cannone ruotava piano, cercando di prendere la mira sulla parte bassa dello scafo.
Dovevo aver esagerato con il Pervitin. Con il cuore a mille non riuscivo più a sentire nulla, nonostante Tom stesse urlando dall’interfono, implorando una deviazione. Abbandonai la mia postazione e scivolai da lui.
 “Andremo dritti verso di lui e gli sfonderemo il culo. Martin...Klaus. Caricate”
A posteri fui sollevato dal fatto che Tom non avesse eseguito gli ordini.
Mi sentivo improvvisamente il capocarro più figo degli ultimi cinquant’anni.
Più del solito, si intende. Ci posizionammo strategicamente dietro un capanno e, ruotando la torre, riuscivamo ad avere il muso coperto e la perfetta visuale sull’obiettivo.
“Non avevo forse ordinato una carica? Tom? È un ammutinamento, questo?”
“Capitano, lo abbiamo in pugno. Si fidi di noi”
“Caricate, cazzo, Caricate e muovetevi!”
Un carro leggero piombò velocemente alle nostre spalle.
Fu un attimo e nessuno lo vide.
Straziò l’aria con una serie di colpi. Potevo sentirli rimbalzare tra le spesse pareti del nostro Tiger, graffiando la corazza con un tintinnio metallico.
 “Bene, Weisz. Ora siamo morti. Non si distragga. Stia fermo.
Ci sta distraendo, vedete? Se cambiamo obiettivo siamo finiti! Siamo completamente scoperti...”
L’incrociatore prese una via traversa. Avevo una gran voglia di fare l’eroe e, a posteri, fui contento di come i miei uomini riuscirono a tenermi a bada.
Finalmente Martin e Klaus si decisero a fare fuoco. L’impatto fu violento ed investì il T-34 nemico in una nuvola di fuoco.
Ammaccato ma ancora funzionante, il mezzo arretrò un poco mentre i suoi uomini si preparavano a colpire.
“Veloci, veloci!” Il mio tono fu quasi implorante. Era la nostra occasione.
Strinsi i denti quando partì la seconda carica. Il nemico arretrò ancora, macchiando il cammino con una scia di liquido vischioso e nerastro.
Avevamo preso il motore. Con un ghigno mi preparai allo spettacolo del carro fumante quando, inaspettatamente, il T-34 decise di dirigere l’ultimo colpo verso la torre del capocarro prima di saltare in aria.
 
 
Passai tre giorni in uno stato di dormiveglia. Ogni volta che chiedevo dei miei uomini il dottor Biermann mi zittiva, inducendomi nuovamente nel sonno.
Al quarto giorno in infermeria finalmente ebbi abbastanza forze per potermi rendere conto cosa era successo. Avevo un’antiestetica fasciatura alla testa ed una nel torso, talmente stretta che per qualche secondo temetti di aver perso le viscere.
“Buongiorno, Capitan Faust. Si sente meglio oggi?” Il dottore si avvicinò al mio lettino, osservandomi da dietro le lenti con uno strano sguardo di apprensione.
“Uno schifo, ma sarebbe potuta andare peggio. I miei uomini...
“Capitano...” Il medico si sedette nella brandina vuota accanto alla mia.
Mi porse una sigaretta, ma la rifiutai. Schioccò la lingua mentre l’accendeva, inspirando profondamente prima di soffiarmi tutto il fumo in faccia. Tossii.
“Ho due notizie. Una buona, forse due. Ed una molto, molto cattiva. Anzi, due cattive”
“Iniziamo dalle buone”
“La prima, Herr Faust, è che può considerare il suo debito nei miei confronti estinto. Nella sua assenza mi sono permesso di prendere in prestito alcuni conigli. Se vuole dopo le passerò una coscia arrosto sottobanco”
Avrei davvero voluto spaccargli la sua faccia da culo con un pugno, ma non avevo nemmeno le forze per sollevare la schiena. Ci provai, ma uggiolai di dolore e dovetti sdraiarmi nuovamente.
“L’altra notizia?”
“I suoi uomini stanno bene. Tutti e quattro. Se non fosse intervenuto il Capitano Becker sicuramente sareste morti”
“Capitano?”
“È stato promosso ieri per il coraggio mostrato sul campo di battaglia. Pensi, ha abbattuto un T-34 ed i due incrociatori!”
“Era il nostro T-34! Lo abbiamo abbattuto noi, quello!”
“L’altro. Per un coniglio ha deciso magnanimamente di non prendersi il merito...”
Sbuffai, implorando qualcosa per poter dormire ancora, magari in eterno, ma lui me lo negò.
“Facciamola finita e mi dica le cattive notizie.”
“Il suo cane ha cagato nella mia tenda”
“Si prenda tutti quei cazzo di conigli ma per favore mi dica le cose importanti!”
I suoi occhi si illuminarono per un secondo.
Poi parlò.
“La Furia è stata distrutta”






Note finali:
* Himmler amava davvero tanto gli animali, specialmente i cerbiatti, e detestava la caccia.
** Metanfetamina.  Per i loro uso massiccio sui tank tedeschi e austriaci le tavolette di Pervitin furono soprannominate Panzerschokolade, "cioccolato per carri armati".

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Mi trovavo in Infermeria, con la testa che mi scoppiava e la Furia distrutta che pesava sulla mia coscienza.
“Non proprio distrutto” mi corresse Biermann, rollando una nuova sigaretta.
“Lo definirei più...inagibile, ecco. Costa meno riciclarne uno vecchio che rimettere in sesto questo. Sia obiettivo, capitano. Non possiamo sprecare tempo e uomini per...Capitano Faust?”
“Voglio morire” miagolai, stendendomi nuovamente a letto, mostrando i denti dal dolore come un cane rabbioso.
Il dolore fisico si sommava a quello psicologico, non so spiegarlo. La Furia per me era una di famiglia, un po’ come i miei uomini.
“Non sia tragico. Sorrida e si goda le ferie. Vedrà che le cose si sistemeranno. Ne arriverà uno migliore. La guerra è piena di armi quanto il mare di pesci” Biermann si accomodò accanto a me, dandomi una specie di dolorosissima pacca sulla spalla fasciata, fumandomi praticamente in faccia. Tossii.
“Un altro Tiger? È quasi improbabile. In tutta l’unita ce ne sono...erano...ne è rimasto uno”
“Che ne pensa di un cacciacarri? come quello di Schneider...”
Rabbrividii.
“Non è un carro armato, quello! È un rettangolo con un cannone...”
Discutemmo a lungo di queste futilità mentre in me si faceva largo la disperazione nell’essere rilegato ad un carro di seconda categoria.
Dormii a lungo e feci un sogno terribile. Ero in una specie di enorme campo militare o, almeno, così sembrava. La terra battuta era stata sostituita da rigogliosa erba verde sulla quale era stata montata un’unica, minuscola, tenda.
Addentrandomi mi resi conto di non essere solo. Al centro c’era il dottor Biermann con il suo enorme e ghignante sorriso. Era seduto a gambe larghe e stava bevendo una bottiglia di Cognac, mentre due infermiere dai succintissimi abitini lo ricoprivano di attenzioni. Mugolai, sistemandomi sommessamente la cravatta, cercando di evitare di guardare cotanta delizia.
“Ah, Sergente Faust” disse il medico, esalando un disgustoso e tiepido fetore alcolico.
“Io non sono un Sergente Herr Biermann, io-”
“Oh, no, Signor Faust. Come tale ha bisogno di una vettura capace di soddisfare al meglio il suo ammirabile grado...”
Ed improvvisamente, in mezzo alla tenda completamente vuota, si materializzava un incubo ancora più profondo.
Un tristissimo Panzer I mi scrutava da lontano con le sue minuscole torrette come le antenne di una raccapricciante blatta. Piccolo e goffo, sembrava un giocattolo, un orrido scherzo della natura. Ero sconvolto e spaventato. Le mie gambe cedettero e divenne tutto nero, mentre la voce di Biermann si insinuava nella mia testa, ripetendo: “Sergente Faust, Sergente Faust...”
Mi svegliai grondante di sudore nel colmo della notte. Dovevano essere le tre, poiché, da qualche parte remota del campo, l’urlo del soldato che sognava di svegliarsi morto straziò l’aria.
Tutto il resto taceva. Le luci erano spente.
Nessun altro rumore.
“Ehi, ragazzo” Un sussurro mi chiamò. O almeno, pensai fosse rivolto a me, visto che ero l’unico sveglio nella tenda.
C’era un uomo. Era difficile distinguere l’età dei soldati, poiché in guerra tutti sembravano invecchiare più velocemente. Tranne per me, ovviamente. Dimostravo portentosamente la forza dei miei quasi ventisei anni…
“Si, tu. Che mi stai ignorando”
“Sono il Capitano Faust, Herr. Si rivolga a me con la riverenza che mi spetta” sibilai, voltandomi verso di lui.
“Mi presento. Sono Lagenberg. Hilbert Lagenberg. Mio padre è svedese ma le assicuro che sono un ottimo cittadino naturalizzato tedesco. Mi hanno recuperato qualche ora fa dopo essere stato investito da una motocicletta. Folle vero? Lei stava russando come un ghiro quando mi hanno portato qua”
“Sono le tre di notte” Gli feci notare, sibilando più forte.
“Pazienza, sono tutti gonfi di sonniferi! Sono il miglior cecchino naturalizzato tedesco di tutto il Reich. E adoro le motociclette. Lei non ama le motociclette? Ne ho una, rubata ad un russo. L’ho riverniciata io stesso. L’ho battezzata “dama dei venti” Dovreste vederla, è meravigliosa”
Non sono disposto ad ascoltare le vanterie altrui. A meno che loro non vogliano ascoltare le mie.
In tal caso, declinerò le loro parole con gentilezza e tornerò ad esporre le mie.
“Ne riparliamo domani, va bene? Buonanotte”  mi voltai sul fianco dolorante, dandogli la schiena.
L’uomo borbottò un poco, prima di tornare a dormire.

 


 

Mi prese in parola. Nella tenda filtrava la prima luce del mattino ed un sottile vociare riempiva l’immensa stanza. Ero riuscito a prendere sonno dopo molto tempo. Un sonno tormentato e senza sogni, ma almeno fu sanatorio.
Il sedicente cecchino mi svegliò. Mi chiamò a lungo, fin quando decisi a voltarmi, almeno per impedirgli di disturbarmi.
Si palesò la sua figura.
“Ma lei porta gli occhiali!” Fu uno shock per me. Mezzi fondi di bottiglia trasparenti che gli ingrandivano gli occhi come una specie di moscone.
“Oh, sì. Ma non preoccuparti. Sono il miglior cecchino miope naturalizzato tedesco che esista sulla faccia della terra” e ridacchiò, iniziando un fastidioso monologo sulle motociclette.
Lo ignorai. Preferivo pensare a quanto la mia nazione fosse caduta in basso per arruolare un tipo del genere. Lo consideravo uno spreco di risorse.
Però, in un barlume di genio, mi ricordai che il Generale definiva anche me uno spreco di risorse.
Ma era la mia parola contro la sua. Decisi che, indubbiamente, avevo ragione io e scacciai il futile pensiero.
“E’ tutto molto interessante, indubbiamente” Aggiunsi, sbadigliando come una bestia feroce, facendo attenzione a mostrare tutti i miei splendidi denti perché l’ho detto, ho un sorriso bellissimo. In guerra pochi soldati possono vantarsi di una dentatura così splendida.
“Ma lei è solo un triste e povero cecchino salvato di fortuna dalla nostra divisione Panzer. Io sono un Capitano. Guardi qua, che belle mostrine. Non le fissi troppo, si consumano. Le motociclette non fanno per noi. Usiamo mezzi ben più prestigiosi e meglio armati. Sa com’è il discorso. Vince sempre la canna più lunga. Due metri e mezzo dovrebbero bastare” Ghignai, esponendolo a tutto il mio incredibile charme. Rimasi circa venti secondi immobile, aspettando un qualsiasi tipo di reazione da parte sua.
“Meraviglioso. Assolutamente meraviglioso. La mia moto ha una potenza straordinaria. Spero l’abbiano portata qua. E se l’avessero rubata? Capisca, buon uomo. RUBATA! Rabbrividisco al pensiero che...”
Mi stava completamente ignorando. Quando Biermann mi disse che a breve sarei potuto tornare in servizio, gioii. Quel finto cecchino aveva entrambe le gambe spaccate, dunque sarebbe rimasto su quel lettino più di quanto potessi sopportarlo prima del collasso.

 

 

Dopo una permanenza che parve eterna, il mio inferno finii ed io uscì dall’infermeria. Coincidenza, era il giorno del mio compleanno, il primo aprile. Liberarmi di quell’uomo fu un regalo.
Avevo problemi ben più importanti a cui pensare che alle sue motociclette.
I miei uomini, ad esempio.
Ero al corrente del fatto che Tom si fosse beccato lieve ustione, esattamente come Maik. Allo stesso tempo, sapevo che gli altri due si erano dati alla macchia, restando piacevolmente illesi.
Ad aggravare la situazione, nessuno dei due venne a trovarmi durante la mia convalescenza.
Ferito nell’orgoglio, ne approfittai di quella effimera giornata libera per cercarli, ritrovandoli intanati in una tenda come topi impauriti, intenti a giocare ad un gioco di carte dall’aria poco divertente.
“Oh, Capitano! Siamo felici che stia bene!” Klaus mi corse incontro in un mix tra finto stupore ed accoglienza fittizia. Martin si limitò a farmi un cenno con la mano, abbassando uno sguardo colpevole.
“Non preoccupatevi. Sono sano come un pesce, ora. Vi voglio efficienti e reattivi da adesso. Al lavoro!”
“Ma Capitano, non abbiamo alcuna mansione da svolgere...”
“Balle, vi voglio efficienti e reattivi. Efficienti e reattivi...”
Ad un certo punto una voce misteriosa sbucò dalle mie spalle. Timidamente scostò la tenda, infilando la testa tra i due lembi di tessuto.
“Egregio Signor Capitano Faust, sono lieto finalmente di averlo trovato ed incontrato” Era un giovane meccanico dall’uniforme completamente sporca, pescato da chissà quale base aerea nelle vicinanze. Futilità. Quei meravigliosi titoli erano musica per le mie orecchie. Si mise sull’attenti, batté i piedi e mi fece il saluto. Uhm. Avanti, la prego, continui…è meravigliosamente imbarazzante. Mi comportai da uomo e lo ignorai.
“Egregio Signor Capitano Faust, la pregherei con il massimo rispetto di seguirmi per mostrarle una nuova arma bellica di altissima efficienza”
Fui titubante. Inizialmente pensai che fosse uno scherzo di cattivo gusto. Insomma, non riuscivo a capire perché ci fosse bisogno di una specie di civile per una notizia così importante. Il giovanotto era così ligio al dovere e rispettoso che non me la sentii di dire di no. Lo seguii assieme ai miei uomini che, titubanti, smisero di giocare a carte ed iniziarono a tremare. Ci spostammo velocemente in Kubelwagen verso il limitare del campo dove sorgeva l’enorme capanno dove, tecnicamente, stazionavano gli aerei ma, in questa speciale occasione, evidentemente qualche pezzo grosso aveva fatto appello affinché anche i nostri mezzi corazzati potessero godere del riparo.
“Egregio Signor Faust, le prometto che ne rimarrà soddisfatto. È stato un lavoro molto impegnativo ma vedrà, sarà lieto del nostro umile lavoro svolto per la patria!”
Lo ignorai di nuovo. Se avessi mostrato alcuni segni di cedimento forse il giovane avrebbe smesso di adularmi. Sarebbe stato drammatico.
Immenso e rettangolare, l’hangar ospitava una due file di carri, moto e macchine che alcuni meccanici stavano provvedendo a riparare o a curare nella loro piccola routine quotidiana, come riempire i serbatoi di benzina o sostituire le munizioni, in modo tale che fossero pronti ad inizio missione.
Alcune compagnie erano già sul posto. Sistemati, si preparavano ad effettuare gli ultimi accorgimenti prima di partire.
Tra le file di caccicarri, Panzer IV e contraerea uno dei mezzi era stato coperto da un brutto telo verse sporco.
“Egregio Signor Faust, la pregherei di sollevare il telone. Anzi. Mi scusi per la sfrontatezza, saremo noi a farlo per lei”
Il meccanico chiamò a raccolta un paio di uomini. Saltellando sul corazzato come grilli, sfilarono la copertura da quello che si prospettava il mio mezzo.
Dalle pieghe del tessuto fui lieto di constatare che i miei incubi peggiori non si erano avverati.
Ciò che trovai sotto fu, incredibilmente, la Furia, il mio adorato Tiger. Lo riconoscerei tra mille.
“Non è stato facile recuperarlo. Il fianco era stato distrutto ma fortunatamente i controlli erano ancora funzionanti. Abbiamo dovuto sostituire alcuni componenti, ma eccolo.
Lieto anniversario, Capitano Faust” *










 

Note finali:
*  Un po' di Gossip. Bastian Faust è nato il primo aprile 1917
In questo capitolo compie ventisei anni. Nel suo equipaggio, il più vecchio è Klaus con i suoi trentasei anni compiuti.  A seguire, Maik, Bastian, Martin e Tom, il più giovane, che ne ha ventidue. 

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Stavamo per tornare operativi quando, a quel genio di Martin, venne un’idea. 
Lo capii troppo tardi, a mie spese Era una stronzata talmente grande che andava soppressa ancora prima di nascere ma, evidentemente, il suo mononeurone aveva deciso per una volta di funzionare, rendendo il piano arguto e di difficile intuizione. 
Appiattiti come blatte, ci godevamo il flebile sole che finalmente era iniziato a spirare sotto la coltre di spesse nubi grigi, ammorbidendo i nostri muscoli rigidi e sfiancati dal gelido inverno. 
L’ho mai detto? La steppa russa è una noia mortale. Avevamo lasciato i delicati boschi di pini per addentrarci in questa landa tragicamente piatta. Un flebile rivolo d’acqua scorreva vicino a noi, placido nelle sue acque verdastre. Lentamente mi ero avvicinato per specchiare la mia meravigliosa figura, lavandomi il volto stremato dalle lunghe fatiche quotidiane. 
Constatavo, massaggiandomi delicatamente le guance sfibrate dal freddo, che mi erano comparse delle strazianti rughe che distruggevano il mio volto altrimenti perfetto e fiero come quello di una locandina di propaganda. 
Se le occhiaie esaltavano l’arianissimo colore dei miei occhi, questi segni mi facevano sembrare un vecchio e stanco soldato di fronte. Ciò che ero, nonostante tutto. Stavo dunque contemplando la disperazione riflessa quando quell’enorme inetto di Martin si presentò da me, avanzando l’assurda richiesta di uno scambio merci. 
“Capitano” Nella sua voce vi era una trillante nota euforica. Enorme e codardo, quell’uomo conosceva ogni strategia efficace di ritirata. Non parlava molto, per questo mi insospettii. 
“So che lei non fuma per rispettare la sua mirabile forma. È vero che conserva più di cinquecento sigarette accumulate nel corso delle razioni?” 
“Certamente” 
Sfoggiò un orribile sorriso privo di un dente ed iniziò a frugare in un grosso sacco che si era portato appresso. Nemmeno ci avevo fatto caso. Estrasse due bottiglie e me le porse. 
“Vodka. Vodka vera! È la sua occasione, Capitano!” 
Ero sospettoso. Accigliai un sopracciglio e presi una bottiglia in mano. Roba di qualità, quella. Nel posto giusto col medico giusto potevi farti ricoverare per febbricola per qualche giorno. Valevano almeno duecento sigarette l’una, mezzo coniglio o una lattina di frutta secca. 
“Cinquecento sigarette? Per entrambe?” le studiavo come un improvvisato sommelier, preparandomi ad una sbornia talmente colossale da farmi svegliare sotto tre metri di terra. 
“E’ un affarone, glielo assicuro!” 
È fatta, vado a prendere le sigarette” Stavo per sgattaiolare nella mia tenda quando Martin mi fermò, implorando un: “La assaggi, prima! Sentirà la qualità!” 
Cedetti. Stappai in malo modo la bottiglia e chiamai in raccolta i miei uomini. 
“Soldati” Annunciai, ritrovando la forza che poco tempo prima mi aveva abbandonato. 
“Ho appena acquistato queste bottiglie. Un affarone. Mi piacerebbe condividerle con voi. Ci sveglieremo all’inferno con questa roba!” Porsi loro la bottiglia ma quelli, inaspettatamente timidi, si ritrassero con un cenno di testa. 
“E’ la sua fiasca, beva prima lei” dissero, rifiutando l’assaggio. Santo cielo, si è rammollito l’equipaggio. Facendo spallucce pensai che, tutto sommato, l’unico che davvero meritava quelle bottiglie era il sottoscritto. Portai la canna alla bocca, pronto a bere. 
Qualcosa non quadrava. Questa roba non puzzava di alcool. Ciononostante, decisi lo stesso di tentare l’assaggio.
 

 
Si rivelò acqua. Dannatissima acqua. 
“Acqua infetta di Tifo” Mi corresse il dottor Biermann, mentre mi contorcevo come un verme in un lettino d’ospedale, vomitando qualsiasi cosa che il mio corpo riuscisse a produrre, anche il più piccolo grumo di bile schiumosa. 
Quei bastardi volevano uccidermi! Il Karma però li colpì con la furia di un plotone d’esecuzione. 
Mentre io lottavo tra la vita e la morte, i miei uomini passarono temporaneamente sotto un nuovo capocarro, un certo Von Braun, un malinconico e sanguinosissimo uomo d’armi. 
Von Braun aveva due passatempi. Uccidere ed uccidere i russi. La guerra gli aveva strappato moglie e figli durante un bombardamento così, nei brevi momenti di lucidità, quando non ululava tragicamente al vento, trasformava il suo carro d’occasione in una torcia ambulante, passando al lanciafiamme tutto ciò che si contrapponeva tra lui e l’obbiettivo. 
Li portò fuori per settimane. Passarono a fil di spada interi villaggi, facendo eruttare dal cannone fiamme e pece nera, schiacciando uomini e trasformandosi letteralmente in macchine di morte più di quanto avessero mai fatto con la Furia.
In ospedale ritrovai il mio incubo, Hilbert Lagenberg. Con le sue gambe ingessate e sospese a penzoloni, il sedicente cecchino leggeva un giornale, commentandolo ad alta voce col vicino di cuccetta inesistente.
“Chi si rivede! Capitano Faust!” mi salutò cordialmente, sistemandosi gli spessi occhiali. 
“La vedo in ottima forma” commentò ironicamente mentre un’infermiera mi bagnava la fronte con un panno freddo e mi iniettava un potente liquido che mi fece perdere i sensi. Ebbi il tempo di maledirlo a denti stretti prima che la mia vista si offuscasse e piombassi in un sonno tormentato. 
Non so esattamente quanti giorni passai in quell’assurdo stato di dormiveglia. Quando mi svegliai, però, Lagenberg era sparito. Avevo ancora la febbre alta e la testa mi scoppiava come una bomba. 
Ero in isolamento. O meglio, ero insieme ad altri nelle mie stesse condizioni. Forse per questo non vidi nemmeno una volta il dottor Biermann. Scoprì solo successivamente che la falsa vodka era stata rimessa in circolo da un individuo sconosciuto e bevuta da molti, provocando un effetto domino. Non era raro che i soldati cercassero di ammalarsi o ferirsi da soli ma, questa volta, agli occhi del Generale, parve un vero e proprio attentato. 
Setacciò tutte le bottiglie di Vodka presenti nel campo e le sottopose al giudizio di alcuni volenterosi prigionieri di guerra russi. A loro parve quasi un sogno. Buttammo via circa venti bottiglie alla ricerca della famigerata acqua contaminata, con grazia di quella manciata di comunisti. Il risultato fu poco soddisfacente: le cavie si presero una sbronza colossale e la bottiglia falsa non venne rintracciata. In cuor mio sapevo la verità ma tutto quel dolore aveva soppresso la ragione, lasciandomi vuoto come un calzino. 
Quando, dopo tre settimane di vomiti e tremori la febbre iniziò a scendere, riacquistai un po’ di forza. Il fatto che la mia fine non venisse scritta in un lettino d’ospedale mi fece dormire sonni più tranquilli. Non ho mai sognato la morte gloriosa in battaglia. Beh, se proprio deve accadere, voglio che sia gloriosa.
 

 
Quando mi sbatterono fuori con una settimana di anticipo e rividi i miei uomini, li trovai scioccati e frastornati come un vaso pieno di api. 
Von Braun si era mostrato un leader atroce ed inarrestabile. Si erano spinti molto lontano, viaggiando di notte e lasciandosi guidare dal ruggito del lanciafiamme che distruggeva qualsiasi forma di vita. Bruciarono ed abbatterono chiunque ostruisse il loro cammino. 
La loro folle corsa omicida venne fermata da una mina anticarro al confine col territorio ucraino. Riuscirono a scappare in tempo. Von Braun venne preso come prigioniero e lottò come un leone fino alla fine, strappando un orecchio ad un russo e cavando un occhio ad un secondo, ma alla fine venne sedato con una pallottola tra capo e collo. 
Non so come riuscirono a far ritorno, ma rieccoli, tutti e quattro, pallidi ed emaciati come stracci vecchi. Maik invece sembrava essere tornato da una appagante gita in montagna. Esaltato mi descrisse, nei dettagli più truci, ogni singolo particolare dei corpi nemici che prendevano fuoco. 
Quando arrivò a paragonare l’impercepibile scricchiolare della pelle arsa dei nemici alla cotenna del maialetto arrosto inscenai una ricaduta e vomitai a stomaco vuoto tutto ciò che non avevo. D’altronde ero tornato in servizio ma la febbre non era ancora passata del tutto. 
Non ho mai detto di provare piacere in tutto questo. Sono entrato nell’esercito come volontario, ingenuamente ammaliato dalle belle storie, le lucide mostrine e dal fatto che le donne apprezzassero la vista di un bell’uomo in divisa. 
Ciò non significa che abbia rinunciato al mio sogno. Diventerò davvero il miglior carrista di questa lunga guerra. I libri parleranno di me!
“Soldati, questo è solo l’inizio. La Guerra sarà finita entro Natale, per cui avete ancora pochi mesi per ricoprirmi di eterna ed intramontabile gloria” Passeggiavo davanti a loro per incutere quell’arcana paura che ti coglie di fronte ad un soldato dal grado superiore. 
“Sono sopravvissuto alla malattia e di certo non morirò adesso. Obiezioni?” 
Non obiettarono. Rimasero immobili, i loro capi abbassati in un reale segno di timore e rispetto riverenziale. Sorrisi. Bastian Faust, il superuomo intramontabile. Anche il cane era in riga però, a loro differenza, sembrava felice di vedermi. Era cresciuto molto negli ultimi tempi, apprestandosi a diventare un fiero lupetto. Nella sua piccola divisa-pettorina munita di tasche ora poteva trasportare la bellezza di quattro bottiglie d’alcool. Sfortunatamente dopo l’accaduto decisi di smettere di bere per un po’. Avrei vissuto a pane e pastiglie e non avrei avuto nulla per buttarle giù...pazienza.
 

 
Fummo rispediti al fronte con un calcio al culo. Partimmo in piena notte assieme ad altri quattro carri in formazione due-due più uno, noi in testa.
“Non si vede nulla, Capitano” piagnucolò Tom, spostando con un’indicibile lentezza il nostro carro.
“Potremmo lanciare un razzo” Ipotizzai. 
“I russi sapranno subito la nostra posizione, così!” Ovviamente fu Klaus ad avanzare questa assurda ipotesi. 
Non aveva torto. O almeno, non aveva completamente ragione. A motori spenti potevi sentire i mosconi dell’aviazione russa ronzare sopra le nostre teste, pronti a scaricarci tutte le loro bombe in testa. Mi era impossibile dar ragione al mio sottoposto così, meditando una risposta sensata, decisi di agire. 
“Signori” ero propenso ad un buon lavoro di gruppo, così contattai via radio gli altri quattro carri per farli agire secondo i miei capricci. 
“Capitano Faust” Era la voce di Becker. Quel dannato uomo-donnola mi stava rubando la scena. 
Dopo il fattaccio nella fabbrica aveva vinto una bella medaglia al valore, una settimana di licenza ed una promozione per il coraggio mostrato sul campo. 
“Anche lei fatica a vedere? Noi stiamo usando una lampada ad olio. Guardi alla sua destra” 
Facendo capolino era possibile osservare una piccola lucina ondeggiare, sospesa nel nulla. 
Scrollai la testa e ripresi la comunicazione. 
“Non mi sembra una grande idea. Preferisco affidarmi alla mia vista da falco” 
Dopo quella che parve una lunga ed interminabile marcia la nostra corsa finimmo dentro un fosso. 
Al diavolo la sua vista da falco, Capitano!” Sbottò Tom il pilota, scendendo dal carro per dare un’occhiata al problema. 
Infossati in un angolo di trenta gradi, la Furia sembrava non volersi muovere da lì. Forse aveva deciso di perire così, integra e fiera, in quella buca e diventare un pezzo da museo. 
Gli altri carri decisero di abbandonarci. Ci definirono un peso per la formazione e ci lasciarono in pasto al terriccio, con gli aerei russi che ronzavano sulle nostre teste come avvoltoi. 
“Dobbiamo scavare” ipotizzai. Feci scendere Fiete, la recluta canina addestrata al primo soccorso ed insieme iniziammo scavare a mani nude per tentare disperatamente di far ripartire il mezzo. 
Gli altri non ci aiutarono. Si allontanarono a fumare alcune sigarette, lasciandoci al nostro sporco lavoro. Solo successivamente Tom riprese i comandi, cercando di levare il Tiger dal pantano. 
Ci riuscì. Ovviamente fu grazie al nostro intervento. Riprendemmo la marcia mentre il cielo lentamente albeggiava sul paesaggio boschivo, dove fitti alberi di betulle bianche e grigie intervallavano il nostro cammino.
“È impossibile che i russi scoprano la nostra strada. Vero, Capitano?” mi chiese Klaus, guardandosi le spalle. Flebili raggi di sole filtravano tra gli alberi, illuminando il nostro cammino.
 “Impossibile” lo rassicurai, scivolando dentro il carro. Dietro di noi una lunga fila di arbusti era stata abbattuta, lasciando spazio ad una pista di terra liscia ma si, tutto sommato, non sarebbe stato comunque facile per loro seguire le nostre orme.
 

 
Solo dopo mezzogiorno, quando ci fermammo a riempire il serbatoio e fare un po’ di manutenzione al carro, riuscimmo a rintracciare gli altri. Dopo pochi chilometri dal nostro abbandono uno dei panzer aveva riscontrato un brutto problema ai cingoli e gli altri tre si erano fermati ad aiutarli, dimostrando un senso di cameratismo familiare che a noi avevano negato. Avevano perso molto tempo, giusto il necessario affinché noi li raggiungessimo per poterli sbeffeggiare. 
“Ah, Faust! Se solo ci fosse stato lei a darci una mano...” Un soldatino mi guardò con i suoi occhietti disperati, quasi imploranti. 
“Avevamo bisogno di tutti gli uomini disponibili, le assicuro che era un problema davvero grave, c’era anche il motore che faceva fumo...abbiamo lanciato anche un razzo sperando che ci raggiungesse il prima possibile...” 
“Un razzo” Ripetei le sue parole, cercando di fare chiarezza nella mia mente. 
“Si, uno di quei razzi segnalatori. Avevamo bisogno di un soccorso urgente!”
Anche io volevo lanciare un razzo, prima. Nella mia mente era, e rimaneva, un’ottima idea. Nelle mani altrui invece sembrava una cazzata immane. 
E lo constatammo sulla nostra pelle quando, tra i massi e le rocce di quella spianata d’erba al limitare dei boschi, scorgemmo lo scafo nascosto di un T34 russo pronto a fare fuoco verso di noi.

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Quanto tempo ci rimaneva ancora? Due minuti, forse? Il tempo per una preghiera? 
Il bestione nascondeva il fianco molle tra gli alberi ed i cumuli di terra, mostrandoci la ben più resistente corazza anteriore. 
Noi, perfetti cretini, avevamo abbandonato le nostre postazioni per aiutare il compagno incagliato. 
Io, almeno. Molti altri si erano allontanati a fumare e bere. Solo Maik era rimasto immobile nella sua torretta, intento a scrutare le valli boschive alla ricerca della più impercettibile traccia nemica. 
Non era esattamente la fine che desideravo. Avevo fatto un veloce conto di come avrei potuto morire in questa terra dimenticata da dio. Al primo posto si piazzava, inesorabilmente, l’essere bruciato vivo. I Panzer potevano trasformarsi in trappole mortali, enormi tori di Falaride roventi che avrebbero potuto ridurci in cenere al solo tocco. Anche le esalazioni di gas non erano male, così le avevo collocate al secondo posto. 
Al terzo posto vi era tutta la marmaglia che non ero mai riuscito a classificare: pallottole volanti, lanciafiamme, bombe, fucilazione, dissenteria, itterizia, dissanguamento, ipotermia, coltellate, congiura rivoltosa dei miei uomini, fame, sete, sonno. Potrei andare avanti. 
Rivolsi i miei pensieri al passato.
 
 ╬
 
Anni ed anni indietro, per la precisione. Veterano di guerra, con la sua pipa fumante Sebastian Faust sedeva nel suo piccolo studio a tessere e filare fieri panciotti per distinti signori borghesi ed abiti sgargianti per dame eleganti della Monaco benestante. 
Ed io, otto anni compiuti, sedevo sul pavimento della sua bottega da sarto a gambe incrociate, cercando disperatamente di far passare il filo nella cruna dell’ago. Ridacchiando mio padre era solito a darmi dei buffetti sulle guance, facendo allusioni al mio piccolo e certosino lavoro, insinuando che fossi troppo giovane per fare certe cose. Poi, tirando fuori la lingua da porco mascalzone, mi descriveva i pregi della sartoria, piccoli trucchi di come piazzare strategicamente le mani sulle belle signore. “Sto solo prendendo le misure” diceva mentre mia madre, da lontano, lo fulminava. Facevano i conti a casa, sempre. “In guerra ne ho prese tante di sberle, ma mai come da sposato.” commentava, massaggiandosi la schiena dolorante senza mai smettere di ridere. 
C’erano i miei fratelli. Alfred, dannazione. Continuava a scrivermi dall’Africa. Era il miglior paracadutista che io conoscessi. Aveva imparato a nascondersi come una blatta tra sabbia, cespugli, erba e terra, mangiando serpi ed insetti giganti, sempre abbastanza lontano da non rischiare la vita ma abbastanza vicino da non essere considerato un disertore...e nessuno notava la sua assenza nel trambusto bellico. Quel gran bastardo era in calzoncini mentre io a morire dal freddo nel cuore della Russia. È ingiusto. Da bambini, quando giocavamo assieme e combinavamo qualche burla, ero sempre io a prenderle. Lui, fin dal principio, si appiattiva in qualche angolo della casa, mimetizzandosi come un camaleonte tra le tende ed i mobili, rifugiandosi nei più piccoli ed angusti spazi mai svelati della nostra abitazione. Io mi prendevo il battipanni nella schiena e la punizione in cantina. Lentamente il fottutissimo usciva dalla sua tana e, dopo qualche ora, mi portava un piccolo regalo implorando il solenne perdono. 
Poi c’era lui, Stefan. Gli rivolsi il pensiero ora che la bocca del cannone puntava a noi, così come le armi secondarie e tutto l’equipaggio nemico. 
Era un caldo settembre del 1940 e la guerra sembrava ancora vinta quando ebbi una settimana di licenza. Ironia della sorte, anche Alfred ne ebbe una. Eravamo abbastanza increduli di come avessero deciso di mostrare un po’ di pietà nei nostri confronti, lasciarci elaborare un lutto così difficile. A distanza di anni ancora non riuscivo a crederci. All’inizio sembrava quasi un gioco del cazzo, tutti tronfi e fieri nelle nostre belle su misura. Poi bam, ecco che la vita ti colpisce con un ceffone rovesciato dicendoti “E’ guerra, cazzo! Qua si muore!” Lo abbiamo sperimentato più volte nella nostra testa, sulla pelle degli altri. Fosse stato un po’ più grande, forse...nei suoi diciannove anni di gioventù sfacciata vedeva nelle grosse ali di Stuka una prospettiva di vita diversa, una specie di avventura pericolosa da cogliere a piene mani, l’inafferrabilità del vento e la vastità del cielo che di rado restituisce i suoi figli alla terra. 
Ricevemmo solo una piccola cassetta con qualche effetto personale. Difficile crederci. Se fosse scappato? Non avevamo alcun corpo sul quale piangere, ma questa è la guerra. Se riesci a concepire l’idea che centinaia di sconosciuti vogliano ucciderti beh, il resto è in discesa. 
Eppure, nella sua breve vita, lui l’aveva vissuta in pieno. Io ed Alfred abbiamo perso tempo ad inseguire fumo. Mal che andava, pensavamo, avremmo preso in mano le redini del negozio di famiglia. Il che schifo non mi ha mai fatto perché credete, nel prendere le misure alle belle signore nessuno mi eguaglia. Stefan era quello che studiava, che sognava in grande e che non perdeva mai tempo. Aveva conosciuto una brava ragazza di famiglia colta ed agiata e l’aveva sposata. Un matrimonio un po’ folle, perché lui era in Francia e lei tecnicamente aveva sposato un cappello col suo nome ma, a conti fatti, matrimonio era. È assurdo, ma funzionava così. Ringraziai il cielo per quella cerimonia inusuale perché credetemi, per quella povera ragazza ciò che seguì fu anche peggio. 
Nella mia eterna settimana di licenza la rividi. Sophie, questo il suo nome, mi si scagliò letteralmente addosso, strillando e prendendomi a schiaffi, graffiandomi come una bestia rabbiosa. Era dannatamente spaventosa con i lunghi capelli castani raccolti in una massa disordinata nel suo strazio. Ed il fatto che somigliassi al suo amato morto la rendeva pazza di rabbia. Anche mio fratello si prese la sua dose ma è un cazzo di codardo, quindi si assisteva alla surreale scena di questo ragazzone in rapida fuga, inseguito da una giovane rabbiosa e sbavante. 
Perché lui e non tu? Perché!” continuava a ripetere, picchiando i pugni sul mio petto fino a farmi perdere il fiato. Sono un bravo ragazzo, credetemi, ho dovuto agire con un po' di forza per farla rinsavire. La giovane trasalì, prima di tornare a singhiozzare in un comprensibile dolore ed abbracciarmi in un repentino cambio d’umore.
E solo a quel punto mi accorsi che dannazione, aspettava un figlio. Suo figlio, orfano ancora prima di nascere. Aveva tappezzato della sua assenza una presenza disperatamente forte, rendendo il lutto ancora più difficile da elaborare. C’era e non c’era. 
Penso ancora a lui. Tutti i cazzi di giorni. Se solo fosse stato più vecchio ed avesse finito gli studi, fosse riuscito a diventare un medico e noi, stolti, fossimo riusciti a dissuaderlo dal sogno di volare...forse ora quel bambino avrebbe ancora un padre. 
Mal che vada ha un fantastico zio. La vita va avanti…
 
 ╬
 
“Capitano Faust?” 
Questa volta mi beccai io due sonori schiaffi, che mi fecero perdere l’equilibrio.
“A cosa stava pensando? Sembrava una cosa importante” 
“Lo era infatti, lo era” commentai. Tom mi guardava dal basso verso l’alto, pronto ad un’altra sessione di schiaffi. 
Mi guardai intorno. Nel frattempo, il T-34 si era avvicinato ma, miracolosamente, non aveva fatto fuoco. Era rimasto fermo, a motori spenti, fuori dagli alberi. Dal tettuccio era uscito un soldatino vestito di nero intento a salutare qualcuno dei nostri ad ampi gesti. 
“Ehi, quello è mio cugino Joseph!” commentò Klaus, rispondendo al saluto con saltelli inaspettatamente vigorosi.
“Guarda cosa siamo riusciti a rubare!” Urlò il capocarro Joseph dall’altra parte della piana. Piccolo e tozzo anche lui, portava due orribili baffi bruciacchiati che lo facevano somigliare ad un grosso gatto spelacchiato.
“Il suo equipaggio stava riposando e noi lo abbiamo sfilato dalle loro grinfie. Non si sono accorti di nulla!” continuò. Effettivamente, dopo un secondo sguardo più attento, si poteva notare come la stella rossa fosse stata sostituita da Balkenkreuz* ridipinta da mani incapaci che, oltretutto, avevano lasciato colare la vernice lungo la fiancata del carro. In un impeto d’arte, il sedicente Picasso aveva realizzato una grossa aquila dai tratti grotteschi e vagamente cubisti frutto di incapacità e non di arte degenere, per sua fortuna.
“Abbiamo visto una luce e ci trovavamo poco lontano, così abbiamo deciso di venire a dare un’occhiata” disse il capocarro, abbandonando il mezzo assieme ad un paio di uomini. 
“Però quel burlone di Chagall ha voluto farvi uno scherzo! Siete rimasti imbambolati come dei sassi e sbiancati come fantasmi! Fantastico!” 
Chagall**, questo il soprannome del sedicente artista, era un tipo davvero particolare. A parte la spiccata propensione per l’arte, l’ometto allampanato e scarno aveva due incisivi mancanti, che compensava inserendo tra essi il pennello oppure una sigaretta così, quando fumava, non doveva utilizzare le mani. Così fumava ovunque. Dopo il primo giro di alcolici aveva messo gli occhi sulla Furia, lamentandosi di quanto fosse spoglia. 
“Non siamo nella Luftwaffe, soldato” gli rammentai mentre quello, col suo occhio un po’ strabico, osservava il carro come un bambino davanti ad un foglio bianco. 
“Ci farei una tigre. Una tigre nera e gialla. Si! Si! Con la bocca aperta che sbrana un pollo rosso” 
“Un pollo”
“Si! Si! Giallo e con la testa rossa! Peccato che...come ti chiami più tu? Bastian eh? c’ho uno zio che si chiama come te. È morto in Russia nella grande guerra. Era un bravo soldato, aveva dipinto un bel elmetto di rosso e giallo che indossava sempre. Mi chiedo perché sia morto” *** 
Avevo anche io uno zio di nome Bastian morto in Russia durante la Grande Guerra, ma non riuscì a spiegarglielo, esattamente come non riuscì ad imprimere nella sua testa il rispetto per il mio grado. 
Soffocai il malessere nell’alcool. 
“Dicevo. Che peccato che non ho i colori. Altrimenti ti facevo un’opera d’arte che poi quel tipo di Speer mi chiamava per pitturare la sua Berlino bella” 
Per fortuna, dopo aver sistemato alla buona il carro guastato, ripartimmo velocemente verso il nostro punto di interesse. Il capocarro Joseph e la sua compagnia dovevano essersi fottuti il cervello con i vapori della benzina, perché non riuscivo a concepire cotanta follia in un gruppo di cinque uomini.
Decisero però di seguirci, dato che la linea del fronte era la medesima. Dopo una confabulazione tra capicarro costata la bellezza di due bottiglie di alcool, decisi che loro sarebbero andati avanti in modo tale da depistare eventuali russi che avessero intralciato la nostra strada. 
E funzionò. D’altronde era un mio piano geniale. 
Non incontrammo nessun nemico durante il nostro tragitto, ma ciò fu di poca importanza. Il mio piano fu vincente e ciò che conta è sempre il risultato, sempre. 
Avevamo un buon ritmo, fortunatamente. Viaggiammo a lungo, riparandoci tra gli alberi e fermandoci solo per riempire i serbatoi e fare manutenzione. 
Penetrammo in territorio bellico in qualità di truppe fresche come il pesce di tre giorni. I nostri esultarono quando ci videro. Il graduato della situazione si lamentò di quanta poca considerazione gli altri avessero per lui, visto che ricevette solo sei carri con relativi equipaggi in soccorso. 
“Niente di personale” Disse l’uomo, pulendo il bocchino della pipa con la manica della divisa. 
“Guardate con i vostri occhi. I miei uomini sono stremati. Ci servono carri nuovi, sono giorni che aspettiamo” 
“Comandante” Dovevo convincerlo a tutti i costi. 
“Il mio non è un carro qualsiasi. Siamo una compagnia ad altissima efficienza, dotati di sistemi di combattimento all’avanguardia. Pochi ma buoni, si fidi.” 
“Pochi ma buoni un corno. Questi sono siberiani. Fanno sul serio. Stia attento.” Mi ammonì, lanciandomi uno sguardo carico di disprezzo. Ero convinto che il mio charme e la mia parlantina da conquistatore di folle lo avrebbe convinto, invece mi sbagliavo. Mi abbandonò affranto al mio sporco mestiere, tornando a fumare la pipa in quello spiazzo d’erba che definivano accampamento. 
Tra i veterani di quella linea di fronte circolavano le peggio leggende. Si diceva che quei russi selvaggi divorassero i cadaveri dei nemici. Ciò allettava le disgustose e perverse fantasie di Maik, che vedeva in quel tipo di nemico una specie di bestia selvaggia da uccidere, impagliare ed esibire in salotto come fosse una testa di cervo.
 
 
In tutto quel trambusto avevamo un’ottima visuale dell’ambiente circostante: appostati su una specie di collinetta, i soldati avevano eretto una trincea di fortuna scavando un fosso e recintandolo di pali appuntiti. Da lì potevamo osservare la vallata che conduceva ad irti boschi di pino ed un piccolo villaggio squassato dalla guerra, oramai abbandonato. 
“Abbiamo a che fare con delle bestie” mi disse un soldatino emaciato con l’elmetto piegato da un colpo d’arma da fuoco, mentre riempiva il fossato con dell’acqua. Ne avevo visti tanti di fronti ma quello rasentava la pugna medievale. 
In questo contesto continuavo a non capire perché avessero richiesto la presenza di alcuni carristi per un fortino di fortuna. La Furia era tragicamente incespicata sul colle, un po’ triste in compagnia di quei tre Stug e del carro russo ridipinto. 
In serata venni convocato dal Comandante di Compagnia. Aggrottato in un malcontento meditabondo, l’uomo osservava una cartina disegnata a mano, fumando la sua pipa vuota. 
“Dunque”, Disse, inspirando il non-fumo “Voi vi posizionerete qua. Uno per lato in protezione dell’accampamento. Non faticherete a riconoscere il nemico. Indossano una folta pelliccia bruna, talvolta bianca o grigia. Non uscite dai carri e, soprattutto, non mostrate loro paura. Punteranno alle vostre gole, poco ma sicuro. Amano combattere corpo a corpo. Se verrete colpiti, piantate loro un coltello in pancia e cercate di coprire la ferita. Amano l’odore del sangue. 
“E’ tutto. Tra dieci minuti in postazione, attaccano ogni notte. Sono arguti” 
Sembravano terrificanti, non c’era ombra di dubbio. Ma la faccenda puzzava più di tutti noi messi assieme. Data la pericolosità della missione, decidemmo all’unisono di non far utilizzare a Maik la mitraglietta esterna, ma lui si rifiutò categoricamente, preferendo una dignitosa morte sbranato da un selvaggio siberiano piuttosto che un vile riparo. 
Calò la notte.
Acquattati nei nostri carri aspettavamo l’arrivo del nemico.
 “Pelliccia bianca o grigia. Brutali e violenti. Sparare senza esitazione” Ripetei ai miei uomini. Eravamo piuttosto rilassati. Per precauzione ci eravamo sparati un paio di pastiglie. Andava tutto bene. 
Posizionati alla destra dell’accampamento, osservavamo la vallata silenziosa. 
“Intravedo il giallo dei loro occhi” Mugugnò Becker dall’altra parte della linea, preparandosi a fare fuoco. 
Era tutto pronto. 
La battaglia stava per iniziare.
 
╬ 
 
Fin quando non ci accorgemmo che il selvaggio nemico siberiano non era altro che un nutrito gruppo di lupi famelici che intelligentemente avevano imparato a penetrare nelle nostre linee per divorare i nostri uomini. Fu umiliante per noi sparare a delle bestie. Erano numerosissimi, certamente, ma rimanevano sempre lupi. E fu ancora più disdicevole quando scoprimmo che molti uomini erano periti sotto le loro zanne e trascinati nel folto bosco. 
“Capitano, io mi rifiuto! È umiliante!” Disse Tom, abbandonando la sua postazione. 
“Non provi a disertare, Weisz” Lo rimproverai. Il giovane mugolò insoddisfatto, prima di tornare a stiracchiarsi come un gatto nella sua poltrona da pilota. 
“Starò bravo e tranquillo a dormire finché questa puttanata non sarà finita “Si calò il cappello e schiacciò un lungo pisolino. Non che noi avessimo molto daffare: dopo un’ora di sparatoria decisamente diluita i lupi si erano più che dimezzati, nonché ritirati nei boschi. 
Fingemmo di continuare a sparare di comune accordo. A rotazione, ogni mezz’ora, un carro diverso doveva sparare un colpo di cannone, fingendo un combattimento in corso. Il resto dell’equipaggio poteva dormire scomodamente. 
Quando finalmente giunse l’alba i fuochi cessarono. Molti lupi giacevano a terra e tra i nostri si contavano una decina di dispersi, frutto della selezione naturale, immagino. Maik insistette per recuperare una bestia dal manto particolarmente bello. Non riusciva a concepire il fatto che non fossero veri nemici ma animali. Per lui restavano russi, per questo decise di conciarne uno e ricavarci un cappotto. 
Il Comandante, stranamente ben riposato, ci chiamò nuovamente, complimentandosi con noi per il nostro efficace lavoro, nonostante fossimo
numericamente inferiore. 
“Così quei bastardi smetteranno di attaccare ogni notte. Non potete immaginare quante perdite abbiamo subito in questi ultimi giorni”
Questa volta fui io a lanciare uno sguardo di pietà ai miei sottoposti, cane compreso, i quali ricambiarono con uno sguardo carico di comprensione.
Com’era folle il mondo.
 
 



 
Note finali:
*Balkenkreuz: Croce di ferro stilizzata, simbolo della Wermacht, ovvero le forze armate tedesche. 

**Forse qualcuno interessato all'arte conosceva quel pittore e gli aveva dato quel soprannome in senso dispregiativo, viste le doti decisamente poco artistiche del carrista. All'epoca tutta l'arte che non era classica, soprattutto quella di avanguardia, veniva considerata bandita e.…intascata dai gerarchi nazisti, nonostante venissero disprezzate. Contestualizzato nella loro epoca, quindi...
***Chissà perché eh. Immagino fosse perfettamente invisibile. Spero almeno che non si trattasse dell'elmetto a punta.
 
 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


I giorni si susseguirono flaccidi e monotoni.
Maik aveva trovato un ottimo passatempo per allietare le sue giornate. Cacciare i lupi lo rendeva ebbro di felicità. Ogni notte, dopo la solita finta, rastrellava l’ambiente circostante alla ricerca dei cadaveri delle bestie che trascinava per le code, a gruppi di quattro, dentro l’accampamento. 
Mentre noi dormivamo all’interno dei nostri carri lui macellava le bestie, nascondendo enormi brani di carne sotto terra in un gelido riparo. Con l’acqua del torrente vicino ne conciava le pelli e ne estirpava il grasso con una pietra affilata, inchiodandole poi agli alberi. 
In assenza di provviste, abbandonati come porci, quella carne era una manna per i nostri palati. Nonostante il terribile sapore che impastava le bocche ad ogni morso, gli stufati di lupo erano il piatto migliore che avessimo mangiato da qui alla zuppa di rape. Colto dalla fame, qualche stolto scavava nelle buche frigorifere e sollevava grossi raggrumi sanguinolenti, divorando come bestie enormi pezzi di carne cruda che finivano disperatamente vomitati negli angoli più reconditi dell’accampamento. Quella compagnia di certo non brillava per acume, constatammo. 
Chagall, per spezzare la noia, ridipingeva i manici dei fucili della fanteria con dubbi impasti di terra, foglie e sangue lupino. Un bastoncino di legno con un ciuffo di pelo era il suo pennello e con esso realizzava atroci commissioni per quei ragazzini appena diciottenni che erano lieti di scambiare i suoi servizi con sigarette ed alcolici. 
“Fammi una donna nuda, qua!” diceva un giovane, porgendogli un fucile talmente lucido da sembrare nuovo. “La voglio sdraiata su un fianco, così! E con gli occhi splendidi come quelli della mia dolce Margarethe. 
E quello, per cinquanta sigarette, eseguiva orridi disegni tra il grottesco ed il caricaturale, trasformando la sensuale figura femminile in un mostro dalla pelle scarlatta e dai lunghi capelli castano fanghiglia. Ma i ragazzini erano contenti come a Natale, così erano disposti a fare lunghe file per avere la propria arma personalizzata. Donne ed animali andavano forte. 
Ma Chagall non era davvero soddisfatto. Una notte, di nascosto, aveva ridipinto il carro di Becker, raffigurandovi sopra una specie di idra a dodici teste che si avviluppava per tutta la superficie del carro. La testa principale si insinuava sulla bocca del cannone in un atroce ghigno sputafiamme. 
Quando l’indomani il giovane ed inetto capocarro la vide non poté fare a meno che urlare di orrore 
L’ho mai detto? Quel tipo sembra una donnola. Piccoletto ed apparentemente minuto, ha un buffo naso alla francese e gli incisivi un po’ sporgenti. Oltretutto ha i capelli rossicci e quando cammina ogni tanto saltella. È un dannato mustelide inafferrabile. Confuso ha ondeggiato con la sua stramba camminata verso lo Stug, saltandovi sopra con un balzo animale. 
“E’ una vergogna, dannazione! La poterò davanti alla corte marziale, cazzo!” mugolava, tentando di scrostare la dura patina di terra dal suo amato mezzo. 
Fu molto divertente finché non decise di assaltare la Furia, suo sogno erotico. Ogni notte sorvegliavo meticolosamente il mio carro temendo un attacco improvviso da parte di quel dannato artista fin quando, d’improvviso, fui indotto nel sonno da una bottiglia di alcool. Russando come un ghiro il bastardo ne aveva approfittato per dipingere sul fianco una grossa tigre che divora un pollo giallo con la testa rossa. Klaus ne fu entusiasta ma io, alla vista di cotanto orrore, urlai per lo sgomento, lanciandomi come una bestia affamata al collo di Chagall. 
Ero davvero incazzato, ma gli altri sembravano divertirsi un mondo. Tom aveva allestito alla veloce un banco di scommesse, quotandomi cinquanta a zero. Becker puntò dieci sigarette su di me. Joseph scommise invece sul suo uomo, gettando una bottiglia di alcool nel calderone delle vincite. 
Alla fine, il banco vinse tutto e così il Comandante fermò il nostro aspro duello, zittendoci come dei bambini ed intascandosi per intero la scommessa. 
“Ed è solo l’assaggio, bastardo!” Urlai al pittore mentre i miei uomini mi trattenevano a stento per le braccia. In risposta il dannato mi fece una pernacchia serpentina, facendo sibilare la lingua nell’incavo dei due incisivi mancanti. Poi sparì nell’accampamento. 
Passai la giornata aggrappato al mio bestione nell’ardua impresa di ripulirlo da quelle atrocità. 
Avevo approfittato di un momento di distrazione del sedicente artista per rubare un paio dei suoi indumenti, riutilizzati al nobile scopo di scrostare la Furia da quegli orribili disegni. Dei miei uomini solo Tom si degnò di aiutarmi a ripulire quel pasticcio. 
“Capitano Faust” era scivolato dietro di me di soppiatto, facendomi trasalire. Per un primo momento temetti l’omicidio intenzionale, visto che rischiai di cadere dal Panzer. Ero dannatamente concentrato nel mio lavoro. 
“Mi passi uno straccio. Questo carro è anche mio”
Fui quasi commosso da quelle parole. Gli passai un brutto paio di mutandoni arrotolati e lui, sbuffando, iniziò a rimuovere il fango colorato dai cingoli, accucciandosi dignitosamente dinnanzi a me. 
“Potrebbe essere una strategia. Questi disegni sono talmente brutti che...ehi, se io fossi un russo e vedessi quest’aberrazione scoppierei a ridere fino allo svenimento. E a quel punto bang! Facile preda, non crede?” 
E’ un’idiozia, Weisz. Con tutto questo rosso siamo visibili come un falò di notte. È umiliante. Guarda gli occhi della tigre. Uno guarda a Francoforte e l’altro a Berlino. Atroce” 
Il giovane si fermò un secondo, meditabondo, prima di annuire e riprendere con le sue pulizie. 
Impiegammo quella che doveva essere una domenica di carte e relax a pulire il Tiger. Alle prime luci del tramonto, sfiancati dalla stanchezza, eravamo riusciti a lustrarlo come un diamante. La corazza, lucida e graffiata, brillava sotto i tiepidi raggi del sole primaverile. 
Quando tornai al campo, esausto, il Comandante mi chiamò. Sicuramente qualcosa bolliva in pentola e non tardai a scoprirlo. 
A quanto pare erano stati inviati in avanscoperta un paio di uomini ed avevano portato brutte notizie. Il nemico procedeva veloce verso di noi. 
“Sono umani, almeno?” Chiesi. Non volevo più saperne di lupi. 
“Certamente. Hanno gambe, piedi ed armi a volontà. Non dovrebbero superarci di numero. Se ci prepariamo con la dovuta cura dovremmo respingere il loro attacco senza troppe perdite” Sbuffò il Comandante, facendo scivolare la pipa vuota tra le labbra spaccate dal freddo. 
Sapevo che, da qualche parte in questa terra inospitale, vi erano intere squadre russe composte unicamente da donne. Per un momento pensai che, tutto sommato, non doveva essere una cattiva idea offrirsi come prigioniero di guerra. Alla vista di un trofeo teutonico vigoroso come il sottoscritto avrebbero certamente saputo come punirmi. A turno, in coppia o in gruppo non faceva differenza. Il pensiero mi fece miagolare come un gattino infreddolito. Fui felice che nessuno mi avesse sentito. 
“Dovrebbero esserci addosso tra due giorni. Scaveremo un secondo fossato e se la fortuna ci assiste dovremmo riuscire a respingerli tra lanciafiamme e mitragliatrici pesanti. Voglio i carri in prima linea” 
Non volevo mettere in discussione il piano del Comandante. Sapevo solo che non fu una grande idea costringere i soldati a scavare un fossato di notte mentre noi, riparati nei carri, tentavamo di uccidere i lupi che non smettevano mai di attaccarci. Molti uomini perirono stupidamente mentre quelli diventavano sempre più grassi. Maik oramai non aveva più paura Non che prima li avesse temuti ma, coperto da una folta pelliccia bruno-grigia, il berserk del fronte orientale andava ad affrontarli da solo, armato di coltelli, difendendo i piccoli minatori infreddoliti. Ben presto divenne una leggenda. Lo chiamavano Wolfmann, l’uomo lupo. In sua presenza le morti si fecero più rare, così come gli incontri con i lupi. Ben presto smisero di avvicinarsi, per sua sfortuna. 
 
