Hope di SagaFrirry (/viewuser.php?uid=819857)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I cieli d'Irlanda ***
Capitolo 2: *** II- cugini d'Australia ***
Capitolo 3: *** III- Rio ***
Capitolo 4: *** IV- padre e figlia ***
Capitolo 5: *** V- la famiglia del mare ***
Capitolo 6: *** VI- segretaria ***
Capitolo 7: *** VII- Nepal ***
Capitolo 8: *** VIII- Traffico ***
Capitolo 9: *** IX- Dubai ***
Capitolo 10: *** X- sfida in mare ***
Capitolo 11: *** XI- sangue ***
Capitolo 12: *** XII- Annapurna ***
Capitolo 13: *** XIII- Croci ***
Capitolo 14: *** XIV- Volo ***
Capitolo 15: *** XV- Riunione ***
Capitolo 1 *** I cieli d'Irlanda ***
I
Kilkenny, Irlanda
Abbandonando Michael Street, lungo
John Street Lower, una
giovane soprappensiero si stava avviando verso casa. Era già
calata la sera e
il consueto vento d’Irlanda soffiava, gelido e costante,
raffreddando l’aria.
Era inverno inoltrato. Gennaio era volto al termine ed iniziava
febbraio, e il
Sole era tramontato da qualche ora.
Lei
si soffermò su John’s
Bridge, guardando l’acqua del fiume Nore ed ascoltandone il
rumore. Stringeva
il lungo cappotto nero con le mani e sospirava. Era in una di quelle
giornate
in cui provava nostalgia e sentiva in modo più forte la
solitudine. Riprese il
suo cammino, accelerando il passo dato il lungo tragitto che doveva
ancora
intraprendere per giungere a destinazione.
I suoi stivali, con un leggero tacco,
producevano un rumore
ritmato lungo la strada lastricata.
Si lasciò alle spalle il
castello di Kilkenny e giunse
all’ingresso di Abbey Street. Lì, come sempre, si
ammassava l’unica folla che
incontrava ogni sera sul suo cammino. Lungo la via non incrociava quasi
mai
qualcuno ma lì trovava sempre i clienti dei tre locali
più famosi della città.
Continuò a camminare tranquilla, nonostante tutti i loro
sguardi. Si specchiò
in una delle vetrate del Pub all’angolo e si chiese
perché tutto questo
interesse ad ogni suo passaggio. Non riusciva a capirlo, e nessuno in
tutta
Kilkenny lo capiva.
Era una ragazza normale, nella media:
altezza media, nessun
dettaglio particolare come gambe particolarmente lunghe o seno
abbondante,
vesti sobrie e mai troppo corte e nessuna abitudine degna di nota. Era
una
persona tranquilla, fin troppo riservata e, a suo dire, con un pessimo
carattere. Quella sera, quando passò, tutti gli sguardi
furono su di lei
nonostante il forte vento, che aveva scompigliato i suoi lunghi capelli
rossicci
e dritti, e il suo sguardo scocciato. Forse era quello che attirava
tutti,
uomini e donne. I suoi occhi erano di uno splendido azzurro, che lei si
vantava
di aver ereditato dal padre. Erano di un colore così
splendido da far invidia
alla volta del cielo. La giovane cercava sempre di nasconderli, dietro
a degli
occhiali da Sole o delle lenti, ma erano così luminosi da
essere quasi
impossibili da celare.
Il ticchettio dei suoi stivali
accompagnò il suo cammino,
assieme al fruscio dei jeans, fino all’ingresso del
condominio dove risiedeva,
lungo Abbey Street. Era un edificio anonimo, senza niente che lo
distinguesse
dagli altri in schiera lì accanto. Tipicamente irlandese
come architettura e
impostazione aveva, all’ingresso, cinque scalini in pietra
che conducevano alla
porta in legno scuro, chiusa solo nelle ore notturne. Lasciandosi alle
spalle
gli sguardi ed i commenti, la ragazza si avviò lungo le
scale. Nemmeno guardò
all’ingresso se c’era qualcosa per lei nel
portalettere: lei non scriveva a
nessuno, nessuno scriveva a lei. E le bollette arrivavano tutte
all’amministratore.
Contenta solo per il fatto di non
aver preso la pioggia,
giunse all’ultimo piano dove stavano due piccoli
appartamenti. Non accese la
luce lungo il corridoio e inserì la chiave nella serratura.
La porta non si aprì.
Accadeva piuttosto spesso a causa
dell’usura. Era un edificio vecchio e malandato in cui
nessuno dei coinquilini
aveva disponibilità economiche a sufficienza per mettere a
posto qualcosa,
salvo l’indispensabile. Sbuffò, spingendo la porta
che scricchiolò ma non si
aprì, ruotando gli occhi verso il cielo e verso la terra,
non sapendo a chi di
preciso dar la colpa delle sue disgrazie. Con un ghigno d’ira
prese a calci
l’uscio di legno, rischiando di farci un buco,
finché non avvertì una presenza
alle spalle. Si girò di scatto, pronta a reagire, ma si
sentì dire di stare
tranquilla. Era il suo vicino di pianerottolo, evidentemente uscito sul
corridoio sentendo troppo rumore. Era un giovane sui venticinque anni,
molto
alto e coi capelli scuri.
“Tranquilla. Sono
io” ridacchiò il ragazzo. “Serve una
mano?” chiese, educatamente.
“No”
affermò lei, convinta.
Ma lui diede un deciso strattone alla
porta e questa si
aprì.
“Capita anche alla mia, a
volte” disse sorridendo.
Lei lo fissò, con
fastidio, e fece per entrare. Ma lui la
guardava, come in attesa di qualche cosa.
La ragazza rimase un attimo senza
capire, poi mormorò un
“Grazie” poco convinto e iniziò a
chiudersi la porta alle spalle.
“Posso sapere come ti
chiami? Da tanto vivi qui ma non ho
mai saputo nemmeno il tuo nome” azzardò lui,
continuando a mantenere sul volto
un sorriso ebete.
“Ci conosciamo?”
sbottò lei “Ci conosciamo, per caso, che mi
dà del Tu?”.
“No…in effetti,
no” ridacchiò, imbarazzato, il giovane
“Appunto per questo ti chiedo come ti chiami. Così
ci conosciamo e posso darti
del Tu”.
Lei rimase in silenzio.
“Io sono Andres. Piacere.
Tu?”.
Altro silenzio. Lei notò
la sciarpa bianca che lui portava
nonostante fosse in casa.
“Hope. Mi chiamo
Hope” rispose lei, dopo un po’, con un tono
piatto e infastidito.
Era
sempre sconcertata
davanti alle persone che danno tanta confidenza a perfetti estranei.
“Piacere Hope! Che
splendido nome!”.
“Sì,
sì” tagliò corto la ragazza
“Ora scusatemi ma dovrei
mettermi in contatto con mia cugina”. “Cugina?
Allora hai dei parenti…”.
“Ovvio! Potete lasciarmi
entrare e vivere la mia vita?”.
“È che mai
nessuno ti è mai venuto a trovare. Non ti arriva
posta, non hai mai ospiti. Nessun amico, nessun fratello o
genitore…”.
“Sono forse affari
Vostri?”.
Lei stava perdendo la pazienza. Il
giovane allora si arrese.
Salutò con un poco formale “Ciao”.
“In realtà, mio
vicino di pianerottolo, io sono una killer e
devo celare la mia vera identità e nessuno sa esattamente
dove abito”.
Ci furono parecchi secondi di
silenzio assoluto. Poi Hope si
mise ridere, mostrando uno splendido sorriso, e rassicurò il
suo vicino
dicendogli che era uno scherzo. Rientrò in casa lasciando
Andres solo, lungo il
corridoio, non molto convinto che fosse tutto uno scherzo.
Hope sbatté la porta. Che
fastidio quando qualcuno si
intrometteva nella sua vita!
Non accese la luce della cucina, che
fungeva anche da
salotto, sapendo benissimo che non si sarebbe accesa mai, dato che era
fulminata da giorni. Spalancò la finestra, salutando
educatamente i piccioni,
per far entrare un po’ d’aria. Notò
quanta polvere ci fosse in quella stanza ma
ignorò temporaneamente la cosa. Non era un grande sforzo
pulirla tutta. Casa
sua era carina ma piccola. Troppo piccola. Insufficiente per la grande
quantità
di oggetti che possedeva.
Scavalcò una pila di libri
e andò in camera. Si stese sul
letto e accese il computer portatile.
Sua cugina le aveva inviato un
messaggio sul cellulare
quella mattina, avvertendola che le avrebbe spedito una e-mail. Hope
conosceva
bene sua cugina e sapeva che, se la cercava, era solo per chiederle
qualche
cosa, tipo un favore o un prestito.
Mentre il piccolo portatile si
avviava, lei volse lo sguardo
al soffitto, dove notò un alone
d’umidità in uno degli angoli. Colpa dei
lavori, troppo a lungo rimandati, che necessitava il tetto. Lei aveva
la
sfortuna di abitare all’ultimo piano e tutto il condominio
voleva accollare a
lei, e al suo compagno di corridoio, tutte le spese. Ma lei non ne
aveva
nessuna intenzione, anche perché non stava mai troppo tempo
nello stesso posto
e quindi, probabilmente, presto avrebbe cambiato domicilio lasciando
nell’appartamento solo gli oggetti che non poteva portare con
sé. Non era un
problema pagare l’affitto per quattro o cinque appartamenti
in cui tornare, di
tanto in tanto, nel caso le servisse qualcosa che si era lasciata
indietro. Il
suo sogno era comprarsi una bella casa grande ma al momento non aveva
trovato
il luogo adatto. Rifletté sulla possibilità di
lasciare Kilkenny, pur amandola
molto, e di spostare un po’ delle sue cose dove si trovava
ora. Spostarle dal
suo loft in affitto a Londra, città troppo caotica per i
suoi gusti, fino a lì.
Così facendo si sarebbe liberata dall’affitto
mensile più costoso.
Sospirò pensando al fatto
che apparteneva ad una della
famiglie più importanti del Mondo, se non la più
importante, ed era costretta a
quel tipo di vita.
Lasciò che il computer si
connettesse ed entrò nella sua
casella di posta. C’era un messaggio solo, come si era
aspettata, di sua
cugina. Lo aprì e lo lesse attentamente.
Si alzò e si mise a fare
le valige, pur non avendo tante
cose indispensabili da portarsi dietro. Sua cugina le aveva dato il
pretesto
definitivo per lasciare Kilkenny. Un rapido giro su Internet per
prenotare il
viaggio e poi spense il Pc. Faceva parte delle cose indispensabili.
Era un po’ delusa. Non
riceveva mai notizie dai parenti se
non in caso di bisogno ed era certa, per comprovata esperienza, che se
fosse stata
lei quella a necessitare aiuto non ne avrebbe ricevuto.
Pensò di contattare per
telefono la mittente del messaggio ma
calcolò rapidamente il fuso orario e decise di lasciar
perdere. Laggiù era
quasi l’alba e di sicuro non le avrebbe risposto.
Provò allora a cercare
qualche altro consanguineo.
Afferrò il cellulare,
piccolino e senza suoneria, al quale
giungevano principalmente solo messaggi di pubblicità o
d’avviso che da troppo
tempo non ricaricava.
Per primo chiamò suo
padre. Ma, ovviamente, una vocetta metallica
e pre-registrata le comunicò che l’utente da lei
richiesto non era al momento
disponibile. Inutile lasciare un messaggio in segreteria
perché tanto lui non
li ascoltava mai. Altrettanto inutile era mandargli un sms
perché al padre
bastava leggere il suo nome per non rispondere. Probabilmente nemmeno
li apriva
i suoi messaggi! Probabilmente l’aveva salvata come
“rompina” o cose simili.
Probabilmente non pensava mai a lei. Probabilmente. Odiava le
probabilità!
L’unico modo per parlarci
era iscriversi con falso nome a
qualche chat ed andarlo a cercare. Ma dopo un po’ capiva il
trucco e toglieva
la connessione.
Provò allora a chiamare
l’altro suo cugino, attualmente in
America, che però lasciò squillare il telefono a
vuoto. Esasperata, Hope infilò
l’apparecchio in tasca e finì di preparare le
valigie.
Non provò nemmeno a
contattare suo fratello perché
attualmente si trovava in Nepal, fra le montagne più alte
del Mondo, in cerca
di pace ed illuminazione mistica, senza nessun contatto con
l’esterno. Da tantissimo
non aveva sue notizie e lei aveva la certezza che tutte quelle balle
sul fatto
che i gemelli fossero in costante contatto non avevano alcun
fondamento. Non
aveva proprio idea di che combinasse il suo gemello lassù,
ai confini con
l’India, in mezzo al nulla, e se stesse bene. Trovava
divertente che proprio
lui, il pupillo e figlio preferito di papà, avesse deciso di
vivere in quel
modo. Lo trovava ironico. A quanto pare il bambino perfetto che il
padre tanto
amava non sarebbe mai diventato come il genitore aveva sempre
desiderato.
“Chissà cosa
direbbe la mamma sapendo tutto questo” si
chiese la giovane “Chissà cosa direbbe la mamma
sapendo che il suo bambino sta
in mezzo al nulla in cerca di se stesso e cresce così
diverso dal padre”.
Se effettivamente era
“diverso” il termine da usare…
Ma non avrebbe mai potuto sapere i
pensieri della madre. Sua
madre non c’era più. Era morta. Anche se suo padre
non si rassegnava e
continuava a cercarla, ritrovandola in qualche volto sconosciuto ed
estraneo,
che nulla aveva a che fare con la sua consorte, non l’avrebbe
più incontrata.
