Hope

di SagaFrirry
(/viewuser.php?uid=819857)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I cieli d'Irlanda ***
Capitolo 2: *** II- cugini d'Australia ***
Capitolo 3: *** III- Rio ***
Capitolo 4: *** IV- padre e figlia ***
Capitolo 5: *** V- la famiglia del mare ***
Capitolo 6: *** VI- segretaria ***
Capitolo 7: *** VII- Nepal ***
Capitolo 8: *** VIII- Traffico ***
Capitolo 9: *** IX- Dubai ***
Capitolo 10: *** X- sfida in mare ***
Capitolo 11: *** XI- sangue ***
Capitolo 12: *** XII- Annapurna ***
Capitolo 13: *** XIII- Croci ***
Capitolo 14: *** XIV- Volo ***
Capitolo 15: *** XV- Riunione ***



Capitolo 1
*** I cieli d'Irlanda ***


I

 

 

Kilkenny, Irlanda

 

Abbandonando Michael Street, lungo John Street Lower, una giovane soprappensiero si stava avviando verso casa. Era già calata la sera e il consueto vento d’Irlanda soffiava, gelido e costante, raffreddando l’aria. Era inverno inoltrato. Gennaio era volto al termine ed iniziava febbraio, e il Sole era tramontato da qualche ora.

Lei si soffermò su John’s Bridge, guardando l’acqua del fiume Nore ed ascoltandone il rumore. Stringeva il lungo cappotto nero con le mani e sospirava. Era in una di quelle giornate in cui provava nostalgia e sentiva in modo più forte la solitudine. Riprese il suo cammino, accelerando il passo dato il lungo tragitto che doveva ancora intraprendere per giungere a destinazione.

I suoi stivali, con un leggero tacco, producevano un rumore ritmato lungo la strada lastricata.

Si lasciò alle spalle il castello di Kilkenny e giunse all’ingresso di Abbey Street. Lì, come sempre, si ammassava l’unica folla che incontrava ogni sera sul suo cammino. Lungo la via non incrociava quasi mai qualcuno ma lì trovava sempre i clienti dei tre locali più famosi della città. Continuò a camminare tranquilla, nonostante tutti i loro sguardi. Si specchiò in una delle vetrate del Pub all’angolo e si chiese perché tutto questo interesse ad ogni suo passaggio. Non riusciva a capirlo, e nessuno in tutta Kilkenny lo capiva.

Era una ragazza normale, nella media: altezza media, nessun dettaglio particolare come gambe particolarmente lunghe o seno abbondante, vesti sobrie e mai troppo corte e nessuna abitudine degna di nota. Era una persona tranquilla, fin troppo riservata e, a suo dire, con un pessimo carattere. Quella sera, quando passò, tutti gli sguardi furono su di lei nonostante il forte vento, che aveva scompigliato i suoi lunghi capelli rossicci e dritti, e il suo sguardo scocciato. Forse era quello che attirava tutti, uomini e donne. I suoi occhi erano di uno splendido azzurro, che lei si vantava di aver ereditato dal padre. Erano di un colore così splendido da far invidia alla volta del cielo. La giovane cercava sempre di nasconderli, dietro a degli occhiali da Sole o delle lenti, ma erano così luminosi da essere quasi impossibili da celare.

Il ticchettio dei suoi stivali accompagnò il suo cammino, assieme al fruscio dei jeans, fino all’ingresso del condominio dove risiedeva, lungo Abbey Street. Era un edificio anonimo, senza niente che lo distinguesse dagli altri in schiera lì accanto. Tipicamente irlandese come architettura e impostazione aveva, all’ingresso, cinque scalini in pietra che conducevano alla porta in legno scuro, chiusa solo nelle ore notturne. Lasciandosi alle spalle gli sguardi ed i commenti, la ragazza si avviò lungo le scale. Nemmeno guardò all’ingresso se c’era qualcosa per lei nel portalettere: lei non scriveva a nessuno, nessuno scriveva a lei. E le bollette arrivavano tutte all’amministratore.

Contenta solo per il fatto di non aver preso la pioggia, giunse all’ultimo piano dove stavano due piccoli appartamenti. Non accese la luce lungo il corridoio e inserì la chiave nella serratura.

La porta non si aprì. Accadeva piuttosto spesso a causa dell’usura. Era un edificio vecchio e malandato in cui nessuno dei coinquilini aveva disponibilità economiche a sufficienza per mettere a posto qualcosa, salvo l’indispensabile. Sbuffò, spingendo la porta che scricchiolò ma non si aprì, ruotando gli occhi verso il cielo e verso la terra, non sapendo a chi di preciso dar la colpa delle sue disgrazie. Con un ghigno d’ira prese a calci l’uscio di legno, rischiando di farci un buco, finché non avvertì una presenza alle spalle. Si girò di scatto, pronta a reagire, ma si sentì dire di stare tranquilla. Era il suo vicino di pianerottolo, evidentemente uscito sul corridoio sentendo troppo rumore. Era un giovane sui venticinque anni, molto alto e coi capelli scuri.

“Tranquilla. Sono io” ridacchiò il ragazzo. “Serve una mano?” chiese, educatamente.

“No” affermò lei, convinta.

Ma lui diede un deciso strattone alla porta e questa si aprì.

“Capita anche alla mia, a volte” disse sorridendo.

Lei lo fissò, con fastidio, e fece per entrare. Ma lui la guardava, come in attesa di qualche cosa.

La ragazza rimase un attimo senza capire, poi mormorò un “Grazie” poco convinto e iniziò a chiudersi la porta alle spalle.

“Posso sapere come ti chiami? Da tanto vivi qui ma non ho mai saputo nemmeno il tuo nome” azzardò lui, continuando a mantenere sul volto un sorriso ebete.

“Ci conosciamo?” sbottò lei “Ci conosciamo, per caso, che mi dà del Tu?”.

“No…in effetti, no” ridacchiò, imbarazzato, il giovane “Appunto per questo ti chiedo come ti chiami. Così ci conosciamo e posso darti del Tu”.

Lei rimase in silenzio.

“Io sono Andres. Piacere. Tu?”.

Altro silenzio. Lei notò la sciarpa bianca che lui portava nonostante fosse in casa.

“Hope. Mi chiamo Hope” rispose lei, dopo un po’, con un tono piatto e infastidito.

 Era sempre sconcertata davanti alle persone che danno tanta confidenza a perfetti estranei.

“Piacere Hope! Che splendido nome!”.

“Sì, sì” tagliò corto la ragazza “Ora scusatemi ma dovrei mettermi in contatto con mia cugina”. “Cugina? Allora hai dei parenti…”.

“Ovvio! Potete lasciarmi entrare e vivere la mia vita?”.

“È che mai nessuno ti è mai venuto a trovare. Non ti arriva posta, non hai mai ospiti. Nessun amico, nessun fratello o genitore…”.

“Sono forse affari Vostri?”.

Lei stava perdendo la pazienza. Il giovane allora si arrese. Salutò con un poco formale “Ciao”.

“In realtà, mio vicino di pianerottolo, io sono una killer e devo celare la mia vera identità e nessuno sa esattamente dove abito”.

Ci furono parecchi secondi di silenzio assoluto. Poi Hope si mise ridere, mostrando uno splendido sorriso, e rassicurò il suo vicino dicendogli che era uno scherzo. Rientrò in casa lasciando Andres solo, lungo il corridoio, non molto convinto che fosse tutto uno scherzo.

Hope sbatté la porta. Che fastidio quando qualcuno si intrometteva nella sua vita!

Non accese la luce della cucina, che fungeva anche da salotto, sapendo benissimo che non si sarebbe accesa mai, dato che era fulminata da giorni. Spalancò la finestra, salutando educatamente i piccioni, per far entrare un po’ d’aria. Notò quanta polvere ci fosse in quella stanza ma ignorò temporaneamente la cosa. Non era un grande sforzo pulirla tutta. Casa sua era carina ma piccola. Troppo piccola. Insufficiente per la grande quantità di oggetti che possedeva.

Scavalcò una pila di libri e andò in camera. Si stese sul letto e accese il computer portatile.

Sua cugina le aveva inviato un messaggio sul cellulare quella mattina, avvertendola che le avrebbe spedito una e-mail. Hope conosceva bene sua cugina e sapeva che, se la cercava, era solo per chiederle qualche cosa, tipo un favore o un prestito.

Mentre il piccolo portatile si avviava, lei volse lo sguardo al soffitto, dove notò un alone d’umidità in uno degli angoli. Colpa dei lavori, troppo a lungo rimandati, che necessitava il tetto. Lei aveva la sfortuna di abitare all’ultimo piano e tutto il condominio voleva accollare a lei, e al suo compagno di corridoio, tutte le spese. Ma lei non ne aveva nessuna intenzione, anche perché non stava mai troppo tempo nello stesso posto e quindi, probabilmente, presto avrebbe cambiato domicilio lasciando nell’appartamento solo gli oggetti che non poteva portare con sé. Non era un problema pagare l’affitto per quattro o cinque appartamenti in cui tornare, di tanto in tanto, nel caso le servisse qualcosa che si era lasciata indietro. Il suo sogno era comprarsi una bella casa grande ma al momento non aveva trovato il luogo adatto. Rifletté sulla possibilità di lasciare Kilkenny, pur amandola molto, e di spostare un po’ delle sue cose dove si trovava ora. Spostarle dal suo loft in affitto a Londra, città troppo caotica per i suoi gusti, fino a lì. Così facendo si sarebbe liberata dall’affitto mensile più costoso.

Sospirò pensando al fatto che apparteneva ad una della famiglie più importanti del Mondo, se non la più importante, ed era costretta a quel tipo di vita.

Lasciò che il computer si connettesse ed entrò nella sua casella di posta. C’era un messaggio solo, come si era aspettata, di sua cugina. Lo aprì e lo lesse attentamente.

Si alzò e si mise a fare le valige, pur non avendo tante cose indispensabili da portarsi dietro. Sua cugina le aveva dato il pretesto definitivo per lasciare Kilkenny. Un rapido giro su Internet per prenotare il viaggio e poi spense il Pc. Faceva parte delle cose indispensabili.

Era un po’ delusa. Non riceveva mai notizie dai parenti se non in caso di bisogno ed era certa, per comprovata esperienza, che se fosse stata lei quella a necessitare aiuto non ne avrebbe ricevuto.

Pensò di contattare per telefono la mittente del messaggio ma calcolò rapidamente il fuso orario e decise di lasciar perdere. Laggiù era quasi l’alba e di sicuro non le avrebbe risposto. Provò allora a cercare qualche altro consanguineo.

Afferrò il cellulare, piccolino e senza suoneria, al quale giungevano principalmente solo messaggi di pubblicità o d’avviso che da troppo tempo non ricaricava.

Per primo chiamò suo padre. Ma, ovviamente, una vocetta metallica e pre-registrata le comunicò che l’utente da lei richiesto non era al momento disponibile. Inutile lasciare un messaggio in segreteria perché tanto lui non li ascoltava mai. Altrettanto inutile era mandargli un sms perché al padre bastava leggere il suo nome per non rispondere. Probabilmente nemmeno li apriva i suoi messaggi! Probabilmente l’aveva salvata come “rompina” o cose simili. Probabilmente non pensava mai a lei. Probabilmente. Odiava le probabilità!

L’unico modo per parlarci era iscriversi con falso nome a qualche chat ed andarlo a cercare. Ma dopo un po’ capiva il trucco e toglieva la connessione.

Provò allora a chiamare l’altro suo cugino, attualmente in America, che però lasciò squillare il telefono a vuoto. Esasperata, Hope infilò l’apparecchio in tasca e finì di preparare le valigie.

Non provò nemmeno a contattare suo fratello perché attualmente si trovava in Nepal, fra le montagne più alte del Mondo, in cerca di pace ed illuminazione mistica, senza nessun contatto con l’esterno. Da tantissimo non aveva sue notizie e lei aveva la certezza che tutte quelle balle sul fatto che i gemelli fossero in costante contatto non avevano alcun fondamento. Non aveva proprio idea di che combinasse il suo gemello lassù, ai confini con l’India, in mezzo al nulla, e se stesse bene. Trovava divertente che proprio lui, il pupillo e figlio preferito di papà, avesse deciso di vivere in quel modo. Lo trovava ironico. A quanto pare il bambino perfetto che il padre tanto amava non sarebbe mai diventato come il genitore aveva sempre desiderato.

“Chissà cosa direbbe la mamma sapendo tutto questo” si chiese la giovane “Chissà cosa direbbe la mamma sapendo che il suo bambino sta in mezzo al nulla in cerca di se stesso e cresce così diverso dal padre”.

Se effettivamente era “diverso” il termine da usare…

Ma non avrebbe mai potuto sapere i pensieri della madre. Sua madre non c’era più. Era morta. Anche se suo padre non si rassegnava e continuava a cercarla, ritrovandola in qualche volto sconosciuto ed estraneo, che nulla aveva a che fare con la sua consorte, non l’avrebbe più incontrata.

Hope era arrabbiata. Anche lei avrebbe voluto sparire nel nulla come il fratello, ma il suo modo di pensare la spingeva a tentare di mantenere vagamente unita la famiglia. Doveva raggiungere la cugina dall’altra parte del Globo per aiutarla. Suo padre, lo zio di Hope, aveva seri problemi di salute e quindi le due parenti avevano deciso di incontrarsi in cerca di sostegno.

“Ma non sarebbe stato meglio il sostegno di tutta la famiglia?” si chiese la giovane di Kilkenny. Sapeva che era impossibile. Da molto, moltissimo tempo, la famiglia non si riuniva.

Nella maggior parte dei casi Hope non aveva insistito ma QUEL caso era diverso. Era decisa, nell’eventualità che suo zio stesse davvero male, di ricercare, scovare e riunire tutti i parenti sparsi e menefreghisti, pur sapendo quanto difficile sarebbe stato!

Strinse i denti, legò i capelli a riflessi rossi per proteggerli dal vento, infilò il cappotto nero, gli stivali e partì. Con una valigetta piccola e poco ingombrante si avviò verso la stazione dei treni.

Da lì sarebbe arrivata in poco tempo a Dublino, all’aeroporto. Senza voltarsi indietro, pur conservando la solita, bruciante, sensazione nostalgica, lasciò Kilkenny per arrivare in Australia.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** II- cugini d'Australia ***


II

 

Isola di Lord Howe, Australia

 

Hope non aveva mia amato viaggiare in aereo ma per giungere fino dall’Irlanda fino all’Australia in fretta non c’erano molte altre alternative.

Giunse a Sidney con le prime luci dell’alba e da lì si fece venire a prendere dalla cugina con una piccola imbarcazione. Aveva calcolato la stagione invertita ma si ritrovò comunque un po’ spiazzata dal caldo opprimente dell’estate inoltrata australe. 

La cugina fu lieta di rivederla e le due si salutarono con entusiasmo. Con la piccola valigia al fianco, Hope attraverso il piccolo tratto d’Oceano che ancora la separavano dalla meta. Decise, passandoci sopra con la barca, che sarebbe poi ripassata per lì per poter ammirare meglio la barriera corallina. Sorrise alla cugina, in costume da bagno argentato.

Loro due non avevano nulla in comune. Hope era pallida e dai capelli rossi e dritti mentre Umy, la cugina, aveva la pelle nera e i capelli blu oltremare, pieni di onde e ricci. Nemmeno gli occhi le facevano assomigliare. Hope aveva gli occhi azzurri, Umy di un bel verde che ricordava le profondità del mare. Inoltre Umy era alta, più di un metro e ottanta, e aveva un fisico molto più femminile di Hope. Aveva un seno piuttosto abbondante anche se, in Hope, si notava di più la linea fra vita e fianchi. Aveva gambe lunghe, caviglie affusolate, un bel viso da pantera adornato con due occhi da gatta. Quello era un corpo da ammirare, constatò Hope. Si chiese che reazione avrebbero avuto i suoi “ammiratori” di Kilkenny nel vedere una donna come sua cugina passare davanti al loro Pub.

“Spero tu abbia portato il costume, Hope!” ridacchiò Umy.

“Sinceramente no. Non l’ho considerata una visita di piacere alla partenza da casa. Vuoi portarmi a nuotare? Lui è qui?”.

“Lui chi? Papà? No. È appena partito con mamma. L’ha portato in un posto più tranquillo. Ti ho chiamato qui per parlare con il mio fratellino e fargli fare qualcosa. Non trovi che sarebbe bello avere la famiglia unita ogni tanto? Ma mio fratello non sa far altro che divertirsi in spiaggia tutto il giorno. Io sono arrivata da pochi giorni qui ma non l’ho mai visto fare altro…”.

“L’ultima volta che ci siamo sentite eri a Città del Capo, giusto?”.

“Sì. Ma poi Ocean mi ha chiamato dicendo che papà non stava bene e così sono venuta qui. Ma al mio arrivo papà e mamma si erano già spostati. Credo che il mio adorato fratellino mi abbia chiamato solo perché da solo non è in grado di restare e senza la mammina si sente perso…”.

“Ma non vive da solo?”.

“Sì. E da un sacco di tempo ormai. Ma comunque vive in una casetta accanto a quella dove stavano mamma e papà. A portata di voce, si può dire…”.

Hope sorrise. Pensò a suo fratello nel bel mezzo del nulla senza niente e senza nessuno e questo gli diede la conferma che in famiglia neanche uno aveva più di tanto in comune con qualcun altro.

Le due cugine giunsero a destinazione ed entrambe scesero dalla barchetta, che Umy assicurò con una cima. Assieme si avviarono verso una piccola casetta sulla spiaggia.

Dall’esterno sembrava graziosa, con il tetto in foglie di palma e le pareti di bambù o qualcosa del genere. All’interno Hope notò subito che aveva proprio un’aria da casa da single: era disordinata, sporca e piena di cose inutili. Un vero caos.

“Ti chiedo scusa per il disordine” disse Umy “Ma, come ti ho detto, sono giunta da poco qui e non ho avuto modo di pulire il porcile che lascia dietro di sé quel maiale di Ocean!”.

“Tranquilla…non c’è problema!” sorrise Hope, schivando un calzino spalmato sul pavimento.

“Per quanto ti tratterai?”.

“Non credevo per molto. Specie ora che so che lo zio non è qui”.

“Ho sistemato la camera. Vieni…te la mostro”.

Hope annuì e segui la cugina. Le due giovani entrarono in una piccola stanza, divisa a metà da una tendina, una specie di zanzariera verde chiaro.

“Questa è la nostra metà” spiego Umy. “Ho diviso la camera di Ocean. Non è comodissima ma noi donne sapremo arrangiarci, vero?” sfoderò un sorriso d’avorio e Hope rispose, poco convinta, con un cenno del capo.

Dividere un letto singolo in due non era mai stato il suo sogno. Inoltre un inquietante mascherone da stregone aborigeno la fissava, appeso alla parete.

Appoggiò la valigia a terra e Umy la incoraggio a venire in spiaggia in costume.

“Ti presto il mio! Vedrai che ti andrà benissimo!” propose.

Hope storse il naso con un ghigno. Di sicuro non avevano la stessa taglia.

La cugina allora, capito il suo pensiero, le propose di andare a comprarne uno, ma Hope rifiutò l’offerta. Voleva rimanere pallida come sempre e scottarsi non era mai stata una sua priorità.

La cugina, con un alzata di spalle, si arrese alla sua volontà e assieme andarono verso la spiaggia.

Vivevano su un’isola piuttosto piccola e bastava uscire di casa per essere vicino alla riva dell’Oceano. Umy però condusse Hope in un altro punto del lido, dove aveva piantato l’ombrellone. Le due si sedettero, Hope all’ombra e Umy al Sole, e guardarono le onde. Al largo si poteva vedere Ocean che faceva surf, gridando di gioia ad ogni cavallone. Umy cominciò ad agitare le braccia e fargli dei cenni per farlo tornare a riva.

“Ocean!! Fratellino! Vieni! È arrivata Hope!” urlava.

Ocean girò gli occhi ma ignorò a lungo la sorella, continuando a fare lo stupido, e Umy si arrabbiò.

Un’onda particolarmente alta prese alla sprovvista Ocean che si ribaltò e finì sott’acqua. Ci rimase per parecchio tempo. I turisti si spaventarono e allungarono in collo verso il mare in cerca di quel povero ragazzo mentre la gente del posto rimase ferma e tranquillo: erano abituati ai lunghi tempi di apnea di Ocean. I più anziani raccontavano a tutti che su quell’isola c’era sempre stato un giovane in grado di rimanere nelle profondità dell’Oceano più a lungo di chiunque altro.

Dopo qualche minuto, Ocean riemerse. Lentamente. Prima gli occhi, poi la punta del naso, la bocca e poi via, via il resto. Con la tavola da surf sottobraccio andò verso la sorella, che gli diede dell’idiota.

“Ciao Hope!” salutò Ocean.

“Ciao Ocean” rispose Hope.

Ocean era alto esattamente come la sorella anche se l’unica cosa che avevano in comune erano gli occhi; entrambi avevano gli occhi verdi. Ocean era biondo e riccio. Quando era in spiaggia teneva i capelli legati creando un piccolo codino. Con tutte le ore passate al Sole era molto abbronzato e grazie al surf aveva un fisico atletico, che molte donne e ragazze avevano avuto modo di notare al loro passaggio.

Hope ridacchiò osservando il suo costume verde a tartarughine. Lui sorrise e le mostrò con orgoglio l’ennesimo tatuaggio, fatto di fresco, sul polpaccio destro.

“Cosa ne pensi, cugina? Ti piace?”.

Era una sirena su uno scoglio.

“Carino” ammise Hope.

“Qual buon vento ti porta da queste parti, piccola pazza?”.

 “Inguaribile pazza, mi ha definito Baudelaire in una poesia. Comunque sono qui perché mi era stato detto che vostro padre stava male e quindi volevo dare una mano, fare qualcosa. Ma dato che lo zio non è qui, dovrò trovare un altro modo per rendermi utile…”.

“Mamma lo ha portato nell’Isola di Kai, in Indonesia. Dice che là sta più tranquillo”.

“E voi due non li volete raggiungere?”.

“No. Sono stati loro ad andar via. Potevano restare qui e li avremmo aiutati!”.

Nel tono di voce di Ocean si notava tutto il suo disappunto e il suo fastidio.

Anche Umy era contrariata, specie dopo il viaggio che aveva affrontato dal Sud Africa per giungere fino lì.

Hope li guardò con rimprovero.

“Non dovreste comportarvi così” iniziò ad ammonirli “In fondo sono i vostri genitori e fino a poco tempo fa avevano frequenti contatti con voi. Ora probabilmente vostra madre ha deciso di trovare un posto più tranquillo per suo marito che non sta bene, ma non per questo dovete ignorarli!”.

“Io sono giunta fin qui per loro” protestò Umy “Se restavano, io aiutavo!”.

“Perché non li raggiungete? Probabilmente voglio solo questo…”.

“E tu perché non vai da tuo padre?” sibilò Ocean.

Hope rimase in silenzio, accigliandosi, e sbuffò.

“Io cerco sempre di mettermi in contatto con lui!” tentò di giustificarsi “Ma lui preferisce parlare al computer con degli sconosciuti e, soprattutto, aspetta che il suo adorato figlio maschio lo chiami e gli stia vicino”.

“E lui dov’è? Dov’è tuo fratello?” volle sapere Ocean.

“Hai presente l’Annapurna?” sibilò Hope.

“Ma tuo padre non ha dei problemi…non ha bisogno di nessuno” azzardò Umy.

“Sicura? L’ultima volta che ha risposto ad una mia chiamata stava cantando "Jerusalem" e ora vive in Città del Vaticano…sicura che stia bene? Per me mica tanto…”.

Ocean scoppiò a ridere.

“Tuo padre a Città del Vaticano?!” iniziò, continuando a ridere “Lo zio che vive accanto al papa?! QUELLO zio che vive accanto al papa?! Ha avuto un improvviso attacco mistico? E tuo fratello?! Che ci và a fare su un monte di più di 8000 metri?! Hai ragione! Ci sono davvero dei problemi in questa famiglia!”.

“Non sarebbe bello porvi un rimedio?” parlò Hope, guardando il vuoto dell’orizzonte.

“Forse hanno entrambi reagito in questo modo così strano dopo la morte di tua madre…” ipotizzò Umy, con aria triste “Immagino che non sia facile né per tuo fratello né per tuo padre”.

“Neanche per me è facile ma non do di matto!” ribatté Hope.

“Forse tu hai un carattere più forte…”.

“Più forte di mio padre?! Ocean! È di mio padre che stiamo parlando! Hai forse dimenticato ciò che ha fatto in passato?! O devo raccontarti tutta la storia?!”:

“La conosco la storia, Hope. Ma ho sempre pensato che tuo padre, nel profondo, fosse fragile e solo. In tua madre vedeva un’ancora. Una persona speciale in grado di capirlo. Con la sua morte, non sa a chi rivolgersi per essere compreso”.

“A me! Può rivolgersi a me!” si lamentò Hope “Ma non lo fa mai! Per lui esiste solo il suo prezioso figlio maschio, destinato a grandi cose. Io sono inutile e non programmata, secondo il suo punto di vista. Se mi chiamasse io lo ascolterei, se mi rispondesse io lo sosterrei. Ma non esisto per lui. Credetemi se dico che faccio del mio meglio…”.

“Ti crediamo” disse Umy.

“Forse una soluzione c’è…per entrambe le cose…” iniziò Ocean, con aria meditabonda “Ricapitoliamo: tu, Hope, vuoi riunire la famiglia e sei preoccupata per tuo padre. Noi siamo preoccupati per il nostro e vorremmo veramente un sostegno collettivo. Forse lo zio ci può aiutare…”.

“Quale zio?”.

“L’unico che non ha problemi, almeno all’apparenza. Lo Zio con la Z maiuscola! Quello che si esalta ti essere al di sopra di tutto. Dato che, se da lui parte un ordine, tutta la famiglia è riunita, credo sia la cosa più giusta andare a parlarci. Convinciamo tutti a ritrovarci nello stesso punto. Tutti quanti. Una volta tutti assieme sono sicuro che una soluzione almeno a qualcosa si trova”.

“Sono d’accordo Ocean, ma c’è un problema…io non so dove si trovi lo zio adesso” ammise Hope.

“Ma io so dove sta Kriss, suo figlio!” esclamò Ocean.

“Quello è facile. È da anni ormai che passa tutto febbraio a Rio de Janeiro per guardar le sfilate di carnevale…” ridacchiò Umy.

“E dopo siamo noi quelli con i problemi…spero che almeno lo zio sano che ci resta non si sia dato alla droga, all’alcol, agli spogliarelli di gruppo o ad altre cose strane!” rise Hope.

“Se voi siete d’accordo io vorrei fare un tentativo. Dividiamoci. Tu, Hope, và da tuo padre e prova a convincerlo a venir da noi in Indonesia…”.

Hope annuì, pur poco convinta.

Ocean continuò “…io andrò da Kriss. So dove abita e so come convincerlo, almeno credo! Quando mi avrà detto dove si trova suo padre, decideremo chi andrà da lui a parlarci. Tu, sorellina, potresti andare dalla mamma per aiutarla. Sono sicuro che lo gradirà”.