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In vista dello scontro, Maik aveva preparato un particolare cappello bellico con una testa di lupo mal conciata che puzzava di decomposizione. Non che questo tanfo pungente mancasse nelle nostre vite ma quella visione aggiungeva quel tocco di raccapriccio che ancora mancava. 
Quando gli uomini riuscirono a scavare il secondo fossato erano oramai esausti. Avevano posizionato le rispettive armi in comodi treppiedi ed aspettavano con le viscere attorcigliate il segnale di attacco. Qualcuno giocava a carte. Altri, per smorzare la tensione, fumavano. 
Non fu secondo me una grande idea sfibrare in questo modo gli uomini. Erano già stanchi prima di iniziare. Alcuni dormivano dà in piedi, con gli elmetti ciondolanti che cozzavano nel duro terriccio del permafrost. 
All’interno della Furia anche noi aspettavamo. Avevamo fatto una veloce manutenzione, controllato i cingoli, riempito il serbatoio e caricato un paio di casse di munizioni. Seminascosti tra gli alberi, avevamo provveduto ad attuare le migliori tecniche di mimetismo tramandate dall’età della pietra ad oggi. Con una poltiglia di terra e foglie avevamo ridipinto la fiancata mentre, col muschio, avevamo sistemato lo scafo ed il tettuccio. Con qualche pietra, un paio di rami e, soprattutto, ignorando il cannone da due metri che sporgeva minaccioso tra le fronde, sembravamo davvero un enorme macigno. 
“Brutto stronzo di un pittore, questa è arte!”  vantai in frequenza, ghignando vittorioso. Dalla mia posizione non potevo vederli, ma ero abbastanza sicuro che loro potessero fare altrettanto. 
“Carino. Potresti diventare mio allievo. Hehe” Rispose, sghignazzando con la sua risata aspra e polmonare. Essendo me infinitamente superiore, decisi di non ribattere. Mi sarei limitato ad aspettare il momento della sua dipartita per pisciare sui relitti del suo carro. Io, il cane e tutto il mio seguito. E con questo dolce pensiero di vendetta che i russi ci attaccarono scagliandoci addosso il peso della loro fanteria ruggente. 
Constatai con una certa delusione che erano tutti uomini. Speravo davvero di imbattermi in una compagnia femminile in abitini succinti, capelli al vento, collana di proiettili e mitraglietta ad una mano, selvagge ed affamate. Disperato io, disperate loro...ero certo che saremmo venuti ad un ottimo accordo. Nessuno le aveva mai incontrate, così in noi nascevano le peggiori fantasie. Non so gli altri, ma io mi sarei subito consegnato in mano loro. Disonorevole ma uhm, allettante… 
Nonostante la nostra fanteria fosse piuttosto stanca, parevano incassare bene i colpi e rispondere a tono. La voce grossa continuavamo a farla noi, dai nostri carri, costringendo i russi a ballare un tiptap mortale al ritmo dei nostri bossoli. 
Dopo la prima ondata dal fitto bosco, sotto la collina, emerse un nutrito gruppo di T-34. Mimetizzati come fagiani in primavera, sentivamo di avere un grosso vantaggio. Mirammo al collo di un bestione, tra la torretta ed i cingoli, ed assestammo un colpo mortale. 
...O almeno credemmo di averlo fatto. 
“Dannazione, ho mirato troppo in basso” Miagolò Klaus, disperato. Lui e Martin ricaricarono il cannone e ripeterono lo stesso stupido errore. Il muso del carro faceva rimbalzare i colpi come se fossero di gomma, lasciando una banale ammaccatura nella corazza. Però rallentò la sua avanzata. Forse il pilota era stato ferito, là sotto. 
“Levatevi, faccio io” Non potevo resistere ad una umiliazione del genere. La nostra copertura sarebbe saltata e da lì a poco ci avrebbero scoperto. Puntai dritto alla debolezza del T-34 e sparai. 
“Ho abbattuto una pernice!” esclamai, esultante. 
Per un attimo i miei uomini mi fissarono allibiti. Una nuvola di piume aleggiava a mezz’aria. Non voglio sapere quella povera bestia quanto sia finita lontana. 
“Dannazione Capitano Faust, lo ha mancato completamente! Temo si siano accorti di noi, ora!” Tom sembrava sul punto di piangere. 
“Il muschio è scivolato, mi ha coperto la visuale. Non ci vedo un cazzo...”
Fu a questo tragico punto che Maik prese una decisione. Armato di mine anticarro l’uomo abbandonò la sua postazione e si lanciò con un urlo animale verso il nemico, studiando i punti ciechi e sfidandoli con un coraggio da barbaro celtico contro la testuggine romana, falciando a grandi passi l’erba bruna che li divideva. La pelliccia si gonfiava nel vento, facendo apparire quel soldato dalle spalle larghe come un enorme mostro leggendario. 
Entrammo in competizione.
“Adesso dobbiamo abbatterne più di lui. Non possiamo fare la figura degli allocchi” 
“Ricevuto, Capitano!” 
Tom si spostò appena, avanzando con il muso verso il nemico. Ruotando appena la torre, prendemmo nuovamente la mira su un carro che deliziosamente aveva messo il cannone addosso al capocarro Joseph ed a quel suo fottuto equipaggio. 
“Dannazione, mio cugino è nei guai” Si lamentò Klaus, incalzando il suo compagno nel sistemare le munizioni.
Questa volta il colpo andò a segno ed il nemico esplose in un rigurgito di metallo e fumo. Mi sarebbe piaciuto vedere quello stronzo di un pittore fare la danza del fuoco ma non potevo chiudere gli occhi. Sarebbe stato inumano, avrei fallito sia come soldato ma, soprattutto, come essere umano. 
L’umanità scarseggia, in questa valle di lacrime. Mi concessi un battito di ciglia ed un respiro profondo mentre Klaus batteva le mani contro le pareti della Furia come se fosse matto, esultando di folle gioia. Dovetti concedergli il merito, questa volta. Fu una frazione di secondo, il tempo di gioire, e la guerra ci schiacciò nuovamente come un treno, impattandoci un feroce colpo di muso che ci fece rimbalzare di qualche passo, lasciandoci sgonfi d’aria come palloncini. 
“Siamo stati colpiti!”
“Capitano, il suo acume è notevole” Bofonchiò Tom, facendo marcia indietro. La nostra copertura efficacissima doveva essere saltata, lasciandoci come ringraziamento una bella incrinatura sul davanti. 
“Su di noi. Ore tre” 
Motivatissimi, ci preparavamo a bussare col fuoco contro chi ci aveva colpito. 
Fulminei ed ancora ebbri di felicità i miei uomini caricarono il cannone. 
“Aspettate” Dissi. Qualcosa non andava. Uno dei nostri era nella nostra traiettoria. 
“Dannazione. WOLFMANN!” 
Maik stava avanzando a grandi balzi e ci sfilò la preda sotto gli occhi, applicando sotto pancia del bestione la mina magnetica. Scivolò via dalle sue grinfie ed il T-34 esplose, lasciandolo illeso e trionfante, con la pelliccia bianca e bruciata che ondeggiava al vento, impeccabile mostro di guerra. 
Li affondava come se fossero pedine dei domino, saltellando felice tra i rottami come una versione battagliera di cappuccetto rosso in mezzo ai boschi. 
Quando a tarda sera i russi si ritirarono Maik aveva collezionato un indicibile numero di vittorie. Noi, scossi e sfibrati, riuscimmo a trovare a malapena la forza di raggiungere le tende e da lì crollare come sassi, sporchi e sudati, ringraziando immensamente il cielo di essere vivi. Dalle nostre orecchie sorde, dove fischiavano ancora i colpi dei cannoni, impercettibilmente, potevamo sentirlo fischiettare un motivetto gioioso mentre con le pietre taglienti faceva colare il grasso dalle pellicce dei lupi restanti. 
Ebbi un sussulto, un rigurgito di bile che mi fece rotolare su un fianco, annaspante e sbavante, al pensiero non molto lontano che Wolfmann non stesse più conciando pelle di bestia. Il cane mi saltò addosso, leccandomi con una certa apprensione il volto sudato e macchiato di fuliggine. 
“Dannazione a me” ringhiai ai denti stretti, imponendomi alcune ore di sonno. Mi era impossibile, ora. Accanto a me Tom il pilota, steso per terra, russava. Con una copertina di fortuna dormiva in posizione fetale, succhiandone un lembo come se fosse un bebè. Ed un po’ in un certo senso lo sembrava, con quel visetto tondo e glabro. Non ero il più vecchio del gruppo, ma sicuramente ero quello più prestante, virile e aderente ai canoni di bellezza attuali. Solo concentrandomi su me stesso e su quanto fossi meraviglioso sia fisicamente che mentalmente riuscii nuovamente a ripiegare alcune ore di un sonno senza sogni, bruscamente interrotto all’alba. 
 
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Eravamo ancora intorpiditi quando un urlo inumano spezzò la quiete. Ingrigiti e terrorizzati balzammo fuori dai nostri giacigli, raccogliendo alla svelta armi e munizioni. Fiete iniziò ad abbaiare, mostrando le mascelle dentate e le gengive rosa. 
Niente russi all’orizzonte. Solo un soldato dei nostri piegato in due sul limitare dell’accampamento. Vomitò a lungo, tossendo ed urlando di terrore, prima svenire per la paura, piombando a peso morto su ciò che aveva rigurgitato. 
Altri soldati raggiunsero per soccorrerlo ma, improvvisamente, diventavano rigidi come legni ed urlavano. Alcuni tornavano indietro, balbettando ed esibendo i coloriti biancastri delle loro facce. 
“Che branco di mollaccioni” mugugnai. “Bastian Faust vi mostrerà cosa significhi essere uomini” 
Mi feci largo a spallate tra quelle fila di cagasotto, sfruttando la mia mirabolante forza fisica e, soprattutto, il mio grado di Capitano. 
E mi resi conto che, indubbiamente, avrei fatto meglio a non avvicinarmi. 
Maik, Wolfmann, al diavolo su come vogliate chiamarlo. Chino sull’erba stava inchiodando qualcosa ad una grossa tavola di legno, di quelle lisce e piatte che in genere usava per conciare le pelli dei lupi, tirarle e sgrassarle. 
Ma qualcosa fece intendere che no, questa volta davvero non erano lupi quelli che stava ripulendo. Quando finì il suo macabro lavoro si pulì le mani dentro un elmetto russo pieno d’acqua, asciugandosi le grosse e lorde mani con brandelli di divisa bianca e marroncina. 
“Maik, Dannazione” Miagolai. Ne avevamo viste tante, di cose, ed era infinita la lista delle atrocità a cui avevamo assistito, che ci avevano fatto sbiancare e vomitare come un branco di galline. 
Ma questa volta era diverso. Vedevamo in lui, in quell’uomo forse un po’ troppo devoto alla violenza quel barlume di umanità, di lucidità e razionalità oramai perduta.
“Tanto cosa cambia?” grugnì, masticando un pezzo di corteccia nerastra. “Uomo o lupo, non c’è alcuna differenza” 
“Sapete cosa succede? Siamo tutti uguali! Carne e cuoio! Tanto vale sopravvivere! Non si offenderà di certo, ora” 
Imbracciai il fucile, togliendo la sicura. Non volevo sparargli. Speravo di mettergli paura. 
“Non puoi farlo, Maik. Quando tutto sarà finito...” 
“Silenzio! Cosa succede?” il Comandante arrivò da dietro, facendosi spazio a spintoni tra i soldatini impietriti che si erano assiepati dietro di me, come se potessi fornire loro protezione. 
Avrei dovuto sentirmi orgoglioso, ma non fu così. 
Lo stupore di ciò che vide gli fece cadere di bocca la sua amata pipa, lasciandolo esterrefatto ed urlante. 
“Ti mando davanti alla corte marziale! Questo è, questo è.…”
Mi rubò il fucile dalle mani e sparò un colpo in aria. Maik si alzò in piedi, prese una carcassa di lupo e la carico in spalla con un ringhio. Poi sparì in mezzo agli alberi, lasciando che le ampie vesti in pelliccia bianca si gonfiassero di vento nell’inquietante visione del giorno precedente. 
Provai a fermarlo ma la paura mi bloccò a terra. Caddi in ginocchio con le mani nel fango e nel sangue, imprecando. 
Fu allora che mi beccai due sonori schiaffoni che mi rivoltarono come un calzino, lasciandomi supino ed annaspante come una tartaruga. 
“Capitano?” la voce di Tom si insinuò come velluto nella mia testa colma di dolore. Improvvise fitte traspiravano dalle mie tempie che martellavano come cannoni. 
“Maik...” Mugugnai ad occhi socchiusi, mortificato e colmo di dolore. 
“E’ fuori a giocare con i lupi. Pensavo più a lei. Ha un aspetto orribile Improvvisandosi medico fece dei gesti assolutamente inutili, come misurarmi il polso e toccarmi la fronte.
“E’ tutto finito. È tutto finito...era solo un brutto sogno. Qualunque cosa fosse...ero appena riuscito a chiudere occhio quando mi sono ritrovato con del fango in bocca. Mi sono svegliato e l’ho vista che si infossava sottoterra come un a talpa” 
Dannazione. Sospirai sollevato, facendomi sfuggire un’amara risata. 
“Deve essersi sbagliato, Weisz. Stavo sognando delle dolcissime mutandine rosa, col pizzo bianco...” 
Lui mi guardò allibito mentre io, sardonico, trattenevo a stento una sbruffonaggine alquanto innaturale anche per i miei standard. 
“Allora dovevano essere indossate da una donna davvero brutta” concluse. 
Ne fui davvero grato.
 

 

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Calò la nebbia.
Aspra e fitta, non vedevamo ad un palmo dal naso. Si estendeva sulle colline, ammassandosi nella valle come una bianca magia, avvolgendo la boscaglia con una quiete mistica, trascendentale.
Acquattato come un avvoltoio stanco sporgevo a braccia conserte sul tettuccio della Furia, masticando un bastoncino di carne secca per smorzare la tensione. Ci stavamo spostando nuovamente, questa volta verso sud. Avanzavamo in fila, nascondendo dietro gli impenetrabili carapaci di Panzer un gruppo di fanteria ammassata ordinatamente in gruppi da venti, come a formare una sorta di cubo compatto.
Ogni tanto, annoiato, prendevo i binocoli e mi divertivo ad osservare la vallata alla ricerca della vita brulicante. Il bosco era fonte inesauribile di vita: volpi che si rincorrevano, tassi, pernici e fagiani. Una volta ci spingemmo sufficientemente a nord per incontrare un branco di renne. Con i loro musi grigi ci osservarono curiose, scrollando le corna sulle loro teste in atteggiamento minaccioso, e sbuffando dalle enormi narici. Spaventate, saltellarono lontane da noi, mescolandosi nella natura fitta.
Di tanto in tanto, lungo il nostro cammino naturalistico, ci imbattevamo in un animale particolarmente aggressivo e pericoloso: il Russus Russus. *
Il Russus Russus era un animale nudo, in genere coperto da uno strato di stoffa bianca o marroncina per proteggersi dal freddo. Non possiede artigli, ma Tokarev con munizioni e vivono in branchi composti unicamente da giovani gruppi di maschi che passano il tempo a cacciare gli esemplari evoluti di Germanus Sapiens, che portano in dono alle loro compagne per corteggiarle…
“Capitano” la voce di Tom via radio mi fece trasalire.
“Oggi è particolarmente silenzioso. Va tutto bene?” Mi chiese, spezzando la comunicazione con un colpo di tosse.
“Oh, sì, Weisz. Stavo pensando intensamente. Come sa, i grandi piani richiedono la massima concentrazione”
Il giovane rimase un po’ perplesso, bofonchiò qualcosa (che risuonò alle mie orecchie come un “Non riesce a pensare e parlare allo stesso tempo?”) ed interruppe la frequenza con laconico “Comprendo”
 
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Dopo una lunga marcia ci fermammo. Nascosti nella fine boscaglia, protetti dalla nebbia, accendemmo un piccolo fuocherello di braci fumose e scaldammo le nostre gavette di zuppa. Mentre cuocevano, mi dedicai al rifornimento del pieno e ad un controllo veloce del carro. Il colpo subito dall’ultimo scontro premeva duramente contro la corazza anteriore, incassandosi tristemente in un’ammaccatura grossa come un pugno. Ritornando al vecchio fronte avrei sicuramente trovato una placca frontale di ricambio.
A rancio cotto mi lanciai sulla mia ciotola bollente con ferocia inaudita. Alcuni pezzi di carne di lupo grigia galleggiavano sulla superficie oleosa dell’acqua, mescolandosi con rape ed erbe di campo. L’odore non era così terribile, la fame lancinante e così la divorai senza fare troppe storie.
Avevamo alcune reclute con noi. Ragazzini novellini appena maggiorenni dalla puzza sotto il naso. A quanto pare erano venuti a “supportarci” come “volontari” di una specie di accademia da ricchi. ** I volti pieni ed i coloriti vividi si arricciavano disgustati nel vedere quelle atroci razioni. Un paio di giovani, che immagino fossero di famiglia agiata, si rifiutarono di mangiare lo spezzatino di lupo.
“Mio Padre è un famoso pezzo grosso” Sbottò un ragazzetto dal volto macchiato di lentiggini.
“Mi aveva detto che servivano agnello arrosto tutti i giorni, con purea di patate e frittelle di mele” rigirava la zuppa come se fosse merda. La allontanò, schifato, rimettendola sulle braci.
Per fare bella figura il Comandante si era accollato la responsabilità di viaggiare con questi reietti, tutti figli giovani di grassi uomini appartenenti alla stessa comitiva, di quelli che guardavano la guerra dal finestrone di una villa confiscata.
“Benvenuto nel mondo dei poveri. Siamo tutti figli di contadini, sarti, operai e contabili. Guarda lui. Pensa che proviene da una famiglia di disoccupati” Gli suggerii, additando uno Chagall intento ad arrostire una radice nel carbone. Il mio intento era semplice: sfilare la zuppa a quel piccolo viziato e divorarmi una seconda razione.
“Mio padre mi ha detto che i disoccupati sono la rovina del mondo. Lo sapeva?” I suoi occhietti lucidi mi scrutavano indagatori. Profumava di cucciolo pulito.
“Oooh, non lo sapevo. E che altro ha detto tuo padre?”
“Che sono più importante di voi pezzi di merda ficcanaso. Porti rispetto al mio ordine, perché presto entrerò nelle SS” Mi silenziò, iniziando a fare i capricci e richiedere a gran voce il suo agnello ai carciofi, battendo i piedi ed invocando il nome del padre.
“Brutto marmocchio insolente” Ringhiai, mostrandogli orgogliosamente colletto e, soprattutto, le spalline riccamente decorate da linee bianche terminanti in una curva rotonda, comprendenti di due piccoli decori che mi differenziavano di grado e, soprattutto, dalla leggera bordatura rosa della controspallina che indicava il mio reparto, ovvero l’unità corazzata.
“Ammira. Cosa vedi? Io un meraviglioso Capitano che sguazza da tre anni in questa fogna. Porta rispetto per un tuo superiore”
E con queste parole mi avventai sulla sua gavetta scartata, mentre quello piangeva ed evocava minacce miste ad implorazione.
I suoi grassi pugni battevano sulle mie spalle: dovevano sembrare minacciosi invece sulla mia pelle parevano poco più che solletico. Piuttosto, colto dalla fretta, ingurgitai quella melma ad ampi bocconi, facendo scivolare carne e grasso giù dalla gola come se non avessi mangiato da mesi, lasciando gocciolare l’unto lungo le mascelle come una bestia selvatica.
Mi bruciai la lingua, ma ne valse la pena.
“Ragazzino, è giunto il momento di farti vedere come si comporta un vero soldato” Affermai, ruttando per rafforzare il concetto.
Come prima mansioni gli feci assaggiare la dura corazza della Furia.
Letteralmente, dovette leccare il metallo del carro armato, assaporando le macchie di fango ed il pastone di foglie che il bestione aveva sollevato il tragitto. Grufolando, il porchetto si rifiutò di obbedirmi, dicendo che, con una sola parola, suo padre avrebbe potuto mandarmi a morire.
“Se sei qui con noi forse il tuo dolce padre non ha molto a cuore la tua vita. Dunque, non credo gli interessi la mia” risposi in rima, facendo affondare il suo viso in un dolce ammasso di melma. Ne assaggiò un boccone e pianse lacrime amare.
Ne aveva abbastanza. Lasciai la presa sul suo colletto. Non era colpa sua, in fin dei conti. Non era colpa di nessuno, quaggiù. Il sano nonnismo non fa mai male e solo in questo modo riuscii ad ottenere rispetto e ammirazione da quel giovane porcino. Non era grasso ma aveva quella pienezza in corpo che a tutti noi mancava, quando la prestanza si riduce a chi riesce a nascondere meglio il costato tra la pelle. Modestamente io sono il più avvenente sotto questo punto di vista. Internamente ed esternamente risulto impeccabile, una vera meraviglia della natura. Anche il mio costato è favoloso e desiderabile...
 
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Ben presto tornammo a marciare. Sotto il sole di un breve pomeriggio i nostri carri avanzavano in file compatte, carichi di soldati fino a scoppiare. Per un po’ avevo passato la giornata rinchiuso nell’abitacolo, intento a studiare una mappa. Accanto a me il cane dormiva stretto nel suo angolo-cuccia, appoggiando la testa sempre più grossa tra le mie gambe. Quando, ad un certo punto, iniziai ad avere disperato bisogno di aria fresca, aprii la piccola botola sopra la mia testa.
...O almeno, tentai invano. Qualcosa la bloccava.
“Dannazione” Mugugnai, battendo un pugno sul coperchio. “È bloccata”
Presi l’interfono e chiamai il pilota.
“Weisz, il tuo Capitano ti sta parlando”
Il ragazzo sbuffò sonoramente, restando in completo silenzio. Lo presi come un segnale positivo, così continuai a parlare.
“Credo che il coperchio qua sopra si sia rotto. Non riesco ad uscire. Mi...manca l’aria. Morirò soffocato”
“Non sia tragico” Bofonchiò. “Ci sono altri sportelli, non rimarrà intrappolato, si fidi”
“Prima funzionava” Diedi due colpi secchi. Quando riuscii ad uscire, finalmente, ci ordinarono di fermarci all’istante. Alcuni soldati si erano appollaiati sulla mia postazione per sfuggire alla morsa del cammino e, spintonandosi un poco sentendomi armeggiare, erano caduti, provocando un effetto domino.
Inizialmente restai perplesso. Quando eravamo saliti sul carro per continuare la marcia molti uomini avevano deciso di sedervisi sopra. In qualche modo il numero doveva essere aumentato, fino ad occupare la mia botola.
“Avevo avuto questo dubbio sa, Capitano?” mi riferì successivamente Tom “C’era un piede che dondolava davanti a me, credevo fosse un’allucinazione da fame”
Aggrappato alla botola come un naufrago al suo ceppo galleggiante, cercai la comprensione di un Maik appollaiato alla torretta esterna, le orecchie del copricapo lupino tese come fossero un suo stesso prolungamento uditivo.
Stava sempre fuori, nonostante fossimo provvisti di una mitraglietta interna. Soffriva di una specie di claustrofobia che lo faceva strillare come un ragazzetto, nonostante avesse le dimensioni di un bisonte. Questa sua attitudine aveva aperto la strada ad una possibile integrazione di un sesto membro nell’equipaggio. In effetti, tempo fa, avevamo un giovanotto dai capelli rossi che chiamavamo Lenticchia come mitragliere e marconista perché…beh, Maik non possiamo considerarlo tale. Era abbastanza stupido ed aveva una specie di predilezione per Martin e Klaus, dei quali credeva ad ogni singola storia, racconti di fughe comprese. Un giorno fecero una gara per decidere chi dei tre era più bravo a disertare e morì fucilato qualche giorno più tardi, dopo essere stato rintracciato a decine di chilometri di distanza. Indubbiamente fu l’indiscusso vincitore. Gli dedicammo una targa di legno. “Qui giace Ralf Luft, stimabile carrista, vincitore della gara al miglior disertore della Cinquantesima divisione Panzer***”
Ci beccammo un paio di giorni di galera ed una missione punitiva sulle rive del Don ma, a parte questo, andò tutto bene.
Nessuno parlò più di un sesto elemento, anche se adesso è regolarmente conteggiato come Caporal Friedrich Faust, soldato canino.
 
 ╬
 
Quando finalmente riuscimmo a raccogliere tutti i caduti (verbo cadere, per fortuna) e rimetterci in marcia, Maik improvvisamente si rabbuiò, arricciando il naso come se stesse fiutando qualcosa.
“Russi” Bofonchiò. “Tra i tre ed i cinque chilometri di distanza”
Io, che avevo deciso di non abbandonare la botola aperta fino a nuovo ordine, lo guardai piuttosto perplesso. Il soldato sollevò appena le labbra, mostrando i denti come una bestia rabbiosa.
Ultimamente era diventato decisamente selvatico, notammo. Chagall era convinto che, durante le battute di caccia ai lupi, avesse incontrato dei Tartari e che da essi avesse appreso qualche arte sciamanica a noi sconosciuta. Dato che il parere di quel subumano non era degno delle mie orecchie, preferii ignorare quella folle teoria.
“Come fai a saperlo?” Chiesi, arricciando le sopracciglia in un’arcata scettica.
“L’odore. Sento il loro fetore provenire controvento. Sono circa cinquecento esemplari umani. Sento puzza di ferraglia. Uno. Due. Dieci carri. Lo sente anche lei, capobranco? Tiri fuori la lingua.”
Le mie sopracciglia si fecero sempre più arcate e vicine, trasformandosi in un gabbiano di scetticismo pronto a spiccare il volo dell’indignazione.
“Mi ha chiamato Capobranco, Gerste. Siamo uomini, non lupi. Sono suo superiore, in quanto Capitano e capocarro”
In risposta grugnì forte, sistemandosi la pelliccia di lupo. Il cranio della bestia sporgeva macilento oltre la sua fronte, lasciando scoperte le gengive dell’animale ritratte dalla decomposizione. Grazie al cielo fa abbastanza freddo e non ci sono mosche. Quella pelliccia ci ucciderà, me lo sento.
“Non si preoccupi, Capobranco. In quanto Beta il mio dovere è proteggere lei ed il suo branco di stolt”
Abbassai lo sguardo, interdetto dalle parole e dal fetore della carcassa. Chiusi per un attimo gli occhi, un battito di ciglia, e davanti a noi vi fu una forte esplosione. Lapilli e bave di terra schizzarono sopra di noi, ricoprendoci di fango e pietrisco.
Immediatamente ci fermammo. Mi ricacciai nuovamente dentro al carro, chiudendo la botola sulla mia testa.
“Siamo finiti in un campo minato!” si disperò Klaus, rannicchiandosi in un angolino, le mani accuratamente riposte sopra la testa. “Moriremo tutti”
È giunto il momento di disertare per davvero.” Disse Martin, rannicchiandosi anche lui nell’angolino. Essendo troppo alto e lo spazio troppo angusto, la posizione assunta era alquanto innaturale e buffa.
“Si, Martin. Scappiamo! al mio tre”
E lo fecero davvero. O comunque, finsero di provarci. Contarono per una manciata di secondi prima di sgusciare dal carro, pronti a battere in ritirata.
Timidamente uscii con tutto il busto dalla botola per godermi la scena.
I due, mandando al diavolo tutti i dettami del vero tedesco inflessibile, si ritrovarono piangenti a biascicare scuse mentre il Comandante forniva loro due piccole pale, ordinando uno sminamento massiccio di questo nuovo campo non identificato dalle mappe.
Ed io, dalla mia posizione privilegiata, me la ridevo della grossa.
“Lo trova divertente eh, Faust?” Da sotto il carro il mio superiore mi squadrò torvo, facendo ondeggiare la pipa vuota che teneva sempre in bocca.
“Scenda a scavare anche lei. A mani nude”
 
 ╬
 
Il giorno mutò in notte, portando con sé la gelida morsa del vento. Sminare è un lavoro del cazzo, soprattutto senza pala. Mi erano appena ricresciute le unghie, abbastanza da non dolermi ogni volta che toccavo qualcosa, e adesso stavo mandando nuovamente tutto a puttane, lasciando che la terra si infiltrasse tra le crepe, nelle ferite, impastandosi dolorosamente con il mio sangue.
Non che con quelle minuscole pale di cui la fanteria era dotata servissero a molto. Gli uomini, impauriti, si limitavano ad accarezzare i ciuffi d’erba. Qualcuno più esperto tastava il terreno con un bastoncino sottile, con la speranza di non dover mai toccare una mina.
Oltre al dolore ed alla fatica, avevo la netta sensazione che quello fosse un lavoro sbagliato. Attivi ed operanti, eravamo completamente scoperti. Un paio di tiratori scelti avrebbero potuto eliminarci senza troppa fatica. In aggiunta al fatto che nessuna mina venne trovata.
“Che lavoro del cazzo” Sbottò ad un certo punto un fuciliere.
“Ho sempre detto che avrei dovuto scappare in Svizzera ed aprire un cabaret artistico” borbottava a bassa voce, estirpando con poca cura grossi brani d’erba dal terreno.
“Seriamente. Non c’è nessuna mina qua. Guardate”
Prese un sasso e lo lanciò lontano. Quando questo toccò il suolo la terra eruttò fango, sollevando una nuvola di foglie ed erba.
Appollaiato sopra la Furia come una grossa cornacchia verdastra, il Comandante interpretò positivamente quel segnale. Si schiarì la voce, soffiando del non-fumo dalla sua pipa vuota.
“Guardate, fannulloni! Dovete detonare ogni singola mina a costo di saltarci sopra”
“Herr, non abbiamo i mezzi, dovremmo aspettare i soccorsi...” Provarono ad obiettare.
“Come ho detto” L’uomo di schiarì la voce, levandosi la pipa dalla bocca per pulirne accuratamente il bocchino “Avete un mezzo efficiente per disinnescarle. Voi. Torniamo a marciare, lo faremo par tutta la notte. Abbiamo perso troppo tempo, qua”
Queste affermazioni ci lasciarono boccheggianti come pesci. Logicamente i carri avrebbero aperto la strada con la speranza che non vi fossero mine ben più potenti nascoste nei meandri della roccia.
“Ho una strana sensazione” Disse Tom, mentre scivolava dentro il carro.
Alzò un dito al cielo, guardando le stelle.
“Ronzano sopra di noi. Li sentite?”
Tendemmo le orecchie, tirati come corde di violino, quasi come se ogni piccolo rumore commesso nella vastità della terra potesse essere udito dai ricognitori russi che ispezionavano i cieli.
“Fantastico” borbottai atono facendo scivolare Fiete dentro il carro. Entravo sempre per ultimo, chiudendo la botola sopra la mia testa. Le stelle si spensero, lasciando spazio alla vastità del buio e alla sensazione di oppressione feroce che ti solcava il collo in enormi gocce di sudore...difficile stabilire se fosse il caldo o la sensazione di essere intrappolati in una lattina di metallo. Entrambe, forse.
Immobili ed in silenzio, nessuno dei carri osava muoversi. Anche il comandante tacque. La tattica del furetto morto rimane sempre la più affidabile. Se non sai cosa fare, non fare nulla.
Per un po’ gli avvoltoi volarono in cerchio sopra le nostre teste. Non trasportavano bombe, erano ricognitori, ma avrebbero potuto comunicare le nostre coordinate se ci avessero scoperto.
In qualche modo sembravano coscienti della nostra posizione ma, mancanti di sicurezza, ispezionarono la zona per quella che parve un’interminabile ora, prima di virare verso la fitta boscaglia, scomparendo dalla nostra vista mentre l’eco dei loro motori si faceva sempre più flebile.
Mentre io, nervi saldi e tempia pulsante, mi mantenevo vigile ed attivo, alcuni uomini avevano preferito approfittarne per schiacciare un pisolino, Tom compreso. Lo ritrovai nella sua postazione con la testa mollemente abbassata ed il cappello sopra gli occhi, sommerso in un lieve gorgoglio riposante.
Scivolai verso di lui, battendo delicatamente contro le sue spalle. Si svegliò di soprassalto, girandosi con uno scatto isterico.
“Ehi, buongiornissimo tesoro. Dormito bene? Perché questa è insubordinazione” Miagolai, tirando fuori dalla mia voce una dolcissima nota amorevole ed ironica.
“Sono desolato, Capitano! È colpa del caldo, manca l’ossigeno qua dentro” nella sua voce sfuggì una nota mortificata. Ma ben si sa, sono un superiore magnanimo. Mi limitai a ricacciargli il cappello sulla testa.
“Rimettiti in sesto, abbiamo l’ordine di marcia”
“Ricevuto, Capitano!” il giovane soldato sbadigliò prima di accendere i motori. Ne approfittammo per cambiare un po’ l’aria che, gelida, riequilibrò la temperatura del Panzer rovente.
Issammo un po’ di soldati sui carri e ripartimmo. Ironia della sorte, non trovammo alcuna mina nel campo. Imprecammo di gioia per il tempo buttato ma per le vite salvate.
Ritornammo a nasconderci nella fitta boscaglia, tra sassi e pini, stanchi e sfibrati in quel misto di gioia ed orrore nel sapere che ben presto saremmo giunti alla meta.
 






Note:
*Finto latino per dare l'impressione di un trattato scientifico.
**NaPolA, scuole per cadetti generalmente ricchi o particolarmente "ariani" e promettenti.
***Divisione inventata e non riconducibile a sezioni realmente esistenti
 

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


“Viva la Resistenza!”
Gridò, puntando i suoi occhi avidi e fieri verso di noi. Con portamento nobile, quasi regale, ella tirò indietro i capelli, che ricaddero gonfi di pioggia lungo le sue guance, impastandosi nella sua bocca traboccante di rabbia.
Noi, i cinque fucili in fila, avanzammo nel fango. Tremanti, ponemmo le dita sul grilletto.
Bastò una parola per far cantare le nostre armi. Passeri acquattati tra gli alberi tacquero, volando via in un muto cordoglio.
Dicono che un fucile sia caricato a salve affinché vi sia la vana speranza dell’innocenza ma, quando contarono i bossoli, ne trovarono esattamente cinque.
 
 ╬
 
Credo sia doveroso fare un piccolo passo indietro. Il pensiero è assurdo è folle: innegabilmente, perfetti sconosciuti vogliono ucciderci. Gente che, in altre condizioni, in un mondo migliore, avrebbe potuto sedere al tavolo e pagarti un doppio whisky, invece di pensare a come ammazzarti. Lo faccio anche io, non sono esente da questo circolo vizioso.
La nebbia era mutata in pioggia e, con essa, il duro terreno gelido era diventato mollo. I cingoli dei nostri panzer affondavano nel fango, incespicando con lunghi lamenti del motore. Mio padre quando, con la lunga pipa in bocca, mi raccontava la Grande Guerra, rammentava di asinelli testardi che si rifiutavano di camminare. Accompagnati per le briglie, gli animali piantavano i loro zoccoli nella fanghiglia, tirando all’indietro i loro grossi musi come per dire “ti prego, torniamo indietro. Questo posto non è sicuro”
Carichi fino a scoppiare, le docili bestie li accompagnavano a passo lento tra le valli ed i picchi aguzzi delle Alpi, saggi nel posare gli zoccoli più di quanto possiamo esserlo noi a guidare i carri armati.
“Capitano!” la voce di Tom risuonò flebile via radio, coperta dall’ululato dei cingoli che giravano all’impazzata.
“Ci siamo impantanati, non riesco a muovermi!” questa volta il suo acuto spaventato riecheggiò nelle nostre cuffie.
“Fermiamoci, è inutile proseguire. Dannazione…”
Provai a comunicare alla compagnia il nostro problema, ma quelli ci ignorarono, proseguendo nel loro cammino, abbandonandoci all’infausto destino.
“Stronzi!” urlai, facendo capolino dalla porticina. Il vento ululava più della mia voce, disperdendo le mie parole nell’etere.
“Come ai vecchi tempi, soldati. Da soli in mezzo al nulla. Che nostalgia”
Spegnemmo il motore e ci accasciammo a terra con indolenza, cercando una soluzione.
Nello specifico, la mia. Le altre non le ascoltai.
“Scendete tutti e lasciatemi il posto di guida. Andremo un po’ indietro. Io guido, voi spingete”
I miei uomini rimasero alquanto perplessi. Poi, sospirando, uscirono dal carro.
Tutti tranne Tom, il pilota. Saldo al volante come un novello Titanic, sbottò un “Affonderò nel fango, se necessario!” in tono decisamente aggressivo, artigliando il volante come se, effettivamente, stessimo scivolando a picco nella melma.
“Non sia così catastrofista, Weisz. Faccia il bravo e scenda a spingere il carro assieme agli altri. È il suo diretto superiore che te lo ordina”
“Mai. Posso farlo anche io”
Portai le mani avanti con diplomazia.
“Va bene” Aggiunsi, affiancandomi a lui “Comprendo la sua decisione. Ma preferisco dare la precedenza alla mia”
Lo spazio era alquanto angusto e, per quanto mi impegnassi, non riuscivo a spingerlo via.
Così, quando per un secondo mi cedette il posto ed io già cantavo vittoria, me lo ritrovai in braccio, leggero come una piuma. Era ben deciso a non mollare la presa.
“Contento lei, Capitano” Il giovane pilota sbuffò con una certa impertinenza, rigido come ferro.
“Non faccia l’ingenuo, Weisz. Non credo fosse il posto ad essere importante...e nemmeno il suo ruolo” Feci schioccare la lingua con aria di uno che la sa piuttosto lunga.
“Lo ha fatto apposta. E la compatisco, davvero. Se fossi un altro mi desidererei intensamente. Infrangerei qualunque legge morale per avermi vicino, stretto stretto...conosco i miei uomini”
Tom cercò di obiettare. Si girò verso di me a fauci spalancate, come una bestia impaurita pronta ad attaccare, ma le parole si fermarono in gola. Ghignai ed ingranai la retromarcia.
Fortunatamente, con lentezza estenuante, riuscimmo ad uscire dal pantano. Lo considerai come un successo personale, nonostante il pilota effettivo continuasse ad insistere che quella semplicissima manovra avrebbe potuta eseguirla da solo.
“Però l’ho fatto io, Weisz. Mi riconosca il merito” Gli lasciai il posto. Il giovane balzò ai comandi con scatto felino, lanciandomi occhiatacce rancorose da sotto il cappello. Sono onnisciente, dovrebbe saperlo. Ma i suoi piccoli segreti sono al sicuro, con me. So essere anche magnanimo.
Quando finalmente ripartimmo i miei uomini erano fradici. Martin e Klaus, tremanti, apprezzarono il caldo opprimente del Tiger rombante. Maik invece non volle sapere di entrare. Arruffato nella sua pelliccia di lupo, cercava nella pioggia il legame perso con la natura.
“Gli alberi dicono cose interessanti, a sua differenza” La sua risposta impedì un qualsiasi tipo di replica.
“Sono un ufficiale inferiore, a sua differenza, Gerste. Moderi i toni” furono le mie ultime parole, rinchiudendomi nuovamente nella realtà soffocante della Furia.
Fece spallucce ed abbassò il capo, lasciando che la pioggia grondasse tra i bianchi canini e le gengive ritratte e nere del suo copricapo. Non era mai stato un tipo particolarmente collaborativo.
 Il nostro cammino procedette piano e silenzioso. Tom evitava di rispondermi, ancora offeso. Rifiutò i miei ordini, lamentandosi di essere uno spreco assieme a noi quattro. Lo accusai di insubordinazione, ma lui non ci fece caso.
Mi sottovalutava, ne ero sicuro. Per questo, dopo tanto tempo, ripresi in mano il manuale di istruzioni del Panzer VI Tiger.
I miei uomini farfugliavano alle mie spalle. “Guarda il Capitano, vecchio Klaus! Finalmente si sta applicando per davvero” si incitavano l’un l’altro, cogliendosi in occhiate di vane speranza.
Che sciocchi.
Stavo guardando le illustrazioni.
All’interno dei manualetti sono presenti deliziose figure femminili, delineate con un tratto sottile e rosato che suscitavano le peggiori fantasie nelle truppe durante i tempi di magra.
In particolare, ero follemente innamorato della figurina aggraziata che faceva il bagno in una sontuosa vasca di ceramica bianca. Anche se, tutto sommato, lo spacco nel vestito della fanciulla rossa, provvista di lunga ed avvenente gamba, mi aveva rapito il cuore.
Mentre gli allocchi si illudevano che stessi prendendo provvedimenti (che non avevo bisogno, dato che conosco la Furia come le mie tasche) io mi deliziavo gli occhi fingendomi un avido studioso. Funzionava sempre.
 
 ╬
 
Il tempo mutò. La pioggia battente si fece sempre più fine fino a scomparire, lasciando il posto a cumuli di nubi nere ancora gonfie d’acqua, tacite in una breve tregua.
L’aria era colma di profumi. Tralasciando l’acre tanfo del combustibile della Furia, venti boschivi giungevano a noi. Legna marce, funghi, erba bagnata e terra umida si mescolavano selvaggiamente in quelle terre immense. Gli uccelletti cantavano nascosti tra le fronde degli alberi. Sembrava tutto tranquillo.
Per un po’ riuscimmo a seguire le orme fangose lasciate dai nostri compagni. Ci guidarono fino ad un piccolo raggruppamento di umili casupole di pietra. Forse un tempo era una fattoria, con le sue stalle per le vacche ed il terreno smosso che ancora ospitava qualche minuscolo cavolo.
Decidemmo di fermarci.
Nulla ci vietava di ispezionare il casolare alla ricerca di un pezzo di pane raffermo o un formaggio stagionato. I suoi abitanti dovevano essere andati via da parecchio tempo o, come constatò Fiete latrando furiosamente nelle stalle, uccisi brutalmente e gettati ai corvi da qualche soldato meno scrupoloso di noi.
Mentre i miei uomini cercavano, io mi dedicai alla manutenzione della Furia. Era quasi incredibile che nessuno fosse riuscito ancora ad abbatterla. Mentre facevo scivolare la benzina nel serbatoio mi complimentai mentalmente con me stesso, chiedendomi se quel sopravvalutato Barone Nero fosse riuscito a far di meglio. Voci di corridoio lo vedevano impegnato sul fronte russo a compiere miracoli.
“Se solo avessero conosciuto la Furia, bah! Forse dovrei essere più riconoscibile. Come simbolo voglio un cervo nero incoronato d’oro che bramisce alla tempesta. Si! Nostra sia la Furia!”
“E’ davvero convinto che i cervi davvero ci rappresentino, Capitano?” La voce di Tom, soffocata, proruppe dal nulla.
Avevamo scavato un fosso, di quelli fatti apposta per scivolare sotto ai carri ed evitare una morte tragica e disgustosa. Dovevamo controllare la pancia ed evidentemente mi ero dimenticato di lui, l’unico davvero desideroso di collaborare. Sbuffai.
“Non ho detto assolutamente nulla”
“Oh, sì, invece” mi rispose, sgusciando da sotto il carro come un grosso verme nerastro.
“Ha pensato tutto il tempo. Ad alta voce” Sul suo volto comparve un sorriso sbeffeggiante. Gli feci cenno di lasciar perdere, ma lui continuò.
“Sa cosa le dico? Lasci agli altri gli animali da pascolo. Cervi, arieti...nobilissimi, ma non siamo fatti di zinco. Siamo di acciaio nobile, predatori. Tigri”
“Lei è un sognatore, Weisz” replicai. “Per quanto mi spetta, non ho mai visto davvero una tigre. Sono bestie così lontane, esotiche, talmente belle da essere mitologiche per un povero uomo vissuto nella periferia di Monaco.
Ho visto i cervi, si! Con le corna che paiono corone, che leccano il muschio nei tempi di magra e brucano il grano nei tempi di grassa. Per quanto possa essere magnifica la tigre, è sola, destinata a soccombere sotto la moltitudine del branco, delle corna, di noi. Ed è questo quello che siamo”
Il pilota rimase decisamente interdetto. Boccheggiò un paio di volte, come se stesse divorando aria.
Poi tornò nelle viscere della terra, sommergendosi sotto il peso dell’acciaio freddo.
 Fu una perdita di tempo. La fattoria era stata completamente ripulita da coloro che erano passati prima di noi. Ci rimanevano solo alcuni piccoli cavoli intorpiditi dalla pioggia. Ne raccogliemmo un paio e li caricammo con noi. D’altronde ora non servono più. Ripartimmo a manutenzione finita.
Ironia della sorte, riuscimmo in breve a riunirci con la nostra compagnia che, qualche ora prima, ci aveva abbandonato.
“Il terreno era troppo friabile” il comandante sbuffò aria dalla pipa vuota, quando finalmente riuscimmo a parlare con lui.
“Da voi avevamo imparato la lezione. Se ci fossimo fermati, probabilmente, sarebbero affondati anche gli altri carri”
Sapevo in cuor mio che avevano tentato di lasciarci indietro. Eppure, fino ad oggi ci siamo comportati in maniera esemplare. Perfetta come sempre. Il solo Maik ha debellato la piaga dei lupi e fornito cibo a tutti i suoi uomini! È anche merito mio. Dovrebbe essermi riconoscente.
“Guardi, Faust. Quei gentili contadini ci hanno aiutato a trovare la strada. La mappa in mio possesso non era aggiornata. Rischiavamo di perderci” con la lunga pipa indicò un paio di giovani dall’età compresa tra i sedici ed i venticinque anni. Vestiti di stracci, parlottavano tra loro una lingua bastarda, facendo fuoriuscire un forte accento russo nelle loro parole.
“Comandante...” Lo presi da parte.
“Non vorrei mancarle di rispetto, ma non sono davvero sicuro che quei tipi siano affidabili”
“Si sforzi di usare il cervello, per una volta” Brontolò l’uomo, inspirando il non-fumo dalla pipa.
“Li ricompenseremo adeguatamente per averci aiutato. Non possono farci nulla”
Detto da uno la cui minaccia principale furono dei lupi, non riuscivo proprio a concepire come quella fosse una buona idea. Decisi di fidarmi, non potendo fare altro.
“Ripartiremo al più presto. Solo una piccola manutenzione ai carri, una sosta per questi poveri uomini dai piedi colmi di vesciche...”
Non seguivo le sue parole. Piuttosto, notai come quegli esemplari contadini guardassero in su, nel fitto degli alberi sotto cui ci eravamo fermati. Non ero il solo ad averlo notato. Un paio di fanti alzarono lo sguardo al cielo. Un giovane senza decori sparò tra le fronde. Silenziosamente un corpo spirò, cadendo pesantemente al suolo. Al collo portava un fucile.
“E’ un’imboscata!” qualcuno urlò. Le armi riposte nel momento di pace vennero issate nuovamente in segno di guerra, ma non furono abbastanza veloci da sfuggire alla pioggia di proiettili.
Una sfacciata fortuna mi salvò la vita. Con la mia divisa nera ero un bellissimo bersaglio da centrare. Riuscì ad entrare nel carro per un soffio. Fiete mi salutò scodinzolando, ma quello non era il momento dei giochi.
Da solo, nell’immobilità della Furia, guidai il suo cannone verso gli alberi, sperando di poter respingere quel maledetto gruppo di resistenza organizzata che voleva le nostre teste. Decisamente inferiori di numero ma ben organizzati, la Resistenza ci colse completamente alla sprovvista. I quattro che avevano guidato quello stolto comandante nel luogo dell’imboscata morirono sul posto. Quando ritrovammo i corpi i loro volti erano oramai irriconoscibili, ridotti a spesse maschere di sangue e cervella.
Per un momento fiutai il panico. Ero solo, in ritirata nel mio grosso regno di acciaio, con il cannone che puntava troppo in basso, la mitraglietta a tiro troppo breve. Mi si gelò il sangue al pensiero di uscire dalla mia posizione salvavita.
Silenziosissimo, feci uscire solo la canna dal portello del pilota. Non vedevo oltre il mio naso. Intorno a me tutto si ovattava. I proiettili rimbalzavano contro il carro, sempre più radi, sempre più fiochi ed io non capivo se fosse una mia impressione oppure lo scontro stesse cessando.
“Cosa cazzo sto facendo” mi ritrovai a mormorare, sospeso nel limbo della disperazione.
Là fuori c’erano gli altri, i miei uomini. E qua c’ero io, vigliaccamente rinchiuso nella vana speranza di poter fare qualcosa. Non ho forse detto prima che la tigre muore da sola? Questo dannato mezzo da solo non può fare nulla, solo opprimermi tra le sue spesse lamiere.
Trattenni il fiato ed uscii allo scoperto, maledicendomi con tutto me stesso.
Sperai con tutto il cuore che nessuno avesse notato la mia assenza.
 
 ╬
 
La situazione fuori non era certo rosea, ma nemmeno così tragica. Quando vennero sparati gli ultimi colpi, io contribuii a levare spari al cielo, cercando una vana redenzione.
L’attacco a sorpresa ci costò alcuni uomini e molti feriti. Appollaiati sui rami il gruppo partigiano poteva contare su una buona visibilità ma una mira instabile, dettata dal vento e dalla pioggia che, lentamente, era tornata a dissetare un terreno gonfio d’acqua, lavando il sangue dalle ferite.
Il comandante era morto con un unico colpo in fronte. Stringeva ancora la pipa tra le mani.
“Avevo ragione io” mormorai, chinandomi sul suo corpo, gli occhi ancora sbarrati per la sorpresa.
Non era di certo la frase più intelligente che fossi riuscito a formulare, ma era l’unica che potessi dire. Il senso di colpa mi mordeva lo stomaco. La colpa era anche un po’ mia, della mia tragica ed umana paura.
Riuscii a trovare i miei uomini. Maik si era arrampicato su un albero ed aveva mietuto una vittima a mani nude. Era alquanto ironico vedere come un uomo possente come lui fosse capace di agilità felina. Forse era dettata dalla pazzia. Chi, infondo, non aveva perso una rotella, quaggiù?
Klaus e Martin li ritrovai dopo una buona mezz’ora. Il primo aveva il berretto bucato, mentre il secondo era solo terribilmente spaventato. Mi sentii alquanto sollevato dal fatto che avessero tentato la fuga. Sono gli errori degli altri a dimezzare i miei.
Con Tom le cose andarono diversamente. Ricoperto di fango, lo ritrovai moribondo sul dorso della Furia. Un proiettile gli aveva forato le carni, conficcandosi nella scapola. Lo rigirai supino, pulendogli il viso sporco di fango.
Il senso di colpa per averli abbandonati mi annebbiò la vista. Trattenni i visceri per non vomitare.
“E’ solo una ferita superficiale, passerà, passerà...” Mandai i miei uomini a prendere il kit medico mentre io stesso faticavo a stare in piedi.
“Lo ha detto lei, Capitano” Sorrise, stringendo il pugno.
“Assieme siamo imbattibili, giusto? Come i cervi”
Per un attimo rievocai i bei ricordi. Le lettere che profumano di casa, di caldo e di fiducia mal riposta, che faticavo ad assimilare.
Vomitai bile ai piedi del carro, colto da spasmi di disperazione.
 
 ╬
 
Eccoci al punto di partenza.
Avevamo fatto una manciata di prigionieri. Speravamo davvero di poter estorcere loro alcune confessioni. Ci sputarono in faccia. Nei loro volti la scaltra fierezza di chi mai avrebbe confessato, preferendo la morte al tradimento.
Li fucilammo spalle al muro, seppellendo i loro corpi lontani da noi, schifati.
 
 ╬
 
La fortuna ci baciò ancora una volta.
Caricammo i feriti sui carri, offrendo loro un primo soccorso.
Perché dico fortunati? Riuscimmo a trovare un ospedale da campo. Un vecchio edificio fatiscente, dalle finestre rotte, carico di soldati fino a scoppiare.
E di certo non avrebbe fatto piacere loro ospitare una nuova sfilza di feriti.
Almeno, in quella che doveva essere una magra consolazione, ritrovai il vecchio Biermann. Lo avevano trasferito lì, dove sicuramente avrebbe dato un aiuto più concreto rispetto a prima. Lo vidi di sfuggita mentre fumava malinconicamente sugli scalini del palazzo. Quando lo chiamarono, spense la sigaretta sotto le scarpe, sospirando malinconico. Il suo volto, sempre più scavato, si accartocciò in una stanca espressione, alzandosi a fatica da quegli scalini.
Diedi una mano a scaricare i feriti. Misero Tom in una brutta barella ed aspettammo assieme le procedure burocratiche di smistamento.
“Non giocarmi brutti scherzi, eh?” un sorriso forzato sfilò dalle mie labbra.
“Due parole, Capitano...venga qua” Mi fece cenno di avvicinarmi. Tesissimo, gli porsi l’orecchio.
“Si fotta. Non posso lasciare che il nostro Tiger perda il suo uomo migliore” Ghignò, mentre due infermiere finalmente lo portavano via, pronto a ricevere le giuste cure.
“Al diavolo!” gli risposi. Lui approvò da lontano.
Era un buon segno. Sarebbe andato tutto bene.

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


Avvenne un fatto piuttosto curioso.
Quello che all’inizio pareva uno strano scherzo iniziò lentamente a concretizzarsi.
Un pezzo grosso delle nostre linee, immagino quel porco del colonnello Von Bauer, aveva giocato tutte le carte del suo mazzo per far approdare in questa terra dimenticata da Dio la famosa cantante radiofonica Anita Blume, elegante sogno erotico che affollava le menti di intere generazioni di soldatini disperati.
Figlia di madre iberica e padre tedesco, un facoltoso banchiere viennese*, Anita era spesso la dolce melodia dell’appuntamento radio quando, stancamente, riuscivamo a captare i segnali della madrepatria.
I ricordi sono vividi e rampanti. Con il cassone sottomano ed impegno certosino spesso ci apprestavamo a girare rotelline ed antenna alla ricerca della sua nobile voce, spesso interrotta sul più bello da una sovrapposizione di onde sovietiche. Dolci canti d’amore mutavano in una sbieca voce maschile russa che distribuiva gratuitamente propaganda comunista tra le nostre linee. Alcuni di noi, tra cui il capocarro Joseph, cugino di Klaus, gioivano nell’ascoltare quella patetica propaganda. Noi cercavamo di farlo desistere: il suo fervore rosso avrebbe potuto mutare in una fucilazione se qualcuno se ne fosse accorto.
I russi erano consapevoli della nostra passione per la musica, per questo progettarono un attacco mediatico ad hoc.
Una sera, mentre ascoltavamo trasognati la dolce voce di Anita, una gracchiante voce maschile fece capolino, coprendo di intensità la bella melodia fino a farla scomparire. Questa volta si rivolse a noi in un terribile tedesco.
“Compagni!” strillò la radio, riportandoci tutti alla realtà.
“Deponete le armi, cessate la guerra. Non vedete che i veri nemici sono quelli che vi danno gli ordini? Alzate le mani e correte a noi: sarete liberi! Ribellatevi ai soldati di Himmler, quei porci sanguinari, venite a noi, o coraggiosi! Vi accoglieremo come fratelli. Un treno oggi stesso parte per Mosca. Visiterete i migliori bordelli e berrete i vini migliori! Spezzatini festosi di carne vi accoglieranno, compagni!”
Queste parole suscitavano in noi diverse sensazioni. Klaus e Martin sembravano alquanto attratti dalla proposta dei russi. Mentre il primo si limitata a figurarsi gli ottimi vini ed i prelibati piatti di carne che quasi sentiva in bocca, il secondo desiderava anche l’accoglienza esperta delle graziose pulzelle dell’est.
Un giorno si avvicinarono a me, tremolanti, la mano destra appena sollevata per chiedere la parola.
“Capitano...” Era Klaus che parlava. Piccolo e goffo, giocherellava con le dita nervosamente, lo sguardo basso e colpevole.
“Non crede che...insomma...sono proposte davvero allettanti, io...”
Risi.
Eravamo al sicuro, quel giorno. Avevamo montato alcune brutte tende di fortuna al limitare di un bosco, non molto lontano da un edificio adibito ad ospedale. La terra era silente, il cielo limpido, privo del caratteristico ronzio dei ricognitori russi. Forse quel giorno avremmo potuto riposare.
“Achen, per favore.” Gli poggiai una mano sulla sua spalla e mi chinai alla sua bassezza.
“Mi rivolgerò a te come compagno d’armi, non come capitano. Davvero ti fidi di quei porci?”
L’uomo esitò, senza mai sollevare lo sguardo da terra.
“Hai presente quel bastardo del pittore? Il tipo senza nome, che tutti chiamano Chagall. Si è fatto sei mesi in una miniera di zolfo russa. Ecco perché è pazzo.”
Un brivido scosse la piccola e goffa figura di Klaus. Anche Martin, la sua lunga ombra, tremò forte al sol pensiero.
“E comunque” mollai la presa, erigendomi in tutta la mia magnificenza dinnanzi a loro “Dovreste essere onorati a lavorare con me. Nessun altro può vantare un Capocarro così magnanimo, coraggioso, leale, immaginifico, geniale e tremendamente bello, così affine agli ideali della nuova Germania...”
Non ebbi tempo di concludere il discorso che i due erano già scappati. Si congedarono con un volteggio del cappello, incespicandosi tra i loro piedi fuori dalla tenda, verso l’infinito.
Nel frattempo l’agitazione nel campo si faceva sempre più fervida e fremente. I pensieri di tutti noi erano proiettati all’unisono e prendevano il nome di Anita Blume.
Uomini che tornavano con i propri piedi, uomini che non tornavano. Tutti speravano di avere un giorno in più per lei, per quella nota di rosso vivido del quale immaginavamo stretti gli abiti, le spalle scoperte e la pelle rosea e liscia che viziava da molte notti i nostri sogni delicati e puri di una donna angelica, la cui voce sapeva rasserenarci anche durante la furia della battaglia…
Quel porco del colonnello Von Bauer si lisciava i baffi unti e grigi al pensiero di poterla incontrare. Si sarebbe seduto grassamente in prima fila per lasciarsi guidare dalle peggiori fantasie.
No! quel dolce fiore di primavera andava protetto da quei mascalzoni, mani lerce e violente, bocche affamate che volevano intaccarne la sua bellezza.