Hope era arrabbiata. Anche lei
avrebbe voluto sparire nel
nulla come il fratello, ma il suo modo di pensare la spingeva a tentare
di
mantenere vagamente unita la famiglia. Doveva raggiungere la cugina
dall’altra
parte del Globo per aiutarla. Suo padre, lo zio di Hope, aveva seri
problemi di
salute e quindi le due parenti avevano deciso di incontrarsi in cerca
di
sostegno.
“Ma non sarebbe stato
meglio il sostegno di tutta la
famiglia?” si chiese la giovane di Kilkenny. Sapeva che era
impossibile. Da
molto, moltissimo tempo, la famiglia non si riuniva.
Nella maggior parte dei casi Hope non
aveva insistito ma
QUEL caso era diverso. Era decisa,
nell’eventualità che suo zio stesse davvero
male, di ricercare, scovare e riunire tutti i parenti sparsi e
menefreghisti, pur
sapendo quanto difficile sarebbe stato!
Strinse i denti, legò i
capelli a riflessi rossi per
proteggerli dal vento, infilò il cappotto nero, gli stivali
e partì. Con una
valigetta piccola e poco ingombrante si avviò verso la
stazione dei treni.
Da lì sarebbe arrivata in
poco tempo a Dublino,
all’aeroporto. Senza voltarsi indietro, pur conservando la
solita, bruciante,
sensazione nostalgica, lasciò Kilkenny per arrivare in
Australia.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** II- cugini d'Australia ***
II
Isola di Lord Howe, Australia
Hope non aveva mia amato viaggiare in
aereo ma per giungere
fino dall’Irlanda fino all’Australia in fretta non
c’erano molte altre
alternative.
Giunse a Sidney con le prime luci
dell’alba e da lì si fece
venire a prendere dalla cugina con una piccola imbarcazione. Aveva
calcolato la
stagione invertita ma si ritrovò comunque un po’
spiazzata dal caldo opprimente
dell’estate inoltrata australe.
La cugina fu lieta di rivederla e le
due si salutarono con
entusiasmo. Con la piccola valigia al fianco, Hope attraverso il
piccolo tratto
d’Oceano che ancora la separavano dalla meta. Decise,
passandoci sopra con la
barca, che sarebbe poi ripassata per lì per poter ammirare
meglio la barriera
corallina. Sorrise alla cugina, in costume da bagno argentato.
Loro due non avevano nulla in comune.
Hope era pallida e dai
capelli rossi e dritti mentre Umy, la cugina, aveva la pelle nera e i
capelli
blu oltremare, pieni di onde e ricci. Nemmeno gli occhi le facevano
assomigliare. Hope aveva gli occhi azzurri, Umy di un bel verde che
ricordava
le profondità del mare. Inoltre Umy era alta, più
di un metro e ottanta, e aveva
un fisico molto più femminile di Hope. Aveva un seno
piuttosto abbondante anche
se, in Hope, si notava di più la linea fra vita e fianchi.
Aveva gambe lunghe,
caviglie affusolate, un bel viso da pantera adornato con due occhi da
gatta.
Quello era un corpo da ammirare, constatò Hope. Si chiese
che reazione
avrebbero avuto i suoi “ammiratori” di Kilkenny nel
vedere una donna come sua
cugina passare davanti al loro Pub.
“Spero tu abbia portato il
costume, Hope!” ridacchiò Umy.
“Sinceramente no. Non
l’ho considerata una visita di piacere
alla partenza da casa. Vuoi portarmi a nuotare? Lui è
qui?”.
“Lui chi? Papà?
No. È appena partito con mamma. L’ha portato
in un posto più tranquillo. Ti ho chiamato qui per parlare
con il mio
fratellino e fargli fare qualcosa. Non trovi che sarebbe bello avere la
famiglia unita ogni tanto? Ma mio fratello non sa far altro che
divertirsi in
spiaggia tutto il giorno. Io sono arrivata da pochi giorni qui ma non
l’ho mai
visto fare altro…”.
“L’ultima volta
che ci siamo sentite eri a Città del Capo,
giusto?”.
“Sì. Ma poi
Ocean mi ha chiamato dicendo che papà non stava
bene e così sono venuta qui. Ma al mio arrivo
papà e mamma si erano già
spostati. Credo che il mio adorato fratellino mi abbia chiamato solo
perché da
solo non è in grado di restare e senza la mammina si sente
perso…”.
“Ma non vive da
solo?”.
“Sì. E da un
sacco di tempo ormai. Ma comunque vive in una
casetta accanto a quella dove stavano mamma e papà. A
portata di voce, si può
dire…”.
Hope sorrise. Pensò a suo
fratello nel bel mezzo del nulla
senza niente e senza nessuno e questo gli diede la conferma che in
famiglia
neanche uno aveva più di tanto in comune con qualcun altro.
Le due cugine giunsero a destinazione
ed entrambe scesero
dalla barchetta, che Umy assicurò con una cima. Assieme si
avviarono verso una
piccola casetta sulla spiaggia.
Dall’esterno sembrava
graziosa, con il tetto in foglie di
palma e le pareti di bambù o qualcosa del genere.
All’interno Hope notò subito
che aveva proprio un’aria da casa da single: era disordinata,
sporca e piena di
cose inutili. Un vero caos.
“Ti chiedo scusa per il
disordine” disse Umy “Ma, come ti ho
detto, sono giunta da poco qui e non ho avuto modo di pulire il porcile
che
lascia dietro di sé quel maiale di Ocean!”.
“Tranquilla…non
c’è problema!” sorrise Hope, schivando
un
calzino spalmato sul pavimento.
“Per quanto ti
tratterai?”.
“Non credevo per molto.
Specie ora che so che lo zio non è
qui”.
“Ho sistemato la camera.
Vieni…te la mostro”.
Hope annuì e segui la
cugina. Le due giovani entrarono in
una piccola stanza, divisa a metà da una tendina, una specie
di zanzariera
verde chiaro.
“Questa è la
nostra metà” spiego Umy. “Ho diviso la
camera
di Ocean. Non è comodissima ma noi donne sapremo
arrangiarci, vero?” sfoderò un
sorriso d’avorio e Hope rispose, poco convinta, con un cenno
del capo.
Dividere un letto singolo in due non
era mai stato il suo
sogno. Inoltre un inquietante mascherone da stregone aborigeno la
fissava,
appeso alla parete.
Appoggiò la valigia a
terra e Umy la incoraggio a venire in
spiaggia in costume.
“Ti presto il mio! Vedrai
che ti andrà benissimo!” propose.
Hope storse il naso con un ghigno. Di
sicuro non avevano la
stessa taglia.
La cugina allora, capito il suo
pensiero, le propose di
andare a comprarne uno, ma Hope rifiutò l’offerta.
Voleva rimanere pallida come
sempre e scottarsi non era mai stata una sua priorità.
La cugina, con un alzata di spalle,
si arrese alla sua
volontà e assieme andarono verso la spiaggia.
Vivevano su un’isola
piuttosto piccola e bastava uscire di
casa per essere vicino alla riva dell’Oceano. Umy
però condusse Hope in un
altro punto del lido, dove aveva piantato l’ombrellone. Le
due si sedettero,
Hope all’ombra e Umy al Sole, e guardarono le onde. Al largo
si poteva vedere
Ocean che faceva surf, gridando di gioia ad ogni cavallone. Umy
cominciò ad
agitare le braccia e fargli dei cenni per farlo tornare a riva.
“Ocean!! Fratellino! Vieni!
È arrivata Hope!” urlava.
Ocean girò gli occhi ma
ignorò a lungo la sorella,
continuando a fare lo stupido, e Umy si arrabbiò.
Un’onda particolarmente
alta prese alla sprovvista Ocean che
si ribaltò e finì sott’acqua. Ci rimase
per parecchio tempo. I turisti si
spaventarono e allungarono in collo verso il mare in cerca di quel
povero
ragazzo mentre la gente del posto rimase ferma e tranquillo: erano
abituati ai
lunghi tempi di apnea di Ocean. I più anziani raccontavano a
tutti che su
quell’isola c’era sempre stato un giovane in grado
di rimanere nelle profondità
dell’Oceano più a lungo di chiunque altro.
Dopo qualche minuto, Ocean riemerse.
Lentamente. Prima gli
occhi, poi la punta del naso, la bocca e poi via, via il resto. Con la
tavola
da surf sottobraccio andò verso la sorella, che gli diede
dell’idiota.
“Ciao
Hope!” salutò Ocean.
“Ciao
Ocean” rispose Hope.
Ocean era alto esattamente come la
sorella anche se l’unica
cosa che avevano in comune erano gli occhi; entrambi avevano gli occhi
verdi. Ocean
era biondo e riccio. Quando era in spiaggia teneva i capelli legati
creando un
piccolo codino. Con tutte le ore passate al Sole era molto abbronzato e
grazie
al surf aveva un fisico atletico, che molte donne e ragazze avevano
avuto modo
di notare al loro passaggio.
Hope ridacchiò osservando
il suo costume verde a
tartarughine. Lui sorrise e le mostrò con orgoglio
l’ennesimo tatuaggio, fatto
di fresco, sul polpaccio destro.
“Cosa ne pensi, cugina? Ti
piace?”.
Era una sirena su uno scoglio.
“Carino” ammise
Hope.
“Qual buon vento ti porta
da queste parti, piccola pazza?”.
“Inguaribile
pazza,
mi ha definito Baudelaire in una poesia. Comunque sono qui
perché mi era stato
detto che vostro padre stava male e quindi volevo dare una mano, fare
qualcosa.
Ma dato che lo zio non è qui, dovrò trovare un
altro modo per rendermi utile…”.
“Mamma lo ha portato
nell’Isola di Kai, in Indonesia. Dice
che là sta più tranquillo”.
“E voi due non li volete
raggiungere?”.
“No. Sono stati loro ad
andar via. Potevano restare qui e li
avremmo aiutati!”.
Nel tono di voce di Ocean si notava
tutto il suo disappunto
e il suo fastidio.
Anche Umy era contrariata, specie
dopo il viaggio che aveva
affrontato dal Sud Africa per giungere fino lì.
Hope li guardò con
rimprovero.
“Non dovreste comportarvi
così” iniziò ad ammonirli “In
fondo
sono i vostri genitori e fino a poco tempo fa avevano frequenti
contatti con
voi. Ora probabilmente vostra madre ha deciso di trovare un posto
più
tranquillo per suo marito che non sta bene, ma non per questo dovete
ignorarli!”.
“Io sono giunta fin qui per
loro” protestò Umy “Se restavano,
io aiutavo!”.
“Perché non li
raggiungete? Probabilmente voglio solo
questo…”.
“E tu perché non
vai da tuo padre?” sibilò Ocean.
Hope rimase in silenzio,
accigliandosi, e sbuffò.
“Io cerco sempre di
mettermi in contatto con lui!” tentò di
giustificarsi “Ma lui preferisce parlare al computer con
degli sconosciuti e,
soprattutto, aspetta che il suo adorato figlio maschio lo chiami e gli
stia
vicino”.
“E lui
dov’è? Dov’è tuo
fratello?” volle sapere Ocean.
“Hai presente
l’Annapurna?” sibilò Hope.
“Ma tuo padre non ha dei
problemi…non ha bisogno di nessuno”
azzardò Umy.
“Sicura? L’ultima
volta che ha risposto ad una mia chiamata
stava cantando "Jerusalem" e ora vive in Città del
Vaticano…sicura
che stia bene? Per me mica tanto…”.
Ocean scoppiò a ridere.
“Tuo padre a
Città del Vaticano?!” iniziò,
continuando a
ridere “Lo zio che vive accanto al papa?! QUELLO zio che vive
accanto al papa?!
Ha avuto un improvviso attacco mistico? E tuo fratello?! Che ci
và a fare su un
monte di più di 8000 metri?! Hai ragione! Ci sono davvero
dei problemi in
questa famiglia!”.
“Non sarebbe bello porvi un
rimedio?” parlò Hope, guardando
il vuoto dell’orizzonte.
“Forse hanno entrambi
reagito in questo modo così strano
dopo la morte di tua madre…” ipotizzò
Umy, con aria triste “Immagino che non
sia facile né per tuo fratello né per tuo
padre”.
“Neanche per me
è facile ma non do di matto!” ribatté
Hope.
“Forse tu hai un carattere
più forte…”.
“Più forte di
mio padre?! Ocean! È di mio padre che stiamo
parlando! Hai forse dimenticato ciò che ha fatto in
passato?! O devo
raccontarti tutta la storia?!”:
“La conosco la storia,
Hope. Ma ho sempre pensato che tuo padre,
nel profondo, fosse fragile e solo. In tua madre vedeva
un’ancora. Una persona
speciale in grado di capirlo. Con la sua morte, non sa a chi rivolgersi
per
essere compreso”.
“A me! Può
rivolgersi a me!” si lamentò Hope “Ma
non lo fa
mai! Per lui esiste solo il suo prezioso figlio maschio, destinato a
grandi
cose. Io sono inutile e non programmata, secondo il suo punto di vista.
Se mi
chiamasse io lo ascolterei, se mi rispondesse io lo sosterrei. Ma non
esisto
per lui. Credetemi se dico che faccio del mio
meglio…”.
“Ti crediamo”
disse Umy.
“Forse una soluzione
c’è…per entrambe le
cose…” iniziò
Ocean, con aria meditabonda “Ricapitoliamo: tu, Hope, vuoi
riunire la famiglia
e sei preoccupata per tuo padre. Noi siamo preoccupati per il nostro e
vorremmo
veramente un sostegno collettivo. Forse lo zio ci può
aiutare…”.