Umy fece un cenno. E si dimostrò disponibile a raggiungere i genitori.

“Ad ogni modo lo scopo finale di tutto questo sarà ritrovarci tutti assieme in Indonesia. Anche se non ho una gran voglia di farlo, sono piuttosto preoccupato per il fatto che stiamo dando tutti i numeri!” concluse Ocean, con l’aria seria e altezzosa di chi è convinto di essere il solo in grado di salvare la situazione e risolvere i problemi.

Hope sorrise. Era esattamente la soluzione a cui sperava di arrivare. Tranne per il fatto di dover andare a cercare suo padre in quello strano posto in centro Italia.

Disse di dover andare a casa a prenotare il biglietto d’aereo.

“Perché prendi l’aereo, cugina?” domandò Ocean.

“Hai un alternativa migliore?” sorrise lei.

“Vola! Sei la Speranza…vola! Senza strani aggeggi rumorosi”.

I due scoppiarono a ridere.

“Ricordati che è inverno in Italia. Fa freddo!” le ricordò Umy.

“Lo so! Vengo dall’Irlanda dove, credetemi, fa molto più freddo!”.

“Non ti preoccupare più di tanto, cuginetta Hope! Ricorda che la speranza è l’ultima a morire!”.

“Ma prima o poi muore, Ocean!” sorrise Hope, alzandosi da sotto l’ombrellone.

I tre si allontanarono dalla riva e tornarono in casa.

“Peccato cuginetta. Sei appena arrivata e già devi ripartire. Peccato. Ti avrei portato a fare un giro. Un’immersione o magari una gita nell’entroterra Australiano, fra canguri, Koala e conigli, tanti conigli morbidi e fucilabili. Sì, insomma, capisci quello che intendo”.

“Sarà per la prossima volta cugino. Ho tutta la vita davanti!”

“Che ore sono in Brasile?” domandò Ocean, guardando l’orologio appeso alla parete a forma di armadillo con un piccolo coccodrillo verde come lancetta dei secondi “Posso chiamare Kriss o dorme?” si chiese, dubbioso.

“Tanto non risponde mai” gli fece notare la sorella “Ha la testa sempre fra le nuvole!”.

“Confermo” mormorò Hope.

Ocean ripose il cellulare rassegnato e cominciò a cercare qualcosa di pulito fra la marea di vestiti sparsi sul pavimento della casa. Mise una camicia a fiori e dei pantaloncini blu.

Hope costatò che non serviva disfare le valigie. Si chiese se sarebbe mai riuscita a dormire ma poi arrivò alla conclusione che per un giorno poteva anche farne a meno.

Umy era quella che avrebbe dovuto affrontare il viaggio più breve e quindi era di buon umore e rilassata. Preparò la valigia con estrema calma.

Ocean odiava l’aereo e quindi era più nervoso all’idea di dover affrontare tante ore di volo per poi cercare un cugino che chissà dove stava con la testa. Ma ormai era deciso. Si chiese se, magari, chiedendo ai delfini, avrebbe evitato inutili controlli antiterrorismo e simili amenità da aeroporto. Si consolò pensando alle belle ragazze di Rio. Chissà…magari Kriss ne conosceva qualcuna da presentargli!

Uscendo, Ocean salutò il suo dingo, più selvatico che domestico come animale, e che quindi non avrebbe sofferto per la mancanza del ragazzo. Gli raccomandò di far la guardia alla casa ma la sorella scoppiò a ridere dicendo che tanto non c’era pericolo: non c’era niente da rubare salvo cretinate di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Ocean si offese. Lui adorava ogni sua singola cretinata e gli sarebbe dispiaciuto separarsene!

Partirono, chi con entusiasmo e chi meno, e si separarono con la promessa di rincontrarsi il più presto possibile, e questa volta con la famiglia al completo.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** III- Rio ***


III

 

Rio de Janeiro, Brasile

 

Ocean odiava i viaggi in aereo. Detestava alzare in ogni modo i piedi da terra, salvo per restare sospeso fra le onde. Per questo preferì un più lungo, ma meno stressante a suo dire, viaggio in nave. Con il favore di un suo amico di vecchia data, con residenza a Sidney, poté partire immediatamente e, data al velocità dei mezzi moderni, arrivò in tempi relativamente brevi. L’amico gli fece notare che in aereo ci avrebbe messo attorno alle tre ore, se non di meno, risparmiando tempo, ma Ocean gli ricordò il tempo buttato al controllo bagagli e alle inutili trafile burocratiche aeroportuali.

Così la ebbe vinta ed arrivò a Rio de Janeiro prima del tramonto, come si era augurato.

Con il mese di febbraio la città diveniva meta molto ambita dai turisti di tutto il Mondo, tanta gente e tanti stranieri si accalcavano per le strade.

Ocean provò, invano, a contattare il cugino. Perlomeno avrebbe avuto la certezza di un posto letto grazie a lui…forse.

La capitale era immensa ma Ocean sapeva dove alloggiava solitamente il parente e si diresse là, sperando di trovarlo in casa. Si guardò attorno, lasciandosi distrarre dalle belle brasiliane e dall’allegria della gente in festa. Stava calando la sera e tutti si riversavano per le vie, sfruttando le ore fresche ed approfittandone per far baldoria.

Il giovane si fermò in un piccolo locale sulla spiaggia e si fece un aperitivo in completo relax. Da lì poteva osservare agevolmente la finestra dell’appartamento del cugino. Notando la luce spenta decise che era inutile salire quel grattacielo per poi tornar giù causa assenza del consanguineo. In realtà aveva più voglia di osservar fondoschiena locali piuttosto che ascoltar la solita depressione del cugino. Cominciò a ballare felice, lasciando in un angolo la valigia e andando a mettersi il costume da bagno in una cabina. Fece subito amicizia con alcune ragazze e si sentì molto meglio quando si ritrovò con i piedi nell’acqua del mare.

Il Sole tramontò velocemente e venne la sera, il buio calò in fretta e vennero accesi dei fuochi e delle torce per illuminare la spiaggia.

Dopo un paio di ore di bagordi si sentì chiamare per nome.

“Ocean? Sei tu?”.

“E tu chi sei, straniero?” rispose l’interrogato, non molto lucido data la notevole quantità d’alcol che aveva ingerito.

“Sono Kriss” rispose l’altro, a braccia incrociate e lo sguardo di rimprovero.

“Impossibile! Mio cugino Kriss ha la barba e i capelli lunghi. Fila via, ragazzino!”.

Kriss lo prese per il braccio e, gentilmente, lo spinse in mare con la faccia. Ocean si scosse.

“Sei proprio tu! Sei il mio cuginetto Kriss! Ma…cosa ti è successo? I capelli…la barba…il tuo solito look…”. 

“I tempi cambiano, cugino. Ci si deve adattare”.

Colui che Ocean aveva di fronte aveva i capelli dritti, si vedeva subito però che non erano lisci naturali ma drizzati con la piastra, e gli occhi scuri, molto grandi. Aveva un’appena accennata barbetta che gli dava qualche anno in più. Sbuffando, scostò il ciuffo che gli copriva parte del viso e sorrise al parente che lo fissava con stupore.

“Kriss…che fine hanno fatto i tuoi capelli mossi? Lunghi fino alle spalle? Che razza di taglio è mai questo? Non sarai mica Emo…tutto ma non questo! Ti prego! Qualsiasi cosa, anche un assassino, ma non un Emo!”.

Kriss sbuffò ancora.

“Non sono Emo, idiota. Ma mi piace questo taglio di capelli. E ho sempre le mie ragioni per essere perennemente depresso”.

Aveva una maglia azzurro cielo con la scritta “El Espìritu Santo es mi amigo” e dei pantaloni a fiori in tinta. Non aveva l’abbigliamento di chi voleva tagliarsi le vene o era depresso.

“Cosa vuoi, Ocean?” domandò sospettoso.

“Come?! Uno non può far visita al suo adorato cuginetto piccolo senza motivo?”

“Sì. Ma tu non sei il tipo da far una visita senza motivo. Avanti…che cosa vuoi?”.

Ocean sospirò. Si alzò dall’acqua in cui era rimasto seduto, lasciando la possibilità al parente di guardarlo dall’alto in basso per una volta, e gli andò vicino.

“Ti devo parlare, Kriss. È una cosa importante”.

“Ok. Saliamo al mio appartamento. Ti và una pizza?”.

“La pizza Americana è disgustosa…”.

 “Hai ragione. Meglio qualcos’altro…panino al volo?”.

“Vivi di fast food e non sei grasso come un porcello?! Beato te…”.

“Lassù, mio caro Ocean, qualcuno mi ama!”.

I due si misero a ridere, lasciando la spiaggia e avviandosi verso i grattacieli adiacenti.

Ocean adorava quei quartieri. Vie di lusso, per turisti, non la bettola in cui viveva. In fin dei conti preferiva la sua casetta in riva al mare, ma una volta ogni tanto era bello sfruttare l’edonismo del cugino. Era un ragazzo piuttosto strano. Sempre pronto ad aiutare il prossimo, sempre preoccupato per gli altri ma anche sempre pieno di soldi, forniti dal generosissimo padre che compensava la sua assenza con il denaro. Kriss non ci teneva a nasconderlo e viveva nel lusso, ignorando il fatto che voleva abolire la povertà nel Mondo.

Più che un appartamento, l’alloggio di Kriss sembrava un albergo. All’ingresso due uomini sulla trentina si inchinarono e salutarono con un educato “buonasera” ed un sorriso stampato, falso.

Kriss li salutò con la mano e si avviò verso l’ascensore.

“Dai, Kriss! L’ascensore?! Magro come sei dovresti fare un po’ di movimento. Sei gracilino…”. “Ma fatti una buona dose di fatti tuoi, Ocean!” ridacchiò Kriss “Se vuoi puoi fare le scale. Sono 33 piani…”.

Ocean non titubò oltre ed entrò in ascensore con il cugino. Era uno dei quei modelli di lusso, con il velluto rosso e l’aria condizionata, la radio e le luci per la cromo terapia.

“Che tante cazzate che ci sono qui dentro. Manca solo il frigobar!” costatò Ocean.

Kriss sorrise.

“Non sono, come meglio preferisco dire, "cavolate". Ma simpatici orpelli che allietano la salita”.

Si illuminò il numero 33 sul piccolo schermo digitale, avvertimento dell’arrivo al piano designato. Si aprirono le porte e i due scesero.

“Prego, Ocean. Da questa parte!”.

Kriss fece strada e lo condusse alla porta. Aveva la chiave elettronica e la porta si aprì con uno scatto metallico ed un simpatico rumorino elettronico.

“Vuoi una birra?” domandò il padrone di casa.

“Magari…da quando ti dai all’alcol? Non eri tu quello tutto perfettino e puro?”.

“Non sono un alcolizzato. Ma mi piace farmi una birretta mentre guardo i Chicago Bulls per la televisione. Sai…ho lo schermo al plasma…”.

“Sei cambiato, Kriss”.

 “Tutti cambiamo. Nostro cugino è andato in Nepal…”.

“L’hai saputo…”.

“Se sei venuto fin qui per dirmi quello, mi dispiace farti notare che lo so già”.

“Non è per questo. Certo mi sarebbe piaciuto fartelo sapere in anteprima…”

“Peccato. Mettiti comodo. Scegliti un pouf”.

Ocean si guardò attorno. C’era ben poco di normale in quell’appartamento. Al posto delle poltrone e delle sedie c’erano dei pouf dai colori imbarazzanti e dei cuscini giganti, sgargianti. Alle pareti quadri con effetti ottici e immagini sacre di varia natura, con aureole in glitter dorato e sorrisi ebeti. Candele ed incensi spenti erano ovunque, anche sul pavimento. La carta da parati era di vari colori, incompatibili tra loro, con disegni arricciati e incomprensibili. Le finestre erano in stile antico, in legno decorato, e il camino era una piacevole visione. I mobili non avevano nulla a che fare con il resto dell’appartamento, salvo per il fatto che avevano lo stesso colore dei pouf: allucinante. Erano in plastica colorata, trasparente, e dalle forme anormali. Su di essi stavano gli oggetti più diversi ed inutili, da un uccellino in vetro che beveva dal bicchiere al finto acquario che riproduceva il nuotare dei pesci con un nastro a ciclo continuo.

“Sai che i tuoi gusti fanno schifo?” affermò Ocean, storcendo il naso.

“Ha parlato quello che colleziona maschere tribali…”.

“Le mie sono maschere! Queste sono…come posso dire…”.

“Non lo dire e siediti!”.

“Sul pouf rosa shocking o su quello verde schifo?”.

“Per terra, se ti fanno tanto ribrezzo i miei bellissimi pouf!”

Ocean non disse altro e sedette, birra alla mano, su un cuscino giallo.

“Allora, Ocean…di cosa dovevi parlarmi?”.

“Mi manda Hope…” iniziò Ocean, dopo qualche sorso della bionda in bottiglia.

Kriss storse il naso sentendo quel nome. Sedette a sua volta e si versò del vino rosso.

“Vino americano, cugino?” si schifò l’australiano.

“Macché! Ho gusti decenti io!” cominciò Kriss. Notò lo sguardo perplesso del parente ed aggiunse “ Perlomeno nel bere…”.

Ridacchiarono e venne mostrata la bottiglia. Vino italiano di prima scelta. Un patrimonio speso ad ogni sorso. Ma ne valeva la pena, si dissero.

“Te lo manda lo zio dall’Italia?” si informò Ocean.

“No. Perché? Lo zio è in Italia?! E non mi ha detto niente?! Risparmierei un po’ se me lo mandasse lui…vabbé…torniamo a noi…dicevi che Hope ti ha mandato qui…”.

“Veramente è stata un’idea comune. Sai che mio padre sta male. Vorremmo riunire la famiglia”.

“Per stare al suo capezzale?”.

“Per questo e per altro Kriss. Avanti…non dirmi che non ti sei accorto di come la nostra famiglia si è ridotta! Una volta era tutto diverso. Vorremmo ritrovarci tutti assieme, come ai bei vecchi tempi, e discuterne. Magari possiamo aiutarci a vicenda…”.

“Io non ho bisogno di aiuto!”.

“Kriss! Andiamo! Non sono stupido! Ricordo com’eri un tempo e vedo come sei ora! Non sei te stesso! Nemmeno un po’! Come non è più se stesso lo zio che sta a Città del Vaticano e nostro cugino che da anni è in Nepal in cerca di chissà che cosa! Poi mio padre malato…”.

“Io sto bene!” affermò Kriss, incrociando le braccia ed imbronciandosi “E poi ci sono membri della famiglia che non ci tengo a rivedere…”

“So che fra te e la famiglia di Hope non è mai corso buon sangue ma…”.

“Ma niente! Che vuoi che mi importi se sono tutti impazziti?!”.

“Veramente siamo preoccupati anche per te…capisco che per tutta la tua vita non hai fatto altro che cercare di essere l’opposto del cugino non presente, ma ora esageri! Solo perché lui cerca una via più mistica di quella che ha seguito fino alla morte della madre, non serve che ora tu vada a donne e ti dia agli alcolici ed alla ricchezza, che hai sempre considerato inutile!”.

“Chi sei tu per dirmi questo? Non pensi che forse sei tu quello sbagliato, Ocean? Passi le tue giornate facendo surf e rimorchiando turiste. Ti consideri meglio di me, facendo questo?”.

“Io sono sempre stato così! Cosa direbbe tuo padre se sapesse che combini?!”.

Kriss scoppiò a ridere.

“Mio padre?! Scherzi, vero, Ocean?! Hai idea di dove sia mio padre ora? È a Dubai, negli Emirati Arabi! In cima al grattacielo più alto del Mondo, in attesa che sia completato quello nel Kuwait. È fra gli sceicchi ed i signori del petrolio, vicino alla guerra eterna. Ricco e circondato da poveri. Credi veramente che mi riproverebbe se sapesse come vivo qui e come agisco nella mia vita?”.

“Sinceramente non mi importa.Volevo solo sapere dove si trova tuo padre. Non me lo avresti mai detto se non in questo modo”.

Kriss lo guardò male e trattenne il suo fastidio, mordendosi il labbro inferiore.

“Sei venuto fino qui per sapere dove si trova mio padre?” sibilò.

“Sì. Perché so che è l’unico che, nella sua posizione, può riunire la famiglia. Sempre che non si sia bevuto del tutto il cervello anche lui!”

“Perché ci tenete tanto a riunirci? Cosa pensate di ottenere?”.

“Non lo so. Ma perlomeno facciamo un tentativo. Se mio padre veramente morisse, penso che sarebbe felice di avere accanto i parenti. Se poi possiamo anche, nel frattempo, far tornare un po’ di tranquillità nell’animo di alcuni di voi…”.

“Credi dipenda dalla morte della zia?” mormorò Kriss, fattosi serio e pensieroso.

Guardava fuori dalla finestra. Aveva un panorama mozzafiato, con la spiaggia e un buono scorcio della città. Ma lui non guardava verso il basso. Si era perso nella contemplazione del cielo stellato.

“Potrebbe essere” rispose Ocean, andandogli vicino.

“Una stella cadente. Ocean…esprimi un desiderio. Te la regalo”.

“Io ho un desiderio che tu puoi far avverare. Vorrei che tu venissi con me. Riuniamo la famiglia, Kriss. Vieni con me”.

Kriss era perplesso. Rimase in silenzio per un po’.

“Credi che la mia presenza possa cambiare le cose?” disse, dopo qualche secondo.

“Non lo so. Ma vorrei tanto che tu mi aiutassi. Vorrei tanto che tu non dimenticassi chi sei”.

“Io non l’ho dimenticato. Ma chi altro lo ricorda?”.

Ocean gli porse una piccola croce dorata, pendente ad una catenina d’argento.

“Sei sicuro di non aver dimenticato?” domandò, sorridendo.

Kriss afferrò il gioiello quasi con rabbia.

“Sei un fottuto doppiogiochista, Ocean!” sbuffò, pur con un mezzo sorriso.

“Sono bravo a trovare i punti deboli…”.

“Ma vaffanculo!” rise ancora Kriss.

“E no! Queste parole non sono da te!” lo prese in giro Ocean.

Kriss spalancò le braccia, tenendo i piedi uniti, e fissò il cugino con aria serafica.

“Sono nelle tue mani, cugino. Mi arrendo. Cosa vuoi che faccia?”.

“Voglio che tu venga con me all’Isola di Kai, dove speriamo di riuscire a riunire tutta la famiglia” rispose Ocean, felice di averlo convinto.

Kriss indossò la collana con la croce e la strinse fra le mani, sorridendo al cielo.

“Ai tuoi ordini, Ocean. Ma non vorrai mica farmi perdere la sfilata del carnevale di Rio?”.

“Certo che no! Ci tengo anch’io a vederla!”.

Bene. E quando pensi di andar a prendere mio padre?”.

“Veramente penso ci vada Hope…”.

“Chiamala. Spiegale dove si trova e dille che se ha dei problemi può rivolgersi a me”.

“Come sei generoso…”.

Si sorrisero.

“Che vuoi fare ora, cugino? La sfilata è domani. Vuoi dormire o vuoi che ti porti in luoghi interessanti della città? La notte è giovane…ed io farei volentieri una passeggiata”.

“Io vorrei farmi una bella nuotata. Magari andare al largo in quella bella baia isolata in cui mi porti sempre. Ma se tu vuoi passeggiare, a me va bene anche far un giro per Rio…”.

“Perché non fare le due cose insieme, cugino?” rise Kriss, prendendo la chiave elettronica.

“Ma…aspetta…usciamo così?! Io in costume e tu con quei pantaloni allucinanti?!”.

“Ma che te frega, Ocean?” sogghignò Kriss, chiudendo la porta dietro di sé.

“Basta vino a te per oggi!” affermò Ocean, notando l’insolita allegria del cugino.

“Ma l’oggi è iniziato da solo un’ora!” protestò Kriss, spingendolo nell’ascensore.

“Appunto…basta!”.

“Ho voglia di biscotti al burro…”.

“All’una di notte?!”.

Assieme, e sorreggendosi a vicenda, si allontanarono dal grattacielo e si diressero verso la spiaggia. Kriss ne conosceva una isolata e tranquilla, senza luci artificiali ed il vociare dei turisti che “rovinavano l’atmosfera”. Andarono al largo. Quella notte un ragazzo giurò di aver visto due uomini sulla trentina in lontananza. Giurò che uno di loro era verde, o blu, mentre l’altro era luminosissimo e camminava sull’acqua. Tutti diedero la colpa all’alcol.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** IV- padre e figlia ***


IV

 

Roma, Italia

 

Hope odiava Roma. Troppi turisti. Troppa gente. Troppe chiese. Troppi preti. Troppo tutto!

La giudicava una città fin troppo pomposa per i suoi gusti, anche se aveva dei lati molto interessanti. Trovava alquanto sconcertante il fatto che suo padre vivesse veramente in una città simile. Provò a chiamarlo ma già sapeva che non avrebbe risposto. Non poteva credere di trovarsi davvero in centro a piazza San Pietro, circondata dalle sue colonne che parevano abbracciarla e dai turisti che si scattavano ogni tipo di foto. I piccioni si scansavano ad ogni suo passo e la gente la guardava preoccupata. Sapeva di non avere proprio l’abbigliamento più adatto per il luogo ma se ne fregò altamente. Ringhiò al poliziotto che la fermò perché aveva fatto suonare il metaldetector all’ingresso della basilica. Aveva tante di quelle catene, ganci, fibbie e spuntoni metallici che era praticamente impossibile che non suonasse. Voleva tanto dare un calcio a quell’inutile uomo che insisteva per perquisirla, ma alla fine si arrese. Svuotò le tasche, tolse il cappotto in pelle e gli anfibi. Continuò a togliere roba e a passare sotto quell’aggeggio, che però continuava a suonare. Quando ebbe convinto i due agenti che lei portava le borchie anche nelle mutande, fu fatta passare.

Sbuffando per la perdita di tempo, Hope si affretto ed entrò in basilica. Ne ignorò i componenti e si avviò lungo le scale che conducevano alla cupola. Erano più di 600 scalini ma lei non si scoraggiò e salì, fino in cima. Si fece largo fra la folla e si alzò in punta di piedi, cercando suo padre.

Dopo un paio di giri lo individuò. Era una figura solitaria, appoggiata con i gomiti al parapetto, con i capelli sciolti al vento e la sigaretta lasciata bruciare fra le dita della mano abbandonata nel vuoto. Aveva, come la figlia, un cappotto lungo di pelle nera che svolazzava. Hope lo chiamò ma lui non si voltò. Lei allora gli andò vicino e gli sfiorò la spalla sinistra. Lui si limitò a riportarsi la sigaretta alla bocca, senza dire una parola.

“Papà! Finalmente ti ho trovato!” ansimò Hope, data la corsa con cui aveva affrontato le scale.

Non ottenne risposta. Suo padre muoveva la bocca ma Hope non capiva. Poi vide che si muovevano all’unisono con le parole pronunciate dal coro che cantava nella basilica.

“Papà…ti senti bene?” domandò preoccupata.

Il padre non la guardò ma le parlò, gettando il mozzicone della sigaretta.

“Come mi hai trovato?”.

Hope rabbrividì. Non ricordava quasi più la profonda voce del padre.

“Ho chiesto alla polizia. Ho detto che non trovavo più il mio anziano padre e loro ti hanno rintracciato con il GPS del cellulare”.

“Maledetti aggeggi moderni…” mormorò l’uomo, poi aggiunse un “Hei!” per "l’anziano padre".

“Ti ho tanto cercato. Non ricevi le mie e-mail? Non rispondi mai alle mie chiamate, ai miei messaggi…eppure lo so che sei sempre davanti al computer e con il cellulare in mano…”.

Il padre la ignorò, continuando a cantare.

“Cosa ci fai in un posto come questo? È il luogo meno adatto a te, papà! Stai bene? Sono molto preoccupata per te. Non ho mai tue notizie…”.

“Come sta tuo fratello?” la interruppe lui.

“Non ne ho idea. Nemmeno di lui ho notizie da tempo”.

“Io percepisco la sua pace. Tuo fratello è in pace. Felice. Magari io potessi trovare la stessa pace…in luoghi come questi si provano sensazioni simili…”.

La figlia lo fissò, perplessa “Pace? È questo che cerchi?” domandò.

“Mio figlio, il mio bellissimo figlio…ha trovato una vita completamente diversa da quella del padre, l’unica vita che credevo per lui possibile, ed è felice. Questo ha messo un po’ in discussione il mio modo di vedere le cose”.

“Crisi di mezza età?” ghignò Hope.

Il padre si voltò e la guardò, alzandosi e staccandosi dal parapetto.

Hope sussultò. Aveva dimenticato perfino il viso di suo padre.

“Credi che io abbia la crisi di mezza età? Eppure sembro più giovane di te…”.

“Non esagerare…” balbettò Hope, mentre il padre gli si avvicinava con uno strano incedere ed uno splendido sorriso.

“Mi dai forse più di 30, 35 anni?” sussurrò il padre, prendendole il viso e guardandola negli occhi. Avevano gli stessi, meravigliosi, occhi azzurri.

“Ragazzina…io ora potrei baciarti davanti a tutti. Sembreremo agli occhi di tutti una bella coppia, magari in viaggio di nozze. Che romantico…”.

Accostò il volto a quello della figlia, arrivando quasi a darle un bacio.

“Non sono la mamma” sibilò lei “E sono tua figlia Hope, non una ragazzina”.

Il padre lasciò cadere le braccia e si legò i lunghi capelli scuri, leggermente mossi, con un nastro che teneva annodato al polso.

“Papà…io sono qui per un motivo”.

“Anch’io” rise il padre, tornando ad appoggiarsi alla ringhiera e a guardare in basso, verso la piazza.

“Davvero? Quale?”

“Ho trovato tua madre”.

Hope scosse il capo.

“Papà…la mamma è morta! Non puoi averla trovata”.

“Lei è tornata. L’ho vista”.

“Sai meglio di me che è impossibile”.

“Impossibile? Perché? Non pensi che sia potuta rinascere?”.

“Dovresti saperlo che non è possibile…”.

“Perché no? Loro tornano tutti…”.

“Mamma non è così. Mamma non tornerà”.

“Bugie. Io l’ho vista. Lei è di nuovo qui. Lei mantiene le promesse. Lo ha sempre fatto. E lei mi ha promesso che non mi avrebbe mai abbandonato. E ora è tornata”.

Hope non sapeva che cosa dire. Non pensava che la follia di suo padre fosse giunta a quel punto. “Perché?” sussurrò l’uomo.

“Perché cosa?” rispose Hope.

“Perché non credi che lei possa tornare?”.

Hope non rispose.

“Te la mostrerò. Quando la vedrai riconoscerai subito, in lei, tua madre. E ora che lei è di nuovo fra noi, anche tuo fratello tornerà qui”.

“Ti senti abbandonato, papà? Lo capisco. Ma ci sono qua io. Prima o poi tutto andrà a posto. È per questo che stiamo cercando di riunire la famiglia…”.

“Fare cosa?!” sbottò il padre, voltandosi di colpo ed alzando la voce.

“Stiamo cercando di ritrovarci, tutti assieme, nello stesso posto. Il padre di Ocean e Umy sta molto male. Temono che possa morire. E tutti abbiamo dei problemi, ammettiamolo! Possiamo aiutarci a vicenda…”.