Ne parlai con Tom. Eravamo sistemati abbastanza vicini al suo ospedale, riuscii a strappare un permesso per andarlo a trovare. Nel suo lettino, semi-sdraiato, leggeva un giornale vecchio di qualche mese.
L’aveva vista brutta. Aveva perso molto sangue ed in un primo momento temetti che non ce l’avrebbe fatta. Mi sorprese piacevolmente la sua riabilitazione, che si stava rivelando più veloce del previsto. Doveva essere lieto di tornare a lavorare per me. Era un legittimo diritto.
“Capitano.” nella sua voce mi parve di udire una nota di sollievo, quasi gioiosa.
“Weisz” Mi levai il cappello, sedendomi ai piedi del letto. La stanza era di pietra cadente e muffita. Dalla finestra si intravedeva la fitta boscaglia che si estendeva verso l’infinito.
Non era solo. Vi era almeno una decina di letti a castello impilati malamente l’uno sopra l’altro, ospitanti fortunatamente pazienti con ferite in via di guarigione. Ricordo ancora quando mi piazzarono sopra un ferito grave che dopo poco tempo spirò. Inizialmente non fu un problema fin quando, data la mole di lavoro a cui infermiere e dottori erano esposti ogni giorno, finirono per dimenticarsi di liberare il letto. Ricordo ancora i fluidi corporei che gocciolavano dal materasso, sopra di me.
Fu disgustoso.
Tom prendeva la sua condizione con spirito. A torso nudo, col busto completamente fasciato, mi sorrise energico, chiedendomi come stavano gli altri.
Quei perditempo? Vivono.” Il pilota era l’unico con cui riuscissi davvero a relazionarmi. Maik era diventato un pericolosissimo sciamano anticomunista. Preferiva passare le sue giornate a bruciare ossa e cacciare bolscevichi con Fiete, anziché rispettare la mia autorevole figura. Klaus e Martin stavano progettando una fuga (definitiva, dicevano) nelle linee russe.
“L’ultima volta hanno provato ad integrarsi nelle linee nemiche” gli raccontai “Sono scesi dalla Furia per abbracciare la causa rossa quando, dopo dieci passi, decisero che era troppo pericoloso e tornarono indietro correndo. Dall’altra parte si incazzarono come belve ed aprirono il fuoco. Avresti dovuto vederli, come correvano! Sembravano ballare sotto i proiettili saltellanti. E’ stato quasi divertente.”
“Oh, si.”
rispose, appena turbato. Poi cambiò discorso.
“Senta...”
“Si...”
Si avvicinò a me, mugolando. Tesi l’orecchio.
“E’ vero che stasera Anita Blume canterà per noi?” nei suoi occhi si leggeva la speranza di una vita.
“Certamente. Sarò in prima fila” Ghignai.
Non rispose. Fece spallucce e si abbandonò in un lungo sospiro.
“So come ti senti.” Nella tasca interna della giacca custodivo delle riviste di dubbia moralità ma di eccezionale bellezza. Le lanciai sul suo letto.
“Questa è la collezione segreta del Capitano. Dovresti esserne onorato. Non guardarmi con quella faccia. So che sei un po’...confuso, ma guardale. Che splendori.”
In effetti lui non disdegnava le belle pulzelle, ma nemmeno i commilitoni prestanti che volevano vivere una fugace avventura.
“Sappi che è difficile per me separarmi da Monika ed il suo costumino blu.”
Tom inarcò un sopracciglio, confuso.
“Ma sono in bianco e nero”
“Appunto, Weisz. Ma se la immagini, con i boccoli color miele che ricadono lungo le spalle ed il costumino azzurro, leggermente sfumato in blu...oppure...aspetta...eccola, Sophie, con il suo bellissimo costumino che immagino essere rosso, invitante...”


La sera arrivò. In verità era un tardo pomeriggio incredibilmente luminoso. In uno spazio d’erba avevano allestito alla buona un palchetto dal quale cadevano a cascata trecce di fili, ben di dio tecnologico oramai alieno ai nostri occhi. Tecnologia che profumava di casa e, allo stesso tempo, puzzava di polvere e vite dimenticate. Esisteva davvero qualcosa di diverso?
Per l’occasione i conflitti erano cessati, almeno da parte nostra. Se Ivan era davvero generoso come lasciava intendere alla radio, forse in questa bella giornata nessuno sarebbe morto.
Mi ero preparato per la grande occasione. Non potevo presentarmi dinnanzi ad una visione così angelica con i crostoni di sporco addosso. Nonostante puzzassi come una capra, l’odore altrui copriva il mio. Eravamo una manica di puzzoni in un ambiente lercio.
Il campo era provvisto di alcuni doccioni stranamente affollati. A quanto pare non ero l’unico a cui era venuta questa brillante idea.
Ciononostante, data l’immensità della coda, usai l’ingegno.
“Ehi!” Gridai. Qualcuno si voltò.
“Sono un Capitano! Lasciatemi passare o vi porto tutti davanti alla corte marziale per insubordinazione nei confronti di un ufficiale (inferiore)”
Qualcuno rise di gusto.
“E come facciamo a sapere che non sta mentendo? Ci faccia vedere il grado...ah no, è nudo!”
Mi feci dunque largo a spallate. Erano quasi tutti ragazzetti di truppa. Maledissi l’impossibilità di utilizzare il mirabolante bagno degli ufficiali superiori saggiamente rubato al grosso edificio di mattoni e mi accontentai di quel gelido getto a spruzzo che andava e veniva, esattamente come la mia pazienza.
Quando finalmente fui pulito e profumato come le chiappe di un neonato, indossai la divisa in miglior stato e riuscii perfino ad acchiappare un barbiere. Da pulcino arruffato mi tramutò in un’affabile capitano d’affari da manifesto di propaganda.
Quel pover’uomo ne avrebbe dovuto sistemare centinaia, di soldati. Lo pagai adeguatamente. Sono un dio generoso.
Adesso, pulito come un libretto di congedo, ero veramente un boccone appetibile.
Mi stavo sistemando il cappello in testa quando, per puro caso, incontrai nuovamente quell’insolente soldatino di stagno che aveva messo in discussione il mio grado. Lo salutai con un enorme sorriso. Alla manica portava un’unica “V” bianca.
Inutile dire che improvvisamente, quando mi riconobbe, divenne dapprima bianco come un velo e successivamente rosso come un peperone. La parlata sfacciata divenne tesa e le parole iniziarono a sfuggirgli di bocca.
“Sono...sono davvero rammaricato. Io, cioè, signor Capitano. Io...le chiedo il permesso di...”
“Negativo, qualunque cosa si tratti. A terra! E mi baci gli stivali, ogni volta che si china.”
Il ragazzetto non fu l’unico a sbiancare. Mentre mi crogiolavo in un delirio di onnipotenza Klaus&Martin decisero disgraziatamente di fermarmi.
“Capitano! È abuso di potere!” Le loro voci, strette in un inspiegabile ed unisono acuto, mi colpirono alle spalle, facendomi trasalire. Per errore mi partì il piede e colpii il povero malcapitato sotto il mento mentre faceva le flessioni, facendolo ruzzolare dolorosamente all’indietro. Il soldatino si mise a sedere uggiolando, pulendosi la bocca schiumante di saliva e sangue.
“La lingua! Mi sono morso la lingua!”
“Avrebbe dovuto mordersela ben prima, soldato. Adesso vada e non osi mai più mettere in discussione mia parola!”
replicai, gonfiando il petto come un piccione in amore.
Si alzò maldestramente e con un certo timore, fuggendo dalla mia imponente figura a gambe levate.
“E’ stata un’esperienza istruttiva.” Sospirai malinconico, rivolgendomi questa volta ai miei uomini.
I due si scambiarono alcune occhiate intimorite, borbottarono un “Assolutamente, ha indubbiamente ragione...” ed infine si dileguarono a passo maldestro.
Non credevo che la mia ritrovata magnificenza facesse questo effetto alla persone.


Presenziai in anticipo.
Sotto a quell’allestimento di fortuna le prime file e le poche sedie erano già occupate da un nutrito gruppo di ufficiali superiori, seguiti dalle SS sbucate chissà dove e che sistematicamente prendevano il meglio che questo porcile potesse offrire: che si trattasse di un letto o di un pasto caldo vi era poca differenza. Arrivavano sempre nei momenti meno indicati per fare cose decisamente poco opportune e spesso avevano autorità per farlo. Erano insopportabili.
Dopo non molto tempo Martin e Klaus mi raggiunsero, trafelati come al solito. Avevo trovato un angolino strategico dove piazzarmi e dal quale, se tutto fosse andato secondo i miei piani, cosa di cui ero certo, avrei goduto di una bellissima visione.
Ben presto fummo circondati da una massa di uomini. I loro volti erano sempre più puliti, sempre più giovani. Quando partii, oramai tre anni addietro, le file erano colme delle età più disparate, certo, ma mai troppo giovani o troppo vecchi. Adesso vivaci visi diciottenni rimpolpavano la folla: molti non dovevano avere più di un mese di servizio. Ma adesso non è il momento di perdersi in futili riflessioni! Piuttosto, mi chiedevo che fine avesse fatto Maik.
“Preferisce rimanere in vedetta.” rispose Martin, facendo spallucce. “Dice che tutte queste cose servono solo per distrarre la truppa e fornire ai russi una buona occasione per attaccarci.”
“Comprensibile.” borbottai. “E’ molto...da lui.”
Riuscivo ad immaginare la scena. Sdraiato sulla Furia, col fucile carico, Maik a malapena respirava per non essere udito dai nemici. Vicino a lui quel prostituto del mio cane gli teneva compagnia. Fiete è un venduto, sta con chi gli dà più cibo. Un silenzio struggente, allietato dalla dolce voce di cantante che, nonostante tutto, riusciva malapena ad intaccare la sua anima.
Quando Anita si presentò a noi era avvolta in un meraviglioso vestito rosso, sensuale e mai volgare. I capelli corti e castani, retaggio delle sue origini spagnole, ricadevano sulle spalle in dolcissimi boccoli scuri.
Dimenticammo la guerra, almeno per un po’.


Dato che quegli idioti si stanno offrendo volontariamente in pasto al nemico io, Maik Gerste, racconterò la versione reale dei fatti.
Me lo aveva raccontato il vento, spirando tra le fronde degli alberi. Il tramonto rosso come Mosca giungeva malinconico su di noi, delineando il profilo del magnifico Tiger al quale chiedevo riparo.
Sapevo che, se quei bastardi ci avessero scoperto, per noi la morte sarebbe giunte su grandi ali nere. Il mio Capitano-capobranco è un idiota così io, Beta, devo proteggerlo. E’ un lavoro sporco ma qualcuno deve pur farlo.
Mentre la fastidiosa musica giungeva alle mie orecchie, distraendomi dall’udire i passi del nemico, intravidi qualcosa muoversi tra le fronde. Sparai.
Qualcuno urlò.
Compagno!” una voce proruppe dal cespuglio. Il suo accento era palesemente russo, così sparai un altro colpo.
Siamo disarmati, amico! Vogliamo solo ascoltare anche noi una bella voce...”
Ringhiai. Assieme a lui centinaia di uomini si erano acquattati tra gli alberi, pronti ad attaccare.
Moriremo tutti.
Mentite” affermai, ricaricando il fucile. Il russo si fece avanti, uscendo allo scoperto. Non aveva armi con sé.
Gli unici russi buoni sono quelli morti! Avanti, mio teutonico segugio, proteggiamo il branco!”
Urlai, lanciandomi verso di loro. Il mio Capobranco non meritava il mio sacrificio, ma questo era il mio dovere da Beta.
Mi voltai per cercare il cane. Era scappato.


Torniamo a me, alla voce della ragione di Bastian Faust, Capitano della Furia Nera, intramontabile sole del fronte orientale.
Anita ci deliziò a lungo con la sua voce. Il silenzio attorno a lei era talmente pieno e solido che poteva essere toccato. Nessuno osò interromperla, nessun colpo venne sparato quella sera.
Applausi fragorosi la ricoprirono alla fine mentre lei, con grazia angelica, scendeva dal palco per essere scortata nella sua stanza, un piccolo alloggio ricavato in una casupola fatiscente utilizzata dagli ufficiali superiori. Giustamente non lasciavano che girasse libera assieme a centinaia di soldati dagli ormoni instabili.
Ciononostante, riuscii a strappare la possibilità di conoscerla dal vivo. Il mio grado venne d’aiuto.
Mi scortarono nella sua stanza. Gentilissimo, bussai. Decise di accogliermi con un sorriso.
“Cinque minuti” disse una sottospecie di carceriere, sbattendo la porta alle mie spalle.
Improvvisamente fu come tornare ragazzino. Un ragazzino particolarmente stupido, oltretutto.
La stanzina era stata sistemata alla meglio. Quella che un tempo doveva essere una bella carta da parati rossa era stata strappata in più punti, lasciando intravedere la pesante muratura grigia. Un tappeto masticato dalle tarme giaceva impolverato davanti ad un caminetto nel quale scoppiettava un ceppo acceso. Il letto, un baldacchino dalle pesanti coperte incredibilmente nuove, era ammassato in un angolo. Un tavolo con due poltrone campeggiava al centro della stanza. Una bottiglia di champagne aperta ed un cesto di frutta secca completavano l’arredamento.
“Santo cielo” disse la donna, accendendosi una sigaretta. “Prima ho visto un ratto passare. Non c’è nessuno in grado di pulire questo posto?Oh, non faccia caso alle mie lamentele. Faccia come se fosse a casa sua.”
Non si preoccupi, gentil dama. Darò la caccia personalmente al topo. Ma lasci che mi presenti. Capitan Bastian Faust, croce di ferro 1942…
Uh” Più o meno questo è tutto ciò che riuscii a dire. La mia attenzione era focalizzata tutta sulle labbra rosse che soffiavano nel lungo bocchino dorato, la sigaretta al profumo di vero tabacco…
“Vuole una sigaretta? È pallido. Sicuro di stare bene?” Anita mi porse una sigaretta ed un sottile bicchiere di champagne, di quelli dal gambo sottile che pareva spezzarsi sotto le mie dita disabituate alla delicatezza.
“La ringrazio, non vorrei essere inopportuno.”
“Si figuri. E non rimanga imbambolato come un cretino. Si sieda, assaggi la frutta! Questi datteri egiziani sono superlativi.”

Eseguii i suoi ordini mansueto come un cagnolino.
“Lasci che mi presenti...Capitan Bastian Faust ma non si preoccupi, mi chiami semplicemente Basti.”
E la croce di ferro?
“Ah si, dimenticavo. Guardi che bellina. l’ho vinta l’anno scorso.”
Come i peluche alle fiere. Che figura di merda. Lei si complimentò con vago interesse, masticando lascivamente un dattero.
Deglutii rumorosamente quando accavallò sensualmente le gambe. Le conosco io, le donne! È un segnale chiarissimo!
“Sono sciocchezze, queste. Mi chiedevo...”
“Si?”

“Insomma, io sono cittadino tedesco, lei cittadina tedesca...perfettamente compatibili da questo punto di vista...quindi...mi chiedevo se voleva adempiere al dovere della nazione, ecco...sono un ottimo partito e magari domani sono anche morto e lei rimarrebbe col rimorso di non aver potuto adempiere al dovere della nazione...sa no, cosa intendo...”
Mi arrivò uno schiaffo in pieno viso. Fu inaspettatamente forte.
Decisamente, avevo fatto colpo. L’avevo conquistata!
“Ma lei è un porco! Vada via!” La donna afferrò una bottiglia di spumante ancora chiusa, incitandomi a prendere la porta.
“E’...un no? Ne è sicura? Guardi che sono inaspettatamente portentoso!”
“Se ne vada!”

Uscii dalla stanza a gambe levate, seguito da una scarpa volante. Il tacco si piantò contro il muro, prima di ricadere con un tonfo a terra.
“E’ andata meravigliosamente” dissi all’uomo accigliato che mi aspettava fuori dalla porta.
In risposta le sue sopracciglia si avvicinarono fino a toccarsi in un arco di perplessità. Ghignai, massaggiandomi la guancia rossa.
Mi invidiava, sicuramente. Raccolsi la scarpa come fosse un trofeo e mi avviai fuori dall’edificio fischiettando.


Il mattino seguente Maik venne ritrovato all’interno dell’accampamento. Mani e piedi erano state legate con una corda. Accanto a lui vi era una cassa contenente sei bottiglie di Vodka ed un biglietto in un tedesco elementare, recante le seguenti parole:
“Compagni tedeschi, grazie per averci permesso di ascoltare la vostra bella musica. Siamo molto grati, ricambiamo! Ma questo pazzo tenetevelo per voi!”

Note:

*La storia, essendo ambientata nel 1943, definisce l'imprenditore viennese "tedesco" in quanto l'Austria, all'epoca, era stata annessa alla Germania e bandita dalle carte geografiche.
Di fatto, dunque, era tedesco.
 

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


Aprile, 1929

Dondolavo i piedi seduto sopra un ramo di melo.
Che bella la vita da quassù! Mia madre mi stava inseguendo con un mattarello e così mi sono rifugiato lontano da casa, in questo parco quieto pieno di alberi ed anatre.
Mi presento, sono educatissimo. Mi chiamo Bastian Faust, ho dodici anni. Ho due fratelli: Alfred ha dieci anni e Stefan otto. I miei genitori hanno una bottega di sarto che erediterò io perché sono il primo. Solo che mamma dice che sono un disastro uguale a mio padre. Ma io lo stimo! Si è fatto la guerra e ne parla tanto a tavola, specialmente durante le feste quando mangiamo i galli che nonno compra al mercato dal suo amico di campagna.
Dovreste vederlo! È tutto curvo con le occhiaie spesse e cammina con due bastoni, a quattro zampe come un gatto. A proposito, ho un gatto. Si chiama Furia ed è tutto nero però se lo guardi alla luce sembra un po’ a strisce come le tigri. Ma io non ho mai visto le tigri. C’è un disegno sul mio libro di lettere e sembrano molto belle, tipo il mio gatto. Ora Furia è con me, sotto l’albero. Miagola e mi segue come un’ombra. Viviamo in città in una bella palazzina di Monaco sopra alla sartoria. Viviamo bene, abbiamo un po’ di risparmi ed io posso comprarmi le caramelle dopo la scuola. In particolare, le enormi tavole di cioccolato che vendono in blocchi.
Sono scappato da casa perché mamma vuole picchiarmi. Ho rotto un vaso giocando ai francesi contro tedeschi e per poco non facevo cadere nonna dallo spavento. Ma non era colpa mia, è stato Alfred in realtà.
Eccolo che arriva. Mi somiglia un po’ ma io sono più fico. Ha un dente caduto e quando parla fischia tantissimo. Inoltre è stupido. Ha i pantaloncini corti e le ginocchia sbucciate.
“Basti, ti prego, torna a casa!” mi implora, alzando la testa per guardarmi meglio.
“La mamma ha detto che se torni non ti picchia!”
“Non ci credo!” Gli faccio una pernacchia. Furia si arrampica sull’albero, raggiungendomi. Quando gli faccio i grattini sulla schiena alza la coda. E’ molto carino.
“Se torni ti faccio fare il tedesco domani.”
Ci penso su.
“Va bene. Però giuramelo.”
“Si” Mi fa vedere i palmi delle mani, sorridendo felice.
“Mi fido” Scendo dall’albero con un tonfo e Furia mi segue.
Quando arriviamo alla bottega di Sarto papà ci accoglie calorosamente. Ha la pipa in bocca come i vecchi ma è bella e sa fare i cerchi col fumo. Sta cucendo un bell’abito bianco per una signora. Papà dice sempre che col suo mestiere può fare certe cose che saprò da grande e la mamma si arrabbia moltissimo quando prende le misure ai sederi delle signore giovani.
“Vati.” Faccio la faccia da cane bastonato. Modestamente so fare una super faccia da cane bastonato e funziona sempre.
“Mamma è ancora arrabbiata?”
Lui mi guarda abbassando gli occhiali “No, non è più arrabbiata.”
Gioisco.
“E Stefan?”
“E’ nel retrobottega con il suo aereo.”
Stefan è il fratellino piccolo. E’ molto serio e gioca sempre da solo oppure al gioco degli aerei. Una volta ha sentito la storia di un aereo rosso potentissimo e da quel giorno pensa solo agli aerei. Dice che vuole fare l’aviatore e papà lo rimprovera sempre e dice che la guerra non è un gioco. Così ci giochiamo di nascosto. Ma lui è cocciuto e ci gioca lo stesso con il suo aereo di legno.
“Stefan” lo raggiungiamo nel retrobottega polveroso e pieno di stoffa ed manichini con abiti imbastiti. Lui è per terra che gioca con l’aereo rosso di legno.
“Vieni con noi a giocare a palla? Andiamo a chiamare anche gli altri bambini, ci divertiremo!”
“No” parlava come un piccolo adulto, continuando a far volare imperterrito il suo aereo.
“Ma sei un piombo” Sbuffa Alfred.
“Vengo solo se giocate alla guerra.”
“Ma abbiamo giocato prima alla guerra! E poi è noioso se fai sempre tu l’aviatore.” Dico. Furia mi ha seguito fino alla bottega. Ora è acciambellato sulla stoffa a dormire.
“Ma io voglio essere un aviatore!” Quasi piange. Papà ci sente litigare e viene a vedere cosa succede.
“Stefan vuole giocare alla guerra!!” Diciamo in sincrono io e mio fratello perché siamo cattivi e lui rovina sempre tutto.
“Può giocare a quello che vuole, basta che non diventi un soldato. Non è un gioco, la guerra.”
“Visto?” Ghigniamo malefici.
“Ma tanto non tornerà più la guerra, vero?”
Papà ci guarda e sospira. “No. Non tornerà più, la guerra.”
“Visto, Stefan? Puoi fare l’aviatore per la gente.”
“Ma io non voglio fare l’aviatore per la gente. Io voglio fare come l’aereo rosso!” Batte i pugni e piange. Papà torna a lavoro e ci lascia il marmocchio piccolo da consolare.
“Dai, i soldati non piangono.” Gli dico, porgendogli un ritaglio di stoffa. Lui annuisce e lo usa per soffiarsi il naso.
“E ora vieni a giocare a palla, dai. Ti aspettano tutti.”
Allungò la manina e si mise in piedi, posando finalmente il piccolo aereo rosso.
Nel frattempo arriva mamma. Ha comprato alcune cose ed ora si mette al lavoro, finendo di ricamare un altro abito bello per una signora ricca. Non mi odia più anzi, sembra felice che siamo riusciti a far uscire quel testone di Stefan.
“Mamma noi usciamo” Dico, ma lei mi afferra al volo e mi sistema la camicetta.
“Oh, Basti, sei di nuovo tutto sporco di fango. Sei quello grande, sii più responsabile.”
“Ma io sono responsabile, Mutti.” Annuncio, fierissimo. Mi dà un bacione sulla guancia e così fa con tutti i miei fratelli.
“Tornate prima di cena, mi raccomando!”
“Sicuro!” Rido. Chiudiamo la porta alle nostre spalle. Dietro di noi il sole proietta una lunghissima ombra.
“Guardate che lunghe!” dice Alfred, indicandole.
“La mia è più lunga” dico. Ci spintoniamo un po’ e ridiamo. Quando saremo grandi saremo alti come le nostre ombre?
Chi lo sa. Ma Stefan sta in un angolo, coperto dai raggi di sole. Sotto di lui non c’è nulla.*

 

 

“Capitano?”
Qualcosa batte forte sulla mia schiena. Anzi no, sul mio volto. Due schiaffi schioccano sulle mie guance, facendomi sobbalzare. Stancamente apro gli occhi, uno per volta, inaugurando la mia bella visuale con un accigliato Tom che mi scuote per il colletto della camicia.
“Stava dormendo! In servizio! Poi sono io quello che si appisola” sbuffa il pilota, facendo roteare le palle degli occhi strabuzzanti di rabbia. E’ stato dimesso da poco e già si sente così...importante.
“Non mi dia ordini. Sono io Capitano. Se decido di fare un sonnellino ho il diritto di farlo. Inoltre stavo facendo un bellissimo sogno, rimembrando il mio fantastico passato. Per questo potrei sbatterti davanti alla corte marziale ma...non lo farò. Mi ringrazi, sono immensamente buono.” Sbadiglio rumorosamente ancora una volta, prima di sistemarmi compostamente nel mio sellino scomodissimo.
La Furia è immensa vista da fuori quando piccola dall’interno. Una corazza di metallo impenetrabile che qualcuno ha pensato di abbellire. Una foto di famiglia di Klaus, due ritagli di giornale che mostravano bellezze in costumini attillati, una cuccia di stracci e la new entry, una scarpa col tacco rossa appartenente a Anita Blume. Se ci infili il naso dentro sentirai la primavera.
Un tempo Maik aveva attaccato uno scalpo di capelli ma, essendo che lui non mette mai piede all’interno del Panzer, abbiamo deciso di buttarlo via. Era disgustoso.
“Ho continuato a marciare.” la voce di Tom si fa più sottile. “Davanti abbiamo alcuni giorni di cammino. Quando giungeremo al villaggio avremo un bordello a nostra disposizione. Stia sveglio per questo, lo faccia per le ragazze...”
“Cosa, un bordello?” Improvvisamente divenni sveglio ed agile come un grillo. Ne avevo bisogno, assolutamente. Però d’altro canto non potevo accontentarmi di una manciata di fanciulle che si vendevano per qualche soldo. Decisi di fare il prezioso.
“Vede...Weisz...io non sono un uomo da bordelli. Non sono una bestia come...voi animali che vi sfogate d’istinto. Sono un cacciatore, un nobilissimo falcone, io. Non voglio donne che possono avere tutti, io...”
“Certo, certo, Capitano.” Tom si allontana, facendo un gesto insolente con la mano mentre un ghigno si allarga sul suo volto.
Si fotta, lei e le sue subdole domande” Decisamente, ora più che mai, avevo bisogno di una boccata d’aria.
Coperto in parte da un minuscolo coperchio di metallo, cacciai il naso fuori dall’abitacolo opprimente. Ci eravamo addentrati nella fitta boscaglia, mescolandoci tra le fronde dei pini ed i verdi muschi. Per precauzione avevamo camuffato la Furia ricoprendola di fango, rami e sassi. Modestamente il mio senso artistico sviluppatissimo mi ha permesso di realizzare un mascheramento bellissimo, talmente realistico che un uccello ha deciso di nidificare sullo scafo.
“Capitano, non possiamo portarlo con noi” osò dire Klaus.
“Non vedo il perchè” Obiettai, osservando dalla mia torretta la bestiola intenta a scegliere i rametti per un nido di prima classe.
“La chiameremo Julia” decisi. Fu una scelta estremamente democratica poiché andammo a votazione. Ma io ero il grado più alto, così ebbi più punti e spettò a me dare il nome all’uccello.
Nonostante il rumore, i tremori, il calore ed il fumo Julia non sembrava affatto disturbata dal Tiger.
Aveva buon gusto, la bestiola. Quando schioccava il cannone l’animale si limitava ad aprire le ali e lanciare un grido, tornando a covare come se niente fosse. Così, ogni giorno, noi potevamo assistere al miracolo della vita in quei dannati giorni di inizio maggio. Canti di usignoli si mescolavano ai bramiti possenti dei cervi in amore. Anche noi sentivamo il richiamo della primavera ma eravamo impossibilitati a trovare una compagna.
Quando incappavamo in qualche rituale amoroso ero solito a coprire gli occhi a Fiete, sussurrandogli nelle lunghe orecchie ritte che i cani minorenni non potevano assistere a certe cose.
“Anche bere alcolici e fumare è proibito, Caporal Friedrich von Russland, fin quando non raggiungerà la maggior età...” non riuscii a finire la frase che un’umida leccata mi bagnò la faccia, mettendomi completamente a tacere.
Fuori la temperatura iniziava a salire, influenzando anche quella interna. Nel carro sudavamo come porci, a nulla serviva sbottonarci le divise. Qualcuno avanzò l’ipotesi di girare nudi come vermi ma, per amor di stile, misi a tacere questa inutile diceria.
L’acqua però iniziò a mancare. Le nostre gole, secche di giorni, bruciavano come carboni ardenti. Masticavamo legni ed erba per placare la sete, ma non riuscivamo nemmeno a deglutire in quelle condizioni.
Miracolosamente, dopo giorni di pellegrinaggio, trovammo una fattoria.
Una fattoria funzionante, per altro! Quattro vacche marroni pascolavano tranquille in un recinto erboso. Alcuni contadini rassodavano un campo di terra in maggese. Era incredibile come fossero riusciti a preservarsi nonostante la guerra. Spesso i piccoli villaggi ed i gruppi di case venivano passati malamente al fuoco da soldati meno scrupolosi di noi.
“Lasciate fare a me” dissi ai miei uomini “saranno gentili e benevolenti nei confronti di coloro che vogliono liberarli dal duro regime comunista.”
Quando i lavoratori sentirono gli stridii dei cingoli raspare la terra a pochi metri di distanza, immediatamente si allarmarono, sollevando minacciosamente i loro rostri dentati.
A petto infuori uscii io. Modestamente, oltre ad essere un asso nella diplomazia, parlavo benissimo il russo.
“Salute” mi presentai, tenendo le mani alzate in un comune segno pacifico.
Senza contare il cingolato con due metri di cannone che sbucava poco sotto di me, beh...ero disarmato ed innocuo come un agnellino.
“Io sete. Noi sete. Molta sete. No bere giorni. Voi avere bere?” Gli ignoranti ci fissarono con occhi carichi di odio, stringendo forte i manici dei loro attrezzi.
“Germanski” disse un vecchio dal naso adunco, sputando a terra. A quanto pare continuavano a non capire. Così scesi dal carro, sempre tenendo le mani belle in vista.
Quando mi fui allontanato dalla Furia un paio di metri, improvvisamente, vidi qualcuno uscire da una scricchiolante porta di legno. Finalmente! Qualcuno aveva deciso di assecondare le nostre richieste.
“Noi oro. Pagare bere” aggiunsi. Oramai la mia proposta era praticamente irrinunciabile.
Dalla porticina non uscì nessuna persona. Solo due enormi oche bianche starnazzanti che, ad ali gonfie e testa bassa, caricarono in tutta velocità verso di me, costringendomi alla ritirata.
I contadini iniziarono ad inveire contro di noi, sollevando i rastrelli in aria.
“Germanski, Germanski!” Una gigantesca donna estrasse da sotto la gonna un fucile carico.
Un proiettile rimbalzò contro la Furia, facendo spaventare Julia.
“Via, via! Questi vogliono farci la pelle!” diedi ordini di marcia non appena riuscii a mettermi al riparo.
Maik ridacchiava, il che non era un buon segno. In genere mostra felicità solo quando ha in mente qualche piano diabolico o che comunque preveda l’uccisione di più individui, specialmente se russi.
“Capitano, perché non spariamo? Li uccidiamo tutti e ci prendiamo l’acqua. E magari macelliamo una di quelle vacche. I miei stivali hanno bisogno di cuoio nuovo...”
“Irrilevante, Gerste” gli lanciai una rapida occhiata, sospirando.
“Non possiamo ucciderli...è solo povera gente. Il destino li ha puniti già abbastanza a nascere in queste tristi terre rosse, lontani dai nostri ideali.”
Maik aggrottò la fronte, grattandosi il mento pensieroso. Poi annuii.
“Per una volta ha detto una cosa intelligente.”
Mi sfuggii un rantolio offeso.


Fuggimmo dai contadini violenti e ci riunimmo con i nostri compari. Viaggiavamo in un gruppo di cinque carri diversi tra loro perché...beh, i soldi iniziavano a scarseggiare in quel di Berlino e creare un’unità compatta era decisamente dispendiosa. Noi eravamo fortunati ad avere il nostro Tiger, un corazzato pesante in perfetto stato nonostante i mesi di servizio. Joseph Achen, capocarro, nonché cugino di Klaus, possedeva un mirabolante carro russo rubato in un momento di distrazione. Capitano Becker era stato trasferito in un’altra unità di cacciacarri, probabilmente umiliato dal nostro innegabile stile** Così rimanevano due Panzer IV, di cui uno dotato di lanciafiamme.
Ed io, modestamente, ero il grado più alto tra tutti gli uomini presenti. Per ora spettava a me il comando.
Ci appartammo in una dolce vallata naturale, protetti in parte da un pendio alberato.
Avevo una mappa stropicciata dalla quale potevamo evincere qualcosa. Martin ci aveva rovesciato il caffè sopra ed era in parte illeggibile ma, tutto sommato, potevamo capire dove dirigerci.
“Qui” indicai.
“Un po’ generico” Tom mi fece eco, prendendo la mappa.
“Se rimanessimo qui, aspettando che si dimentichino di noi?” suggerì Klaus, sfregandosi le mani.
“Ottima idea. Così potremo disertare senza problemi” continuò Martin mentre un sorriso gigantesco iniziava a riempirgli il volto.
“Posso venire con voi?” aggiunse anche il capocarro Joseph. Tentare di finire con le spalle al muro doveva essere un vizio di famiglia.
“Vieni anche tu, Chagall. Dai, vecchio mio, scappiamo insieme!”
Il pittore non sentì le sue parole. A gattoni davanti ad una tana il pazzo stava cercando di catturare un tasso a mani nude. Decidemmo di ignorarlo fin quando non sentimmo un alto guaito seguito da urli strazianti. Joseph ed altri uomini più altruisti di me si gettarono in suo soccorso.
In realtà sono un uomo votato all’amore verso me stesso ed il prossimo, ma questo sentimento di schadenfreude*** era pressoché inevitabile. Rimasi appoggiato ad un albero a contemplare la scena, masticando soddisfatto un rametto verde.
Tirandolo per i piedi i carristi riuscirono ad estrarre sia il pittore che la bestia mordace, saldamente attaccata ad un orecchio dell’uomo e decisamente poco intenzionata a mollare la presa.
Maik, sempre raffinato, estrasse il suo fido coltello da concia e lo piantò nel ventre molle del tasso, facendogli mollare la presa.
“La violenza non era necessaria!” Michael Herman si fece avanti strillando, raccogliendo il tasso in un mare di sangue.
Non ho mai parlato di lui, forse perché non ne ho mai avuto un vero motivo. E’ il pacifista del gruppo. E’ un giovane di buona fisicità, lineamenti marcati ed occhi chiarissimi.
Ma ha un difetto. Un grandissimo difetto.
La sensibilità. Studiava medicina a Francoforte ma è stato costretto ad arruolarsi prima di riuscire a terminare gli studi. Adesso è il pilota del T-34 rubato, assieme a Joseph Achen e Chagall il pittore.
“Hai ragione.” Ammise Maik, osservando soddisfatto la sua nuova vittima colta da spasmi mortali.
“Forse era meglio se avessi piantato il coltello nell’incavo della gola, almeno avrei evitato di rovinare una pelliccia così bella.”
Adesso Michael è chino sull’animale e sta implorando il kit medico. Nessuno ascolta le sue suppliche. Klaus e Joseph stanno curando l’orecchio sanguinante di Chagall, che ora pare più un Van Gogh. Tom studia la mappa, Maik si pulisce il coltello con la manica di pelliccia bianca.
Piange il giovane con le mani lorde di sangue mentre tenta di ricucire la ferita profonda. Lukas Freytag, suo compare carrista, si avvicina a lui cercando di farlo ragionare. Gli parla piano, toccandogli con estrema dolcezza ed empatia le spalle larghe, le braccia tese e le mani tremanti che desistono nel lasciare la presa. Solo quando il tasso smise di muoversi riuscì a trascinarlo via dal piccolo cadavere ed accompagnarlo lontano dai nostri sguardi da giudici affilati.
Solo a questo punto Maik si avvicinò all’animale ed iniziò a scuoiarlo con perizia, chiedendoci di preparare un fuoco per cuocere la carne.
Lontano da noi possiamo sentire Michael vomitare copiosamente dietro un albero.
“Su, su. Era solo un tasso.”
“Lukas no, ti prego, no. C’era bisogno di altro...sangue? Ti ricordi l’altro ieri, quando ho schiacciato quel soldato? Il suo braccio è rimasto impigliato nei cingoli...”

Joseph iniziò a fischiettare una canzoncina. Il tramonto copriva il fumo delle braci ed il grasso scoppiettava allegro a contatto con il fuoco. Il capocarro del Panzer IV ci porse un paio di bottiglie di vodka per dissetarci.
Eravamo vivi, avevamo da bere e stavamo per mangiare. Presto sarebbe scesa la notte ed i grilli sarebbero tornati a cantare e noi li avremmo accompagnati in coro.
Questo...si, questo è ciò che conta.

 


Note:

* Essendo il PV di un Bastian dodicenne, ho preferito usare una prima persona confusa e sgrammaticata, molto fanciullesca.
** I carristi degli StuG, cacciacarri, avevano la divisa di un verde scuro anzichè nera come gli altri.
***Schadenfreude: Gioire per le sofferenze altrui.
 

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


 “Capitano...”
Ammiravo il grande lago dinnanzi a me. Sporco e stanco, nutrivo la disperata voglia di ravvivare in quelle acque tiepide le mie membra dolenti. Nonostante il regolamento ci obbligasse a lucidare le nostre divise alla fine di ogni battaglia noi sorvolavamo lietamente su questo emendamento.
Solo qualche cazzone berlinese poteva averlo scritto. Quelli che passano le giornate nelle scantinate blindate a mangiare pernici ripiene, con quei sughi oleosi che colano dalle labbra e che fanno diventare il sangue spesso al solo sguardo...a pasto finito si accorgono della loro bella divisa unta e accidenti! Tieni, serva. Lavami il colletto che devo mangiare tutte le scorte del Reich!
Purtroppo noi questo lusso non possiamo permettercelo, così ci teniamo le nostre divise grigie di sporcizia ed indurite dall’uso.
“Weisz” lo richiamai, prendendo un paio di binocoli per osservare meglio la meraviglia naturale che il paesaggio ci stava regalando.
“Ci siamo persi”
“Non è importante. Piuttosto guardi questo bellissimo lago. Non le viene un’incredibile voglia di farci un tuffo?”
Sbuffò tre volte prima di coprire le mie lenti sventolandoci davanti la mappa sgualcita.
“Dovevamo già essere a Belgorod da un pezzo” obiettò lui, levando quella cartaccia dalla mia vista.
“Si calmi, Weisz. Ora ci diamo una sciacquata ed aspettiamo che qualche ricognitore ci trovi”
“Potrebbe finire male per noi. Potrebbero prenderci come disertori. Io non sono un disertore, capitano!”

Il suo urlo spezzò il silenzio della valle. Fiete iniziò ad abbaiare come uno scemo. Nascosti dall’echeggiare della sua voce potevamo sentire Martin e Klaus rizzare le orecchie al suono della parola a loro più cara.
“Quindi se siamo considerabili disertori...”
“Tanto vale disertare.”
I due si lanciarono un’occhiata eloquente. Sorrisi beffardi si allungarono sui loro volti.
Immediatamente un coraggio leonino si impossessò di loro.
Lungo la nostra compagnia si sparse la voce di una diserzione di massa. Da una ventina di uomini che eravamo sette trovarono la forza di radunarsi ed annunciare la loro stolta decisione. Stavo ancora litigando animatamente con Tom su come procedere quando i magnifici sette si presentarono a petto gonfio e braccia ritte dinnanzi a noi. Klaus da pavido soldato divenne la fiamma ardente della ribellione.
“Compagni!” annunciò, alzando il pugno come un proletario russo.
“Oggi abbiamo deciso di abbandonare con coraggio la dittatura tedesca. Ebbene, prenderemo il primo treno per Mosca dove, una volta arrivati, verremo accolti come eroi. Le vostre lacrime saranno la nostra forza e lotteremo...scusa Joseph, cosa dovevo dire? Ah si, lotteremo dalle nostre tavole imbandite per liberarvi dalla schiavitù!”
Un fragoroso auto-applauso accolse la loro richiesta. Chagall dall’orecchio fasciato rideva con un’inquietante risata polmonare. Gli altri preparavano la fuga sottraendo vivande e beni dalle nostre scarse scorte.
“Però” ammisi, sollevando poco convinto un sopracciglio.
“Se incanalassero il loro impegno nella battaglia come fanno con la diserzione, forse la guerra sarebbe finita ed io sarei a casa a trastullarmi sul letto.”
Quando alla fine decidemmo che l’unica soluzione utile potesse essere aspettare, i sette partirono con i loro malloppi. Decisero a dadi che l’est fosse davanti a loro e ci salutarono, promettendoci di scriverci ogni giorno.
“Cosa direte quando si accorgeranno della nostra mancanza?” chiese Martin, il quale iniziava a non essere davvero convinto del piano.
“Che siete morti. Che i vostri cadaveri sono stati mangiati dai lupi e che le vostre famiglie dovrebbero essere felici di avere un caduto coraggioso per piangere sulla sua memoria”
Klaus rabbrividì. Aveva una moglie e due bimbi che amava alla follia. Valutò inizialmente di cambiare idea ma alla fine il desiderio di fuga vinse sulla ragione e decise che li avrebbe portati con sé a guerra finita.

~

Li salutammo da lontano mentre si avviavano lentamente oltre il lago, in direzione dell’ennesima boscaglia. Per un po’ li osservammo camminare. Poi, quando vennero inghiottiti dal verde, mi lanciai disperatamente in acqua.
Vestito, senza troppi rimoris. I pensieri si dissolsero con noi in quelle acque calme, fluivano come il sudore e lo sporco via dal mio corpo, dalla mia divisa. Sono queste piccolezze che fanno la differenza. Solo quando non le possiedi inizi a sentirne la mancanza. Altri uomini mi seguirono a ruota. Solo Tom rimase imbronciato sulla riva a lanciare le pietre in compagnia di Maik, il quale invece trovava sollievo nella pesca con l’arpione.
Era una giornata calda e meravigliosa. Solo dopo essere rinsavito colsi l’occasione per lustrare la mia divisa. Tutte quelle belle cosine che mi avevano insegnato durante l’addestramento erano pressoché inutili in campo aperto. Non avevo di che pulirle se non le mie mani e l’acqua. Quei pavidi tenentelli non lo hanno mai visto il fronte per sparare tante cazzate.
Maik aveva del grasso che usai per lustrare gli stivali. Maledissi il giorno in cui per avidità riuscii a procurarmene un paio nuovo. Questi erano duri come l’acciaio. Wolfmann mi suggerì di pisciarci sopra per ammorbidire la suola ma preferii evitarlo. Ho ancora una dignità, a sua differenza.
Il suo abbigliamento era tutt’altro che regolamentare. Il cappello da carrista era stato sostituito da un muso di lupo che ricadeva disgustosamente sulla sua fronte e che, con la pelliccia, ricopriva gran parte del suo enorme corpo. Era alto un paio di dita più di me ma aveva la schiena taurina e delle mani che sembravano badili. Nessuno osava richiamarlo più di una volta. Ho visto alcuni sergenti particolarmente feroci diventare docili come agnelli dopo averlo ammonito.
Adesso è anche peggio di quando lo conobbi tre anni addietro: all’epoca ero solo un soldato semplice e lui il peggior caporale mai esistito, dotato di una sociopatia unica nei confronti dell’umanità. Se ne stava sempre in disparte a pulire il fucile, talmente lucido che un giorno ricevette una medaglia alla pulizia. Poi successe qualcosa e da quel giorno iniziò a coltivare uno spietato odio nei confronti del nemico.
“Credo sia una cosa stupida lavarsi” disse mentre, a piedi in acqua, fissava le increspature alla ricerca di un qualche pesce guizzante.
“Credo sia bellissimo invece. Alle donne non piacciono gli uomini che puzzano di merda.”
“Nemmeno agli orsi, Capobranco-Capitano. Un orso è capace di sentire la tua scia se profumi come le chiappe di un neonato...”

“Rischierò la morte, Gerste. Cosa vuole che le dica?” Strizzai la giacca della divisa per far gocciolare l’acqua. Poi la appesi al cannone della Furia ad asciugare. Era tornata di un bellissimo nero carbone.
“Come le aggrada” grugnì. Corrugando la fronte l’uomo tese la lancia di legno dentro l’acqua.
Quando la estrasse portò via ben tre pesci in un colpo solo.
Nudo e baciato dal sole pensai, in un momento di pace, che tutto sommato la vita aveva anche degli aspetti positivi. La pace in quella valle era talmente presente che per un attimo temetti di essere morto e che tutto ciò fosse un meraviglioso paradiso.
Esclusi questa ipotesi solo quando mi resi conto che nessuna cameriera vogliosa mi avrebbe servito arrosto con contorno.
Rimasi a fissare per un po’ Michael e Lukas giocare come dei cretini a rincorrersi e spruzzarsi l’acqua addosso a vicenda. Poi il sonno ebbe la meglio su di me e chiusi gli occhi senza nemmeno accorgermene.

~

“Capitano?”
Accidenti. Quando siamo arrivati era mattino e adesso il sole sta tramontando. Per l’ennesima volta Tom si era preso il gravoso compito di svegliarmi. Sbadigliando rumorosamente mi accingevo a minacciarlo nuovamente di portarlo davanti ad una corte marziale quando mi accorsi della presenza di un nuovo individuo.
“Salve!” Disse, salutando con un ampio gesto della mano.
“Non usate formalità vero? Non mi piacciono queste cose. E poi questo è un luogo fico. Avete buon gusto per perdervi.”
Rispetto allo scorso anno potevamo ampiamente notare i tagli di budget che l’esercito aveva subito ma nessuno si sarebbe aspettato di trovarsi dinnanzi a-
“Chiamatemi Friedrich. Sono un ricognitore. Sono il settimo di dieci figli ed ho diciannove anni. Mangio più cose qua che a casa. Poi ho una bicicletta.”
“E due Panzerfaust”*
“Bingo! Ho anche delle mine anticarro ed una pistola.”

...Dinnanzi ad un ragazzetto dal volto di bambino allegro reduce da una visita d’istruzione. Ci fissava come un imbecille sorridente, mostrando i due incisivi sporgenti e due denti mancanti.
“Vi piace la mia bici? È nuova! Gli altri miei camerata hanno una moto, ma la bici è più figa perché non devi fermarti a fare benzina. Fico no?”
Non valeva il mio ascolto, per cui decisi di voltargli la schiena e rivestirmi. Il giovane, però, non si perse d’animo.
“Ora scrivo che vi ho recuperato e vi guido nella direzione giusta. La vostra mappa è tutta sporca ma non preoccupatevi, prendete la mia. Conosco la strada a memoria. E poi se ho bisogno di aiuto suono il campanello. Drin Drin.”
Per un attimo pensai di stringere la cravatta fino a strozzarmi, ma ero troppo magnifico per morire in questo modo. Allentai il nodo e mi limitai a sbuffare.
“Soldato, mesi di servizio?”
“Due, signore!”
Capii molte cose.Per un attimo quel ragazzo mi ricordò il cecchino miope dalla parlantina inarrestabile. Solo dopo essermi domandato se il suddetto fosse ancora in vita mi rivolsi nuovamente al giovane.
“Partiremo stanotte. Rosoliamoci quei pesci e non pensiamoci più.”

~

Maik, dopo aver speso un’interminabile pomeriggio a pescare con l’arpione, ci permise di mangiare i frutti del suo raccolto. Mentre le luci della notte iniziavano a scendere su di noi udimmo un misterioso movimento oltre il bosco, tra le fronde degli alberi.
Satolli come maiali ma riposati come usignoli rizzammo le orecchie. Con un ringhio Maik afferrò il fucile.
“Sento puzza di rossi.” Le sue narici si dilatavano a contatto con l’aria, premendo e catturando i profumi in modo simile a come faceva Fiete. Solo che uno era un cane e l’altro no.
I rumori si fecero più vicini. Potevamo udire distintamente dei borbottii lamentosi.
Afferrammo le nostre armi. Diamine, dovevano essere i soldati peggio addestrati del fronte orientale. Il cane dormiva della grossa, così lo destai con un calcetto.
“Caporale Friedrich von Russland, questo non è il momento per dormire” in risposta il cane si stiracchiò e mi portò un macabro giocattolo che Maik gli aveva regalato. Ho sempre avuto il terrore di sapere cose fosse davvero, quell’affare, ma ho sempre sospettato fosse uno scalpo imbalsamato.
“In silenzio, in posizione” ci dividemmo in quattro gruppi, seminascosti dai nostri carri. Acquattato contro la grossa schiena della Furia, sfilai una granata e la lanciai in direzione del rumore che, ogni secondo, diventava sempre più vicino e distinto. Con questa avremmo dovuto guadagnare il tempo necessario a scavare una buca regolamentare. Tom era abilissimo nello scavare fossati ed in poco meno di cinque minuti lui era nascosto con un favoloso MG** posizionato verso il nemico.
Quando la bomba esplose alte urla si alzarono lungo le linee nemiche. Un’orda di soldati selvaggi uscì allo scoperto, pronti a caricare verso di noi.
Stavamo per abbatterli senza fatica quando qualcuno dei nostri ebbe un momento di esitazione.
“Ehi” disse Michael il pacifista, che si era ovviamente rifiutato di sparare.
“Quelli li conosco”
Con i vestiti ridotti a brandelli, senza provviste ed impauriti, i disertori falciavano a grandi passi il terreno in nostra direzione, implorando aiuto a pieni polmoni.
“Siamo noi, siamo noi!” Klaus goffamente spingeva avanti le sue tozze gambe. Quando raggiunse la riva del lago si inginocchiò in acqua, bevendone lunghe sorsate. Gli altri, stremati come lui, caddero a terra poco dopo averci visto.
Solo dopo aver tirato fuori le lingue dai loro corpi svenuti potemmo dedicarci ai pochi ancora rimasti lucidi.
“Capitano, eravamo...munch...sulla buona strada per arrivare in stazione quando...slurpgnam...da lontano avvistammo qualcosa come cinquecento carri russi leggeri che correvano in nostra direzione “ Klaus, dopo aver ripreso i sensi, si era lanciato verso i nostri pesci divorandone una quantità immensa. Li mangiava a coppie di due, noncurante delle teste e delle spine.
“E siamo scappati più veloci che potevamo. Ma loro ci hanno visto ed hanno iniziato a sparare in nostra direzione! Abbiamo provato a dire loro che eravamo amici ma loro mica hanno capito!”
Martin, dopo qualche minuto di incuria esanime, rinvenne. Lo affiancò nello smaltimento dei pesci e noi, come coglioni, osservavamo il nostro cibo scomparire tra le loro avide fauci.
“Oh si” riprese l’amico, cacciandosi in bocca altra roba “poi Chagall è caduto e per un soffio un carro non se lo portava via!”
“Un gran peccato” aggiunsi, fingendomi interessato alle loro folli vicende.
“Così abbiamo deciso di reintegrarci nell’esercito.”
“Si, si!” proseguì Martin, allegro come un fanciullo.
“Saremo i migliori carristi del fronte orientale! Promesso!”

~

Quando il sole scomparve dal cielo per lasciare spazio ala flebile luna, partimmo a buon ritmo per raggiungere la nostra meta.
Dovevamo raggiungere una bella cittadina alle porte di Kursk, posticino di contadine ed agricoltori che si narrava ospitasse i migliori vini ed i migliori bordelli della Russia occidentale.
Sapevamo, erano più voci, che si stava preparando qualcosa di grosso, così ci ammassavamo come matti in direzione del grande scontro. Avevamo diversi giorni di marcia davanti a noi ed avremmo dovuto sfruttarli tutti, visto che abbiamo vagato almeno dieci giorni senza meta, offrendoci lunghe e deliziose pause.
Alberi e monti lasciavano spazio ad un’infinita steppa del sud composta da bassi cespugli e desolazione come solo la pianura sa offrire.
Per fortuna furono anche giornate di sole cocente, di quelli che raramente potevamo trovare in questa parte del mondo. Passavo le giornate con la testa fuori dal carro a scrutare l’orizzonte alla ricerca di una qualche minaccia ma, meravigliosamente, non trovammo mai nulla.
Sembrava quasi impossibile. Ogni tanto, di rado, scorgevamo la fusoliera di un aereo russo sfrecciare sulle nostre teste col tipico rumore da macchina da cucire ma, nonostante fossimo completamente scoperti, non si interessarono mai a noi.
Furono giorni interminabili e monotoni ma fu comunque bello viverli perché furono giorni...tranquilli. Ogni tanto sostavamo a bagnarci le gole e fare manutenzione. Avevamo dei turni di sonno dignitosi e nessuno scontro all’orizzonte.
Si, furono dei bellissimi giorni quelli.
Ma quando a metà viaggio incappammo in prossimità di una trincea alleata, il nostro paradiso personale finì praticamente com’era arrivato.
Il sole era svanito dalle nostre vite. Le nubi si erano nuovamente ammassate sulle nostre teste, lasciando che un tagliente e gelido vento penetrasse nelle nostre carni fino a toccare le ossa.
Si presentò a noi un pezzo grosso, un certo Colonnello von Mayer. Aveva l’aspetto di uno che era stato mandato all’inferno dopo aver goduto troppo a lungo della bella vita di caserma. I suoi minuscoli occhi porcini ci scrutavano sopra i baffi unticci che parevano muoversi in assenza di una bocca.
“Ecco i rinforzi!” disse, spronandoci a scendere dalla Furia.
“Signor Colonnello siamo solo di passaggio, noi-
“Non faccia lo strafottente e scenda subito dal carro! “Le vostre divise non sono regolamentari! Siete sporchi come porci! Non siete forse dei bravi soldati servitori della Nazione o forse siete troppo stupidi per pulirvi gli stivali?”
Ci squadrò con disgusto fin quando i suoi occhi non incontrarono la figura di Maik avvolta nel cappotto di lupo. Il colonnello divenne tutto rosso ed iniziò ad accompagnare grosse sbavate alle urla di delirio.
“Non è regolamentare il suo abbigliamento! Si levi immediatamente quell’abominio di dosso!”
In risposta Wolfmann scrollò le spalle con atteggiamento offeso.
“Insolenti! Sono in grado di formare una corte militare seduta stante! I vostri cadaveri penzoleranno dagli alberi prima della nuova alba!
L’uomo trascinò tutti e cinque dentro quella che sembrava una minuscola casetta da taglialegna.
Lo spettacolo che incontrammo fu però incredibile.
La casa, che inizialmente pensavamo fosse stata saccheggiata, si rivelò colma di ogni ben di dio e anche di più. Fummo accolti da una tavolata imbandita. Profumi di cibo caldo si mescolavano al pungente odore di legna umida. Arrosti, spezzatini, patate al forno e cipollotti lambivano i nostri nasi con fare scherzoso ed irrisorio, facendo brontolare i nostri stomaci vuoti ed avidi.
Uomini stretti occupavano quella piccola piccola sala. Riversi a terra come vermi, molti di loro grugnivano ubriachi con gli ampi ventri che toccavano il pavimento. Alcuni, non soddisfatti, continuavano a mangiare come bestie, lambendo i sughi direttamente dai piatti. Erano tutti ufficiali superiori che accidentalmente si trovavano nel posto sbagliato ma che comunque erano riusciti ad ottenere il meglio da questo schifo di guerra.
“Guardate sti bastardi!” Von Mayer ci spinse davanti a loro, sputando copiosamente ad ogni parola.
“Non si comportano in modo regolamentare! Devono essere giustiziati per mancanza di rispetto nei confronti della nazione!”
Nessuno di loro ascoltava le sue parole. Alcuni erano svenuti dal gran bere. Altri latravano per conto loro, noncuranti delle urla del porcino.
Non si accorse della nostra fuga. Lentamente uscimmo dalla casa e risalimmo nel nostro carro.
Quando l’uomo si accorse di noi eravamo già lontani. Affondò un’ultima volta il grugno nel vino prima di cadere a terra sbattendo la testa sul tavolo.