“Quale zio?”.
“L’unico che non
ha problemi, almeno all’apparenza. Lo Zio
con la Z maiuscola! Quello che si esalta ti essere al di sopra di
tutto. Dato
che, se da lui parte un ordine, tutta la famiglia è riunita,
credo sia la cosa
più giusta andare a parlarci. Convinciamo tutti a ritrovarci
nello stesso
punto. Tutti quanti. Una volta tutti assieme sono sicuro che una
soluzione
almeno a qualcosa si trova”.
“Sono d’accordo
Ocean, ma c’è un problema…io non so
dove si
trovi lo zio adesso” ammise Hope.
“Ma io so dove sta Kriss,
suo figlio!” esclamò Ocean.
“Quello è
facile. È da anni ormai che passa tutto febbraio a
Rio de Janeiro per guardar le sfilate di
carnevale…” ridacchiò Umy.
“E dopo siamo noi quelli
con i problemi…spero che almeno lo
zio sano che ci resta non si sia dato alla droga, all’alcol,
agli spogliarelli
di gruppo o ad altre cose strane!” rise Hope.
“Se voi siete
d’accordo io vorrei fare un tentativo.
Dividiamoci. Tu, Hope, và da tuo padre e prova a convincerlo
a venir da noi in
Indonesia…”.
Hope annuì, pur poco
convinta.
Ocean continuò
“…io andrò da Kriss. So dove abita e so
come
convincerlo, almeno credo! Quando mi avrà detto dove si
trova suo padre,
decideremo chi andrà da lui a parlarci. Tu, sorellina,
potresti andare dalla
mamma per aiutarla. Sono sicuro che lo gradirà”.
Umy fece un cenno. E si
dimostrò disponibile a raggiungere i
genitori.
“Ad ogni modo lo scopo
finale di tutto questo sarà
ritrovarci tutti assieme in Indonesia. Anche se non ho una gran voglia
di
farlo, sono piuttosto preoccupato per il fatto che stiamo dando tutti i
numeri!” concluse Ocean, con l’aria seria e
altezzosa di chi è convinto di
essere il solo in grado di salvare la situazione e risolvere i problemi.
Hope sorrise. Era esattamente la
soluzione a cui sperava di
arrivare. Tranne per il fatto di dover andare a cercare suo padre in
quello
strano posto in centro Italia.
Disse di dover andare a casa a
prenotare il biglietto
d’aereo.
“Perché prendi
l’aereo, cugina?” domandò Ocean.
“Hai un alternativa
migliore?” sorrise lei.
“Vola! Sei la
Speranza…vola! Senza strani aggeggi rumorosi”.
I due scoppiarono a ridere.
“Ricordati che è
inverno in Italia. Fa freddo!” le ricordò
Umy.
“Lo so! Vengo
dall’Irlanda dove, credetemi, fa molto più
freddo!”.
“Non ti preoccupare
più di tanto, cuginetta Hope! Ricorda
che la speranza è l’ultima a morire!”.
“Ma prima o poi muore,
Ocean!” sorrise Hope, alzandosi da
sotto l’ombrellone.
I tre si allontanarono dalla riva e
tornarono in casa.
“Peccato cuginetta. Sei
appena arrivata e già devi
ripartire. Peccato. Ti avrei portato a fare un giro.
Un’immersione o magari una
gita nell’entroterra Australiano, fra canguri, Koala e
conigli, tanti conigli
morbidi e fucilabili. Sì, insomma, capisci quello che
intendo”.
“Sarà per la
prossima volta cugino. Ho tutta la vita
davanti!”
“Che ore sono in
Brasile?” domandò Ocean, guardando
l’orologio appeso alla parete a forma di armadillo con un
piccolo coccodrillo
verde come lancetta dei secondi “Posso chiamare Kriss o
dorme?” si chiese,
dubbioso.
“Tanto non risponde
mai” gli fece notare la sorella “Ha la
testa sempre fra le nuvole!”.
“Confermo”
mormorò Hope.
Ocean ripose il cellulare rassegnato
e cominciò a cercare
qualcosa di pulito fra la marea di vestiti sparsi sul pavimento della
casa.
Mise una camicia a fiori e dei pantaloncini blu.
Hope costatò che non
serviva disfare le valigie. Si chiese
se sarebbe mai riuscita a dormire ma poi arrivò alla
conclusione che per un
giorno poteva anche farne a meno.
Umy era quella che avrebbe dovuto
affrontare il viaggio più
breve e quindi era di buon umore e rilassata. Preparò la
valigia con estrema
calma.
Ocean odiava l’aereo e
quindi era più nervoso all’idea di
dover affrontare tante ore di volo per poi cercare un cugino che
chissà dove
stava con la testa. Ma ormai era deciso. Si chiese se, magari,
chiedendo ai
delfini, avrebbe evitato inutili controlli antiterrorismo e simili
amenità da
aeroporto. Si consolò pensando alle belle ragazze di Rio.
Chissà…magari Kriss
ne conosceva qualcuna da presentargli!
Uscendo, Ocean salutò il
suo dingo, più selvatico che
domestico come animale, e che quindi non avrebbe sofferto per la
mancanza del
ragazzo. Gli raccomandò di far la guardia alla casa ma la
sorella scoppiò a
ridere dicendo che tanto non c’era pericolo: non
c’era niente da rubare salvo
cretinate di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Ocean si offese. Lui
adorava
ogni sua singola cretinata e gli sarebbe dispiaciuto separarsene!
Partirono, chi con entusiasmo e chi
meno, e si separarono
con la promessa di rincontrarsi il più presto possibile, e
questa volta con la
famiglia al completo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** III- Rio ***
III
Rio de Janeiro, Brasile
Ocean odiava i viaggi in aereo.
Detestava alzare in ogni
modo i piedi da terra, salvo per restare sospeso fra le onde. Per
questo preferì
un più lungo, ma meno stressante a suo dire, viaggio in
nave. Con il favore di
un suo amico di vecchia data, con residenza a Sidney, poté
partire
immediatamente e, data al velocità dei mezzi moderni,
arrivò in tempi
relativamente brevi. L’amico gli fece notare che in aereo ci
avrebbe messo
attorno alle tre ore, se non di meno, risparmiando tempo, ma Ocean gli
ricordò
il tempo buttato al controllo bagagli e alle inutili trafile
burocratiche
aeroportuali.
Così la ebbe vinta ed
arrivò a Rio de Janeiro prima del
tramonto, come si era augurato.
Con il mese di febbraio la
città diveniva meta molto ambita
dai turisti di tutto il Mondo, tanta gente e tanti stranieri si
accalcavano per
le strade.
Ocean provò, invano, a
contattare il cugino. Perlomeno
avrebbe avuto la certezza di un posto letto grazie a
lui…forse.
La capitale era immensa ma Ocean
sapeva dove alloggiava
solitamente il parente e si diresse là, sperando di trovarlo
in casa. Si guardò
attorno, lasciandosi distrarre dalle belle brasiliane e
dall’allegria della
gente in festa. Stava calando la sera e tutti si riversavano per le
vie,
sfruttando le ore fresche ed approfittandone per far baldoria.
Il giovane si fermò in un
piccolo locale sulla spiaggia e si
fece un aperitivo in completo relax. Da lì poteva osservare
agevolmente la
finestra dell’appartamento del cugino. Notando la luce spenta
decise che era
inutile salire quel grattacielo per poi tornar giù causa
assenza del
consanguineo. In realtà aveva più voglia di
osservar fondoschiena locali piuttosto
che ascoltar la solita depressione del cugino. Cominciò a
ballare felice,
lasciando in un angolo la valigia e andando a mettersi il costume da
bagno in
una cabina. Fece subito amicizia con alcune ragazze e si
sentì molto meglio
quando si ritrovò con i piedi nell’acqua del mare.
Il Sole tramontò
velocemente e venne la sera, il buio calò
in fretta e vennero accesi dei fuochi e delle torce per illuminare la
spiaggia.
Dopo un paio di ore di bagordi si
sentì chiamare per nome.
“Ocean? Sei tu?”.
“E tu chi sei,
straniero?” rispose l’interrogato, non molto
lucido data la notevole quantità d’alcol che aveva
ingerito.
“Sono Kriss”
rispose l’altro, a braccia incrociate e lo
sguardo di rimprovero.
“Impossibile! Mio cugino
Kriss ha la barba e i capelli
lunghi. Fila via, ragazzino!”.
Kriss lo prese per il braccio e,
gentilmente, lo spinse in
mare con la faccia. Ocean si scosse.
“Sei proprio tu! Sei il mio
cuginetto Kriss! Ma…cosa ti è
successo? I capelli…la barba…il tuo solito
look…”.
“I tempi cambiano, cugino.
Ci si deve adattare”.
Colui che Ocean aveva di fronte aveva
i capelli dritti, si
vedeva subito però che non erano lisci naturali ma drizzati
con la piastra, e
gli occhi scuri, molto grandi. Aveva un’appena accennata
barbetta che gli dava
qualche anno in più. Sbuffando, scostò il ciuffo
che gli copriva parte del viso
e sorrise al parente che lo fissava con stupore.
“Kriss…che fine
hanno fatto i tuoi capelli mossi? Lunghi
fino alle spalle? Che razza di taglio è mai questo? Non
sarai mica Emo…tutto ma
non questo! Ti prego! Qualsiasi cosa, anche un assassino, ma non un
Emo!”.
Kriss sbuffò ancora.
“Non sono Emo, idiota. Ma
mi piace questo taglio di capelli.
E ho sempre le mie ragioni per essere perennemente depresso”.
Aveva una maglia azzurro cielo con la
scritta “El
Espìritu Santo es mi amigo”
e dei pantaloni a fiori in tinta. Non aveva l’abbigliamento
di chi voleva
tagliarsi le vene o era depresso.
“Cosa vuoi,
Ocean?” domandò sospettoso.
“Come?! Uno non
può far visita al suo adorato cuginetto
piccolo senza motivo?”
“Sì. Ma tu non
sei il tipo da far una visita senza motivo.
Avanti…che cosa vuoi?”.
Ocean sospirò. Si
alzò dall’acqua in cui era rimasto seduto,
lasciando la possibilità al parente di guardarlo
dall’alto in basso per una
volta, e gli andò vicino.
“Ti devo parlare, Kriss.
È una cosa importante”.
“Ok. Saliamo al mio
appartamento. Ti và una pizza?”.
“La pizza Americana
è disgustosa…”.
“Hai
ragione. Meglio
qualcos’altro…panino al volo?”.
“Vivi di fast food e non
sei grasso come un porcello?! Beato
te…”.
“Lassù, mio caro
Ocean, qualcuno mi ama!”.
I due si misero a ridere, lasciando
la spiaggia e avviandosi
verso i grattacieli adiacenti.
Ocean adorava quei quartieri. Vie di
lusso, per turisti, non
la bettola in cui viveva. In fin dei conti preferiva la sua casetta in
riva al
mare, ma una volta ogni tanto era bello sfruttare l’edonismo
del cugino. Era un
ragazzo piuttosto strano. Sempre pronto ad aiutare il prossimo, sempre
preoccupato per gli altri ma anche sempre pieno di soldi, forniti dal
generosissimo padre che compensava la sua assenza con il denaro. Kriss
non ci
teneva a nasconderlo e viveva nel lusso, ignorando il fatto che voleva
abolire
la povertà nel Mondo.
Più che un appartamento,
l’alloggio di Kriss sembrava un
albergo. All’ingresso due uomini sulla trentina si
inchinarono e salutarono con
un educato “buonasera” ed un sorriso stampato,
falso.
Kriss li salutò con la
mano e si avviò verso l’ascensore.
“Dai, Kriss!
L’ascensore?! Magro come sei dovresti fare un
po’ di movimento. Sei gracilino…”.
“Ma fatti una buona dose di fatti tuoi,
Ocean!” ridacchiò Kriss “Se vuoi puoi
fare le scale. Sono 33 piani…”.
Ocean non titubò oltre ed
entrò in ascensore con il cugino.
Era uno dei quei modelli di lusso, con il velluto rosso e
l’aria condizionata,
la radio e le luci per la cromo terapia.
“Che tante cazzate che ci
sono qui dentro. Manca solo il
frigobar!” costatò Ocean.
Kriss sorrise.
“Non sono, come meglio
preferisco dire,
"cavolate". Ma simpatici orpelli che allietano la salita”.
Si illuminò il numero 33
sul piccolo schermo digitale,
avvertimento dell’arrivo al piano designato. Si aprirono le
porte e i due
scesero.
“Prego, Ocean. Da questa
parte!”.
Kriss fece strada e lo condusse alla
porta. Aveva la chiave
elettronica e la porta si aprì con uno scatto metallico ed
un simpatico
rumorino elettronico.
“Vuoi una birra?”
domandò il padrone di casa.
“Magari…da
quando ti dai all’alcol? Non eri tu quello tutto
perfettino e puro?”.
“Non sono un alcolizzato.
Ma mi piace farmi una birretta
mentre guardo i Chicago Bulls per la televisione. Sai…ho lo
schermo al
plasma…”.
“Sei cambiato,
Kriss”.
“Tutti
cambiamo.
Nostro cugino è andato in Nepal…”.
“L’hai
saputo…”.
“Se sei venuto fin qui per
dirmi quello, mi dispiace farti
notare che lo so già”.
“Non è per
questo. Certo mi sarebbe piaciuto fartelo sapere
in anteprima…”
“Peccato. Mettiti comodo.
Scegliti un pouf”.
Ocean si guardò attorno.