“Nessuno può aiutarmi. Ed io non voglio vedere nessuno. Meno che mai i miei fratelli”.

“Potrebbero aiutarti…”.

“A fare cosa?”.

“A stare meglio!”.

“Potevano lasciarmi mia moglie”.

“Non essere stupido! Sai che non è colpa loro! Che follie vai dicendo?! Non vuoi rivederli?”.

“L’unica che voglio rivedere è la donna che amo. E che mi è stata tolta. Quando lei è morta, non ricordo preoccupazione o conforto da parte dei parenti!”.

Seguì un lungo silenzio. Hope gli sfiorò la spalla ma lui si ritrasse.

“Papà…lei non tornerà. Siamo soli. Ed è meglio che cominci a capirlo. Vieni con me…”.

“Io non vado da nessuna parte! Lei è tornata. È qui. Ed io non me ne vado. Smettila di dire fesserie e cattiverie. Se non vuoi credere fai pure. È colpa della gente come te se io sono ridotto così!”.

“Colpa della gente come me?! Papà…non credo alle mie orecchie!”.

“Vattene!” urlò il padre, afferrando il polso della figlia che cercava di dargli sollievo, accarezzandogli la schiena o i capelli. Lei si difese, d’istinto, e lo graffio, con le lunghe unghie nere, sul viso. Subito sulla guancia del padre apparve un segno rosso.

“Papà…tu sanguini…” si allarmò Hope, cercando un fazzoletto nella borsa.

Quando lo trovò glielo porse ma il padre si girò.

“Non solo tuo zio sta morendo, bambina mia…” gemette.

La figlia notò che stava piangendo, come non aveva mai fatto prima. Perfino alla morte della madre non aveva versato una lacrima. C’era veramente più di qualcosa che non andava.

“Hai ragione, Hope. Mi sento vecchio. La crisi di mezza età sarebbe una cosa un po’ stupida da dire ma sì, mi sento stanco, stufo. Arrivo ad invidiare mio fratello morente”.

“Papà, vieni con me! Tutti assieme ci possiamo aiutare!”.

“Aiutare da cosa?”.

“Possiamo farti stare meglio. Guarirti…”.

“Da cosa? Non sono pazzo!”.

“Non l’ho mai detto…”.

“Ma lo hai pensato!”.

“Ovvio! Dici di vedere mamma…”.

“Non sono pazzo! Pazzo è tuo fratello che è in mezzo al nulla a fare chissà che cosa! Io non sono pazzo…sono solo cambiato”.

“Non più di tanto. Quante donne hai incontrato da quanto sei qui? Altro che ricerca della pace…” commentò Hope, notando quante notifiche riceveva il padre sul telefono, continuamente.

“Questo cosa c’entra?”.

“Tu non puoi trovare pace come ha fatto il tuo prezioso figlio. Anche in un posto come questo, così lontano dalla tua concezione delle cose…”.

“Lontano? Guardati attorno, Hope! Hai visto quanti soldi e gioielli ha il papa? Il capo della cristianità e simbolo di Dio in Terra, esempio per tutti, dovrebbe essere povero e umile. Invece guarda! Preti, vescovi, cardinali…sono molto più vicini alla mia concezione delle cose di quanto tu creda. E guarda tutti quegli esserini là sotto…” disse, indicando la folla in piazza “…pronti a gettare i loro soldi in mano ad un organizzazione di falsi profeti, in cambio di perdono e grazia. Io credo che in questo posto la mia concezione delle cose sia più viva che mai”.

Hope constatò la verità delle cose e non ribatté, soddisfatta per il sorriso del padre.

“Mi ‘spiace di averti spaventato, bambina. Ma il cuore di tuo papà batte in un modo che a nessuno è lecito comprendere. E questo lo fa un po’ andar fuori di testa”.

Prese sottobraccio la figlia ed assieme scesero dalla cupola, lungo le scale. Camminarono per la navata della basilica, accompagnati dal suono dell’organo e dal canto del coro. Entrambi tentati ad improvvisare un Valzer fra le navate, proseguirono. Hope sorrideva e pure suo padre, anche se sembrava un ghigno. La gente li guardava. Erano una coppia pittoresca, lui altissimo e dall’aria sognante, lei pensierosa e infastidita dalla musica. Entrambi affascinanti e vestiti in nero, accompagnati dal rumore dei loro stivali.

“Allora papà…verrai con me?” mormorò Hope.

I due erano usciti dalla basilica e camminavano sotto il colonnato. Il padre sorrideva, guardando la folla radunata nella piazza.

“Guarda quanta gente. Guarda quante creaturine piene di richieste e speranze verso le divinità…” cominciò a dire lui.

“Sì…ma non mi hai risposto…”.

“Io sto bene qui, Hope. Davvero. Perché dovrei venire con te?”.

“Non vuoi rivedere la famiglia per intero?”.

“La mia famiglia non sarà mai per intero. Mancherà sempre qualcuno…”.

Hope sospirò. Sapeva che il padre stava pensando alla donna che aveva amato. Quella per lui era la componente principale della famiglia, non i suoi fratelli e probabilmente non i suoi figli.

“Papà…so che mamma era il tuo sostegno ma ora ci siamo qui noi. Ci sono qui io. Posso sopportarti, se me ne dai la possibilità. Posso aiutarti. So che vedevi nella mamma l’unico sostegno per la tua vita e che credi di essere stato abbandonato, specie dal tuo adorabile figlio maschio, ma ricorda che io sono qui. Io ti capisco e ti voglio aiutare. Capisco il tuo punto di vista e non ti ho abbandonato. Sono qui. Perché non mi vuoi? Perché ti senti solo quando non lo sei? Comprendo il dolore che provi per la perdita della mamma ma…non c’è più, papà! Ma non per questo nessuno ti ama, come pensi”.

“Io non lo penso. Io ho chi mi ama”.

“La presunta reincarnazione di mamma?” storse il naso Hope.

“Non è presunta! Lei è la donna che amo, è lei. Perché non vuoi che io sia felice? Perché stai qui a distruggere ogni speranza? Tu, poi, che porti il nome di "Hope"…”.

“Io voglio che tu sia felice! Ma non in un’illusione del genere. Mamma è morta. Se tu sei in grado di amare un’altra io ne sono felice, ma voglio che tu ricordi sempre che non è la mamma”.

Il cellulare di Hope squillò. Lei si spaventò. Non suonava mai. Lo prese fra le mani e rispose.

Era Ocean che gli comunicava la posizione dello zio, a Dubai. Lei annuì.

“Ok” rispose “Ci penso io. Tu và da tuo padre. Ciao”.

Lei aveva notato che il padre aveva aperto la bocca, ma poi non aveva parlato.

“Che volevi dire, papà?”.

“Niente”.

“Come niente?”.

I due si allontanarono l’uno dall’altro. Il padre gli diede le spalle, con le mani in tasca. La figlia lo inseguì per un po’, chiamandolo per nome, ma non ottenne risposta.

Hope, esasperata, si arrabbiò. La gente la fissava, dato il tono di voce che usava per richiamarlo. Suo padre lasciò la piazza, girò in uno dei vicoli, ignorando le guardie svizzere che lo fissavano. E in lontananza vide colei che stava cercando.

Le si avvicinò con un largo sorriso e la sfiorò con la mano. Lei sussultò, presa alla sprovvista.

“Ciao!” lo salutò, con entusiasmo e gioia.

“Ciao” rispose lui, con una voce insolitamente dolce.

Lei era una ragazza molto giovane, sulla ventina, con i capelli biondi e ricci e grandi occhi brillanti. Per lui sembrava una Dea. Oppure una musa, di quelle bionde, compagne dei poeti.

“Dove sei stato?” domando lei.

“In giro…”.

“Sei sempre così misterioso…”.

In effetti era vero. Le teneva nascosta la sua età, la sua famiglia, la verità. Ogni cosa a suo tempo, si ripeteva dentro di sé, mentre la prendeva per la vita con il braccio e la portava lontano dalla piazza. Lei ridacchiò felice e si fece condurre.

“Mi offri un gelato?” chiese lei, con un’espressione ebete e stupida.

Lui sospirò, rispondendo con un altro sorriso scemo.

Da dietro una colonna, un ragazzo dai capelli neri e l’abito elegante li fissava. Li fissava entrambi, con fastidio, e quando fu sicuro che non lo guardassero, li seguì.

Nel frattempo Hope si allontanava da San Pietro, con rabbia. Telefonò ad Ocean, informandolo che il loro genitore non aveva nessuna voglia di riunirsi alla famiglia. Vide da lontano il padre con quella ragazza e scosse il capo: odiava questi suoi atteggiamenti con le ragazzine. Come poteva paragonare quella piccola stupida alla mamma?!

Decise che stavolta non avrebbe preso l’aereo. Era stufa di trovarsi sballottata in aria. Ma fino agli Emirati Arabi…forse il treno. Andò fino in stazione a Roma per chiedere informazioni, anche se, come sempre, gli uffici che avrebbero dovuto aiutarla non sapevano un granché. Attraversò la strada, valigia alla mano, e quasi venne investita da una moto guidata da un uomo che, dalla visiera del casco, la guardò in modo strano. Lei lo mandò a quel paese e proseguì per la sua strada. In un internet point trovò tutte le informazioni ed arrivò alla conclusione che senza aereo non sarebbe mai arrivata. Sospirò e prenotò i biglietti, dovendo fare anche degli scali. Rassegnata, prese l’aereo e partì, con scali obbligati ad Atene e in Egitto. Che fatica le riunioni di famiglia!

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** V- la famiglia del mare ***


V

 

Isola di Kai, Indonesia

 

Umy era fuori, fra gli scogli ed il rumore delle onde del mare, e sospirava. L’Oceano era agitato e verdastro, malato, ed a lei questo non piaceva. Immerse i piedi in acqua e rabbrividì. Era insolitamente freddo e sgradevole. Ritrasse gli arti e si alzò. Soffiava un vento gelido, altra cosa molto insolita per l’isola in cui si trovava.

“Ma che succede al Mondo?” si chiese, coprendosi le spalle con uno scialle.

Diede le spalle alla distesa d’acqua e rientrò in casa. Era silenziosa, umida, fredda più del mare e buia. Trasmetteva tristezza.

Pregò dentro di sé che non accadesse altro di insolito, come eruzioni vulcaniche o terremoti. Ne aveva abbastanza. Chiamò a gran voce la madre, sentendo la sua voce riecheggiare per diverse stanze. Guardò verso l’alto, lungo le scale, sperando di ricevere risposta dal piano di sopra, ma non si udì un solo suono. Camminò svelta, con i piedi scalzi e ancora umidi, sul pavimento liscio del piano terra ed attraversò gli archi che conducevano al salone.

Umy sperava di ricevere presto notizie da Hope e dagli altri. Aveva preparato per bene tutte le camere e voleva davvero molto che la famiglia si riunisse. Sedette sul lungo divano e stese le gambe sul tavolino. Cominciò a leggere distrattamente un libro, sbirciando l’alba attraverso una piccola finestra. I raggi di Sole che entrarono crearono degli effetti spettacolari, riflettendosi sugli specchi e sui cristalli della sala, inondando il soffitto e le pareti di colori e luci. Umy sorrise, poco convinta. Però si sentì un po’ sollevata. Almeno la luce faceva il suo lavoro in quel Mondo acciaccato.

La marea stava salendo, lentamente, e le onde si facevano sempre più violente.

Uno scricchiolio lungo le scale la fece girare. Allungò il collo e aspettò che l’autore dei rumori fosse visibile dalla sua prospettiva. Era sua madre che, a piccoli passi, scendeva al piano terra.

“Buongiorno cara” salutò.

“Buongiorno mamma” rispose Umy, subito togliendo i piedi dal tavolino di cristallo.

“Sei mattiniera…” incominciò la madre, stretta in una vestaglia di seta verde scuro.

“Mi piace sentire il profumo dell’Oceano alle prime luci dell’alba”.

Le due si guardavano, non nascondendo preoccupazione.

“Come si sente papà oggi?” domandò Umy, quasi timidamente.

“Come sempre. Né meglio, né peggio. Non so se questo sia un bene o un male…”.

Anche la madre si sedette sul divano. Aveva un’espressione tesa e preoccupata, e questo non giovava al suo aspetto, ma restava ad ogni modo una bella donna. Aveva i capelli ricci e voluminosi, biondi come quelli di Ocean, che lasciavano scoperta la parte finale delle orecchie, da cui pendevano vistosi orecchini in madreperla decorata. Gli occhi li aveva verdi e profondi, brillanti e vivaci solitamente, quella mattina vitrei e distanti. Probabilmente quegli occhi erano le uniche cose che accomunavano la madre con la figlia.

 “Sai quando arriva Ocean? Il padre ha chiesto di lui…”.

“Non lo so, mamma. Presto, ad ogni modo. Almeno così mi ha detto”.

“E riguardo agli altri?”.

“Non lo so. Dipende molto da quanto sapranno essere persuasivi Hope e Ocean”.

La madre sospirò.

“Vuoi una tazza di tè?” domandò Umy, alzandosi.

La figlia si allontanò ed andò verso la cucina senza attendere la risposta.

Altri passi giunsero dalle scale e sulla cima, dal piano superiore, apparve il padrone di casa, il padre di Umy, reggendosi con un lungo bastone.

“Papà!” lo apostrofò Umy, con tono di rimprovero “Papà! Cosa ci fai in piedi?! Devi riposare e rimetterti preso! Torna subito a letto!”.

Ma il padre la ignorò ed incominciò a scendere le scale, lentamente. Aveva uno sguardo torvo, scocciato, mascherato solo in parte dalla folta barba grigia. Aveva profondi occhi blu scuro, quasi neri, seri e socchiusi dalle folte sopracciglia. I capelli, mossi e disordinati, gli ricadevano sulle spalle in modo confuso e privo di logica. Era un uomo imponente, con larghe spalle e grosse braccia, piuttosto alto e possente. Ad ogni passo le scale scricchiolarono.

“È vero ciò che ho sentito, figlia mia?” parlò, con voce profonda.

“A cosa ti riferisci?” balbettò Umy, leggermente turbata dal tono irato del padre.

“La famiglia. Si riunisce?”.

“Ci stiamo provando, papà…”.

“Ci stiamo?!” ripeté il padre, inarcando un sopracciglio.

“Io e Hope. E in parte anche Ocean”.

“Hope?! La figlia di…quello”.

“Sì. La figlia di tuo fratello. Tua nipote. Problemi?”.

“E suo fratello che dice?”.

“Non so…è in Nepal…”.

“A fare cosa?!” si stupì il padre, inarcando l’altro sopracciglio.

“Mmm…meditare, trovare il Nirvana…”.

L’uomo scoppiò a ridere, senza ritegno.

“Sì, papà. Anche Ocean ha reagito così”.

Il padre tornò improvvisamente serio.

“Non mi importa cosa pensi o perché tu stia cercando di riunire la famiglia. Quelli non entreranno in casa mia”.

“I tuoi fratelli, intendi?” si informò Umy.

“Fratelli, nipoti, parenti…nessuno tranne te, figlia mia, Ocean e tua madre. Punto”.

“È una cosa stupida. Che problemi hai con loro? E poi li stiamo richiamando principalmente per te. Per aiutarti a stare meglio e per starti vicino”.

“Già hai pronto il mio elogio funebre?” ironizzò il padre.

Era giunto alla fine delle scale. Diede un occhio al salone e salutò la moglie, sorridendo.

“Perché, papà, non vuoi rivedere la tua famiglia al completo?”.

“Perché sono stufo di fare da mediatore fra il maniaco di grandezza e l’eterno Peter Pan. Quei due litigano fin da quando ne hanno avuto le capacità e continueranno ancora fino alla fine. Ed io, stupido, ho cercato di calmarli e far da giudice imparziale, ma quei due sono impossibili. Ed ora la situazione è peggiorata perché Peter Pan non ha più la compagna che lo ferma quando esagera. Se poi arrivano tutti i loro figli…quell’invasato semi-depresso di Kriss, Hope e le sue idee folli, suo fratello che ora starà facendo chissà cosa con i bonzi in un adorabile completino arancione…per non parlare delle sorellastre di quei due! C’è né una che proprio non mi va di vedere!”.

“Così sei tu l’eterno Peter Pan. Ti comporti come un bambino, papà” lo rimproverò Umy.

“Non direi proprio” affermò lui, serio.

“Pensala come vuoi, ma loro saranno qui, spero. Tutti quanti!”.

“Vuoi proprio darmi il colpo di grazia” si lagnò il padre.

“Suvvia! Non esagerare!” intervenne la moglie, prendendolo a braccetto e cercando di ricondurlo in camera al piano superiore.

“Non rompere, donna! Sto benissimo ed ho il diritto di vietare, a chi non desidero vedere, di entrare in casa mia senza il mio permesso!” brontolò.

“Tu adesso la smetti di lamentarti, vecchio bacucco, e torni di sopra, a letto! Nostra figlia sta facendo una cosa bellissima e tu non distruggerai tutto solo perché fra te e i tuoi fratelli ci sono i soliti problemi”.

“Tu non capisci, Anfy. Io non voglio vederli. Non perché abbia dei problemi con loro direttamente, ma perché sono stufo di essere sempre nel mezzo mentre loro litigano. La cosa mi stressa. E poi in questa famiglia lavoro solo io! Quegli altri due cretini…uno è troppo impegnato ad auto-celebrarsi e l’altro ad auto-distruggersi perché rimasto solo. E io invece qui a sudare. Poi si stupiscono se sto male! Sono stanco e stressato e la loro presenza non può che peggiorare la situazione!”.

“Se sei tanto stanco allora, caro, dovresti tornare a letto” incalzò la moglie, trascinandolo su per le scale per un braccio.

Pur essendo una donna piuttosto minuta, anche se alta, riuscì senza difficoltà a farlo salire, anche contro la volontà del marito.

“Anfitrite!” sbottò l’uomo, ma lei lo zittì e lo chiuse in camera.

Umy sorrise. Soprattutto perché si sentivano ancora i borbottii di protesta del padre da dentro la stanza. Brontolii che la moglie metteva subito a tacere. Dopo un po’, la donna ricomparve sulle scale sorridendo e fece segno alla figlia di andare in salotto, quello più piccolo. Le due si sedettero attorno al piccolo tavolino circolare in legno scuro e bevvero qualche sorso di tè, in silenzio e calma. I mobili di legno di quella piccola ed accogliente stanza avevano un effetto calmante e trasmettevano sensazioni di benessere e calore. Umy si rilassò e sorrise, con la tazza ancora fumante fra le mani. La posò, dopo qualche sorso, e guardò la madre.

“Mamma…” chiese a bassa voce “…ma tu sei felice all’idea che la famiglia si riunisca qui, in questa casa, fra poco?”.

“Tesoro…” iniziò la madre, a mezza voce anch’essa per non svegliare il marito “..innanzitutto resta da vedere chi e quando si presenterà della nostra famiglia. In secondo luogo, io non ho nessun problema ad ospitarli ed accoglierli in casa ma mi auguro che si comportino come è giusto, senza litigi, urla e quant’altro. Se rispetteranno queste semplici regole, allora mi sentirò sollevata e più che felice di averli qui. Ovvio che, se la loro presenza dovesse risultare dannosa i qualche modo a tuo padre, non indugerò a sbatterli alla porta!”.

Umy parve soddisfatta della risposta. Le bastava questo. Un sostegno anche solo parziale era più che sufficiente per renderla più sicura e tranquilla.

“Dovremmo comprare qualche cosa però…” iniziò.

“Tipo?”.

“Lo sai…uno zio non dorme se entra anche solo un raggio di Sole in camera, l’altro zio è paranoico e deve avere porte e finestre spalancate, Hope non ama la confusione e probabilmente anche suo fratello dopo il soggiorno con i bonzi fra le nevi. Kriss è strano…molto strano…e poi…”.

“Fermati, figlia mia, e tranquillizzati. Ho pensato a tutto. Ognuno avrà la sua stanza come la desidera e se avranno dei problemi…”.

“…si attaccano!” terminò Umy, e scoppiò a ridere, per poi continuare: “Al massimo, se proprio non gli sta bene stare qui, gli diamo i soldi per andare in albergo. Non so dove si trovi l’albergo più vicino…probabilmente su un’altra isola…ma almeno, se iniziano a litigare, li spediamo uno da una parte e uno dall’altra e festa finita! Voglio che si ritrovino per parlare, non per farsi del male!”.

La madre annuì.

“Sei molto buona, Umy. E anche Hope lo è. Voi cugini avete un diverso modo di vivere e pensare rispetto ai vostri vecchi. Questo mi rende ottimista nei confronti del futuro perché pare che fra di voi non abbiate problemi, ma sana collaborazione!”.

“Be’…fra me e Hope in effetti non ci sono problemi e nemmeno fra Kriss e me. Ma già fra Ocean e i suoi due cugini maschi iniziano i diverbi. E anche Hope ha dei problemi con Kriss e Ocean. Per non parlare di suo fratello…quello è talmente strambo che tende a litigare con tutti!”.

“Presenta molte delle caratteristiche del padre. Speriamo che il soggiorno in Nepal gli abbia giovato e abbia trovato una certa stabilità. Speriamo, data la sua reazione in seguito alla morte della madre…fra lui e suo padre, pensavo fosse impossibile controllarli! Per fortuna c’è Hope…”.

“Hope non avrà sempre il tempo e la voglia di star dietro a quei due. Chissà…vedremo quando, e se, saranno qui se la situazione è migliorata in qualche modo. Nel frattempo dobbiamo solo impedire che papà faccia pazzie”.

Le due donne annuirono, con un sorriso. Si alzarono dal tavolo, portando vie le tazzine e l’occorrente per il tè, e si separarono. Anfitrite si avviò lungo le scale per andare ad accudire il marito e Umy tornò nel salone, cellulare alla mano, cercando di mettersi in contatto con qualcuno. Almeno da un parente sperava di ricevere conferma!

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** VI- segretaria ***


VI

 

Dubai, Emirati Arabi

 

Hope si trovava ai piedi del grattacielo più alto del mondo. Guardò in su, con le mani infilate nelle tasche dei pantaloncini neri che indossava. Vide che gli ultimi piani erano celati dalle nuvole, oppure da una sottilissima nebbia, non si riusciva a capire. Era arrivata da quasi una settimana nello stato del medio oriente ma aveva dovuto aspettare l’arrivo del pass di Kriss, una schedina elettromagnetica che le dava accesso agli ultimi piani dell’edificio senza dover perder tempo in complicate trafile burocratiche. Ovviamente aveva dovuto attendere il suo arrivo per posta. Questo l’aveva un po’ innervosita perché, se avesse saputo della necessita dell’uso del pass, avrebbe affrontato il viaggio con più calma, evitando l’aereo. Piuttosto in cammello! Ma suo cugino non pensava mai alle cose per tempo e l’aveva avvertita quando ormai lei era gia giunta a destinazione.

Prese un bel respiro ed entrò, i capelli rossi raccolti in una coda e gli occhi celati dagli occhiali da Sole, lasciando che le porte scorrevoli le si aprissero davanti. Entrò decisa, esibendo il pass alle guardie all’ingresso, due uomini alti e biondi vestiti di bianco. Questi la lasciarono passare e non le dissero nulla. Soddisfatta, Hope proseguì. Passò davanti ad una specie di reception composta da un largo bancone in legno, dietro al quale sedeva un altro signore piuttosto alto, robusto e moro.

Con i piedi sul bancone e la sedia inclinata, l’uomo leggeva le parole crociate e pareva ignorare Hope. In realtà, appena questa oltrepassò il limite del mobile di legno, la apostrofò con un “Hei tu” e la invitò a fermarsi, con un tono per niente gentile.

“Ho il pass!” affermò lei, infastidita.

“Quello è il pass del Signor Kriss, e tu non sei Kriss. Tu sei Hope”.

“Lo so chi sono, io, Michael!”.

“Allora non puoi passare. Coraggio…dietro-front e via a casa! Fai la brava bambina…non farmi chiamare la sicurezza…”.

“ E tu non farmi rispondere male. Kriss mi ha dato il pass e mi ha detto di poterlo usare”.

“Lo so. Ma il capo mi ha detto di non farti passare”.

“Come?! Sa che sono qui?!”.

“È una domanda? Certo che lo sa. Sapeva che saresti arrivata e mi ha detto di non farti passare. Quindi ora alza i tacchi e torna a casa, non voglio rissa”.

“A me invece pare che cerchi rogna…” borbottò Hope.

“Se vuoi provo a mandare qualcuno a convincerlo…è sempre molto impegnato però. Chissà fra quanto potrà riceverti…” parlò l’uomo, limandosi le unghie con indifferenza.

Hope si sedette, braccia e gambe incrociate, e lo fissò con aria di sfida.

“Ho l’eternità dalla mia parte” ghignò, ed attese.

Ad un tratto il telefono suonò e l’uomo rispose, dando le spalle ad Hope girando sulla sedia provvista di piccole rotelline.

“Sì?” disse, con convinzione.

Seguirono momenti di silenzio, con solo i cenni della persona al telefono.

“Capisco. Ci penso io” disse infine, alzandosi e lanciando una strana occhiata alla giovane.

Si stiracchiò, sistemandosi il vestito, e sorrise ad Hope.

“Devo andare, principessa. Aspetta qui, mi raccomando, che c’è gente ad ogni piano che ti attende per cacciarti fuori in modo molto meno gentile di quanto farei io”.

Hope gli mostrò la lingua e rimase seduta, con aria orgogliosa.

“Come vuoi. Vorrà dire che chiamerò Kriss e gli dirò quanto poco sei incline ad obbedire ad un suo comando”.

“Fai come vuoi. Non è lui che mi paga. Non ho obblighi, per ora, nei suoi confronti!”.

Hope gonfiò leggermente le guance ma non disse nulla. L’uomo prese una piccola 24ore nera, ne controllò il contenuto e fece per andarsene.

“A proposito…” parlò, con un evidente falso sorriso “…mia cara, come sta tuo padre?”.

“Bene. Alla facciaccia tua!” ghignò lei.

“Ah. Perché mi erano giunte voci discordanti sull’argomento”.

“Calunnie. Ed inutili dicerie. Mio padre sta benissimo e comunque non sono affari che ti interessano o che ti riguardino!”.

Lui le diede le spalle, sistemandosi la giacca e stringendo a sé la valigetta. Inaspettatamente, Hope lo vide salire in moto, dopo aver indossato il casco, per allontanarsi dal palazzo.

Ora era sola. Sospirò ed iniziò a guardarsi attorno. C’era silenzio. Un silenzio innaturale e inquietante. Non passava nessuno e si sentì un po’ a disagio.

Rimase seduta per una buona mezz’ora, fiduciosa e speranzosa come il suo nome le imponeva, dopodiché decise di alzarsi e cercare qualcuno. Intravide una figura dietro un piccolo banco, in fondo al corridoio bianco e dorato. Avvicinandosi si sentì meno agitata: tornavano i suoni e le voci! Si coprì il viso con la mano per schermarsi dalla luce del Sole che entrava dalle tante finestre. La figura stava rispondendo al telefono. Per lo più con frasi del tipo: “Resti in linea”, “Attenda prego”, “Non è in sede”. Contemporaneamente leggeva e rispondeva a delle e-mail.