Note:

*
Fucili anticarro. Era piuttosto comune trovarne due equipaggiati nelle biciclette, accanto al manubrio
** Mitragliatrice con treppiedi 

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Capitolo 20
*** -- Capitolo 20 -- ***


I giorni passarono.
Lento ed inesorabile, Luglio si abbatté con pesantezza immane su di noi.
Tutto sommato i mesi precedenti non erano stati così drammatici. Giugno era corso con una spaventosa tranquillità, di quelle a cui costa fatica credere, pensare di essere ancora in guerra.
Ricordo ancora chiaramente un giorno particolare in cui il sole picchiava forte sulla terra ed ancora aspra ed inaridita dal lungo inverno. Eravamo distesi in una piana di erba e terra umida e sopra non avevamo altro che l’immensità del cielo, azzurro e limpido come non mai.
Da lontano scoppi e schianti ci appesantivano i cuori.
Eravamo ad un battito di ciglia dalla morte.
Nessuno di noi voleva pensarci. Volevo solo ammorbidire le suole delle mie scarpe dure come il cemento, riparato in un’isba* abbandonata, diroccata per metà. Mensole e mobilia era ridotta in poltiglia ma, scavando, eravamo riusciti a trovare due sedie di paglia dall’aspetto invitante, seppur ammaccate. Ci passammo l’intera giornata.
Quando verso mezzogiorno venne servito il rancio, nessuno di noi voleva crederci. Spezzatino di salsicce, patate e fagioli, unto ed invitante, con i pezzi di lardo enormi che emergevano dall’impasto bruno. Doveva esserci sicuramente anche del vino.
Più ne chiedevamo e più venivamo serviti. Ne ricevemmo ben due scodelle a testa. Alcuni ebbero una doppia razione di sigarette. Altri, di cioccolata.
Di quella buona, vera. Gli stomaci di alcuni soldati, avidi ed oramai poco avvezzi ai piatti unti, rigettarono gran parte di quella bontà, costringendoli a forzati ricoveri dalla durata di pochi giorni.
Io, in quanto saggio uomo di fronte, centellinai le gavette calde e ne ebbi a sazietà tutto il giorno senza particolari problemi.
In serata qualcuno riuscì a captare in radio la bellissima voce di Anita Blume. Conservavo ancora con affetto la sua scarpa con il tacco, rossa ed elegante, che mi aveva donato come pegno d’amore.
I nuovi arrivati erano così felici. Giocavano come dei bambini a rincorrersi e rotolarsi nell’erba cullati dai canti dei grilli che trillavano più forti dei mitragliatori. I più calmi, forse rassegnati, giocavano a carte e scrivevano lettere.
Era tutto così bello...ma era un’illusione, nulla di più.
Bisognava tenere alto il morale delle truppe: Gli uomini delle pernici avevano deciso di mandarci a morire in massa.
Ma io sono Bastian Faust, sublime Capitano e capocarro della Furia Nera, vero prodigio della tecnologia.
Come ero riuscito sapientemente ad evitare l’assedio a Stalingrado probabilmente avrei saputo evitare anche questo, che si preannunciava un mattatoio.
“Un macello di ferraglia” Convenne il Comandante quando mi presentai alla sua tenda dopo svariate ore di attesa. Non ricordo più come si chiamasse. Era un uomo austero e fiero, con un petto ossuto ed un naso aquilino sormontato da piccoli occhiali rotondi. Il cappello da ufficiale cascava sulla sua fronte bassa e calva, coprendogli quasi gli occhi.
“Capitano, Capitano Faust...” l’uomo mi squadrò torvo mentre facevo scivolare mezza tacca di Pervitin** tra le mie labbra.
“Ottima scelta. Lo prendo spesso anche io. Per il mio compleanno ne avevo chiesto una confezione formato famiglia ma temo abbiano perso il mio pacco. Siano dannati i postini.”
Dopo un lungo monologo sull’inefficienza del sistema e su tutte le fiducie che ripone sul Reich alla fine della guerra (tra cui quella di poter spendere la pensione in una casetta in Toscana a bere Chianti e mangiar Finocchiona tutti i giorni) finalmente ebbi l’esito della mia richiesta.
“Non posso accettarlo, mi spiace. E poi guardi, che bella croce di ferro di prima classe. Potrebbe ottenerne una seconda. Non le pare un ottimo incentivo?”
Un suono strozzato uscì dalla mia gola. Provai a far leva, ancora un’ultima volta, sulla caccia al temibile disertore che avrei dovuto seguire mesi fa.
“Era un incarico di estrema importanza, Signor Tenete Colonnello. Mi era stata assegnata personalmente dal Generale Sauer...”
“Dimesso dal suo incarico. Non lo sapeva forse, Herr Faust?”
Fu come un freddo proiettile in tempia. Balbettai qualcosa ma le parole faticavano ad uscire dalla mia bocca arida.
“Mi scusi, cosa significa...”
“Il fronte non ha bisogno di uomini come lui. Favoritismi. Missioni prive di senso...ad un certo punto ricevemmo perfino una soffiata interessante, pareva che, non solo desse inutili direttive, ma che evitasse di uccidere intenzionalmente il nemico, preferendo brindare con lui...”
L’uomo non alzò mai lo sguardo. Continuò a sistemare carte e cartacce a vuoto, con una freddezza che non lasciava spazio a repliche. Hermann Sauer era un grande amico di mio padre, combatterono la Grande Guerra assieme, sulle Alpi, fianco a fianco con l’esercito austroungarico. Mio padre gli salvò la vita e quell’uomo gli promise che, un giorno, si sarebbe sdebitato.
Quando venni chiamato a prestare servizio militare... mio padre fece carte false per spedirmi sotto la sua ala buona. Non sono mai stato un volontario, in realtà. Ho sempre mentito, anche a me stesso. Se lo ripeti tante volte alla fine anche la più palese bugia diventa una verità. E’ così romantico pensare al soldato che difende la patria come un leggendario cavaliere che salva il suo paese dal drago, ma alla fine non c’è niente di eroico.
Mi congedai con una fitta allo stomaco, salutando alto e fiero come un vero tedesco. L’ufficiale rimase impassibile.
Uscì dinnanzi a quel campo di grano, giallo come il sole e rosso come il fuoco ed improvvisamente mi sentii solo, abbandonato nella vastità della Terra.
Per tutta la notte non riuscii a chiudere occhio. I miei uomini dormivano della grossa, con Tom che si succhiava il dito e Klaus che russava profondamente. Maik aveva preso la strana abitudine di dormire in piedi abbracciato al suo fucile. Carico. Un giorno gli suggerii di andare per donne e gli pagai i servizi di una certa Galina, una nota prostituta dalle mani di fata.
“L’unica donna della mia vita è Marina la Carabina” rispose, accarezzando con premura la canna gelida del suo fucile.
“Marina è fedele e non mi tradisce. Inoltre adora giocare al rimpiattino con i russi. Canta quando colpisco un bersaglio. Vuole sentire la sua voce, Capitano?”
Non riuscivo a togliermi dalla testa l’immagine di quello che fu il mio superiore, di tutte le figuracce che avevo fatto davanti a lui, le improponibili richieste e tutti i perdoni, i congedi, le promozioni e le mie parole migliori. Me lo immaginavo chiuso in qualche cella a Berlino, ad aspettare un processo. Spero solo che ad un grande eroe di guerra abbiamo donato una fucilazione indolore, non una corona di canapa attorno al collo.
Mi svegliai stanco e sudato. Di lì a poco saremmo dovuti partire ed a stento riuscivamo ad avere il tempo per andare in bagno e masticare un pezzo di pane nero.
Il paradiso era finito, i trucioli tornarono ad essere parte integrante dei nostri pasti. Il gusto era terribile ma dovevo impormi di mangiare. Chissà quanto tempo sarebbe trascorso prima di poter mettere qualcos’altro in bocca.
Lunghe file di carri popolavano la nostra piccola zona sicura: nuovi e splendenti, riconoscevamo in essi le corone ferrate degli aggiornati Panzer IV e...qualcosa di nuovo, di mirabolante.
“Lo sforzo bellico è impressionante” ammise il Capocarro Joseph davanti a quella maestosa fila di mezzi muovi che da giorni si ammassavano in una specie di deposito all’aperto. Avevano consegnato il loro T-34 rubato e stavano per ricevere un carro di ordinanza, nuovo di zecca.
“Il progetto è stato approvato in pochissimo tempo” commentò un soldato, pulendosi le mani con uno straccio bisunto. “Sono nuovi, velocissimi e resistenti. Signori, vi presento i nuovi Panzer V “Panther”, coloro che ci porteranno alla vittoria”
Joseph e Chagall si scambiarono due lunghi sguardi colmi di gioia e curiosità mentre ricevevano quella nuova meraviglia. Il pazzo mi chiamò per mostrarmi da vicino il nuovo giocattolo.
“Guarda che bello. Ci disegnerei una grossa pantera che sbrana un pollo rosso” tracciò un lungo segno con la saliva, come per rendere partecipe la ferraglia del suo nuovo ed infelice destino.
“E’ indubbiamente un ottimo corazzato” Commentai, senza lasciar trapelare alcun segno di invidia dalla mia voce “Ma i Tiger sono enormemente più efficienti”
“Sarà anche vero” proseguì Chagall “Lo sapremo solo quando la battaglia finirà. A quel punto vedremo davvero quale sarà il carro migliore”

Cinquantesima divisione Panzer dello Heer, sesta compagnia.

Partimmo alla buon’ora. Viaggiavamo in file ampiamente distanziate l’una dall’altro, nascondendo dietro gli enormi scafi metallici piccoli gruppi di fanteria. Inizialmente vi fu un surreale clima di gioia. Le giovani reclute cantavano ancora, ebbri della gran pacchia dei giorni precedenti. Gli altri, silenziosi, procedevano con gli occhi gonfi per colpa della droga. Il nemico era lontano, ma chi ci assicurava che nessuno ci avrebbe sentito? Il rumore dei motori copriva le nostre voci quindi, per ora, potevano stare tranquilli.
Il sole di luglio batteva incredibilmente forte su di noi. Arrotolavamo le maniche delle nostre divise nere fino ai gomiti, cercando l’impossibile refrigerio. Se io, in qualità del mio ruolo, potevo permettermi di stare fuori  gli altri, inscatolati dentro la Furia, sudavano in modo decisamente più copioso.
Marciammo per un po’ nella fitta boscaglia, ascoltando gli uccelli cinguettare lietissimi. Quando ricevemmo l’ordine di disperderci, nella fanteria piombò il silenzio.
“Voi” insignì un giovane Tenente, spegnendo una sigaretta lasciata a metà.
“Seguite il carro numero due...”
“Furia Nera, prego.” Lo corressi, voltandomi verso la povera fanteria che incespicava per mantenere la baldissima velocità del carro.
“Inoltre” continuai, mentre i soldati si guardavano attoniti e perplessi “ Non sono secondo a nessuno, io”
“Ma signor Capitano, intendevo il numero del carro...” il Tenente sembrava quasi mortificato ed io ne ebbi gioia.
“Irrilevante. Si ricordi chi sono, quando verrò investito di gloria intramontabile. Who-hoo!”
Un grido di gioia disperata vale il prezzo per entrare nella Storia.

 

~

Sfondammo in un campo di grano arso dal sole. La pianura si perdeva a vista d’occhio, lasciando i nebbiosi profili delle colline sfumare a distanza inimmaginabile.
In casi come questi dovevo essere gli occhi e le orecchie del gruppo e non avevo altro di cui coprirmi se non un minuscolo coperchio che mi copriva la schiena. Furbescamente mi ero adagiato lasciando coperte più parti possibili del corpo ma nulla mi avrebbe salvato da un tiratore particolarmente buono.
“Capitano, cosa vede?” chiese Tom.
“Del grano maturo” risposi candidamente. Sentii con chiarezza il suo sbuffo irritato mentre si accingeva a chiedermi: “Lo vedo anche io. Tracce di russi? Ci sono carri in vista? Della fanteria?”
Avevamo un raggio d’azione veramente eccezionale, per cui potevamo tranquillamente fermarci il più lontano possibile dal nemico per sparare.
Ma avevamo un problema.
Un grosso problema.
Nella pianura non esiste nulla con cui ripararsi.
Non sarebbe stato un grande problema contro la fanteria ma, con altri carri in azione, poteva rivelarsi mortale.
O con gli aerei, che in massa iniziarono a ronzare sulle nostre teste.
“Merda!” un soldato sbottò ad alta voce. Incazzato, accese sia una sigaretta che una lite furibonda, con i suoi compagni che intimavano non solo di spegnere il fumo, ma anche di tacere.
“Se quelli ci vedono siamo fottuti!” ringhiò un giovane, prendendo l’altro per il colletto.
“Ehi, tranquillo, sono i nostri. Sono Stuka” lo udii borbottare. La tensione si abbassò e tornò a regnare il silenzio, interrotto solo dal ronzio fastidioso e costante di decine di aerei che serpeggiavano sulle nuvole in compatte squadriglie.
Furono i primi ad attaccare. Planavano a gruppi di quattro a sfiorare la terra, spezzando il grano con l’urto dell’aria. Fischiavano le bombe sulla terra, arando il campo da uomini ed erba. Poi risalivano, in formazione perfetta, quasi coreografica.
Il vento portava grida strazianti mentre l’avanzata continuava. Uomini si fecero avanti, oltre di noi, catapultandosi nelle buche create dalle bombe, adesso trincee di fango e membra. Vivi e morti ospitavano gli stessi spazi, i più giovani vomitavano colti dalla nausea, dall’odore pungente del fumo e dei visceri.
A distanza, adesso, potevamo scorgere i primi scafi verdi dei carri russi. I nuovi Panther erano decisamente più veloci e sfuggevoli in caso di ritirata. Noi, immensi e pesanti, non avevamo altra forma di difesa se non la corazza impenetrabile.
Ma questo non è un carro normale, è la Furia!
“In basso a destra” Comunicai con i miei uomini. Martin caricò il cannone con un proiettile a frammentazione. Con i miei fidi binocoli osservavo i movimenti del nemico in una temibile caccia tra preda e predatore, i ruoli sottili e facilmente scambiabili.
Ci fermammo. Immobili, non potevamo permetterci di mostrare il fianco al nemico cosa che, altrettanto, lui non avrebbe fatto.
Con la torretta ruotata verso sinistra il T-34 pareva ignorarci, preferendo abbattere con la mitragliatrice barricate di fanteria che avanzava urlando.
“La torretta. Mirate alla torretta.” Spostata verso sinistra e noncurante, ci fornì l’attimo perfetto per colpire.

Bam.

“Caricate!”

Bam.

Il carro non sparò più. Con la torre fracassata e fumosa dal relitto bollente uscì una parte dell’equipaggio in preda al terrore, spora e ferita, guidata solo dall’istinto di fuga.
Non c’era tempo da perdere. Una grossa cannonata colpì la parte superiore del muso, incassando brutalmente il colpo senza ferirci.
“Dannazione!” Tom fece ripartire il carro. Sopra di lui il metallo friggeva dal colpo, emanando il fetore caldo del ferro fuso.
Pervitin e terrore scivolava nelle nostre gole come acqua, bruciando come fuoco. A nulla servivano i pochi sbocchi d’aria: il caldo diventava sempre più insopportabile ad ogni metro che riuscivano a conquistare.
Poco distante da noi uno StuG*** prese fuoco. Dalla struttura a casamatta**** usciva un rigurgito di fiamme nel duro acciaio che lentamente si scioglieva. Una fiammella si staccò dal fuoco emettendo un grido abominevole. Fece qualche metro prima di crollare su sé stessa.
Il campo di grano iniziò ad ardere. Quelli che inizialmente erano fuochi isolati si propagarono tra le spighe gialle che lentamente sfumavano al nero, prima di divenire cenere sospinta dal vento.
“Capitano” La voce di Tom era ridotta ad un lamento straziato.
“Il fumo sta iniziando ad alzarsi...”
Mi portai un fazzoletto alla bocca. Faticavo a respirare. La fuliggine bruciava gli occhi ed annebbiava la vista. Piangevo dallo sforzo.
Mi portai per alcuni secondi il fazzoletto alle guance per asciugare lacrime e sudore.
Era diventato nero.
“Dobbiamo avanzare”

~
 

Il tempo iniziò a cambiare. Un flebile venticello scuoteva i nostri animi mentre lentamente mutava in uragano. Verso mezzogiorno il cielo iniziò a diventare scuro, portando con sé nuvole nere gonfie di pioggia.
Mentre il fumo veniva spazzato via ed io recuperavo lucidità, capii.
“Lanciafiamme!”
I T-34, sfuggevoli ed abilissimi, alimentavano le spire di fuoco muovendosi in una sorta di zig-zag incendiario.
E noi, immensi nel nostro carro da distanza, faticavamo ad ingaggiare un combattimento.
Arretrammo, almeno per un po’. Quando caricammo per aprire il fuoco notammo, con immenso disappunto, che i Panther erano decisamente più agili negli scontri ravvicinati.
Con la coda dell’occhio mi parve di scorgere il carro di Joseph e del matto del pittore.
In primis nessun panzer avrebbe mai fatto una sgommata a trottola in mezzo al campo, sparando alla cieca con la mitraglietta per poi rimettersi in asse e far scoppiare un carro nemico con precisione chirurgica.
Secondo, nessuno dei nostri carri possedeva, questa volta colorato con la vernice, una grossa pantera nera che sbranava un pollo rosso. Era un disegno orribile e grossolano, talmente brutto che avrebbe potuto far morire i nemici dal ridere. Mi strappò un sorriso in quel mare infernale.
Verso l’una la prima pioggia iniziò a scendere, scrosciante e potente come non mai. Lampi squarciavano il cielo nero, seguiti dal possente ruggito del tuono. Dall’inizio dell’attacco eravamo avanzati di circa dieci chilometri. Una nullità, contando i venticinque che, tecnicamente, avremmo dovuto conquistare. Le fiamme si diradavano, lasciando spazio al grottesco lascito dello scontro.
Tra i rivoli d’acqua ed il vento spirante la fanteria sciabordava un gorgoglio di suoni confusi in una disperata avanzata. Strisciavano sul suolo fangoso e fumoso che ancora emanava il terribile fetore di metallo fuso e carne bruciata. Dovevamo muoverci con estrema cautela, perennemente vigili di fronte al nemico cingolato o all’amico strisciante. Bastava una manovra sbagliata ed avremmo potuto asfaltare una decina dei nostri.
Che, sporchi da capo a piedi, faticavamo a riconoscere.
All’estremo delle mie forze, ancora una volta, mi adagiavo sulla torretta della Furia con i binocoli in mano.
Altri carri erano intervenuti da sud, sfondando la linea del nemico. Viaggiavano a cuneo, con i pesi medi in prima linea ed i carri pesanti nelle retrovie: avrei scommesso qualsiasi per dire che si trattavano delle teste di morto argentate****
Le bocche di fuoco ricambiarono nuovamente il favore ai russi, ripagandoli con la stessa moneta di alcune ore prima. Coltre di pece nera e sfiammate scarlatte sfoltirono la fanteria mentre noi, ancora una volta, caricavamo e colpivamo da lontano i carri nemici, confusi e sbandati dall’investimento, forse anche eccessivo, di mezzi pesanti.
Puntare, caricare, sparare. Somigliava più ad una precisa esecuzione rispetto ad un duello vero e proprio. Quando capirono l’ovvia e mai usata trappola a tenaglia in cui erano capitati, i carri nemici stridettero ancora una volta verso di noi, spingendo i motori al massimo fino a farli ululare dallo sforzo. Grosse palle di cannone tornarono a sferzare l’aria umida e sfrigolante.
Stavamo per caricare un secondo colpo quando la nostra visuale venne coperta quasi totalmente da uno strano oggetto metallico.
Solo bestemmie uscirono dalle nostre bocche quando capimmo che era la torretta di un Tiger esploso che vorticava in nostra direzione.
Tonnellate di acciaio si abbatterono sulla Furia a velocità impressionante, provocando un urto talmente forte da farci arretrare di mezzo metro.
Fu questione di un secondo. La vista si coprì di sangue. Divenne nero.
Forse urlai. Tutto si dissolse.

Belgorod, campagna circostante, 5 Luglio 1943

Non riuscivo ad aprire gli occhi. Mi sfregai le palpebre incrostate di sangue. Fuori era buio – i grilli cantavano lieti tra le granaglie annerite – e tutto sembrava essere finito.
Non so cosa sia successo, forse devono averci scambiato per un nemico abbattuto ed averci lasciato in pace. La Furia ha un fianco aperto con un buco grosso quanto un pallone da calcio. Mezzo cannone è stato piegato dall’urto, così come parte della torretta e del muso.
Mi fischiavano le orecchie, Provai a muovermi ma fitte di dolore impedivano qualsiasi movimento. Dovevo essermi rotto qualcosa. Costole. Una gamba, forse.
Indistintamente sentivo delle voci. Il dolore mi annebbiava i sensi, così provai a tendere l’orecchio.
Era una nota acuta e nasale...Tom! Sembrava spaventato ma non riuscivo a capire le parole.

“E ora cosa ne facciamo? Lo seppelliamo qua?”
“Io direi di mangiarcelo” questa frase riuscii a capirla. Una voce bassa ed animale come quella di Maik era inconfondibile.
“Potremmo fingerci morti anche noi” il tono comprensivo e pacione di Klaus venne interrotto dal confuso e balbettante: “Così potremo disertare senza problemi” di Martin.
Dai miei polmoni uscì una risata dolorosa e gutturale.
“Credevate che fossi morto, non è così? Sono stato in condizioni migliori...ma adesso mi porterete in braccio fino al primo ospedale in lettiga come un nobile romano...”
Li sentii fremere. Agitati e confusi si arrampicarono sulla carcassa della Furia oramai defunta, sporgendosi un poco per ammirarmi a turno come una santissima reliquia.
“E’ vivo! Sono passate...penso dieci ore. Pensavamo fosse morto...”
“Stolti che siete” un gorgoglio dolorante uscì dalla mia bocca.
“Sono troppo magnifico per morire”
Sforzandosi immensamente riuscirono a tirarmi fuori dalla Furia.
Oramai andata.
Questa volta per sempre.
D’altronde siamo numeri, tanti piccoli numeri  cuciti nel colletto di una giacca. Ma alcuni numeri sono più importanti di altri.
E quei numeri, quelli vivi, reali, erano tutti con me, con i loro arti rotti ed i lividi pulsanti.
Questo è ciò che conta per davvero. 

Note: 

* Casetta tipica russa
**Metanfetamina. Veniva data ai soldati sottoforma di pastiglie
***Cacciacarri dal profilo molto basso
**** speciale struttura fortificata. In alcuni caccicarri sostituisce, come forma, la torretta.


 

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***


Persi conoscenza dopo poco tempo.
Ho ricordi confusi – terra bollente che esalava  fetore di ruggine e che io stentavo a capire se fosse odore di metallo o di sangue- e la mia cosicenza divenne talmente flebile da non riuscire nemmeno a percepire più il dolore.
So di essermi svegliato molto più tardi – sdraiato per terra in posizione anti-shock e con una gamba steccata - in una specie di corridoio in un edificio. C’era una bella sinfonia nell’aria - forse un concerto di strumenti a fiato – che copriva gran parte delle nostre voci.
Un’infermiera si avvicinò a me. Non ricordo nulla, solo il viso sudato e rosso ed il camice sporco. Mi disse qualcosa e forse io sorrisi. Non c’era abbastanza morfina per tutti e così mi lasciarono stordito dal gran dolore, abbandonato a terra perché non c’erano abbastanza posti letto. Vicino a me c’era un altro carrista di cui riconobbi solo la divisa – con una grande ustione che gli aveva incollato la stoffa al petto. Urlava ma la mia testa era colma di ovatta, sentivo solo il concerto di oboe e clarinetti che mi soffocava assieme al forte odore di cloro e visceri.
Questa volta rimasi sveglio più a lungo. Avevo la bocca asciutta e la lingua era secca a tal punto che pareva sgretolarsi ad ogni parola.
“Acqua” implorai. L’infermiera mi guardò con occhi stanchi e tristi e mi strinse la mano per un po’. Chiesi nuovamente acqua ma non mi rispose. Credo temessero che potessi avere qualche altra ferita interna. Avevo un paio di costole rotte e credevano che potessero aver lesionato qualcosa.
Passai la notte ad implorare acqua mentre l’ospedale continuava a svuotarsi e riempirsi. Mi addormentati sfiancato dal gran dolore.
Il giorno dopo ebbi l’acqua.
In realtà era una specie di brodo disgustoso stranamente caldo. Non potevo alzarmi, così mi imboccò una vecchia e corpulenta infermiera dall’atteggiamento rude.
“Tieni”  disse, ficcandomi il cucchiaio in bocca. Sputai gran parte del boccone a colpi di tosse, sbrodolandomi la divisa come un bimbo di quattro anni.
“Certo che vuoi uomini siete dei mollaccioni” imprecò, sistemando il suo gigantesco culone in una posizione più comoda, prima di cacciarmi un altro cucchiaio in bocca.
“Una volta è arrivata una pilota russa qua, credo fosse una prigioniera di guerra o qualcosa, non so ste robe di politica. Una valchiria, doveva vederla! Aveva preso una botta in testa ed aveva molteplici fratture in tutto il corpo. Non fiatava mentre mangiava il brodo, la ricetta segreta di suor Annette! Fa bollire il cavolo per dieci ore assieme alle patate ed alle rape bianche e poi annaffia tutto con la vodka forte.”

Imparai a sopportare e, perché no, ad affezionarmi alle storie della vecchia Hildegard che ogni giorno veniva a somministrarmi quella zuppa schifosa. Raccontava sempre le storie simili, da Suor Annette che giaceva fuori uso causa vodka in qualche angolo dell’ospedale alle sue giovani colleghe che cinguettavano allegre e che le davano un gran fastidio.

~

Un giorno, mentre ingoiavo a forza la sbobba di rape, si presentò la famigerata suor Annette. Era una minuscola infermiera dagli occhi piccoli ed il naso arcigno, l’alito di vodka e, soprattutto, nessuna veste clericale.
Hildegard mi spiegò che, una volta alla settimana, veniva a trovare personalmente i fruitori della sua zuppa.
“Che bel giovane che abbiamo qua” commentò, sfregandosi le mani.
“Se avessi qualche anno di meno...ma tu hai la faccia di un intenditore, vero? Una donna matura è come un buon vino...vedi di guarire che poi ripasso. Non vi cucino mica la zuppa per niente, io. Almeno sappiate ringraziare a dovere.”
Così, oltre a dover sopportare il prurito insostenibile delle ossa che si saldavano e alla feroce umiliazione di essere servito e pulito come un neonato, avevo anche una vecchia pazza che mi desiderava follemente.
Ed ogni giorno passavano fior di infermiere, eh. Cinguettavano allegre con i soldati più vispi, con i quali condividevano gli stessi desideri primitivi, ignorando misteriosamente il sottoscritto che, nonostante le ferite, rimaneva il soldato più prestante dell’ospedale.

~

FInalmente mi sistemarono in un lettino. Pur avendo una gamba ancora penzolante le mie condizioni di vita migliorarono notevolmente. Per un po’ mi chiesi qualie intercessione divina mi avesse aiutato a trovare un giaciglio migliore.
Immediatamente fu tutto chiaro. Suor Annette mi salutava da lontano con la mano, ammiccando.Iniziai a rimpiangere il pavimento.
Lentamente, almeno, stavo iniziando a recuperare la lucidità. Mi trovavo all’interno di...quella che sembrava una vecchia chiesa ortodossa dismessa. I muri dell’edificio un tempo dovevano essere stati riccamente ornati da splendide figure in oro – forse icone di santi – ora rimosse barbaramente, lasciando in bella vista il cemento grigio appena chiazzato, di tanto in tanto, da macchie di affresco da cui si potevano intravedere arabeschi verdi. Del pulpito, probabilmente in legno pregiato ed intarsiature in metalli preziosi, non rimaneva altro che una grossa scrostatura biancastra ed alcune schegge che non volevano saperne di staccarsi.
Anche il grosso lampadario centrale era stato trafugato. Di lui non rimaneva altro che un rosone dal quale pendeva tragicamente una lampadina collegata ad un filo.
Avevo molto tempo a disposizione, così iniziai a riordinare i ricordi. Se prima ero totalmente proiettato verso la sopravvivenza ora, decisamente più tranquillo, riuscivo ad esprimere qualche concetto più altruista.
Ad esempio. Dov’erano i miei uomini? come stavano? Ricordo di averli visti per l’ultima volta accanto alla carcassa della Furia ma devo aver dimenticato tutto il resto.
Ho perso conoscenza per molto, molto tempo. Quando Hildegard si sedette accanto a me per darmi la zuppa ne approfittai per chiedere di loro.
Lei sbuffò in modo quasi irritato prima di zittirmi infilandomi il cucchiaio in gola.
“Non so chi siano. Mica mi ricordo i nomi di tutti, non sono una macchina! Però senta qua. Assieme a lei è arrivato un uomo spaventoso che indossava una specie di schifezza in testa piena di mosche. Lo so benissimo che vuoi uomini siete dei fetenti, ma quello puzzava come le capre di quella buon’anima di zio Ferdinand. Oltretutto sto bestione era pieno di buchi e spillava sangue come un rubinetto. Sei dottori e cinque infermiere per tentare di sedarlo, roba da pazzi”
Aprì la bocca per rispondere ma l’infermiera corpulenta mi cacciò un altro cucchiaio di zuppa e così dovetti tenere i pensieri per me. Sicuramente doveva trattarsi di Maik,  ci avrei scommesso la testa.
“Alla fine Suor Annette, con la collaborazione del dottor Biermann, è riuscita a sedarlo con un vaso in testa ed una massiccia dose si etere. E’ crollato a terra come un agnellino. Ma doveva vedere il suo risveglio! A quanto pare è uno di quegli esaltati che si curano solo con le erbe, tipo quelle sette schifose. Fossero tutti bravi come lei, ragazzone! Inoltre ha umiliato la povera Irina, l’infermiera ucraina. Ha tentato di ucciderla! Roba da pazzi.”
Mi diede un buffetto sulla guancia ed andò via senza concedermi tempo di replica.

 

~

Passato qualche giorno, dopo essermi accertato che non avrebbero abbandonato il discorso a metà perché dovevano morire, decisi di fare amicizia col vicinato.
Alla mia sinistra avevo una specie di mummia fasciata fino al collo. Gli arti erano sollevati in aria, tenuti sospesi da alcuni ganci invisibili. Fu lui il primo ad attaccare bottone.
“Ehi” disse, voltandosi verso di me.
“Salute” risposi. Il mio tempismo fu alquanto meraviglioso.
La mummia rise talmente forte che iniziò a tossire prima di piangere ed urlare per il dolore provocato dalle risa. Un’infermiera gli diede qualcosa da dormire e la nostra conversazione finì tragicamente.
Provai a conversare con l’uomo alla mia destra ed andò decisamente meglio. Era un giovane tenente la cui gamba era stata tranciata di netto da un carro armato. Tutto sommato non sembrava così amareggiato dal suo destino. Il moncherino bruciava e non riusciva a capacitarsi di aver perso un arto. Lo sentiva ancora suo, nella più totale interezza.
“Adesso mi manderanno a casa” ripeteva, con un sorriso quieto stampato in volto.
“Mi manderanno a casa...e tornerò a mungere le mucche e mangiare il panino con l’anguilla che mi piaceva tanto”
Ne parlava spesso, di quel panino. Ogni volta un rivolo di bava colava ai lati della sua bocca, che lui puliva distrattamente con la mano.
Dopo aver scoperto che provenivamo entrambi dalla Baviera, la conversazione divenne molto più interessante. Parlavamo di luoghi comuni, di monti e di birra. Di valli scoscese, di pascoli e di città che prendevano vita con i nostri ricordi.

 

~

Lo trasferirono.
“Mi mandano a casa!” la sua gioia traboccava di lacrime. Lo avrebbero spedito in un ospedale a Monaco e poi, forse, sarebbe tornato a casa.
Non gli lasciarono il tempo per congedarsi. Gli misero due stampelle sotto le braccia e lo portarono fuori, stipandolo in un furgone pieno di reduci in trasferta verso casa.
In poco tempo il suo letto venne occupato da un altro soldato ed io ebbi uno strano senso di dejà-vù.
L’uomo, nonostante la brutta ustione che mordeva il fianco sinistro per quasi tutta la sua superficie, non riusciva a trattenere l’istinto chiacchiericcio.
Aveva due spessi fondi di bottiglia davanti agli occhi che lo rendevano una specie di angosciante moscone. Come, come...
“Capitano Faust!” mi salutò allegramente, scricchiolando le dita cotte piene di vesciche acquose “Da quanto tempo! Temevo già che fosse morto. Sa, io ero in ricognizione con la mia moto, la “dama dei venti” la ricorda vero? Vero? sono incappato in una trappola. Non era una vera trappola ma la mia moto non capisco, ha preso tipo fuoco ed io sono ruzzolato giù da un pendio ed ho battuto la testa.”
Hilbert Lagenberg. Come dimenticarlo?
Una parte di me sperava intensamente che il cecchino fosse stato schiacciato da una parata di carri armati ma, ancora una volta, il destino mi fu infame e me lo ritrovai nuovamente come vicino di letto.
“Sa quanto mi hanno dato? Almeno un mese di cure. Inizialmente ero davvero preoccupato perché mi avevano messo accanto ad un tizio che continuava a vomitare ed è tipo schiattato mentre gli parlavo. Dannato infame, gli stavo appunto parlando della mia moto e credo di averne  parlato  anche con lei vero, Tenente Faust?”
“Capitano...”

“Stessa cosa. Ma sa, Sergente. Ho ricevuto una sola promozione in vita mia, una! Soldato scelto* dopo un lungo anno! E manco un grazie. Hanno aggiunto un cazzo di pallino alla spallina e tante grazie. Mia moglie mi disse, tanto tempo fa: “guarda che se torni a casa senza spalline dorate io chiedo il divorzio!” poi mi sono ricordato di non avere una moglie...”
Ricorsi ad uno stratagemma disperato. Quando ero una recluta, alla caserma d’addestramento, un ragazzo mi aveva insegnato come simulare la febbre.
Trattenni il fiato. E lo feci a lungo tempo, prendendo brevi boccate d’aria per cercare di diventare rosso il prima possibile. Le costole rotte non gradivano questa tecnica ma non avevo scelta. Non potevo sopravvivere vicino al cecchino miope per tutto quel tempo, forse anche di più…
Quando un’infermiera si accorse delle mie condizioni alquanto gravi immediatamente si avvicinò a me, accarezzandomi la fronte.
Per risultare più credibile iniziai a tremare.
Preoccupatissima la giovane mi piazzò un bel termometro sottobraccio, assicurandomi che sarebbe tornata dopo cinque minuti.
Il tempo necessario a far alzare ulteriormente l’asticella con un piccolo giochetto di fisica. Mi ritenni sufficientemente soddisfatto quando raggiunsi i trentanove gradi.
Anche l’infermiera concordò con me. Immediatamente mi diedero qualcosa per abbassare la temperatura e mi costrinsero ad un sonno profondo.
Al mio risveglio, purtroppo, mi accorsi che il mio piano non era andato esattamente a buon fine. Speravo mi potessero spostare di letto per evitare un contagio.
In compenso mi trovai davanti il dottor Biermann, decisamente stupito.
“Buongiorno Faust” mi salutò, portandosi una penna alla bocca. Ne succhiava la punta come fosse una sigaretta, lasciando che un piccolo alone nero gli colorasse le labbra.
“Ho una fottuta voglia di fumare ma più va avanti la guerra e più i turni diventano duri.” Disse, portando la china al blocco da appunti che teneva in mano per annotarsi qualcosa.
“Non ho voglia di dilungarmi. Ieri abbiamo deciso senza il suo consenso di sperimentare su di lei una nuova medicina per levare la febbre.
Il risultato è stato decisamente miracoloso...in poche ore abbiamo abbassato la temperatura di ben tre gradi...stupefacente, non trova?”

Non sapevo esattamente cosa dire riguardo il mio finto malanno. Così finsi stupore.
“La medicina moderna è veramente eccezionale”
“Certo che si” aggiunse, concedendosi uno sbuffo. Si girò verso il cecchino miope.
Dormiva profondamente.
“Glielo devo confessare. Se quel tipo non migliora saremo costretti a tagliargli il braccio compromesso dalle profonde bruciature. Dunque mi chiedo, Capitano Faust.
Secondo lei mi lasceranno schiacciare tutte le vesciche, dopo? Adoro vederle scoppiettare”

“La ringrazio per la deliziosa immagine fornita, Herr Biermann.”
“Si figuri” Il dottore si portò nuovamente la penna alla bocca, prima di scarabocchiare nuovamente qualcosa sul blocchetto.
Il vecchio Helmut aveva una passione per il macabro e per i soldi. Spesso chiedeva un compenso in denaro per salvare un arto dall’amputazione. Così, in caso di mancato pagamento, si sentiva autorizzato alla rimozione chirurgica che tanto amava eseguire.
A sua discolpa bisognava ammettere che era davvero bravo ad operare: su dieci braccia levate otto pazienti erano guariti perfettamente. Se eri ricco e cosciente, Biermann era l’uomo giusto per te.
“Senta...ha notizie dei miei uomini?” gli chiesi. Nessuno fino ad ora aveva saputo darmi una risposta soddisfacente. Il medico si levò gli occhiali, sfregandosi un occhio, prima di tornare a succhiare la punta della penna.
“Lasciami pensare...Gerste, quello grosso, il...”
“Tecnicamente dovrebbe essere il marconista**”

“Quello, esatto. Abbiamo passato una mattinata a rimuovere pallottole dal suo corpo. Ne abbiamo tirato fuori dieci.
Dieci affari così”
Si tolse la penna dalla bocca per mostrarmi la grandezza dei bossoli. Poi la rimise a posto.
“Ce ne siamo accorti solo quando ha iniziato ad estrarseli con i denti, come fanno i cani. Incredibile, glielo assicuro. E’ arrivato qua in perfetta forma e le dirò, ha dato una mano a caricare i feriti nelle barelle. Niente Pervitin, oltretutto. L’ho detto subito ad un collega mio amico che ha degli intrallazzi nel mondo della genetica. E’ un gene buono, da preservare.”
“Gli altri?”

“Weisz è stato abbastanza fortunato. Con un simile incidente un braccio rotto e qualche punto in testa è considerabile un miracolo.
Achen e Jager sono rimasti illesi. Come sempre. Stando alle parole di Gerste i due si sono polverizzati un attimo prima dell’impatto. Ho detto loro di occuparsi di Fiete.
E’ un bravo cane, nonostante abbia pisciato mesi fa dentro la mia tenda.”

Socchiusi gli occhi per un secondo, sospirando sollevato. Quando sono stato promosso ho giurato tacitamente che mi sarei preso cura di loro. Che i bimbi di Klaus, le sorelle di Tom e i genitori di Martin non avrebbero mai letto quella finta lettera piena di boria che avrei dovuto scrivere io stesso, decantando la gloria della morte in battaglia. Con Maik sarebbe più facile. E’ un vecchio orso cresciuto in un collegio, orfano da quando ha memoria, soldato da una vita.
Non ha nessuno, tranne noi. Forse non concepisce nemmeno questi sentimenti zuccherosi ma sono sicuro che, in fondo alla sua pelliccia, concepisca nel cameratismo la forma più lucida e sincera dell’amore. Al fronte siamo tutti fratelli di sangue versato, no?
“Grazie, Biermann.”
Il medico abbozzò un leggero sorriso. Guardò l’orologio e si precipitò fuori dall’edificio, infilandosi frettolosamente un paio di sigarette in bocca.
Dalle finestre – un tempo colorate ed ora rattoppate con insipido vetro trasparente – rifletteva un pallido tramonto. Se tendevi l’orecchio, forse, potevi immaginarti uno stormo di Stuka volare sulle nostre teste. Ogni rumore era coperto con dolci note di viole e clarinetti che coprivano le urla e, forse, ti lasciavano l’illusione dolceamara della quiete.Quanto tempo sarei rimasto qui? Settimane, mesi? Avevo perso da molto la cognizione del tempo. Di certo non valeva la pena sforzarsi di pensare. Chiusi gli occhi e scivolai nell’ennesimo lungo sonno senza sogni.

Note: 

*
Genericamente questo grado si otteneva dopo aver servito un anno l'esercito ma, essendo che spesso i soldati venivano promossi a Caporale nel medesimo tempo, il ruolo venne rilegato perlopiù a coloro decisamente poco promettenti.
**Colui che si occupa della comunicazione via radio. Maik è uno spirito libero con una leggera claustrofobia. In sostanza la Furia è priva di marconista.

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Capitolo 22
*** Capitolo 22 ***



Nota inziale:
Buondì! innanzitutto mi scuso profondamente per questo immenso ritardo. Questa sessione d'esami mi ha portato via moltissimo tempo ed energie  ed, ahimè, ho dovuto assentarmi un po' da qua. Scusate ancora!
Adesso dovrei tornare a pubblicare con una certa regolarità e, soprattutto, tornare a recencensire e rispondere a tutti gli arretrati.
Vi lascio al capitolo ringraziandovi immensamente per il vostro sostegno a questa storia. Vi adoro!
PawsOfFire






 

C’era stata una battaglia, si…
Ho ricordi piuttosto confusi di ciò che è successo prima di entrare qui, in questo ospedale. Sapevo che c’era stato uno scontro violento e che mi trovavo a...
“Belgorod, credo.” mi massaggiai il mento, tentando di ricordare. Lo ritrovai ruvido, fitto di peluria dura di più di una settimana. Una settimana di incurie, ricordai, dove a malapena mi avevano somministrato la zuppa.
“Tieni qua” mi aveva detto Hildegard, mollandomi la ciotola di zuppa bollente tra le mani.
“Tanto ti puoi alzare, ora. Ho ben altro da fare che starti ad imboccare come un poppante”
Non avevo scelta. Strinsi i denti e puntellai i gomiti, cercando di sollevarmi un poco.
Il costato mi tormentava con le sue fitte continue, come se fosse cosparso da centinaia di sottilissimi aghi.
E mi offesi con Hildegard, dico sul serio. Iniziavo a sentirmi come un cucciolo capriccioso e trovavo confortante essere curato. Ma dovetti ricredermi, ed anche presto: quanto tempo poteva avere quella donna per seguire le mie pappe se fuori continuavano ad ammassarsi uomini? Noi eravamo fortunati, con le nostre brandine alte mezzo dito ed i cuscini di tessuto infeltrito. I più giacevano a terra perché non c’era spazio e, quelli che oramai erano diventati la maggioranza, alloggiavano fuori dalla chiesa sconsacrata, supini, in balia di un inizio di Agosto capriccioso e fetente. Quando il sole non batteva – e quindi bastavano teli e bastoni per riparare un poco i feriti dal calore – con la pioggia tutto diventava inutile: le tende si gonfiavano d’acqua ed i poveri uomini soffocavano nella tempesta se nessuno provvedeva a metterli al riparo, nonostante si effettuassero continui trasferimenti da ospedale ad ospedale.
Il terreno non aiutava la sepoltura: fangoso e quasi liquido scivolava come melma dalle pale e spesso dovevano andare molto a fondo prima di riuscire a tumulare i poveretti: una cattiva sepoltura tornava sempre a galla, riportando ai vivi il fetore dolciastro.
Presi la zuppa e la ingoiai senza fiatare.
L’indomani ebbi due stampelle di legno ma erano quasi inutili dato che, da solo, riuscivo a malapena a stare seduto. Solo il dottor Biermann, durante una sera afosa e stranamente quieta, mi diede una mano ad issarmi in piedi.
“Un passo per volta, Capitano Faust. Prima mi dica, colleziona ancora sigarette?”
“Mai smesso di farlo”
I suoi occhi si illuminarono. Il vecchio dottore era un grande amante del conio. Ma, visto che il tabacco scarseggiava più dei soldi, optò per un nuovo mezzo scambio.
Sua moglie, una certa Miriam Goldstein, distinta nobildonna di Amburgo il cui cognome aveva destato grattacapi perfino al Gestapo più fetente della città, era solita ad inviare al maritino dei sigarettoni costosi che il dottore amava fumare in una tirata unica, ignorando la lettera scritta in minuziose alzatine nere se non per fumarsela in un secondo momento, spesso colmandola con scarti di tabacco che raccoglieva chino, per ore, sul pavimento.
“Facciamo così. Le darò io una mano a camminare, Signor Faust.
La poterò a passeggio una volta al giorno per sette giorni...al modico prezzo di...settanta sigarette.”
“Affare fatto.”
Ammassati come eravamo, avevo circa mezzo metro di spazio per camminare. Dovevo tenermi stretto stretto alle stampelle che strisciavano sui fianchi dolenti, cercando di non pestare i piedi, teste ed arti fasciati e steccati. Biermann, da dietro, mi scortava, afferrandomi al volo quando perdevo l’equilibrio.
Attraversammo lo stretto corridoio di lamentosi mentre il mio sguardo indugiava tra centinaia di volti per riuscire a scorgere qualche lineamento familiare.
E fu uno di loro a chiamarmi.
“Capitano Faust!” e fu più un urlo per sovrastare la musica ed i lamenti che oramai si fondevano in una unica grande entità.
Ed eccolo, Tom. Sembrava ancora più piccolo del solito, con la testa tragicamente rasata a metà dalla quale spiccava una cicatrice in via di guarigione.
“ Weisz, quale onore. Battuto la testa, forse?”
Il giovane scrollò le spalle ed accennò un sorriso.
“Un sasso”
“Assurdi, questi russi. Non sono capaci ad asfaltare in maniera dignitosa le loro strade...”
Ero felice di vederlo. Nessuno dei due brillava di salute ma, almeno, eravamo vivi. Sapevo di non poter stare troppo tempo a ciondolare in mezzo al corridoio e Biermann me lo fece capire prontamente picchiettando sulla spalla ammaccata e dolente. Mi congedai con una smorfia di dolore, tornando a saltellare faticosamente verso il mio lettino.
Ero a pezzi: mi sentivo come se avessi percorso chilometri, invece erano solo una manciata di metri.

 

~
 

Dopo quello che il dottore considerò un giro di prova dovetti ovviamente anticipare il pagamento.
Fui felice di ritrovare il mio famigerato tascapane dove avevo nascosto tutti i beni di prima necessità, quali ammiccanti rivistine di costumi e la famigerata scarpa col tacco di Anita Blume.
La scarpa, in particolare, mi dava il coraggio di andare avanti.
Nei momenti bui, quando mi sentivo solo, triste e disperato, facevo scivolare la mano nella tasca, portandomi la scarpetta rossa al naso. Aveva un delicato profumo…
Credo che Suor Annette se ne sia accorta.
Un giorno, al mio risveglio, trovai una calzatura da infermiera davanti ai miei occhi.
Temo mi abbia preso per un feticista. Ma non importa, perché era una scarpetta orribile...nera e consumata, dava letteralmente alla nausea.
Puzzava di talco e sudore.
La lanciai via con un gesto sdegnato e pagai col digiuno il mio affronto, durante il quale venni trattato come un lebbroso e quindi tenuto a distanza da tutti.
Solo una giovane infermiera ebbe il coraggio di parlarmi. Una bellezza avvizzita dal duro lavoro, dai turni massacranti, dall’alcool e dal fumo.
Si avvicinò a me in modo quasi timido. Io, da gran maleducato, chiesi che fine avesse fatto la mia zuppa.
“Arriva, arriva” mi disse.
“Ma io ho fame”
“Arriva la zuppa, non si preoccupi” sorrise in modo velatamente amaro. Poi cambiò discorso.
“Mi dispiace non poter fare nulla per lei ma...devo chiederle un grande favore...”
Prima che potessi elaborare qualsiasi pensiero balordo l’infermiera mi mostrò la foto ingiallita ed usurata dal tempo di un soldato in alta uniforme.
Un tenente, forse. Non doveva avere più di venticinque anni...
La mano della giovane tremava appena nel consegnarmi quel cimelio a lei tanto caro.
“Lo conosce?” le sue parole trasudavano speranza e dolore.
“ Lui...non lo vedo da mesi”
Guardai attentamente la foto mentre lei si chiudeva in un silenzio composto, carico di attesa.
Scrollai la testa, abbassando lo sguardo.
"Non credo di averlo mai visto..."
Mi sentii improvvisamente in colpa e mi scusai a labbra socchiuse, nonostante sapessi perfettamente che non era colpa di nessuno. L’infermiera mi strappò la foto dalle mie mani e ricalcò le mie parole con un filo di voce.
“Non...non c’è bisogno. La ringrazio...”
Si allontanò lasciandosi dietro una ventata di tristezza.

 

~
 

“Caro Alfred,
ricordi il nostro gattino nero, Furia? Aveva il muso macchiato di bianco e tu pensavi fosse colpa del latte che aveva bevuto da cucciolo. Che cazzata.
Spero che tu stia bene. Perché qua il tempo è infame, non smette mai di piovere per davvero. Il sole è la pausa sigaretta delle nuvole.
E ne e ho visto, di pioggia. Bastardo tu che sei in Nord-Africa a farti baciare il culo dal sole. Qua piove, piove ed ancora piove. Piove acqua, piovono mortai, piovono proiettili e piovono granate. Non moriremo mai di sete.
Stefan diceva sempre che quando piove è dio che sta piangendo. E’ come la buona anima di Furia, che aveva la macchia bianca solo quando cambiava il pelo. Sembra tutto una cazzata, invece poi ci ripensi e dici:”magari è vero”
Sarebbe figo se rispondessi alla lettera. Non hai mai risposto, infame. Ed io ancora che ti scrivo un paio di volte l’anno.
009764, questo è l’indirizzo. Magari...fatti sentire prima di Natale, quando ci rivedremo.
Sarà così, no? O sono pazzo a crederci ancora?

Sempiterno,
Bastian Faust


~
 

Scrissi a mio fratello la bella copia di una lettera dalla calligrafia talmente oscena che io stesso faticavo a leggere. Non sapevo se l’avrebbe mai ricevuta ma avevo bisogno di scrivere qualcosa. Scrissi anche una lettera ai miei familiari, raccontando loro le imprese gloriose che mi avrebbero portato sui libri di storia.
Tessere lodi sulla mia persona migliorava la salute, lo dico sempre! Se resto troppo tempo senza meravigliarmi dell’assoluta perfezione che incarno mi avvizzisco come una pianta.
Già riuscivo ad immaginarmi la risposta di mia madre, con quella calligrafia fintamente curata che lasciava trapelare l’emozione di una risposta scritta a pugno.

“Oh Basti! Mi ricordo quando da piccolo ti colava sempre il moccolo sulla camicetta. Ma dimmi, ti danno da mangiare abbastanza? Dimmi quando torni, così ti preparo le frittelle di mele che ti piacciono tanto!”

E mio padre, subito dopo. Lui utilizzava il suo spazio per parlare della sua, di guerra, prima di concludere la lettera con un “mi raccomando, copriti. Non fare la fine di mio fratello Bastian che è morto congelato”
 

~

 

Iniziai a preoccuparmi quando in serata nessuno ebbe la propria zuppa.
Il giorno dopo, a pranzo, eravamo ancora a digiuno. In compenso si presentarono alle nostre porte un’infinità di soldati della Luftwaffe in condizioni disperate.
Noi non lo sentivamo ma, sopra le nostre teste, chissà quanto oltre le nuvole, aerei tedeschi e russi danzavano un valzer di morte.
Dannato sole di Agosto, che sei tornato ad asciugare la terra!
Nessuno diede peso per davvero alla battaglia nei cieli fino a quando una pioggia di metallo iniziò ad abbattersi poco lontano da noi. Fischiavano le eliche i motori ruggivano, esplodendo in un boato di terra ed erba e metallo, sfiatando rigurgiti fumo nero e fiamme.
Nelle ore che seguirono fu un trambusto di fischi e motori, schianti ed urla e musica e dannatissima musica sempre più alta che copriva l’inferno per la miseria qualcuno spenga quella musica!

 

Fummo costretti a liberare i letti.
Un minuto prima ero sdraiato nella mia brandina e subito dopo zoppicavo malamente con una stampella sola fuori dai bassi scalini della chiesa dismessa, un passo alla volta, con un foglio scritto alla buona che mi esentava dai lavori faticosi: a quanto pare esistono anche lavori leggeri sul fronte orientale ed io, dopo tre anni, ancora non lo sapevo.
Sfilai invisibile in un corridoio di terra mentre gli aviatori correvano tra i loro aerei ed i furgoni sfrigolavano i pneumatici sull’asfalto rovente di uno stupido agosto correndo tra le fusoliere fumanti e la pioggia di uomini che cadeva dal cielo.
Due giovani con una barella si scontrarono con me mentre correvano, facendomi perdere l’equilibrio. Un soldato mi afferrò al volo.
Dimissioni anticipate anche per lui e la sua profonda ferita al volto.
Ai lati i paracaduti coprivano in una confortevole tomba soldati mugolanti di dolore a cui, forse, nessuno avrebbe mai prestato attenzione.
Il bianco rendeva tutto più intimo. Alcuni di loro si contorcevano appena, forse era il vento che soffiava sui teloni. Nessuno aveva il coraggio di vedere cosa c’era lì sotto.
Ed io, vivo e zoppicante, passavo in mezzo a loro assieme a tutti gli altri che erano stati cacciati. Sentivo le loro invocazione a fil di voce e non riuscivo a capire se fosse un’allucinazione o si trattasse ancora della musica classica che prorompeva dall’ospedale.
Era come una parata grottesca. Noi, zoppicanti e stanchi e loro, dritti e composti, come se fossero sull’attenti.
Lanciai loro un’ultima occhiata, prima di salire con fatica su un furgoncino già al completo.
“Sieg Heil, ragazzi miei. Sono pur sempre un vostro superiore”

 

~
 

Sfrecciammo su una strada battuta alla meglio, tra i campi di erba bruciata dal sole e l’orizzonte che si perdeva, ingoiato dagli alberi sempreverdi.
Scorgemmo una linea ferroviaria. Proseguimmo per un po’, fin quando i binari non iniziarono a diventare sconnessi fino a scomparire per un tratto che parve lunghissimo, accostandosi ad una carcassa di un treno frammentato per tutta la linea, squassato dalle bombe ed ora adagiato su un fianco come un animale morto.
Gli uomini come corvi ne strappavano le interiora banchettandovi lietamente.
Scoppiai a ridere come un cretino. Un vecchio mi chiese se fossi pazzo.
Era così ovvio!

“Era un treno di rifornimenti, quello! Ecco dov’era, la mia zuppa!”

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Capitolo 23
*** Capitolo 23 ***


Ero riuscito a ricongiungermi con i miei uomini.
O almeno...quasi tutti.
Maik...la sua storia è estremamente buffa. In ospedale aveva rifiutato qualsiasi tipo di medicinale, definendolo “un male per l’anima”
In particolare, quando rifiutò una trasfusione di sangue, una giovane infermiera, fervente sostenitrice del partito, iniziò a sostenere che fosse un Testimone di Geova e che non avesse dunque mantenuto il giuramento di fedeltà alla nazione rinunciando al suo credo.
Costei aveva un fidanzato stanziato poco lontano, un certo Otto Von Habsburg, Sergente SS conosciuto in zona più per i debiti a carte che per le azioni militari. Venne chiamato a gran voce dalla fidanzatina all’ospedale per un’attenta analisi al paziente nel quale, col passare dei giorni, sembrava palesarsi sempre di più la sua appartenenza ad una razza inferiore.
Visto che la sua affiliazione alle SS non doveva passare inosservata, il Sergente si presentò al campo con due macchine, dieci uomini e tre cani.
Penetrò nell’ospedale con la pistola sguainata ed un cane sbavante, ordinando a gran voce una perquisizione di tutto il reparto.
Dopodiché lasciò il cane ad una recluta e scomparve misteriosamente con la fidanzata.
I suoi nove uomini, tutti appena usciti dalle caserme con esperienza pari ad un carciofo con le mostrine, rovesciarono l’ospedale alla ricerca dei misteriosi pazienti indesiderati dal partito.
Ad un certo punto due iniziarono a litigare.
Ad un terzo scappò il cane.
Quindi, dopo aver deciso all’unisono che l’unico modo per riconoscere un Untermensch* da un buon cittadino tedesco era chiederglielo, fecero un giro di domande velocissime ed uscirono dall’ospedale in otto, visto che uno era stato morso al polpaccio da uno dei pastori tedeschi.

~

Le tormentate vicende di Maik non finirono qua.
Dopo diversi comportamenti aggressivi nei confronti del personale medico, in particolare verso le due infermiere russe, Irina e Galina, l’equipe di dottori si vide costretta a chiamare una terza persona: il temutissimo Maggiore della sanità Walter Weiss.
Herr Weiss, croce di ferro di prima classe durante la Grande Guerra e adesso prestante servizio in campo medico, era divenuto famoso per le sue ricerche sul Pervitin e, soprattutto, per la sua personalissima variante azzurra capace di portare il fruitore in uno stato totale di berserkr per qualche ora, prima di morire brutalmente, schizzando sangue da ogni orifizio come una fontanella dei giardinetti pubblici.
Attualmente stava cercando qualcuno in grado di resistere ai terribili effetti collaterali della sua droga.
Si era presentato una domenica piovosa con la sua bella divisa da ufficiale carica di mostrine. Infermiere e dottori lo aspettavano all’ingresso, impettiti e coordinati nel saluto come una perfetta coreografia teatrale.
Lui, monocolo e naso adunco, trascinava gli stivaloni neri sullo stranamente lucido pavimento dell’ospedale, lasciando tracce di spesso fango marrone al suo passaggio.
“Dov’è l’uomo” disse ad un certo punto, con voce bassa e spaventosamente rauca.
Biermann, ansioso di far carriera, lo guidò verso una spessa colonna di una navata laterale.
Lì, legato con una spessa catena di metallo come un cane, sedeva Maik Gerste, il pericolosissimo paziente zero. Bendato malamente, Wolfmann ignorò completamente il Maggiore Weiss, preferendo leccarsi le ferite come un cane rognoso.
“Inizialmente abbiamo provato a somministrare cure per la rabbia ma mi creda, Herr Weiss, non hanno fatto effetto. Le dirò di più. Nessuno riesce ad avvicinarlo. In molti hanno ricevuto graffi e morsi...e non siamo nemmeno sicuri che parli la nostra lingua...”
“Ha detto abbastanza” tuonò il Maggiore. In risposta Biermann divenne piccolo piccolo ed iniziò a succhiare nervosamente la punta della penna in preda ad una forte astinenza da fumo.
“Caporal Maggiore Maik Gerste...” l’uomo si chinò verso di lui, fissandolo negli occhi. L’altro smise di leccarsi per ricambiare l’occhiata, una sfida vera e propria che durò diversi minuti.
“Lei è l’uomo che cerco.”
Maik, in risposta, grugnì.
“So riconoscere il valore di un soldato. E lei, Herr Gerste, è esattamente quello che sto cercando.”
Maik improvvisamente venne catturato dal discorso. Negli occhi scintillava una strana nota di ammirazione, così diversa dalla noiosa rassegnazione che ero solito la leggere nel suo sguardo.