C’era ben poco di normale in
quell’appartamento. Al posto delle poltrone e delle sedie
c’erano dei pouf dai
colori imbarazzanti e dei cuscini giganti, sgargianti. Alle pareti
quadri con
effetti ottici e immagini sacre di varia natura, con aureole in glitter
dorato
e sorrisi ebeti. Candele ed incensi spenti erano ovunque, anche sul
pavimento.
La carta da parati era di vari colori, incompatibili tra loro, con
disegni
arricciati e incomprensibili. Le finestre erano in stile antico, in
legno
decorato, e il camino era una piacevole visione. I mobili non avevano
nulla a
che fare con il resto dell’appartamento, salvo per il fatto
che avevano lo
stesso colore dei pouf: allucinante. Erano in plastica colorata,
trasparente, e
dalle forme anormali. Su di essi stavano gli oggetti più
diversi ed inutili, da
un uccellino in vetro che beveva dal bicchiere al finto acquario che
riproduceva il nuotare dei pesci con un nastro a ciclo continuo.
“Sai che i tuoi gusti fanno
schifo?” affermò Ocean,
storcendo il naso.
“Ha parlato quello che
colleziona maschere tribali…”.
“Le mie sono maschere!
Queste sono…come posso dire…”.
“Non lo dire e
siediti!”.
“Sul pouf rosa shocking o
su quello verde schifo?”.
“Per terra, se ti fanno
tanto ribrezzo i miei bellissimi
pouf!”
Ocean non disse altro e sedette,
birra alla mano, su un
cuscino giallo.
“Allora,
Ocean…di cosa dovevi parlarmi?”.
“Mi manda
Hope…” iniziò Ocean, dopo qualche sorso
della
bionda in bottiglia.
Kriss storse il naso sentendo quel
nome. Sedette a sua volta
e si versò del vino rosso.
“Vino americano,
cugino?” si schifò l’australiano.
“Macché! Ho
gusti decenti io!” cominciò Kriss. Notò
lo
sguardo perplesso del parente ed aggiunse “ Perlomeno nel
bere…”.
Ridacchiarono e venne mostrata la
bottiglia. Vino italiano
di prima scelta. Un patrimonio speso ad ogni sorso. Ma ne valeva la
pena, si
dissero.
“Te lo manda lo zio
dall’Italia?” si informò Ocean.
“No. Perché? Lo
zio è in Italia?! E non mi ha detto niente?!
Risparmierei un po’ se me lo mandasse
lui…vabbé…torniamo a
noi…dicevi che Hope
ti ha mandato qui…”.
“Veramente è
stata un’idea comune. Sai che mio padre sta
male. Vorremmo riunire la famiglia”.
“Per stare al suo
capezzale?”.
“Per questo e per altro
Kriss. Avanti…non dirmi che non ti
sei accorto di come la nostra famiglia si è ridotta! Una
volta era tutto
diverso. Vorremmo ritrovarci tutti assieme, come ai bei vecchi tempi, e
discuterne. Magari possiamo aiutarci a vicenda…”.
“Io non ho bisogno di
aiuto!”.
“Kriss! Andiamo! Non sono
stupido! Ricordo com’eri un tempo
e vedo come sei ora! Non sei te stesso! Nemmeno un po’! Come
non è più se
stesso lo zio che sta a Città del Vaticano e nostro cugino
che da anni è in
Nepal in cerca di chissà che cosa! Poi mio padre
malato…”.
“Io sto bene!”
affermò Kriss, incrociando le braccia ed
imbronciandosi “E poi ci sono membri della famiglia che non
ci tengo a
rivedere…”
“So che fra te e la
famiglia di Hope non è mai corso buon
sangue ma…”.
“Ma niente! Che vuoi che mi
importi se sono tutti
impazziti?!”.
“Veramente siamo
preoccupati anche per te…capisco che per
tutta la tua vita non hai fatto altro che cercare di essere
l’opposto del
cugino non presente, ma ora esageri! Solo perché lui cerca
una via più mistica
di quella che ha seguito fino alla morte della madre, non serve che ora
tu vada
a donne e ti dia agli alcolici ed alla ricchezza, che hai sempre
considerato
inutile!”.
“Chi sei tu per dirmi
questo? Non pensi che forse sei tu
quello sbagliato, Ocean? Passi le tue giornate facendo surf e
rimorchiando
turiste. Ti consideri meglio di me, facendo questo?”.
“Io sono sempre stato
così! Cosa direbbe tuo padre se
sapesse che combini?!”.
Kriss scoppiò a ridere.
“Mio padre?! Scherzi, vero,
Ocean?! Hai idea di dove sia mio
padre ora? È a Dubai, negli Emirati Arabi! In cima al
grattacielo più alto del
Mondo, in attesa che sia completato quello nel Kuwait. È fra
gli sceicchi ed i
signori del petrolio, vicino alla guerra eterna. Ricco e circondato da
poveri.
Credi veramente che mi riproverebbe se sapesse come vivo qui e come
agisco
nella mia vita?”.
“Sinceramente non mi
importa.Volevo solo sapere dove si
trova tuo padre. Non me lo avresti mai detto se non in questo
modo”.
Kriss lo guardò male e
trattenne il suo fastidio, mordendosi
il labbro inferiore.
“Sei venuto fino qui per
sapere dove si trova mio padre?”
sibilò.
“Sì.
Perché so che è l’unico che, nella sua
posizione, può
riunire la famiglia. Sempre che non si sia bevuto del tutto il cervello
anche
lui!”
“Perché ci
tenete tanto a riunirci? Cosa pensate di
ottenere?”.
“Non lo so. Ma perlomeno
facciamo un tentativo. Se mio padre
veramente morisse, penso che sarebbe felice di avere accanto i parenti.
Se poi
possiamo anche, nel frattempo, far tornare un po’ di
tranquillità nell’animo di
alcuni di voi…”.
“Credi dipenda dalla morte
della zia?” mormorò Kriss,
fattosi serio e pensieroso.
Guardava fuori dalla finestra. Aveva
un panorama mozzafiato,
con la spiaggia e un buono scorcio della città. Ma lui non
guardava verso il
basso. Si era perso nella contemplazione del cielo stellato.
“Potrebbe essere”
rispose Ocean, andandogli vicino.
“Una stella cadente.
Ocean…esprimi un desiderio. Te la
regalo”.
“Io ho un desiderio che tu
puoi far avverare. Vorrei che tu
venissi con me. Riuniamo la famiglia, Kriss. Vieni con me”.
Kriss era perplesso. Rimase in
silenzio per un po’.
“Credi che la mia presenza
possa cambiare le cose?” disse,
dopo qualche secondo.
“Non lo so. Ma vorrei tanto
che tu mi aiutassi. Vorrei tanto
che tu non dimenticassi chi sei”.
“Io non l’ho
dimenticato. Ma chi altro lo ricorda?”.
Ocean gli porse una piccola croce
dorata, pendente ad una
catenina d’argento.
“Sei sicuro di non aver
dimenticato?” domandò, sorridendo.
Kriss afferrò il gioiello
quasi con rabbia.
“Sei un fottuto
doppiogiochista, Ocean!” sbuffò, pur con un
mezzo sorriso.
“Sono bravo a trovare i
punti deboli…”.
“Ma vaffanculo!”
rise ancora Kriss.
“E no! Queste parole non
sono da te!” lo prese in giro
Ocean.
Kriss spalancò le braccia,
tenendo i piedi uniti, e fissò il
cugino con aria serafica.
“Sono nelle tue mani,
cugino. Mi arrendo. Cosa vuoi che
faccia?”.
“Voglio che tu venga con me
all’Isola di Kai, dove speriamo
di riuscire a riunire tutta la famiglia” rispose Ocean,
felice di averlo
convinto.
Kriss indossò la collana
con la croce e la strinse fra le
mani, sorridendo al cielo.
“Ai tuoi ordini, Ocean. Ma
non vorrai mica farmi perdere la
sfilata del carnevale di Rio?”.
“Certo che no! Ci tengo
anch’io a vederla!”.
“Bene.
E quando pensi
di andar a prendere mio padre?”.
“Veramente
penso ci
vada Hope…”.
“Chiamala.
Spiegale
dove si trova e dille che se ha dei problemi può rivolgersi
a me”.
“Come
sei
generoso…”.
Si
sorrisero.
“Che
vuoi fare ora,
cugino? La sfilata è domani. Vuoi dormire o vuoi che ti
porti in luoghi
interessanti della città? La notte è
giovane…ed io farei volentieri una
passeggiata”.
“Io vorrei farmi una bella
nuotata. Magari andare al largo
in quella bella baia isolata in cui mi porti sempre. Ma se tu vuoi
passeggiare,
a me va bene anche far un giro per Rio…”.
“Perché non fare
le due cose insieme, cugino?” rise Kriss,
prendendo la chiave elettronica.
“Ma…aspetta…usciamo
così?! Io in costume e tu con quei
pantaloni allucinanti?!”.
“Ma che te frega,
Ocean?” sogghignò Kriss, chiudendo la
porta dietro di sé.
“Basta vino a te per
oggi!” affermò Ocean, notando
l’insolita allegria del cugino.
“Ma l’oggi
è iniziato da solo un’ora!”
protestò Kriss,
spingendolo nell’ascensore.
“Appunto…basta!”.
“Ho voglia di biscotti al
burro…”.
“All’una di
notte?!”.
Assieme, e sorreggendosi a vicenda,
si allontanarono dal
grattacielo e si diressero verso la spiaggia. Kriss ne conosceva una
isolata e
tranquilla, senza luci artificiali ed il vociare dei turisti che
“rovinavano
l’atmosfera”. Andarono al largo. Quella notte un
ragazzo giurò di aver visto
due uomini sulla trentina in lontananza. Giurò che uno di
loro era verde, o
blu, mentre l’altro era luminosissimo e camminava
sull’acqua. Tutti diedero la
colpa all’alcol.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** IV- padre e figlia ***
IV
Roma, Italia
Hope odiava Roma. Troppi turisti.
Troppa gente. Troppe
chiese. Troppi preti. Troppo tutto!
La giudicava una città fin
troppo pomposa per i suoi gusti,
anche se aveva dei lati molto interessanti. Trovava alquanto
sconcertante il
fatto che suo padre vivesse veramente in una città simile.
Provò a chiamarlo ma
già sapeva che non avrebbe risposto. Non poteva credere di
trovarsi davvero in
centro a piazza San Pietro, circondata dalle sue colonne che parevano
abbracciarla e dai turisti che si scattavano ogni tipo di foto. I
piccioni si
scansavano ad ogni suo passo e la gente la guardava preoccupata. Sapeva
di non
avere proprio l’abbigliamento più adatto per il
luogo ma se ne fregò altamente.
Ringhiò al poliziotto che la fermò
perché aveva fatto suonare il metaldetector
all’ingresso della basilica. Aveva tante di quelle catene,
ganci, fibbie e
spuntoni metallici che era praticamente impossibile che non suonasse.
Voleva
tanto dare un calcio a quell’inutile uomo che insisteva per
perquisirla, ma
alla fine si arrese. Svuotò le tasche, tolse il cappotto in
pelle e gli anfibi.
Continuò a togliere roba e a passare sotto
quell’aggeggio, che però continuava
a suonare. Quando ebbe convinto i due agenti che lei portava le borchie
anche
nelle mutande, fu fatta passare.
Sbuffando per la perdita di tempo,
Hope si affretto ed entrò
in basilica. Ne ignorò i componenti e si avviò
lungo le scale che conducevano
alla cupola. Erano più di 600 scalini ma lei non si
scoraggiò e salì, fino in
cima. Si fece largo fra la folla e si alzò in punta di
piedi, cercando suo
padre.
Dopo un paio di giri lo
individuò. Era una figura solitaria,
appoggiata con i gomiti al parapetto, con i capelli sciolti al vento e
la
sigaretta lasciata bruciare fra le dita della mano abbandonata nel
vuoto.
Aveva, come la figlia, un cappotto lungo di pelle nera che svolazzava.
Hope lo
chiamò ma lui non si voltò. Lei allora gli
andò vicino e gli sfiorò la spalla
sinistra. Lui si limitò a riportarsi la sigaretta alla
bocca, senza dire una
parola.
“Papà!
Finalmente ti ho trovato!” ansimò Hope, data la
corsa
con cui aveva affrontato le scale.
Non ottenne risposta. Suo padre
muoveva la bocca ma Hope non
capiva. Poi vide che si muovevano all’unisono con le parole
pronunciate dal
coro che cantava nella basilica.
“Papà…ti
senti bene?” domandò preoccupata.
Il padre non la guardò ma
le parlò, gettando il mozzicone
della sigaretta.
“Come mi hai
trovato?”.
Hope rabbrividì. Non
ricordava quasi più la profonda voce
del padre.
“Ho chiesto alla polizia.
Ho detto che non trovavo più il
mio anziano padre e loro ti hanno rintracciato con il GPS del
cellulare”.
“Maledetti aggeggi
moderni…” mormorò l’uomo, poi
aggiunse un
“Hei!” per "l’anziano padre".
“Ti ho tanto cercato. Non
ricevi le mie e-mail? Non rispondi
mai alle mie chiamate, ai miei messaggi…eppure lo so che sei
sempre davanti al
computer e con il cellulare in mano…”.
Il padre la ignorò,
continuando a cantare.
“Cosa ci fai in un posto
come questo? È il luogo meno adatto
a te, papà! Stai bene? Sono molto preoccupata per te. Non ho
mai tue notizie…”.
“Come sta tuo
fratello?” la interruppe lui.
“Non ne ho idea. Nemmeno di
lui ho notizie da tempo”.
“Io percepisco la sua pace.