Era un altro giovane biondo, impegnato e concentrato così tanto nel suo lavoro che, quando notò Hope, trasalì. Ripose educatamente l’auricolare ed ignorò il vibrare continuo di tre cellulari.

“Ciao, carina. Posso fare qualche cosa per te?” domandò gentilmente, con voce dolcissima.

“Veramente sì…ho il pass per andare ai piani di sopra ma il tuo amichetto all’ingresso mi ha impedito di salire ed è andato via, lasciandomi qui da sola”.

“Mi faccia vedere…” si offrì il giovane, allungando la mano verso il pass di Hope. Lo esaminò e poi la fissò ben in viso.

“Avrei dovuto riconoscerti dubito…” mormorò “…quegli occhi….Hope?”.

Lei sorrise. Anche se non era convinta fosse una buona cosa che sapesse chi fosse esattamente.

“Come hai avuto questo pass, piccola Hope?” si informò lui, inforcando gli occhiali e verificando di non avere fra le mani un falso.

“Me lo ha dato Kriss. Puoi chiamarlo, se vuoi verificare…”.

“Farò i relativi controlli, ovvio. Posso sapere cosa ti porta qui?”.

“Ad una nipote non è più concesso andare a trovare lo zio?” disse lei, con le mani dietro la schiena e l’aria innocente.

“Dipende dallo zio e dipende dalla nipote…” ghignò lui, riprendendo a lavorare al computer.

“Allora?! Cosa faccio adesso?! C’è qualche possibilità che io possa salire?”.

“Chiamo di sopra, ma non posso prometterti niente”.

Detto questo, il giovane afferrò la cornetta di un telefono bianco latte e digitò il numero uno.

Attese per qualche secondo e poi ricevette risposta. Brevemente spiegò la situazione ed annuì un paio di volte, attorcigliando i fili dell’apparecchio fra le dita affusolate e curate. Poi riagganciò.

“Mi hanno detto che devi parlare con Kriss perché entrerai solo con lui”.

“Come?! Ma Kriss è in Brasile!”.

“Non è un problema mio. Il pass è di Kriss, Kriss entra. E se poi vuol portare anche te con lui, sono affari suoi. Avresti dovuto intuirlo…”.

“Sei insopportabile! Siete insopportabili! Sono qui per un motivo serio!”.

“E chi non lo è? Tutti dicono di essere qui per motivi importanti. Tutti telefonano, scrivono, rompono e si lagnano per un motivo serio e importante. Chi sei tu per far risultare le tue questioni più importanti di quelle degli altri?”.

“Sai benissimo chi sono!” sbottò Hope, accigliandosi.

“Tanto quanto tu sai chi sono io, chi è tuo zio e quanto poco siano propensi a fare dei favori alla tua stretta parentela i frequentanti di questo palazzo”.

“Il proprietario di questo palazzo e suo figlio SONO mia stretta parentela!” ringhiò lei, sempre più infastidita da quei discorsi.

“Dipende dai punti di vista” rispose l’altro, serafico, concentrato sulle sue faccende.

Hope respirò a fondo, calmandosi. Sorrise con scherno e tornò a fissare il suo biondo interlocutore.

“Certo che…” iniziò a parlare con aria furbetta “…dev’essere frustrante”.

“Cosa?” si accigliò leggermente lui,

“Essere nella posizione in cui stai ora. Tu, che avevi un ruolo così importante per molti, ritrovarti ora segregato come segretario o poco più…”.

“Non sono affari che ti interessano” rispose bruscamente e tornò ad ignorarla.

Hope afferrò il cellulare con convinzione e cercò il numero di Kriss. Calcolò il fuso orario e fece partire la chiamata, sperando di ricevere risposta.

Inaspettatamente, dall’altra parte del Mondo, Kriss le rispose. Entusiasta, Hope sorrise.

“Ciao, Superstar!” lo salutò, felicissima di sentirlo.

“Ciao, inguaribile pazza. Problemi?”.

“Veramente sì. Non mi fanno passare”.

“Non ti fanno salire?”.

“No. Dicono che devi esserci tu qui, con me. Altrimenti non si fa niente”.

“Capito. Ok. Sta tranquilla. Arrivo in un battibaleno. Ma chi c’è all’ingresso?”.

“Fino a poco tempo fa c’era Michael. Poi è andato via, lasciandomi sola. Così ho cercato di corrompere la segretaria, ma non ho avuto successo”.

“La segretaria?!”.

“Sì. Quell’incrocio fra maschio e femmina biondo che c’è a rispondere al telefono”.

“Povero Jibrihel…”.

“Povero un paio di c…”.

“No, no, per carità!” la interruppe lui, ma senza tono di rimprovero “Non serve esprimersi così. Ad ogni modo, ti comprendo. Parlare con mio padre è sempre piuttosto complicato”.

“Questo l’ho capito…”.

“Arrivo allora. Partiamo assieme, io e Ocean”.

“Non ha ancora raggiunto i suoi genitori?!”.

“No. C’era il carnevale di Rio…”.

“Ho capito…fra quanto arrivi?”.

“Dammi mezza giornata. Intanto fa le parole crociate di Michael…così quando torna si fa i problemi per capire chi è stato”.

Hope sghignazzò.

“Hai capito il cuginetto…in fondo, sei cattivello anche tu!”.

“Un po’ di sana cattiveria non guasta mai. Ora passami la segretaria, per favore”.

Lei porse il cellulare al giovane biondo, che subito cambiò espressione. Divenne educato, paziente e servizievole. Come ogni dipendente con il suo capo. E, come ogni dipendente con il suo capo, appena ebbe riattaccato mostrò tutto il suo fastidio sbuffando e borbottando cose imprecisate.

Senza dire nulla di comprensivo si alzò dalla sua postazione e si allontanò, legando i capelli ricci distrattamente e battendo i piedi. Si girò verso Hope, rimasta ferma dove stava.

“Muoviti” sibilò Jibrihel, con un falso sorriso.

“Che scortesia…”.

“Non ho tempo per stare dietro a te. Perciò siediti e stai buona finché non arriva il Signor Kriss. E non tirare fuori questioni, come la tua famiglia ama fare”.

Hope non ribatté e annuì, raggiungendolo. Lui la fece accomodare in una piccola stanza e le chiese che cosa potesse offrirle da bere. La giovane accettò un succo di frutta e sedette composta, tirando le tende per ripararsi dal Sole che batteva potente da ogni finestra. Jibrihel fissò la stanzetta con una smorfia. Apprezzava molto la luce e il Sole, molto meno la sua ospite. Andò fuori dalla stanza, dopo aver servito Hope, e schiacciò un tasto rosso sotto il bancone di legno. Dopo poco apparvero due figure vestite in bianco. Il biondo diede loro l’ordine di stare accanto all’ingresso della stanza a controllare che tutto andasse bene.

“Il Signor Kriss mi ha detto che dobbiamo attendere il suo arrivo. Nel frattempo dobbiamo far in modo che la Signora Hope sia a suo agio” questo lo disse a voce a alta.

Poi, a bassa voce aggiunse “E soprattutto, aggiungo io, non fatela andare troppo in giro. Che non esca da lì a far casino come è solito nel suo patrimonio genetico”.

 

Posso salutare? Ciao a tutti! Aggiorno molto in fretta in questi giorni (2 capitoli al giorno) ma tra poco rallenterò. Spero intanto di risvegliare curiosità e idee!!

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** VII- Nepal ***


VII

 

Da qualche parte sull’Annapurna, Nepal

 

Sfidando il freddo e la neve, i monaci stavano tutti in uno stato di profonda meditazione e silenzio. Erano divisi in diversi gruppi. Quelli vestiti in arancio e rasati, pregavano Buddha, fingendo indifferenza nei confronti dell’altro gruppetto che stava poco più in là. Vestiti di bianco o grigio, con un turbante attorno alla testa, i santoni indù pregavano restando immobili nella posizione del loto. Ognuno di quei due gruppi rivendicava quel luogo come esclusivo e prioritario del proprio culto, ma nessuno aveva il coraggio e la forza di allontanare gli altri. Poco sopra di tutti loro, si apriva una piccola grotta il cui ingresso era quasi completamente celato dalla neve. Là dentro il freddo era ancora più pungente per colpa delle correnti provocate del vento gelido. Al centro di essa, accanto ad una piccola statua di Shiva, stava immobile un uomo, a torso nudo. Con le gambe incrociate a loto e le mani con pollice e indice in contatto, restava fermo, con gli occhi chiusi. La punta delle sue orecchie fremette quanto avvertì un rumore all’ingresso, ma subito riprese la sua meditazione. Un piccolo uomo, vestito pesante e piuttosto grassottello, era entrato nella grotta e, rabbrividendo, si stava avvicinando all’occupante silenzioso. Ad ogni suo respiro si condensava una grossa nuvola di vapore. Si sfregò le mani, infilate in grossi guanti pelosi. Camminava lasciando grossi solchi sulla neve e sul ghiaccio con i suoi stivali. Rabbrividì ulteriormente quando vide il torso nudo dell’abitante della grotta, i suoi piedi scalzi ed il solo uso di una specie di gonna scura allacciata alla vita come indumento.

“Permesso?” domandò l’intruso, non sapendo se era esattamente la frase da usare.

Non ricevette nessuna risposta.

“Scusi…mi dispiace disturbarVi e non vorrei aver sbagliato persona ma mi hanno detto che Vi avrei trovato qui…”.

“Parla più piano” si sentì dire.

“Come?”.

“Parla più piano. Abbassa la voce. Disturbi la montagna”.

L’intruso fece una smorfia ed un’espressione confusa. Poi si schiarì la voce e continuò il suo discorso, stando attento a parlare a bassa voce.

“Vostra sorella Hope Vi sta cercando…”.

“Lo so” rispose l’altro, sempre immobile.

“Per una questione importante…”.

“In base a cosa si può stabilire se una questione è davvero importante?”.

“Vostro zio sta molto male. Potrebbe morire”.

“La vita e la morte non sono cose importanti. Sono dei passaggi obbligati. A noi la scelta di come affrontarli” rispose ancora, ad occhi chiusi e con calma.

“Vostro padre desidera tanto rivederVi”.

“È stato lui a mandarti qui?”.

“No. L’abbiamo deciso in modo indipendente, io ad altri. Siamo tutti molto vicini a vostro padre e vorremmo aiutarlo, come vogliamo aiutare Hope”.

“Quanta devozione giungere fino a qui per far star meglio colui che mi ha donato metà del suo patrimonio genetico…”.

“Voi non siete in pensiero per lui? E non Vi importa che vostra sorella Vi cerchi?”.

“Io ed il mio genitore siamo in stretto contatto. Percepisco chiaramente che cosa prova e dentro di sé ha solo confusione. Tanta, tanta, tanta confusione. Tanta quanta ne avevo io. Ma ora sono in pace e dovrebbe trovare anche lui il modo di star bene, senza rompermi l’anima. Mamma è morta, e prima si arrenderà alla cosa e meglio sarà. Non potrà mai tornare tutto come prima. Se vuole perdere la sanità mentale, che faccia pure. Io non lo posso aiutare”.

“Ma Vostra sorella…”.

“Piccola Hope…” iniziò, aprendo gli occhi. Erano meravigliosi, azzurri e luminosissimi, con lievi screziature arancio. “Ormai avete interrotto la mia meditazione…” brontolò, alzandosi.

Era un uomo molto alto il gemello di Hope, dal corpo sottile ed affusolato ma con un evidente muscolatura su braccia e gambe. Aveva le spalle piccole e la vita sottile. Si alzò, stiracchiandosi e sbadigliando. Passò le mani fra la crocchia che aveva sulla testa, con le sue dita molto lunghe e agili, e sciolse i capelli. Erano neri, corvini, scurissimi, come quelli del padre. Ma, a differenza di quelli del genitore, erano dritti e molto più lunghi. Arrivavano, infatti, quasi fino a terra.

“Siete cresciuto…” commentò l’uomo imbacuccato ed infreddolito.

“Pensa chi mi ha generato. Ovvio che sia alto”.

Si affacciò all’ingresso, appoggiandosi al bordo dell’arco d’entrata, e si accese una alquanto poco mistica sigaretta. Sbirciò i due gruppi in meditazione e sorrise vedendoli litigare.

“Dì pure a mia sorella di smetterla di chiamarmi. Non ho niente da dirle” parlò, guardando il vuoto.

Aveva una bella voce, profonda e melodica. Triste.

“Va bene…”.

“E adesso sparisci. Mi hai visto. Sono vivo. Questo puoi dire a mio padre: tuo figlio sta bene, meglio di te, lascialo in pace. So che è deluso perché non sono diventato come lui desiderava, ma io non ne ho colpa. Probabilmente è stata mamma a farmi il dono più grande: la pace. La pace e la fiducia in me stesso. Pare che mio padre, gradatamente, stia perdendo entrambe”.

“Questo perché sperava di rivedersi riflesso in Voi”.

“I figli non sono i cloni dei genitori. Sono entità a se stanti che prima o poi seguono la propria strada, che può essere o meno quella che è stata progettata per loro. E questo ormai dovrebbe averlo capito, dato l’età che ha…”.

“Potreste almeno telefonare…”.

“Hai presente dove siamo, piccolo stupido? A più di 8000metri d’altezza! In mezzo al nulla! E poi…io e mio padre abbiamo sempre avuto uno strano rapporto…” sibilò, toccandosi la gola con la mano e gettando il mozzicone della sigaretta.

L’altro uomo capì solo in parte il discorso fatto e non rispose.

“Io, in realtà, sono il degno figlio di mio padre” parlò ancora l’occupante fisso della grotta “Sono inquieto e scorbutico, irato e orgoglioso. Molto orgoglioso. Ma cerco di controllare tutto questo. Io sono "l’opposto": opposé, ellentétes, gegentail, hantai no, opuesto….oppositus! In me tutti non han visto altro che tenebre, buio e sventura. Dicono che sta scritto così. Ma in realtà io voglio dimostrare d’essere diverso. Certo, ovvio, sono l’opposto di Kriss, quello strano essere depresso, ma questo non mi rende una creatura sbagliata, come mi è sempre stato detto ultimamente”.

Si sedette, riprendendo la posizione del loto.

Ma non riusciva a rilassarsi. Il suo corpo fremeva, non per il freddo ma per la tensione rinata dentro di sé e che faticosamente tentava di sedare e controllare.

“Mio padre cerca la pace incontrando altre donne, in cerca di mamma. Io non potrei mai fare una cosa del genere. Io provo a trovare me stesso. Il mio vero me stesso. Qualcosa che mio padre non ha mai trovato. Quando saprò controllarmi e ritrovarmi in ogni momento, allora potrò lasciare questo posto e tornare a casa. Ma prima non posso fare ritorno. E qui sto bene, nonostante tutti i pettegolezzi e le malelingue che serpeggiano in famiglia e altrove. Non sono qui per dar fastidio o per fare stupidaggini. E questo gradirei molto che lo riferissi…”.

“Quali malelingue?” fece, stupito, l’uomo infreddolito.

“Non fare finta di niente…sai bene quali malelingue! Sai bene la reazione di tutti quando sentono che io sono qui, in Nepal, in silenzio a meditare in cerca di pace”.

“In effetti…” sghignazzò l’imbacuccato “…si mettono quasi tutti a ridere…”.

L’uomo dai lunghi capelli neri, con gli occhi ancora aperti, lo fissò accigliato e l’altro notò che l’azzurro era sempre più screziato di rosso-arancio. Ma l’espressione di rabbia durò poco su quel viso sottile e pallido. Le lunghe sopracciglia, che parevano disegnate, si rilassarono e si risollevarono lentamente. Fece un piccolo sorriso con le labbra vermiglie.

“Allora, mio caro amico, ora che mi hai visto…trovi ancora che ci sia da ridere?” domandò, con voce tranquilla e serena, ed un espressione rilassata. Gli occhi semichiusi e i denti bianchi appena scoperti, brillavano con la pallida luce della Luna da poco sorta.

“No, signore. Non c’è niente da ridere. Però dovete ammetterlo che è un po’ buffo pensare che Voi siate qui, data la famiglia da cui provenite…”.

“Effettivamente io troverei divertente il fatto che mio padre mi dica che và a fare una cosa del genere…ma, del resto, il mio genitore è ora in Vaticano. Non è divertente anche questo?” sogghignò, chiudendo gli occhi e sorridendo malignamente.

“Lo ammetto…è divertente anche questo!” rise l’altro.

“Lui che ad ogni occasione non fa altro che parlar male di preti, chiesa e quant’altro…che cosa buffa che sia a vivere proprio lì. A quanto pare la famiglia ha dei problemi da risolvere, ma ognuno dovrebbe pensare ai propri e fare da sé. Inutile riunirsi per piangersi addosso”.

“Riferirò il Vostro pensiero…”.

“Ti ringrazio. Ora vai pure. Vorrei tornare a concentrarmi. Tranquillizza Hope, dicendogli che sto bene e che non si deve preoccupare per me perché qui è tutto a posto. Sono vicino con il pensiero, e con quel che resta della mia anima buia, al mio caro zio morente e a tutta la sua famiglia. Ma non credo sia necessaria la mia presenza. Soprattutto considerando quanto poco sia apprezzato da quelle parti. Manda un abbraccio alla mia cuginetta Umy, a sua madre e via dicendo. Tornerò quando sentirò dentro di me la sensazione di pace totale che cerco”.

“E se non riusciste a trovare questa sensazione di pace?”.

“La troverò. Sii ottimista…”.

L’uomo fece un cenno di congedo con il capo e si voltò per andarsene.

“Un’ultima cosa…” lo fermò il meditabondo.

“Mi dica…”.

“Se riesci ad impedire che il Mondo rida della mia decisione te ne sarò immensamente grato. Non sono impazzito come tutti pensano. E tu lo hai visto”.

“Sì. L’ho visto. Riferirò…ora, però, vado per la mia strada perché qui fa decisamente troppo freddo. Non riesco a comprendere come Voi possiate stare fermo per ore, seduto sulla neve, a queste temperature…so che non riesco a resistere più di tanto ancora”.

“Vai pure. E ricorda che il freddo mantiene giovani” lo schernì, con un bel sorriso ed una risatina, mentre con le mani tornava a farsi la crocchia con i capelli lunghissimi.

L’altro non disse niente, sorrise e scosse il capo divertito, allontanandosi.

Rimasto solo, l’occupante della grotta lasciò stare la crocchia, non riuscendo a metterla in ordine per colpa del vento che di nuovo soffiava forte. I capelli gli ricaddero sulle spalle e lungo il corpo, per poi allargarsi sul pavimento circostante in ciuffi agitati. Aprì gli occhi, del tutto azzurri e con grandi pupille tonde. Si voltò verso la Luna, piena e luminosa, e le sorrise.

“Sei molto bella questa sera, Selene” mormorò.

La luce bianca del plenilunio gli illuminò il viso da una piccola apertura e lui tornò a chiudere gli occhi, lasciandosi accarezzare da quei raggi magici. Respirò a fondo, cercando di nuovo la pace. Ma riaprì gli occhi molto presto. Era molto agitato dentro di sé. Davvero suo zio stava morendo? Davvero suo padre era sull’orlo di una crisi di nervi? Stava impazzendo? E l’altro suo zio? Perché non faceva mai nulla? Queste ed altre domande cominciarono a girargli in testa. Cercò di zittire i suoi pensieri con rabbia e fastidio ma non ci riuscì subito. Si ripeté che sarebbe andato tutto bene, che andava tutto bene, che tutto passa e che non si doveva preoccupare. Ma una vocina, sempre più forte, dentro di lui ripeteva che era giusto preoccuparsi. “Se non ti preoccupi ora, quando?!” si sentiva dire. Con un notevole sforzo mentale, riuscì a calmarsi e spegnere tutte le voci, i pensieri e le domande. Tornò a chiudere gli occhi e a congiungere le dita. Calmò il suo respiro, calmò i battiti del suo cuore angosciato ed iniziò a cantare. Prima mestamente e con poca voglia, poi con tono sempre più alto e convinto. Aveva una bellissima voce anche quando cantava, non solo quando parlava. I monaci sotto la grotta, udendolo, sorrisero e si unirono tutti assieme in un unico canto di devozione alle divinità.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** VIII- Traffico ***


VIII

 

Roma, Italia

 

“Odio il traffico di Roma” borbottò, sommessamente, il padre di Hope.

Era in coda, come sempre, nei pressi del monumento a Vittorio Emanuele. Ringraziò, non sapeva bene chi, per l’invenzione del riscaldamento e lo accese a pieno regime nella sua auto nera metallizzata, di marca tedesca, con i vetri oscurati. Faceva un gran freddo quella sera ma il cielo era sereno. Lui sbirciò fuori, guardando le prime stelle e la Luna che si mostrava, ancora in parte, all’orizzonte. Aprì con un tasto il finestrino e fece penzolare il braccio sinistro di fuori, gettando la cenere della sigaretta. Subito avvertì il freddo esterno e ritirò l’arto, chiudendo di nuovo il finestrino. Rabbrividì scocciato, guardando il braccio con la pelle d’oca.

“Ma in Italia non dovrebbe far caldo?” protestò fra sé e sé.

Decise di non riaprire il finestrino ma di buttare la cenere in un piccolo contenitore d’argento che aveva in auto. Non aveva mai capito a cosa servisse. Hope gli aveva detto che era un brucia incensi ma lui lo trovò più interessante come portacenere.

Accese la radio per coprire lo snervante strombazzare dei clacson e tentò di rilassarsi, nel traffico completamente immobile. Ridacchiò vedendo due automobilisti arrivare quasi alla zuffa per un parcheggio. Guardò l’orologio. Odiava essere in ritardo ma per fortuna era partito da casa con ampio margine di tempo, prevedendo la situazione. Un’auto blu tentò di sorpassarlo, facendogli segno più volte di spostarsi con gli abbaglianti.

“Dove cazzo vuoi che vada?! Sulle scalinate del monumento ai caduti?!” sbraitò di risposta.

Dopo aver ripetuto a se stesso di stare calmo, alzò ulteriormente la radio e si accese una sigaretta con il mozzicone della precedente. Lanciò un’occhiataccia dal finestrino al tizio che lo seguiva. Evidentemente lo aveva scambiato per una donna, dato i suoi capelli lunghi, e non sopportava l’idea di guidare dietro ad un rappresentante del sesso femminile al volante. Specie perché l’auto blu in questione era un enorme SUV.

“Chissà dove deve andare con quella specie di tir metallizzato…” borbottò il padre di Hope “…però, se mi incula, scendo e gli rompo la faccia. Brutto fighetto esaltato…”.

Avanzò di qualche metro, senza nemmeno toccare il volante. Poi, d’improvviso, il traffico avanzò quel che bastava per permettergli di lasciare l’arteria principale e prendere una via secondaria. Finalmente soddisfatto per poter premere l’acceleratore, raggiunse in fretta la sua destinazione e parcheggio lungo un vicolo. Era buio, l’illuminazione stradale come al solito non andava. Tornò a guardare l’orologio. Era puntualissimo, come sempre, ma sapeva che lei ci avrebbe messo almeno mezz’ora per scendere da quei quattro salini che davano sulla strada. Odiava i ritardatari ma alle signore permetteva ogni volta quel po’ di tempo in più. Ne valeva quasi sempre la pena. Frugò nel cruscotto e si aprì una birra, in lattina, che, come era prevedibile, zampillò e trasbordò schiuma. “Merda!” sibilò, pulendo con le dita la superficie cilindrica. Poi si appoggiò allo schienale e socchiuse gli occhi, gustandosi il liquido ambrato con infinita letizia.

“Non dovresti essere del tutto sobrio per guidare?” si sentì chiedere.

Sobbalzò. Un uomo sulla trentina con i capelli neri e la giacca in pelle era entrato in macchina e gli sedeva accanto.

“Fuori da qui, ragazzino!” sbottò, ma l’intruso non si mosse.

“Sono qui per parlarti. Rilassati. Non voglio né rapinarti né ucciderti”.

“Non potresti fare nessuna delle due cose, sgorbio. E adesso và subito fuori dalla mia macchina!”. “Sono venuto ad avvertirti…”.

“Io non parlo con chi lavora per mio fratello”.

“È così evidente che lavoro per lui?”.

“Vi si riconosce lontano un miglio. Fuori!”.

“Ti consiglio di lasciar perdere la mia protetta”.

“Sofia?”.

“Sonia!!”.

“Ah, sì, giusto…Sonia! Ad ogni modo…perché dovrei lasciarla perdere?”.

“Altrimenti ci saranno delle pessime conseguenze che vorrei evitare”.

“Tipo?! Mi salti addosso e mi aggredisci?”.

“No. Non io perlomeno. Ma ci sono delle persone a cui certi atteggiamenti non piacciono”.

“Se ti riferisci a mio fratello puoi anche andare a dirgli che può baciare il mio lui sa che cosa, per quel che mi riguarda”.

“È una ragazzina!”.

“Mica tanto…”.

“Che non sa chi sei veramente! Nemmeno le hai detto che hai dei figli!”.

“Perché dovrei?”.

“Tu dici che lei è la reincarnazione della donna che amavi. Quindi, forse, non stai solo giocando. Se la ami davvero dovreste dirle la verità”.

“Tu non sai un bel niente, perciò vai fuori di qui, subito, prima che le pessime conseguenze te le mostri io sulla tua piccola e fragile persona!”.

“Guarda che io sono solo in pensiero per lei. Non me ne importa di cosa fate voi due. Mi preoccupa solo il fatto che lei stia bene e temo possa stare molto male se continua a frequentare uno come te!”.

“Meglio di me chi può proteggerla?”.

“Meglio di te chi può metterla in pericolo?”.

“Va bene. Ho capito. Starò attento, ok? Sei soddisfatto adesso?”.

“Io ti ho avvertito. Più di così non posso far niente…”.

“Esci!”.

L’intruso uscì dalla macchina.

“Amore!” chiamò la ragazza dall’appartamento.

“Dimmi, Sonia” rispose il padre di Hope, aprendo il finestrino.

“Vieni dentro. Fa freddo ed io non sono ancora pronta”.

Lui scese dalla macchina e salì i quattro scalini che separavano il marciapiede dall’ingresso. Prese la chiave del suo mezzo di trasporto fra le mani e, senza girare la testa, premette il tastino che stava su di essa. Un piccolo “bip” gli fece capire che la chiusura elettronica aveva funzionato. Entrò in casa, che ormai conosceva bene, togliendo il lungo cappotto nero. Conosceva anche molto bene gli eterni tempi di preparazione della ragazza.

“Accomodati pure. Sarò pronta fra un attimo!” si sentì dire dal bagno.

Aveva ancora un’ora e mezza allora, più o meno. Sorrise, sedendosi sul divano e accendendo la televisione. C’era un film poliziesco fin troppo banale, in cui il colpevole era subito evidente ma i poliziotti impediti non ci arrivavano. Girò un paio di canali, storcendo il naso davanti ad un reality show ed una partita di pallone. Sentì un rumore. Abbassò il volume.

“Sonia?” chiamò.

Lei urlò un “Dimmi, amore?” da sotto la doccia.