“Qua dentro” mormrorò Weiss, picchiettando un dito guantato contro un tubetto bianco “c’è il segreto della vittoria. La chiave finale. Dica solo una parola. 
Una sola. 
E vinceremo questa guerra.”

Furono momenti di tensione infinita.
E, nella mia testa, sapevo esattamente cosa sarebbe successo.
Maik avrebbe sorriso sinceramente, mostrando gli inquietanti canini più appuntiti del normale.
“Sono l’uomo che sta cercando”
E così fu.
Si lasciò slegare come un agnellino e partirono assieme, camminando fianco a fianco come due pari.

~

Quindi, a conti fatti, ci ritrovammo in quattro.
Trovammo alloggio in un agglomerato di isbe poco confortevoli ma ancora perfettamente arredate. Una accanto all’altra, con i loro tetti grigi ed i muri di legno marcio, sembravano infinitamente tristi.
Klaus e Martin erano sani come pesci.Floridi e ridanciani, stavano seduti per terra a giocare a carte. Tom dormiva appoggiato ad alcune cassette di legno, mascherando la cicatrice in testa indossando il cappello di tre quarti.
Dimissioni anticipate anche per lui, nonostante il braccio non si fosse ancora saldato del tutto, esattamente come la mia gamba. Ma, senza stecche, sembrava molto più sano rispetto a me ed alla mia stampella.
Parlammo poco e, soprattutto, nessuno nominò Maik. Eravamo completamente ignari del suo destino ma, nonostante tutto, mi sentivo terribilmente tradito.
Cercai di pensarla positivo – se si fosse rifiutato probabilmente sarebbe stato condannato ed infine abbattuto come una bestia rabbiosa – ma, in quanto suo direttissimo superiore avrei sperato una remora in più, qualcosa che facesse presagire che, tutto sommato, nutriva un po’ di fiducia nella mia persona.
Fu un duro colpo alla mia autostima. Mi chiusi in un angolo a bere. Fiete si accucciò accanto a me, orecchie dritte, pronto ad abbaiare al primo scocciatore di passaggio.
Ma non arrivai nemmeno a mezza bottiglia che la gracile figura di Tom si palesò davanti a me.
“Capitano, non faccia quel muso lungo”
“Lei non capisce” bofonchiai, portandomi nuovamente la bottiglia alle labbra.
“Si dimentichi di Maik. E’ uno spirito libero, sicuramente starà meglio adesso, ovunque lui sia.”
Prese un lungo respiro. Poi continuò.
“C’è una cosa qua fuori...e vorrei presentargliela. Si fidi, le piacerà”

Credo di non meritare un commilitone come Tom. Sono molto più grosso di lui e, nonostante avesse un braccio rotto, mi diede comunque una mano a sollevare il mio ingente peso da terra. Mi sistemò la stampella sottobraccio e a questo punto fu solo questione d’orgoglio perché, altrimenti, avrebbe sostenuto la mia camminata zoppicante fino a quel minuscolo spiazzo di terra strappato agli alberi dove, imponenti, alloggiavano alcuni carri armati nuovi di zecca.
“Guardi qua, Capitano Faust! Non è una meraviglia?”
Tom era euforico. Saltellava come un fanciullino davanti al gigante corazzato dalle tinte mimetiche. Le probabilità di ricevere un secondo Tiger erano inferiori allo zero e non fui così stupito quando mi ritrovai faccia-a-faccia con il nuovissimo Panther.
“E’ carino” commentai. Ovvio, non era la stessa cosa. Questo, in confronto alla Furia enorme e prepotente, sfigurava con le sue linee alleggerite da carro medio.
“E’ affidabile?” chiesi, studiandone la superficie.
“Non esattamente. Così mi hanno riferito. E’ ancora un po’ capriccioso ma se tu avrai fiducia di lui...”
“Lui avrà fiducia in te”
E’ strano pensare ad una macchina come qualcosa di vivo e senziente ma, in quanto dipendenti da essa, spesso comunicavamo con lei, ringraziandola ed insultandola per eventuali vittorie e disfatte. Forse è la pazzia della scatola da scarpe, la claustrofobia di essere compressi in cinque metri di terrore.
Sorrisi.
“E allora sia così. Furia Nera seconda, benvenuta nel gruppo.”
Speriamo sia degna del suo predecessore.

~

Scrivemmo il suo nome a caratteri cubitali sul cannone e la battezzammo con una bottiglia di vodka vuota. Fui quasi commosso dalla cerimonia fin quando Fiete decise di marcare il territorio su uno dei cingoli. A quel punto divenne un feroce inseguimento al cane ed il Panzer venne dimenticato, immobile nella sua assoluta potenza.

~


Il giorno dopo un furgone carico di uomini venne a farci visita.
Erano tutti giovanissimi. Ricordo ancora quando partii io per la guerra ed eravamo tutti uomini, seppur giovani. Adesso sono...ragazzini. Non credo superino la ventina, credo abbiano circa diciotto anni.
Ed uno di questi, spavaldissimo e sorridente, si avvicinò a me, cogliendomi di sorpresa mentre fingevo interesse sul nuovo manualetto del Panther. Nonostante fossi un discreto lettore e questi libretti fossero in qualche modo aspramente comici, in essi ricercavo le fanciulle disinibite del Tiger, manuale che custodisco ancora con gelosia tra i miei spiccioli averi.
“Che schifo” commentai ad alta voce “si impegnano a fare tutte queste vignette quando l’unica cosa interessante sono le donne in costume” che, in questo volumetto, scarseggiavano terribilmente, sostituite da orchestre e schiere di angioletti che si ripresentavano in più pagine e che, francamente, non mi interessavano.
Fu dunque in questo frangente che il giovinotto si presentò a me a braccio alzato e postura esemplare. Devo ancora chiedermi perché alle reclute insegnino a salutare così bene.
“Postura perfetta, ragazzo mio” lo derisi, fingendo genuino interesse. Lui divenne tutto rosso e fece uno smagliante ed orgoglioso sorriso.
“Merito del duro addestramento in caserma, Signor Capitano!”
“Bene”
ridacchiai “Nel caso dovessi scorgere la punta di un Mosin-Nagant** che mira alla tua testa, salutalo nello stesso modo. Sono sicuro che deciderà di risparmiare un teatrino così...patetico.”
Il giovane mantenne una posizione impassibile, nonostante potessi leggere nei suoi occhi infinita tristezza. Non era un’accusa nei suoi confronti, in realtà. Per quanto adorassi praticare del sano nonnismo sui giovani camerati, il sistema iniziava davvero ad irritarmi. Il saluto è perfetto ma...il resto?
“Signor Capitano, io...mi chiamo Daniel Kemple e...sono il suo nuovo Marconista.”
In effetti mi ero dimenticato di questa figura. Teoricamente Maik ne occupava il ruolo ma la sua cooperazione era quasi nulla. In realtà dubito abbia mai sistemato i collegamenti radio in vita sua.
“Mi...mi hanno detto di rivolgermi a lei, ecco...” il suo volto completamente rosso tradiva il suo portamento inflessibile da regolamento.
“Riposo. Kemple, hai detto? Sei mai stato in missione?” Gli chiesi, fingendomi più interessato ad una macchia sulla divisa che alla sua figura.
“Mai stato in missione, signor Capitano! Questo è il mio primo giorno, signor Capitano!”
Cambio controproducente. Maik, nonostante tutto, era un grandissimo cecchino, nonché infallibile mitragliere.
E questo...lo squadrai per bene. I capelli radi scuri, il viso perfettamente ovale con due guance piene e rosse che parevano narrare echi di una vita sana...
“Età?”
“Vent’anni compiuti signor Capitano!”
Un cucciolo, praticamente. Ero disperato. Avevamo solo sei anni di differenza ma da noi due pareva esserci almeno una decade. Come fisico, carattere, esperienza...tutto.
Ed io dovevo badare a lui.
Il giovane doveva aver notato il mio immenso disappunto e sembrava sul punto di scoppiare a piangere per avermi deluso.
“Cerca di essere almeno bravo la metà del tuo predecessore, il Caporal Maggiore Gerste. Lui riusciva a centrare un coniglio in un occhio da cinquecento metri e...”
“Signor Capitano! Perdoni la mia inesperienza, signor Capitano!”
Santo cielo. Stava piangendo per davvero. Nei centri d’addestramento non usano più gli stivali sugli stinchi come ai miei tempi?
“La...io non...io non lo so ma posso imparare! Glielo giuro sulla terra dei nostri padri, signor Capitano! io...”
“Va bene così, va bene così. Sistema le tue cose e ne riparliamo dopo.”
Il giovane tirò su forte col naso e si congedò con un saluto perfetto.
Sarei riuscito a portarlo sano e salvo fino alla fine della guerra?

Note:

* Sub-umano. Persone che i nazisti ritenevano appartenere a razze inferiori.
**Fucile di precisione russo.


 

 

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Capitolo 24
*** Capitolo 24 ***


Settembre ci salutò così, gelido e confuso, con le sue foglie verdi che lentamente seccavano fino a diventare gialle, ricoprendo così il terreno con uno manto bruno scricchiolante.
E’ un mese aspro e crudele. L’aria calda di Agosto scivolava tra le nostre dita e ci rendeva consapevoli dell’inverno che stava per arrivare.
Il pensiero mi faceva impazzire. No, non lo voglio un altro inverno.
Potevo sopportare la fame. La sete, la stanchezza e le ferite.
Ma no, non la neve. Il ghiaccio avvolge i vivi ed i morti con il suo bel manto bianco ed improvvisamente sembra tutto più...intimo. Poi arriva la primavera puttana che scioglie tutto, riportando ai nostri nasi l’odore dolciastro della morte. Ed è incredibile come riesca ad estendersi per interi valloni, come se la terra ne trasudasse.

~

Il nuovo arrivato sembrava stupidamente terrorizzato dal rumore delle foglie secche.
Bastava spezzarne una vicino al suo orecchio per provocare un’assurda reazione di terrore. Scattava in aria con un salto, estraendo una pesantissima rivoltella trovata chissà dove a cui spesso dimenticava di mettere la sicura.
“I-io sparo!” esclamava, tenendo le braccia rigide come pali mentre faceva ondeggiare instabile quel macigno di arma.
“Ci sono nemici qua fuori, signor Capitano! Li ho sentiti!” tremava il ragazzo mentre faceva scattare gli occhi in ogni direzione, paralizzato dal terrore.
“E’ solo una foglia!” Tom rideva amaramente, sbriciolandone una tra le dita.
“Solo, fottutissime, foglie! Senti qua-”
Per fortuna Daniel era troppo fifone per sparare. Con quella bestia di arma avrebbe potuto ferirsi per il contraccolpo, con la posizione rigida che manteneva.
“L-la prego signor Sergente! La smetta di...ah!”
A questo punto, spesso, gli cadeva l’arma dalle mani e partiva un proiettile vagante, seguito da una mia violenta ramanzina e dal suo volto inondato di lacrime.
Era tanto giovane, il ragazzo. Se fisicamente dimostrava a malapena gli anni che aveva, mentalmente non superava i sei.

~

Genericamente mi sono sempre occupato io dei segnali via radio ma, quando ero impegnato. avevo bisogno di qualcuno che se ne occupasse al mio posto.
Qui entrava in gioco Daniel, con i suoi enormi cuffioni dentro i quali praticamente scompariva.
Aveva un’infarinatura piuttosto rozza di come funzionava la vastità di chiavi e manopole che aveva davanti.
Così, nei momenti di quiete, perdevo un po’ di tempo per insegnargli le basi di sopravvivenza.
“Quello di cui ti devi davvero preoccupare, ragazzo mio” dissi, portando una mano alla mitraglietta equipaggiata all’interno del Panther “E’ questa. Non sarebbe nemmeno male se tu imparassi a riparare questo bestione. Più cose riesci ad imparare, meglio è per noi. Guarda, adesso ti faccio vedere come funziona la Furia. I tuoi superiori al campo di addestramento dovevano essere scimmie battipiatti per non averti mostrato queste cose.”
“Ma Signor Capitano...”
“Ascoltami attentamente. Adesso il Signor Weisz prenderà posizione in prima fila accanto ai carri di Schulz e Fischer. Lo vedi?”

“Capitano...”
“Zitto Achen. Ora guarda, vedi laggiù? Quello è un carro russo che sta cercando invano di nascondersi. Guarda che buffo, sporge con tutta la placca frontale. Sono sicuro sia un T-34, guarda come gli sfondiamo il culo ora.”

“Capitano!”
“Taci che devo istruire il ragazzo. Dicevo. Ora prendo il microfono, questo qua, lo accendo e dico: Jager, carica il cannone!”
“Capitano, quello è un cacciacarri!”
Un profilo basso ed affilato ed una torretta imponente e quadrata rendeva la figura del SU-76 inquietante ed aggressivo. Si muoveva piano oltre le sterpaglie secche della vasta campagna ucraina, sollevando goffamente il cannone nei suoi limitati movimenti.
“...Merda” mi sfuggì genuinamente dalle labbra mentre abbandonavo il ragazzetto che, con fare vago, mi chiedeva “Cosa devo fare?”
“Spara a tutto ciò che si muove e che non indossa una divisa come la tua”
Daniel annuì appena. Diede un’occhiata al suo vestiario (sia mai che una divisa nera sia difficile da riconoscere) ed imbracciò la mitraglietta.
Diedi ordini a Tom di fermarsi e di prestare attenzione che i fianchi non entrassero sotto il tiro nemico.
Come un coccodrillo nella melma aprii la botolina e mi sporsi appena, giusto per controllare la situazione. Portai con me i miei fidi binocoli, oramai estensione naturale dei miei occhi, accertandomi della nostra posizione.
Solo a quel punto diedi ordine di sparare, mirando più in basso possibile, all’altezza dei cingoli. Il colpo fu decisamente violento e, con sfacciata fortuna, riuscimmo a far saltare parte del carrello sinistro.
Il bestione oscillò appena, confuso. Dalla torre fece capolino un capocarro che, dopo essersi reso conto di avere un Panther che tirava dritto sulla sua testa, ordinò a voce la ritirata. La piana secca ed i cespugli bassi non erano particolarmente utili alla fuga, così diedi ordine a Daniel di far cantare la mitragliatrice.
Era sicuramente un grandissimo successo, questo. Un’esecuzione pulita e senza spreco di proiettili. Anzi, avremmo potuto rubare un bel po’ di benzina…
Se quei dannatissimi non avessero motori diesel. Va comunque forte al mercato nero, quindi una tanica si poteva tranquillamente caricare. La gente adora spararsene qualche bicchiere per andare in ospedale e spesso morirci.
Stavo contemplando la mia vittoria, crogiolandomi nella mia più assoluta bravura, quando Daniel chiamò a gran voce la mia attenzione, incrinandosi in un tono che rasentava il pianto.
“Capitano!” boccheggiò. Non gli diedi davvero peso fin quando non fu Tom a chiamarmi.
La recluta non solo non aveva colpito i quattro russi che oramai camminavano tranquillamente, reputandosi fuori pericolo, ma continuava a far ballare quella maledetta mitragliatrice tra terra e cielo come se fosse una fottuta saponetta.
“Sguscia da tutte le parti!”
“Tienila ferma!”
“Non ci riesco, Capitano!”
Tom aveva le lacrime dal ridere. Contorto sulla sua postazione, il pilota si mordeva il pollice guantato per imporsi di smetterla, producendo un fischio aquilino,
Ad un certo punto le cariche finirono e Daniel credette di aver rotto l’arma.
Furono nuovamente pianti. I miei, i suoi, quelli di Tom e quelli di Klaus, intervenuto prontamente in soccorso poiché “ci sa fare con i bambini”
Per quanto l’era dei pannoloni fosse passata già da un pezzo per lui, il giovane rimaneva estremamente infantile.
Con la coda dell’occhio notai che i quattro carristi russi stavano facendo una specie di autoscatto col nostro Panther. Incuranti dell’eventuale pericolo, i sovietici deposero i fucili ed iniziarono a scaricare il gasolio dal carro fuori uso.
Chiamarono i rinforzi e pranzarono sull’erba come se fossero in un pic-nic.
In risposta mi chiusi in un silenzio esplicativo.
Klaus asciugò le lacrime al giovane e gli raccontò una sorta di storiella su un piccolo soldatino coraggioso. Era più o meno la stessa storia che raccontavo sempre io dopo due bottiglie abbondanti, solo che culminava con la cattura del giovane da parte di un gruppo di aviatrici russe e con una punizione orgiastica, non con una croce di ferro per il valore militare.
La storia andò avanti a lungo e non riuscivo a capire se fosse una presa per il culo oppure se i due fossero seri.
“Capitano” Tom mi chiamò con voce strozzata dal gran ridere.
“Ha intenzione di far durare questo teatrino a lungo? Credo sia opportuno spostarci prima che...insomma, possa arrivare qualche rinforzo da quelli là.”
“Faccia quel che vuole, Weisz, io me ne lavo le mani di questa pagliacciata.”

Il pilota rimase interdetto. Poi, per illuminazione divina, si ricordò di essere il secondo grado più alto all’interno della Furia. Un ghigno preoccupante si spiegò sul suo volto.
Fregandosi i guanti ruvidi e consumati, il giovane pilota cacciò il paffuto Klaus, prendendo il suo posto alla mitragliatrice.
“Via, via con queste storie. Vorrei prendere la croce di ferro anche io, se permettete.”
Tom sputò sui guanti, imbracciando l’arma.
“Vedi, Daniel? Questa è la posizione giusta. Adesso...ricarichiamo la mitragliatrice e finiamo questa storia una volta per tutte”
Diede un calcio ai bossoli a terra prima di far fischiare l’arma sui russi che, nel frattempo, erano riusciti a chiamare i rinforzi. La recluta lanciò un gridolino spaventato e si coprì gli occhi con entrambe le mani. In risposta Tom gli tirò un leggero calcio negli stinchi.
“Benvenuto nel fottuto mondo delle favole, Kemple!” sbrigativo il pilota portò le mani del giovane alla mitragliatrice, sgusciando alla sua postazione per riaccendere la Furia sotto mio ordine.
“Fianchi coperti ed ingaggiare!” Mi sporsi dal carro, facendo fuoriuscire i binocoli.
Da lontano potevo scorgere le figure di due T-34 russi che avanzavano.
“Ricevuto!”
Ruotammo la torretta per fare la prima mossa. Ero abbastanza convinto che ci fossero altri carri con noi… ma quei farabutti devono essere spariti come ai vecchi tempi, lasciandoci soli con la merda fino al collo.
Un colpo rimbalzò sulla placca frontale della Furia, producendo più rumore che danni.
Daniel, dal canto suo, era paralizzato e tremante. Era la prima volta che lo portavamo con noi. Spero non se la sia fatta addosso dalla paura.
Ingaggiammo con successo uno scontro con il primo carro, rompendogli il carrello.
Provò ancora una volta a colpire ma noi rispondemmo più forte, bombardando il fianco fino a metterlo fuori uso. I suoi uomini uscirono velocemente e scomparvero dietro al rottame.
La recluta non riuscì a colpirne nemmeno uno.
Il secondo carro, più furbo, caricò i superstiti e fece marcia indietro.
In nostro ricordo gli lasciammo un foro grosso come un pallone nella placca posteriore.

~

Riprendemmo la marcia senza ulteriori danni.
Dopo una lunga ora di cammino decidemmo di fermarci all’ombra di alcuni sempreverdi, seminascosti dalla tinta mimetica del carro e dalla fortuna sfacciata che avevamo.
Mentre riempivamo il serbatoio a Martin venne la geniale idea di sfruttare il metallo bollente e fumante della Furia per scaldare un rancio dall’aspetto orribile.
Daniel, nel frattempo, si era nascosto per evitare che lo deridessimo per essersela fatta addosso per davvero. Se ne stava raggomitolato sotto un albero a gambe strette e viso rosso, vergognandosi di sè stesso.
Klaus, ancora una volta, volle provare ad intervenire perché “ha due figli piccoli e sa come ci si comporta” ma glielo proibii.
“Ehi, piccoletto! Vieni a mangiare!” intervenne Tom a bocca piena, mescolando la gavetta con fare ingordo.
“Non ho fame” mugolò Daniel, stringendosi il capino tra i gomiti.
“Guarda che lo sappiamo che ti sei pisciato nei pantaloni” ridacchiò il pilota, buttando giù ingordamente un altro po’ di zuppa.
“Ci siamo passati tutti, dai! Tranne sua eccellenza del Capitano, ovviamente.”
Mi stavo crogiolando in questa sottile verità quando alle mie orecchie giunse un: “Lui si è fatto ben peggio delle brache. Vero, Signor Capitano?”
“Negativo, Weisz. Lo ripeta ancora una volta e la sbatto davanti ad una corte Marziale senza darle nemmeno il tempo per una pisciata.”
Tom la prese sul ridere. Io, invece, ero serio.
Per fortuna, però, riuscimmo a strappare un sorriso a Daniel il quale, un po’ meno intimorito, si avvicinò diffidente per mangiare la sua porzione.
O così credevamo. Riservò alla sua scodella una smorfia disgustata.
“Che schifo”
“Non dirci che sei schizzinoso”
“In realtà...”
il ragazzetto fece scivolare il cucchiaio nella massa indistinta di pollame e cavolo, girando la massa grumosa più volte, indeciso.
“Io in realtà sono vegetariano. Come il Fuhrer, no? l’ho letto in una rivista. È un un bell’esempio da seguire, non credete?
A questo punto Tom, che stava bevendo, sputò praticamente addosso al buon Martin, piegandosi in due in una risata sganasciata.
“Porca troia ragazzo mio, sei fottutamente diverte. Sei in guerra e ti fai scrupoli per un cazzo di pollo. Dammi qua che ti mangio la carne e ti lascio...quello che vuoi.”
Il giovane, forse per questione d’orgoglio, divorò quieto la sua porzione, strabuzzando gli occhi dal disgusto ad ogni boccone.
Gli serviva del tempo.
Decisamente.

 

 

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Capitolo 25
*** Capitolo 25 ***


Nota iniziale:

Buonsalve! non sono sparita anche se, con questo ritmo vi do il permesso di prendermi a bastonate potrebbe così sembrare.
Mi sono concessa una piccola vacanza nelle terre del buon Bastian e, tra una birra e l'altra, ho perso la cognizione del tempo (?)
Mi scuso profondamente per il ritardo ripromettendomi puntualità.
Vi lascio al capitolo, adesso. Grazie a tutti voi per seguirmi nonostante il mio ritmo altalentante. Diventerò precisa, un giorno! ma non oggi






Scrutai con lo sguardo l’orizzonte.
Semisepolti sotto un manto di caduche foglie secche rimanevamo in silenzio, sdraiati sul morbido terreno fangoso nel quale erano state scavate naturalmente le nostre figure.
Così, in caso di prematura dipartita, avremmo avuto delle belle tombe di terra, un lusso che non molti potevano permettersi.
Il cielo cupo e grigio, carico di pioggia autunnale, reggeva come una cornice silente la nostra attesa, facendo frusciare di tanto in tanto vampate di foglie, lasciandole volteggiare a mezz’aria come ballerine dorate.
Nel silenzio più totale solo la nostra mitragliatrice cantava.
Dietro di essa si nascondeva la sottile figura di Tom oramai completamente ricoperta di foglie. Solo il cappellino nero ed un continuo borbottare facevano presagire la sua esistenza.
Daniel, agitato come sempre, stava invece in disparte, raggomitolato sotto un albero con gli occhi sbarrati e contornati da spesse occhiaie.
Non riuscendo a sottostare ai ritmi di sonno e veglia dei russi decidemmo all’unanimità di lasciarlo perennemente in guardia mentre noi dormivamo.
...peccato che, in qualità di vedetta, sia pessimo. Ogni singolo scricchiolio lo faceva sussultare. La naturale conseguenza dunque era quella di venirmi a svegliare per un cazzo di ratto, una pigna caduta o una qualsiasi altra follia partorita dalla sua mente.
Non si muoveva, respirava appena, paralizzato dal terrore insensato delle foglie.
La sua ignoranza rischiava di vanificare i nostri sforzi.
In un attacco d’arte avevo ricoperto la Furia, già tinta mimetica per l’occasione (a quanto parte per l’inverno 43 il cachi autunnale è alla moda ed io non mi esimo in fatto di tendenze) di foglie secche. Nascosto dietro di noi, il panzer era /quasi/ invisibile.
A conti fatti Daniel e la sua divisa nera erano bersagli facili ed appetibili.
“Kemple” ringhiai a denti stretti, facendogli cenno di prendere posto accanto a Klaus, l’unico che “ci sa fare con i bambini”
“Ho paura” rispose la recluta con un acuto pigolio, abbastanza forte da far svegliare eventuali russi nell’arco di cinquanta metri.
“Silenzio, dannazione!” Sbottò Tom, spostandosi la sigaretta dal lato sinistro della bocca mentre ricaricava la mitragliatrice poggiata sul treppiedi. La nebbia copriva il fumo, per questo il pilota ne stava approfittando per dare fondo alle sue scorte.
“Quando fare silenzio lo decido io, Weisz” mi ritrovai saggiamente ad obiettare.
Il giovane sergente roteò gli occhi con disappunto, tornando a seppellirsi sotto il mento di foglie.
“Kemple, vieni subito qua altrimenti ti sbatto davanti alla corte Marziale per aver disobbedito ad un tuo superiore” Lo intimai nuovamente. Questa volta con le cattive, però.
La recluta tirò su con il naso rumorosamente, asciugandosi gli occhi appena umidi.
“Capitano...ho più paura delle foglie che del tribunale, in realtà.”
Ah beh,
Le priorità.
Non riuscivo a capire se stesse bluffando, conscio che non avrei mai fatto una cosa simile, oppure stesse dicendo la verità. Ma, a conti fatti, era troppo stupido per arrivare ad un ragionamento così sopraffino.
Però nessuno frega il Capitano Faust, oh no.
“Come preferisci” lo assecondai, tornando a lucidare le lenti dei binocoli.
“Lo sai che quando vieni impiccato ti caghi addosso? Vuoi davvero morire con le brache sporche di merda davanti a tutti?”
Daniel trasalì, diventando rosso in volto.
Essendo un pisciasotto di prima categoria con i calzoni sempre zuppi aveva un’idea piuttosto concreta di cosa significasse vergognarsi a morte in pubblico.
Anche con una corda al collo.
Per questo lestissima la recluta scivolò nel fango con gli occhi chiusi e le mani alle orecchie, spostandosi con i gomiti come una specie di grosso millepiedi.
Klaus, molto più paziente di me in fatto di ragazzini, si premurò consolarlo, facendogli scivolare sulla schiena qualche foglia per renderlo meno visibile.
Spero vivamente che ci forniscano un capo mimetico al più presto.
I russi hanno già provveduto da un pezzo a camuffarsi. Ce ne siamo accorti a loro spese mentre pulivamo i cingoli della Furia da un piccolo incidente nei confronti di un cecchino sovietico.
Mentre Klaus e Martin erano intenti a sradicare tessuto e muscoli dalle ruote Daniel, fifone e curioso come non mai, aveva raccolto un bellissimo Mosin-Nagant* dalla mano ancora chiusa del camaleontico malcapitato.
“Capitano, guardi qua! Ora sono un cecchino!” urlò, imbracciando alla buona quel grosso fucile con un gigantesco periscopio.
Tentammo di zittirlo ma lui, esaltato, parlava usando un tono di voce troppo alto.
Maledetto l’ufficiale che lo ha considerato idoneo alla guerra. Temo inizi ad esserci penuria di uomini, così accettano cani e porci.
Io, in quanto essere magnanimo e votato per l’amore universale (nei miei confronti, possibilmente) farei in modo che anche le donne potessero arruolarsi, come succede tra i russi.
Battaglioni misti, ovviamente. Già mi vedo, possente ed energico Capitano guidare quattro giovani sottoposte...ovviamente combattive, abili, infinitamente belle , desiderose di eseguire i miei ordini ma soprattutto versatili nell’eseguire diverse mansioni, anche fuori dall’ambito militare...insomma…
“Capitano! Una foglia gigante si muove!”
Stavo dunque divagando in castissimi pensieri di soldatesse in divisa succinta che leste mi chiamavano per grado implorandomi di poter fare manutenzione al carro (Non al Panther, l’altro) che Daniel mi gettò brutalmente nella realtà. Preso dal panico, la giovane recluta sparò in aria, cadendo a terra per il contraccolpo.
Questo in cambio del buon Gerste. Che pacco pazzesco.
La cosiddetta “foglia gigante” oltre ad essere in grado di muoversi, era munita di mitragliatrice e non ci mise molto ad aprire il fuoco.
Solo l’intervento tempestivo ed inaspettato di Fiete, oramai un cane adulto e consapevole del suo valore militare, ci salvò.
Un morso ben assestato al braccio fece mollare la presa all’uomo che, colto dal panico, tentò di scappare cadendo a terra.
Solo così riuscii ad avvicinarmi al nemico per piantargli una pallottola in fronte e prendermi il merito.
Daniel, non contento, pianse lacrime amare rialzandosi. Provò a sparare ancora una volta ma il fucile non rispose al suo comando.
“Capitano, ho rotto questa meraviglia, sono affranto...”
“Devi ricaricarlo, prima”

Un lieve verso di stupore sfuggì dalle labbra del ragazzo. Mi ringraziò ma il mio udito selettivo lo ignorò, preferendo concentrarsi sui guaiti festosi del Caporale Fiete.

~

Ho divagato un po’ troppo.
Torniamo a noi, alla nostra postazione sepolta dalle foglie.
Mentre noi quattro, membri della vecchia guardia, osservavamo il territorio alla ricerca del nemico per decidere come spostarci la giovane recluta aveva estratto dall’interno della giacca un numero di Signal** recante in copertina una foto di un bombardiere al decollo.
Incapace, disinteressato e vigliacco. Forse sto espiando attraverso di lui un peccato commesso in una vita precedente.
“Capitano...”
E stupido, naturalmente.
“Ho capito perché non riesco a dormire. Questa terra è infestata da fantasmi”
Cercai di ignorarlo fin quando non mi sbatté l’articolo in faccia.
“Vede, qua! c’è scritto chiaramente...affari esoterici...”
Presi un respiro profondo. Con suo grande disappunto sfogliai la rivista fin quando non trovai un inserto dedicato a delle allegre infermiere di provincia.
“Se proprio vuoi esimerti dal conflitto, ricordandoti caldamente che la diserzione è un reato punibile con la morte, almeno fallo bene. Anzi, no, dammi un po’ qua che queste signorine meritano attenzione...”
Purtroppo dovetti concedere loro solo un breve ed intenso sguardo. In quanto Capitano dovevo dare il buon esempio. Restituii dunque la rivista al suo proprietario, premurandomi di farmela prestare qualora ne avessi avuto bisogno.
La recluta annuì sbrigativamente, infilandosi nuovamente la rivista all’interno della giacca.

~

Dopo aver scandagliato il territorio alla perfezione finalmente decidemmo di ripartire.
Tom, tra tutti, sembrava apprezzare maggiormente la nuova Furia rispetto agli altri, me compreso.
“Finalmente sembra di guidare per davvero!” esclamò, accendendo il rumoroso e bollente motore che da lì a poco avrebbe eliminato anche il più flebile strascico di gelo dai nostri corpi che, fino ad un momento prima, giacevano immobili tra il fango umido e la nebbia gelida.
“Quello vecchio era un cazzo di sasso gigante. Beveva più del Capitano ed è già tutto detto...”
In effetti in quel preciso momento mi stavo dissetando con un distillato di patate*** ma non era questo il problema.
“Negativo, Weisz. Con questa bottiglia” che sollevai con enfasi, tanto non poteva vederla “Faccio ben più strada di quanta possiate immaginare. A tal proposito...Kemple, tu bevi?”
“No, signor Capitano! La mia rigida dieta si basa sul seguire i fondamentali dettami del super uomo, signore! Il fumo è caldamente sconsigliato, così evito le sigarette ed aberro le prostitute per non mischiare il mio puro sangue germanico, signore!”

Ci fu un minuto di silenzio. Pesantissimi sessanta secondi interrotti solo dalla risata fragorosa di Tom. La sua inusuale ilarità si rovesciò su di noi, facendoci subire una bella accelerata nella lentezza dei quaranta chilometri orari del Panther.
“Che gran portento, Daniel!” Lo schernì, levandosi la bava con il dorso della mano
“Ricordami solo una cosa. Da dove provieni...”
“Wuppertal, Signor Sergente!”
“Il treno che dondola deve averti dato alla testa...****”
“Onorato che lei conosca il nostro orgoglio, lo Schwebebahn, Signor Sergente!”
“Ci sono stato un paio di volte, sono di Dussledorf, io”
“Non ci sono mai stato, Sergente! Mi dica, è una bella città?”

Il dialogo proseguì nel suo corso naturale. Daniel, con gli occhi a cuore nel sentir parlare della sua città natale, gesticolava euforico peggio di quegli alpini italiani che incontrai tempo fa.
Continuò a parlare del suo treno sospeso anche dopo la molestissima apparizione di un T-34 che, a muso diritto e minaccioso, era apparso oltre una fitta cortina di alberi, spezzandone i tronchi come se fossero di burro.
“Quindi lo prendevi tutti i giorni...” Tom continuò il discorso, portandosi al fianco del carro con una saggia retromarcia, lasciando che la torre ruotasse per portare il fianco fuori dal tiro nemico.
“Si! Andavo a scuola con quello! Era bellissimo osservare la città dall’alto...”
I russi dovevano averci localizzato, immaginai. Insolitamente stupidi, i nemici cercarono di avanzare ancora, noncuranti della riva di un fiume sassoso e profondo nel quale stavano per precipitare a picco.
Noi, dall’altra parte della riva, ci godevamo l’insolito spettacolo.
...Se non fosse stato per un secondo carro, un altro T-34 che, saggiamente, era rimasto in disparte. Un impercettibile fruscio a più di cinquanta metri che cercava di fiancheggiarci, la stella rossa ben visibile sulla torre.
“E’ coperto!” Li informai. Ordinai immediatamente a Martin di caricare il cannone quando la voce innocente di Daniel rispose con: “Che domande fa, Capitano? Certo che è coperto, è un treno come tutti gli altri...”
“Si sposta a destra!”
“In generale va in linea retta, Capitano...”
“Stai zitto, Kemple! Tu ed il tuo fottuto treno! Guarda avanti e spara...anzi, no. Stai zitto e non fare nulla.”

La recluta si rabbuiò. Mentre Tom cercava di fiancheggiare il nemico che altrettanto cercava di proteggersi, Daniel tirò nuovamente fuori dalla giacca Signal e, quieto, si lesse tutto d’un fiato un bel articolo sulla Luftwaffe.
Dal carro sprofondato uscirono cinque uomini. Umidi ed impacciati dalle casacche gonfie d’acqua i soldati correvano goffi e lenti davanti al nostro carro.
“Kemple”
“Si, Capitano?”
“Posi quella fottuta rivista e faccia quello che avrebbe dovuto fare.”
“Come fa a sapere che sto leggendo, signor Capitano?”
“Ammazza quei russi, avanti!”
mi ritrovai ad urlare alla radio mentre, con uno scarto di pochi secondi, il T-34 esplose un colpo lungo la nostra fiancata. Mirò in basso ma non a sufficienza per rompere il carrello, incassandosi nella placca protettiva e forandola abbastanza in profondità da divenire una minaccia per il motore
“Vedi a cosa porta la tua inefficienza, Daniel?” Sbottò Tom che, tra tutti, sembrava quello che meno tollerava la presenza del giovane inetto che, in risposta, si tramutò in una fontana di lacrime.
Solo dopo esserci concentrati a sufficienza ad ignorare Daniel riuscimmo ad assestare un brutto colpo alla torretta russa che, dopo una resistenza iniziale, si ritrovò fumante e scardinata. Fuggirono prima che riuscissimo ad infliggergli un ultimo colpo al motore, facendo divampare il carro ancora acceso in una pira gigante.
Apprezzammo particolarmente il fatto che il nemico, prima della fuga, avesse spinto avanti il carro in modo tale da sprofondare in acqua in caso di incendio. Noi tedeschi siamo sensibili all’ambiente e vedere questo bel bosco bruciare avrebbe abbassato notevolmente il nostro morale.
...Mai come quello di Daniel, però. Chino in un angolo il giovane piangeva disperato in preda ad una sorta di attacco di panico.
Klaus lo invitò ad uscire da carro per prendersi una boccata d’aria.
Lo accompagnò verso la riva del fiume. Noi, insensibili veterani, li guardavamo da lontano mentre il più vecchio lo aiutava a pulirsi nel fiume le brache zuppe.
“Non preoccuparti di loro” gli disse Klaus, strofinandogli i capelli in un gesto quasi paterno.
“Non sono cattivi, si sono semplicemente dimenticati quanto siano duri i primi tempi quaggiù.”

Note:
* Mosin-Nagant: uno dei principali fucili da cecchino usato dai russi
**Signal: controparte tedesca di "Life". Ebbe un grandissimo successo e venne tradotto in tutte le lingue dei paesi dell'asse.
*** Vodka, in poche parole. Ma distillato di patate sembrava decisamente più elegante per l'occasione.
**** Wuppertal e Dusseldorf appartengono allo stesso lander, in Renania-Westfalia, e sono molto vicine come posizione. Wuppertal è caratterizzata per questo treno sospeso "
schwebebahn" (letteralmente "treno che dondola") attivo dal 1901. Questo mezzo di trasporto è caratteristico della città, oltre ad essere unico nel suo genere. 

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Capitolo 26
*** Capitolo 26 ***


Atterrò nella terra come un corpo morto, straziando l’aria con il cupo ululato del motore ed oscurando il cielo in una nube di fumo denso e nero.
E noi, immersi nel silenzio più totale della fitta boscaglia russa, ci rintanammo terrorizzati come conigli nell’udire il lento canto di morte di un enorme bombardiere tedesco dal ventre lacerato in picchiata verso di noi.
L’impatto violento col terreno lo disintegrò come burro. Una pioggia di metallo e fumo avvolse la piana. Dello Stuka* non rimase che un’ala spezzata, piantata verticalmente sul terreno come una grossa lapide, la croce barrata in un muto memoriale di tragedia.
Capitano...” Daniel si mise al mio fianco, osservandomi con il solito sguardo da boccalone.
Posso andare a controllare?”
Eravamo abbastanza lontani da non aver subito danni, eppur così tragicamente vicini da poter osservare quello che doveva essere un pezzo di coda rimbalzare sul terreno , scivolando infine dentro una pozza d’acqua gelida, rimanendovi inghiottito per l’eternità.
Andiamo. Jager, Achen, copriteci le spalle”
I due uomini, ben lieti di non dovermi seguire, annuirono con una certa convinzione.
“Weisz, tu controlla che non fuggano”
Ai suoi ordini, Capitano” rispose il pilota con tono svogliato. Tornò dentro la Furia, stranamente accogliente con la fredda aria autunnale, accingendosi a schiacciare un pisolino irriverente nei miei confronti ma che seppi solo a posteri, per sua fortuna.
Vedere la paura negli occhi di Daniel mi rasserenava, in un certo senso. Ho sempre avuto un cattivo rapporto con gli aerei. Come se fosse una fobia, perdere qualche battito e trattenere il respiro fino a sentirsi scivolare nella disperazione. Per questo la recluta è il miglior compagno di terrore. Devo essere forte per lui affinché non si faccia un’idea sbagliata nei miei confronti.
Ho un certo profilo da mantenere.
Più ci avvicinavamo e più l’aria diventava aspra e rarefatta. Tossimmo mentre avanzavamo tra i ceppi ancora sfrigolanti di olio e benzina che lentamente andavano a spegnersi, smaltite nel vento umido e freddo.
Una ruota, delle placche di metallo, una scarpa. Daniel la prese in mano con un certo coraggio. Credo vi fosse qualcosa dentro, poiché la giovane recluta pigolò forte, lanciando lontano il macabro relitto. Mi ritrovai a dovergli tenere la fronte mentre vomitava copiosamente, sudando freddo.
Non toccò più nulla.
Tra tutte questa desolazione trovammo, nella terra arsa dal fumo, un paracadute bianco. Immobile e malamente aggrovigliato, sembrava un grosso bozzolo di farfalla.
“Daniel, va tutto bene?” mi sfuggì. Intravidi negli occhi del ragazzo lo stupore.
Non chiamavo nessuno dei miei sottoposti per nome perché esigevo del dolcissimo rispetto ma, come ho già detto, gli aerei spezzano la mia dignità.
Sarà che perdo un battito ogni volta che vedo un aviatore.
Tra le mille maschere che indossano, ritrovarlo dopo tre lunghi anni perché è impossibile che sia successo, non ci credo e mai ci crederò.
“Forse là sotto c’è ancora qualcuno...”
Il giovane mi raggiunse, esitante. Aveva ancora gli occhi rossi dallo sforzo, appena sporgenti dalla paura.
Ci ritrovammo a pochi passi dalla figura avvolta. Vivo o morto, dovevo sapere la sua identità.
Delicatamente lo feci rotolare su un fianco, tentando di sbrogliare l’immenso telo bianco dalla sua figura. Continuai a farlo nonostante le mie mani fossero diventate umide di un rosso denso che scivolava dal tessuto impermeabile.
“Daniel, ti sei ricordato di prendere le bende?”
“Si...” la voce della recluta divenne un sussurro spaventato. Per quanto la stupidità lo rendesse limitato, si era ricordato, a mia differenza, di prendere il materiale per il primo soccorso, nonostante le probabilità di trovare qualcuno ancora vivo fossero già in principio molto basse. Quando gli porsi la mano insanguinata per prendere le garze, il giovane evitò di sfiorarmi le dita.
Lo sentii trattenere il respiro, prima di voltarsi in preda a forti conati di vomito.
La disperazione mi rendeva lucido. O forse era il Pervitin.
O entrambe le cose. Le mani mi tremavano dallo sforzo ma, nonostante questo, riuscii a liberare l’aviatore dal suo paracadute.
Come prima cosa portai le dita sotto il suo collo per controllare il battito.
Era ancora vivo, miracolosamente. Gli tolsi gli occhiali e la maschera che strette avvolgevano il volto, celandone l’identità
L’uomo inspirò l’aria a pieni polmoni. Rimase fermo per un po’, stordito. Quando si accorse della mia presenza iniziò ad agitarsi.
“Shh...va...va tutto bene” la paura faceva battere forte il suo cuore, accelerando la sua prematura dipartita mentre la giacca continuava a gonfiarsi di sangue.
Era molto giovane. Come tutti noi, d’altronde. Non credo superasse la trentina, è difficile stabilire l’età di un soldato al fronte dopo molto tempo. Sembrano tutti sempre molto più vecchi, rugosi e stanchi, sfatti dalle droghe e dall’alcool.
Teneva gli occhi chiusi, emettendo dei lievi gorgoglii scomposti.
“Parlo la tua lingua. Ti sto aiutando.” Lo liberai dai vestiti lacerati, pulendo alla meglio la ferita con della garza nuova. Molteplici lacerazioni che partivano dal fianco destro fino a martoriare il petto in profondità, scavato da un grosso proiettile che, come controsenso, rallentava l’emorragia meglio di qualsiasi fasciatura. Mentre tamponavo il sangue dovetti trattenere più volte i visceri che sgradevolmente si contorcevano provocandomi nausea. Lo fasciai meglio che potevo, nonostante fossi conscio che le possibilità di sopravvivenza erano pari allo zero.
L’aviatore lentamente si calmò. Doveva aver capito che non ero un suo nemico e che, in qualche modo, volevo aiutarlo.
“Riconosco la tua voce...” disse improvvisamente, tossendo. Piccoli grumi neri si incrostarono sulla sua bocca gorgogliante. L’impatto, il proiettile...doveva aver subito lesioni interne. Il primo ospedale distava chilometri, non aveva speranze.
“Va tutto bene...” cercai di tranquillizzarlo mentre tenevo a tutti i costi la ferita a bada.
Cercai di sorridere per dargli coraggio, ma riuscii solo a piegare grottescamente gli angoli della bocca.
“Ho freddo...”
“Su, su.”
Continuò ad ansimare piano, gorgogliando sangue prima di tossire.
Ad un certo punto rischiò di soffocare e dovetti rigirarlo sul fianco sano.
Le mani guantate sembravano ancora possedere una certa forza. Si aggrappò al terreno freddo, scavando un piccolo solco con le dita. Mi diede speranza.
Una vana, flebilissima, speranza.
“Daniel, dammi una mano, lo carichiamo sulla Furia e lo portiamo al campo più vicino...”
Prima che potesse rispondere l’aviatore mi mise a tacere schioccando un “No” incredibilmente vigoroso, mettendomi a tacere.
“Stefan...”
Trasalii. Forse stava delirando. La febbre...le ferite che si infettavano...
Chiamai Daniel ancora una volta mentre prendevo il ferito tra le braccia, sollevandone il busto. La recluta, prona e circondata da bile e pezzi di cena, si alzò con una certa riluttanza.
“Riconosco la tua voce...Stefan...”
L’uomo tossì ancora una volta, sbilanciandosi tra le mie braccia. Lo strinsi più forte per evitare che compisse movimenti bruschi.
Invece restò fermo, tentando di recuperare tutte le sue forze per parlare.
Come se dovesse togliersi un peso.
Un enorme, doloroso, peso...
“Non agitarti...”
“Stefan, perdonami...”
Boccheggiò ancora, le labbra nere che si schiudevano grottescamente, rivelando la dentatura rossastra e le gengive di una tragica sfumatura bluastra.
“Va tutto bene, va tutto bene...” l’agitazione in me si faceva sempre più palpabile. Gli strinsi forte una mano, sorridendo grottescamente. L’aviatore socchiuse appena le dita intorno alle mie, ricambiando con un sorriso tirato, di morte.
“Ti...ti...perché non...io...”
“Non agitarti...”
“Non dovevi...tu...dovevi...scappare...”
Strinsi più forte la mano. Daniel aveva paura ad avvicinarsi ed io tacqui, assecondandolo. Non c’era più nulla da fare.
Ma Stefan...era il nome di mio fratello. Che fosse semplice omonimia non mi importava molto...dovevo sapere per crederci e quell’uomo era la mia unica possibilità.
Sentivo lo stomaco rigirarsi per l’orrore, la consapevolezza di quelle parole mi lasciarono tremante ed avido. Desideravo egoisticamente saperne di più. Accarezzai la fronte dello sconosciuto, liberandola dai capelli umidi che erano rimasti incollati.
“Bruciava tutto...dovevi...in acqua...i-io...”
L’aviatore adagiò la testa mollemente all’indietro, penzolante e senza forze.
Io, sempre più inorridito, lo strinsi ancora più forte.
Daniel era di nuovo a gattoni in preda a nuovi conati di vomito.
“...Dovevi...lanciarti...assieme...”
Lo sentii recuperare le ultime forze. Fu una sensazione orribile poiché la sua voce oramai divenuta un rantolo soffiò un’ultima parola polmonare e senza suono, un “Perdonami” che lo svuotò di vita, lasciandomi strabuzzante e confuso.
Avevo visto centinaia di uomini morire Ma lui...quest’uomo...mi aveva scambiato per qualcun altro mentre delirava. Una tragica omonimia o forse si trattava davvero di lui...del pilota Stefan Faust...disperso ed infine dichiarato morto il sette di settembre a seguito degli attacchi su Londra.
Per il Fuhrer e per la patria…
I colori iniziarono a mischiarsi tra loro, vorticando di luce abbagliante che mi feriva gli occhi fino alle lacrime.
Persi l’equilibrio, forse urlai. Non ricordo molto, solo la voce acuta di Daniel che mi chiamava per grado, inchiodandomi a terra con tutto il corpo per...non lo so, non so cosa cazzo passi per la testa di quel ragazzo. Non ha mai agito intelligentemente nemmeno una volta, non mi sarei stupito se avesse fatto qualche cazzata-

~
 
“Lui...lui lo conosceva! Era il mitragliere di mio fratello!”
 
~
 
Fu blackout. Gli altri ci raggiunsero e mi scrollarono come corpo morto, forse ero svenuto, forse no. Forse persi il senno e picchiai il terreno fino a spezzarmi le dita, che ritrovai magicamente intatte quando ripresi conoscenza.
Non lo so. Ero confuso, avevo paura. Non sono un supereroe...
No…ho questo desiderio, folle ed assennato, di sopravvivenza. Un desiderio magico, forte e bellissimo che mi sostiene, nonostante sia tutto così crudele...immaginifico e crudele...e mi dà forza di esistere.

~

 
Scavammo una buca e seppellimmo l’aviatore all’ombra della grossa ala verde appartenuta al suo Stuka.
Era una bella tomba per un pilota, mi ritrovai a pensare.
Siegfried Schneeden**, così dicono i suoi documenti, le foto nel suo portafoglio che presi con me, ripromettendole di inviarle a casa dai suoi famigliari...
L’aria era insospettabilmente gelida. Inizialmente pensai che si trattasse del mio stato d’animo, del malessere e dell’orrore che stavo provando e che cercavo a tutti i costi di trattenere dentro al mio stomaco, nelle profondità dei visceri.
Alzai lo sguardo al cielo. Il cielo era bianco, le nubi gonfie e cotonate.
Nevicava.
~

 
Come credente non sono un granché ma tu, tra tutti, eri il più religioso.
Dicevi sempre che quando piove è dio che piange. Però, oggi, queste lacrime sono le tue.





 
Note: 
*Stuka o Junkers Ju 87: abbreviazione di Sturzkampfflugzeug , ovvero "aereo da combattimento in picchiata" fu uno dei più efficaci bombardieri utilizzati dalla Luftwaffe durante la seconda guerra mondiale.

**Schneeden: riferimento a Snowden da Comma 22

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Capitolo 27
*** Capitolo 27 ***


Seguirono giorni di insospettabile silenzio, ore interminabili durante le quali il capitano si chiuse in una specie di meditazione profonda e preoccupante.
Tom si prese la briga di spiegarmi l’accaduto in modo molto vago ed io, Daniel Kemple, rimasi con la perplessità a bagnarmi le labbra...nonostante fossi stato testimone dei deliri del nostro superiore.
“Cerca solo di comportarti bene e di non fare danni” mi ammonì il pilota, passandosi tra le dita una sigaretta spenta. Mi allontanai con un certo schifo dal vizio tossico.
“Anzi, facciamo un gioco. Fai finta di avere quattro occhi in più, va bene?”
Sul mio volto si dipinse una nuova smorfia. Mi trattavano tutti come un ragazzino nonostante i vent’anni ampiamente compiuti a Marzo.
E comunque Tom è più basso di me, quindi posso torreggiare con quel…
“Misero palmo di differenza, Daniel. Abbassa la cresta. E comunque ti vedo, sei in punta di piedi.”
Appoggiò una mano sulla mia spalla ed io dovetti tornare brutalmente alla mia tapina natura.
“Cresci di testa, ragazzo mio. Non di altezza!” disse infine il Sergente, abbassandomi il cappello per abbandonandomi infine al mio destino, accingendosi a fumare la sigaretta con la quale fino a poco tempo prima stava giocando.
Ci eravamo riuniti in un vecchio capanno arrugginito, una sorta di bunker coperto dentro il quale avevamo ritrovato una decina di barili stracolmi di aringhe affumicate dimenticate da chissà quanto tempo. La puzza di pesce riusciva a coprire qualsiasi altro odore, così molti soldati passavano il tempo a fumare indisturbati.
Dal canto mio, non trovando nulla di divertente da fare, mi scelsi un piccolo angolo ammuffito e tranquillo per concedermi di dare un’occhiata ad un vecchio articolo su Signal sui piloti della Luftwaffe.
Non mi interessava molto il fatto che si fosse ristabilito il nostro reggimento corazzato, né di fare amicizia con i tipi loschi che vi popolavano. Nella gioventù hitleriana c’era un’aria migliore, ecco. Erano tutti fanciulli di sani principi che aberravano i vizi ed amavano la nazione. Adesso sono tutti vecchi che amano i vizi ed aberrano la nazione. Avevo fatto richiesta per entrare in un reparto d’elité ma temo sia andata perduta la mia lettera così, a conti fatti, mi ritrovo a servire lo Heer dove speravo di trovare un po’ più di buonsenso.
Esempio pratico. Stavo leggendo la mia adorata rivista quando mi si avvicinò un ometto alto e secco con due incisivi mancanti dal quale spuntavano due sigarette.
“Oh, questa la leggevo tanto tempo fa! Me la presteresti, quando avrai finito? In cambio ti faccio un dipinto”
Arricciai le narici, infastidito sia dal fumo che dalla presenza poco gradita.
Aveva qualcosa di inquietante, quel soldato. A parte il leggero strabismo che si rifiutava di guardarmi negli occhi, l’uomo aveva deliberatamente abbattuto il mio spazio personale, infilando con prepotenza la testa tra le mie braccia per leggere l’articolo, pericolosamente minacciato dalle due sigarette accese.
“Mi lasci in pace!” chiusi di scatto la rivista e me ne andai via, scazzato.
“Ehi, non ti arrabbiare!”
Provò ad inseguirmi per un po’ ma io, con scatto fulmineo, riuscii a seminarlo nascondendomi in lontanissimo anfratto di capanno.
Era differente dal resto del nostro rifugio: anziché essere una distesa di casse e scarti, era come se qualcuno avesse stabilito una specie di quartier generale. Quattro casse di legno erano state adibite a scrivania sulla quale una lampada ad olio ed una mappa sgualcita sostavano tristemente. C’era persino una sedia vecchia, di paglia muffita e senza valore.
Silenziosamente scivolai in un angolo buio, avendo l’accortezza di portare con me un fusto vuoto ed arrugginito per nascondermi meglio.
Fu il paradiso. Per un’ora o poco più rimasi tranquillo a leggere indisturbato, respirando piano, illuminato scarsamente dalla lampada ad olio e dall’accendino che lentamente mi stava portando via tutto l’ossigeno.
Nel bel mezzo dell’articolo sui nostri coraggiosi piloti venni distratto da un rumore pesante di passi, scarponi chiodati che si avvicinavano a me, accomodandosi con uno scricchiolio in quella che immaginavo fosse la sedia.
Altri passi rumorosi lo seguirono. Con la coda dell’occhio provai a sbirciare tra i bidoni, trattenendo il respiro per non farmi sentire. Dovevo rimanere immobile, invisibile come un fantasma…
“Piani di guerra, tattiche...” Una voce bassa e rauca impregnò l’aria. Fece scricchiolare la mappa secca ed usurata prima di tornare a parlare.
“Non vi mentirò. I russi sono...qua. Ed anche qui, qui e qui. In pratica, siamo circondati.”
“Sarebbe conveniente ritirarci.” Disse una voce piena e calda, rassicurante.
Fu silenzio. L’aria tornò a saturarsi dello scricchiolio della carta.
“Negativo. Dobbiamo rimanere qua e difendere le linee lungo il Dnepr e coprire le ritirate della fanteria che sta ripiegando verso sud"
Qualcuno sospirò forte. Rumori di passi veloci e nervosi perimetravano la stanza.
“Si stimano più di centomila uomini in discesa da Mosca per riprendersi i territori persi”
“La Luftwaffe potrebbe...”
“Al diavolo, la Luftwaffe! Non hanno nemmeno più gli occhi per piangere. Reputiamoci felici se vedremo un nostro aereo in cielo.”

Ebbi un sussulto. Timidamente provai a spostarmi per cercare di vedere meglio ma, per errore, urtai un bidone, facendomi sfuggire un mugolio.
Nessuno per fortuna ci badò.
“Entro dieci giorni ci saranno addosso, assicuratevi di avere munizioni e carburante sufficiente. Dobbiamo agire in fretta e non è detto che arrivino i rinforzi in tempo...sempre che ascoltino le nostre richieste di aiuto"
“Non...abbiamo quasi più riserve. Questi uomini moriranno come mosche se non provvediamo alla ritirata!”
Questa voce la riconosco, si…
“Capitano Faust, la prego. Crede che non lo abbia chiesto, il permesso? Mi creda, nemmeno a me piace quest’idea. Ho avuto questo scialbo contentino, fatene quel cazzo che volete ma la ritirata...la ritirata...non ci sarà concessa.”
Carte vennero lanciate sul tavolo svogliatamente.
“Proverò a fare il possibile per voi, ma aspettiamoci superiorità di uomini e mezzi da parte loro.”
Qualcuno provò ad obiettare ma venne messo a tacere. Tutti furono congedati senza possibilità di replica e l’uomo, il più forte di tutti, si sedette al tavolo in solitudine, ringhiando insulti a denti stretti cercando di far funzionare un telefono da campo.
Spaventato, non mi rimase altra scelta che scappare veloce, inciampando malamente su uno di quei fusti vuoti e leggeri come l’aria.
Nella penombra nessuno riuscì a delineare la mia figura.