Tuo fratello è in pace. Felice.
Magari io potessi trovare la stessa pace…in luoghi come
questi si provano
sensazioni simili…”.
La figlia lo fissò,
perplessa “Pace? È questo che cerchi?”
domandò.
“Mio figlio, il mio
bellissimo figlio…ha trovato una vita
completamente diversa da quella del padre, l’unica vita che
credevo per lui
possibile, ed è felice. Questo ha messo un po’ in
discussione il mio modo di
vedere le cose”.
“Crisi di mezza
età?” ghignò Hope.
Il padre si voltò e la
guardò, alzandosi e staccandosi dal
parapetto.
Hope sussultò. Aveva
dimenticato perfino il viso di suo
padre.
“Credi che io abbia la
crisi di mezza età? Eppure sembro più
giovane di te…”.
“Non
esagerare…” balbettò Hope, mentre il
padre gli si
avvicinava con uno strano incedere ed uno splendido sorriso.
“Mi dai forse
più di 30, 35 anni?” sussurrò il padre,
prendendole il viso e guardandola negli occhi. Avevano gli stessi,
meravigliosi, occhi azzurri.
“Ragazzina…io
ora potrei baciarti davanti a tutti.
Sembreremo agli occhi di tutti una bella coppia, magari in viaggio di
nozze.
Che romantico…”.
Accostò il volto a quello
della figlia, arrivando quasi a
darle un bacio.
“Non sono la
mamma” sibilò lei “E sono tua figlia
Hope, non
una ragazzina”.
Il padre lasciò cadere le
braccia e si legò i lunghi capelli
scuri, leggermente mossi, con un nastro che teneva annodato al polso.
“Papà…io
sono qui per un motivo”.
“Anch’io”
rise il padre, tornando ad appoggiarsi alla
ringhiera e a guardare in basso, verso la piazza.
“Davvero? Quale?”
“Ho trovato tua
madre”.
Hope scosse il capo.
“Papà…la
mamma è morta! Non puoi averla trovata”.
“Lei è tornata.
L’ho vista”.
“Sai meglio di me che
è impossibile”.
“Impossibile?
Perché? Non pensi che sia potuta rinascere?”.
“Dovresti saperlo che non
è possibile…”.
“Perché no? Loro
tornano tutti…”.
“Mamma non è
così. Mamma non tornerà”.
“Bugie. Io l’ho
vista. Lei è di nuovo qui. Lei mantiene le
promesse. Lo ha sempre fatto. E lei mi ha promesso che non mi avrebbe
mai
abbandonato. E ora è tornata”.
Hope non sapeva che cosa dire. Non
pensava che la follia di
suo padre fosse giunta a quel punto.
“Perché?” sussurrò
l’uomo.
“Perché
cosa?” rispose Hope.
“Perché non
credi che lei possa tornare?”.
Hope non rispose.
“Te la mostrerò.
Quando la vedrai riconoscerai subito, in lei,
tua madre. E ora che lei è di nuovo fra noi, anche tuo
fratello tornerà qui”.
“Ti senti abbandonato,
papà? Lo capisco. Ma ci sono qua io.
Prima o poi tutto andrà a posto. È per questo che
stiamo cercando di riunire la
famiglia…”.
“Fare cosa?!”
sbottò il padre, voltandosi di colpo ed
alzando la voce.
“Stiamo cercando di
ritrovarci, tutti assieme, nello stesso
posto. Il padre di Ocean e Umy sta molto male. Temono che possa morire.
E tutti
abbiamo dei problemi, ammettiamolo! Possiamo aiutarci a
vicenda…”.
“Nessuno può
aiutarmi. Ed io non voglio vedere nessuno. Meno
che mai i miei fratelli”.
“Potrebbero
aiutarti…”.
“A fare cosa?”.
“A stare meglio!”.
“Potevano lasciarmi mia
moglie”.
“Non essere stupido! Sai
che non è colpa loro! Che follie
vai dicendo?! Non vuoi rivederli?”.
“L’unica che
voglio rivedere è la donna che amo. E che mi è
stata tolta. Quando lei è morta, non ricordo preoccupazione
o conforto da parte
dei parenti!”.
Seguì un lungo silenzio.
Hope gli sfiorò la spalla ma lui si
ritrasse.
“Papà…lei
non tornerà. Siamo soli. Ed è meglio che cominci
a
capirlo. Vieni con me…”.
“Io non vado da nessuna
parte! Lei è tornata. È qui. Ed io
non me ne vado. Smettila di dire fesserie e cattiverie. Se non vuoi
credere fai
pure. È colpa della gente come te se io sono ridotto
così!”.
“Colpa della gente come
me?! Papà…non credo alle mie
orecchie!”.
“Vattene!”
urlò il padre, afferrando il polso della figlia
che cercava di dargli sollievo, accarezzandogli la schiena o i capelli.
Lei si
difese, d’istinto, e lo graffio, con le lunghe unghie nere,
sul viso. Subito
sulla guancia del padre apparve un segno rosso.
“Papà…tu
sanguini…” si allarmò Hope, cercando un
fazzoletto
nella borsa.
Quando lo trovò glielo
porse ma il padre si girò.
“Non solo tuo zio sta
morendo, bambina mia…” gemette.
La figlia notò che stava
piangendo, come non aveva mai fatto
prima. Perfino alla morte della madre non aveva versato una lacrima.
C’era
veramente più di qualcosa che non andava.
“Hai ragione, Hope. Mi
sento vecchio. La crisi di mezza età
sarebbe una cosa un po’ stupida da dire ma sì, mi
sento stanco, stufo. Arrivo
ad invidiare mio fratello morente”.
“Papà, vieni con
me! Tutti assieme ci possiamo aiutare!”.
“Aiutare da
cosa?”.
“Possiamo farti stare
meglio. Guarirti…”.
“Da cosa? Non sono
pazzo!”.
“Non l’ho mai
detto…”.
“Ma lo hai
pensato!”.
“Ovvio! Dici di vedere
mamma…”.
“Non sono pazzo! Pazzo
è tuo fratello che è in mezzo al
nulla a fare chissà che cosa! Io non sono
pazzo…sono solo cambiato”.
“Non più di
tanto. Quante donne hai incontrato da quanto sei
qui? Altro che ricerca della pace…”
commentò Hope, notando quante notifiche
riceveva il padre sul telefono, continuamente.
“Questo cosa
c’entra?”.
“Tu non puoi trovare pace
come ha fatto il tuo prezioso
figlio. Anche in un posto come questo, così lontano dalla
tua concezione delle
cose…”.
“Lontano? Guardati attorno,
Hope! Hai visto quanti soldi e
gioielli ha il papa? Il capo della cristianità e simbolo di
Dio in Terra,
esempio per tutti, dovrebbe essere povero e umile. Invece guarda!
Preti,
vescovi, cardinali…sono molto più vicini alla mia
concezione delle cose di
quanto tu creda. E guarda tutti quegli esserini là
sotto…” disse, indicando la
folla in piazza “…pronti a gettare i loro soldi in
mano ad un organizzazione di
falsi profeti, in cambio di perdono e grazia. Io credo che in questo
posto la
mia concezione delle cose sia più viva che mai”.
Hope constatò la
verità delle cose e non ribatté,
soddisfatta per il sorriso del padre.
“Mi ‘spiace di
averti spaventato, bambina. Ma il cuore di
tuo papà batte in un modo che a nessuno è lecito
comprendere. E questo lo fa un
po’ andar fuori di testa”.
Prese sottobraccio la figlia ed
assieme scesero dalla
cupola, lungo le scale. Camminarono per la navata della basilica,
accompagnati
dal suono dell’organo e dal canto del coro. Entrambi tentati
ad improvvisare un
Valzer fra le navate, proseguirono. Hope sorrideva e pure suo padre,
anche se
sembrava un ghigno. La gente li guardava. Erano una coppia pittoresca,
lui
altissimo e dall’aria sognante, lei pensierosa e infastidita
dalla musica.
Entrambi affascinanti e vestiti in nero, accompagnati dal rumore dei
loro
stivali.
“Allora
papà…verrai con me?” mormorò
Hope.
I due erano usciti dalla basilica e
camminavano sotto il
colonnato. Il padre sorrideva, guardando la folla radunata nella
piazza.
“Guarda quanta gente.
Guarda quante creaturine piene di
richieste e speranze verso le
divinità…” cominciò a dire
lui.
“Sì…ma
non mi hai risposto…”.
“Io sto bene qui, Hope.
Davvero. Perché dovrei venire con
te?”.
“Non vuoi rivedere la
famiglia per intero?”.
“La mia famiglia non
sarà mai per intero. Mancherà sempre
qualcuno…”.
Hope
sospirò. Sapeva che il padre stava pensando
alla donna che aveva amato.
Quella per lui era la componente principale della famiglia, non i suoi
fratelli
e probabilmente non i suoi figli.
“Papà…so
che mamma era il tuo sostegno ma ora ci siamo qui
noi. Ci sono qui io. Posso sopportarti, se me ne dai la
possibilità. Posso
aiutarti. So che vedevi nella mamma l’unico sostegno per la
tua vita e che credi
di essere stato abbandonato, specie dal tuo adorabile figlio maschio,
ma
ricorda che io sono qui. Io ti capisco e ti voglio aiutare. Capisco il
tuo
punto di vista e non ti ho abbandonato. Sono qui. Perché non
mi vuoi? Perché ti
senti solo quando non lo sei? Comprendo il dolore che provi per la
perdita
della mamma ma…non c’è più,
papà! Ma non per questo nessuno ti ama, come
pensi”.
“Io non lo penso. Io ho chi
mi ama”.
“La presunta reincarnazione
di mamma?” storse il naso Hope.
“Non è presunta!
Lei è la donna che amo, è lei. Perché
non
vuoi che io sia felice? Perché stai qui a distruggere ogni
speranza? Tu, poi,
che porti il nome di "Hope"…”.
“Io voglio che tu sia
felice! Ma non in un’illusione del
genere. Mamma è morta. Se tu sei in grado di amare
un’altra io ne sono felice,
ma voglio che tu ricordi sempre che non è la
mamma”.
Il cellulare di Hope
squillò. Lei si spaventò. Non suonava
mai. Lo prese fra le mani e rispose.
Era Ocean che gli comunicava la
posizione dello zio, a
Dubai. Lei annuì.
“Ok” rispose
“Ci penso io. Tu và da tuo padre. Ciao”.
Lei aveva notato che il padre aveva
aperto la bocca, ma poi
non aveva parlato.
“Che volevi dire,
papà?”.
“Niente”.
“Come niente?”.
I due si allontanarono
l’uno dall’altro. Il padre gli diede
le spalle, con le mani in tasca. La figlia lo inseguì per un
po’, chiamandolo
per nome, ma non ottenne risposta.
Hope, esasperata, si
arrabbiò. La gente la fissava, dato il
tono di voce che usava per richiamarlo. Suo padre lasciò la
piazza, girò in uno
dei vicoli, ignorando le guardie svizzere che lo fissavano. E in
lontananza
vide colei che stava cercando.
Le si avvicinò con un
largo sorriso e la sfiorò con la mano.
Lei sussultò, presa alla sprovvista.
“Ciao!” lo
salutò, con entusiasmo e gioia.
“Ciao” rispose
lui, con una voce insolitamente dolce.
Lei era una ragazza molto giovane,
sulla ventina, con i
capelli biondi e ricci e grandi occhi brillanti. Per lui sembrava una
Dea.
Oppure una musa, di quelle bionde, compagne dei poeti.
“Dove sei stato?”
domando lei.
“In
giro…”.
“Sei sempre così
misterioso…”.
In effetti era vero. Le teneva
nascosta la sua età, la sua
famiglia, la verità. Ogni cosa a suo tempo, si ripeteva
dentro di sé, mentre la
prendeva per la vita con il braccio e la portava lontano dalla piazza.
Lei
ridacchiò felice e si fece condurre.
“Mi offri un
gelato?” chiese lei, con un’espressione ebete e
stupida.
Lui sospirò, rispondendo
con un altro sorriso scemo.
Da dietro una colonna, un ragazzo dai
capelli neri e l’abito
elegante li fissava. Li fissava entrambi, con fastidio, e quando fu
sicuro che
non lo guardassero, li seguì.
Nel frattempo Hope si allontanava da
San Pietro, con rabbia.
Telefonò ad Ocean, informandolo che il loro genitore non
aveva nessuna voglia
di riunirsi alla famiglia. Vide da lontano il padre con quella ragazza
e scosse
il capo: odiava questi suoi atteggiamenti con le ragazzine. Come poteva
paragonare quella piccola stupida alla mamma?!
Decise che stavolta non avrebbe preso
l’aereo. Era stufa di
trovarsi sballottata in aria. Ma fino agli Emirati
Arabi…forse il treno. Andò
fino in stazione a Roma per chiedere informazioni, anche se, come
sempre, gli
uffici che avrebbero dovuto aiutarla non sapevano un
granché. Attraversò la
strada, valigia alla mano, e quasi venne investita da una moto guidata
da un
uomo che, dalla visiera del casco, la guardò in modo strano.
Lei lo mandò a
quel paese e proseguì per la sua strada. In un internet
point trovò tutte le
informazioni ed arrivò alla conclusione che senza aereo non
sarebbe mai
arrivata. Sospirò e prenotò i biglietti, dovendo
fare anche degli scali.
Rassegnata, prese l’aereo e partì, con scali
obbligati ad Atene e in Egitto.