Non poteva essere stata lei a far quello scricchiolio. Spense la tivù e rizzò le orecchie, alzandosi lentamente. Fece il giro della casa e non trovò nessuno. Si convinse che era stata la sua immaginazione e tornò in salotto.

“Tesoro” sentì sussurrare.

Si girò verso la porta e vide la sua bella, con ancora i capelli biondi bagnati, con indosso un minuscolo completino intimo di pizzo.

“Tesoro…cosa metto stasera? Mi porti fuori a cena?”.

“Non vuoi che prima ti faccia venire un po’ d’appetito?” le rispose di rimano, pensando dentro di sé che poteva dire addio al suo autocontrollo.

“Vuoi fare una corsetta?” ridacchiò lei.

“Veramente pensavo ad un altro tipo di ginnastica…” sorrise lui, andandole vicino.

Eppure, pensava mentre le dava un bacio, c’era qualcosa di strano, di inquietante, in quella casa. Ma forse era tutta un’illusione. Forse erano solo delle sensazioni che la sua mente produceva, forse allarmata dalle parole di quel giovane intruso in macchina. Forse…ma la verità qual’era? Decise di pensarci dopo. Ora aveva di meglio da fare. Scacciò ogni altro pensiero mentre lei gli ordinava, con sempre più insistenza, di spogliarsi. Per poco la sua mente si placò. Dopo qualche istante la sua testa iniziò a fargli udire una voce, indistinta e lontana, che lo chiamava per nome. Si sforzò di ignorarla ma questa si faceva sempre più forte. Più aumentava il suo piacere e più quella voce alzava il suo volume finché non fu costretto a fermarsi gridando “Basta!”.

La voce finì ma lei, Sonia, lo guardava in modo strano. Che cosa dirle?

“Tesoro?” sussurrò la ragazza “Che ti prende? Qualcosa non va?”.

“No…va tutto bene. Solo che…non hai la sensazione di sentirti osservata?”.

“E da chi? Rilassati, amore mio! Non c’è nessun’altro qui tranne me e te. Và pure avanti…”.

Lui respirò a fondo un paio di volte, per calmarsi. Lei lo fissava impaziente, senza dire nulla. Lui sorrise. La voce non la sentiva più e nemmeno avvertiva quella strana sensazione di pericolo. Decise di farsi perdonare per l’interruzione prendendo a sé quella donna come mai prima d’ora e lei ne fu veramente entusiasta.

 

Quando lei si svegliò, lui non c’era. Sbuffò arrabbiata perché se n’era andato così ma poi sentì dei colpi provenire dalla cucina. Si alzò pigramente, indossando la vestaglia, e sbirciò fuori. Non aveva chiuso la porta a chiave e temeva fosse un intruso. Afferrò una delle katana che teneva vicino al letto, regalo dell’uomo che attualmente amava, e si avvicinò alla porta della cucina. Entrò circospetta, notando una figura scura vicino al lavello. La figura ridacchiò.

“Buongiorno, piccola” le disse.

E lei depose la spada, riconoscendo l’uomo che l’aveva soddisfatta poche ore prima.

“Tesoro! Sei tu! Mi hai spaventata!”.

“Credevi fossi andato via?”.

“Sinceramente…sì! Voi uomini fate sempre così!”.

“Non io, mia cara”.

“Che cosa stai facendo?”.

“Cucino”.

“Ma sono le quattro del mattino!”.

“E allora? Non ho cenato e ho fame. Tu no? Non mi va di aspettare fino al mattino per fare colazione”.

“Cosa stai cucinando?” domandò lei, sorridendo.

Lui aveva fra le mani un lungo coltello e stava affettando cipolle.

“Sto preparando le verdure per il sugo”.

“Non piangi a tagliar le cipolle? E poi…sugo per cosa?”.

“Speravi di vedermi piangere così facilmente? E comunque il sugo è per la pasta”.

“Pasta in piena notte?!”.

“Non va di moda in Italia la pasta di notte?”.

“Non sei italiano anche tu?”.

Lui non rispose. Buttò in pentola le cipolle, le carote ed i pezzettini di carne, mescolando lentamente ed assaggiando di tanto in tanto. Lei si leccò i baffi. Il profumino era delizioso.

“Non sapevo che sapessi anche cucinare…ma, del resto, ci sono moltissime cose che non so su di te. Chissà quando ti deciderai a dirmi qualcosa…”.

Lui le sorrise e scolò la pasta. L’orologio che aveva al polso fece due “bip”. Le quattro.

“Buon appetito” disse lei, arrotolando gli spaghetti con la forchetta e facendosi versare il vino.

Mangiarono assieme, parlando poco. Lui era di nuovo pensieroso.

Finito di mangiare, l’ospite rimise la camicia ed il cappotto, salutò educatamente con un bacio ed uscì, nel freddo che precede l’alba. Non si sentiva a suo agio e decise che allontanarsi da lei momentaneamente gli avrebbe fatto bene alla mente. Risalì in macchina, senza allacciare la cintura, e si avviò verso casa. Accanto alla soglia un pensiero gli balenò in mente: “Devo dirle la verità”. Inchiodò ed invertì la marcia.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** IX- Dubai ***


IX

 

Dubai, Emirati Arabi

 

Kriss arrivò al palazzo del padre verso l’ora di pranzo, con il caldo soffocante che lo accompagnò quando le porte scorrevoli lo fecero passare ed entrare. Aveva un’aria tranquilla ed un’espressione serena, anche se priva di sorriso. Si era vestito in modo semplice e sobrio, maglietta bianca e jeans, anche se dava nell’occhio a causa della pettinatura nuova. La gente all’interno dell’edificio non era abituata a vederlo con i capelli neri, dritti e sugli occhi, a coprire parte del suo sguardo color cioccolato. Hope era rimasta ad aspettarlo nella stanzetta in cui era stata gentilmente accompagnata.

“Buongiorno, Jibrihel” salutò Kriss.

Subito i presenti si alzarono in piedi, in segno di rispetto, e salutarono in coro il figlio del padrone.

“Dove sta mia cugina Hope?”.

“Nella saletta privata, Signore. Vi accompagno” si offrì Jibrihel.

In realtà dentro di sé si stava ripetendo che non meritava tanta riverenza quel ragazzino di cui ricordava perfettamente la nascita e che non rispettava, momentaneamente, la volontà del padre.

“So bene, Jibrihel, che mio padre ha dato l’ordine tassativo di non far entrare Hope. E so che per questo tu disapprovi il mio comportamento attuale. Ma fidati se ti dico che lo faccio per una buona ragione. Più che buona. E adesso, scusami, ma la strada la conosco da me. Torna a far la segretaria”.

Jibrihel non rispose. Chiuse i pugni e tornò alla sua postazione senza rimbeccare. Kriss imboccò il corridoio con sicurezza fino a raggiungere la stanza in cui stava la cugina. Rimase sull’uscio ad osservarla. Si era messa a giocare a scacchi con un impiegato dell’edificio e stava vincendo. Alzò gli occhi dalla scacchiera, notando l’arrivo del cugino. Scattò in piedi con un sorriso ed andò ad abbracciarlo, con entusiasmo.

“Che bello vederti qui! Fatto buon viaggio?”.

“Viaggio splendido, grazie. E spero anche la tua momentanea permanenza qui…”.

“Insomma. Avrei preferito risolvere prima la faccenda, ma ora che ci sei tu andrà di sicuro meglio”.

Kriss le porse il braccio ed insieme si avviarono lungo lo stretto e luminosissimo corridoio che precedeva le scale.

“Scusa. Ma mio padre è stato categorico: se vuoi salire lo dovrai fare a piedi. Niente ascensore”.

“Non fa niente, cugino. Non mi fermerà con così poco!”.

“Benissimo”.

Iniziarono a salire i diversi piani. Le scale erano in marmo chiaro e brillavano alla luce del Sole. Dalle immense finestre si poteva scorgere uno splendido panorama.

“Si deve vedere l’alba e il tramonto in modo perfetto da lassù in cima…” osservò Hope.

“Risparmia il fiato…sai quanti piani sono? Ad ogni modo…sì, la vista è perfetta dalla cima”.

Ridacchiando i due entrarono nel primo livello dell’edificio. Con una piccola Luna sulla porta a vetro smerigliato che lo separava dal corridoio, era affollatissimo. Gli impiegati dei primi piani erano molto indaffarati e correvano continuamente su e giù riponendo ed ordinando documenti in vari armadietti tutti uguali, stesso colore e stessa forma. Hope si chiese come non facessero ad impazzire. I due cugini passarono in mezzo a loro. Le scale erano state costruite in modo tale da dover per forza attraversare tutti i piani interamente. Kriss si disse dentro di sé che chi aveva pensato ad una cosa del genere era un cretino ma poi realizzò che, probabilmente, era stato suo padre e a quello piacevano le cose complicate. Percorrendo scale e stanze, corridoi e uffici, i due raggiunsero il secondo livello. Lì la folla era più rada e tutti erano leggermente più tranquilli.

“Quanti livelli ci sono?” domandò Hope.

“Nove. Mi spiace…sono un po’ tanti. Dimmi se ti devi fermare”.

“Dimmelo tu! Io sono abituata a far movimento, mollaccione!”.

Percorsero gli altri livelli in silenzio. Per risparmiare fiato principalmente, ma anche perché gli impiegati erano sempre meno numerosi e sempre più silenziosi. Nessuno di loro sembrava far caso ai due cugini che procedevano alla pari, l’uno accanto all’altro. Ogni livello aveva qualcosa di particolare che Hope riuscì a cogliere. Quello più luminoso, con il Sole inciso sulla porta d’accesso, era un luogo di studio. Tutti leggevano e riportavano degli appunti su dei quaderni rilegati. In quello con il simbolo di Marte sull’uscio, con i corridoi rossi, notò che erano riposte delle valigette uguali a quella che Michael aveva portato con sé. Non chiese cosa contenessero ed avanzò convinta.

Il padre di Kriss aveva il suo ufficio nell’ultimo livello, oltre il nono. L’ingresso al decimo era spettacolare. Era grande, luminoso, dorato e privo di simboli. Kriss spinse quella specie di portone ed entrò per primo. Controllò chi c’era all’interno e poi fece entrare Hope, porgendole la mano.

Il decimo livello era composto da una sola, immensa, stanza con grandi finestre su tutte le pareti. Ma il panorama non era mozzafiato come si aspettava Hope. Tutt’attorno si vedevano solo nuvole e nebbia. Una distesa bianca e soffice senza fine, con il Sole lontano che ancora si scorgeva.

“Padre?” chiamò Kriss, ma non ricevette risposta. “So che ci sei” incalzò, ancora senza risultato.

Sbuffò, guardandosi attorno.

“Accomodati, Hope. Credo di aver capito dove si trova” disse poi, fissando una grossa poltrona rivolta verso una delle finestre. Anche Hope si girò verso quella direzione e una mano si allungò dalla poltrona alla vicina scrivania per afferrare un bicchiere di vino rosso. Portava un grosso anello dorato. Kriss lo chiamò un paio di volte ma non ne richiamò l’attenzione. Ruotò gli occhi al cielo e sedette in un’altra poltrona, più bassa e meno imponente, facendo cenno ad Hope di far lo stesso.

“Io sono qui per parlarti. E non mi interessa se sei arrabbiato perché ho portato Hope su con me. Adesso io e lei ci sediamo qua e finché non ci darai ascolto”.

L’unica risposta che arrivò fu un lampo dal cielo. Hope trasalì. Era sereno fino a pochi minuti fa…

Kriss era rilassato. Sfogliò distrattamente una rivista di gossip che stava sul tavolino accanto ai suoi piedi e, a gambe incrociate, cominciò a conversare con Hope del più e del meno.

“Che cosa hai fatto ai capelli?”si sentirono interrompere.

La voce del padre di Kriss era molto profonda e faceva spavento, specie se, come in questo caso, si metteva a parlare di colpo.

“Non ti piacciono?” domandò il figlio.

“Per niente” rispose il padre “Sembri un ragazzino. E non lo sei più da un bel po’, da quel che mi risulta. Anche se, da certi tuoi atteggiamenti, dubito che tu te ne renda conto”.

“Lo so di non essere più un ragazzino. Infatti sono qui per discutere con te su un argomento molto serio, se ti degni di girarti ed ascoltarmi”.

“E Hope? Potevi benissimo venire da solo”.

“L’idea è stata di Hope e quindi è giusto che sia qui”.

“Giusto per chi?”.

“Giusto per me!”.

Seguì il silenzio, interrotto solo dalla risatina di Hope.

“Cos’hai da ridere?” tuonò il padre.

“Sono felice, zio. Mi rendo conto che non è tutto rosa e fiori nella vostra famiglia come vi piace far credere. State tanto a criticare la mia, ma pare che anche qui…”.

“Fa silenzio! Il rapporto fra me e mio figlio è molto diverso fra quello che c’è fra te e mio fratello”.

“Io non credo. E comunque sono qui per porti un invito”.

“Lo so bene”.

“Certo. Tu sai sempre tutto” commentò Hope, sarcastica.

“Papà…siamo qui per dirti che vorremmo riunire tutta la famiglia” parlò Kriss.

“Idea ambiziosa, figlio. Buon pro ti faccia cercare di inseguire simili castelli in aria”.

“Ma…noi lo vogliamo per un buon motivo! Lo zio ha dei problemi e…”.

“Mio fratello ha sempre avuto dei problemi!”.

“Non mio padre! Ci stiamo riferendo all’altro zio!” sbottò Hope.

“Numero due?” si incuriosì il padre di Kriss.

“Sì, papà. Quello che tu chiami "numero due". Sta molto male”.

“Da tanto non avevo sue notizie. Ha scelto un’isola piuttosto sperduta e mi impedisce di sapere più di tanto quello che combina. Sta proprio male?”.

“Sta morendo” affermò Hope, rimanendo tranquilla.

“Impossibile! Lo saprei! Perlomeno prima di voi!”.

“Umy mi ha chiamato in cerca d’aiuto. Non sapeva a chi rivolgersi”.

“E ha chiamato te, Hope?! Su tante persone nel Mondo non avrei di certo chiamato te in caso d’emergenza!”.

“Papà!” esclamò Kriss, lievemente allarmato. “Papà! Perché dici questo?!”.

“Tu chiameresti Hantay se stessi male?”.

“Se fossi solo e spaventato e se tu stessi male, sì. Chiamerei mio cugino Hantay. E sua sorella Hope. E anche il loro padre, che ti piaccia oppure no!”.

Il padre non disse altro. Hope non commentò e Kriss, ormai in piedi, andò ad appoggiare le mani sulla scrivania a cui dava lo schienale la poltrona su cui stava il suo genitore.

“Papà…io e Hope siamo qui per chiederti se vieni con noi sull’Isola di Kai per rimanere accanto a tuo fratello, padre di Ocean e Umy, per restargli accanto. Che stia morendo non è certo, ma sicuramente sta molto male. Senza contare che tutta la nostra famiglia ha dei problemi che sarebbe bene risolvere. Sarebbe una splendida occasione ritrovarci e discuterne. E magari risolvere”.

Il padre non rispose.

“Ti lasciamo riflettere ora, papà. Ma gradirei molto rivederti in Indonesia”.

“Hope…” parlò il padre, dopo qualche secondo di silenzio.

“Dimmi zio” mormorò lei, alzandosi ed avvicinandosi al cugino.

“Hope, mia cara nipote, raggiungi tuo padre a Roma”.

“Ci ho provato. Ma lui non ha voluto ascoltarmi”.

“Ora ti ascolterà”.

“Cosa te lo fa pensare?”.

“Me lo fa pensare il fatto che io sono onnisciente e sapevo gia da un po’ che sareste venuti qui e tutto il resto”.

“Ma…”.

“Non mi interrompere! Fidati di me. So cosa impedisce a tuo padre di usare la sua solita, forte, razionalità. Ma sta tranquilla. Presto andrà tutto a posto. Ho ancora alcuni dettagli da risolvere ma vedrai che all’Isola di Kai saremo tutti, tuo fratello Hantay compreso”.

“Ma Hantay è in Nepal! Non ho idea di come contattarlo!”.

“Dubiti di me? Ricordati chi sono…” esclamò il padre di Kriss, facendo girare la poltrona e guardando la nipote con un sorriso sornione. Hope lo guardò a sua volta, leggermente turbata. Aveva i grandi occhi marroni di Kriss ad una lunga barba bianca. Tornò a girare la poltrona e a guardare fuori dalla finestra.

“Vieni con noi, papà?”.

“Non ancora, Kriss. Ho ancora delle cose da fare, te l’ho detto”.

“Bene. Allora…ci incontriamo là”.

“Sì”.

“Entro la fine del secolo?” borbottò il figlio.

“Non rompermi l’aureola, Krist! Non ti preoccupare!”.

Kriss sorrise, soddisfatto. Porse il braccio ad Hope e fece per uscire.

“Mandami Jibrihel, ragazzo mio, e fate entrambi buon viaggio. Fate attenzione”.

“Sì papà”.

“Magari padre…”.

“Va bene, padre!”.

I due cugini si allontanarono, accompagnati dallo sguardo del Padre che li fissò un po’ perplesso ma poi tornò a rilassarsi in poltrona, in attesa di Jibrihel. Hope e Kriss presero l’ascensore per ridiscendere. Era di vetro e dava sull’esterno. Molto suggestivo scendere attraversando le nuvole.

“Raggiungi tuo padre, Hope. Ci rincontreremo in Indonesia al più presto”.

“Certo. E speriamo che davvero siano tutti presenti…”.

“Dubiti di ciò che ti ha detto mio padre?”.

“Non lo so…io dubito sempre di tutti”.

“Non dovresti…fidarsi di qualcuno è una cosa buona”.

“Io mi fido di te!”.

“Grazie per la fiducia…”

Rimasero in silenzio, mentre l’ascensore scendeva.

“Hope…io mi chiedevo…so che è una domanda un po’ delicata ma…come stai? Intendo dire…dopo quello che è successo a tua madre…”.

“Sto cercando di non pensarci. Ad ogni modo…dei membri della mia famiglia in senso stretto sono quella con meno problemi”.

“Ho saputo che tuo padre incolpa mio padre…”.

“Già. E non sono del tutto sicura con abbia torto”.

“Come?! Non dirai sul serio?!”.

“Tu saresti pronto a giurare che né tuo padre né nessuno dei suoi sottoposti siano coinvolti?”.

Kriss chinò il capo. “No” ammise “Hai ragione, Hope. La nostra famiglia è una cosa spaventosa. Fratelli che litigano, cugini che si odiano, mogli e mariti…tutti contro tutti…ma, per fortuna, io e te andiamo d’accordo!”.

“Vero! Bisogna cercare di vedere le cose positive. Certo che è strano…tuo padre sapeva gia tutto e ci ha fatto fare tutta questa fatica. Poteva andare da solo all’Isola di Kai!”.

“Non credere sempre a tutto quello che dice mio padre. Non è che sa sempre tutto…”.

Seguì un altro silenzio, in cui Hope sorrise e Kriss sembrò più che sereno.

 “Sai una cosa, Kriss? Stai meglio con i capelli tagliati così!”.

“Davvero? Fin ora mi han detto tutti che son brutti”.

“E tu non ascoltarli! Ascolta me che ti dico che son belli. Ti stanno bene”.

“Anche i tuoi, così raccolti, ti stanno bene”.

“Grazie. E grazie per avermi permesso di entrare con te”.

“Ogni tanto qualche regola va infranta”.

“Questa affermazione mai me la sarei aspettata da uno come te”.

“In che senso?”.

“Nel senso che è sempre strano quando il grande figlio del grande Numero Uno fa qualcosa di strano, al di fuori degli schemi. Dovresti farlo più spesso. È divertente”.

“Stai cercando di indurmi in tentazione?”.

“Sto cercando di liberarti dal male!” sorrise Hope.

“E quale sarebbe il mio male?”.

“Sei depresso!”.

“Non è vero!”.

“Sì invece. In India eri molto più rilassato e felice. Me lo ricordo. Ma, ultimamente, ti sei intristito. Ora non sorridi mai e sei sempre pensieroso. Rilassati un po’…ti farebbe bene!”.

“Anche tu dovresti rilassarti, mia cara!”.

“Farò il possibile!”.

Si fissarono. Hope sorrideva ma Kriss era serio.

“E dai, Kriss! Ridi ogni tanto!” lo stuzzicò Hope, toccandogli la pancia per fargli il solletico.

Kriss la fermò e le mostrò la lingua.

L’ascensore si fermò con un tintinnio e le porte si aprirono. Erano arrivati al piano terra.

Si separarono. Kriss si ricompose con un colpo di tosse e avanzò lungo il corridoio. Incrociando Jibrihel gli riferì l’ordine del padre e ricevette un piccolo inchino di risposta. Hope si lasciò alle spalle il bancone d’ingresso con passo svelto.

“Aspetta, Hope!” la fermò Kriss.

“Dimmi cugino”.

Kriss rimase in silenzio qualche istante. “Fa buon viaggio” disse, dopo un po’.

“Grazie” rispose lei.

Si lanciarono un ultimo sguardo, lungo e strano, prima di separarsi definitivamente.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** X- sfida in mare ***


Isola di Kai, Indonesia

 

Ocean era giunto nel tardo pomeriggio in quell’isola sperduta fra le acque del mare. Non sapeva bene cosa aspettarsi. La casa sembrava deserta. Entrò nel salone dalle arcate e dalle colonne attorcigliate e cominciò a chiamare i membri della famiglia.

“Mamma? Umy? Papà? Ci siete? Sono io, Ocean!”.

La sua voce riecheggiò lungo le stanze senza risposta. Ocean storse il naso e si avviò lungo le scale, verso la sua stanza. Era chiusa a chiave, ma lui ne aveva una copia e quindi la aprì senza difficoltà. Respirò a pieni polmoni il vento dell’oceano che entrava dalla finestra aperta. Chiuse gli occhi per un paio di secondi e sorrise: si sentiva a casa circondato dalle acque! Appoggiò sul letto verde smeraldo il suo zaino e guardò giù. Dalla finestra spalancata poté vedere la spiaggia e intravide delle figure su di essa. Urlò chiamando la sua famiglia e una di queste figure si girò, salutandolo con la mano. Soddisfatto, Ocean decise di raggiungere il gruppo. Si cambiò e scese correndo lungo le scale e poi sulla spiaggia. Lì ad attenderlo c’era sua sorella Umy, sorridente e bagnata d’acqua salmastra. Sua madre si trovava poco più in là, assorta nella lettura di un romanzo giallo.

“Dov’è papà?” domandò Ocean e le due donne indicarono il largo, le onde.

Ocean allungò il collo e vide suo padre, lontano, fra i cavalloni.

“Ah bene! Vedo che sta meglio!” si rincuorò il giovane.

“Non è che sta bene ma…non riuscivamo a tenerlo lontano dal mare” rispose la madre, ignorando momentaneamente la sua lettura.

“Papà!” lo chiamò il figlio a gran voce.

“Andiamo” gli propose la sorella ed entrò in acqua.

Ocean non se lo fece ripetere e seguì la sorella. Il mare era favoloso, caldo, calmo e pulito. L’ideale per una nuotata e per divertirsi un po’. Una bracciata dietro l’altra si ritrovarono circondati solo dall’azzurro e dai cavalloni. Facevano a gara a chi andava più veloce. Ocean si immerse ed osservò il fondale, disapprovando il fatto che anche lì poteva scorgere bottiglie in vetro abbandonate e altri rifiuti che non si sarebbero sciolti facilmente. Riemerse accanto a suo padre.

“Eccoti, papà. Non ti stanchi e star qui, così lontano dalla riva? Forse faresti meglio a riportarti più vicino alla spiaggia…”.

“Sto bene, Ocean” lo tranquillizzò il padre.

“Sei sicuro? Per quanto bravo sia a nuotare, non posso garantirti di riuscire a riportarti a galla se affondi. Riportati in un punto dove, almeno, tocchi con i piedi!”.

“Il mare non mi ucciderà, figlio mio. Questo è sicuro”.

“Però mi sentirei più sicuro se ti riavvicinassi alle sponde…”.

Il padre, di tutta risposta, si allontanò ulteriormente. Non mosse le braccia o le gambe ma si fece condurre dalla corrente, improvvisamente forte, che travolse anche Ocean, spostandolo.

“Smettila, papà!” protestò, cercando di non farsi trascinare.

“Non avere paura”.

“Non ho paura. Ma voglio che tu la smetta!”.

Il padre sbuffò e il mare tornò calmo.

“Sei più noioso di tua madre…”.

“Non dire fesserie. E adesso, da bravo, torna verso riva!”.

Il padre non obbedì ma guardò il figlio in modo beffardo.

“Costringimi. Sono sicuro che non ci riesci…”.

“Non obbligarmi a farti del male…smettila di fare il bambino e seguimi!”.

Anche Umy aveva raggiunto suo padre e ora lo guardava, dando ragione al fratello.

“A quanto pare, ultimamente, mi date tutti del bambino…” ridacchiò il genitore.

“Forse perché fai il bambino, papà!” esclamò Umy.

“Allora…bambini miei…a quanto pare la vostra bislacca idea di riunire la famiglia non è andata a buon fine! Siamo soli…”.

“Veramente Kriss sta giungendo qui e anche suo padre. Presto ci raggiungerà anche Hope e, forse, il resto della sua famiglia” affermò Ocean.

Il padre parve molto perplesso e stupito davanti a quella affermazione. Guardò entrambi i suoi figli con grandi occhi luminosi e non disse altro. Immerse parte del viso in acqua e rimase così, fermo, per un po’. Poi riemerse e sorrise a suo figlio.

“Facciamo una gara, Ocean?”.

“Una gara?! Papà, nelle tue condizioni?! Ti droghi?!”.

“Avanti…non fare il bacchettone! Facciamo una gara. Usa tutte le tue forze e cerca di battermi. Facciamo a chi arriva prima da tua madre…”.

“Facciamo che adesso, da bravo, vieni a riva senza far storie e sforzi…”.

“E dai! Potrebbero essere i miei ultimi giorni! Non mi permetti di divertirmi un pochino?”.

“No, se compromette la tua salute”.

“In realtà hai paura di perdere…”.

Ocean non rispose. Si accigliò e storse il naso. Umy, rimasta in silenzio, incitò il padre a tornare in casa con lei ma il padre partì, con uno scatto, e passò accanto al figlio con aria di sfida.

“Scommetto che non mi raggiungi, ragazzo mio!” urlò.

Ocean sospirò. Si chiese perché gli anziani, a volte, regrediscono a livello infantile. Eppure, si disse, i suoi due fratelli gemelli non fanno così. O forse sì? Poco convinto, iniziò a nuotare dietro il padre.

“Muta, figlio mio! Non avrai la pretesa di battermi rimanendo con quella forma? Per chi mi hai preso? Avanti! Anche tu, Umy!”.

I due fratelli si guardarono negli occhi e si immersero, iniziando a nuotare sempre più veloce. Ma non riuscirono a raggiungere il padre, che li attese seduto sulla spiaggia.

Ocean riemerse, nel suo vero aspetto, dalle onde del mare con il fiatone. Umy si stese sul bagnasciuga per riprendersi. I due fratelli si fissarono, perplessi.