~

“Soldati”
Il Capitano si annunciò così, sventolando una manciata di brutte carte stropicciate e compilate alla buona.
Noi quattro sottoposti ci eravamo infossati in un angolo, reduci da un’infinita attesa. Alla fine il lavoro del soldato è fatto in gran parte di attesa, appesi come foglie d’autunno ed incoscienti di quando l’ultima folata di vento ci porterà via.
Il nostro Capitano sembrava avere acquistato un po’ di forza perduta: vigorosamente è tornato a disporci in fila in ordine crescente di grado come tanto amava fare, passeggiando davanti a noi con i suoi imperscrutabili e minacciosissimi occhi azzurri…
Balle. Ha delle belle occhiaie sotto le pupille verdastre e scure ed un taglio traverso da rasoio sulla guancia. Anche i suoi arianissimi crini dorati sono una balla.
E’ biondo si, ma bello scuro. Ed oltretutto sono anche mossi. Ora che iniziano a diventare un po’ troppo lunghi si vedono eccome ma guai a farglielo notare.
Mio padre faceva il barbiere e, modestamente, di queste cose me ne intendo.
Insomma, dopo aver scoperto un po’ di carte dal mazzo già voltato del mio superiore, lui annunciò solennemente di possedere delle pregiatissime carte valide per una licenza di tre giorni più due di viaggio.
Sarebbe stata anche un’ottima notizia...se non fosse stato che eravamo in cinque e solo uno di noi avrebbe potuto ottenere i pregiati papiri di libertà.
Mi sorpresi, però, quando il Capitano disse che non li avrebbe utilizzati per sé, bensì li avrebbe lasciati a qualcuno di noi.
“No, passo per questa volta” disse Tom, sbuffando acre fumo dalla sua sigaretta perennemente accesa.
“Voglio fare questa guerra senza soste, a costo di morirci di stenti.”
A questo punto rimanevamo io, Klaus e Martin. Il Capitano era propenso a dare i fogli al paffuto cannoniere ma io, bramoso di ferie, saltai in punta di piedi, esclamando: “Li dia a me, signor Capitano! Non la deluderò mai più ma la prego, mi faccia tornare a casa!”
Un sorriso stanco si corrugò ai lati del suo viso, facendo trapelare una stupida ed incavata fossetta che esaltava ancora di più il suo malessere nascosto.
“Oh, piccolo Kemple” si avvicinò a me, sistemandomi le spalline cadenti ed il colletto della camicia piegato e storto.
“Volevo darlo ad Achen, in realtà. Credo voglia rivedere i suoi figli...”
“Oh, no, non si preoccupi per me Capitano. Soffrirei troppo il distacco. Li rivedrò quando tutto sarà finito...e sarà meglio per entrambi.”
Sul volto di Kalus comparve un’ombra buia colma di tristezza infinita. Nella giacca conservava sempre una bella foto consunta di famiglia dove in altri tempi, in un’altra vita, sorrideva accanto ad una piccola moglie paffuta e del viso infinitamente dolce, con due bimbi vestiti di bianco anch’essi tondi e coccolosi.
Anche Martin declinò la richiesta. Questo bel capanno distava pochi chilometri dall’ospedale da campo dove lavorava l’infermiera di cui si era preso una cotta folle e, se voleva un’occasione, non avrebbe dovuto sprecare il suo tempo.
Così, a conti fatti, rimasi io che, trionfante, saltai gioiosamente mentre il Capitano mi consegnava i fogli.
“La ringrazio, la ringrazio infinitamente!”
Ero raggiante. Non mi sentii affatto egoista.
Qualcuno, per forza, avrebbe dovuto andarci in licenza e chi più di me, giovane e vigoroso, aveva più cara la vita? Forse loro, infinitamente vecchi che oramai avevano dimenticato l’esistenza prima del fronte? I miei ricordi vividi della città, l’odore caldo del fornaio che cuoce il pane alle sei di mattino, lo stucchevole profumo delle mele caramellate, l’acre fumo delle macchine sull’asfalto battente.
Si, decisamente, ero io quello che più meritava quel posto.

~

Dimenticai il discorso che avevo origliato qualche ora prima, con gli ufficiali riuniti. Tanto stavo per andare in licenza, no? Non mi riguardava più la guerra per un po’, vero?
Al diavolo gli altri, ci tengo alla pellaccia.
I miei camerata mi salutarono augurandomi il meglio. Il Capitano mi strinse forte la mano chiedendomi di fare tesoro dell’esperienza. Lo ringraziai raggiante con il mio miglior saluto mentre il furiere mi esortava a sedermi compostamente.
Partii l’indomani alle prime luci dell’alba. Venni stipato in un camioncino assieme a poche altre persone ma, man mano che ci avvicinavamo alla stazione, il mezzo divenne sempre più pieno fin quando non ci fu più posto per nessuno.
Gli altri, rimasti a terra, osservarono per lungo tempo il mio percorso, fin quando del mio furgoncino non rimase altro che un puntino nero nella secca campagna ucraina.

 

~

 

Sospirai appena, dando le spalle al giovane inetto che, coraggiosamente, aveva scelto di sacrificarsi per la più brutta delle missioni.
“Capitano Faust...abbiamo fatto bene a non avvertirlo?” mi chiese Klaus che, più di tutti, si era incredibilmente affezionato a Daniel.
“Achen, credo che il ragazzo debba fare esperienza di questa licenza. Per lui, che ancora puzza di casa, forse il ritorno sarà meno traumatico rispetto al nostro, non crede?”
“...Indubbiamente, Capitano Faust”
Sorrise appena il cannoniere ed io ricambiai. Avevo bisogno di riposo, di qualche ora da spendere assieme a Fiete per dormire. Non mi ero ancora ripreso del tutto dall’incontro con il pilota ma, in qualche modo, mi sentivo più leggero, come se mi fossi tolto un peso enorme.
Che Siegfried fosse nello Stuka di mio fratello quando, anni addietro, venne colpito dalla RAF* non aveva più importanza. Non aveva nemmeno senso chiedersi perché il bombardiere fosse riuscito a salvarsi e lui no...era passato tanto tempo e non mi importava se fosse una grottesca coincidenza o una drammatica realtà.
Avevo avuto le mie risposte, valeva crederci. Sorrisi appena senza motivo, socchiudendo gli occhi in sospiro di sollievo.
“Capitano, va tutto bene?”
Dal tanfo di fumo potevo immaginare che si trattasse di Tom.
“Mai stato così bene, Weisz. Ed ora mi dica, ha ancora quelle belle riviste che le avevo prestato durante la sua convalescenza?”
“Si ma...”
“Me le restituisca. E’ un ordine. Sento la mancanza di Sophie ed il suo costumino rosso...e Julia, Annelise ed Annabelle...”

Il pilota roteò scocciato gli occhi, sbuffando come un toro.
“Vado a prenderle...”
Lo osservai trotterellare verso il suo misero giaciglio, intento a rovistare tra i cumuli di spazzatura che aveva accumulato nel tempo.
Si, decisamente,
Andava tutto bene.

Note:

*RAF: Royal Air Force, ovvero areonautica militare inglese. 


 

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Capitolo 28
*** Capitolo 28 ***


 

Note iniziali:
Buondì ~ come sempre sono una frana quando si tratta di aggiornamenti e non riesco ad essere mai puntuale.
Chiedo umilmente perdono. In ogni caso cercherò di pubblicare almeno un capitolo una settimana sì ed una no con la speranza di riuscire ad aggiornare ogni settimana.
Ultima cosa: questa capitolo, a differenza dei precedenti, giocherà su due punti di vista completamente diversi: per facilitare la lettura ho deciso di lasciare in carattere normale la storyline cardine del capitolo (ovvero il PV di Daniel) mentre il Capitano avrà il suo specialissimo in grassetto.
Perchè è il capitano, oh. Pretende un certo trattamento (?)
Vi lascio al capitolo senza ulteriori indugi.


 

~


Tum
Tu-tum
Tum

Fischiava e strideva il lungo treno carico di soldati in licenza.
Io, Daniel Kemple, trovavo confortante il loro forte vociare. Eravamo stipati in massa, accavallati uno contro l’altro e non ce ne curavamo perché stavamo tornando tutti in patria. Se non fosse stato per i vecchi sedili di legno e stoffa sfibrata avrei pensato che si trattasse di un carro bestiame, dato lo sporco e la puzza che affliggeva tutti noi ma di cui, ancora una volta, non ci importava.
Il clima era saturo di allegria. I più parlavano col vicino, intrattenendosi come se si conoscessero da una vita. Qualcuno giocava a carte, altri dormivano.
Io leggevo Signal, pregustandomi il nuovo numero che avrei acquistato appena giunto a destinazione. Avevo questi tre giorni di libertà ad Amburgo e non avrei dovuto sprecarli per nulla al mondo. In treno ero riuscito ad ottenere il mio angolino, stipato tra il finestrino ed un grosso aviatore dal sonno rumoroso e pesante.
Cosa avrebbe potuto mai nuocere al mio sfavillante stato d’animo?

Lessi per una buona ora. Il treno si fermava spesso nelle stazioni, raccogliendo sempre più gente nonostante non ci fosse nemmeno più lo spazio per respirare.
“Kemple?”
Sussultai. Non a caso, doveva pur capitare qualche mio conoscente. Conoscevo molto bene quella voce.
“Schneider?”
“E chi altri, se non io?”
“Da quanto fottuto tempo, amico mio!”
riposi la rivista all’interno della giacca mentre lui si faceva spazio in quella panca abbondantemente occupata.
Hans Schneider era il mio grande amico fin dai tempi della sabbiera. Eravamo cresciuti nello stesso quartiere, conoscevamo le stesse persone, frequentavamo la medesima scuola, gli stessi ambienti. Lui era un più vecchio di me di un paio di anni, ma non importava.
Beh...era anche più alto di me di almeno un palmo, grosso di spalle e con occhi e capelli chiari. E, soprattutto, aveva una doppia S sul colletto della divisa che faceva di lui un membro d’elitè, nonostante la sua divisa verde muffa non fosse molto diversa dai reparti Heer.
“Hai fatto carriera” constatai, osservando distratto la sua uniforme.
“In realtà non è andata esattamente così” Schneider si accese una sigaretta, soffiandomi il fumo addosso “C’era stato un bombardamento e noi della gioventù Hitleriana eravamo stati mandati a spalare pietre. Ad un certo punto si sono presentate le SS. C’è stato un gran trambusto, ci hanno messi tutti in fila e, di noi, ne hanno preso una decina, tutti i più vecchi, ordinandoci di presentarci l’indomani in stazione. Tu eri già partito”
“Comunque” fece un anello di fumo e lo osservammo gravitare verso il soffitto, prima di dissolversi “con me sono venuti anche Baum, Bach, Kalb e Wurfel. C’era anche Herz ma una mina se l’è portato via”
“Oh”
Non c’era che una lieve nota triste nella sua voce e mi sorprese il distacco con cui annunciò la morte del nostro amico. Cristoph Herz, quello fissato con i cani…
“Ho tre giorni da passare ad Amburgo e poi tornerò in Russia. Voglio buttare tutti i miei soldi tra le puttane e l’alcool e dimenticarmi di tutto. Sei con me, Kemple?”
Deglutii, stringendo i pugni per mantenere la calma e soffocare l’imbarazzo.
“In realtà io non bevo, non fumo e non vado a prostitute. E’ nei dettami del vero soldato tedesco...”
“Che vita di merda” Schneider mi sorrise, schiacciando la sigaretta fumante con il tacco della scarpa.
“Oh, voglio vivere a lungo”
Lo sentii imprecare e scoppiammo a ridere come due idioti. Un vecchio soldato tirò fuori un mazzo di carte e ci invitò a giocare. Si passarono un po’ d’alcool, sfumazzando e cantando canzoni oscene alle quali mi rifiutavo di prendere parte.
Poi, colti tutti da una feroce sonno arretrata, ci addormentammo gli uni sopra gli altri, dimenticandoci le disgrazie che, improvvisamente, sembravano appartenere ad un altro mondo, lontano.

 

Il nostro fu un sonno piuttosto breve, ahimè.
Nel momento culmine del nostro pisolo uno schianto secco ci destò all’improvviso, facendoci cozzare gli uni contro gli altri.
Il pilota che russava accanto a me tirò fuori la Luger* e la ricaricò con uno schiocco.
“Ci stanno bombardando.”
L’arma non sarebbe servita ad un cazzo in un attacco aereo ma, in qualche modo, la sua prontezza di riflessi ci fu di conforto.
Le carrozze di testa, con noi annessi, continuarono a filare per un po’, fino a quando una seconda bomba venne sganciata ed il treno emise un raglio metallico, scardinandosi dai binari e schiantandosi fischiando contro il campo di foglie brune, rovesciandosi fumante e senza vita su un fianco.

 

~
 

“La Furia va che è una delizia” commentò Tom, intento a lucidare con certosino impegno lo scafo  colmo di schifezze raccolte durante il nostro passaggio.
“E questa merda qua?” Sbottò, sfilando dai cingoli qualcosa di bruno e puzzolente che si era incastrato sotto al carrello.
“Una lepre, Weisz”
“Ah”
grugnì il pilota, lanciando la carcassa rigida e scomposta dell’animale. Fiete, poco lontano, intravide la traiettoria di tiro e la colse al volo, prostrandola ai miei piedi con ludici intenti.
“Siamo in servizio, Herr Fiete, conservi le energie per la vittoria finale” sopirai, facendo volare il coniglio abbastanza in alto da far saltare il cane che, tutto soddisfatto, afferrò la preda a mezz’aria prima di fuggire al galoppo nella sua sottospecie di cuccia, masticando avido il cuoio infeltrito della sua vittima.

 

~
 

Era buio.
O almeno, questo fu la prima cosa che notai quando riuscii a riaprire gli occhi. Il sole al tramonto proiettava ombre lunghissime ed il treno, oramai spento, dava un sensazione di tragico abbandono. I vetri erano esplosi nell’impatto ed una buona parte dei passeggeri era stata sbalzata fuori, spargendosi grottescamente nella campagna circostante.
Ero incastrato sotto un cumulo di cose e non riuscivo a distinguere.
Intravedevo solo il finestrino e la tappezzeria giallo marcio del vagone.
Valigie, ecco cos’erano. C’erano anche dei corpi, ancora caldi, che i vivi scavalcavano senza troppa cura per provare ad uscire da quel tunnel di morte.
“Aiuto” mugolai senza riuscire a sentire la mia voce. Udivo solo un fischio doloroso ed infinito, come se le bombe non avessero mai smesso di pioverci addosso. Provai ancora a parlare e mi spaventai per essere diventato così, sordo ed impotente di fronte agli eventi.
Raccogliendo quel poco coraggio che avevo, mi sforzai di riemergere tra le cataste di cianfrusaglie che si erano ammassate intorno a me. Dovevo raggiungere il finestrino a tutti i costi.
Mi sentii così stupido per aver ignorato tutti i consigli dei veterani nella mia fottuta presunzione.
Per quanto cercassi in tutti i modi di spingermi fuori, la gamba sinistra non voleva sapere di uscire. Mi accorsi dopo, con orrore, di averne perso la sensibilità.
La paura annebbiava il dolore. Dovetti contorcermi per cercare di liberare l’arto incastrato, levando due pesanti valigie cadute dal portabagagli.
Ero finito.

~
 

“Arrivano i rinforzi!” ululò Martin correndo trafelato verso di noi.
Ci lanciammo tutti come mosche sui cadaveri fuori dal nostro rifugio, pregustandoci speranzosi allegri battaglioni umani di novellini da sbattere in prima fila, imbottiti di balle e più dediti al sacrificio rispetto a noi.
Invece, falciando i campi secchi a grandi passi fino a vedere oltre la nebbia, scorgemmo solo piccoli furgoncini da lavoro carichi di cavoli, patate, barbabietole ed acqua.
Affamati ci scagliammo sulle casse, scaricandole con velocità inaudita ma, appena ci voltammo per contemplare il vasto carico di viveri, i furgoncini erano già spariti nell’orizzonte, terrorizzati dal pericolo imminente.

 

~

 

Con uno sforzo erculeo riuscii ad uscire dal treno. L’aria fredda sferzava il mio volto, facendomi tremare. A quattro zampe, trascinando la gamba rotta, riuscii a scendere dal vagone, rotolando sulla terra morta ed il fogliame dalla brina.
Doveva essere notte oramai.
Avevo fame, sete e, soprattutto, ero spaventato. Colto dalla disperazione provai a masticare alcuni fili d’erba per idratare la mia gola, cercando di non vomitare per il gusto terribile e velenoso della gramigna.
Avrei dovuto cercare qualcosa per coprirmi, sicuramente. Il mio bagaglio chissà dov’era finito. Ovunque, disseminati per la linea, c’erano corpi.
Morti, vivi, difficile capirlo. Alcuni tentavano di sopravvivere avanzando nel buio, a carponi, e si muovevano, indistinti, come ombre.
Poco distante scorsi la figura di un cappotto. Uno bello, tipo da ufficiale. Sapevo in cuor mio che non avrei dovuto rubarlo ma...dannazione, io volevo vivere. Non avrei lasciato che il freddo ed il dolore l’avessero vinta su di me.
Mi avventai sulla figura dell’uomo, cercando a tutti i costi di strappargli quel prezioso capo di dosso. Irrigidito dal freddo, il corpo morto desisteva dal cedermi il salvifico indumento. Mi arresi con un ringhio sordo, rotolando disperato nella terra, piangendo lacrime che gelavano a contatto con l’aria.


~
 

“Weisz, lo vede anche lei, laggiù?”
“Cosa, il cervo?”
Nascosti dietro ad un cespuglio secco miravamo alla maestosa creatura che, incurante, smuoveva con lo zoccolo il terreno aspro e duro, leccando alcuni licheni e masticando umido e sostanzioso muschio.
Appoggiando saldamente i gomiti a terra caricai la carabina con uno schiocco metallico, mirando alla testa dell’animale.
Bastò un colpo. Stomi di corvi neri si levarono spaventati in volo.
Solo per un istante.
Quando capirono che il mammifero era oramai morto, avidi si lanciarono su di lui per banchettare e fummo costretti a sparare altri colpi per mandarli via.
Portammo il nostro bottino al campo. I soldati, agitati, si offrirono per ogni tipo di mansione pur di poter mettere le mani su almeno un quarto di coscia.
Ebbi più favoritismi di qualsiasi genere quel giorno che in tutta la mia vita, escludendo la storia dei conigli di qualche mese prima.
Confortati dalle luci del tramonto, accendemmo un grosso braciere e sistemammo enormi brani di carne in cottura.
Perfino il colonnello, un tipo serio e ligio al dovere, si avvicinò cautamente al nostro bel gruppo. Temevamo volesse ammonirci per il nostro stupido comportamento.
In un atto di fervido cameratismo abbandonai la cottura della coscia per inventare le migliori scuse da dire al mio superiore. I miei uomini avevano bisogno di distrazione, ora più che mai. Presto i russi ci sarebbero stati addosso, non potevamo piegare in ritirata e nessuno ci avrebbe spedito in rinforzi.
L’ufficiale ci sorprese. Si sedette malinconico su un ceppo marcio, sfregandosi le mani intorpidite dal freddo. Chiese a che punto fosse la cottura, ricordando i vecchi tempi in cui andava a caccia di fagiani.
Avevamo da mangiare, eravamo al caldo ed avevamo l’alcool. Così, ebbri di festa, banchettammo tutta la notte intonando canti molto sconci e poco patriottici,  incuranti del possibile pericolo che, peraltro, non avvenne.

 

~
 

Dovevo essere svenuto.
Non so per quanto tempo. Sapevo solo che, quando mi rialzai, non avevo ancora recuperato l’udito e la gamba continuava a farmi malissimo, nonostante avessi i sensi intorpiditi dal dolore.
Arrancai per qualche metro strisciando, mordendomi le labbra per restare sveglio.
Oramai non c’era più luce in cielo. Solo qualche malinconico puntino di sigarette accese qua e là, come lucciole d’estate.
Toccai qualcosa.
Una valigia! Preziosa e sacra valigia! Lo sforzo, estenuante e terribile, mi dava la forza di vivere. Pur mancandomi anche il fiato in gola e muovendomi di spasmi, scassinai con dita frementi la serratura, aprendo il prezioso baule.
Non c’era molto ma, quel poco, me lo feci bastare. Ero giovane e minuto, ancora in crescita dei miei diciassette anni. L’ho detto? Ho falsificato i documenti per poter servire la nazione ma non pensavo che sarebbe finita così.
Oramai non aveva più senso mentire, giusto?
Il cappotto divenne una coperta. E poi guanti, camicie, calzini. Mi addobbai come un albero di natale ma almeno non avevo più freddo.
Almeno, non tanto quanto ne avessi prima.
Soddisfatto e stremato, caddi a terra come un peso morto, lasciando che la brina mi ricoprisse come una crisalide nella speranza di poter rivedere l’alba.

 

Note:

*Luger: Pistola semi automatica.

 

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Capitolo 29
*** Capitolo 29 ***


Note iniziali:
Buondì!
Il prossimo capitolo sarà la conclusione della prima parte della storia, con la chiusura dell'anno 1943 e l'inizio del 1944. La seconda parte, per comodità, verrà chiamata "Furia Nera - Stella rossa" e narrerà il penultimo anno di guerra. La terza ed ultima parte riprenderà gli ultimi mesi del conflitto mondiale e verrà pubblicata nel duemilacredici (?) 
Probabilmente continuerà qua e, sostanzialmente, non ci sarà nessun cambiamento nella pubblicazione. O forse avrà una formattazione a sè e verranno pubblicate in una serie...vedremo. Se avete qualche suggerimento non esitate a consigliarmi ~
Questo capitolo ha, come quello precedente, due punti di vista. La prima parte è il PV del Capitano. La seconda, dopo il simbolo  ~ è il PV di Daniel, che... 
Trigger Warning: in questo capitolo è descritta una scena di autolesionismo. Avverto, onde evitare situazioni spiacevoli. 
Ho scritto troppo, vi lascio alla storia. Buona lettura!





I giorni che seguirono furono aspri e duri.

Non che prima non lo fossero, ovvio, però...anche un eroe come il sottoscritto deve pur riposare, ogni tanto. Quando ricevemmo l’ordine di seppellire fino alla torre i nostri panzer decisi, in quanto Capitano (e capocarro) di autoproclamarmi capocantiere della compagnia.
In assenza del colonnello, intento ad incazzarsi per lo stato di semi-abbandono nel quale versavamo, IO, il secondo più alto in grado, presi le redini della situazione ordinando a tutti i miei subordinati di mettersi in fila in ordine crescente di grado.
“Soldati” sfilai a petto gonfio davanti a loro, camminando piano per destare tutta la soggezione che il mio ruolo potesse influire su di loro.
“La Patria richiede un enorme sforzo da parte vostra”
Qualcuno fece una pernacchia. “Ancora? E che palle” risuonò nell’aria ma io, magnanimo, non gli diedi peso.
“Dovete scavare fossi abbastanza grossi da seppellirci i vostri Panther. Dobbiamo creare la più lunga cortina difensiva della storia della cinquantesima divisione Panzer. Il destino del Reich dipende dalla vostra efficienza: ogni singolo russo che riuscirà a varcare questa linea” e la segnai con la punta dello stivale, un solco abbastanza profondo da essere visibile a tutti “ sarà un fallimento personale e vi sentirete abbastanza in colpa da non riuscire più a guardare la vostra patria con gli stessi occhi. Come vi sentireste se sapeste che l’uomo che avete lasciato scappare per vostra incapacità riuscisse a raggiungere casa vostra, darle fuoco e stuprare tutta la vostra famiglia?”

Un tizio con meno cervello che gradi (e stiamo parlando di una recluta) ridacchiò di buon gusto, esclamando “Che ci provino, tanto io vivo sullo Wildspitze!” *
A volte mi chiedo con quale coraggio riescano a reclutare giovani provenienti dalle vie più impervie dell’universo. Dall’accento potevo intuire che fosse un montanaro e che parlasse come prima lingua un assurdo dialetto conservato da quattro mummie e tramandato da vaccaio a figlio fino alla fine dei secoli.
Nonostante ciò io trovai il coraggio di impormi con la più ferma democrazia.
“Abbassi i toni, recluta. Sono il tuo superiore. Per altro, le consiglio di obbedire ciecamente nei dettami della più ferrea disciplina prussiana se non vuole finire davanti alla corte Marziale”
Il giovane montanaro, forse affascinato dalla mia colta dialettica, tacque, senza però nascondere un ridolino da sotto i baffetti incolti.
“Voglio una distanza di almeno cinque metri da un carro all’altro.
Compagnia, al lavoro!”
Aspettai invano un’ode, un eco di feroce carica battagliera che già contemplavo a braccia conserte ed occhi chiusi, ricevendo invece imprecazioni e pernacchie.

La nostra compagnia contava circa dieci carri e cinquanta carristi. Avremmo dovuto essere molti di più ma, per esigente belliche, alcuni plotoni vennero spostati e così mi ritrovai con carenza di personale.
In compenso trovai un delizioso ceppo miracolosamente asciutto, sul quale mi sedetti a gambe larghe per sovraintendere il lavoro.

“Capitano”
...Prontamente interrotto da Tom che, con la sigaretta in bocca ed un’espressione scocciata rigirava la miuscola pala da trincea tra le mani.
“Che c’è, adesso?”
“Mi chiedevo se potessimo avere una dotazione migliore rispetto a...questo”
“Negativo, Weisz. Ed ora non perda tempo in un inutile chiacchiericcio, sono sicuro che con la bocca chiusa il fosso verrà scavato molto più velocemente”
“Ma Capitano” Questa volta fu Klaus ad interrompermi. Era già grondante di sudore nonostante si fosse semplicemente chinato a terra.
“Noi siamo terribilmente svantaggiati. Siamo solo in tre, il ragazzo è in licenza e lei...”
“Kemple è ancora in licenza?” curai poco le sue parole, preferendo osservare l’orizzonte con i binocoli alla ricerca di possibili nemici.
Uno stormo di oche selvatiche si alzò in volo diretto verso il sud. Le seguii fino all’orizzonte, prima di distogliere lo sguardo e riprendere il mio lavoro da capocantiere.
“Dovrebbe tornare oggi”
L’uomo sospirò, spalando una minuscola porzione di terra.
“Spero sia stato piacevole il suo soggiorno in patria...”
Improvvisamente uno sparo rieccheggiò nell’aria, facendomi destare repentinamente dai miei pensieri per imbracciare il mio fidato mitra e rotolare giù dal ceppo, utilizzandolo come vana copertura.
“Cecchino?” chiese una vocina timida.
“Stai zitto, ignorante!” rispose una seconda voce. I due improvvisamente iniziarono a battibeccare giungendo infine alle mani e, grazie alla loro immensa stupidità, capii che, in realtà, non c’era nessun cecchino pronto a darci la caccia in quanto loro, visibili e mobili, sarebbero stati decisamente un ottimo bersaglio.
“Falso allarme” mi rialzai, posando l’arma per dare nuovamente l’ordine ai miei uomini di proseguire con il lavoro.
Restava solo da capire da dove provenisse quel suono.
“Dobbiamo davvero lavorare con un cecchino nei dintorni?” azzardò Joseph Aachen, cugino del mio sottoposto Klaus. Riunendo la vecchia compagnia il suo equipaggio era tornato al mio servizio e così anche quel fottuto di cervello del pittore che, rifiutando la pala perché troppo scomoda, preferì zappare utilizzando un bastone di legno strappato dalla fauci di Fiete.
Preferii non obiettare.
“Vi posso assicurare” enunciai, salendo sul ceppo a petto gonfio “che se ci fosse un cecchino, sareste tutti morti. Dunque, per dimostrare che ho ragione e che voi siete degli infedeli vergognosi, starò tutto il giorno in piedi su questo ceppo a dimostrazione della vostra scarsa fiducia nei confronti del vostro superiore, nonché Capitano, insignito della croce di ferro di seconda classe nell’anno 1942...”
“Capitano!”
Fu il campagnolo a chiamarmi, questa volta. In una mano reggeva un fucile di precisione russo trovato chissà dove e, nell’altra, una gigantesca oca morta.
Ecco chi aveva sparato.
“Prima ho fatto un po’ lo stronzo Herr e volevo scusarmi, quindi ti regalo questo se mi perdoni.”
Io, dall’alto del mio ceppo, lo osservai un po’ stranito. Certamente non era più vecchio di me, nonostante fosse fortemente segnato dal duro lavoro agricolo, nel suo volto scavato e nelle mani callose con cui mi porgeva il pennuto.
“Però prima di mangiarlo lo appende a testa in giù per tipo una settimana così tutti i liquidi vanno via e diventa più buono”
“Beh...” esitai.
In risposta lui sventolò la bestia morta, ficcandomi le zampe in mano.
“Non vuole il mio regalo, Capitano? È buono che le fa bene che lo vedo un po’ sciupato. Te lo manda il buon Wolki.”
“Wolki?”
“ Volker Höfler, Capitano! Come mio zio Volker che è morto in Russia qualche anno fa.
“Anche io ho uno zio mio omonimo morto durante la grande guerra ma...”
“No, no! Io intendo proprio in Russia che c’era andato per far fortuna e poi è morto derubato in Ungheria”**

...Ostmark.
Li riconosci subito per la loro scarsa capacità di orientamento. Credono che tutto il mondo sia loro. Stento a capirli.
“Vado a lavorare che i tuoi mi sembrano un po’ sciupati e da me siamo abbastanza.
Stammi bene, Capitano!”
Mi strinse il braccio, che ritrassi con un certo sdegno, prima di lanciarsi verso un Tom fintamente stanco che si concedeva l’ennesima pausa-sigaretta, lasciando che Klaus e Martin proseguissero nel tumulare la Furia, con la speranza che quella fossa che non diventasse la nostra tomba.

 

~

 

Vidi tutto bianco.
Urlai senza emettere suoni per la paura di essere diventato cieco, invece era solo la nebbia spessa e bianca che ricopriva la piana.
Mi sfregai gli occhi cisposi, sbattendo le palpebre più volte per cercare di capire dove fossi, cosa dovessi fare, dove andare.
Nulla. Riuscivo a vedere solo le immediate vicinanze, come le mie mani pallide ed incrostate di terra e sangue, mio o di chissà chi altro.
Tesi l’orecchio, cercando di captare qualche suono che mi aiutasse ad uscire da quell’inferno.
Nulla. Solo un fischio prolungato ed affilato come una lancia, che trapassava la mia testa da una parte all’altra lasciandomi sordo ed intontito, come se avessi perso l’equilibrio.
La gamba sinistra lanciava echi di dolore a cui risultavo quasi insensibile, trasformandola in un sacco pesante ed inutile che mi costringeva a gattonare, trascinandomela mollemente dietro senza alcuna utilità.
Avevo trovato un coltello, nella valigia.
Uno di quelli belli, dalla lama bianca ed affilata, con la sua custodia in pelle bruna.
Lo avevo stretto tra le mani tutta la notte. Rigirai la lama tra le dita mentre una triste idea mi passava per la testa.
“Tagliati la gamba”
Insensibile, livida, gonfia e piacevolmente calda. Sarebbe bastato una botta di coraggio per tagliare sotto al ginocchio e liberarmi da quel fastidioso impiccio. Poi mi sarei alzato ed avrei saltellato fino al primo ospedale dove mi avrebbero disinfettato e curato, nutrito e coccolato. Infine sarei tornato a casa, magari con una medaglia al valore, e lì sarei rimasto.
Portai un guanto alla bocca. La sordità non mi impediva certo di urlare, nonostante non potessi udire le mie parole.
Con cautela sfilai il pesante stivale che copriva gran parte della gamba, lasciando scivolare i pantaloni della divisa fuori da esso, prima di arricciarli fino alla coscia. Li avrei annodati stretti alla fine del moncherino, sarebbe stato uno spreco tagliarli.
E adesso?
Osservai la gamba gonfia e violacea. Giaceva molle a terra e dovetti aiutarmi con le mani per poterla piegare almeno un po’ e facilitare l’amputazione.
Strinsi forte il guanto tra i denti mentre lacrime di terrore scendevano dal mio volto. Sfilai il coltello con mano tremante e lo portai al ginocchio, tastandolo per cercare di capire dove potessi tagliare. Avevo una conoscenza basilare del corpo umano, non ero certo un chirurgo.
La lama era piacevolmente fresca sulla mia pelle livida e pulsante. Tremante, feci scivolare il filo a fior di pelle, chiazzando delicatamente la pelle cianotica con una striscia rossa.
I denti battevano rumorosamente, nonostante cercassi di soffocare invano il mio terrore sul guanto di stoffa mentre gli occhi, ancora una volta, si gonfiavano di lacrime ghiacciate che mi offuscavano la vista.
NO!
Gettai a terra il coltello ed io con esso, raggomitolandomi come un feto a mani strette, sputando la stoffa per poter singhiozzare pianti che non potevo udire ed immaginarmi la voce di mia madre che mi portava a sé, cullandomi e chiedendomi di non aver paura in quella terra dimenticata da dio, solo e cadente nell’immensità della pianura.

Assetato, sfinito, spaventato ma dannatamente voglioso di vivere, tentai di rimettermi in marcia.
Un passo alla volta, a quattro zampe come i cani. La nebbia si era diradata, lasciando trasparire un sole freddo ed invernale.
Non so per quanto tempo camminai. Per ore, forse per qualche minuto, immerso nel fogliame bruno e secco che improvvisamente non mi faceva più paura. Sembravano piccoli schiocchi di fucile, ecco perché le temevo. Sarebbe stato tutto più facile se mi fossi imbattuto in un nemico, adesso. Avrebbe potuto uccidermi silenziosamente ed io, nella mia impotente sordità, non avrei potuto udire lo sfiato della carabina e sarei morto così, come un animale.
Sotto la nebbia rada e l’erba ghiacciata, oltre un dolce pendio dove giaceva una mitraglietta tedesca abbandonata ed un teschio dalla bocca spalancata, scovai un piccolo villaggio di quattro case ed un recinto di polli che pigolavano picchiettando i becchi sul pastone brunastro.
La gioia di quella visione mi fece stringere il cuore e, senza pensarci troppo, gattonai svelto verso quel brulicare di vita. Goffo com’ero, però, caddi e rotolai sotto l’avvallamento, finendo quasi ai piedi delle isbe.
Alcune donne che stavano stendendo i panni si accorsero di me.
O almeno, così pensai, visto che sembrarono allarmarsi per i colori ed i simboli che portavo addosso.

Un vecchio con un fucile si avvicinò a grandi passi verso di me, sparando un colpo in aria come se stesse cercando di cacciare dei corvi.
Così intuii, osservando la canna dell’arma fumare. Non potendo udire non potevo spaventarmi, ma ciò non mi impediva di avere un forte batticuore e maledirmi per essere stato così sciocco da catapultarmi verso la popolazione ostile.
L’uomo di squadrò per un po’. Avevo un calzino in testa e tenevo lo stivale in mano, dato che non riuscivo più a rimetterlo a posto. Una gamba rotta piegata malamente culminante in piede nudo e sporco.
Insomma, ero l’incarnazione perfetta dell’imbecille finito lì per caso ed un po’, in effetti, era anche vero. Forse per questo l’uomo desistette dall’ammazzarmi a vista ed anzi, ebbe perfino pietà per me.
Con poca grazia mi prese per un braccio e mi strattonò in alto, come se stesse cercando di rimettermi in piedi.
Spaventato, non potevo fare altro che ricambiare il suo sguardo. Stava provando a dirmi qualcosa, guardavo le sue labbra muoversi, ma non riuscivo a capire cosa stesse farfugliando. Non sapevo come fargli capire che no, non potevo sentire.
In compenso, appena mollò la presa, barcollai un poco prima di perdere completamente l’equilibrio e cadere rovinosamente a terra, imprecando meccanicamente. L’uomo mi squadrò arcigno dall’altro, ridacchiando.
E...no, quello che successe dopo fu deliziosamente assurdo. Tecnicamente loro, nonostante fossero civili, rimanevano sempre nemici e non avrebbero dovuto esitare ad uccidermi.
Invece mi accolsero, con mio immenso stupore. Con il fucile piantato nella schiena, certo, ma affiancato da qualcuno che mi aiutasse a camminare fin dentro una casa, dove trovai ad accogliermi una sedia di paglia, una pagnotta calda e dell’acqua.
Sotto i loro sguardi indaganti divorai tutto, fino all’ultima briciola. Il vecchio col fucile doveva sapere un po’ di tedesco, perché provò a dirmi qualcosa e, non avendo risposta da parte mia, provò a strattonarmi per il colletto della camicia, facendomi andare un boccone di traverso.
Gli dissi che non potevo sentire….o almeno, nella mi testa pensai che fossero quelle, le parole. Cercai di farmi capire meglio toccandomi bocca ed orecchio e gesticolando in qualche modo con la terribile speranza che, se non avessero capito le mia parole, potessero capire almeno il gesto.
Non fui sicuro ma, quando l’uomo mollò la presa, immaginai di essere stato compreso.
Ancora una volta mi maledissi un poco. Dannato io a non aver mai ascoltato gli altri! Il Capitano sapeva qualche parola di russo che mi aveva ripetuto più volte, in modo tale che, in casi come questo, avrei potuto cavarmela. Anche Tom e tutti gli altri…
Invece eccomi, nella merda fino al collo. Pazienza, poteva andare peggio,
Aspetta.
Magari chiameranno quelli dell’armata rossa e verranno a prendermi per uccidermi brutalmente o che ne so, magari mi consegneranno ai partigiani o qualche altra balla o forse ancora sono filotedeschi…
Ci capisco sempre meno ma adesso, nel più totale silenzio, ho tutto il tempo necessario per riflettere.




Note finali:

*Letteralmente "picco selvaggio". Cima evocativa, si trova in Austria.
** Volker parla volutamente in modo sgrammaticato. Vivendo su un monte impervio volevo dare l'impressione di un individuo molto alla mano e poco colto.

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Capitolo 30
*** Capitolo 30 ***


Note iniziali:
Buongiorno! con questo capitolo si conclude la prima parte della storia. Non ci sarà nessun cambiamento, dato che continuerà sempre qui.
Il capitolo ha la stessa struttura di quello precedente: la prima parte è il PV del Capitano. Il secondo, dopo il simbolo ~ tratta il PV di Daniel.

Buona lettura!



Osservai con una certa soddisfazione i carri sepolti fino alle torri e ricoperti di foglie e di arbusti.
“Ottimo lavoro, compagnia” ammisi, concedendo loro un piccolo applauso.
“Insieme abbiamo fatto un lavoro formidabile...”
“Grazie al cazzo” obiettò un Tom comodamente seduto sulla torretta della Furia e stranamente intento a fumarsi una sigaretta.
“Lei non ha mosso un dito”
“Mi ferisce dicendo così, Weisz” portai una mano al cuore, fingendo di provare commozione.
“Ho amministrato egregiamente il lavoro, quindi è come se avessi fatto tutto da solo.
Inoltre sta mettendo in dubbio la mia parola di Capitano quindi, se non fosse per la mia magnanimità lei ora starebbe penzolando su un albero-”
Lo vidi fremere nel tentativo di replicare ma, per sua fortuna, ebbe abbastanza sale in zucca da tenere a freno la lingua e sfogare le sue frustrazioni sulla sigaretta.
Con un po’ di fortuna forse avremmo potuto anche uscirne vincitori da questo scontro.
Stando ai nostri ricognitori i russi avevano deciso di riorganizzare la loro avanzata, frammentandosi per poterci attaccare in più punti ed evitare…

“La manovra a tenaglia?”
“...Capitano Faust, lasci fare a me. Non funziona così.”
“...Ah, davvero?”

Davanti alla sua brutta scrivania, nel suo surrogato di ufficio, il Colonnello invitò a sedermi. Mi offrì anche un caffè dal gusto di acqua sporca.
“Se i russi arrivano da qui” tracciò una testa di cuneo su un foglio, indicandola con una stellina “e noi siamo qui-”
“Mi scusi, ma perché noi siamo un pallino minuscolo e loro sono molto più grandi?”
“...Se la cinquantesima compagnia è stanziata qua, la trentottesima qui e la ventiduesima qui...” segnò altri puntini, indicandoli con delle piccole crocette stranamente simili a delle lapidi “ e chiudiamo i russi da tutti i fronti, ecco la manovra a tenaglia”
“...Non capisco il mio errore”
Il Colonnello sbuffò.
“Li ha disposti a freccia, ecco cosa ha fatto!”
“...E’ una tenaglia nella tenaglia...”
“Inoltre mi pare di aver capito che voi abbiate consumato una grande quantità di esplosivo...”
“Un mio sottoposto ha deciso di minare la terra per favorire lo scavo! Non lo avevo nemmeno notato fin quando è successo...”
Vidi l’ampia fronte dell’uomo corrugarsi in un cartoccio di emozioni, cercando a tutti i costi di convincersi che andava tutto bene e presto avrebbe scritto deliziose lettere a casa delle nostre famiglie, mentendo sulla nostra tragica e fessa dipartita.

 

Richiamai il pittore pazzo nel mio personalissimo...ufficio.
In realtà non aveva nulla che ne ricordasse le fattezze, nemmeno il tetto o una scrivania.
Un ceppo come sedia, il cielo sulla testa e la fitta boscaglia alla finestra che si perdeva a vista d’occhio. Romantico.
Il soldato si presentò in ritardo, portando con sé una tavola di legno e due sigarette perfettamente incastrate tra gli incisivi mancanti.
Io, a gambe larghe e plico di documentazione ( al solo scopo di creare un’aura di ufficialità) feci schioccare le dita, rivolgendogli un’occhiata severa.
“Si accomodi”
Non c’erano altri posti dove accomodarsi ma, essendo pazzo, il pittore si sedette a mezz’aria, come se avesse una sedie invisibile sotto le chiappe.
“Ciò che ha fatto è molto grave”
“...Perchè, che ho fatto?”
“Stando alla documentazione, lei pare abbia utilizzato circa cinque Bombe a mano, due testate Panzerfaust ed una quantità poco definita di esplosivo a distanza per scavare un fosso”
In risposta il pittore rise di gusto, rischiando di perdere l’equilibrio già...precario.
“Ah! Pero ci ho messo poco e sono tornato a dipingere.
L’ho portato con me...guarda qui.”
Una bucolica scena di medicina da campo. Un’infermiera, nuda, dai seni giganteschi, china, con sguardo impegnato che effettua un’operazione ravvicinata su un povero soldato tedesco.
Un carrista. Ah, un autoritratto. E quelli non sembrano attrezzi chirurgici.
...Non sta operando il paziente, sta…
“Le piacciono i miei affreschi erotici? Come quelli di Pompei!”
“Le sue capacità artistiche lasciano a desiderare”
Il pittore balzò in piedi, paonazzo.
“Lei non sa nulla di arte! Questo è un Courbet migliorato! Glielo regalo, vale molto più degli esplosivi!”
Fu così che il vecchio Chagall mi cacciò tra le mani l’orribile pezzo da stufa, scappando a gambe levate dalla mia giurisdizione.
A posteri fui felice di aver accettato quel pezzo d’arte. L’ho riutilizzato per frollare l’oca.
Spurga che è una meraviglia.

 

Quando la vedetta intravide i primi russi e diede l’allarme noi, prevenuti, eravamo già in postazione.
Fingendo immenso rammarico ordinai al pittore di supportare quel ciuffo di fanteria rimasta con la mitragliatrice MG 42 in un apposito fosso che gli avevo fatto scavare sotto strettissima sorveglianza. Dovendo addossare le colpe su qualcuno, scelsi lui, già accusato di aver sprecato inutilmente esplosivo.
Per aumentare le nostre chance di sopravvivenza avevamo costruito alla meglio una linea fortificata in cemento terminanti in due casematte dalle quali si intravedeva il brillio delle canne delle mitragliatrici.
I russi avanzavano senza fretta e senza aerei, lasciando che una nutrita schiera di T-34 aprisse la strada mentre la fanteria, allarmata, si divideva in gruppi per tentare di raggirarci.
“Bene”
Acquattato nella mia postazione come un coccodrillo sornione, lasciai che fossero solo i binocoli a sporgere dal cassonetto. Essendo inutile come pilota, rilegai occasionalmente Tom al ruolo di serviente marconista.
Invisibili agli occhi nemici, diedi l’ordine di aprire il fuoco.
Dieci bocche di Panther si rovesciarono contro il nemico sfruttando il fattore sorpresa.
Puntammo dritti alle deboli torri, squarciandone il metallo e ferendo servienti e cannonieri.
La prima linea si fermò, destabilizzata. Un Capocarro fece capolino dal suo cassettone barcollante per rientrare poco dopo.
Da una seconda fila sbucarono alcuni cacciacarri, piatti e veloci. Frontalmente era impossibile prenderli e, dalla nostra cortina di cannoni sepolti, non avevamo possibilità di muoverci per colpire i fianchi molli.
Genialmente avevo previsto tutto nella mia manovra a tenaglia nella tenaglia. Bastava che avanzassero in linea retta, frontalissimi, e sarebbero stati colpiti dai carri distanti che si trovavano alla fine della punta di freccia che avevamo creato.
Facile, no?
Peccato che, furbissimi, si limitarono a distruggere la microscopica linea fortificata, puntando alle casematte…
Aprendo il fuoco. Si scontrarono brutalmente contro le cementificazioni, facendo ruggire i motori invano.
“Adesso la nostra fanteria li ricoprirà di bombe anticarro...”
“Capitano, là dentro ci sono quelli della nostra compagnia!” Sbraitò Martin, cercando di farsi spazio per osservare dal periscopio quello che stava accadendo.
“...”
Ah già.
Non avevamo bombe anticarro. Quel brutto stronzo del pittore le aveva consumate per il suo fossato.
Enorme e larghissimo, talmente profondo da poterci seppellire una piccola fregata.
Osservammo inermi il carro nemico stuprare la casamatta con il suo lanciafiamme, estraendo dalla finestrella il cannone gocciolante di pece con una certa soddisfazione.
Mentre in sordina le mitragliatrici alleate continuavano a schioccare, ordinai un secondo attacco allo scafo di un carro medio russo che aveva deciso di avanzare un po’ troppo. Stridendo, il T-34 cercò invano di fiancheggiarci, confuso dal magnifico camuffamento della nostra torretta. Non riusciva a vederci, così preferimmo suggerirgli la nostra posizione bucandogli il motore, lasciando il suo equipaggio inerme di fronte ad un motore caldo e gocciolante che prendeva fuoco.
Mentre la trentottesima compagnia del reggimento panzer scendeva verso di noi, accerchiando i russi e chiudendoli in una pericolosissima tenaglia, il cacciacarri fiammeggiante continuò la sua avanzata. Accanto a lui un suo clone, equipaggiato questa volta con un cannone ordinario, aprì il fuoco verso uno dei nostri Panther, perforando la torre senza lasciargli speranze.
Mentre ingaggiavamo lo scontro con un altro carro medio, una palla di cannone sfiorò la mia postazione, perdendosi nel nulla.
Mi sentii miracolato.
Non so quanti riuscimmo ad abbatterne. Quando anche l’ultima compagnia riuscì ad accerchiare i russi, chiudendoli definitivamente senza possibilità di ritirata, ne contai almeno tre.
I miei uomini erano stati utilizzati come esche. Immobili, molti carri vennero macellati ogni qualvolta venivano scoperti.
“Colpa della tenaglia nella tenaglia!” sbottò un sudatissimo Tom mentre tranciava una fila di carristi in fuga con la sua mitragliatrice.
“La tenaglia a tenaglia funziona benissimo” Risposi, pulendomi gli occhiali scuri di olio e fuliggine.
“Siamo rimasti in cinque-”

“QUATTRO!”
Prima che la situazione ci sfuggisse di mano ordinai ai miei uomini la ritirata, abbandonando dal retro la Furia dalla torretta squassata.
“Capitano, Achen è stato ferito!”
“Jager, fallo uscire di lì!”
A spintoni, in una scombussolata fuga, riuscimmo ad estrarre il cannoniere privo di sensi.
“Andiamo, lo carico io. Jager, dammi una mano...”
Sostenuto da Martin, caricammo Klaus in spalla e lo portammo via da quell’inferno che lentamente iniziava a prendere fuoco. Tom, armato di mitraglietta, ci guardava le spalle.

Avanzammo fino a raggiungere la fanteria seminascosta nella fitta boscaglia.
Il colonnello, ancora alle prese con il telefono da campo, sbraitava una disperata richiesta dell’intervento aereo, sua ossessione.
“Presto sarà tutto finito” commentai, adagiando il povero Klaus contro un enorme abete. Respirava piano, ad occhi chiusi. Non aveva ferite superficiali e questo mi faceva sperare, nonostante avesse preso un brutto colpo alla testa.
Con le mitragliatrici fornimmo un ultimo supporto alla fanteria, osservando elettrici gli ultimi echi di cannone scomparire, inghiottiti dalla nebbia serale.
Quando il cacciacarri armato di lanciafiamme venne abbattuto, la pace tornò a vegliare su tutti noi.
Rotolai esausto nella fanghiglia umida, ridacchiando.
“La tenaglia nella tenaglia ha funzionato!”

 

~

Durante la mia silenziosa convalescenza riuscii a trarre le dovute conclusioni.
Questi russi dovevano essere semplici civili, Ciò non toglie che fossero affiliati con qualche organizzazione partigiana dato che, accanto alla stufa di ghisa, nascondevano molti fucili di fabbricazione mista, sia russi che tedeschi.
Ogni giorno mi davano del pane ed un bicchiere di una bevanda dolce e rossastra, dentro la quale galleggiavano pezzi di more dalla consistenza quasi spalmabile.* Non era molto meno di quanto mangiassi nell’esercito, così riuscivo a farmelo bastare. L’importante era riuscire a stringere i denti durante la notte, quando la fame si faceva insopportabile.
Tutto sommato non dovevo lamentarmi. Il vecchio mi sorvegliava a vista, nonostante non riuscissi a muovermi senza l’aiuto di qualcuno. L’unica volta che provai a gattonare per uscire feci del gran baccano e svegliai una donna corpulenta che mi ricacciò in un angolo a calci negli stinchi.
Ogni giorno provavano a farmi parlare. Volevano che spifferassi alcune informazioni ma non riuscivo a capire quali, così stavo zitto fin quando loro non perdevano la pazienza e mi lasciavano di nuovo solo. Mi consolava sapere che non mi volessero morto e che continuassero a darmi da mangiare.
Almeno loro, intendo. Oramai ero considerabile come disertore, quindi anche alla mia gente era caldamente consigliato spararmi a vista, nonostante fosse preferibile la cattura da vivo.
Una volta sognai di essermi perso, di camminare per ore nei boschi d’autunno dai cieli plumbei fino ad incontrare il Capitano Faust stretto nel suo completo da parata, con il cappello incoronato dalle foglie di quercia come un ufficiale di alto grado.
Era seduto su un gigantesco sasso grigio, a gambe larghe, intento a fumare una sigaretta.
“Questo è il capolinea” mi disse, esalando una nuvola di fumo scura, che si andò a mescolare con la fitta nebbia fino a scomparire.
“Hai paura?”
“Un po’” esitai.
Mi sorrise, portandosi nuovamente la sigaretta alle labbra.
“Cosa credi ci sia, dopo?”
“Beh...credo ci sia il Paradiso. O l’inferno, per quelli che si sono comportati male”
Rise di gusto, abbassando lo sguardo. Ne ebbi sollievo, perché non riuscivo a tenere lo sguardo fisso su di lui. Era inquietante.
“Pensi di essertelo meritato, il Paradiso?”
“...Non lo so. Quando ero a casa andavo sempre ad assistere alla funzione. Inoltre prego ogni notte. Penso di si...”
“Una volta” mi interruppe il Capitano, inspirando profondamente “ho visto una fila di russi che marciava in colonna. Li abbiamo investiti con il carro armato, uno ad uno. Sembrava di guidare sulla riva di un fiume pieno di ciottoli grossi come meloni”
“Non ha senso”
“Erano armati, potevamo morire”
“Capitano, non capisco. Cosa sta cercando di dirmi?”
Rise di gusto, gettando la sigaretta a terra. La osservammo spegnersi con gli occhi gonfi di lacrime.
“Non so se esista qualcosa dopo la morte. Ma sono sicuro che non ci sarà nessun Paradiso per noi. L’inferno lo stiamo già vivendo in terra, ogni giorno. Al massimo proseguiremo quello che stiamo già facendo.”
“Ma non è colpa nostra, stiamo solo seguendo gli ordini!”
“Lo facciamo per sopravvivere. Smetti di farlo e diverrai un Martire”
Urlai nel sonno come nella vita reale.
Mi svegliarono con il calcio del fucile nello stomaco e solo a quel punto capii che si trattasse di un sogno.
Che sciocco per non averlo subito capito, era così ovvio!
Il Capitano non è mai stato così intelligente.

Il sole era alto nel cielo, penso fosse mezzogiorno. I russi erano tutti impegnati a sbrigare faccende domestiche, così ero rimasto da solo assieme al vecchio minaccioso , intento ad intagliare figurine di legno accanto alla stufa.
Annoiato, osservavo con vago interesse le schegge che schizzavano dal coltello affilato. Quando si accorse di essere osservato, l’uomo digrignò i denti marci in una specie di sorriso irrisorio, mostrandomi la sua creazione.
Un cigno grosso quanto il palmo di una mano in gran parte ancora abbozzato ma che, da un lato, iniziava già a mostrare le piccole e minuziose intarsiature finali, come l’incavatura del becco e le piccole piume che adornavano il collo longilineo.
“Bello” dissi, restituendolo al suo proprietario.
In risposta il vecchio rise, tornando a scolpire la sua creatura.

La gamba aveva smesso di farmi male, nonostante fosse avvolta da un irresistibile prurito. “Era sensibile e presto sarei tornato a camminare” costatai, osservando con una certa soddisfazione l’arto che miracolosamente si stava rinsaldando nel modo giusto.
Passavo le mie giornate a terra, osservando sordo le immagini che si sovrapponevano ripetitivamente giorno dopo giorno. Continuai a studiare per un po’ il vecchio scultore fin quando, ipnotizzato da quel lento e preciso lavoro manuale, mi assopii per un paio d’ore.
Dormii profondamente senza accorgermi di nulla, come molte volte, destato improvvisamente da un calcio negli stinchi.
Aprì gli occhi di scatto e ciò che vidi non mi piacque per nulla.
Avevo un’idea molto vaga di dove fossero stanziate le nostre truppe, sapevo che stavano iniziando a ritirarsi a sud ma non mi aspettavo di essere svegliato da un waffen-ss. Anche ad occhi aperti mi diede un altro calcio, facendomi uggiolare come un cane.
Strinsi i denti e cercai di non emettere suono, sperando di passare come un povero contadino russo ferito.
Un tentativo molto vano, dato che indossavo la camicia grigia di ordinanza ed i pantaloni della stessa.
Il soldato aveva si e no la mia età, con un visetto lentigginoso e liscio, segnato appena da un ciuffo di baffi rossi quasi invisibili ma che portava orgogliosamente, sentendosi già uomo.
Mi osservò curioso per un po’, cercando di comunicare con me.
Non riusciva a capire cosa fossi ed io di certo non potevo aiutarlo, dato che, oramai. nemmeno io lo sapevo.
Dato che non rispondevo alle sue domande, il soldato pensò che fossi un ausiliare ucraino. Leggevo con fatica i movimenti delle sue labbra, rielaborando mentalmente le frasi con calma, trattenendo la voce fin quando un suo compagno non si decise a chiamarlo, facendolo uscire di casa.
Si sarebbero occupati più tardi di me...oramai ero un morto che cammina.
Cioè, no. Un morto e basta, dato che non potevo muovermi.
Mi guardai attorno. La mobilia era ancora perfettamente intatta. Mancava solo il vecchio con il fucile: aveva lasciato il cigno sul tavolo, tristemente adagiato sul fianco.
In queste condizioni non potevo di certo scappare. Sapevo, però, che questi russi avevano nascosto un nutrito numero di armi dentro una botola, non molto lontano da
me.
Scivolai gattonando verso di essa. Avevo le membra intorpidite per l’inedia, le giunture che pizzicavano ed il cuore a mille per la paura.
Diedi una fugace occhiata all’esterno, oltre la porta aperta: un massiccio uomo in divisa, forse un tenente, dava ordini confusi ai ragazzini che trotterellavano da una parte all’altra della fattoria, tenendo saldi tra le braccia i fucili lunghi e grigi.
A quanto pare c’era stato uno scontro a fuoco. La repressione sarebbe stata durissima.
Ed io, povero cane, sarei stato fucilato senza essere processato.
Venderò cara la pelle.

Presi un fucile sovietico. Uno leggero, con il calcio mimetico, ancora carico.
Rannicchiandomi contro al muro, lo strinsi forte al petto, cercando di calmarmi.
Le mani mi tremavano ma, tutto sommato, fui soddisfatto di riuscire a trattenere lo stimolo senza farmela addosso per l’ennesima volta.
Fuori i soldati stavano radunando tutti i russi e tutte le bestie. Intravidi un porco correre ed un giovane impacciato che lo inseguiva, imbrattato di fango mischiato al soffice piumino di gallina.

Ed eccomi, finalmente.
Il ragazzo lentigginoso tornò a farmi visita.
Assieme a lui un uomo decisamente più vecchio ed avanti coi gradi...il tenente di prima. Doveva avere almeno quarantacinque anni portati decisamente male, con la cintura che schiacciava una pancia malamente nascosta. Ma, nonostante questo, conservava i lineamenti di un soldato austero e severo, che sapeva farsi rispettare.
Vedendomi armato, l’uomo portò la mano destra alla pistola.
Una finta? Una minaccia?
Aveva forse detto qualcosa? ero sordo e traboccante di paura, così feci l’unica cosa che riuscii ad elaborare.
Sparargli.
Alllo stomaco, perforandolo da parte a parte.
L’uomo si portò una mano alla ferita, strabuzzando gli occhi con stupore.
Improvvisamente mi sentii come se fossi stato colpito da una scarica elettrica.
Le immagini mi passarono davanti come un treno in un vortice di colori che mi strizzava lo stomaco in un riflusso di bile che tentavo a tutti i costi di reprimere mentre osservavo la divisa grigia del graduato gonfiarsi di sangue.
Sparai ancora.
E ancora.
E ancora.
Tiri maldestri ed imprecisi. La spalla bruciava più delle mie dita incapaci che, più volte, avevano toccato la canna bollente dell’arma, cieche al dolore ma che reagivano alla paura con la violenza.
Oramai l’uomo giaceva a terra e, accanto a lui, la recluta che lo aveva accompagnato.
Un proiettile gli aveva strisciato il fianco, strappandogli i vestiti e strinandogli il costato magro e rosso.
Eravamo entrambi paralizzati. Giovani e desiderosi di vivere, nessuno dei due voleva fare la prima mossa.
In un’altra vita, in un altro mondo, avremmo potuto essere amici. Compagni di banco, di bevute, di sport.
Invece ci ritrovavamo l’uno contro l’altro. Avevamo combattuto per la stessa bandiera che improvvisamente ero stato costretto a voltare contro le mie volontà.
Per questo dovevo morire.
Lo sguardo colmo di paura dell’altro sosteneva il mio mentre caricava il fucile.
Altri caschetti color muffa si precipitarono ad assistere alla scena. Sicuramente avevano sentito lo sparo e adesso, piccoli arrivisti, erano pronti ad uccidermi per vendicare la morte del loro superiore.
Mi ritrovai circondato da canne dei fucili.
La mia patria reclamava il mio sangue, ma la vita mi è cara ed io sono fautore del mio destino.
Le dita bruciavano, la gamba prudeva, la spalla rimbombava per il rinculo del fucile.
Ma io, nessun altro avrebbe deciso della mia vita.
Girai il fucile, sordo di orecchi come di paura, lasciando che la canna bollente mi corrodesse le labbra per l’ultima volta-


Uno schizzò di sangue si schiantò contro le pareti di legno marrone, prendendo la grottesca forma di una stella rossa, presagio nefasto di sconfitta.
Trivellato di buchi, i giovani ebbero la loro vendetta. Giustiziarono i contadini, uccisero il bestiame e lasciarono che un immenso rogo inghiottisse la vallata.