Che fatica le riunioni di famiglia!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** V- la famiglia del mare ***
V
Isola di Kai, Indonesia
Umy era fuori, fra gli scogli ed il
rumore delle onde del
mare, e sospirava. L’Oceano era agitato e verdastro, malato,
ed a lei questo
non piaceva. Immerse i piedi in acqua e rabbrividì. Era
insolitamente freddo e
sgradevole. Ritrasse gli arti e si alzò. Soffiava un vento
gelido, altra cosa
molto insolita per l’isola in cui si trovava.
“Ma che succede al
Mondo?” si chiese, coprendosi le spalle
con uno scialle.
Diede le spalle alla distesa
d’acqua e rientrò in casa. Era
silenziosa, umida, fredda più del mare e buia. Trasmetteva
tristezza.
Pregò dentro di
sé che non accadesse altro di insolito, come
eruzioni vulcaniche o terremoti. Ne aveva abbastanza. Chiamò
a gran voce la
madre, sentendo la sua voce riecheggiare per diverse stanze.
Guardò verso
l’alto, lungo le scale, sperando di ricevere risposta dal
piano di sopra, ma
non si udì un solo suono. Camminò svelta, con i
piedi scalzi e ancora umidi,
sul pavimento liscio del piano terra ed attraversò gli archi
che conducevano al
salone.
Umy sperava di ricevere presto
notizie da Hope e dagli
altri. Aveva preparato per bene tutte le camere e voleva davvero molto
che la
famiglia si riunisse. Sedette sul lungo divano e stese le gambe sul
tavolino.
Cominciò a leggere distrattamente un libro, sbirciando
l’alba attraverso una
piccola finestra. I raggi di Sole che entrarono crearono degli effetti
spettacolari, riflettendosi sugli specchi e sui cristalli della sala,
inondando
il soffitto e le pareti di colori e luci. Umy sorrise, poco convinta.
Però si
sentì un po’ sollevata. Almeno la luce faceva il
suo lavoro in quel Mondo
acciaccato.
La marea stava salendo, lentamente, e
le onde si facevano
sempre più violente.
Uno scricchiolio lungo le scale la
fece girare. Allungò il
collo e aspettò che l’autore dei rumori fosse
visibile dalla sua prospettiva.
Era sua madre che, a piccoli passi, scendeva al piano terra.
“Buongiorno cara”
salutò.
“Buongiorno
mamma” rispose Umy, subito togliendo i piedi dal
tavolino di cristallo.
“Sei
mattiniera…” incominciò la madre,
stretta in una
vestaglia di seta verde scuro.
“Mi piace sentire il
profumo dell’Oceano alle prime luci
dell’alba”.
Le due si guardavano, non nascondendo
preoccupazione.
“Come si sente
papà oggi?” domandò Umy, quasi
timidamente.
“Come sempre. Né
meglio, né peggio. Non so se questo sia un
bene o un male…”.
Anche la madre si sedette sul divano.
Aveva un’espressione
tesa e preoccupata, e questo non giovava al suo aspetto, ma restava ad
ogni
modo una bella donna. Aveva i capelli ricci e voluminosi, biondi come
quelli di
Ocean, che lasciavano scoperta la parte finale delle orecchie, da cui
pendevano
vistosi orecchini in madreperla decorata. Gli occhi li aveva verdi e
profondi,
brillanti e vivaci solitamente, quella mattina vitrei e distanti.
Probabilmente
quegli occhi erano le uniche cose che accomunavano la madre con la
figlia.
“Sai
quando arriva
Ocean? Il padre ha chiesto di lui…”.
“Non lo so, mamma. Presto,
ad ogni modo. Almeno così mi ha
detto”.
“E riguardo agli
altri?”.
“Non lo so. Dipende molto
da quanto sapranno essere
persuasivi Hope e Ocean”.
La madre sospirò.
“Vuoi una tazza di
tè?” domandò Umy, alzandosi.
La figlia si allontanò ed
andò verso la cucina senza
attendere la risposta.
Altri passi giunsero dalle scale e
sulla cima, dal piano
superiore, apparve il padrone di casa, il padre di Umy, reggendosi con
un lungo
bastone.
“Papà!”
lo apostrofò Umy, con tono di rimprovero
“Papà! Cosa
ci fai in piedi?! Devi riposare e rimetterti preso! Torna subito a
letto!”.
Ma il padre la ignorò ed
incominciò a scendere le scale,
lentamente. Aveva uno sguardo torvo, scocciato, mascherato solo in
parte dalla
folta barba grigia. Aveva profondi occhi blu scuro, quasi neri, seri e
socchiusi dalle folte sopracciglia. I capelli, mossi e disordinati, gli
ricadevano sulle spalle in modo confuso e privo di logica. Era un uomo
imponente, con larghe spalle e grosse braccia, piuttosto alto e
possente. Ad
ogni passo le scale scricchiolarono.
“È vero
ciò che ho sentito, figlia mia?” parlò,
con voce
profonda.
“A cosa ti
riferisci?” balbettò Umy, leggermente turbata dal
tono irato del padre.
“La famiglia. Si
riunisce?”.
“Ci stiamo provando,
papà…”.
“Ci stiamo?!”
ripeté il padre, inarcando un sopracciglio.
“Io e Hope. E in parte
anche Ocean”.
“Hope?! La figlia
di…quello”.
“Sì. La figlia
di tuo fratello. Tua nipote. Problemi?”.
“E suo fratello che
dice?”.
“Non
so…è in Nepal…”.
“A fare cosa?!”
si stupì il padre, inarcando l’altro
sopracciglio.
“Mmm…meditare,
trovare il Nirvana…”.
L’uomo scoppiò a
ridere, senza ritegno.
“Sì,
papà. Anche Ocean ha reagito così”.
Il padre tornò
improvvisamente serio.
“Non mi importa cosa pensi
o perché tu stia cercando di
riunire la famiglia. Quelli non entreranno in casa mia”.
“I tuoi fratelli,
intendi?” si informò Umy.
“Fratelli, nipoti,
parenti…nessuno tranne te, figlia mia,
Ocean e tua madre. Punto”.
“È una cosa
stupida. Che problemi hai con loro? E poi li
stiamo richiamando principalmente per te. Per aiutarti a stare meglio e
per
starti vicino”.
“Già hai pronto
il mio elogio funebre?” ironizzò il padre.
Era giunto alla fine delle scale.
Diede un occhio al salone
e salutò la moglie, sorridendo.
“Perché,
papà, non vuoi rivedere la tua famiglia al
completo?”.
“Perché sono
stufo di fare da mediatore fra il maniaco di
grandezza e l’eterno Peter Pan. Quei due litigano fin da
quando ne hanno avuto
le capacità e continueranno ancora fino alla fine. Ed io,
stupido, ho cercato
di calmarli e far da giudice imparziale, ma quei due sono impossibili.
Ed ora
la situazione è peggiorata perché Peter Pan non
ha più la compagna che lo ferma
quando esagera. Se poi arrivano tutti i loro
figli…quell’invasato semi-depresso
di Kriss, Hope e le sue idee folli, suo fratello che ora
starà facendo chissà
cosa con i bonzi in un adorabile completino arancione…per
non parlare delle
sorellastre di quei due! C’è né una che
proprio non mi va di vedere!”.
“Così sei tu
l’eterno Peter Pan. Ti comporti come un
bambino, papà” lo rimproverò Umy.
“Non direi
proprio” affermò lui, serio.
“Pensala come vuoi, ma loro
saranno qui, spero. Tutti quanti!”.
“Vuoi proprio darmi il
colpo di grazia” si lagnò il padre.
“Suvvia! Non
esagerare!” intervenne la moglie, prendendolo a
braccetto e cercando di ricondurlo in camera al piano superiore.
“Non rompere, donna! Sto
benissimo ed ho il diritto di
vietare, a chi non desidero vedere, di entrare in casa mia senza il mio
permesso!” brontolò.
“Tu adesso la smetti di
lamentarti, vecchio bacucco, e torni
di sopra, a letto! Nostra figlia sta facendo una cosa bellissima e tu
non
distruggerai tutto solo perché fra te e i tuoi fratelli ci
sono i soliti
problemi”.
“Tu non capisci, Anfy. Io
non voglio vederli. Non perché
abbia dei problemi con loro direttamente, ma perché sono
stufo di essere sempre
nel mezzo mentre loro litigano. La cosa mi stressa. E poi in questa
famiglia
lavoro solo io! Quegli altri due cretini…uno è
troppo impegnato ad
auto-celebrarsi e l’altro ad auto-distruggersi
perché rimasto solo. E io invece
qui a sudare. Poi si stupiscono se sto male! Sono stanco e stressato e
la loro
presenza non può che peggiorare la situazione!”.
“Se sei tanto stanco
allora, caro, dovresti tornare a letto”
incalzò la moglie, trascinandolo su per le scale per un
braccio.
Pur essendo una donna piuttosto
minuta, anche se alta,
riuscì senza difficoltà a farlo salire, anche
contro la volontà del marito.
“Anfitrite!”
sbottò l’uomo, ma lei lo zittì e lo
chiuse in
camera.
Umy sorrise. Soprattutto
perché si sentivano ancora i
borbottii di protesta del padre da dentro la stanza. Brontolii che la
moglie
metteva subito a tacere. Dopo un po’, la donna ricomparve
sulle scale
sorridendo e fece segno alla figlia di andare in salotto, quello
più piccolo. Le
due si sedettero attorno al piccolo tavolino circolare in legno scuro e
bevvero
qualche sorso di tè, in silenzio e calma. I mobili di legno
di quella piccola
ed accogliente stanza avevano un effetto calmante e trasmettevano
sensazioni di
benessere e calore. Umy si rilassò e sorrise, con la tazza
ancora fumante fra
le mani. La posò, dopo qualche sorso, e guardò la
madre.
“Mamma…”
chiese a bassa voce “…ma tu sei felice
all’idea che
la famiglia si riunisca qui, in questa casa, fra poco?”.
“Tesoro…”
iniziò la madre, a mezza voce anch’essa per non
svegliare
il marito “..innanzitutto resta da vedere chi e quando si
presenterà della nostra
famiglia. In secondo luogo, io non ho nessun problema ad ospitarli ed
accoglierli in casa ma mi auguro che si comportino come è
giusto, senza litigi,
urla e quant’altro. Se rispetteranno queste semplici regole,
allora mi sentirò
sollevata e più che felice di averli qui. Ovvio che, se la
loro presenza
dovesse risultare dannosa i qualche modo a tuo padre, non
indugerò a sbatterli
alla porta!”.
Umy parve soddisfatta della risposta.
Le bastava questo. Un
sostegno anche solo parziale era più che sufficiente per
renderla più sicura e
tranquilla.
“Dovremmo comprare qualche
cosa però…” iniziò.
“Tipo?”.
“Lo sai…uno zio
non dorme se entra anche solo un raggio di
Sole in camera, l’altro zio è paranoico e deve
avere porte e finestre
spalancate, Hope non ama la confusione e probabilmente anche suo
fratello dopo
il soggiorno con i bonzi fra le nevi. Kriss è
strano…molto strano…e poi…”.
“Fermati, figlia mia, e
tranquillizzati. Ho pensato a tutto.
Ognuno avrà la sua stanza come la desidera e se avranno dei
problemi…”.
“…si
attaccano!” terminò Umy, e scoppiò a
ridere, per poi
continuare: “Al massimo, se proprio non gli sta bene stare
qui, gli diamo i
soldi per andare in albergo. Non so dove si trovi l’albergo
più
vicino…probabilmente su un’altra
isola…ma almeno, se iniziano a litigare, li
spediamo uno da una parte e uno dall’altra e festa finita!
Voglio che si
ritrovino per parlare, non per farsi del male!”.
La madre annuì.
“Sei molto buona, Umy. E
anche Hope lo è. Voi cugini avete
un diverso modo di vivere e pensare rispetto ai vostri vecchi. Questo
mi rende
ottimista nei confronti del futuro perché pare che fra di
voi non abbiate
problemi, ma sana collaborazione!”.
“Be’…fra
me e Hope in effetti non ci sono problemi e nemmeno
fra Kriss e me. Ma già fra Ocean e i suoi due cugini maschi
iniziano i diverbi.
E anche Hope ha dei problemi con Kriss e Ocean. Per non parlare di suo
fratello…quello è talmente strambo che tende a
litigare con tutti!”.
“Presenta molte delle
caratteristiche del padre. Speriamo
che il soggiorno in Nepal gli abbia giovato e abbia trovato una certa
stabilità. Speriamo, data la sua reazione in seguito alla
morte della madre…fra
lui e suo padre, pensavo fosse impossibile controllarli! Per fortuna
c’è
Hope…”.
“Hope non avrà
sempre il tempo e la voglia di star dietro a
quei due. Chissà…vedremo quando, e se, saranno
qui se la situazione è
migliorata in qualche modo. Nel frattempo dobbiamo solo impedire che
papà
faccia pazzie”.
Le due donne annuirono, con un
sorriso. Si alzarono dal
tavolo, portando vie le tazzine e l’occorrente per il
tè, e si separarono.
Anfitrite si avviò lungo le scale per andare ad accudire il
marito e Umy tornò
nel salone, cellulare alla mano, cercando di mettersi in contatto con
qualcuno.
Almeno da un parente sperava di ricevere conferma!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** VI- segretaria ***
VI
Dubai, Emirati Arabi
Hope si trovava ai piedi del
grattacielo più alto del mondo.