“Tu…sei un imbroglione! Non è vero che stai male!” accusarono il padre, che si era seduto accanto alla moglie, con gli occhi semichiusi.

“E voi non siete ancora pronti. Avanti, mio piccolo ramarro verde, torna pure al tuo aspetto di copertura e vieni a sederti accanto a me. Ti devo parlare”.

Ocean respirò a fondo, mentre la sua pelle perdeva il colorito verde e le squame. La piccola pinna che gli cresceva sul dorso rientrò, così come le membrane fra le dita dei piedi e delle mani. I capelli, che si erano tinti di azzurro e gonfiati, tornarono biondi e calmi. I suoi occhi, grandi e tondi, ridivennero normali, umani. Sedette accanto al padre, fissandolo in modo strano, con rimprovero.

“Non guardarmi così. Io sto male davvero. Sto perdendo forza gradatamente e tu ancora non sei in grado di prendere il mio posto”.

Ocean non parlò. Guardò sua sorella Umy uscire dall’acqua e tornare la solita ragazza dalla pelle nera, invece che la sirena dalla pelle color oltremare che era prima.

“Figlio! Non demoralizzarti!” ridacchiò il padre.

“Non mi demoralizzo. Non pretendevo di battere il dio del mare”.

“Bravo. E allora cos’è quella faccia?”.

“Ma speravo di andarci vicino…almeno ora che, a quanto pare, sono prossimo a prendere il tuo posto. Ma i nostri poteri, a confronto, non sono paragonabili”.

“Sei giovane, Ocean. Non crederai mica che io sia nato così? E nemmeno i miei fratelli son nati con chissà che capacità. Si va a tentativi. Quello che è vero è che né tu né tua sorella siete pronti a far il lavoro che svolgo. Non ancora. Ma verrà il giorno. Il problema è che quando giungerà quel giorno.. io non ci sarò già da tempo”.

Ocean guardò il padre, con i lunghi capelli bianchi mossi dal vento, e gli andò vicino. Gli si sedette accanto e lo sfiorò con la mano.

“Guarda, Ocean” mormorò il padre, e sollevò una mano.

Solo in quel momento il figlio notò che il padre stava perdendo il suo stato corporeo. Stava divenendo trasparente, un’ombra e nulla di più.

“Ma…papà! Perché solo a te? Perché i tuoi fratelli stanno bene?”.

“Nessuno di noi sta bene, piccolo mio. Ma ognuno reagisce a modo suo. Sono finiti i tempi d’oro. Come tutte le cose, anche noi abbiamo un’alba ed un tramonto, un inizio ed una fine. Siamo tutti figli del Caos e del Destino, ricordatelo. Le cose capitano e non si può per questo incolpare qualcuno, salvo eccezioni. Ma nel mio caso non ci sono eccezioni. Non è colpa di nessuno se, lentamente, mi sto consumando fino a scomparire”.

“Questa è una cosa molto triste…”.

“Triste o non triste è la verità, Ocean. Ed è meglio per voi che iniziate ad accettarlo. È notevole il vostro impegno per riunire la famiglia, ma non credo possa servire a qualcosa. Certo, mi farebbe piacere rivedere tutti, ma certe cose sono irrisolvibili. Senza contare che Numero Uno e Numero Tre litigheranno di sicuro. È il loro mestiere. E più che il controllo delle acque mi preoccupa il fatto che, senza di me, nessuno controllerà loro”.

“Ci sono io. C’è Umy. C’è Hope. Su Hantay non farei più di tanto affidamento…”.

“Non lo so…è un’impresa piuttosto ardua essere sempre il giudice di pace fra quei due. È vero, c’è Hope che è una brava ragazza in fondo, gran cosa dato che razza di padre si ritrova. Ma dubito che il suo genitore sia gestibile. Per non parlare di Numero Uno…”.

“Per lui c’è Kriss…”.

“Oh, povero Kriss!!!!”.

“Dai! Non essere negativo!”.

“Non sono negativo. Dico solo che, quando e se, li avrai tutti qui, ti renderai conto di quanto siano ingestibili sotto certi aspetti e di quanta pazienza ci voglia”.

“Kriss ha pazienza”.

“Certo. Ma Kriss è pacifista. Non imporrebbe mai le sue idee”.

“Le cose cambiano, papà” sorrise Umy.

“Chissà. Potrebbe essere. Chissà cosa ci riserba il futuro”.

“Per ora il futuro ti riserba una bella dormita!” si intromise la moglie.

“Anfy! Tesoro! Cerca di essere comprensiva…non ho sonno! E poi sto facendo un discorso ai nostri figli sullo stampo del "un giorno tutto questo sarà tuo". Lasciami finire!”.

Anfitrite sorrise.

“Vi do altri dieci minuti. Dopodiché vi voglio vedere tutti in casa! Vi aspetto là!”.

Detto questo si alzò e lasciò la spiaggia, andando verso la dimora color verde acceso.

“Allora papà…” iniziò Umy “…alla fine ammetti di essere contento se la famiglia sarà qui!”.

“Non ho detto di esserne contento. Dico solo che, a questo punto, è inevitabile. Ma chissà se effettivamente ci saranno tutti. Numero Tre è così…scostante…”.

“In effetti è quello che dà più problemi. Dopo Hantay che è in Tibet…” commentò Ocean.

“Nepal” lo corresse Umy.

“Quello che è! Comunque è in mezzo al nulla e non è facile contattarlo. Ma Hope mi ha assicurato che ha trovato un accordo con Numero Uno”.

“Ah se Numero Uno ci mette lo zampino in un modo o nell’altro avrete Hantay alla festa. Cadavere forse, ma ci sarà” commentò il padre.

“Come cadavere?! Ma che dici?!”.

“Diciamo che Numero Uno ha uno strano modo di ottenere le cose..”.

“Speriamo di no, in questo caso!” ridacchiò Ocean.

“Non c’è niente da ridere!” lo rimproverò il padre.

“Andrà tutto bene! E adesso rilassati e alzati. Rientriamo in casa, altrimenti mamma si arrabbia”.

“Oh sì, rientriamo di corsa! Preferisco vedere Numero Uno e Numero Tre picchiarsi fra loro piuttosto che mamma arrabbiata!” commentò il padre, alzandosi in fretta.

I due fratelli lo seguirono, ad una certa distanza.

“Allora…è vero che arrivano tutti?” furono le parole di Umy. E Ocean annuì, anche se non molto convinto.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** XI- sangue ***


XI

 

Roma, Italia

 

Quante volte aveva mentito? Quante volte alla domanda “Chi sei veramente?” aveva risposto con una menzogna? Non lo sapeva nemmeno lui. Quante volte ancora sarebbe stato costretto a celare la verità? Il padre di Hope correva veloce con la macchina, ripensando alla sua ennesima bugia. Ripensava a quando aveva raccontato a Sonia del suo tatuaggio. Sulla sua spalla sinistra, era lo stesso che portava suo figlio e le sue figlie. Distrattamente si era fatto sfuggire che tutta la sua famiglia ne aveva uno uguale, nello stesso punto. E lei aveva domandato se per famiglia intendesse i suoi fratelli. Lui, distrattamente come con la prima rivelazione, aveva negato e allora lei aveva voluto sapere chi esattamente portava quel tatuaggio. Voleva sapere della sua famiglia e lui non aveva avuto il coraggio di dirle che aveva dei figli e così si era aggrappato ad un’altra bugia. Ma ora lui era più che deciso a smettere. Aveva ragione quel ragazzo che era entrato nella sua macchina: se l’amava davvero doveva dirle la verità. Ma lui l’amava davvero? Non aveva importanza. Qualcosa gli diceva di tornare di corsa in quella casa e parlarle. Di essere, per una volta, sincero. Parcheggiò il suo mezzo in fretta e furia e salì i quattro scalini d’ingresso. Suonò il campanello, ma nessuno venne ad aprire.

“Sonia!” chiamò, allegramente “Sono io! Ti sei addormentata di nuovo, pigrona?”.

Fece per bussare ma si accorse che la porta era aperta. Si stupì della cosa. Lui era sicuro di averla chiusa per bene quando era andato via. Che fosse tornata ad uscire? Per andare dove, alle sei di mattina? Spinse la porta ed entrò silenziosamente.

“Sonia?” chiamò un paio di volte, stando attento ad ogni rumore.

Andò verso la camera, a piccoli passi vellutati, senza far scricchiolare il pavimento in legno. Vide il braccio di lei sporgere dal bordo del letto. Evidentemente si era addormentata di nuovo.

“Sonia! Sveglia!” esclamò lui, con un gran sorriso.

Ma poi si rabbuiò. C’era un profumo familiare nell’aria. Familiare, ma non molto rassicurante. Sangue! Entrò nella camera con convinzione e vide la ragazza riversa sul letto, con un coltello piantato nel petto. Gli occhi spalancati verso il cielo e la bocca aperta per un ultimo grido, era immobile con i capelli biondi ormai tinti di rosso rubino. Lui si avvicinò, sperando in qualche segno vitale, ma lo notò subito che ormai da quelle labbra blu non sarebbe più uscito alcun respiro.

“Se fossi in te, io scapperei” si sentì dire.

Voltandosi vide un uomo moro e massiccio sulla porta, che stava richiudendo una valigetta nera.

“Fossi in te scapperei. Il coltello che ho usato è quello che hai maneggiato tu stamattina per preparare da mangiare meno di due ore fa, le tue impronte sono ovunque senza contare che ora le suole delle tue scarpe stanno lasciando un chiaro disegno sul parquet macchiato di sangue. Per non parlare del fatto che ci hai fatto sesso. Troverebbero subito tracce organiche. La polizia non avrebbe dubbi sul colpevole se venisse qui. E se ti accusassero di stupro, oltre che d’omicidio?”.

“Bastardo!”.

“Tutto qui? Suvvia…so che puoi fare di meglio!”.

“Michael!” sbraitò il padre di Hope e fece uno scatto verso l’uomo “Mi hai incastrato, figlio di puttana”.

“Non sono un figlio di puttana e comunque io eseguo solo gli ordini. Ti consiglio di sparire”.

Detto questo Mihael corse, accompagnato dalle urla del padre di Hope, che quasi scivolò sulla macchia scarlatta sul pavimento. Michael aveva ragione. Lo avrebbero trovato sicuramente colpevole. Chi altro se non lui avrebbe voluto la morte di quella ragazza? E le sue impronte erano davvero ovunque. Corse fuori, deciso come non mai ad acciuffare l’assassino, ma questi era gia lontano, in sella alla sua moto. Non si perse d’animo e salì in macchina.

Le scarpe macchiate di sangue, il coltello, i testimoni che lo avevano visto entrare ed uscire dalla casa…tutto era contro di lui. Ormai il Sole era sorto. Cosa fare?

Per prima cosa imboccò una strada secondaria, sicuro che era quella che aveva imboccato Michael. Accelerò a fondo. Se dovevano arrestarlo voleva che fosse per un servizio completo. Omicidio, stupro, furto, dato che lei gli aveva donato un gioiello ma nessuno gli avrebbe creduto, scasso ed ora un bell’incidente mortale. Meglio di così non poteva chiedere. Accelerò ulteriormente, intravedendo da lontano la moto di Michael.

“Fermati, fottuto schiavo dell’Onnipotente!” urlò.

Era sicuro di sentire le sirene della polizia e le grida di paura di varie persone.

Michael entrò in un parco, sfondandone il cancello. L’inseguitore imprecò. Con la macchina era impossibile seguirlo, il sentiero era bloccato da due cunette in cemento. Lasciò la macchina in diagonale, alla bene e meglio, e corse dentro. Iniziò a correre, nella penombra dell’alba, fra gli alberi e le varie piante. Seguiva il sentiero di ghiaia che si intravedeva fra il verde e le panchine color rosso acceso, però aveva perso di vista il suo obbiettivo. Correva facendo scricchiolare i suoi passi sulle foglie secche ed i rami, mentre parte di loro rimaneva attaccato alle suole sporche ed appiccicose di sangue. Dov’era andato a finire l’individuo che inseguiva? Un volo di corvi accompagnò le sue grida di rabbia. Si mise le mani fra i capelli, respirando a fondo per calmarsi. Ma non ci riusciva. Le sirene della polizia si facevano più vicine.

“Mi hai incastrato! Mi hai fottuto! Me l’hai portata via di nuovo!” urlò al cielo “L’hai portata via da me di nuovo!” ripeté ancora alle nuvole.

In mezzo al parco c’era un grande stagno, con due bellissimi cigni che nuotavano fianco a fianco. Lui li guardò. Erano splendidi, con quelle ali candide. Avanzavano vicini. Erano una coppia e il padre di Hope li guardò con nostalgia e bruciante invidia. In lontananza un cigno nero stava su una piccola roccia, a capo chino. Lui e l’uomo si guardarono, rispecchiandosi l’uno con l’altro. Il padre di Hope si sentiva come quel cigno. Aveva perso il suo candore ed ora era da solo.

“Ma sei comunque bellissimo” parlò una voce.

Lui trasalì. Chi era stato a parlare? Il parco era deserto. La polizia stava arrivando. Forse non poteva far altro che aspettarla lì, in mezzo al verde, e farsi rinchiudere. Non aveva niente da perdere.

“Cosa fai lì impalato? Scappa! Corri! Non scontare la pena per un crimine che non hai commesso!”.

Lui lanciò un grido: “Basta! Chi sei? Un altro amichetto di mio fratello? Fatti vedere!”.

E dall’acqua si intravide un riflesso. Una donna bellissima. Ma era solo un’ombra, un disegno su uno specchio d’acqua. Aveva lunghi capelli rossicci, come quelli di Hope, e splendidi occhi talmente luminosi che non avevano un colore ma erano di pura luce.

“Pistis” mormorò lui.

“Sophia” terminò lei “Chiamami per nome”.

“Ne abbiamo tanti di nomi io e te. Uno o l’altro che differenza fa?”.

“Tesoro mio…come hai potuto credere che quella ragazzina fossi io?”.

“Tu sei un’ombra. Un essere di luce privo di corpo. Poco più di morta. Ed io ho bisogno di corporalità. Sono alla ricerca di una creatura in grado di essere, anche solo in parte, quello che sei tu. Ma mi rendo conto che la cosa sia difficile”.

“La cosa è impossibile. Io sono io. E nessun’altro. Tu ami me”.

“E nessun’altro” terminò lui, guardando l’acqua.

Lei sorrise e i suoi capelli luminosi si espansero lungo le increspature del lago.

“Ti manco?” domandò il riflesso.

“Ogni giorno. E manchi anche ai tuoi figli”.

“Questo lo so. Ma loro non mi ricercano altrove. Perché tu lo fai?”.

“Perché no? Nessuna potrà mai sostituirti”.

“E allora perché ne hai avute tante di ragazze dopo quello che mi è successo?”.

Lui non rispose.

“Sei arrabbiata con me?” domandò dopo un po’.

“Come potrei? Io sono la Sapienza, non mi arrabbio tanto facilmente. Solo che cercavo di capire le tue ragioni”.

“Perché ora? Perché mi appari ora e non prima, amor mio?”.

“Perché ora ti sei perso. Ed io voglio guidarti. Non lasciare che la natura muoia. Non lasciare che l’uomo abbia il sopravvento. Segui la voce della Speranza e va’ da lei. Non c’è niente che tu ora possa fare per quella ragazza. Ma puoi fare molto per altri, in primo luogo per te stesso”.

“Come posso divenire un’ombra, come te? Come posso divenire un riflesso, un’immagine, un miraggio, come sei ora? Come posso riabbracciarti di nuovo?”.

“Non puoi. Solo chi mi ha tolto il corpo può ridarmelo e nessuno vuole che tu divenga un’ombra”.

“Io lo voglio”.

“Ciò che tu vuoi, non ha importanza”.

“Quindi ora tu sparirai di nuovo e non ti rivedrò più per chissà quanto tempo?”.

“Questo è il nostro destino”.

“Che schifo”.

“Non dubitare. C’è di peggio”.

Lui si accoccolò accanto all’acqua.

“Cosa credi che io possa fare? Cosa credi che io debba fare?”.

“Innanzitutto vedi di non farti arrestare. In secondo luogo, come ti ho gia detto, segui la Speranza. Segui Hope, nostra figlia. Torna ad essere quello che eri prima che ti perdessi”.

“Nessuno di noi potrà mai essere come prima”.

“Provaci”.

“Come?”.

“Come solo tu sai fare, mio amore dagli occhi azzurri. Come tu facevi sempre”.

“Non ricordo più come facevo sempre”.

Lui chiuse gli occhi. Una lacrima scivolò sul suo viso e cadde sulla superficie dell’acqua. Le onde che produsse cancellarono gradatamente il riflesso della donna. Lui la chiamò a gran voce, ma ormai lei era sparita. Non era più lì. Tuffò le mani nell’acqua, come a cercare di afferrarla, ma non c’erano nient’altro che fango e sassi fra le sue mani, non i capelli rossi di lei come sperava.

Le sirene della polizia si facevano sempre più vicine ed insistenti ma lui non si muoveva. Si era alzato di nuovo in piedi e restava immobile. Girò gli occhi. Tornò a guardare i cigni. Quello nero era, effettivamente, più bello dei due bianchi e attorno al capo aveva dei riflessi argento che lo facevano sembrare incoronato. L’uccello nero scacciò i cigni bianchi dalla sua strada con rabbia.

“Non importa se sei il più bello, il più maestoso e il più forte. Puoi anche essere il migliore degli Universi in molte cose ma tutto questo non conta niente se sei da solo” mormorò il padre di Hope a mezza voce. Il cigno parve capirlo, perché chinò il capo. Ma spalancò le ali come a voler dire:“Ma io vado avanti. Perché mai nessuno potrà strapparmi le ali”.

“Bravo. Hai ragione. A te nessuno impedisce di volare”.

Il cigno emise uno strano verso e spiccò il volo. Il padre di Hope lo guardò mentre si librava in aria. Era una creatura meravigliosa.

“A te nessuno impedisce di volare” mormorò di nuovo, guardandolo mentre si allontanava.

“Credo che se fossi cigno probabilmente sarei di color argento, non nero come te…”.

Sorrise alla sua ombra, che si intravedeva spezzata dalle fronde degli alberi. Le sirene erano forti. La gente gridava. Indicava la sua macchina. Dava una sua descrizione precisa. Una folla indicava il parco come luogo in cui si nascondeva. Avevano tutti un elenco dettagliato di ragioni che lo avrebbero spinto ad uccidere la ragazza ed ognuno di loro, ora, mostrava tutti i suoi sospetti delineandolo come un individuo dall’aspetto temibile. Veniva descritto come un criminale. Non si sarebbe aspettato niente di diverso. Ora, agli occhi dell’adorata vecchietta che viveva lì vicino e che lo aveva sempre trattato come un gran bravo ragazzo, era un vero manigoldo con gli occhi troppo ravvicinati e pessime intenzioni. Ad un tratto tutti lo vedevano per quello che era davvero. Lui sospirò, sorridendo. I poliziotti stavano entrando nel parco, pistole alla mano per difendersi da quell’individuo considerato potenzialmente pericoloso.

Ed il padre di Hope sorrise con più convinzione.

“Nemmeno a me nessuno impedisce di volare” ghignò. Aprì le ali e volò via.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** XII- Annapurna ***


XII

 

Da qualche parte sull’Annapurna, Nepal

 

Hantay aprì gli occhi. Aveva momentaneamente interrotto la sua meditazione. Leggermente accigliato, cominciò a rigirare lo sguardo a destra e a sinistra con fastidio. Non poteva credere alle sensazioni che provava. Costantemente in contatto con suo padre, stava percependo una presenza familiare al suo fianco. Una presenza che non doveva esserci! Cercò di ignorare la cosa ma non gli riusciva facile. Lasciò cadere le braccia, inclinando il busto e guardando in alto con un’evidente curvatura del sopracciglio. Sbuffò. Forse la meditazione non faceva per lui..

 Si passò le mani fra i lunghissimi capelli neri e sorrise alle stelle. Fece qualche passo con i piedi nudi sulla neve e si allontanò dalla sua grotta. Magari camminare un po’ gli avrebbe tolto certi pensieri, fra l’altro impossibili, improbabili. Povero papà…era stravolto e la sua mente malata gli mostrava cose non vere. Hantay si passò una mano sulla spalla sinistra, toccando quel tatuaggio che aveva in comune con tutte le sue sorelle ed il suo genitore. Ridacchiò. Hope stava chiamando tutta la famiglia…ma alle sorellastre non aveva pensato. O probabilmente ci aveva pensato, ma non le aveva cercate.

“Che grande famiglia felice..”. Questo fu il suo commento sarcastico.

Si accorse di avere i capelli più lunghi della sua altezza e quindi si trascinavano sulla neve, lasciando una lunga scia. Arrivò fino in cima ad una piccola escrescenza di roccia e vi si sedette sopra, guardando il cielo sereno e pieno di stelle. E la Luna? Non c’era quella notte. O forse non era ancora sorta. Canticchiò, già più rilassato, e si accese l’ennesima sigaretta. Chiuse gli occhi. Non voleva assolutamente meditare ma solo rilassarsi. Rabbrividiva al contatto con la neve che cadeva a fiocchi sulla sua pelle nuda ma non per il freddo, bensì per il solletico. Ad un tratto si sentì chiamare. Pensò ad un’allucinazione perché da quelle parti nessuno conosceva il suo nome. O almeno così pensava fino ad ora. Ma, evidentemente, non era così perché si sentì chiamare ancora. E ancora.

E ancora.

Lui non rispose ma sentì il suo nome ripetuto nella tormenta ancora diverse volte.

“Hantay?!”.

Quale degli aguzzini di suo padre o suo zio lo aveva trovato lassù, in mezzo al nulla? Quale creatura veniva, in mezzo al gelo, ad infastidirlo? Che scocciatura…

Girò gli occhi, rimanendo seduto e drizzando le orecchie. Sentì un sommesso rantolio da poco lontano. Annusando l’aria tentò di percepire chi fosse a produrlo, ma non ci riuscì.

“Hantay!” si perse nel vento.

“Chi sei?” rispose, mentre l’eco ripeteva quelle parole diverse volte.

“Dove sei?”.

“Non è educazione rispondere ad una domanda con un’altra domanda!”.

“Dove sei? Non ti vedo! Puoi venire verso la mia voce?”.

“Arrangiati! Vieni tu da me! Sei tu che mi cerchi…”.

Seguirono diversi minuti di silenzio, in cui Hantay fumò con tranquillità, appollaiato su uno spuntone di roccia che dava su un dirupo avvolto dalla nebbia.

“Sei un bastardo” sibilò una voce alle sue spalle.

Girò la testa e vide chi lo stava perseguitando.

“Jibrihel! Sei tu! Amico mio…bastava dirlo”.

“Amico? Io e te non siamo amici”.

“Ed io non sono un bastardo. So chi sono i miei genitori. A cosa devo la tua visita?”.

“Mi manda il mio capo. Tuo zio. Devo dirti una cosa importante”.

“Dilla se proprio devi. Ma preferirei non ricevere ordini da parenti vari”.

“Non sono ordini. Solo notizie. Guardami negli occhi adesso. E troviamo un posto tranquillo, se non ti dispiace.”.

“Mi dispiace. Io sto benissimo qui. E poi…più tranquillo di questo, che pretendi?”.

Jibrihel sorrise, beffardo. “Sei proprio come tuo padre” sogghignò.

“Questo non dovevi dirlo. Andiamo. Forse nella grotta avrai meno freddo, cherubino!”.

“Non sono un cherubino!”.

“Giusto. Sei una segretaria…”.

 

I due rientrarono nella grotta, solo parzialmente al sicuro dalla neve e dal freddo.

“Scusa tanto se non posso offrirti latte e biscotti…” commentò Hantay. Guardò il suo ospite un po’ meglio e, notando quanto tremasse, aggiunse “…e neppure una bottiglia di Gin”.

“Tranquillo. Sono abituato a non venire accolto in modo normale”.

“Questo perché non appari mai in modo normale. A proposito…niente luci ed effetti speciali con me? Ti sei stancato anche tu di questi giochetti?”.

“Questi, come li chiami tu, ‘giochetti’,  funzionano solo se non conosci il trucco. Tu conosci bene chi si cela dietro ad ogni apparizione perciò che senso ha, per me, consumare energie per un’apparizione in grande stile per te? A che serve?”.

“Va bene, va bene…non ti agitare!”.

“Non sono agitato”.

“Come vuoi…” esclamò Hantay, alzando le spalle ed intrecciandosi i capelli.

“Come mai sei in un posto come questo? Insomma…tutti dicono che non è nel tuo stile star qui a meditare…insomma…non so se capisci…” parlottò Jibrihel, accoccolandosi in un angolo, soffiandosi sulle mani per scaldarle.

Hantay lo guardò male.

“Non sono stupido” sbottò “So che vuoi dire! E so anche che tutti quanti credono di conoscermi ma in realtà non è così. Io sono molto diverso da come il Mondo pensa. E adesso dimmi quello che hai da dirmi e sparisci. Qui sto bene perché posso stare SOLO e in pace. Sono venuto qui proprio per schivare la gente come te, mio zio…e mio padre!”.

“Questa è bella…tuo padre?”.

“Sì. Problemi?”.

“Tu hai problemi, non io! Perché tuo padre? Sembrate così uniti…”.

“Non equivocare, portalettere! Non ho problemi con mio padre. È solo che si aspetta determinate cose da me. Ed io, sinceramente, gradirei crearmi il mio futuro da solo e non avere già tutto predefinito. Vorrei seguire la strada che io da solo mi creo e non seguire un sentiero già tracciato”.

“Questo è strano. Teoricamente tu, come Kriss, dovresti prendere il posto di tuo padre…”.

“Dovrei. Ma non è quello che voglio. Almeno…non è quello che desidero ora. E adesso parla e vattene, per favore. Hai visto? Son stato educato. Ho detto: per favore!”.

“Sono ammirato da questo…”.

“Parla. Sei venuto a dirmi che partorirò un figlio nonostante la mia verginità? Guarda che sei arrivato tardi…” ridacchiò Hantay arrivando alla fine della sua treccia e facendo un piccolo nodo.

“Cose del genere non capitano più”.

“Non ci sono più le ragazze di una volta!”.

“Nemmeno i ragazzi…”.

“Bene. Però ora arriva al punto. Non sarai mica venuto fin quassù per parlarmi di verginelle…”.

“No. L’argomento si distanzia molto dalle vergini. Sono qui per parlare di tua madre”.

“Bada a come parli, postino volante!”.

“Non ho ancora detto niente!”.

Hantay guardò Jibrihel con sospetto, con gli occhi leggermente screziati di rosso che però tornarono subito di un azzurro omogeneo e tranquillo.

“Carini i pantaloni che porti, Jibry. È un cambiamento che mi piace. E la camicia è un tocco di stile. Dì la verità…hai lasciato perdere i suggerimenti di Kriss nel campo della moda”.

“Non so a cosa ti riferisci…”.

“Andiamo! Kriss si veste in modo terrificante! Adesso poi si è dato all’Emo e va in giro a righe orizzontali che lo rendono somigliante ad un grosso bruco nero e rosa! Per non parlare di quelle cose a quadrettoni rossi che fan sembrare grasso chiunque…”.