*Kompot: bevanda russa a base di frutta e zucchero

Note Finali:
Un po' di ringaziamenti, dovutissimi, per tutti coloro che mi hanno supportato leggendo e recensendo questo racconto.
Old Fashioned, Sagas, MiciaSissi, Morgengabe, Makil_ , Lady_Tuli ed alla mia silenziosa beta. Sto che stai leggendo! Grazie infinitamente per aver creduto in questa storia!  30 capitoli iniziano ad essere parecchi, molto lo devo a voi, al vostro supporto.
Alla seconda parte, allora!

 

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Capitolo 31
*** Capitolo 31 ***


~Il soldato Daniel Kemple del cinquantaduesimo reggimento Panzer…


Ero stato informato che il treno che avrebbe dovuto garantirgli la licenza era stato abbattuto a seguito di un attacco aereo.
Alcuni superstiti avevano fatto ritorno ai loro battaglioni di origine: considerati disertori, vennero perlopiù fucilati. Qualche fortunato, se così possiamo definirlo, venne integrato in reggimenti disciplinari a sminare bombe fino alla fine della guerra. Ben pochivennero  reintegrati ai rispettivi reparti.
Ma nessuno, fino a quel giorno, seppe dirmi qualcosa di più su Daniel che, di conseguenza, venne dichiarato come disperso.
Ritrovarono invece i suoi effetti personali, che fecero riavere per qualche assurdo motivo a me.

 

“Era il suo superiore, sbrighi lei questa faccenda” queste le testuali parole di  un furiere mentre mi sbatteva tra le mani un malloppo bruciacchiato e sporco dal valore reliquiario.
Così, nella mia tenda, circondato da pagine di Signal, mi apprestai a fare una delle cose più fredde e false della vita dura di un Capitano.
La lettera alla famiglia.

...disperso nel 10 novembre 1943 a seguito di un attacco aereo ad un convoglio ferroviario.
Che il suo sacrificio non sia vano.
Per il Fuhrer e per la Patria
Heil Hitler!”

Una squallidità allucinante, devo ammettere. Queste cose mi fanno sembrare uno stronzo insensibile. In realtà, sarò sincero: sono mortificato.
Anche gli altri sembrano piuttosto affranti. Sappiamo bene quante poche possibilità di sopravvivenza potesse avere un uomo, da solo, nella fredda campagna dell’est.
Solo Klaus ne è all’oscuro. Siamo con lui, in questa bettola ospedaliera, accampati fuori come cani in attesa di rifornimenti che sembrano non arrivare.
Non abbiamo nulla per scaldarci, se non stringerci l’uno accanto all’altro nella mia tenda ed osservare, al chiuso, la flebile fiammella della sigaretta di Tom ondeggiare rossastra fino a spegnersi, inghiottita dalla sua brama di fumo.
La stoffa grigiastra del nostro riparo ondeggiava appena, gonfiandosi di vento gelido, minacciando di spegnere il nostro lumino.
“Hai finito?” chiese Tom, spegnendo il mozzicone nel posacenere annerito dall’uso. Osservammo il fumo alzarsi con vago interesse, fino a dissolversi nel nulla.
“Oh, si” risposi, nascondendo la lettera tra le pagine di un quaderno, al sicuro.
“Vuoi scrivere qualcosa alla sua famiglia?”
La sua fronte si aggrottò pensierosa mentre si infilava l’ennesima e sequenziale sigaretta in bocca.
“Dì loro che avevano un figlio coglione che si infilava le scarpe al contrario...”
“Raffinato”

Rise a labbra strette il sergente, abbassando lo sguardo.
“Non pensavo sarebbe finita così” ammisi, rigirandomi la carta tra le dita.
“Non avrei dovuto dargli quella licenza premio. Oltretutto era anche immeritata”
“La smetta di dire stronzate, Capitano. Per quello che ne sappiamo adesso potrebbe essere in uno squallido scantinato a Mosca a farselo succhiare da quattro baldracche russe...”

“Chi? Quel ragazzetto fissato con i dogmi di stato? Stiamo parlando della stessa persona, Weisz?”
 Ne dubitavo fortemente ma, sotto sotto, speravo fosse veramente così.
Ed invece, qualche giorno più tardi, ancora prima di spedire la cartolina, il colonnello, nel suo ufficio riscaldato, mi sbatté in faccia la medaglietta che quel dannato idiota si era dimenticato di levare prima di disertare, ancora grottescamente segnata dalla sua fucilazione.

La notizia era giunta in una tarda mattina di un nebbioso dicembre.
Ricordo ancora i vetri sottili nell’ufficio del Colonnello intrisi di brina, ramificati come fiocchi di neve ingranditi a microscopio.
Una stanza vera, con i muri di cemento e la stufa di ghisa che scoppiettava allegramente con il suo ceppo secco. Ed io, ciondolante come un bambino svogliato, mi sforzavo di stare sull’attenti davanti al mio superiore che, noncurante della mia presenza, continuava a rigirare la rotellina del telefono nero. Portò la cornetta all’orecchio ma, dall’altro capo, non ebbe nessuna risposta.
Si rivolse finalmente a me con uno sbuffo.
Temo di doverla informare, Herr Faust, che tra i suoi uomini si nascondeva un traditore della patria.
Vede, Capitano, il soldato Daniel Kemple è stato ritrovato a circa seicento chilometri da qua, nella campagna polacca. Si nascondeva in una fattoria e non ha esitato ad aprire il fuoco contro i suoi stessi uomini”
Deglutii. Non. Sapevo. Come. Ribattere.
Ha ucciso alla vigliacca un valoroso tenente, un veterano, ferendone un secondo. Non hanno esitato a fucilarlo seduta stante, quei bravi ragazzi del trentaduesimo reggimento waffen-ss. La fedeltà prima di tutto, come nelle loro fibbie...”
Sapevo inconsciamente non stare dando una grande impressione al mio superiore. La mano destra tamburellava tremante sull’altra mentre, rigido, cercavo di mostrarmi impassibile, fallendo in partenza.
Al suo cenno di congedo, tornai mogio nella mia tenda, colto da un grande senso di desolazione.
Sembrava quasi un racconto fantastico. Non era possibile, non lui.
Non in quel modo. Disertare, certo, ma...
Ripresi la vecchia cartolina, oramai senza valore, decidendo di usarla per accendere il fuoco.
La osservai disintegrarsi lentamente, fino a ridursi in cenere.
E riscrissi, con aspre e crude parole di condanna, la lettera alla famiglia.

 

~


L’ospedale era un ex caserma militare abbandonata a sé stessa da molti anni. Quadrato e sovietico, presentava trame di mattoni in calcestruzzo irregolari ed erosi dal tempo. Le finestre, perlopiù spaccate, erano state aggiustate alla buona con assi di legno per impedire l’entrata di fastidiosi spifferi.
Di buono, però, l’edificio conservava ancora numerosi letti di tessuto infeltrito e tarmato, molto più di quanto un ferito potesse normalmente chiedere.
Aveva perfino un cortile chiuso da una cinta di mattoni ed un cancello perennemente aperto in una viavai di furgoncini carichi di materiale medico e soldati feriti.
Davanti all’entrata, come una statua marmorea (per il colore cadaverico della pelle, si intende) sfumacchiava un disperato dottor Biermann. Le occhiaie oramai erano diventate una parte del suo essere e scavavano profondi solchi intorno ai suoi occhi, facendolo apparire come una sorta di teschio vivente.
“Dottor Bierman...”
“Capitano Faust, che piacere averla ancora tra noi” la sua voce, pur ridotta ad un rauco suono d’oltretomba, era condita da una di stupore positivo.
Ero il suo miglior cliente, dopotutto.
“So cosa vuole chiedermi” l’uomo sospirò una vaporosa nuvola di fumo, scoprendo i denti grigi e corrosi dagli eccessi.
“Il suo uomo, Achen, lo trova al secondo piano, stanza a sinistra. Uno alla volta, per favore”
“Ineccepibile, Dottore”
In risposta l’uomo sorrise a denti stretti, lanciando a terra il mozzicone di sigaretta, schiacciandola. In una frazione di secondo, come un trucco di magia, ne portò una seconda alle labbra, già accesa.
“Se vivremo abbastanza a lungo mi piacerebbe bere con lei un bicchiere. Sa, ho un paio di notizie succulente che penso potrebbero interessarle”
In un unico tiro finì l’ennesima paglia. Se ne liberò in fretta, sfiatando fumo da ogni buco come un novello dragone.
Dal portone d’ingresso uscirono due infermiere. Due belle ragazze, oltretutto.
Senza timore chiamarono il vecchio Biermann per nome, il quale ricambiò con un lascivo saluto di mano, sorridendo viscidamente.
“Mi ha fatto piacere rivederla, Capitano. Temo di doverla abbandonare adesso. Come immagina il lavoro qua non finisce mai...”
“Certo, capisco benissimo, si figuri...”

Non finii di parlare che il medico era già sparito oltre l’atrio di ingresso, attorniato da giovani pulzelle che pendevano dalle sue labbra catramose e giudaiche, lasciandosi alle spalle un magnifico esemplare di tedesco ariano, più giovane e prestante, che tanto avrebbe potuto offrire a loro.
Maledissi quel bastardo della buon’anima di mio fratello Stefan che, ancora una volta, seppur postumo, aveva ragione.
Avrei dovuto studiare medicina, altrochè.


Raggiunsi Klaus nella sua piccola ed asfissiante stanzetta d’ospedale, condivisa con almeno altri venti uomini ammassati più o meno ovunque e senza criterio logico sui letti e per terra.
“Capitano!” i suo volto paffuto si illuminò alla mia vista. Qualche infermiera senza scrupoli doveva avergli rasato i baffoni per qualche assurda ragione. Così sembrava avere la faccia ancora più rossa e paciona ed ebbi qualche perplessità prima di ricambiare il saluto. Non sembrava nemmeno lui.
La fasciatura alla testa era di secondaria importanza rispetto a...questo.
“Achen...i baffi...”
“Non dica niente, Capitano! Anni per farli crescere e poi arriva il primo medico fanatico che decide di levarmeli per qualche questione di igiene”
L’uomo sospirò, cercando una posizione più comoda nel suo lettino infeltrito.
“Devo presentarle una persona importante. Quest’uomo-” e mi indicò un uomo brizzolato, sulla cinquantina andante “E’ un veterano della Grande Guerra! Pensi, ha perfino conosciuto il Barone Rosso, in persona!”
“Davvero?”
“Ragazzino supponente, lei che dubita di me” Il vecchio mi squadrò dal suo lettino, cercando di alzarsi. Poi si ricordò di avere quattro arti fasciati e preferì mugolare di dolore, rinunciandovi.
“Quando tu nemmeno esistevi io facevo già grandi cose! Eravamo tutti acrobati del suo grande circo, tzè.”
Aveva chiaramente l’espressione di uno che mentiva pur di cercare di imprimere nella mia, a suo parere, giovane ed ineducata mente del sano nonnismo.
“Ah, davvero?”
Finsi dunque di assecondarlo, giocando a chi ce lo aveva più grosso. Posizionai per bene la mia carissima croce di ferro di seconda classe sul bavero, lisciandomi successivamente spalline, colletto e cappello. Funziona sempre.
“Certo! Io stavo a guardare ma facevo parte della sua squadriglia!”
“Ah, magnifico”
“Sai cosa conta per davvero, in guerra? Bisogna spaventare il nemico. Un nemico spaventato è un nemico morto! Se lo ricordi, la prossima volta che volerà!”
“Non sono un aviatore-”
“Un volo metaforico, intendevo!” sputacchiò il sedicente veterano, gorgogliando un grosso nodo di catarro, mirando ai miei piedi con precisione da cecchino.
Per fortuna sono dotato di una certa velocità di riflesso…
“Sempre più giovani e supponenti retaggi di fanteria! Ai miei tempi, quando la guerra era ancora ben fatta, ero un meccanico. Il migliore di tutti, si intende! Quando ebbi l’onere ed onore di dare una sistemata a quel portento di triplano riuscii ad incontrare anche il Barone che, povera anima, sembrava un po’ afflitto quel giorno. Sono stato tutto il tempo a pensare al fatto che per errore dovevo aver montato un pezzo al contrario e nessuno doveva essersene accorto e...”
Credo avessi abbastanza tempo da perdere per ascoltare il suo fastidioso ciarlare.
Forse perché passai il tempo a lucidare la croce di ferro tra indice e pollice, raschiandola dallo sporco fino a farla brillare.
“...E allora ho chiesto ad un Tommy che fine avesse fatto e mi sono beccato una pallottola nella gamba”
“Fantastico”
“Un cazzo, fantastico” Il vecchio ricacciò una palla di sputo oltre il mio piede, sogghignando. Penso lo trovasse molto divertente.
Dovevo battere in ritirata, a tutti i costi.
Lentamente, senza dare nell’occhio, arretrai di qualche passo, mantenendo il contatto visivo con il ciarlatano, un po’ come si fa con le bestie selvatiche particolarmente pericolose.
Accartocciai le mani in un indecifrabile segno di scusa mentre Klaus, in bilico tra il timore riverenziale e la confidenza familiare, boccheggiava a vuoto nel vano tentativo di fermare la mia fuga.
Abilmente, ancora una volta, gli feci cenno di silenzio, mimando con un abile gioco di mani la pena a cui sarebbe andato incontro se non avesse taciuto.
Così, appena il tacco dello stivale toccò lo stipite della porta, voltai rapidamente il passo per scomparire oltre la porta, inseguito dai ragli del vecchio del vecchio sempre più lontani, ancora intento a domandarsi se, a far collassare il Barone, fu la sua stramaledetta vite storta.

 

Su una cosa, però, il meccanico fanfarone aveva indubbiamente ragione.
Un nemico spaventato è un nemico morto!
Meditai su quella fare tutta la notte, nella mia tenda da ufficiale umile ma rispettato, osservando assonnato il telone verde gonfiarsi di spifferi gelidi.
Se avessi acceso il mio lume mi avrebbero scaraventato a calci fino a Mosca così, nella più tetra delle notti ucraine, dovetti accontentarmi di una mappa estremamente ben dettagliata della mia tattica, una strategia talmente sofisticata che perfino Herr Guderian avrebbe dovuto concedermi un doveroso applauso.

 

“...Faust, per favore”
Il Colonnello sembrava sul punto di piangere dalla rabbia. Mi meravigliavo del fatto che, nonostante sembrasse malapena tollerare la mia presenza, continuasse ad accettare qualsiasi mia richiesta di visita.
“Non posso farle arrivare un...Panzer...completamente verniciato di rosso. Sia obiettivo, per favore. Non faccia come...quel dannato pittore...”
Con i gomiti piantati come chiodi sul tavolo, l’uomo mi giudicava sprezzante oltre i suoi piccoli occhiali tondi ed io, comodamente in piedi in una falsa riverenza, mi godevo il tepore della stufa di ghisa che scoppiettava allegramente oltre le mie spalle.
“Mi ascolti, per favore. Si ricorda la manovra a tenaglia nella tenaglia? Ha funzionato, vero?”
“Abbiamo perso circa quindici chilometri, quel giorno...”
“Potevano essere venti, non crede? Se riusciamo a dotare la mia compagnia di carri colorati, dal rosso al verde, potremmo incutere al nemico una paura atavica fino a costringerlo alla resa!”
Fu silenzio.
Di assenso, indubbiamente.
La mano del colonnello, tremante, sfiorò l’asta degli occhiali, cercando di levarli cautamente per fermare il violento istinto di lanciarmeli addosso, suppongo.
“Faust, faccia le valigie. Lei ed i suoi uomini andrete in un campo di addestramento per l’uso di cacciacarri. Fingerò che sia strategicamente importante dotare le truppe di un efficace addestramento in vista dei nuovi Jagdpanther quando, semplicemente, desidererei vederla, scusi il francesismo, fuori dai maledetti coglioni per un paio di settimane.
Grazie”
Così, cautamente, arretrai con passo felino, facendo attenzione a non dargli le spalle.
“Ah. E si porti dietro Höfler. Non ne posso più di vedere le sue dannate oche appese al reticolato. Attirano lupi e quei fottuti orsi alti due metri.”

 Così mi congedò, in silenzio. Non osai proferire altre parole, dato che il Colonnello sembrava essere seriamente incazzato con il sottoscritto che, oltre ad essersi dimostrato un valoroso combattente, aveva dato prova di napoleonica abilità strategica.
Forse è questo lo scotto per entrare nella Storia.
 

 

Note:

In ritardo imperdonabile, ancora una volta. Diciamo che...ho avuto delle settimane piuttosto incasinate.
Spero di poter essere più puntuale con i prossimi aggiornamenti e vi ringrazio per l'infinita pazienza nel seguirmi nonotante i miei aggiornamenti ballerini.

 

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Capitolo 32
*** Capitolo 32 ***


Iniziai a pensare di essere nato sotto una indiscutibile buona stella.
Non capitava spesso di essere spediti a fare corsi di addestramento per nuovi mezzi.
In una bella caserma riscaldata, a Gennaio, con delle belle divise pulite, gabinetti e docce con temperatura regolabile!
Oltretutto ero uno dei gradi più alti, quindi potevo piegare le leggi alla mia volontà assoluta...ed era meraviglioso.
Ogni sera pensavo a quei poveri cani sepolti sotto la neve e striscianti in mezzo al fango e riuscivo a prendere splendidamente sonno, di quelli profondi e pacioni da bimbo, con russa strategiche che nessuno poteva fermare.
Chi avrebbe osato contraddirmi?
Insomma, mi sembrava quasi di essere tornato nel lontanissimo 1940 quando, giovane ed inesperto, mi accingevo a diventare il numero uno dei Panzer.
Il mio istruttore dell’epoca, un certo Herr Scheisskopf*, era un uomo che a stento superava il metro e sessanta. Veterano della grande guerra, portava un paio di baffoni a manubri come il compianto Guglielmo II e teneva la prominente pancia in dentro e la schiena dritta come il prussiano che era.
Non mangiava, non beveva, non dormiva. Le sue giornate erano meccanicamente scandite dalle urla aquiline che ci lanciava.
Non esisteva modo di fotterlo, né per scherzare. Se la sveglia era alle cinque lui si sarebbe alzato esattamente a quell’ora, rimbalzando dal letto come un orologio a cucù, cantandoci l’ora a suon di strilli ed imprecazioni.
Tutto aveva un orario preciso. Avevamo cinque minuti per alzarci e rifare il letto, trenta secondi per la pipì e quindici per la doccia, asciugatura inclusa.
Quando uscivamo dagli spogliatoi dovevamo essere perfetti come una cartolina di propaganda.
Al suo passaggio dovevamo salutarlo coreograficamente ed in perfetto sincrono.
Da lontano, Herr Scheisskopf era già riuscito ad individuare tutti i colletti storti ed i gomiti troppo bassi, che si andavano a sommare meticolosamente con gli angoli delle lenzuola leggermente stropicciate, sfociando inevitabilmente in un’amara punizione.
E che punizioni! La più comune prevedeva una corsetta serale nel fango della durata proporzionale alla gravità del problema.
Ricordo con una certa chiarezza di come il vecchio Fischer provò a fregarlo e di come lui, furibondo, gli assegnò tre ore di corsa ininterrotta dalle otto alle dieci di sera.
A quell’ora, però, Herr Scheisskopf lo lasciò per andare a letto come da regolamento, abbandonandolo fuori come un cane bastardo. Grazie al cielo era primavera.
Un giorno, prima della fine dell’addestramento, fui costretto a comunicargli del mio passaggio alla divisione corazzata, che mi sarebbe costata la bellezza di altre due settimane presso una nuova caserma.
A parte l’ora di corsa serale che dovetti scontare per il saluto impercettibilmente sbagliato, il vecchio sergente mi analizzò da capo a piedi, corrugando la sottilissima bocca in un riso amaro per esordire in: “un individuo deplorevole in meno per la nostra amata fanteria”
Quando mi salutai per congedarmi, cosa che mi costò una seconda punizione perché il gomito era troppo alto, mi rimbeccò alle spalle con:” ai miei tempi queste stronzate quasi non esistevano.
Quale cara, vecchia, dolce cavalleria!”

Dei miei vecchi camerata, invece, ricordo con una certa chiarezza quattro specialissimi individui: Jensen, Verbinsky, Eins e Zwei.
Procediamo per ordine.
Jensen era uno dei tanti mezzi danesi che vivono al nord. Esteticamente ve lo descriverei come il solito giovane dal colore latteo ed i capelli lisciati all’indietro ma, quello che ha reso Jensen memorabile, era il suo più totale e genuino rigetto verso quella che definiva “la piaga sociale del comunismo”
Lo rendeva cieco e furioso come un toro davanti ad un drappo...beh, rosso.
Riusciva a tirare fuori l’argomento da altri lontanamente impensabili, come lo sport o il meteo, suo nemico giurato.
“Guarda Mikkel! Stasera il cielo è stupendo! Ricordi il detto? Rosso di sera...”
“Rosso un cazzo. Mio padre si è preso una pallottola in gamba per colpa di quelli!” rispondeva, digrignando l’enorme mascella capace di masticare perfino le teste dei bulloni.
Lamentoso e rompiballe fin dal primo giorno in caserma, ricordo benissimo i suoi piagnistei nel confronti del letto, che riteneva immensamente scomodo.
Come se...ci fosse qualcosa, sotto. Un oggetto fastidioso che gli impediva di prendere sonno, lasciandolo in balia di feroci tormenti notturni.
In molti, me compreso, provarono a sedersi sull’oggetto del demonio ma nessuno riuscì a cogliere la differenza.
Un giorno, colto da aspro fervore, il danese decise di smontare il maledetto giaciglio ed, in effetti, trovò la causa dei suoi incubi notturni.
Una foto.
Una fottutissima foto di Trotsky** sotto il letto, nemmeno Jensen fosse la principessa sul pisello, si intende.
Il fatto suscitò un certo scalpore tra le nostre fila. Verbinsky, il mezzo polacco dalle idee politicamente confuse, si dichiarò interessato ad acquistare quel cimelio di scarso valore economico ma altamente affettivo, alzando il prezzo fino a sette marchi pur di avere la fotografia.
La discussione presto degenerò in una lite feroce di morsi e calci, che vide il suo culmine con un efficace condanna al rogo della suddetta e profana immagine con tanto di pira di fiammiferi che avrebbe fatto invidia a Torquemada.
Se Jensen desiderava vedere il comunismo bruciare, Verbinsky lo appoggiava con lieto fervore.
In uno strano caso del destino, entrambi i loro padri si trovavano a Berlino in un primo maggio*** di una decina di anni addietro. Hans Jensen, rispettabile poliziotto armato di randello e di buone intenzioni, aveva incontrato per pura casualità l’operaio Bruno Verbinsky, squattrinato ma colto abitante del famigerato quartiere di Wedding che, affascinato dalle proiezioni clandestine di Ejzenstejn****, aveva deciso di donare anima e cuore alla causa rossa a suon di pietrisco e rastrellate nel sanguinoso tentativo di trasformare Alexanderplatz in una nuova piazza rossa.
Nel fervore battagliero, il randello di Jensen aveva colpito il braccio del rivoluzionario Verbinsky, dando vita ad un leggendario duello medievale di armi bianche finito in un tragico pareggio, interrotto da cavallo imbizzarrito che, oramai senza fantino, galoppava confuso e violento, donando calci democraticamente a poliziotti e comunisti.
Ovviamente i due, che portavano nel sangue l’odio atavico dei padri, si erano riconosciuti nella penombra di furgone militare e, senza nemmeno rivolgersi la parola, avevano deciso che uno di loro avrebbe dovuto per forza morire entro la fine della guerra.

Dopo tre anni, miracolosamente, posso affermare di averli incontrati entrambi.
In ottima salute, per giunta.
Jensen era diventato un fantastico cecchino, maturando un’ossessione per il tiro al rosso paragonabile a quella di Maik.
Verbinsky invece venne catturato durante la battaglia di Stalingrado e messo al servizio della Russia in una fabbrica di proiettili. Prossimo alla morte, si salvò in extremis commuovendo un suo schiavista con un’analisi delicata e prosaica di una pellicola del Maestro, guadagnandosi la stima di compagno ad honorem e l’integrazione clandestina nell’esercito sovietico sotto il nome di Boris Ejzenstejn.
Ad oggi la sfida è ancora aperta tra il sergente Jensen ed il caporale Verbinsky.

Rimangono due soggetti di cui vorrei parlare.
Eins e Zwei. Non perché non avessero un vero nome ma perché, semplicemente, erano due gemelli che non parlavano altra lingua all’infuori del Bairisch. Essendo in caserma a Monaco, la maggioranza capiva perfettamente il bavarese, pensiero non condiviso da Jensen, Verbinsky e, soprattutto, da quel prussiano di Scheisskopf desideroso di impartire loro l’alto tedesco a suon di chilometri di corsa.
Al loro arrivo, almeno, ebbero la decenza di sistemarsi in maniera diversa, così riuscivamo a distinguere Eins da Zwei dalla riga dei capelli.Dopo aver scoperto con nostro immenso stupore che si chiamavano entrambi Friedrich in onore dei nonni, entrambi curiosamente omonimi, la nostra tattica divenne semplicemente indispensabile.
Peccato che un giorno Scheisskopf, esasperato dal taglio non regolamentare delle loro righe, decise che entrambi dovevano portare i capelli all’indietro, conditi con un bel barile di brillantina.
Da allora nessuno riuscì più a riconoscerli.
Anche i loro superiori, una volta giunti al fronte, fecero fatica a riconoscerli: Jensen, che continuava ad essere nella loro compagnia, disegnò sull’elmetto di Eins un numero per distinguerlo da Zwei.
Un gesto inutile, purtroppo. Durante una ritirata disordinata, così mi raccontò Jensen, i due gemelli si nascosero nella stessa buca per sfuggire all’avanzata russa.
Purtroppo, però, una granata esplose vicino al loro rifugio, ferendoli e facendoli perdere i rispettivi elmetti.
Vennero trovati tempo dopo da un battaglione di sassone che, sentendoli mugolare in un dialetto incomprensibile, temettero di essere caduti in una trappola di qualche pessima spia sovietica.
Solo grazie all’intervento di un caporale di Norimberga riuscirono ad accertare le loro identità e provvedere con le cure adeguate, ovvero l’amputazione del braccio sinistro che, ironicamente, venne eseguita su entrambi i gemelli ed eliminando anche l’unica possibilità di distinzione.

 

L’addestramento oggi è decisamente diverso.
Siamo tutti uomini avvezzi alla guerra ed i nostri istruttori non ci possono toccare, per quanto gradiscano comunque scaricarci insulti addosso.
Non credo ci tengano particolarmente a vivere l’esperienza del fronte, così provano ad essere esasperatamente severi per guadagnare una notte in più su un letto vero, senza il rischio di perdere il loro sporco lavoro.
I Jagdpanther, essendo cacciacarri, presentavano un profilo cubico ed incassato, come una tartaruga con il collo dentro il guscio.
Lo spazio, che continuava ad essere poco, era gestito però in maniera un po’ diversa: io, in quanto capocarro, dovevo stare dietro a tutti gli altri che, invece, si ammucchiavano in maniera più o meno ordinata davanti a me.
La cosa che apprezzai di più, indubbiamente, fu la distanza fisica da Volker Höfler, il nuovo arrivato.
Grazie al cielo scaricarono il gravoso elemento al centro di addestramento, così qualcun altro avrebbe dovuto accollarselo per insegnargli il brutto mestiere del marconista.
Per...non ripetere i miei stessi errori. Porto sulla coscienza quel ragazzo come un cappio al collo.
Nonostante tutto Volker non era un elemento così pessimo come inizialmente temevo.
Come mitragliere era piuttosto bravo ma, essendo un campagnolo disperato, non aveva mai avuto contatti con la tecnologia.
La sua vita, però, era fondata su una sola ragione: il cibo.
O, se vogliamo essere precisi, la sopravvivenza.
Per lui mangiare era ancora più indispensabile rispetto a tutti noi. La sera, quando si spegnevano le luci, lui usciva per cacciare e tornava sempre prima dell’alba, appendendo il trofeo di caccia alla testiera del letto, a testa in giù.
Dopo una settimana aveva raccolto almeno cinque pennuti tra anatre ed oche selvatiche. Purtroppo le bestie dopo un po’ di tempo iniziavano a puzzare, oltre a gocciolare liquidi disgustosi che nessuno osava ripulire. Quando il tanfo di morto divenne insopportabile, obbligammo Höfler a liberarsi delle sue oche.
Il furbacchione, però, le seppellì in una buca sicura, ben conservata sotto lo strato di spessa neve che si stava accumulando ai piedi della nostra caserma.
Inutile dirlo: il giorno della nostra partenza si presentò con una decina di animali legati per le zampe alla sua cintura. Nudi e rinsecchiti, gli uccelli cozzavano tra loro ad ogni passo producendo uno schiocco disgustoso e sputacchiando qualche goccia di liquido dai loro becchi spalancati grottescamente.
Grazie al cielo era inverno. Stipati sul furgoncino di ritorno, al freddo, sentivamo a malapena l’odore di marcio esalato dalle sue adorate carcasse, delle quali, testualmente “non dovevamo preoccuparci perché le avrebbe divise anche con noi”
Infatti, appena giungemmo con nostro rammarico al nostro fantastico accampamento di qualche centinaio di chilometri più lontano di quanto ricordassi, il buon campagnolo accese un fuoco, vi gettò dentro le frattaglie di pollo rinsecchite e mise a rosolare ben due anatre.
Il mio istinto ferino venne attratto dall’odore della brace ed, inevitabilmente, mi lanciai davanti a quel fuco scoppiettante di un lungo tramonto russo, che pareva accorciarsi sempre di più ogni volta che perdevamo terreno.
E’ per il capodanno!”
“Sono passati quasi due mesi, Höfler”
“Ah già. Non importa, Capitano. Però sento che quest’anno vinceremo la guerra e potrò tornare dalle mie vacche in montagna.
Lo pensa anche lei, Faust?”
Mi accomodai davanti a quel fuoco in silenzio, osservando i due pennuti rosolare sopra la fiamma viva del falò.
Eh? Cosa pensa?”
“ Lo penso anche io, Höfler”
Sospirai, abbassando lo sguardo.
“Lo penso anche io”


Note:

* Letteralmente "faccia di merda"
** Politico e rivoluzionario sovietico
*** Riferimento ai fatti accaduti durante il primo maggio 1929, quando la polizia di Berlino represse nell sangue una manifestazione del partito comunista tedesco.
**** Regista sovietico, produttore di numerose pellicole di stampo propagandistico.

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Capitolo 33
*** Capitolo 33 ***


“Clock”

“Click”

“Clock”

 

“Volker,

per favore, potrebbe spiegarmi cosa ci fa un mazzo di oche appeso al mio carro?”

“Non sapevo dove appenderle, Capitano! Allora ho pensato…”

“Perché lei pensa…”

“…ho pensato: perché non lasciare che spurghino in un luogo sicuro, in alto e sempre a portata di mano?”

 

Questo era una giornata tipo nella gelida Russia. Il paesaggio era sempre lo stesso, infido e bianco, coperto da pini ed altri sempreverdi che poi così verdi non erano, essendo carichi di neve fino alla cima.

Le uniche cose che cambiavano, sostanzialmente, erano il nostro carro antiestetico ed un nuovo membro dell’equipaggio che nessuno aveva richiesto ma che ci era stato affibbiato in qualità di marconista.

Il terzo in un anno. Auguri.

A volte, mentre lo osservavo sparare alla fauna selvatica, mi chiedevo che fine avesse fatto Maik, l’unico soldato degno di essere definito tale.

Prima che impazzisse, ovvio.  Voci di corridoio dicevano di averlo visto muoversi a quattro zampe ed uccidere a morsi alcuni soldati russi. Come Fiete, praticamente.

Per fortuna, in una scala da Wolfmann a Kemple, Volker si piazzava praticamente in mezzo.

Buona mira ma inettitudine in quanto marconista. Ogni tanto riusciva ad indovinare la rotella giusta ma la frequenza sbagliata, facendo vibrare nelle nostre cuffie un orrido fischio che mandava Tom su tutte le furie.

Potevo sorvolare su questo particolare. Potevo anche chiudere un occhio sul fatto che uscisse tutte le notti a cacciare selvaggina.

L’unica cosa che non potevo tollerare, però, era l’uso indignitoso di Furia Nera terza, uno dei nuovissimi Jagdpanther che avevamo ottenuto in qualità di uomini scelti, nonostante il Colonnello adorasse sottolineare di come sostanzialmente il nostro compito fosse quello di fare da cavie nella speranza che qualche errore di fabbrica ci faccesse saltare in aria.

“Ha presente cosa succede quando il motore si surriscalda, Hofler?” chiesi al mio sottoposto. Lui mi guardò un po’ esitante, prima di esternare un: “certo, Capitano! Salta tutto in aria!”

“Santo cielo Hofler, no. Questo problema lo hanno risolto per fortuna. L’acciaio diventerebbe bollente e le tue oche finirebbero per bruciarsi…”

Osservai la sua figura corrugarsi in un’espressione di lento compiacimento. Volker era giovane, certo, ma superava ampiamente la media delle nuove reclute con i suoi ventitré anni. Piccoletto, con delle grosse orecchie ed un naso speciale, ma non si poteva definire nel complesso una brutta figura, anzi. Con i suoi occhi verdi ed i capelli biondo scuro faceva sospirare tutte le infermiere del fronte orientale.

“Potrebbe essere un nuovo metodo di cottura, Capitano. Sa, a guerra finita vorrei aprire un ristorante. Se lo immagini, Basti!”

“Non mi chiami per nome…”

“Panzergrill! Specialità, oca al carroccio! O era al cartoccio?”

Senza rendermene conto il giovane soldato aveva iniziato a toccarmi il braccio e tirare la manica della divisa, scrollandomi come una zucca secca. Dovetti allontanarmi con un ringhio disgustato per tentare di farlo desistere ma lui, recidivo, tornò ad attaccarsi al mio braccio con fare morboso.

“Eh, Capitano? Verrà a trovarmi, quando la guerra sarà finita? La farò mangiare gratis tutti i giovedì sera! E dice che potrò portarmi a casa un carro armato per uso culinario?”

“Hofler per favore. Apprezzo il suo invito e sicuramente passerò a mangiare le tue oche a guerra finita ma le ricordo che per adesso sono il suo superiore e non è concesso toccarmi con insistenza, a meno che tu non sia una bella donna. Ma, visto che lei non risponde al requisito, potrei mandarla davanti alla corte Marziale”

Solo così il carrista smise di toccarmi. Fece marcia indietro, allontanandosi da me di qualche passo, prima di voltarmi la schiena e tornare al carro, alzandosi sulle punte dei piedi per controllare lo stato delle sue oche putrefatte.

Non c’è niente di meglio di iniziare la giornata con un po’ di sano nonnismo! Trattenendo il respiro e portando la schiena più dritta di quanto già facessi, riuscivo a sembrare ancora più alto, minaccioso e tremendamente affascinante, più di quanto non fossi già normalmente, incutendo la giusta quantità di terrore nei miei sottoposti, che, intimoriti dalla mia presenza, si affrettavano a lavorare rapidi sotto la mia supervisione.

Immersi nella neve, con una vecchia mappa ed il freddo nelle ossa, serviva una figura carismatica come la mia. L’umore degli uomini scivolava sempre più a picco ogni giorno che passava, toccando vette di esasperante depressione.

Erano sempre più convinti di essere stati abbandonati. Ed io, che li incitavo a tenere duro e non mollare mai, cercavo di respingere questa morsa allo stomaco che lentamente stava corrodendo anche me.

Tutto era iniziato dopo il nostro ritorno al fronte. Non avendo praticamente materiale per stabilire un campo degno del nome, avevamo incaricato Müller, un ex architetto di Rosenheim, di disegnare con un bastone sulla neve la pianta di un edificio, con tanto di stanze private, bagni, salotto e cantina. Così avevamo creato dal nulla il nostro circolo ufficiali con tanto di tavolo e sedie, costituite da un fusto di benzina vuoto e due tronchi d’albero spezzati dal peso della neve.

Senza bicchieri, senza alcool e senza praticamente nulla, discutevano davanti ad una mappa chiazzata di caffè e divorata dai tarli, riportante un foro di circa dieci centimetri nella zona di Mosca, rendendo la lettura ancora più difficile di quanto già fosse in quelle condizioni.

Avevamo una porta, però. Tutti dovevano bussare prima di entrare, con tanto di cerimonioso “chi è? Sono Faust, mi apra! Ci mancherebbe, entri pure!” e via dicendo.

Molto emozionante. Se non fosse che, escluso il Colonnello, erano rimasti quattro ufficiali inferiori al comando di circa quattro carri l’uno.

Durante uno di questi meeting il Colonnello decise di impepare il discorso, che in genere iniziava serio e sfociava in figa, con tutte le novità che nessuno di noi si era mai curato di tenere al corrente.

Si alzò bruscamente, chiuse la cartina e ci squadrò con lo sguardo da maestro delle elementari, mettendoci immediatamente a tacere.

“Visto l’orario, immagino sia giusto darvi queste notizie che mi sono appena giunte e di cui nessuno si era mai premurato di tenermi al corrente. Abbiamo perso il Nordafrica, gli americani sono arrivati in Sicilia e l’Italia ci ha voltato le spalle. Con questo vi auguro un buon sonno che avrei un certo torpore, sono due notti che non chiudo occhio Achen per favore inizi lei il turno di guardia e poi Faust gli dia il cambio…”

Il vociare divenne intenso. “Incredibile!” esordì il Capocarro Braun lisciandosi le maniche del cappotto “tutto in un solo giorno!”

“In realtà” lo corresse il Colonnello “sono notizie vecchie di mesi. Credo non gli importi più molto inviare informazioni al fronte orientale, ma sono solo supposizioni”

L’uomo sbadigliò rumorosamente, coprendosi la bocca con la mano, prima di voltarci le spalle diretto verso le sue inesistenti stanze.

“Questa sarebbe la buonanotte? Come cazzo faccio a dormire adesso?” imprecò il pittore pazzo dal salottino, alzandosi rabbioso in direzione del circolo degli ufficiali “Lei era nella stanza vicina! Come ha fatto ad origliare i nostri discorsi?”

“Temo che il Colonnello abbia lasciato la porta aperta…”

“Bussi prima di entrare!”

Per una manciata di secondi l’uomo desistette, osservando con il volto dubbiosamente contratto la planimetria perfettamente disegnata dell’edificio. Studiò a fondo la posizione della porta immaginaria, prima di esclamare un: “Accidenti, avete ragione! Non avevo proprio visto i muri…forse c’è solo bisogno di una bella riverniciatura…”

Contro ogni previsione il pensiero della guerra oramai persa divenne poco più di un lieve eco in lontananza, non più spaventoso delle luci dei Katjusa che esplodevano a chissà quanti chilometri di distanza, appena visibili nel tramonto limpido della Russia.

Abbandonai la stanza mentre loro, in fibrillazione, decidevano di ritoccare le pareti con immagini belligeranti di aquile nere che sfidavano aquile a due teste in incredibili lotte aeree, prima di soccombere sotto i becchi e gli artigli affilati delle prime.

 

Spazio ed ossigeno a parte, dormire in un carro armato non era la cosa peggiore che potesse succedere al fronte.

Forse non era comodo ma, almeno, era sufficientemente caldo da non farci morire congelati. Difficile prendere sonno in certe condizioni. Non che sarei comunque riuscito ad addormentarmi, con quelle notizie. Al diavolo tutto il resto, ero preoccupato per la sorte di mio fratello, paracadutista in nord Africa. Il fatto che non avessi ricevuto notizie sulla sua sorte, né risposte alle mie missive, mi rendeva terribilmente inquieto.

Oramai nemmeno ero più certo che arrivassero, le lettere. Mancavano i rifornimenti, figuriamoci queste quisquilie.

Chiesi al Capocarro Joseph Achen di iniziare io il turno di guardia. Inutile dire che acconsentì con inaudita gioia, abbandonandomi con inaudita rapidità.

Presi per sicurezza una pastiglia di Pervitin e lasciai che la notte scorresse sulla mia testa come nuvole, mentre l’organo di Stalin tornava a tacere per fare spazio a quell’incredibile silenzio che solo l’inverno sa offrire.

 

Indubbiamente fu il miglior pattugliamento della mia vita. Seduto su un tronco, in silenzio, al freddo, con un cappotto malamente imbottito ed un accendino del quale agognavo il calore. I russi purtroppo hanno occhi ovunque: per questo dovetti accontentarmi del calore del nostro caminetto finto ma disegnato impeccabilmente.

Ero convinto che qualcuno, prima o poi, mi avrebbe dato il cambio.

Ed invece rimasi a fare la guardia per tutta la notte. Solo alle sei il Colonnello si accorse di me. Lungi dal sorgere del sole, ci apprestavamo allo sporco lavoro che oramai ci toccava da parecchi giorni: difendere la zona.

Non c’era niente di interessante ma gli ordini erano stati chiari: alla peggio, almeno, potevamo ritirarci in quelle che sembravano rovine di un casolare e difendere quello.

Improvvisamente ogni cosa era diventata essenziale, anche le più sacrificabili. I russi ci stavano spingendo sempre più verso sud, Novgorod era caduta nell’esatto momento in cui noi non eravamo presenti (impegnati nell’addestramento all’uso dei cacciacarri) Penso sia questo l’esatto motivo per il quale abbiamo perso la città.

“Vede, Colonnello, il mancato uso della tenaglia a tenaglia è stato fondamentale per i russi. Lo spieghi a Von Küchler*, vedrà che sarà comprensivo e capirà i suoi errori”

“In realtà, Faust” il mio superiore mi diede le spalle, preferendo osservare l’esatto centro di un tronco di pino “mi ero alzato per una banale pisciata, se mi permette il termine. Non certo per essere seguito dal suo farfugliare insensate tattiche militari

Adesso gradirei un po' di privacy, come si suol dire…”

Quanto pudore!

Mi allontanai biascicando insulti a denti stretti, facendo attenzione a non essere udito.

 

Finalmente, dopo tanta attesa, scorgemmo lo scafo di un cacciacarri oltre la folta coltre di sempreverdi. In realtà, ad essere puntigliosi, udimmo il ronzio del motore ben prima che il cingolato si palesasse ai nostri sguardi.

Incurante della boscaglia il carro si faceva strada sradicando i fusti più leggeri, scortando in qualità di leader un paio di camionette adibite al trasporto delle truppe, un furgoncino di rifornimenti, un sistema d’arma Katjusa** ed altri due cacciacarri che riconoscemmo come ISU-152***

Il carro di testa, però, era totalmente sconosciuto.**** Non avevamo mai visto niente di simile in vita nostra. Piatto, basso e coriaceo come uno scarafaggio, a prima vista sembrava molto più leggero rispetto ai nostri carri della stessa fattura. Caricava gli ostacoli come un ariete moderno, veloce e compatto, senza eccessi o sporgenze che potessero ostacolare la sua copertura.

Per fortuna si accorse di noi con relativa tardezza, dandoci il tempo di preparare un’azzardata offensiva. Aver trovato una divisione corazzata tedesca, seppur sfoltita, lo aveva disorientato. Esitante, inizialmente il carro nemico tentò di fare marcia indietro, mostrando con sfacciata arroganza la corazza frontale e facendoci intuire con nemmeno troppa difficoltà quale fosse il punto forte della struttura.

Mentre i due carri laterali cercavano di fornire un passaggio sicuro alla fanteria, il carro di testa decise di attaccarci, uscendo finalmente allo scoperto.

Doveva essere nostro, quel bestione! Diedi a Tom l’ordine di ingaggiare, cercando il modo migliore per fiancheggiarlo.

Mentre Martin e Klaus direzionavano il cannone per tentare una strisciata sul fianco, Volker interruppe l‘incredibile assetto da guerra esclamando: “Le mie oche!”

“Al diavolo, le tue oche! Dovevi toglierle prima!” sbuffò il pilota, preparandosi ad arretrare di qualche metro per favorire l’attacco.

“Sono importanti! Devo dirlo ai russi prima che sia troppo tardi!”

Prima che qualcuno riuscisse a fermalo lui era già sbucato fuori dal carro.

Ordinai la retromarcia, interrompendo l’ordine. Il cannoniere mantenne la sua posizione e, a cannone carico, avremmo dovuto avere la risposta repentina in caso di attacco.

Inspirando profondamente decisi di fare capolino dal carro, coprendomi per sicurezza con la cappotta protettiva.

“Hofler, che sta facendo! Torni al suo posto!” urlai, osservando quello che stava per essere il mio ex marconista correre incontro ad una morte certa.

Il bestione russo, titubante, sembrò arretrare anche lui di qualche metro, mosso da una strana curiosità. Dal muso piatto del caccicarri sbucò perfino il mitragliere che, con una preventiva pistola carica in mano, si rivolse a quel piccolo tedesco sfacciato.

L’attesa fu infinita e snervante. Le due parti in gioco erano tese ed in fibrillazione, desiderose di mettere le mani sui nuovi modelli dei carri avversari.

Tranne i due marconisti che, in un’accozzaglia di tedesco e russo, sembravano avere trovato l’amicizia vera.

“Spegnete tutto, spegnete i motori, siamo giunti ad un accordo!” Volker ci fece segno di resa e, in risposta, il cacciacarri nemico spense i motori. Afflitto, ordinai a Tom di fare lo stesso.

“Per quattro oche hanno detto che leveranno il disturbo!” il mio uomo sembrava entusiasta. Corse dal cannone della Furia, arrampicandosi per staccare un paio di pennuti che, nel frattempo, avevano già iniziato a cuocersi per il calore del cingolato.

Raggiunsi l’apice di dubbiosità quando perfino il capocarro russo abbandonò il mezzo per prendere personalmente il bottino.

Lo analizzai accuratamente. Un tipo borioso e gonfio di petto che si atteggiava come se fosse l’unico capocarro dell’Unione sovietica. Dopo aver ricevuto i pennuti, l’uomo articolò un complicato discorso in un tedesco elementare con il sottoscritto che, per precauzione, aveva deciso di stare al riparo all’interno del Carro, rivolgendomi a lui dall’altro dei tre metri d’altezza del Jagdpanther in modo tale che fosse lui ad alzare la testa in segno di rispetto e non viceversa.

“Io Capitano di Cjornij…nero. Ricordati di me quando io diventare…più grande di tutti in carri armati”

“Non si preoccupi, Herr! Si ricordi di noi, piuttosto. Della Furia Nera, perché sarò IO a divenire il più grande carrista del Reich…anche se, con modestia, dovrei già esserlo.”

Seguirono attimi di insospettabile silenzio. Il russo (che nel frattempo sembrava aver gonfiato ulteriormente il petto) colse la palla al balzo: “Vedremo quando ci incontreremo di nuovo. Oggi essere voi in numero molto maggiore. Un giorno duelleremo come cavalieri e decideremo chi sarà il più grande di tutti”

“Affare fatto”

Il Capitano russo sembrò soddisfatto dell’accordo. Ringraziò cortesemente per le oche, prima di allontanarsi verso il suo carro a grandi falcate, svegliando il pilota che, nel frattempo era uscito a fumare e si era addormentato ai pedi del cingolato con il fumo ancora acceso tra le labbra.

Li osservammo sparire tra gli alberi mentre, con una certa disillusione, mi accorgevo di come il Colonnello e tutti gli altri avessero battuto una ritirata strategica e si fossero accasati nel famigerato casolare distrutto da difendere.

“Dannato russo borioso che osa mettere in discussione la nostra bravura” borbottai, dando l’ordine di marcia.

“Invece era simpatico, Capitano” mi corresse Volker con un sorriso, mentre riprendeva il posto tra i suoi comandi. Aveva deciso di portare i pennuti rimanenti con sé, attirando l’attenzione ed i desideri di Fiete.

“Le somigliava un po’, non crede?”

“Impossibile!” sbottai, corrugando le sopracciglia con estremo disappunto.

“Io non sono certo così vanitoso, non ho la camminata da piccione come…quel tizio.

Sarà lui quello fanfarone. Io sono semplicemente magnifico e modesto come un agnellino di prima lana…”


Note:

*Georg Von Küchler, Feldmaresciallo che coordinò l'operazione

** Detto anche Organo di Stalin, lanciarazzi

*** Cacciacarri russo

**** Prototipo di quello che diventerà SU-100, uno dei più temuti semoventi russi. Amichevolmente veniva soprannominato "fotto tutto" era leggermente distruttivo...

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Capitolo 34
*** Capitolo 34 ***


Pioveva da tre giorni e non accennava a fermarsi.
Quella che fino a poco tempo prima era una distesa di neve aveva iniziato a sciogliersi, complice l’avanzata della primavera che, lentamente, iniziavamo a percepire grazie ai raggi del sole finalmente più tiepidi.
Giorni strazianti, fatti di marcia incessante sotto una torrida e gelida tempesta d’acqua. Il Colonnello, quando finalmente era riuscito a riallacciare i contatti con i piani alti, aveva ricevuto l’ordine di raggruppare quei pochi uomini che erano rimasti e confluire nelle armate del sud.
Fu un tragitto silenzioso e carico di rassegnazione. Ad ogni passo sembravamo guadagnare un po’ di luce e caldo, lasciandoci alle spalle quel terribile inverno russo, in quella immensa nazione che, presto o tardi, avremmo abbandonato a cuor pesante.
Durante la nostra discesa ci unimmo a diversi gruppi, fino a formare una scarna e debole armata, composta perlopiù da uomini troppo stanchi per vivere, gente che aveva assediato Stalingrado per tre lunghi anni e che adesso si ritrovava catapultata in una nuova guerra, un nuovo incubo.
A volte sembravamo affetti da allucinazioni audio visive e ci chiedevamo come ancora fosse possibile mantenere una parvenza di umanità in tutto questo immenso inferno.
Mi viene in mente il volto di mio zio Maximilian, uno dei fratelli di mia madre. Ne conservo i ricordi di quando ero un bambino, di quest’uomo senza naso e senza occhio, completamente sfregiato dal fuoco. Piccolo com’ero, mi faceva una paura mostruosa. Mio fratello Stefan addirittura piangeva alla sua vista, così io ed Alfred dovevamo chiuderlo nello sgabuzzino per farlo tacere e non farci fare brutta figura.
Non parlava molto, Maximilian. Aveva la bocca deformata e biascicava le parole con enorme sofferenza. Essendo tre pezzi di merda finiti, eravamo soliti a chiamarlo tra noi “Il mostro di Ravensburg” ed eravamo convintissimi che un giorno ci avrebbe mangiati tutti.
L’unica realtà, però, era quella di un sopravvissuto di Verdun, che espugnò Fort Vaux al buio, tra il tanfo dei cadaveri e l’acqua fin dentro gli stivali, arso vivo dal fuoco e dal caldo.
Mai, in tutta la mia vita, avrei mai pensato di fare la sua stessa fine.
Erano gli anni d’oro della repubblica di Weimar, cazzo! 
Nella strada battuta alla buona i cingoli del nostro carro affondavano pesantemente nel fango. Talvolta (purtroppo succedeva spesso) alcuni scivolavano nel pantano, incagliandosi nei fossi melmosi, costringendoci a rallentare per aiutare i malcapitati ad uscire dal pantano. A questo punto legavamo il carro incassato a quello davanti, in modo tale da aiutarlo a rimettersi in carreggiata.
Perdevamo un sacco di tempo così ma, magra consolazione, con questa pioggia non avremmo visto aerei.
Vedevamo, però, i cannoneggiamenti in lontananza.
Giorno e notte rischiaravano il cielo con la loro luce gialla ed inquietante.
Fin quando ce li ritrovammo completamente addosso.
Pioveva, stranamente. A dirla tutta, era un fantastico nubifragio di inizio marzo. Noi ed un’altra manciata di carri venne congedata, preparando il grosso delle armate per uno scontro diretto con i russi.
Fino a nuovo ordine avevamo un bellissimo deposito contenente qualunque sorta di bendidio a disposizione.
Ci accampammo lì, con la raccomandazione più sentita del feldmaresciallo di non toccare quella cuccagna più del dovuto.
Balle.
Il primo giorno, dopo esserci tolti l’acqua dagli stivali, ci lanciammo come bestie assassine su una cassa di aringhe affumicate. La sfondammo a mani nude, sforzando appena i chiodi con un’asta di metallo al grido di “vaffancul al generale, noi vogliamo sol mangiare”
Non contenti, sfondammo un secondo barile, questa volta contenente del vino acetato…e qui si fermò la nostra furia mangereccia, trasformatasi improvvisamente in un fiume di vomito e soldati striscianti.
Modestamente io non ero tra quelli. Infinitamente saggio, avevo preferito astenermi da quell’intruglio maleodorante.
In quanto essere sano, dovetti improvvisarmi medico di fronte. Un gran medico, oltretutto. Avevo imparato dal migliore, Biermann sarebbe stato fiero di me.
Fare le diagnosi era incredibilmente semplice: dopo aver misurato il polso al paziente e non disponendo di materiale medico, il più era fatto: se c’era il battito andava lasciato al suo posto. Tutti gli altri, invece, fuori dal deposito.
Quegli stronzi, approfittando delle mie scarse, seppur prodigiose, conoscenze mediche, finsero più volte di essere morti e giuro, non riuscivo a percepire loro alcun battito. Dopo aver buttati fuori i sedicenti morti dal capanno misteriosamente tornavano in vita gridando al miracolo, scappando in direzione opposta alla nostra.
Per fortuna c’era Von Stroheim con noi.
Sapeva come fare giustizia: gli bastava contare fino a tre e sparare un unico colpo sulla testa del disertore. Aveva un che di aggraziato nel portamento delle armi: qualcosa di estremamente elegante che noi inconsciamente ammiravamo, nel modo in cui tendeva il collo mentre prendeva la mira, sempre con la sua fida sigaretta tra le labbra. In molti adoravano assistere al gesto di grazia con il quale eseguiva metodiche e ripetute fucilazioni. C’era qualcosa che aleggiava, oltre la paura e la morte, che rendeva gli uomini assennati e desiderosi di scappare, un sentimento più forte della certezza che Von Stroheim avrebbe sparato alle loro teste. Era il nostro cane da guardia e, come tale, si comportava. A fine giornata zampettava scodinzolando dal suo superiore, notificandogli la sua bravura per ricevere una pacca sulla spalla e due paroline motivazionali.
Non durò molto: in breve tempo i russi ci furono nuovamente addosso e noi, spolpati fino all’osso, non riuscivamo a metterci in contatto con le truppe stanziate in Romania.
Sotto la pioggia scrociante ed i fiumi di fango uscimmo dai nostri depositi. Ci lasciarono giusto il tempo per controllare i serbatoi dei nostri carri prima di spronarci alla marcia.
Almeno eravamo all’asciutto. Sotto di noi gli artiglieri si spaccavano la schiena per trascinare pesanti macchine da contraerea e cannoni, formando lunghi solchi di fango.
“Bah” esclamò Tom dubbioso, tirando forte col naso. Si era preso un brutto raffreddore e più di una volta tememmo si girasse in bronchite: invece, fortunatamente, non peggiorò mai.
Quando i primi mortai furono lanciati finalmente ci diedero l’ordine di avanzare. Lo scenario che si palesò davanti ai nostri occhi non era di certo dei migliori. Il primo impatto, sostanzialmente, era quello di una distesa piana completamente ricoperta di rottami abbandonati.
Nostra roba, oltretutto. Potevamo contare almeno dieci Panther in ottimo stato, abbandonati in balia del fango e dei russi perché nessuno era riuscito a tirarli fuori dal pantano. Se avevamo l’occasione, ci fermavamo a svuotare i serbatoi prima che lo facesse il nemico anche se, puntualmente, arrivavamo sempre troppo tardi.
Fu in una di queste occasioni che la nostra armata venne attaccata dai russi. Sembravano fottutamente inarrestabili, perfino con la marea di fango che scivolava lungo il terreno appena inclinato del lungofiume.
Non era questo a preoccuparci per davvero: il fatto che fossero numericamente il doppio fece scaturire dalla bocca di Tom una raffinatissima e contorta imprecazione mentre, con estrema difficoltà, tentava di mettersi in assetto di guerra.
Era stato un fottuto azzardo presentarsi con un Jagdpanther in un simile scenario: non potendo contare sulla velocità, l’unica cosa che avrebbe salvato questa corazza di burro sarebbero state le preghiere.
Sfondammo una lunga fila di pali, cercando il modo migliore per fiancheggiare il nemico che, furbescamente, copiava le nostre mosse e le ripeteva a specchio, facendosi coprire i fianchi dai vicini…
Vabbè, vicini. A sinistra avevamo il capocarro Klaus Aachen e tutta la sua combriccola fottuta di cervello, col pittore ed i due ragazzini obiettori di coscienza.
A destra un perfetto sconosciuto riciclato da Stalingrado.
Appoggiato alla mia botola, tenevo strettamente in mano la radiolina dei comandi. L’acqua penetrava a goccioloni dentro il carro, evaporando a contatto con l’immenso calore che sprigionava.
Il capocarro Aachen mi lanciò un’occhiata preoccupata. Gli sorrisi, cercando di rassicurarlo.
“Ho bisogno di qualcosa di forte…Aachen, venga con me, mi faccia compagnia e magari anche da scudo nel caso fossi in pericolo”
“Per favore Capitano, questo non è il momento di giocare!”
mi rimproverò Tom mentre cercava disperatamente di arretrare, rischiando di incassare fango tra i nostri cingoli e seppellirci definitivamente.
“Anche lei, col naso grosso. Andiamo ad aprire il culo a quei russi!”
Questa volta mi rivolsi al mio vicino di carro, quello a destra.
“Sono il Caporale Hoffman, per la miseria!”
“Piacere, Capitano Faust. Ma non credo sia il momento dei convenevoli…”
Il nostro discorso venne interrotto da una forte esplosione a pochi metri da noi, seguita da una eruzione impetuosa di fango. Sotto allo spesso fumo scorgemmo il relitto di un cannone anticarro e quel poco che rimaneva del suo equipaggio.
“Andiamo, dai! Aachen…Jager, ruota la torre a sinistra e carica…carica qualcosa di potente…un ottantotto millimetri dovrebbe bastare…”
“Ricevuto!”