Guardò in su, con le mani infilate nelle tasche dei
pantaloncini neri che
indossava. Vide che gli ultimi piani erano celati dalle nuvole, oppure
da una
sottilissima nebbia, non si riusciva a capire. Era arrivata da quasi
una
settimana nello stato del medio oriente ma aveva dovuto aspettare
l’arrivo del
pass di Kriss, una schedina elettromagnetica che le dava accesso agli
ultimi
piani dell’edificio senza dover perder tempo in complicate
trafile
burocratiche. Ovviamente aveva dovuto attendere il suo arrivo per
posta. Questo
l’aveva un po’ innervosita perché, se
avesse saputo della necessita dell’uso
del pass, avrebbe affrontato il viaggio con più calma,
evitando l’aereo. Piuttosto
in cammello! Ma suo cugino non pensava mai alle cose per tempo e
l’aveva
avvertita quando ormai lei era gia giunta a destinazione.
Prese un bel respiro ed
entrò, i capelli rossi raccolti in
una coda e gli occhi celati dagli occhiali da Sole, lasciando che le
porte
scorrevoli le si aprissero davanti. Entrò decisa, esibendo
il pass alle guardie
all’ingresso, due uomini alti e biondi vestiti di bianco.
Questi la lasciarono
passare e non le dissero nulla. Soddisfatta, Hope proseguì.
Passò davanti ad
una specie di reception composta da un largo bancone in legno, dietro
al quale
sedeva un altro signore piuttosto alto, robusto e moro.
Con i piedi sul bancone e la sedia
inclinata, l’uomo leggeva
le parole crociate e pareva ignorare Hope. In realtà, appena
questa oltrepassò
il limite del mobile di legno, la apostrofò con un
“Hei tu” e la invitò a
fermarsi, con un tono per niente gentile.
“Ho il pass!”
affermò lei, infastidita.
“Quello è il
pass del Signor Kriss, e tu non sei Kriss. Tu sei Hope”.
“Lo so chi sono, io,
Michael!”.
“Allora non puoi passare.
Coraggio…dietro-front e via a
casa! Fai la brava bambina…non farmi chiamare la
sicurezza…”.
“ E tu non farmi rispondere
male. Kriss mi ha dato il pass e
mi ha detto di poterlo usare”.
“Lo so. Ma il capo mi ha
detto di non farti passare”.
“Come?! Sa che sono
qui?!”.
“È una domanda?
Certo che lo sa. Sapeva che saresti arrivata
e mi ha detto di non farti passare. Quindi ora alza i tacchi e torna a
casa,
non voglio rissa”.
“A me invece pare che
cerchi rogna…” borbottò Hope.
“Se vuoi provo a mandare
qualcuno a convincerlo…è sempre
molto impegnato però. Chissà fra quanto
potrà riceverti…” parlò
l’uomo,
limandosi le unghie con indifferenza.
Hope si sedette, braccia e gambe
incrociate, e lo fissò con
aria di sfida.
“Ho
l’eternità dalla mia parte”
ghignò, ed attese.
Ad un tratto il telefono
suonò e l’uomo rispose, dando le
spalle ad Hope girando sulla sedia provvista di piccole rotelline.
“Sì?”
disse, con convinzione.
Seguirono momenti di silenzio, con
solo i cenni della persona
al telefono.
“Capisco. Ci penso
io” disse infine, alzandosi e lanciando
una strana occhiata alla giovane.
Si stiracchiò,
sistemandosi il vestito, e sorrise ad Hope.
“Devo andare, principessa.
Aspetta qui, mi raccomando, che
c’è gente ad ogni piano che ti attende per
cacciarti fuori in modo molto meno
gentile di quanto farei io”.
Hope gli mostrò la lingua
e rimase seduta, con aria
orgogliosa.
“Come vuoi.
Vorrà dire che chiamerò Kriss e gli
dirò quanto
poco sei incline ad obbedire ad un suo comando”.
“Fai come vuoi. Non
è lui che mi paga. Non ho obblighi, per
ora, nei suoi confronti!”.
Hope gonfiò leggermente le
guance ma non disse nulla. L’uomo
prese una piccola 24ore nera, ne controllò il contenuto e
fece per andarsene.
“A
proposito…” parlò, con un evidente
falso sorriso “…mia
cara, come sta tuo padre?”.
“Bene. Alla facciaccia
tua!” ghignò lei.
“Ah. Perché mi
erano giunte voci discordanti
sull’argomento”.
“Calunnie. Ed inutili
dicerie. Mio padre sta benissimo e
comunque non sono affari che ti interessano o che ti
riguardino!”.
Lui le diede le spalle, sistemandosi
la giacca e stringendo
a sé la valigetta. Inaspettatamente, Hope lo vide salire in
moto, dopo aver
indossato il casco, per allontanarsi dal palazzo.
Ora era sola. Sospirò ed
iniziò a guardarsi attorno. C’era
silenzio. Un silenzio innaturale e inquietante. Non passava nessuno e
si sentì
un po’ a disagio.
Rimase seduta per una buona
mezz’ora, fiduciosa e speranzosa
come il suo nome le imponeva, dopodiché decise di alzarsi e
cercare qualcuno.
Intravide una figura dietro un piccolo banco, in fondo al corridoio
bianco e
dorato. Avvicinandosi si sentì meno agitata: tornavano i
suoni e le voci! Si
coprì il viso con la mano per schermarsi dalla luce del Sole
che entrava dalle
tante finestre. La figura stava rispondendo al telefono. Per lo
più con frasi
del tipo: “Resti in linea”, “Attenda
prego”, “Non è in sede”.
Contemporaneamente leggeva e rispondeva a delle e-mail.
Era un altro giovane biondo,
impegnato e concentrato così
tanto nel suo lavoro che, quando notò Hope,
trasalì. Ripose educatamente l’auricolare
ed ignorò il vibrare continuo di tre cellulari.
“Ciao, carina. Posso fare
qualche cosa per te?” domandò
gentilmente, con voce dolcissima.
“Veramente
sì…ho il pass per andare ai piani di sopra ma il
tuo amichetto all’ingresso mi ha impedito di salire ed
è andato via,
lasciandomi qui da sola”.
“Mi faccia
vedere…” si offrì il giovane,
allungando la mano
verso il pass di Hope. Lo esaminò e poi la fissò
ben in viso.
“Avrei dovuto riconoscerti
dubito…” mormorò
“…quegli
occhi….Hope?”.
Lei sorrise. Anche se non era
convinta fosse una buona cosa
che sapesse chi fosse esattamente.
“Come hai avuto questo
pass, piccola Hope?” si informò lui,
inforcando gli occhiali e verificando di non avere fra le mani un falso.
“Me lo ha dato Kriss. Puoi
chiamarlo, se vuoi verificare…”.
“Farò i relativi
controlli, ovvio. Posso sapere cosa ti
porta qui?”.
“Ad una nipote non
è più concesso andare a trovare lo
zio?”
disse lei, con le mani dietro la schiena e l’aria innocente.
“Dipende dallo zio e
dipende dalla nipote…” ghignò lui,
riprendendo a lavorare al computer.
“Allora?! Cosa faccio
adesso?! C’è qualche possibilità che
io possa salire?”.
“Chiamo di sopra, ma non
posso prometterti niente”.
Detto questo, il giovane
afferrò la cornetta di un telefono
bianco latte e digitò il numero uno.
Attese per qualche secondo e poi
ricevette risposta.
Brevemente spiegò la situazione ed annuì un paio
di volte, attorcigliando i
fili dell’apparecchio fra le dita affusolate e curate. Poi
riagganciò.
“Mi hanno detto che devi
parlare con Kriss perché entrerai
solo con lui”.
“Come?! Ma Kriss
è in Brasile!”.
“Non è un
problema mio. Il pass è di Kriss, Kriss entra. E
se poi vuol portare anche te con lui, sono affari suoi. Avresti dovuto
intuirlo…”.
“Sei insopportabile! Siete
insopportabili! Sono qui per un
motivo serio!”.
“E chi non lo è?
Tutti dicono di essere qui per motivi
importanti. Tutti telefonano, scrivono, rompono e si lagnano per un
motivo
serio e importante. Chi sei tu per far risultare le tue questioni
più
importanti di quelle degli altri?”.
“Sai benissimo chi
sono!” sbottò Hope, accigliandosi.
“Tanto quanto tu sai chi
sono io, chi è tuo zio e quanto
poco siano propensi a fare dei favori alla tua stretta parentela i
frequentanti
di questo palazzo”.
“Il proprietario di questo
palazzo e suo figlio SONO mia
stretta parentela!” ringhiò lei, sempre
più infastidita da quei discorsi.
“Dipende dai punti di
vista” rispose l’altro, serafico,
concentrato sulle sue faccende.
Hope respirò a fondo,
calmandosi. Sorrise con scherno e
tornò a fissare il suo biondo interlocutore.
“Certo
che…” iniziò a parlare con aria
furbetta “…dev’essere
frustrante”.
“Cosa?” si
accigliò leggermente lui,
“Essere nella posizione in
cui stai ora. Tu, che avevi un
ruolo così importante per molti, ritrovarti ora segregato
come segretario o
poco più…”.
“Non sono affari che ti
interessano” rispose bruscamente e
tornò ad ignorarla.
Hope afferrò il cellulare
con convinzione e cercò il numero
di Kriss. Calcolò il fuso orario e fece partire la chiamata,
sperando di
ricevere risposta.
Inaspettatamente,
dall’altra parte del Mondo, Kriss le
rispose. Entusiasta, Hope sorrise.
“Ciao,
Superstar!” lo salutò, felicissima di sentirlo.
“Ciao, inguaribile pazza.
Problemi?”.
“Veramente sì.
Non mi fanno passare”.
“Non ti fanno
salire?”.
“No. Dicono che devi
esserci tu qui, con me. Altrimenti non
si fa niente”.
“Capito. Ok. Sta
tranquilla. Arrivo in un battibaleno. Ma
chi c’è all’ingresso?”.
“Fino a poco tempo fa
c’era Michael. Poi è andato via,
lasciandomi sola. Così ho cercato di corrompere la
segretaria, ma non ho avuto
successo”.
“La segretaria?!”.
“Sì.
Quell’incrocio fra maschio e femmina biondo che
c’è a
rispondere al telefono”.
“Povero
Jibrihel…”.
“Povero un paio di
c…”.
“No, no, per
carità!” la interruppe lui, ma senza tono di
rimprovero “Non serve esprimersi così. Ad ogni
modo, ti comprendo. Parlare con
mio padre è sempre piuttosto complicato”.
“Questo l’ho
capito…”.
“Arrivo allora. Partiamo
assieme, io e Ocean”.
“Non ha ancora raggiunto i
suoi genitori?!”.
“No. C’era il
carnevale di Rio…”.
“Ho capito…fra
quanto arrivi?”.
“Dammi mezza giornata.
Intanto fa le parole crociate di
Michael…così quando torna si fa i problemi per
capire chi è stato”.
Hope sghignazzò.
“Hai capito il
cuginetto…in fondo, sei cattivello anche
tu!”.
“Un po’ di sana
cattiveria non guasta mai. Ora passami la
segretaria, per favore”.
Lei porse il cellulare al giovane
biondo, che subito cambiò
espressione. Divenne educato, paziente e servizievole. Come ogni
dipendente con
il suo capo. E, come ogni dipendente con il suo capo, appena ebbe
riattaccato
mostrò tutto il suo fastidio sbuffando e borbottando cose
imprecisate.
Senza dire nulla di comprensivo si
alzò dalla sua postazione
e si allontanò, legando i capelli ricci distrattamente e
battendo i piedi. Si
girò verso Hope, rimasta ferma dove stava.
“Muoviti”
sibilò Jibrihel, con un falso sorriso.
“Che
scortesia…”.
“Non ho tempo per stare
dietro a te. Perciò siediti e stai
buona finché non arriva il Signor Kriss. E non tirare fuori
questioni, come la
tua famiglia ama fare”.
Hope non ribatté e
annuì, raggiungendolo. Lui la fece
accomodare in una piccola stanza e le chiese che cosa potesse offrirle
da bere.
La giovane accettò un succo di frutta e sedette composta,
tirando le tende per
ripararsi dal Sole che batteva potente da ogni finestra. Jibrihel
fissò la
stanzetta con una smorfia. Apprezzava molto la luce e il Sole, molto
meno la
sua ospite. Andò fuori dalla stanza, dopo aver servito Hope,
e schiacciò un
tasto rosso sotto il bancone di legno. Dopo poco apparvero due figure
vestite
in bianco. Il biondo diede loro l’ordine di stare accanto
all’ingresso della
stanza a controllare che tutto andasse bene.
“Il Signor Kriss mi ha
detto che dobbiamo attendere il suo
arrivo. Nel frattempo dobbiamo far in modo che la Signora Hope sia a
suo agio”
questo lo disse a voce a alta.
Poi, a bassa voce aggiunse
“E soprattutto, aggiungo io, non
fatela andare troppo in giro. Che non esca da lì a far
casino come è solito nel
suo patrimonio genetico”.
Posso
salutare? Ciao
a tutti! Aggiorno molto in fretta in questi giorni (2 capitoli al
giorno) ma
tra poco rallenterò. Spero intanto di risvegliare
curiosità e idee!!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** VII- Nepal ***
VII
Da qualche parte sull’Annapurna, Nepal
Sfidando il freddo e la neve, i
monaci stavano tutti in uno
stato di profonda meditazione e silenzio. Erano divisi in diversi
gruppi.