“Non mi ha mai dato suggerimenti riguardo al mio modo di vestire”.

“Menti! Quella tunica informe con i sandali era un’idea sua!”.

Jibrihel girò gli occhi al cielo, cercando di fuorviare dall’argomento.

“Sono italiani?” domandò Hantay, giocherellando con un grumetto di neve.

“Cosa?”.

“I bruchi neri e rosa! SVEGLIA! I pantaloni, Jibry! Dove li hai comprati? Da dove vengono?”.

“Non saprei. In effetti potrebbero essere italiani. Ma non credo. Al capo piace spendere poco. Avrà schiavizzato un branco di cinesi! Ma…adesso che ci penso…è più facile che il capo convinca gli italiani! I cinesi hanno altri punti di vista…perciò sì, potrebbero essere italiani”.

“Bene!” esclamò Hantay, sorridendo “Allora chiederò a mio padre di procurarmene un paio! Magari neri, non color nocciola come i tuoi…”.

“Di questo anche vorrei parlare”.

“Di cosa? Del nocciola?”.

“No! Di tuo padre!” sbottò Jibrihel, arrossandosi il volto.

Aveva infilato le mani nelle tasche del cappotto imbottito, dello stesso colore dei pantaloni, ed aveva alzato il cappuccio per coprirsi i capelli biondi. La sciarpa, arrotolata attorno al collo, pendeva da un lato toccando quasi la terra. Rabbrividiva. Faceva molto freddo e i guanti non gli impedivano di perdere sensibilità alle dita. Hantay sorrideva, chiedendosi quale misterioso animale era stato ucciso per creare gli stivali che l’ospite portava. Erano pelosi, molto pelosi, all’esterno come all’interno, e bianchi candidi.

“Sono finti. È pelo sintetico” borbottò Jibrihel, come a leggere nei suoi pensieri.

“Ma…hai tanto freddo?” si stupì Hantay.

“Ovvio! Fa freddissimo qui! Saranno almeno 40 gradi sottozero! Non sono io quello con i problemi ma tu, che sei mezzo nudo in mezzo alle tempeste di ghiaccio!”.

“Ho altro in testa. Basta non pensarci e il freddo non si sente”.

“Sarà…”.

“Ad ogni modo…cos’è che devi dirmi? Mia madre…mio padre…scegli tu con chi partire”.

Hantay, nel dire quelle parole, sembrava con la mente distante, persa chissà dove. Si era seduto a gambe incrociate e guardava fuori, nel buio della notte e della tempesta. Nel grigio della nebbia e delle nuvole, infranto dal bianco di neve e ghiaccio.

“Vorrei partire da tuo padre, se non ti dispiace. Tua sorella Hope era molto preoccupata per lui. E tu che sei sempre in collegamento mentale con lui capirai che c’è qualcosa che non và. Ha perso il controllo. Ci sarà qualcosa che lo tiene a freno nel fare sciocchezze…”.

“C’era. Era mia madre. Tanto tempo fa. Perché è passato così tanto tempo…”.

“Capisco…e non c’è altro modo per farlo ragionare?”.

“Mmm…no! Ma a che ti serve farlo ragionare?”.

“Non serve a me. Ma al mio capo”.

“Allora in questo caso poteva pensarci prima”.

“Non sarai mica anche tu dell’idea che tutto ciò che è accaduto a tua madre è colpa del mio capo?”.

Hantay non rispose, ma il suo sguardo fece capire a Jibrihel che era esattamente di quell’idea.

“Perché pensi una cosa del genere?”.

“Perché il tuo capo ha sempre qualche cosa a che fare con tutto. Non dice forse di essere onnipotente, onnisciente, onniognialtacosa eccetera eccetera….?!”.

“Anche tuo padre dice così”.

“Ma con meno frequenza”.

“Se lo dici tu…”.

“Che cosa hai da dirmi su papà? Come ti ho detto all’inizio, preferisco stare da solo”.

“Niente. So già, ora, quello che mi serve. Piuttosto…vorrei che tu mi dicessi che cosa sai esattamente sulla sorte di tua madre”.

Hantay fermò ogni suo movimento, dai giochetti con la neve agli scricchiolii che produceva con le giunture delle dite della mani. Jibrihel fece un passo indietro, un po’ inquietato dall’improvviso silenzio. Nemmeno il vento fischiava all’interno della grotta. Silenzio totale.

“Che intendi dire?” disse Hantay, con un tono di voce leggermente più basso del solito, e senza guardare l’altro occupante della grotta.

“Intendo dire quello che ho detto. Cosa ne sai esattamente sulla sorte di tua madre?”.

“Non molto” ammise Hantay. “So che è morta” mormorò, girando gli occhi verso Jibrihel.

Questi fece un altro passo indietro, allarmato dall’espressione leggermente malvagia dell’altro.

“Mmm…morta…incorporea…”.

“Che intendi dire?” scattò Hantay.

“Niente…”.

“Come niente?”.

“Era questo che ti volevo dire. Ma…devi promettermi di non arrabbiarti!”.

“L’unica cosa che ti posso promettere è quello di non ucciderti. E non perché non abbia voglia di farlo” ringhiò Hantay, avvicinandosi con fare minaccioso a Jibrihel.

Lo spinse contro il muro e lo guardò negli occhi, prima di continuare.

“Ora tu mi dirai tutto, fattorino. E spero che non ci siano strane macchinazioni sotto tutto questo perché ho sofferto già abbastanza per la perdita di mia madre. Perciò non mentirmi. Ricorda di chi sono figlio…”.

L’ultima frase era quasi sibilata. Jibrihel deglutì ripensando, fra se e se, “Ambasciator non porta pena un paio di balle!”.

“Ok. Ti dico tutto. Ma adesso siediti e stai calmo”.

“Non dirmi di stare calmo. E parla”.

I due si guardarono negli occhi per un po’. Poi Jibrihel, in seguito ad un lungo sospiro, iniziò.

“Tu, Hantay, dentro di te hai gia visto la verità. Tua madre ha parlato con tuo padre. E non era il frutto della mente, ormai malata, del tuo genitore. Era la realtà. Tua madre non è propriamente morta. Ma è una storia complicata…”.

“Inizia dal principio. Se non vuoi che ti scaraventi di sotto. Sai quanto è alto l’Annapurna? Non ti consiglio di volare con il culo fino a valle!”.

“Va bene. Ricordati però…che non è colpa mia!”.

“Colpa di qualcuno è. Saprò con chi prendermela…”.

“Spero non con me. Comunque…io devo solo dirti questo: tua madre non è morta. Ma non ha più un corpo fisico. È un’ombra. Non un’anima. Qualcosa di difficile da spiegare. Ma non è morta. Io dovevo solo dirti questo…”.

“Come può non essere morta?” si arrabbiò Hantay, iniziando a camminare nervosamente per la grotta, a pugni chiusi e ringhiando sommessamente.

“Io…non conosco i dettagli…il capo mi ha detto solo di venire qui e dire questo: tua madre non è morta. Tuo padre ti ha mentito. Ora…posso andare?”.

Hantay scattò verso Jibrihel e lo afferrò per la gola.

“Come sarebbe a dire devi dirmi solo questo? Come puoi venire fin qui per darmi un’informazione a metà? Parla! Apri quella bocca!” urlò.

“Io…io…non so niente! Te lo giuro!” balbettò Jibrihel, dimenandosi. “Non so niente! Niente di più! Mi è stato solo detto che lei non è morta. Credo che tuo padre possa saperne più di me”.

“Mio padre?!”.

Hantay lasciò cadere la sua preda e rilassò le braccia.

“Sì. Tuo padre…”.

“Hai ragione. Lui parlava con lei. Lui sapeva che non era morta…” mormorò Hantay.

“Esatto…”.

“…e mi ha mentito…”.

“Già”.

“…e me lo ha tenuto nascosto…”.

“Così pare”..

“…perché ha fatto una cosa simile?”.

“Non te lo so dire”.

“Perché ha detto a me e ad Hope che era morta? A che scopo?”.

“Nemmeno a questo so rispondere. Che pensi di fare, ora che sai la verità?”.

“Andarlo a prendere. E mostrargli che anni di meditazione non mi impediscono di incazzarmi come una bestia!” ringhiò Hantay.

Detto questo si allontanò, correndo a folle velocità, balzando da una rupe all’altra con determinazione e furia. Aveva gli occhi completamenti rossi, segno della sua rabbia.

Jibrihel estrasse un piccolo telefono dalla tasca.

“Missione compiuta”sussurrò all’apparecchio e qualcuno dall’altra parte si complimentò, mentre Hantay imprecava al vento chiedendo il perché di ogni bugia.

Saltava, da una roccia all’altra, come se fosse la cosa più naturale del Mondo. Scendeva rapidamente, lungo le impervie discese dei crepacci dell’Annapurna, urlando e ringhiando. Era furioso, ed i suoi occhi non accennavano a voler tornare azzurri.

Jibrihel sorrise. A quanto pare tutti quegli anni passati in completa meditazione non avevano in alcun modo intaccato il suo pessimo carattere. Meglio così. Rabbrividendo, ed infilando le mani in tasca, alzò la testa e riprese il volo verso casa.

Alcuni monaci aprirono un solo occhio, distratti da tutta la confusione che si era sprigionata. Intravidero Hantay buttarsi fra i venti ed il ghiaccio, allontanandosi velocemente dalla loro vista. Alcuni di loro pensarono ad una sorta di segno del cielo, un messaggio dagli Dèi o da qualche altra entità superiore. Ne rimasero meravigliati e per un bel po’ non fecero altro che guardare il punto in cui il giovane era scomparso, con ammirazione.

Altri pregarono più profondamente, vedendo in quel giovane un incitamento a credere più intensamente. Lui si gettava fra le rocce senza paura, aveva molta più fede. Fissarono lo stesso punto che fissava il precedente gruppo ma con devozione.

La maggior parte di loro vide, in quel gesto insensato ed immotivato, tutto il manifestarsi di uno scompenso mentale serio. Richiusero subito l’occhio che avevano aperto, ignorando il suicida.

In ogni caso erano tutti più che certi che si fosse sfracellato sulla prima sporgenza incrociata, fede o non fede, divinità o non divinità.

Invece Hantay continuava a scendere, velocissimo, con sempre maggior determinazione.

“Papà! Spero tu abbia una spiegazione più che valida per tutto questo perché, se non è così, farò in modo di essere davvero orfano di uno dei genitori! Con le mie mani!” gridava.

Nella sua mente sorgevano innumerevoli dubbi. Primo fra tutti era il pensiero che, forse, Hope sapeva qualcosa e lo aveva lasciato all’oscuro. E se era così allora la sua rabbia si sarebbe sfogata anche sulla sorella, nonostante tutto il bene che provasse nei suoi confronti. Se era una traditrice doveva pagare. Tutti dovevano pagare. Tutti dovevano capire che non si poteva prendere in giro una creatura come lui. Non era più un bambino e non aveva bisogno di essere protetto e circondato da inutili bugie per evitargli sofferenze. E se poi, alla fine, la causa di tutto si potesse ricondurre allo zio? Il solito zio che aveva lo zampino un po’ in ogni cosa, senza mai ammetterlo? Poteva essere così. Poteva non essere colpa di suo padre, in fondo, ma ad ogni modo non aveva alcun diritto di raccontargli balle in quel modo. Come se fosse un cucciolo. Un pulcino. Non lo era più da tempo ed era stanco di essere trattato come tal!. Non era quella cosetta preziosa che suo padre credeva! Non era il figlio perfetto che desiderava! Ed Hantay si chiese di chi fosse colpa.

Sempre correndo, passò lungo diversi villaggi, urlando e rimuginando su diverse cose. E tutti quelli che incrociò si terrorizzarono. Era spaventoso ed innaturale. Specie di notte, quando i suoi occhi color del fuoco illuminavano il buio più della Luna piena e delle stelle.

“Anche Shiva si arrabbia…” mormorò un induista, con apparente calma.

“Una creatura malvagia è appena passata per qua” rispose un buddista, senza scomporsi.

“Un’anima tormentata…” commentò un animista, tranquillo.

“Iblis!” e “Satana! Il demonio corre fra noi!” urlarono, isterici, cristiani ed islamici.

 “Non sono colui che voi dite…” sibilò Hantay, passando oltre a tutte quelle voci e grida, persone e religioni, stati e regioni, continuando a correre. La sua voce, solo un sussurro, e la sua lingua non erano comprensibili “…sono suo figlio!”.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** XIII- Croci ***


XIII

 

Isola di Kai, Indonesia

 

Kriss arrivò, con un piccolo zaino, nella dimora dei suoi zii. Sospirò. C’era tanto silenzio e, sinceramente, era piuttosto preoccupato. Ripensava al fatto che suo padre gli aveva promesso che avrebbe risolto tutto ed i metodi del suo genitore lo spaventavano sempre.

“Kriss!” lo chiamò Umy, dal piano superiore.

Corse giù per le scale, a braccia aperte, per accogliere il cugino.

“Benvenuto, Kriss! Che bello vederti!” esclamò, dandogli un bacio sulla guancia.

“Anche per me è bello vederti, Umy. Com’è la situazione?”.

“Abbastanza buona. Mio padre oggi è tranquillo. E questo mi riempie di gioia. Almeno non fa i capricci come sempre! Tu come stai?”.

“Io? Io sto bene. Dov’è Ocean?”.

“Dove vuoi che sia?! In spiaggia! Vuoi raggiungerlo?”.

“Prima vorrei salutare i padroni di casa”.

“Da questa parte, allora”.

I due cugini salirono lungo le scale, senza far rumore. Il legno scricchiolava sotto i loro piedi.

“Chi è, Umy?” urlò Anfitrite, da una delle camere.

“Kriss, mamma. È arrivato Kriss!”.

“Ciao, zia” salutò Kriss, pur non vedendola.

“Ciao, mio caro! Vieni! Vieni qui!”.

Kriss ed Umy seguirono la voce ed entrarono in una grande camera, blu e verde. Lì stavano i genitori di lei, seduti l’uno accanto all’altro su un piccolo tavolo vicino al letto.

“Buon pomeriggio zia, buon pomeriggio zio” salutò Kriss, con un piccolo inchino.

“Vieni! Vieni qui! Fatti vedere!” disse la madre, con entusiasmo.

Lui uscì dall’ombra dell’ingresso della stanza ed avanzò verso al luce, prodotta da una lampada azzurrina e a forma di campanula. Le tende erano tirate ed il Sole non entrava.

“Kriss! Come sei cambiato! Che ti è successo?” esclamò il padre di Umy.

“A cosa ti riferisci, zio?”.

“Mi riferisco ai capelli, ai vestiti, alla barba…a tutto!”.

“La barba la sto facendo ricrescere. E per il resto…non so…mi sento a mio agio così”.

“L’importante è questo. Se uno sta bene così com’è allora è così che deve restare. Guarda mio figlio Ocean! Và in giro con quelle imbarazzanti camicie hawaiane e quei pantaloni a fiori che mi danno la nausea, ma se lui è felice di stare così…”

“Ognuno i suoi gusti”.

“Già…com’è la situazione a casa, Kriss?”.

“Bene, zio. Più o meno…”.

“C’è sempre un più o meno nelle nostre famiglie”.

“Vero. Ma ormai dovremmo averci fatto l’abitudine!”.

“Non so tu…ma io no! Vorrei tanto che qualcuno di voi, prima o poi, mi dicesse che va tutto bene senza aggiunte o ripensamenti”.

“La vedo molto difficile. Ma la speranza è l’ultima a morire!”.

“Povera Hope”.

Il silenzio scese nella sala. Umy, girando gli occhi a destra e a sinistra con ansia, ruppe il silenzio.

“Suvvia! Non parliamo di morte! Piuttosto, Kriss, sai quando arrivano gli altri?”.

“Mio padre mi ha giurato di esserci, appena risolte alcune faccende. Hope dovrebbe essere a Roma dal padre e quindi immagino che poi verranno qui entrambi. Hantay…chi lo sa! Non ho modo di sapere nulla da lui, ma mi hanno assicurato il suo arrivo…”.

“Sei sempre stato così fiducioso nel prossimo…anche quando tutto sembra perduto…”.

“Non è tutto perduto! Presto saremo tutti qui, accanto a te. Pronti ad aiutarti”.

“Aiutarmi? In che modo?”.

“Non lo so! Perché credi che io debba saperlo?”.

“Sai sempre tutto…”.

“Quello è mio padre!”.

“Ok. Va bene…non volevo farti arrabbiare”.

“Non mi hai fatto arrabbiare…”.

“Giusto. Questo è impossibile!”.

“Ok, adesso basta!” si intromise Umy “Adesso piantatela! Tu, Kriss, vieni con me. Ti mostro la tua stanza. E tu, papà, sei stato molto scortese, vergognati!”.

“Non è necessario, Umy!” la fermò Kriss “Non sono offeso! Tranquilla! Non è stato scortese!”.

Il padre di Umy, di risposta, mostrò la lingua e sorrise, beffardo.

Kriss venne trascinato fuori dalla stanza dalla cugina, che si inchino in segno di scusa.

“Scusalo tanto, cugino mio. È convinto che, visto che è malato, gli è tutto dovuto!”.

“Ti ho gia detto che non c’è problema! Ora potresti mostrarmi la mia stanza? Sono piuttosto stanco. Sto viaggiando continuamente da un sacco di tempo…”.

“Certo! Per di qua!”.

I due si avviarono lungo il corridoio, a passo svelto.

“Ho preparato personalmente le stanze. Una per una. Spero che ti piaccia la tua!”.

Umy girò la chiave di una porta in legno e fece entrare il cugino. Era una camera piccola, semplice e molto luminosa. Dipinta a colori accesi, discordanti fra loro, provocava un certo smarrimento entrarci di colpo. Ma a Kriss piaceva. Sorrise, soddisfatto. Appoggiò lo zaino al letto, rotondo ed azzurro, morbido come una nuvola. Si guardò attorno e poi si fermò.

“Qualcosa non va?” domandò Umy.

“Cos’è quello?” sibilò Kriss, indicando un crocifisso di legno appeso alla parete.

“Credevo ti piacesse…”.

“Toglilo immediatamente!”.

“Ok, scusa! Pensavo…non ti creasse problemi”.

“Mettiti una rete di pesca in camera!”.

“Ho capito il concetto. Lo tolgo subito. Scusa ancora”.

“No serve che ti scusi per ogni cosa! Non sono arrabbiato! Come ha detto tuo padre…è difficile che io reagisca per ira. Ed ora porta via quell’affare da me. Mettilo nella stanza di mio padre. Lui è sadico. Apprezza queste cose…”.

“Perfetto” sorrise Umy, nascondendo il crocefisso dietro la schiena. Detto questo lasciò la stanza, con l’ennesimo piccolo inchino, per lasciare a Kriss la possibilità di dormire.

Kriss, rimasto solo, guardò fuori dalla finestra. In lontananza, fra le onde, vide suo cugino Ocean e sorrise. Colto da un’idea improvvisa, cominciò a cercare nel suo zaino e ne estrasse una piccola freccia. Sghignazzando, e senza l’uso dell’arco, la lanciò ed andò a colpire il cugino.

Ocean capì subito che solo Kriss era in grado di fare una cosa del genere e cominciò a chiamarlo per nome, in mezzo a qualche velato insulto.

“Evviva! È arrivato quello stronzo di Kriss!” urlò, risalendo le onde e andando verso casa.

Kriss nascose lo zaino, prima che il cugino entrasse, fingendo di non aver fatto nulla. Poi si alzò per chiudere a chiave la porta ma era troppo tardi. Ocean si fiondò nella camera e contro il cugino, scaraventandolo in terra. Rideva, completamente bagnato d’acqua di mare.

“Levati! Ciccione fradicio!” protestò Kriss, nettamente più piccolo e mingherlino del grosso e muscoloso Ocean, che gli stava sopra.

“Bastardo, figlio di vergine! Credevi che non lo avrei capito che sei stato tu a lanciarmi quella freccia? Solo tu sei in grado di fare una cosa simile!”.

“Era uno scherzo!”.

“Ti sembro arrabbiato? Sto ridendo!”.

“Va bene, però togliti! Pesi un quintale!”.

Ocean si alzò, porgendo la mano palmata al cugino ed aiutandolo ad alzarsi.

“Cosa mi racconti, Kriss?”.

“Niente di ché…” mormorò di risposta, sistemandosi i capelli.

“Non fare il fighetto! E raccontami qualcosa!”.

Ocean si era seduto, ancora bagnato d’acqua di mare, al centro del letto e fissava suo cugino, che a sua volta si guardava allo specchio, sistemandosi.

“Non ho molto da raccontati…tu, piuttosto…”.

“Calma piatta. Nessuna novità” ammise Ocean, incrociando le gambe. Kriss continuava insistentemente a fissargli i capelli, così gonfi e disordinati da irritarlo. Il cugino sbatté gli enormi occhi verdi, dello stesso colore del resto del corpo. Non era molto vestito. Aveva solo una specie di gonna rossa aperta ai lati. Kriss lo fissava, quasi con orrore.

“Non ti piaccio in verde?” domandò Ocean, ridacchiando.

“Non mi piace che tu sia seduto sul mio letto con le chiappe bagnate!”.

“Ah, ok! Allora mi distendo!”.

E così fece, allargando le braccia ed agitandole, schizzando in giro.

Kriss sospirò, scuotendo il capo. Ocean non riusciva proprio a fare il serio.

“E papà, quando arriva?” domandò il giovane verde.

“Mio padre? Non ne ho idea. Ma dovrebbe arrivare pesto. Almeno così mi ha detto”.

“Ah, capisco. A me ha chiamato Hope…”.

“Hope?” rizzò le orecchie Kriss.

“Sì. Hope. È anche mia cugina…perché ti stupisci che mi chiami?”.

“Non mi stupisco che ti chiami!”.

“Ah…allora che problema c’è?” sorrise Ocean, passandosi le mani dietro la testa e socchiudendo gli occhi, sempre restando disteso.

“Nessuno. Nessun problema” borbottò Kriss, continuando a guardarsi allo specchio.

“Bene, allora!” rispose il cugino.

Poi i due restarono per un po’ in silenzio. Ad un tratto Ocean spalancò gli occhi.

“Aspetta! Ho capito!” esclamò, alzandosi a sedere “Ti piace Hope!”.

“Non dire fesserie!” sibilò Kriss.

“Non mentirmi! Guardami con quei begli occhi color mogano!”.

Kriss non lo guardò.

“È mia cugina…” si limitò a rispondere.

“Non è un problema, mi pare, in questa famiglia. Mio padre è sposato con sua sorella e anche i genitori di Hope eran fratelli. Funziona così fra noi!”.

“È innaturale!”.

“Fai troppo il corporeo mortale!” sbottò Ocean, alzandosi e passandogli una mano attorno al collo.

“E così…” iniziò a parlare “…veramente ti piace Hope”.

“Pensavo lo avessi capito…”.

“Ma sentirtelo dire di persona è meglio!”.

Kriss sospirò, togliendo con la mano il braccio del cugino dal suo collo.

“Prometto di non dirglielo, se non vuoi, Kriss!”.

“Le tue promesse non valgono molto. Si sciolgono come sale in acqua”.

“Prima o poi non si scioglie più, però. Si satura”.

“Non voglio verificare se sei saturo!” sibilò Kriss, convinto.

“Come vuoi…allora glielo dico!”.

“NO!” esclamò, spalancando gli occhi, il cugino.

“Non allarmarti! Sto scherzando! Facciamo un patto. Io giuro di non dirle niente! Diciamo che è un ringraziamento per essere venuto qui per mio padre”.

“Va bene…” mormorò Kriss, poco convinto.

“Qua la mano. Stringiamocela come veri uomini. Promessa fatta, croce sul cuore!”.

I due cugini si strinsero la destra, mentre Ocean celava la sinistra dietro la schiena, incrociandone le dita. “Non fare croci” si limitò a dire Kriss, mentre al piano di sotto arrivava suo padre.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** XIV- Volo ***


XIV

 

Roma, Italia

 

Hope correva lungo le strade  di Roma. Le era stato detto che il padre aveva bisogno di lei ma non riusciva a trovarlo. Era passata per la grande casa il cui lui viveva in Città del Vaticano. Aveva attraversato la moltitudine di stanze, buie e piene di mobili antichi, che riempivano l’aria di odor d’antico, profumo d’eternità. Aveva chiamato il genitore lungo i corridoio sentendo di risposta solo il suo eco ripetuto. Eppure, constatò, non poteva essere molto lontano perché tutte le cose a cui teneva di più erano lì. Non sarebbe mai andato da nessuna parte senza molte delle cose di mamma che ora lei vedeva. Al cellulare, ovviamente, non le rispose. Lasciò l’edificio, stupita poiché non c’era il giardino. Suo padre sceglieva sempre case con ampi spazi verdi. L’ingresso dava sulla strada. Fece per attraversare, rassegnata perché non sapeva più dove cercare, quando una moto le tagliò la strada e quasi la investì.

“Guarda dove vai, stronzo!” urlò, continuando a camminare.

“Povera piccola Hope…” sentì il motociclista mormorare.

“Mi conosci?”.

“Certo. Povera piccola Hope…hai cercato papà dappertutto, vero? Case, locali, parchi, catacombe…eppure lui non c’è! E tu ti senti frustrata perché ti han detto che ha bisogno di te…”.

“Se sai dov’è dimmelo, se no chiudi la bocca e lasciami in pace!”.

“Quanta rabbia in te, giovane Speranza”.

“Giovane un paio di balle e adesso sparisci, se non sai aiutarmi”.

“Io non posso dirti dove si trova esattamente ma posso aiutarti…ricorda che devi guardare in alto”.

“Guardare in alto?”.

“Tuo padre è alla costante ricerca di un pezzo di cielo perduto. Guarda in alto, bambina!”.

Detto questo la moto ripartì, con un boato, a si allontanò. Hope, tossendo per i fumi di scarico, storse il naso.

“Guarda in alto”? In che senso? Fece ancora qualche passo, con le mani nelle tasche del lungo cappotto nero, e poi alzò lo sguardo. Non vedeva altro che case, case e strade. E poi lo vide. E si rimise a correre. Quell’ombra lassù, in piedi su un ponte sopraelevato, era sicuramente suo padre. E guardava giù.

 

Sentiva il vento, contaminato dall’inquinamento di Roma. Nessun rumore naturale. Solo motori, clacson e sgommate. Sotto i suoi piedi solo cemento ed asfalto. Sopra di lui solo il grigio del fumo e delle nuvole di quella fredda mattina di fresca primavera. Avvolto in un Mondo artificiale, il padre di Hope rimaneva immobile, sul ciglio di un ponte rialzato, guardando le macchine che ci passavano sotto. Dietro di sé avvertì lo spostamento d’aria provocato da un grosso TIR che decisamente infrangeva i limiti di velocità. Con gli occhi screziati di un magnifico rosso, si accorgeva di quanto indifferente fosse la gente. Nessuno faceva caso al fatto che, se avesse voluto, avrebbe potuto lasciarsi cadere di sotto. Apparve una smorfia sul suo viso. I capelli neri, sciolti e mossi dal vento, avevano su di loro tutto l’odore delle sigarette che il loro proprietario fumava continuamente, assieme ad una lieve venatura di balsamo speziato. Si sentiva in mezzo al cielo. Il vento gli spingeva indietro la camicia, quasi del tutto aperta, e lo sorreggeva. Teneva le mani in tasca, con sguardo perso nel nulla, in cerca di un angolo azzurro fra le nuvole. Le macchine continuavano a passare e nessuno dei loro occupanti si preoccupò del fatto che, molto probabilmente, c’era una persona in procinto di buttarsi.