Osservai con i binocoli la posizione dei nemici.
Da lontano, oltre la spessa nebbia che trasudava dal terreno, potevo scorgere le figure di almeno cinque carri nemici, due dei quali riuscivo a distinguere come T-43, grazie al cielo.
“Weisz, riesci a piazzarti più…cazzo…come si dice…ho la parola sulla punta della lingua!”
“Trasversale? Mi faccio coprire dal Panhter?”
“Si, ecco!”

L’emozione mi tradiva. Essendo io un tipo immensamente sensibile, quando sentivo puzza di vittoria finivo sempre per commettere qualche spicciolo errore.
Questa volta mi rivolsi al carro sulla mia destra. Hoffman mi lanciò uno sguardo carico di fiducia (o almeno così pensai, dato che portavamo tutti gli occhiali) che contraccambiai, facendogli un cenno d’intesa.
“Nasone! Puoi portarti un po’ più avanti? Ci serve copertura!”
Tom rallentò il passo mentre il Panther ci superava, nascondendo con la corazza una buona parte della nostra placca frontale.
Sorrisi.
“Adesso Jager, gira il cannone! A sinistra, ancora un po’…”
Avevamo puntato ad un carro medio, un po’ più distante dal resto del gruppo. Confidando nel fattore “fine campo” il semovente aveva ben pensato di non essere visto da nessuno, così aveva ruotato la torretta completamente a sinistra, sparando dal lato opposto al nostro…
“Vai, mettigli il cingolo fuori uso!”
Non mancò il colpo. Il T-43, però, si accorse di noi e ruotò a gran velocità la torretta, mirando alla placca frontale del nostro Jagdpanther.
Fu a quel punto che nasone tradì la copertura ed arretrò fino a portarsi dietro di noi, con buona pace e sicurezza del suo equipaggio.
“Stronzo!” urlai “sono un Capitano, io! Torni al suo posto e ci copra!”
Nessuna risposta. Hoffman continuò ad ignorarmi, preferendo ingaggiare con un russo dall’altra parte del campo.
“Herr Faust, carico?”
“Zitto Jager. E comunque, Caporale, di grosso ha solo il naso, infame!”
“Capitano, punto alla torre?”
“Non mi interrompa, Aachen!”

Tom stava arretrando lentamente, spostandosi verso destra in un tentativo di fiancheggiamento. Il carro avversario aveva lasciato completamente scoperto un angolo debole tra torretta e placca frontale.
Questione di pochi attimi.
Avrei dovuto dare l’ordine.
“Ce l’hai talmente piccolo che la tua donna lo ha scambiato per la cordicella di un paralume! Ed ha tirato abbastanza forte da…”
Un colpo partì dal mio carro. In un attimo vidi la torretta del T-43 nemico aprirsi in due, strappando via capocarro e cannone e facendoli volare per diversi metri, piantandosi infine nel fango con un tonfo molle e sordo.
“Come si chiama…naso grosso, con lei faccio i conti più tardi!” sbottai, accendendo la radio per tornare a comunicare con i miei uomini.
“Era un tentativo di ammutinamento, quello?”
“Capitano!” fu Volker a rispondermi.
“Le abbiamo tipo salvato la vita! Siamo anche un po’ telepatici, no?”

Perché tutti in questa compagnia ambiscono al battaglione di disciplina?
“Avevo chiesto di aspettare!” ringhiai. Mi stavano facendo perdere la concentrazione, questi dannati-
Non ebbi il tempo di formulare il pensiero che un colpo strisciò a pochi metri da noi, facendo tremare l’intera corazza.  Pochi secondi dopo un’esplosione di proiettili iniziò a ticchettare sulla torretta, rimbalzando con un breve schiocco.
Quello stronzo stava, indubbiamente, mirando verso di me, costringendomi a rientrare nel carro.
“Aachen…Jager…ruotate la torre e tentate di prendergli il fianco…Weisz…”
“Capitano, so cosa devo fare!”
replicò Tom a denti stretti, cercando di coprire un autoblindato che, velocissimo, tentava un giro di ricognizione alla ricerca di cannoni e fanteria da abbattere: fu una corsa stolta e, in breve tempo, si impantanò nel fango e da lì non riuscì più a muoversi, divenendo bersaglio ambito di un cacciacarri particolarmente lungo e piatto.
Provai ad uscire dal carro, ancora una volta. La pioggia aveva reso i miei occhiali completamente appannati e rigati da enormi goccioni, pieni d’acqua per metà. Strizzai gli occhi, cercando di concentrarmi per salvare l’autoblindato.
“Aachen, sposta la torre a sinistra, ancora un po’…ti dico io quando colpire”
“Ricevuto”

Fu questione di secondi. Quando Weisz si allineò al fianco avversario, feci partire il colpo, scardinandogli il cingolo e bucando una parte del fianco. In risposta il carro rimase immobile, spiazzato, mentre una nube di vapore leggera fuoriusciva dalla ferita appena procurata.
In un secondo colpo riuscimmo a farlo saltare in aria. Bastò una minima fuoriuscita del carburante affinché prendesse fuoco brutalmente, quel tipo di calore inumano che la pioggia battente riesciva a tenere a bada ma non a placare.
“Ottimo lavoro! Adesso fate un po’ di spazio…vediamo se riusciamo a prendere i poveretti…”
Cercai nasone per coprire il nostro salvataggio ma non trovai altro che la carcassa squassata di un Panther con il fianco completamente aperto ed il cannone a raggiera come un fiore di prato…
Cercai il capocarro Aachen in mezzo alla folla: nonostante i russi ci stessero decimando come mosche loro…eccoli là, molti metri più indietro, sommersi nel fango fino a metà cingolo.
A giudicare dallo stato del loro carro, dovevano averlo abbandonato già da parecchio tempo…da quali pavidi esseri che sono…
Sospirai.
“Voi! Dell’autoblindato! Saltate su, in fretta!”
Chiesi a Tom di affiancarsi alla loro vettura fuori uso, assicurandomi prima di essere coperti dalla carcassa del mezzo.
Uno alla volta, con immensa fatica, riuscimmo a salvarli per miracolo…un carro, un altro stramaledetto carro aveva aperto il fuoco con la mitragliatrice verso di noi.
Eravamo strettissimi, adesso. L’aria all’interno del carro era calda e satura, completamente rarefatta dai nostri respiri. Io stesso sentivo la testa pesante e ciondolante.
Non sapevo esattamente quanto tempo fosse passato dall’inizio dello scontro. Minuti?
Ore, forse. Quando richiusi la botola sulla mia testa e svuotare gli occhiali pieni d’acqua mi accorsi, solo sfilandomi la montatura, che quello che scorreva sulle mie tempie non era solo acqua.
Fango. Sangue. Un proiettile doveva avermi preso di striscio e…esaltato, impasticcato come ero, nemmeno percepivo il dolore.
Quando riemersi, ancora una volta, la nebbia si era alzata lungo le nostre fila.
Spessa come un muro, faticavo a trovare tracce di vita, amica e nemica.
Solo una lunga fila di carri abbandonati e rottami. Talvolta misere figure che si incespicavano nel pantano e nella foga schiacciate dai cingoli dei carri…e adesso giacevano come frattaglie in conche rozzamente rossastre.
Il terreno esalava fetore di visceri, combustibile e fango. Questo odore mi sferzò il viso con una zaffata fetida, rivoltandomi lo stomaco…
“Capitano, va tutto bene?” Fu Volker, il marconista, a chiamarmi.
“Se ci sono problemi posso sempre inviare il mio piccione da guerra, Mein Schatz!”*
“Da quando hai un piccione da guerra?”
chiese Tom, cercando di fare marcia indietro con il carro.
“L’ho trovato qualche giorno fa, mentre cacciavo le oche! È un piccione con grandi aspirazioni, eh! Voglio che diventi fotografo di guerra! Vero, tesorino?”
Perfetto, pensai distrattamente, mentre osservavo la distesa alla ricerca di forme di vita ostili.
Dopo il Circo Volante della povera anima di Von Richtofen seguiva, in quanto erede spirituale, il circo Rotante di Bastian Faust col cane ed il piccione. Dimenticavo, il Barone aveva anche un babbuino.
Beh, io ne avevo quattro, di scimmiette: una era perfino addetta alla guida di un carro armato…
“Capitano!”
Ecco, il macaco al volante che invoca la mia benedizione.
“Weisz?”
“Ci siamo impantanati! Cazzo…”
“Posso inviare un messaggio ai nostri con Mein Schatz, no? Verranno a soccorrerci!” ipotizzò Volker, recuperando una penna ed un foglietto di carta da…da qualche parte, beh.
“Se questo serve a liberarsi del piccione…”
Ringraziavo il cielo di non poter vedere cosa cazzo stava accadendo là sotto perché troppo concentrato a fare la guerra.
Oltre la terra, i cingoli ed il fango, disseminati ovunque, troppi carri amici giacevano squassati o dimenticati dai loro proprietari perché oramai inagibili, completamente avvolti dal fango ed incapaci di muoversi…tra i tronchi degli alberi abbattuti ed il lieve sfrigolare di qualche fuocherello oramai spento e fumoso. Solo qualche movimento in lontananza faceva presagire che lo scontro era ancora in corso.
In questo momento di debolezza, quando abbassammo per un attimo, un fottuto attimo le difese, che un boato spezzò la nostra quiete, distruggendo completamente la catena dei cingoli della beneamata furia terza.
Un colpo basso, laterale, che fece tremare l’intera scocca d’acciaio…
“Maledizione! I comandi…non…”
Il caldo si fece nuovamente opprimente, accompagnato dal buio totale, un intenso odore di fumo ed il lento e inesorabile gocciare liquido che…
“Cazzo, il motore! Dal retro! Uscite!”
Non ci restava che una manciata di secondi a disposizione…il tempo di caricare e sparare ed il prossimo colpo ci avrebbe condotti direttamente all’altro mondo.
In quanto Capitano, ovvero colui che per ultimo abbandonala nave, presi in braccio quei venti chili di un Fiete uggiolante ed uscii dalla mia botola per primo, noncurante dei proiettili di un tiratore perfettamente consapevole della nostra posizione.
Con i tre ospiti, un cane adulto ed una gabbia con piccione non era esattamente semplice scappare agevolmente da una sola uscita…
Fortunatamente, però, quando il secondo colpo si incassò nella parte frontale eravamo oramai tutti fuori dal carro ma non lontani…e la pioggia di detriti e fanghiglia ci investì appieno, sporcandoci da capo a piedi.
Diedi uno sguardo ai miei uomini: Martin aveva avuto difficoltà ad uscire dal carro e sembrava un po’ scosso. Dei tre uomini della ricognizione…
“Hans! Dove sei, Hans!” Gridò uno dei due rimasti, lanciandosi verso i rottami bollenti della Furia.
Il commilitone era poco più indietro, riverso a terra in grumo di fango boccheggiante.
“Sto bene” mormorò, trascinandosi strisciando verso di noi. “Non riesco…solo ad alzarmi…”
Ma, a ben pensarci, forse sarebbe stato meglio anche per noi strisciare nel fango e mimetizzarci tra i canali d’acqua per renderci invisibili ai russi che, lentamente, scavalcavano le nostre linee dopo averci annientato. La chiamano “Rasputitsa” i russi “Schlammperiode” il periodo di fango, che aveva fermato chiunque, perfino Napoleone, dal mettere le mani sulla Russia.
Che poi mi chiedevo, strisciando come un verme assieme a tutti i miei uomini alla ricerca della salvezza, cosa ci avranno mai trovato di così interessante nella Russia? Sicuramente non devono mai esserci stati, nemmeno una volta! Se avessero provato almeno una volta nella loro vita un soggiorno in questo delizioso posticino (e lo affermavo mentre mi distruggevo le mani nuotando nel pantano umido e ghiacciato) avrebbero trovato solo tonnellate di neve e mura di fango spesse mezzo metro, altroché!




Note:

* Mein Schatz: letteralmente " mio tesoro" ma traducibile gergalmente come "Mio caro" 
Riferimento parodizzato Cher Ami (caro amico, in francese) il piccione americano che salvò il battaglione perduto durante la Grande Guerra.


Nota d'Autore!

Finalmente sono riuscita a portare un nuovo capitolo! mi scuso con la mia incredibile lentezza: riesco nemmeno a mantenere i ritmi che mi ero prefissata...
Prima o poi ci riuscirò! 

 

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Capitolo 35
*** Capitolo 35 ***


Successe quello che storicamente, anni più tardi, venne ricordato come il D-day dello sbarco in Normandia.
Qualche tempo prima, tra marzo ed aprile, ai pezzi grossi venne la bella idea di portare via parte delle nostre forze già esigue e trasferirle in Francia.
Ovviamente fu un lungo processo di selezione e che vide il sottoscritto ed il suo equipaggio indegnamente scartato.
Solo i migliori sarebbero partiti. Trovai piuttosto divertente che, dopo quattro anni di guerra, nessuno ancora considerasse il mio vero valore.
Mi presentai quindi dal Colonnello con gli stracci fetidi che avevo addosso da quattro anni, la barba sfatta da mesi e gli occhi scavati dal Pervitin. Solo le mostrine brillavano in me.
“Capitano Faust, so già cosa vuole chiedermi” mi zittì ancora prima che potessi aprire bocca.
“La risposta è sempre la stessa. No, lei non andrà in Francia. Come può intuire ci servono solo gli uomini migliori…guardi Wittman*. Vada a rivolgergli la parola finché si trova qui. Presto partirà e lei perderà l’occasione di diventare un uomo migliore”
Me ne andai sconsolato, chiudendo silenziosamente la porta nel tentativo di sparire in un soffio.
Senza tende, senza cibo, senza carro e, soprattutto, senza speranze, ci eravamo accampati ai piedi di un ospedale fatiscente. Parte dell’edificio era stato adibito a stanze per ufficiali a discapito dei feriti.
Temetti di impazzire. Si era creata una situazione paradossale e tutto ciò che avevamo pericolosamente costruito in questi lunghi anni aveva perso importanza perché stavano arrivando gli americani belli freschi dal loro fottuto continente.
E la Russia? La bellicosa, invincibile, dannata Russia? Il freddo, la fame, gli stenti dell’inverno senza fine. Avevano detto che il comunismo era il nemico, che avremmo dovuto bussare alla porta di Stalin con la carabina in mano.
Avevamo visto tutto questo. Forse, ci avevamo perfino creduto. Ma adesso di noi sarebbe rimasto solo il ricordo. Stefan citava spesso, nelle sue missive, i campi di papavero e spighe sotto cui riposavano gli eroi del fronte occidentale.
Sopra di noi solo la neve. E, una volta che fosse giunto il disgelo, nemmeno quella sarebbe rimasta a coprirci.
Caparbio della mia superiorità feci comunque del mio meglio per ignorare quello che un tempo fu oggetto delle mie ammirazioni. Ultradecorato, Wittman brillava di luce propria.
Io, offuscato ed opaco, con la mia decina scarsa di carri distrutti alle spalle, bruciavo di gelosia. Pur tentando di riapparire presentabile, rasato e relativamente pulito, non ebbi comunque accesso alla Francia.

 
 
Il lunghissimo inverno, la piovosa primavera e la torrida estate continentale significavano solo una cosa.
Funghi.
Enormi e succulenti porcini crescevano indisturbati sotto le querce verdi e rigogliose.
I soldati, quelli rimasti, erano troppo giovani o troppo stupidi per capire quanto potesse essere utile una cesta di finferli in un momento delicato come quello.
Convocai l’intera compagnia, cane e piccione compresi.
D’altronde, in guerra, non si fa distinzione di razza, sesso e specie.
Tutti sono nella merda in egual misura.
“Soldati…dobbiamo andare a caccia. Non di russi e nemmeno di bestie…non che ci sia differenza ma non è questo il punto.
Chi sa dirmi qual è il modo migliore per arruffianarsi un superiore?”

“Il culo!” esclamò un ragazzotto mai visto prima.
“Il fungo!” obiettai.
“Egregia dialettica, signor Capitano! Lei sa davvero come sottintendere certi argomenti!”
Ancora una parola e sarei scoppiato.
“…I funghi. Quelli che crescono nel bosco. Se vogliamo andare in Francia a mostrare di che pasta siamo fatti è cosa buona e giusta ingraziarci i superiori con metodi approvati dalla società.
Una volta giunti nel fronte occidentale avremo donne, buon vino ed armamenti migliori.
Pronti a seguire il vostro Capitano e morire per lui?”

Già mi pregustavo un’unanime ovazione.
Invece calò il silenzio.
 

Visto che nessuno sembrò approvare la mia idea, decisi di relegare la questione ad una sfera più…intima.
Mi ero fatto firmare, per l’occasione, un bellissimo lasciapassare per andare a prendere i rifornimenti.
Anzi, cinque. Quello che credetti un caritatevole atto del Colonello venne maliziosamente sgamato dalla vecchia mappa macchiata di caffè che, al primo sguardo, indicava un ingente compagnia corazzata sovietica che, senza, fretta, si stava dirigendo verso la nostra destinazione.
Con la scusa dei viveri avrei potuto allontanarmi un po’ dagli sguardi indiscreti dei commilitoni che lesti si appropinquavano a partire per la Francia.
Geniale, nevvero? Nonostante l’idea che il Colonnello volesse sbarazzarsi di noi mi nauseasse, sapevo benissimo come difendermi.
“E comunque” obiettai, infilando i preziosi documenti nel taschino della divisa “potranno esserci anche cinquemila carri in marcia ma si fidi, tornerò sano e salvo, merce inclusa”
“Mi fa piacere sentirglielo dire, Capitano Faust. A tal proposito potrei darle un giorno libero in più.
Ultimamente i russi viaggiano più lentamente, non trova?”

Mi congedai educatamente, concedendomi un raffinatissimo sputo appena fui lontano dalla sua visuale.
 
Partimmo l’indomani e di buon mattino.
Tom, sigaretta in bocca e braccio fuori dal finestrino a penzoloni, guidava svogliatamente con il sole dritto negli occhi, malamente riparato dal cappellino di servizio messo di tre quarti.
Al suo fianco c’era, ovviamente, il sottoscritto che, binocolo in mano, cercava di attuare la logica del carro armato su una camionetta.
Sul retro, malamente nascosti da teloni da paracadutista adibiti a tetto, c’erano tutti gli altri.
Cane e piccione compreso.
Alla prima chiazza boschiva però, anziché proseguire verso la nostra meta, ci inoltrammo nel folto del verde alla ricerca dei santissimi miceti.
Non fidandomi, decisi di accantonare l’idea di dividerci in gruppi. Klaus e Martin avrebbero potuto scappare da un momento all’altro, coronando il loro sogno di diserzione.
Armati di coltello da combattimento a serramanico presi gentilmente in prestito da alcuni paracadutisti andati a miglior vita, ci accingevamo, scivolando nel fitto fogliame come serpi, a depredare il bosco di querce dai preziosi funghi. Volker, per esentarlo da ogni iniziativa, reggeva la cassa di legno ancora tristemente vuota.
In quella torrida estate 1944 a nessuno interessava andare a caccia di funghi. Certo, spesso i campi erano pieno di mine e soldati armati…escludendo la fauna selvatica quali orsi, lupi, carri armati e bombardieri sovietici…in effetti i pericoli non mancavano ma la soddisfazione, cazzo! Una cassa di…
“Sicuro che siano porcini, questi?” mi domandò Tom, annusandone uno con poca convinzione.
“Mai andato a trifola, eh?” risposi, rigirandomi tra le mani quello che sembrava un magistrale tartufo da mezzo chilo che Fiete aveva scovato appositamente per me.
“Dubito di aver mai mangiato funghi in vita mia. Però…guardi qua, Capitano Faust…è strano, con la cappella di un brutto colore, guardi…”
“Mi delude, Tom. Credevo che lei se ne intendesse, di cappelle…”

“Sono serio, Herr! Guardi, aveva detto esplicitamente di cercare solo funghi marroncini e spugnosi…”
Posai il tartufo paradisiaco per perdere tempo sulla misteriosa creatura boschiva.
 “È commestibile, certo. Anche se non lo fosse…beh, lo daremo a quello stronzo del colonnello. Non riesce a distinguere l’oro dalla merda, figuriamoci i funghi!”
Stranamente, Martin e Klaus si erano messi all’opera. Pur non avendo mai messo mano sopra un porcino, i due berlinesi (in qualità di abitanti di città) riuscirono a riempirsi le mani di piccoli funghetti a chiodino che crescevano floridi in un ceppo muffito.
Soddisfattissimi, corsero da me per mostrarmi il loro bottino. 
“Guardi, Capitano!” esclamarono all’unisono, sotto il mio sguardo scettico ed arricciato in un’espressione scettica.
“Ho come l’impressione che stiate complottando per avvelenare la truppa. Un gesto nobile, ammetto, perché quegli incapaci avranno la vita misurabile in ore, quando saranno in Francia.
Ma questi”
e strappai dalle loro mani quei piccoli disseminatori di morte “ci costeranno una bella fucilazione ed io non ho assolutamente intenzione di morire adesso, grazie”
I loro occhi divennero grossi come palle da biliardo.
“Capitano…noi…avevamo fame e ci siamo fidati della sua parola…e…”
Incredibile.
Non mi ascoltano mai e l’unica volta in cui avrebbero dovuto usare un po’ di buon senso…
“Un buon fungaiolo non mangia mai il proprio raccolto-” replicai.
“Dica a mia moglie che sono morto da eroe difendendo i confini della patria…” Klaus si accasciò a terra con fare melodrammatico mentre Martin, al suo fianco, balbettava qualcosa tipo “oh no, amico mio! Ti ho convinto io a mangiare i funghi!”
Ciliegina sulla torta, Volker ci consigliò di chiedere i soccorsi con il suo piccione viaggiatore Mein Schatz. La bestiola, chiusa in una gabbietta allacciata alle sue spalle come uno zaino, tubava spaventata.
Il delirio.
Decisi dunque di tagliare la testa al toro e concludere così l’infortunata caccia al fungo con un paio di porcini ed un tartufo da mezzo chilo che…si! Quello sarebbe stato la chiave per la Francia!
Tornammo al furgone. Klaus, sdraiato sul retro, pregava ad occhi chiuso assieme al suo amico Martin, in ginocchio a mani conserte. Nonostante io, quale Capitano magnifico e privo di torto, provassi a far capire loro che non sarebbe successo nulla nonostante la loro totale inettitudine quelli, a metà del viaggio, chiesero di essere lasciati sul ciglio della strada a morire.
E lo fecero a gran voce, contrastando perfino il rumore del motore e dei continui saltelli dati dal terreno schifosamente instabile! Incredibile, per un gruppo di avvelenati in procinto di tirare le cuoia!
Difatti, appena giungemmo in Fureria, quelli si alzarono vispi come galletti per aiutarci a caricare i miseri rifornimenti che il furiere ci autorizzava a prelevare.
La nostra dieta oramai era basata unicamente su cavoli, patate e rape. Daniel sarebbe stato fiero di noi. Se avessimo voluto mangiare carne avremmo dovuto provvedere da soli.
Le bistecche erano il nostro punto debole, quello in cui la propaganda russa amava fare più pressione.
Sempre più spesso pattugliavano i nostri confini incitando a gran voce la resa.
 

Una volta, e fu davvero un colpo basso, organizzarono un vero e proprio banchetto di carne.
In realtà noi non vedemmo nulla ma quello che udimmo nei loro altoparlanti bastò a far gorgogliare i nostri stomaci.
“Compagni!” gracchiava la voce maschile con fortissimo accento russo.
“Noi ci stiamo apprestando a banchettare con uno splendido stufato di manzo e cipolle! Compagno Ivan, ci spieghi come ha fatto a cucinare una portata così deliziosa!”
“Compagno Josif, è una ricetta molto semplice. Al macello, due giorni fa, sono andato a prendere un vitello! Si, un capo di pochi mesi, che ancora si nutriva di latte! Non mi dica nulla, compagno! Il taglio di coscia che ho utilizzato pareva burro sotto il mio coltello!”

Io, riverso a terra nel vano tentativo di imparare a nutrirmi di luce come le piante, inizia ad osservare un grosso sasso muschioso come se fosse un bignè.
“Se solo i nostri compagni tedeschi fossero con noi, a godersi questo delicato profumo! La carne sfritta nello strutto! E le cipolle che scricchiolano e si indorano! Vuole assaggiare, compagno Josif?”
Presi il sasso tra le mani ed iniziai a leccarlo.
“Sublime, compagno Ivan! L’Unione Sovietica non abbandona mai il suo popolo! Compagni tedeschi, cosa c’è dentro i vostri piatti? Adesso i nostri uomini porgeranno le loro gavette e ben presto saranno riempite con questo delizioso stufato! Abbandonate i vostri luridi superiori, che vi nutrono a segatura! Poggiate le armi, prendete i cucchiai: sarete sazi e liberi dal giogo del nazismo!”
Nonostante la mia fedeltà alla bandiera a quel fottuto ciottolo un morso provai a darglielo.
Non fu piacevole.

 
 
Quando tornammo agli accampamenti carichi (si fa per dire) di provviste diedi ai miei uomini l’ordine di scaricare i viveri, congedandomi per seguire la mia personalissima missione.
Ebbene, avevo trovato un magistrale tartufo nero da mezzo chilo, amabilmente profumato di paglierino e vegetali di sottobosco. Sapevo quanto il colonnello fosse un amante della cucina di gran classe. Si riprometteva sempre, una volta che il potere del Reich si fosse esteso anche ai paesi alleati (o, per meglio dire, ex alleati) l’acquisto di un suggestivo podere in Italia nel cuore della maremma, dove degustare Chianti e Finocchiona osservando mandrie di cavalli arabi correre nel suo personalissimo recinto.
Più subdolo della propaganda sovietica mi presentai al suo ufficio con la bella cassetta di funghi nella quale troneggiava, in un nido di foglie di quercia, il colossale fungo nel quale oramai riponevo tutte le mie speranze.
Sarebbe stato il mio pass per la Francia!
 
“Herr Colonello”
“Faust, ancora lei…”

“Vengo in pace” chiarii, mostrandogli contenente il mio piccolo tesoro.
“In quanto grande…sublime…estimatore della cucina di alta classe, ci tenevo a farle dono di questo fantastico tartufo che ho trovato durante una pericolosa missione”
“Faust, non faccia il lecchino e la smetta di raccontarmi palle. Lei in Francia non ci andrà”
“Guardi con i suoi occhi. Io mi privo malvolentieri di questa delizia di inestimabile valore…”

Se non altro riuscii ad attirare la sua attenzione. Il colonnello, incuriosito, inforcò gli occhiali e fece accomodare il prodigioso micete sul suo tavolo. Io, invece, dovetti rimanere in piedi.
“Senta, che profumo delizioso. Non vorrebbe assaggiarlo? Se solo potessimo mettere le mani su un paio di uova! Non crede, colonnello?”
Il mio superiore, che ovviamente la sapeva lunga in fatto di ingredienti pregiati, prese in mano il mio pass per l’occidente ed iniziò a studiarlo. Rughe contratte iniziarono ad arrotolarsi nella sua fronte, facendo storcere la bocca in un..un…”
“Lei è pazzo, Capitano Faust!”
L’uomo lanciò il fungo a terra. Cianotico, cercò invano uno straccio su cui pulirsi le mani, rassegnandosi infine ad utilizzare vecchi documenti di carta. Tanto siamo tedeschi, abbiamo sempre la copia della copia della copia di sicurezza. Ed un’altra copia del suddetto, che non si sa mai.
“E’ merda, questa! Merda di orso! Credeva di essere divertente?”**
“Ero assolutamente convinto fosse un tartufo, io…”
“Se ne vada con il suo pezzo di stronzo, prima che glielo faccia mangiare!”

 
Uscii mortificato dal suo ufficio. I miei uomini, che avevano finito di scaricare i viveri, mi aspettavano trepidanti fuori dalla stanza. Giustamente la gioia nei loro volti mutò in stupore ed infine in incolmabile tristezza vedendomi uscire a mani vuote.
“Niente Francia?” chiese Tom, sfumacchiando con poco interesse una sigaretta fatta a mano.
“Non gli piacciono, quelli neri” mentii “preferisce i tartufi bianchi…sapete, quelli italiani. È fissato con l’Italia…”
“Quindi possiamo mangiarcelo?” gli occhi di Klaus brillavano.
“Penso…penso...lo regalerò a Wittman per festeggiare la croce di ferro con foglie di quercia…”
“Che nobiltà di cuore, capitano! Lei è così umile e generoso!”
concluse Volker.
Lasciammo l’edificio con estrema insoddisfazione.
In fondo, sotto sotto, la Francia nemmeno mi piaceva così tanto.
 









Note:

* Michael Wittman, conosciuto anche come "Barone nero" (chiaro riferimento a Richtofen)  al quale è stato attribuito un numero di carri armati abbattuti superiore alle 120 unità. Fu decorato con la croce di ferro con foglie di quercia nel Gennaio 1944, uno dei più alti riconoscimenti militari tedeschi. Venne abbattuto in circostanze misteriose nell'Agosto 1944, azione successivamente attribuita ad un'unità canadese. Ironia del destino, anche la morte del più celebre Barone Rosso è stata attribuita ad un canadese.

** Il Capitano non brilla di acume, nè ha una vera conoscenza sui funghi. Per altro, il suo cane non è affidabile. Ad aggravare la situazione possiamo aggiungere che la dieta degli orsi è composta principalmente da bacche e frutta a guscio. Ciò che producono ha un odore di paglierino e frutta fermentata, non sgradevole. Certo, non è nemmeno acqua di Colonia, eh...


Note d'autrice:

Da quanto tempo non aggiorno? due mesi? tre? purtroppo sono stata completamente assorbita dalla tesi che, per altro, ho dato pochi giorni fa con successo.
Adesso ho più tempo libero e, mi auguro, riuscirò a postare almeno un aggiornamento mensile.
Mi scuso ovviamente per essere ignobilmente sparita...

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Capitolo 36
*** Capitolo 36 ***


Abbandonati come cani al proprio destino, mi ero predisposto all'infausto sentimento passando una mattinata senza conto di un torrido luglio russo a prendermi cura della mia persona, pettinandomi e tirandomi a lucido come una delle numerose reclute imberbi che oramai infestavano le nostre linee.
Avevo maturato consapevolmente l’idea che in patria non sarei tornato con le mie gambe.
No, non ci sarei tornato proprio, nemmeno orizzontalmente. Ciononostante, ero intenzionato a divenire il più bel cadavere del campo di battaglia. Sarei morto compostamente e con dignità tra le braccia tremanti di uno dei miei uomini in lacrime che, mentre amaramente constatava il mio decesso a seguito di una ferita pulita e senza sangue, si chiedeva perché fosse toccato ad un figuro così immaginifico e non a lui stesso, povera e strisciante creatura dei bassifondi.
Avendo fatto diverse prove sul morire compostamente, i miei sottoposti non avrebbero dovuto far altro che tumulare il mio meraviglioso corpo all'ombra di un salice cascante, premesso che possano crescere qui, in Russia. In tal caso, beh, avrebbero dovuto cercarlo.
Un giorno di un futuro non troppo lontano qualcuno avrebbe disturbato il mio eterno riposo e, maneggiando il mio cranio con la stessa cautela che si riserva ai diamanti della corona d’Inghilterra, avrebbe esclamato: “Perbacco! Questo è il più bel teschio della Seconda guerra mondiale!”
Avevo anche un piano B, ovviamente. Nel caso fossero morti tutti e nessuno avesse potuto seppellirmi con tutti gli onori che meritavo, sarei rimasto a giacere dignitosamente sul pelo della terra e tutti i corvi, gli orsi ed i lupi che si sarebbero saziati con le mie carni avrebbero esclamato: “Perbacco, questo è l’umano più delizioso che abbia mai mangiato!”
Per adesso, che ancora possiedo un immaginifico corpo vigoroso ed un’anima strenuamente attaccata ad esso, lavoro cautamente a debellare l’incivile barba che mi faceva apparire come uno zotico contadino russo o peggio, un rivoluzionario comunista.
Avevo ancora la lama tra le mani quando Volker ed il suo piccione disturbarono la mia routine quotidiana, spaventandomi fino a farmi rischiare di deturpare il mio splendido viso con un taglio di lama.
“Capitano!”  urlò il mio giovane sottoposto, lanciandomi praticamente addosso la gabbia con piccione annesso.
“Capitano! Guardi! Ho importantissime foto aeree che ritraggono con precisione le posizioni nemiche!”
Mein Schatze tubava nella sua minuscola gabbietta di metallo beccheggiando, di tanto in tanto, alcune granaglie che gli erano state servite dentro una lurida coppetta di fortuna, assieme ad una ciotola d’acqua che, immancabilmente, finiva per rovesciarsi nel suo giaciglio, facendo alzare in un goffo volo la bestiola che, tentando la fuga, finiva per incastrarsi dolorosamente tra le fessure della gabbia.
“Bene” finsi di mostrare interesse alle sue parole, continuando a radermi con accuratezza evitando il più possibile il contatto visivo con il giovane montanaro.
“Guardi qua! GUARDI!”
Inevitabilmente, coprì la mia visuale con una foto. Provai a chiedermi come avesse fatto a svilupparle in questi territori dimenticati sia dall'esercito e, di conseguenza, da Dio.
Non dovevo pormi domande a cui non potevo avere risposta, no? Già il fatto che fosse riuscito a procurarsi una macchina per la fotografia aerea ed un piccione addestrato destavano in me profonde turbe…ma gli acidi, la camera oscura…
Al diavolo.
Le foto, irrimediabilmente sovraesposte o sottoesposte, sfocate e sicuramente mal sviluppate, erano di un’utilità pari ad un fiammifero nei ghiacci della Siberia.
Irrimediabilmente e fottutamente inutili.
“Capitano? Quale giudizio estetico ha maturato in questo suo silenzio, eh? Le piace? Mein Schatz? È il Robert Capa dei piccioni, l’Henri Cartier-Bresson degli uccelli!” *
“Ma lei non sapeva a malapena leggere?”
“Infatti”
, ammise Volker che, come ricordo, ha sempre vissuto ai piedi di un monte impervio nel lander di Ostmark.
“Me lo ha detto il pittore! Lui sì che ha sviluppato un profondo giudizio estetico! Sa tutti i pittori a memoria!” **
Non misi in discussione le sue argomentazioni. Di arte sapevo ben poche cose, quindi non obiettai sulla bravura di questo Capa e dell’altro. Il pittore pazzo ha una strana metrica di giudizio quando si tratta di queste cose.
“Quindi, Capitano? Cosa ne pensa?”
“Che fanno schifo, ecco cosa penso”
presi in mano uno degli scatti, quello più nitido.
Raffigurava…beh. All’inizio non riuscii a capire cosa fosse, essendo disgustosamente fuori fuoco.
Poi l’illuminazione.
“Sembrerebbe essere il contorno di un altro piccione, questo.  Vede, Hofler, questa è la testa…il becco…”
“…Ah”
“Capitano? È sicuro sicuro?”
“Lei cosa ci vede?”
“Non lo so, per questo chiedevo a lei”
“Provi a mostrarle a Weisz, Jager e Achen”
“Dice che posso?”
“E’ un modo gentile per chiederle di levarsi dalle palle”
questa frase l’avevo imparata dal Colonnello. Come esternazioni è il mio punto di riferimento.
“Ottima idea, Capitano, vado subito a chiedere un loro giudizio estetico!”
Inutile dire che ricevette solo un borbottio irritato da parte di Tom e nessun giudizio da parte di Martin e Klaus che, ovviamente, erano svaniti nell’etere.
 

In questo spirito di decadenza collettiva nemmeno i migliori dei pensieri riuscivano a sollevare i nostri morali. Eravamo come delfini spiaggiati sulla banchina da troppo tempo, con la pelle secca ed arsa dal sole il cui unico desiderio è tornare al mare anche se di esso non rimane altro che la più flebile delle memorie.
Eravamo migliaia di unità sparpagliate in un territorio enorme che talvolta si riunivano per soccombere coralmente e senza pietà. Dopo una primavera tranquilla (e, con tranquilla, si intendeva aver perso solo qualche centinaia di chilometri e migliaia di uomini) ci ritrovammo nuovamente a combattere con i fondi di magazzino, ovvero cannoni d’assalto con metà serbatoio ciascuno. Ci dissero di fingere che fosse un carro armato a tutti gli effetti…anche una carriola ha due ruote ma non posso definirla bicicletta, eh.
Ci stipammo al suo interno alla meglio, perché i posti erano solamente quattro e noi eravamo in cinque.
Quanto mi manca il vecchio e glorioso Panzer Tiger! Comodo e spazioso (per quanto fosse possibile in un carro armato, ovviamente) il cui boato faceva tremare la terra! Questa scatoletta infame sembra una bara.
Probabilmente lo sarà, per molti di noi.

 
 
Nonostante sia ostile, la vita avrà sempre il sopravvento.
Lo sperimentammo sulla nostra pelle, letteralmente.
Le prime avvisaglie le diede il caporale Fiete in un’afosa giornata di sole passata a grattarsi la schiena e mordicchiarsi le zampe. In quanto recluta canina nessuno diede per davvero peso a quei piccoli gesti.
Nemmeno quando Tom iniziò furiosamente a grattarsi lamentando forti pruriti ci credemmo.
“Capitano!” piagnucolò il pilota guidando con una sola mano, impegnando l’altra in un feroce sfregamento di unghie sul collo.
“La tua bestia rognosa mi ha passato le pulci!”
“Impossibile. Il caporale Friedrich von Russland che, le ricordo, è stato insignito dell’osso di ferro* nel ventinove febbraio millenovecento quarantatré…”
“Ma Febbraio non ha ventinove giorni!”
“Lo scorso anno si…”

Weisz corrugò la fronte, insospettito. Fece un calcolo veloce con la mano impiegata al volante (perdendo il conto tre volte) esordendo infine con: “potrà anche essere il soldato più valoroso del fronte ma ciò non toglie che possa avere preso le pulci!”
“Sono solo supposizioni, Weisz. Potrebbe essere il contrario” aggiunsi, grattandomi meditativamente il mento, dissimulando con eleganza il feroce prurito che attanagliava anche me.

 
 
La situazione prese una piega particolarmente brutta quando, sul calare della sera, la nostra compagnia incrociò un nutrito gruppo di T-34…quelli nuovi, che si differenziavano sostanzialmente dal vecchio modello per essere piacevoli come una ragade durante un’epidemia intestinale…senza contare l’abissale svantaggio dei nostri mezzi che avevano già qualche annetto alle spalle, oltre ad essere cannoni d’assalto e non carri…
Coraggiosamente decidemmo di affrontarli. Aspettavo questo momento con trepidazione, tra le notti insonni passate a sistemare questo perfetto piano per sfidare e vincere sul nemico in una situazione di estremo svantaggio.
Dopo la tenaglia a tenaglia, rivelatasi un indubbio successo, mi accingevo a mettere in atto la strategia ultima alla vittoria da fare impallidire perfino il vecchio Rommel.
“Adesso” la mia voce si fece sottile per la trepidazione.
“Dobbiamo adottare la tecnica del ratto marsupiale” ***
Spegnemmo il motore ed uscimmo dai carri. Gli altri soldati ci guardarono come se fossero pazzi e, per convincerli che la tattica fosse infallibile, li minacciai di portarli davanti alla corte marziale.
Non era priva di rischi ma…al diavolo, era la guerra. Se non avesse rischi non sarebbe tale.
Ci sdraiammo a terra, posizione a piacere purché fosse scomoda e scomposta.
In breve: ci fingemmo morti…e non fu facile.
In preda a forti pruriti l’intera compagnia non riusciva a stare immobile, se non per una manciata di secondi. Ad aggravare la situazione il Caporale Fiete (che, essendo un segugio altamente addestrato, non aveva mai creduto alla nostra tecnica) iniziò a leccarmi la faccia scodinzolando contento, invitandomi al gioco.
Da qualche parte…santo cielo, quel dannato cane aveva trovato e dissotterrato un osso lungo, inquietantemente umano, che mi consegnò quale bottino di guerra. Non potendo accettare quel macabro dono, il Caporale lo portò in un luogo più sicuro, accomodandosi per spolparlo con inaudita gioia.
Gli insegnamenti di Maik Gerste! Il ricordo mi fece orribilmente sorridere.
Ma! Dovevo continuare a simulare la mia magnifica morte.
Che, per altro, funzionò, poiché i russi non si accorsero di noi e continuarono beatamente per la loro strada.
Quando diedi l’ordine di risollevarsi alcuni continuarono a giacere per terra.
Preoccupato, andai a controllare il loro stato di salute: non c’è niente di meglio di una sessione ripetuta di calci negli stinchi per riportare in vita i sedicenti morti. Improvvisamente le loro bocche si riempirono di imprecazioni e i loro occhi di vita.
“Perdoni il francesismo, Capitano, ma questa…sua nuova tattica è una vera merda” lamentò Tom, mettendosi seduto per spolverare la sua casacca pregna di terriccio umido.
“Dica quello che vuole, Weisz. Per sua fortuna non so il francese…e non dovrebbe saperlo nemmeno lei, essendo la lingua del nemico traditore”
Lo lasciai boccheggiare, schiumante di rabbia, soddisfatto nel sapere che, ad un suo eventuale dibattito, avrei potuto minacciarlo con la vecchia e cara corte marziale.
Tra tutti ci fu un tale, un certo Graf, che, indubbiamente, spiccò nella sua simulazione di morte apparente.
“Guardi, tu!” mi additò il pittore con un sillogismo di sfacciato rispetto nei miei confronti, precedendomi oltretutto nel calciare il pover'uomo con forza.
“E’ così bravo a simulare! Pensa, ha perfino gli occhi girati all'indietro!”
“Credo sia morto per davvero…”
azzardai, piegandomi sul poveretto. Era noto a tutti che Graf soffrisse di qualcosa, ma nessuno aveva mai capito cosa. Nel dubbio, continuava a combattere perché riusciva a stare in piedi nonostante fosse zoppo e avanti con gli anni.
“Si è fatto prendere dalla mano…beh, in fondo sapevamo tutti che ci credeva un po’ troppo in queste cose” continuò Michael il pacifista, che nessuno menzionava mai perché la sua unica caratteristica era quella di essere contro qualsiasi tipo di assassinio, cosa piuttosto controproducente in guerra.
“Si! Perché era zoppo e malato doveva essere meglio di tutti gli altri!” continuò il pittore con una nota di gelosia nella sua voce. Come se quel pover’uomo avesse qualche merito nell’essere morto durante una simulazione della stessa.
“A quanto pare doveva essere piuttosto competitivo” conclusi, rialzandomi da terra e abbandonando il poveretto al suo destino.
Approfittammo della dipartita di Graf per ripetere, ancora una volta, la procedura di emergenza nel caso della mia tragica e prematura dipartita, con tanto di cerimonia di sepoltura sotto un albero.
Riprendemmo il nostro cammino lasciandoci alle spalle il nostro luttuoso camerata la cui morte, per altro, fece indignare più di un commilitone, in quanto performance ben riuscita. Dovetti sforzarmi per capire come potessero invidiare un morto.
Semplicemente, stavamo cadendo inesorabilmente a pezzi. Nelle nostre menti, nelle nostre teste, si susseguivano ininterrottamente spiacevoli immagini dai colori violenti, dove il rosso era davvero rosso ed il blu era intenso come il cielo.
Però…eravamo qualsiasi cosa, ma non pazzi. Se lo fossimo allora avremmo il piacere a continuare questo circolo pedissequo di attesa e morte, nonostante sia spaventoso pensare a cosa potrebbe succedere quando tutto ciò inevitabilmente giungerà ad una fine.
Ah! Il prurito mi sta facendo impazzire. Vorrei rasarmi ma non posso rinunciare alla mia ariana chioma in questo modo. Penso farò come Michael il pacifista, che non si lavava da due anni per non uccidere i suoi piccoli amici infestanti.
I miei parassiti, però, avevano buon gusto. Le pulci più sofisticate e fortunate di tutto il fronte orientale!






Note:

*
 Citazione al "secondo tragico Fantozzi"
** Henri Cartier-Bresson e Robert Capa furono tra i fotografi più importanti del novecento, molto attivi durante la Seconda guerra mondiale e nel dopoguerra. Nulla hanno a che vedere con la pittura ma i personaggi di questa storia non sono particolarmente ferrati nell'arte...
*** Opossum, per intenderci.
 

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Capitolo 37
*** 37 - Tempi duri, difficili, non di certo migliori ***


“Mi piacerebbe…essere uno struzzo, si!
Sarebbe fantastico poter infilare la testa sottoterra e fottermi di ciò che succede intorno a me…
Sarei un fottuto uccello di due metri che corre veloce come il vento…insomma, sarei un dannatissimo carro armato vivente!”

 
 

Ero sbronzo.
Davvero molto, molto sbronzo.
Abbastanza…da non essere sobrio.
Sentivo freddo, avevo bisogno di caldo, estate. Anche se eravamo a luglio, agosto…non lo so cosa fosse. Iniziavo a temere il freddo.
Non un altro inverno.
No.
Avevamo trovato degli alcolici. Una bottiglia mi era spettata di diritto, così la scolai senza troppe cerimonie in una sola boccata, avidamente, lasciando che il liquido mi scivolasse sul mento e mi macchiasse la divisa lurida che avevo indossato per la prima volta anni fa e che mai mi ero tolto.
Tanto cosa importava? Niente.
Un altro inverno no, non lo avrei sopportato.
Mi sentivo…bene? Mi sentivo un cazzo di albero, di quelli alti che sembrano resistere ad ogni intemperia. Perché tutti gli altri erano davvero piccoli.
Bassi ragazzini di…anche dodici anni! Dei giocattoli a corda. Li hanno caricati per bene e adesso tac, tac, tac, camminano dritti e fieri dal nemico e muoiono in piedi, onorevolissimi giocattoli.

 

 
“Oh, che peccato. E’ morto. Adesso ne arriverà un altro. Uguale, forse più piccolo…tac, tac, tac. Con buona pace della madre che, brava donna, dovrebbe farne un altro, uguale…uguale”
“Capitano, la smetta. È ubriaco…”

Tom mi prese per le spalle, guardandomi dritto negli occhi. Ridendo, con due dita, camminai sulle sue spalle, sulla sua testa, come se fosse un piccolo omino.
“Tac, tac, tac. KATIUSHA! Ed è morto. Secondo te succhiava ancora il latte…?”
“Capitano, non la riconosco…”


“Lei sarebbe un Capitano? Dove è finito l’onore?”
Innegabilmente, siamo una gabbia di vermi. Potremmo essere tutti solidali nella nostra infinita sfortuna, invece adoravamo farci belli con gli altri, dei novelli Ercole con la pelle di leone addosso. Pazienza. A qualcuno non piacquero i miei deliri alcolici, così passai una notte in galera, in una cantina adibita a tale, a meditare sulle mie parole oscene e sovversive che, evidentemente, avevano irritato qualcuno.
Idea molto interessante, per altro. Niente turni di guardia, potevo pisciare all’angolo come un cane e dormire sul pavimento, grattandomi le orecchie con i piedi come il pulcioso che ero diventato.
Ma. Non ero solo.
C’era un tizio. Non so chi fosse. Diceva di aver scritto un libro.
“Perché la libertà di espressione è sbagliata” si intitolava. Tre pagine, scritte da un giovanotto pagato tre marchi per la trascrizione sotto dettatura e morto ad Albareale* lasciando il manoscritto incompiuto.
Nonostante a nessuno, nemmeno agli americani, piacesse la libertà di espressione, le tre pagine vennero additate come pericolose e il suddetto scrittore venne arrestato fin quando non si sarebbe schiarito le idee. Per quanto fosse rivoluzionario, sovversivo, anarchico, sembrava possedere i due requisiti fondamentali per essere un buon soldato: un braccio sinistro e un braccio destro, entrambi muniti di mani con cinque dita ciascuna, per altro!


Iniziammo a conversare.
O meglio, quel tizio era un gran paroliere ed io troppo stanco per negargli la parola, nonostante fosse vietata dal suo scritto.
“Perché domani, Capitano mio, mi chiederanno cosa ne penso della libertà di espressione.
Ed io, con tono solenne, dirò: “La libertà d’espressione?” e mi faranno uscire, felicemente, dove morirò trafitto da un proiettile in gola. A quel punto…non sarà più importante il mio pensiero”



Ebbi del gran tempo, per riflettere.
Eravamo delle bestie, dei buoi, dei cani. Forse degli sciacalli. Quindi dormii.
Arrivarono gli inglesi. O i francesi. O i russi.
Anzi, erano proprio i russi. Con gli aerei…che volavano bassi, fischiando e bombardando.
Ma ero sotto, sotto e sotto la terra, in una cantina. E sentivo i suoni sopra di me.
Boom. Bom. BOOM!
Come al cinema! Avevo quattordici anni ed erano gli anni Trenta.
E…vedevo le figure che si muovevano. E parlavano. Per davvero! Nella mia ingenuità vidi lo stesso film due volte. Gli attori fecero le stesse cose, dissero le stesse parole.
Stessa cosa. Era un film visto troppe volte, quello degli aerei che bombardavano le cose. Tremava la cantina e la gente moriva. Non importava più cosa avessi detto, scritto e fatto. Essere un rosso bastardo che legge Tolstoj non ti salva di certo se sei nato oltre il Don. I russi queste cose mica le sanno.
Io ero qua sotto. Alla fine, avrei potuto anche battere le mani e chiedere il bis ma ops, non avevo mica pagato il biglietto per lo spettacolo.
Forse li avevano venduti tutti. E nessuno sarebbe mai tornato ad aprirci.

 

L’indomani ci liberarono.
Scoprii che non era successo assolutamente niente. Zero bombe, morti o feriti. I russi erano stati nel loro recinto a pascolare come agnelli.


“Vede, capitano Faust” disse il mio carceriere mentre, svogliatamente, rigirava una chiave nella serratura della mia cella, facendola scattare con un “click” : “Ha la fortuna di essere ancora intero, di avere due braccia e due gambe, particolari non trascurabili in guerra. Anche se ha perso qualche rotella non è importante...come sa, quando si ha sete, anche il piscio diventa vino!”

 

Mi ricongiunsi con i miei uomini.
Avevo freddo. Fottutamente freddo.
Nonostante fosse estate e le nostre maniche sporche fossero arrotolate alla meglio sopra i gomiti.
Un tempo, si parla di anni, ci trattavano con cura, come le belle bamboline con cui giocano le bambine. Avevamo un cambio estivo e uno invernale. I nostri stomaci erano pieni. Ovvio, non pieni veramente ma riuscivano ad assicurarsi almeno un pasto al giorno. Non riuscivo a pensare ad altro.
Mangiare e dormire. I bisogni umani, velocemente, sembravano assottigliarsi tragicamente fino a ridursi all’osso. Stavo diventando come il vecchio Gerste senza rendermene conto.
Quelle poche ore di sonno che riuscivo affannosamente a comporre, ripercorrevo lo stesso sogno.
Le mie mani erano artigli, la mia bocca una tenaglia affilata e correvo come il vento. Non soffrivo il freddo, nonostante ci fosse sempre la neve, nei miei sogni. Ero un agile e potente predatore.
Quando vedevo una preda, un cervo, le saltavo addosso, affondando i denti nel suo collo e gli artigli nel suo ventre, straziandola sotto il mio stesso peso. E mangiavo!
A sazietà, infilando le mie fauci in quel banchetto caldo, fetido e rosso.
Quando mi svegliavo, di soprassalto, mi rendevo conto di essere una creatura diversa.
Debole e nuda, senza canini e senza unghie, troppo goffa per acchiappare un topo, troppo lenta per stanare un coniglio. Saremmo anche bestie superiori ma la testa non funziona se la pancia è vuota. La natura, in questo senso, fa abbastanza cagare.

 

Un buon giorno era un giorno con meno di dieci chilometri persi.
I russi oramai nemmeno si preoccupavano più di cercarci. La benzina nei nostri carri si misurava in gocce e se anche di grazia fossimo riuscivi ad arretrare fino a Berlino, ci saremmo ritrovati con graziosi suppellettili rumorosi al posto dei carri armati. A maggior ragione, ai rossi, interessava prendere anche qualche prigioniero vivo come souvenir, da utilizzare come manodopera gratuita. Nel caso più fortunato sarei morto e, come ben preciso, avevo fatto, in merito, numerose prove. Altrimenti...beh, sarei morto lo stesso ma in maniera più creativa.
I miei uomini iniziavano a preoccuparsi. Sembravano persi e confusi mentre, giudicandomi da capo a piedi, mi chiedevano cosa mi turbasse.
Perfino Fiete sembrava curarsi del mio stato d’animo.


Dentro al nostro nuovo, vecchio macinino, l’odore dell’olio da motore, benzina, sudore e ferro caldo penetrava fin dentro le ossa. Nemmeno aprendo qualche sportello scampavamo alla flatulenza e alla sensazione di bollitura. Il fumo entrava dentro al cabinato condannandoci all’eterno tossire.
Tutto era...così sbagliato. Osservando l’orizzonte fischiettavo la Kalinka, sicuro che il motore avrebbe coperto quella melodia controversa.
Niente. Niente di niente.
Solo campagna bruciata e secca. Quelle poche volte che incrociavamo un ammasso di case da ispezionare, scoprivamo sempre essere state già rovesciate come calzini: i cadaveri scarnificati dei contadini nelle macerie dei fienili, grossi nidi di passeri tra i mattoni e divise verdiblu che penzolavano dai soffitti dall’operazione Barbarossa. Quando credevamo ancora che la guerra fosse una santa crociata bastava sputacchiare parlando sulle scarpe di un superiore per essere appesi.
Nessuno si sarebbe mai aspettato di tornare indietro.
In effetti, a ben pensarci, erano davvero pochi quelli che si potevano permettere il lusso di arretrare.
I più erano nuovi, giovanissimi, che davvero credevano in queste cose.
Cresciuti ed imboniti dell’idea che Gerusalemme andasse liberata, i loro piccoli occhietti giudicavano i teschi vitrei dei loro commilitoni condannati a morte, esclamando con sdegno: “ I traditori devono pagare la vigliaccheria con la vita”
Spesso, fin troppe volte, cercavo di ingoiare i sassi con la speranza di inghiottire le parole che desideravo vomitare loro addosso.
Fanculo, la razza superiore. Sono piccoli, pidocchiosi, magri e brunetti, con gli incisivi sporgenti che spesso fuoriescono dalle loro labbra, oltre i menti sottili ed efebici.
Devi essere un gran bastardo per illudere questi sacchi di carne di essere belli.
Siamo solo bestie inefficienti, tutto qua. Chissà sotto quale carena giaceva il mio orgoglio.
Il mio desiderio di vita era oramai ridotto all’istinto animale.
A volte, nei giorni più più, l’idea della diserzione mi trapassava il cuore come un proiettile.
Mandare tutto a fanculo e correre, si! Correre veloce e lasciarsi alle spalle la guerra, la fame, gli abiti stracci, toccare il terreno per correre più forte, libero dal senso del dovere, dall’orgoglio, pronto a riacquistare la mia dignità.
Pronto ad essere abbattuto al largo come un cervo.
“Che stupido che sei, Bastian” ripetevo a voce, scrollando la testa.
Devo cercare di resistere ancora un po’. Voglio tornare a casa anche se so che della mia bella Monaco non è rimasto nient’altro che cenere.
Se non per me lo devo a Stefan, che in questa guerra ci credeva per davvero. Forse...forse, per lui, è stato meglio così, morire giovane nella speranza della vittoria, che vecchio e stanco nel preludio della sconfitta.
E Alfred...probabilmente è morto anche lui. Non ho più sue notizie da tempo immemore.
Sono rimasto solo.
No...non solo. Ci sono i miei commilitoni, ancora. Se morirò, sarà con loro.
Tom, Klaus, Martin, Volker. Fratelli di armi, di sangue. Chissà quanto volte il mio si è mescolato con il loro. Non c’è niente di più intimo che condividere la morte.
E se succederà, sarà con loro, in questa vecchia carriola, trapassati a morte da un carro nemico, bruciando come fenici in attesa di una vita migliore.

 

Rinforcai gli occhiali da carrista per fare capolino fuori dal carro. Il sole era alto nel cielo, talmente caldo da rendere insopportabile la vista.
Niente di nuovo all’orizzonte. Solo grano secco e lunghe scie di terra arida e smossa da altri cingoli.
Ritirandoci lentamente tornavamo a casa.

Note:

*
Albareale: città ungherese o fronte d'Ungheria dove si svolsero diversi scontri sanguinosissimi.

Nota d'Autrice:

Lunghissima assenza, ahimè...non ho intenzione, nonostante tutto, di abbandonare questa storia.
Avrà una fine che, per altro, non è nemmeno molto lontana. Ed una revisione seria perchè, in quasi tre anni, sono cambiate tante cose.

 

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