“Umani…come siete diventati…” mormorò lui, restando in piedi per non si sa quale legge infranta di gravità e con espressione di rimprovero.

Il vento iniziò a soffiare più forte, fischiando fra i pilastri di cemento. Lui socchiuse gli occhi. Un’ombra scura lo fissava, da sotto il ponte, levitando in aria in posizione orizzontale.

“Israfil…” mormorò il padre di Hope.

“Ciao, Iblis” gli rispose l’ombra, con voce profonda.

“La foglia dell’albero cosmico con su scritto il mio nome è finalmente caduta, angelo della morte? Sei venuto a prendermi?”.

“Sai che questo non è possibile, amico mio”.

“E allora perché sei qui?”.

“Tua figlia, la mia consorte, la Morte, è in apprensione ed io sono venuto personalmente a vedere che cosa combini…”.

“Torna a lavorare, angelo nero. Io faccio ciò che voglio!”.

“Puoi fare ciò che ti pare. Ma ti ricordo che, anche se ti butti, non puoi morire!”.

“Questo è tutto da vedere!”.

 Spalancò le braccia e si inclinò in avanti. L’angelo lo fermò con un dito, riportandolo in posizione verticale. Poi scomparve.

Rimasto solo, colui che era stato chiamato Iblis tornò a sporgersi, pronto ad andare di sotto.

“Qualcosa non và, signore?” sentì una voce alle sue spalle.

Molto stupito, il padre di Hope girò la testa leggermente. Sbatté gli occhi con aria interrogativa.

“Tutto bene?” si sentì domandare di nuovo.

Era un ragazzo, alto e magro, vestito di chiaro al quale Iblis non rispose.

“È tutto a posto?” insistette il ragazzo.

“Certo!” ridacchiò di risposta l’uomo, con tono sarcastico “Ogni giorno io mi metto così sui ponti. È il mio hobby. È divertente e non ho niente di meglio da fare che contare gli automobilisti che guidano parlando al cellulare senza auricolare”.

“State scherzando?”.

“No. Sono un ausiliario del traffico. La creatura più malvagia e diabolica della Terra”.

“Non dite fesserie. Non vorrete mica buttarVi di sotto?!”.

“No. Sto qua a cantare, come gli uccellini sui fili della luce”.

“La smetta. E venga via di lì”.

“Non darmi ordini, ragazzino!”.

“Papà!” urlò Hope, arrivando di corsa “Che fai?!”.

“Guardo il panorama. Puoi portarmi via questo scocciatore?” borbottò il genitore, indicando il ragazzo che gli stava accanto.

“Andres?” disse, in tono interrogativo, Hope.

“Ciao, Hope” salutò il ragazzo.

“Conosci questo impiccione?”.

“È il mio vicino di pianerottolo a Kilkenny”.

“Un irlandese?”.

“Non proprio, signore” rispose Andres.

“Peccato. Mi piacciono gli irlandesi…”.

“Non cambiare argomento e vieni qui!” esclamò Hope, sporgendosi leggermente dal battistrada.

Ma suo padre non si mosse.

“Non fare il bambino! Vieni qui! Dammi una mano, Andres…”.

Andres le andò vicino, non sapendo bene che cosa fare.

“Figlia mia…” iniziò il padre “…che tristezza! Gli umani sono cambiati così tanto! Non sanno più la differenza fra bene e male, fra giusto e sbagliato. Conoscono solo l’indifferenza. A che serve la Sapienza, la Speranza, la Libertà, la Colpa.. ed a cosa serviamo tutti quanti noi, fratelli, se loro vivono per l’indifferenza? A cosa serve la mia presenza e la tua, bambina, per non parlare di tutti gli altri membri della famiglia, se non hanno altro che nebbia nel cervello questi esseri?”.

“Non parlare così!” sussurrò Hope “C’è uno di loro qui accanto a me!”.

Il ragazzo non parve agitato sentendo quelle parole.

“Sono privi di sentimenti e di emozioni. Ma non perché ne siano al di sopra, come déi, ma perché ne sono privi, come i sassi! Ed io che ho tanto faticato, assieme ai miei fratelli, a donare a questi cosi qualcosa di speciale…”.

“Papà, piantala!” sibilò Hope, accigliata.

“Guardatemi!” urlò suo padre, spalancando le braccia “Guardatemi, esseri ingrati! Ho le mani grondanti di sangue mortale e porto i segni sulla pelle di tutti i vostri errori! Guardatemi! Guardate l’aspetto che mi ritrovo per la scelta della Sapienza!”.

“Papà! Basta!”.

“Guardali, figlia mia! Potrei aprire le ali qui, ora, e nessuno ci farebbe caso. Potrei mostrare il mio aspetto più terribile e nessuno si fermerebbe a fissarmi, spaventato!”.

“Ok, ho capito il concetto. Anche se non comprendo i discorsi sulla Sapienza. E adesso vieni qui, smettila. Stai tranquillo e calmati”.

“Non voglio calmarmi!”.

“Sei veramente fuori di testa! Sei davvero impazzito come dicono!”.

“Chi lo dice?!”.

“Che te ne frega?! Ma muoviti da lì e stai zitto”.

“Non darmi ordini!”.

“Ok. Stai pure lì, se ti va! Ma chiudi la bocca…o, perlomeno, abbassa la voce!”.

“Non è un problema” affermò Andres, sorridendo.

“In che senso non è un problema?” si stupì Hope.

“So chi sei. Più o meno…”.

“In che senso?”.

“Ho visto il tuo tatuaggio. Quello che porti sulla spalla sinistra”.

“E con questo?”.

“Sono qui per un motivo”.

“E quale sarebbe il motivo?”.

“Non lo so…”.

“Stupido umano, parla in modo decente!” protestò il padre.

“Non saprei spiegarmi meglio di così, signor L.”.

“Signor L?!”.

“Non le piace? Ho fatto delle ricerche e so che non ha propriamente un nome ma tanti diversi perciò, dato che mister X mi pareva tanto stupido, ho pensato di usare la prima lettera del nome con cui la mia cultura vi identifica…Lucifero. Signor L”.

“Carino” ridacchio Hope.

“Stupido” commentò, invece, suo padre.

“Ad ogni modo…io, mi spiace, ma seguo te, Hope, già da un po’. Questo in seguito ad uno strano sogno che ho fatto una notte…”.

“Fammi indovinare…un angelo?!” borbottò il “Signor L.”.

“Sì, esatto! Ho sognato un angelo. Un meraviglioso angelo che mi ha detto che avrei incontrato Hope, spiegandomi chi fosse, e che l’avrei riconosciuta da un tatuaggio sulla spalla. Poi mi ha avvertito che avrei dovuto starle vicino. All’inizio pensavo che fosse solo un sogno e non ci ho fatto caso. Ma poi ho visto lei ed era come mi aveva detto l’angelo: i capelli, il tatuaggio, il nome e soprattutto…i suoi bellissimi occhi!”.

Hope arrossì, stupendosi della cosa.

“Grazie” mormorò.

“Prego! È la verità! Avete degli occhi bellissimi e ho rivisto gli stessi occhi in voi, Signor L., ed ho subito capito perché avrei dovuto seguire Hope: per aiutarvi. Non so cosa stia succedendo, ma mi piacerebbe poter fare ciò che l’angelo mi ha detto di fare. Voglio aiutare”.

“Lo hai gia fatto” sorrise Hope “Ti ringrazio, Andres. Gli hai impedito di buttarsi giù”.

“Bravo” ghignò, sarcastico, il padre “Adesso sparisci e torna alla tua vita! E, comunque, non posso morire perciò non sarebbe cambiato nulla anche se mi fossi buttato!”.

“Avresti arrecato danni al tuo corpo materiale. Per non parlare del fatto che i mortali inconsapevoli ti avrebbero visto…” iniziò Hope.

“E avrebbero chiamato qualche strano programma televisivo in modo da stabilire se sono un alieno. Già ce li vedo…”.

“Non fare lo stupido, papà! E ringrazia”.

“Perché dovrei?”.

“Non serve che mi ringrazi…” esclamò Andres.

“Di fatti non lo deve fare” ringhiò qualcuno, alle spalle dei tre.

“Hantay!” esclamò il padre, balzando al sicuro, lontano dal bordo del ponte.

“Esatto. Hantay. Il tuo adorato, unico, figlio maschio. Al quale hai nascoste un po’ troppe cose”.

“Che intendi dire?” si stupì Hope.

“Mia cara sorella…tu sei troppo buona e fiduciosa. E, sinceramente, troppo stupida per capire”.

“Non parlare in questo modo a tua sorella!” tuonò il padre, sconcertato dalle frasi del figlio.

“Perché se no cosa mi fai? Mi nascondi e dici a tutti che sono morto?”.

“Non so a che cosa tu ti stia riferendo, ragazzo mio, ma mi auguro che questo tuo atteggiamento sia solo temporaneo, magari dettato da chissà quale accadimento…”.

“Credimi, non lo è. E adesso buttati di sotto, prima che ti ci scaraventi io!”.

“Ma che stai dicendo?!” parlò Hope, con voce più che meravigliata da quell’ordine.

“Fatti gli affari tuoi, donna!”.

“Hai appena ordinato a mio padre di gettarsi da un ponte! Sono affari miei!”,

“Non è solo tuo padre!”.

“Appunto! Come fai a parlargli in questo modo?”.

Hantay aveva gli occhi completamenti rossi, lucenti e con pupille sottilissime. Oltre al colore avevano anche cambiato forma, divenendo simili a quelli di un gatto. Non sbatteva le palpebre ma guardava fisso la sorella. E sorrideva, con un ghigno malvagio ed inquietante. Ringhiava sommessamente. Hope non si mostrò intimorita ma ringhiò a sua volta. Il fratello, stuzzicato, spalancò la bocca in una specie di ruggito, mostrando una riga di denti aguzzi e affilati. Il tutto senza che nessun autista di passaggio ci facesse caso o notasse nulla. Il padre rimaneva in disparte, a braccia incrociate, guardando i suoi gemelli, lei vestita in modo quasi normale e lui con solo la specie di gonna che aveva in Nepal. Ma di nemmeno questo nessuno dei passanti parve interessarsi o, in qualche modo, stupirsi. Andres, intimorito dal ruggito, sobbalzò. Solo in quel momento Hantay si accorse che quel ragazzo era mortale. Ghignò, soddisfatto, e si passò la lingua biforcuta sulle labbra.

“A che stai pensando?” sibilò il padre, alzando un sopracciglio.

“Che volete fare?” chiese Andres, allarmato dall’eccessiva vicinanza di Hantay.

Pur essendo un ragazzo parecchio alto, risultava più basso di chi aveva di fronte. Hantay era più alto del padre, che comunque era sopra la media.

“Che volete fare?” ripeté, non ricevendo risposta.

“Vedi un po’ tu…” rispose l’altro, annusando e toccando il ragazzo.

“In che senso?”.

“Tu sei un umano. Un misero ed inutile umano. Ed io…”.

Il padre rizzò le orecchie e sciolse le braccia, chiamando la figlia.

“Hope…” parlò, mentre la figlia si girava a guardarlo, allarmata.

“Io ho fame!” sibilò Hantay, balzando verso Andres.

“…scappa!” urlò il genitore, scattando e riuscendo ad anteporsi fra figlio e mortale, afferrando quest’ultimo fra le braccia e buttandosi dal ponte.

Andres gridò. Hantay pure e Hope sbuffò, sollevandosi da terra per allontanarsi dal gemello furioso.

“Figlia mia! Ci vediamo in Indonesia!” gridò il padre, spalancando le ali e attraversando il sottopasso con agilità.

Questa frase fece sorridere la figlia, che atterrò e si allontanò verso la casa in cui aveva lasciato la sua borsa e le sue cose per poter, poi, raggiungere la famiglia.

“Ti uccido! Torna qui, maledetto bugiardo!” sbraitò Hantay, spalancando enormi ali da pipistrello ed inseguendo il gruppo.

Il tutto senza che nessuno dei mortali sulla strada notasse qualcosa, tranne un bambino che però non venne creduto quando raccontò cosa aveva visto.

 

Andres era terrorizzato ma il suo trasportatore lo rassicurò. Non lo avrebbe lasciato andare.

“Non per offendere, Signor L., ma credo che stia volando un po’ troppo in alto!”.

“Non per essere sgarbato, Andres, ma direi che ho parecchia esperienza di volo. Ad ogni modo sono piuttosto in alto per uno scopo: non essere visto. Avvertimi se, per caso, non riesci più a respirare. A voi umani capita se siete troppo in alto”.

Andres si immobilizzò e trattenne il fiato.

“Non tremare! Non ti lascio!”.

“Perché non mi lascia andare a casa?”.

“Non lo hai detto tu che hai uno scopo? Che un angelo ti è apparso? E allora vieni con noi, con me e la mia piccola Hope, e cerchiamo di capirci qualche cosa. Anche perché se hai sognato un angelo di sicuro hai qualche cosa a che fare con mio fratello”.

“Fratello?!”.

“Sì. Che mi deve delle spiegazioni. Ecco perché lo sto raggiungendo a Kai. Sei cristiano?”.

“Esatto. Si vede tanto?”.

“No. Ma siete la maggioranza…”.

“Le da fastidio che io lo sia?”.

“No. Che me ne frega! Ad ogni modo…”.

“Avete un fratello?!” interruppe il giovane.

“Hai presente tutte le storie su Dio, il Diavolo, il fatto che lui ha creato tutto da solo eccetera?”.

Andres annuì. “Bene. Sono tutte balle! E non solo dal punto di vista scientifico”.

Andres non disse niente, non trovando le parole.

“Capirai tutto, forse, quando sarai in Indonesia. Puoi sentirti onorato. Non credo che mai a nessun mortale sia stato permesso di sapere certe cose, ma dato che il mio caro fratellino ti ha mostrato un angelo…immagino voglia vederti. La mia è solo un’ipotesi. Potrei anche sbagliarmi…”.

Hantay volava dietro al genitore, velocissimo, urlando in varie lingue, quando una luce fortissima lo fece fermare. Si coprì il viso con le mani finché non si abituò al bagliore e riaprì gli occhi. Davanti a lui stava un’angelo, una femmina, che lui trovò splendida, con lunghi capelli turchini ed occhi viola.

“Lasciali andare, Hantay. Trattieni la tua rabbia per quando sarete tutti in Indonesia” parlò.

Lui la trovò così bella da non avere la forza di far altro che obbedire, in silenzio, prendendola per mano per andare assieme all’Isola di Kai.

 

“Attento, Andres. Reggiti” ridacchiò il “Signor L”, scendendo in picchiata.

Andres non poté far a meno di urlare, vedendo il mare sotto di sé avvicinarsi a folle velocità.

“Chiudi gli occhi!” gli consiglio il trasportatore.

“Già fatto!” gemette il trasportato.

“E adesso vediamo, pivellino, se meriti di essere mio figlio!” sibilò, con un ghigno compiaciuto, il genitore mentre planava vicinissimo all’oceano.

“Riapri gli occhi, Andres. Te lo consiglio”.

Andres obbedì e rimase ammirato. A destra ed a sinistra c’era un’infinita distesa di mare blu.

“Apri le braccia. Fingi di volare” si sentì suggerire.

Il ragazzo obbedì e urlò di gioia. La brezza era piacevole, Hantay non li inseguiva più e un gruppo di delfini li stavano come scortando, con grandi salti.

“Dove siamo, Signor L?”.

“Sull’oceano Atlantico. Non voglio passare sull’Africa ma sorvolare l’America questa notte e arrivare alla meta da est”.

“Come mai, se mi è lecito chiedere?”.

“Perché gli americani son facili da far fessi e mio figlio non ci può trovare oltre la coltre di inquinamento che ci avvolgerà oltre l’azzurro su cui voliamo ora”.

Il “Signor L” ridacchiò, mentre invitava Andres a guardare il tramonto e il ragazzo spalancò gli occhi pieno di meraviglia e gioia. Pur essendo in bilico, ed in braccio ad una creatura non molto rassicurante, sopra il mare aperto, non poteva far altro che provare sensazioni piacevoli.

“Bellissimo!” esclamò, vedendo apparire le prime stelle.

“Grazie. Devo ammettere che certe cose ci son venute bene” fu la risposta, mentre con il buio gli occhi del trasportatore iniziarono a brillare in modo molto intenso.

Alcuni americano sotto di loro, vedendoli, si convinsero di aver visto delle stelle cadenti. Altri un U.F.O.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** XV- Riunione ***


XV

 

Indonesia, Isola di Kai.

 

Numero Tre fissava la porta, senza parlare. Al suo fianco, Andres era visibilmente imbarazzato. Congiungeva gli indici, lanciando rapide occhiate a colui che lo aveva portato in volo fino a lì. Il padre di Hope si accorse di quegli sguardi e, riuscendo ed intercettarne uno, rispose con un mezzo sorriso. Quel povero umano mortale doveva essere in preda al panico e, probabilmente, non capiva qual’era il suo scopo in tutto quella storia. Nemmeno Numero Tre lo capiva, ma doveva far parte del “gran disegno macchinoso” di suo fratello. Doveva esserlo per forza, se lo sentiva. Allungò la mano verso la porta, per bussare, ma si fermò.

“Fallo tu” mormorò.

“Come?” balbettò Andres, non avendo capito bene quello che gli era stato detto.

“Fallo tu. Bussa” ripeté il padre di Hope.

“Perché?”.

“Fallo e basta!”.

Il ragazzo obbedì e colpì la porta in legno un paio di volte, con poca energia. Questa si aprì, dopo qualche momento, e dall’interno si intravidero un paio di occhi verdi, che si spalancarono vedendo chi aveva bussato e si affrettò a far spazio ai due nuovi arrivati. Entrambi titubarono sull’ingresso, prima di fare un passo, dopo un lungo sospiro, ed entrare.

“Ben arrivato, zio” salutò Umy, colei che aveva aperto la porta.

Lui non rispose, per nulla felice e convinto di ciò che stava facendo.

“E questo ragazzo chi è?” domandò la ragazza, indicando Andres.

“Mi chiamo Andres, piacere” si presentò lui, stringendole la mano.

“È uno delle pedine di mio fratello e un amico di Hope” tagliò corto Numero Tre “Lei è qui?”.

“Hope? Sì, è appena arrivata. Si sta sistemando in stanza”.

“E mio figlio?”.

“Hantay è sul tetto, non so a far cosa. Da quando è arrivato non si è mosso da lì”.

Il padre di Hope annuì. Era lieto che fossero effettivamente arrivati entrambi. Lui, doveva ammetterlo, aveva fatto un giro panoramico per ritardare il più possibile l’arrivo.

“Accomodatevi. Toglietevi quei cappotti” invitò Umy,  notando che entrambi vestivano in modo da coprirsi dall’inverno che non accennava ad andarsene dall’Italia.

Numero Uno, in piedi nel salotto subito alla sinistra dell’ingresso, rimase serio.

“Vedo che lo hai portato” si limitò a dire, fissando Andres.

Il fratello non gli rispose. Una volta tolto il cappotto e la camicia nera, salì le scale che, dritte davanti alla porta, conducevano alle camere.

Andres rimase lì, immobile, senza sapere cosa fare o dire.

“Non avere paura” lo rassicurò Umy “Vieni, ti offro qualcosa da bere”.

Il padre di Hope salì le scale, lentamente, e si incamminò lungo il corridoio, fino a giungere alla camera dove suo fratello, Numero Due, riposava. Era chiusa. Non fece in tempo a bussare che una voce all’interno lo chiamò.

“Fratello, sei tu?” si sentì chiedere “Ma si che sei tu, riconoscerei la tua aurea ovunque! Entra”.

Numero Tre entrò. Nella penombra, Anfitrite sedeva accanto al letto dove il marito stava steso. Gli teneva la mano e si sorridevano. Stavano chiacchierando. Il padre di Hope provò una punta d’invidia per quei suoi due fratelli che ora vedeva tanto uniti ma poi si ricordò che Numero Due stava male, e lo si vedeva chiaramente. Bastava guardarlo in viso, per accorgersi di rughe e segni che fino a non molto tempo fa non aveva. Tolse gli occhiali da sole, mostrando che pure lui qualche ruga l’aveva, accompagnata da due occhiaie spaventose, e salutò i padroni di casa. Anfitrite si alzò, dandogli un breve abbraccio.

“Ciao, sorellina” la salutò lui.

Poi incrociò le braccia e sorrise al fratello.

“Cosa mi combini?” domandò, fingendo allegria.

“Io? E tu? Mi son giunte all’orecchio parecchie storielle divertenti sul tuo conto, tipo che sei impazzito o cose del genere”.

“Io sono nato pazzo, non te lo ricordi?”.

“Sinceramente, no”.

I due fratelli si guardarono in silenzio, senza sapere esattamente come continuare la conversazione.

“Vi lascio da soli” interruppe il silenzio Anfitrite, uscendo lentamente con un gran frusciare di vesti color del mare.

“E così…” riprese Numero Due, dopo un sospiro “…a quanto pare, sarò io il primo a lasciarci le penne a questo mondo”.

“Ma che dici?! Quelli come noi non muoiono” lo zittì il padre di Hope.

“Sai bene che non è così”.

“Sei solo debole. Basterà capirne il motivo e porvi rimedio. Saremo ancora in grado di fare qualcosa noi fratelli, no? E con l’aiuto dei ragazzi vedrai che andrà tutto a posto”.

“Non lo credi davvero, neanche un po’. Lo capisco al volo quando menti”.

“Va bene. Vuoi la sincerità? Eccoti la sincerità! Nei tuoi occhi rivedo quelli di Sophia quando mi ha lasciato, con alle spalle voialtri fratelli che stavate a braccia incrociate a guardare. Ed è quello che succederà pure a te. Ti spegnerai, con tua moglie che ti stringe la mano e ti supplica di non lasciarla e noi fermi, senza far niente”.

“Tu non mi aiuteresti?”.

“Non saprei come fare. Non credere che io mi trovi tanto distante alla condizione in cui sei tu ora. L’unica differenza è che non ho nessuno che mi obbliga a stare a letto e si preoccupa per me”.

“Hope è molto preoccupata per te”.

“Hope farebbe meglio a pensare a se stessa. Vero che la Speranza è l’ultima a morire, ma prima o poi muore anche lei”.

“Dici che siamo tutti condannati?”.

“No. Numero Uno sono certo che troverà il modo di salvarsi il culo, come l’ultima volta”.

“Ti riferisci alla faccenda di suo figlio Kriss?”.

“L’unico mezzo mortale della famiglia, figlio di un’umana, generato e sacrificato più volte per ridare forza e credo al padre, relegando l’ultima volta a me il ruolo del capro espiatorio di ogni disgrazia e ignorando te, come se i nostri ruoli di Ade e Poseidone per secoli non avesse contato nulla. Ora, con questo monoteismo, lui è il buono ed io il cattivo. Ma io e te siamo solo figure marginali nel suo grande disegno attuale. Forse è meglio così…”.

“Sei contento di essere colui che viene incolpato di tutti i mali del mondo?!”.

“No. Sono contento che tutto questo finisca. Sinceramente, sono molto stanco. Vorrei proprio dormire un po’, ma quelli come noi non dormono”.

“Tu potresti essere molto potente. Gli umani hanno molto più a che fare con te che non con Numero Uno, mi sembra. Solo che non vuoi. Avete passato miliardi di anni a farvi la guerra e poi, ad un tratto, hai perso ogni entusiasmo ed interesse”.

“Da quando mia moglie se ne è andata, non ha avuto per me più senso litigare per degli esseri che qualsiasi cosa facessi continuavano, e continuano, ad interpretarmi a piacimento di Numero Uno”.

“Hai abbandonato il tuo ruolo”.

“Ti sbagli. E ti invidio”.

“Perché sono costretto a letto?!”.

“Perché hai una moglie che si prende cura di te e perché hai due figli magnifici, li ho visti. Non litigano mai, si vogliono bene”.

“Anche i tuoi figli si vogliono molto bene!”.

“Talmente bene che tentano di uccidersi”.

“Sai che non lo farebbero…”.

“Era la loro madre che li fermava. Io non ho voce in capitolo e loro mi odiano per la faccenda di Liberay, Noxia e Kareru”.

“Libertà, Colpa e Morte? Dove sono, a proposito?”.

“Non lo so, ma arriveranno presto. Noxia in particolare, non si allontana mai troppo da me”.

“Tutti i tuoi figli sono meravigliosi, al pari dei miei. Ti basta pensare che è stata di Hope l’idea di riunire la famiglia. È speciale, come lo sono tutti gli altri”.

“Però nessuno di loro, né dei miei né dei tuoi, è in grado di prendere il nostro posto”.

Nella camera calò il silenzio. Era vero. Non erano ancora pronti ad un’eventualità del genere.

“Ora ti lascio riposare” concluse Numero Tre, non sapendo che altro dire.

Si allontanò e si diresse verso la porta.

“È stato bello rivederti. Sono tanto felice che siate tutti qui” gli disse Numero Due.

“Guarda che anch’io capisco quando menti!”.

“Sono felice davvero. Mi preoccupa solo l’eventualità che tu e Numero Uno vi mettiate a litigare”.

“Sai che è inevitabile”.

“Allora vedete di non fare troppa confusione”.

Numero Tre uscì dalla camera. Si chiedeva quali strane idee avesse Hope per la testa. A che scopo ci teneva tanto a riunirli tutti lì? Pensava davvero di poter cambiare l’inevitabile? La vita di esseri come loro era legata da tempo a ciò che credevano le creature che avevano creato e Numero Due era quello che si era trovato più svantaggiato, dopo la scomparsa di determinate religioni antiche. Il padre di Hope era talmente perso nei suoi pensieri che non si accorse nemmeno che la sua bambina lo stava chiamando. Passò accanto a Kriss, che indietreggiò, leggermente spaventato dallo zio. Kriss era sempre piuttosto intimorito, anche se il membro della famiglia con cui aveva più problemi era Hantay. Con quell’essere, così alto e così inquietante, aveva sempre litigato e si aspettava di vederselo davanti da un momento all’altro, con il suo solito modo di fare minaccioso e cattivo. Quando Anfitrite chiamò l’intera compagnia in sala da pranzo per mangiare, il suo primo pensiero fu che sarebbe stato allo stesso tavolo con la sua nemesi. Sospirò e scese le scale, seguendo con gli occhi Hope e la sua capigliatura rossa.

“Accomodatevi. Il pranzo è pronto” sorrise Umy, indicando il lungo tavolo imbandito.

Già sedute, una accanto all’altra, stavano tre donne.

“Ciao, papà” salutarono, fissando Numero Tre. Erano le sue figliastre, creature che lui aveva generato da solo: Libertà, Colpa e Morte.

“A quanto pare ci siamo tutti..” sorrise Hope, leggermente infastidita dalla presenza delle sorelle “Possiamo incominciare”.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3513779