Quelli vestiti in arancio e rasati, pregavano Buddha, fingendo
indifferenza nei
confronti dell’altro gruppetto che stava poco più
in là. Vestiti di bianco o
grigio, con un turbante attorno alla testa, i santoni indù
pregavano restando
immobili nella posizione del loto. Ognuno di quei due gruppi
rivendicava quel
luogo come esclusivo e prioritario del proprio culto, ma nessuno aveva
il
coraggio e la forza di allontanare gli altri. Poco sopra di tutti loro,
si
apriva una piccola grotta il cui ingresso era quasi completamente
celato dalla
neve. Là dentro il freddo era ancora più pungente
per colpa delle correnti
provocate del vento gelido. Al centro di essa, accanto ad una piccola
statua di
Shiva, stava immobile un uomo, a torso nudo. Con le gambe incrociate a
loto e
le mani con pollice e indice in contatto, restava fermo, con gli occhi
chiusi.
La punta delle sue orecchie fremette quanto avvertì un
rumore all’ingresso, ma
subito riprese la sua meditazione. Un piccolo uomo, vestito pesante e
piuttosto
grassottello, era entrato nella grotta e, rabbrividendo, si stava
avvicinando
all’occupante silenzioso. Ad ogni suo respiro si condensava
una grossa nuvola
di vapore. Si sfregò le mani, infilate in grossi guanti
pelosi. Camminava
lasciando grossi solchi sulla neve e sul ghiaccio con i suoi stivali.
Rabbrividì ulteriormente quando vide il torso nudo
dell’abitante della grotta,
i suoi piedi scalzi ed il solo uso di una specie di gonna scura
allacciata alla
vita come indumento.
“Permesso?”
domandò l’intruso, non sapendo se era
esattamente la frase da usare.
Non ricevette nessuna risposta.
“Scusi…mi
dispiace disturbarVi e non vorrei aver sbagliato
persona ma mi hanno detto che Vi avrei trovato
qui…”.
“Parla più
piano” si sentì dire.
“Come?”.
“Parla più
piano. Abbassa la voce. Disturbi la montagna”.
L’intruso fece una smorfia
ed un’espressione confusa. Poi si
schiarì la voce e continuò il suo discorso,
stando attento a parlare a bassa
voce.
“Vostra sorella Hope Vi sta
cercando…”.
“Lo so” rispose
l’altro, sempre immobile.
“Per una questione
importante…”.
“In base a cosa si
può stabilire se una questione è davvero
importante?”.
“Vostro zio sta molto male.
Potrebbe morire”.
“La vita e la morte non
sono cose importanti. Sono dei
passaggi obbligati. A noi la scelta di come affrontarli”
rispose ancora, ad
occhi chiusi e con calma.
“Vostro padre desidera
tanto rivederVi”.
“È stato lui a
mandarti qui?”.
“No. L’abbiamo
deciso in modo indipendente, io ad altri.
Siamo tutti molto vicini a vostro padre e vorremmo aiutarlo, come
vogliamo
aiutare Hope”.
“Quanta devozione giungere
fino a qui per far star meglio
colui che mi ha donato metà del suo patrimonio
genetico…”.
“Voi non siete in pensiero
per lui? E non Vi importa che
vostra sorella Vi cerchi?”.
“Io ed il mio genitore
siamo in stretto contatto. Percepisco
chiaramente che cosa prova e dentro di sé ha solo
confusione. Tanta, tanta,
tanta confusione. Tanta quanta ne avevo io. Ma ora sono in pace e
dovrebbe
trovare anche lui il modo di star bene, senza rompermi
l’anima. Mamma è morta,
e prima si arrenderà alla cosa e meglio sarà. Non
potrà mai tornare tutto come
prima. Se vuole perdere la sanità mentale, che faccia pure.
Io non lo posso
aiutare”.
“Ma Vostra
sorella…”.
“Piccola
Hope…” iniziò, aprendo gli occhi. Erano
meravigliosi, azzurri e luminosissimi, con lievi screziature arancio.
“Ormai
avete interrotto la mia meditazione…”
brontolò, alzandosi.
Era un uomo molto alto il gemello di
Hope, dal corpo sottile
ed affusolato ma con un evidente muscolatura su braccia e gambe. Aveva
le
spalle piccole e la vita sottile. Si alzò, stiracchiandosi e
sbadigliando.
Passò le mani fra la crocchia che aveva sulla testa, con le
sue dita molto
lunghe e agili, e sciolse i capelli. Erano neri, corvini, scurissimi,
come
quelli del padre. Ma, a differenza di quelli del genitore, erano dritti
e molto
più lunghi. Arrivavano, infatti, quasi fino a terra.
“Siete
cresciuto…” commentò l’uomo
imbacuccato ed
infreddolito.
“Pensa chi mi ha generato.
Ovvio che sia alto”.
Si affacciò
all’ingresso, appoggiandosi al bordo dell’arco
d’entrata, e si accese una alquanto poco mistica sigaretta.
Sbirciò i due
gruppi in meditazione e sorrise vedendoli litigare.
“Dì pure a mia
sorella di smetterla di chiamarmi. Non ho
niente da dirle” parlò, guardando il vuoto.
Aveva una bella voce, profonda e
melodica. Triste.
“Va
bene…”.
“E adesso sparisci. Mi hai
visto. Sono vivo. Questo puoi
dire a mio padre: tuo figlio sta bene, meglio di te, lascialo in pace.
So che è
deluso perché non sono diventato come lui desiderava, ma io
non ne ho colpa.
Probabilmente è stata mamma a farmi il dono più
grande: la pace. La pace e la
fiducia in me stesso. Pare che mio padre, gradatamente, stia perdendo
entrambe”.
“Questo perché
sperava di rivedersi riflesso in Voi”.
“I figli non sono i cloni
dei genitori. Sono entità a se
stanti che prima o poi seguono la propria strada, che può
essere o meno quella
che è stata progettata per loro. E questo ormai dovrebbe
averlo capito, dato
l’età che ha…”.
“Potreste almeno
telefonare…”.
“Hai presente dove siamo,
piccolo stupido? A più di
8000metri d’altezza! In mezzo al nulla! E poi…io e
mio padre abbiamo sempre
avuto uno strano rapporto…” sibilò,
toccandosi la gola con la mano e gettando
il mozzicone della sigaretta.
L’altro uomo
capì solo in parte il discorso fatto e non
rispose.
“Io, in realtà,
sono il degno figlio di mio padre” parlò
ancora l’occupante fisso della grotta “Sono
inquieto e scorbutico, irato e
orgoglioso. Molto orgoglioso. Ma cerco di controllare tutto questo. Io
sono
"l’opposto": opposé, ellentétes,
gegentail, hantai no,
opuesto….oppositus! In me tutti non han visto altro che
tenebre, buio e
sventura. Dicono che sta scritto così. Ma in
realtà io voglio dimostrare
d’essere diverso. Certo, ovvio, sono l’opposto di
Kriss, quello strano essere
depresso, ma questo non mi rende una creatura sbagliata, come mi
è sempre stato
detto ultimamente”.
Si sedette, riprendendo la posizione
del loto.
Ma non riusciva a rilassarsi. Il suo
corpo fremeva, non per
il freddo ma per la tensione rinata dentro di sé e che
faticosamente tentava di
sedare e controllare.
“Mio padre cerca la pace
incontrando altre donne, in cerca
di mamma. Io non potrei mai fare una cosa del genere. Io provo a
trovare me
stesso. Il mio vero me stesso. Qualcosa che mio padre non ha mai
trovato.
Quando saprò controllarmi e ritrovarmi in ogni momento,
allora potrò lasciare
questo posto e tornare a casa. Ma prima non posso fare ritorno. E qui
sto bene,
nonostante tutti i pettegolezzi e le malelingue che serpeggiano in
famiglia e
altrove. Non sono qui per dar fastidio o per fare stupidaggini. E
questo
gradirei molto che lo riferissi…”.
“Quali
malelingue?” fece, stupito, l’uomo infreddolito.
“Non fare finta di
niente…sai bene quali malelingue! Sai
bene la reazione di tutti quando sentono che io sono qui, in Nepal, in
silenzio
a meditare in cerca di pace”.
“In
effetti…” sghignazzò
l’imbacuccato “…si mettono quasi
tutti a ridere…”.
L’uomo dai lunghi capelli
neri, con gli occhi ancora aperti,
lo fissò accigliato e l’altro notò che
l’azzurro era sempre più screziato di
rosso-arancio. Ma l’espressione di rabbia durò
poco su quel viso sottile e
pallido. Le lunghe sopracciglia, che parevano disegnate, si rilassarono
e si
risollevarono lentamente. Fece un piccolo sorriso con le labbra
vermiglie.
“Allora, mio caro amico,
ora che mi hai visto…trovi ancora
che ci sia da ridere?” domandò, con voce
tranquilla e serena, ed un espressione
rilassata. Gli occhi semichiusi e i denti bianchi appena scoperti,
brillavano
con la pallida luce della Luna da poco sorta.
“No, signore. Non
c’è niente da ridere. Però dovete
ammetterlo che è un po’ buffo pensare che Voi
siate qui, data la famiglia da
cui provenite…”.
“Effettivamente io troverei
divertente il fatto che mio
padre mi dica che và a fare una cosa del
genere…ma, del resto, il mio genitore
è ora in Vaticano. Non è divertente anche
questo?” sogghignò, chiudendo gli
occhi e sorridendo malignamente.
“Lo
ammetto…è divertente anche questo!”
rise l’altro.
“Lui che ad ogni occasione
non fa altro che parlar male di
preti, chiesa e quant’altro…che cosa buffa che sia
a vivere proprio lì. A
quanto pare la famiglia ha dei problemi da risolvere, ma ognuno
dovrebbe
pensare ai propri e fare da sé. Inutile riunirsi per
piangersi addosso”.
“Riferirò il
Vostro pensiero…”.
“Ti ringrazio. Ora vai
pure. Vorrei tornare a concentrarmi.
Tranquillizza Hope, dicendogli che sto bene e che non si deve
preoccupare per
me perché qui è tutto a posto. Sono vicino con il
pensiero, e con quel che
resta della mia anima buia, al mio caro zio morente e a tutta la sua
famiglia.
Ma non credo sia necessaria la mia presenza. Soprattutto considerando
quanto
poco sia apprezzato da quelle parti. Manda un abbraccio alla mia
cuginetta Umy,
a sua madre e via dicendo. Tornerò quando sentirò
dentro di me la sensazione di
pace totale che cerco”.
“E se non riusciste a
trovare questa sensazione di pace?”.
“La troverò. Sii
ottimista…”.
L’uomo fece un cenno di
congedo con il capo e si voltò per
andarsene.
“Un’ultima
cosa…” lo fermò il meditabondo.
“Mi
dica…”.
“Se riesci ad impedire che
il Mondo rida della mia decisione
te ne sarò immensamente grato. Non sono impazzito come tutti
pensano. E tu lo
hai visto”.
“Sì.
L’ho visto. Riferirò…ora,
però, vado per la mia strada
perché qui fa decisamente troppo freddo. Non riesco a
comprendere come Voi
possiate stare fermo per ore, seduto sulla neve, a queste
temperature…so che
non riesco a resistere più di tanto ancora”.
“Vai pure. E ricorda che il
freddo mantiene giovani” lo
schernì, con un bel sorriso ed una risatina, mentre con le
mani tornava a farsi
la crocchia con i capelli lunghissimi.
L’altro non disse niente,
sorrise e scosse il capo
divertito, allontanandosi.
Rimasto solo, l’occupante
della grotta lasciò stare la
crocchia, non riuscendo a metterla in ordine per colpa del vento che di
nuovo
soffiava forte. I capelli gli ricaddero sulle spalle e lungo il corpo,
per poi
allargarsi sul pavimento circostante in ciuffi agitati. Aprì
gli occhi, del
tutto azzurri e con grandi pupille tonde. Si voltò verso la
Luna, piena e
luminosa, e le sorrise.
“Sei molto bella questa
sera, Selene” mormorò.
La luce bianca del plenilunio gli
illuminò il viso da una
piccola apertura e lui tornò a chiudere gli occhi,
lasciandosi accarezzare da
quei raggi magici. Respirò a fondo, cercando di nuovo la
pace. Ma riaprì gli
occhi molto presto. Era molto agitato dentro di sé. Davvero
suo zio stava
morendo? Davvero suo padre era sull’orlo di una crisi di
nervi? Stava
impazzendo? E l’altro suo zio? Perché non faceva
mai nulla? Queste ed altre
domande cominciarono a girargli in testa. Cercò di zittire i
suoi pensieri con
rabbia e fastidio ma non ci riuscì subito. Si
ripeté che sarebbe andato tutto
bene, che andava tutto bene, che tutto passa e che non si doveva
preoccupare.
Ma una vocina, sempre più forte, dentro di lui ripeteva che
era giusto
preoccuparsi. “Se non ti preoccupi ora, quando?!”
si sentiva dire. Con un
notevole sforzo mentale, riuscì a calmarsi e spegnere tutte
le voci, i pensieri
e le domande. Tornò a chiudere gli occhi e a congiungere le
dita. Calmò il suo
respiro, calmò i battiti del suo cuore angosciato ed
iniziò a cantare. Prima
mestamente e con poca voglia, poi con tono sempre più alto e
convinto. Aveva
una bellissima voce anche quando cantava, non solo quando parlava. I
monaci
sotto la grotta, udendolo, sorrisero e si unirono tutti assieme in un
unico
canto di devozione alle divinità.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** VIII- Traffico ***
VIII
Roma, Italia
“Odio il traffico di
Roma” borbottò, sommessamente, il padre
di Hope.
Era in coda, come sempre, nei pressi
del monumento a
Vittorio Emanuele. Ringraziò, non sapeva bene chi, per
l’invenzione del
riscaldamento e lo accese a pieno regime nella sua auto nera
metallizzata, di
marca tedesca, con i vetri oscurati. Faceva un gran freddo quella sera
ma il
cielo era sereno. Lui sbirciò fuori, guardando le prime
stelle e la Luna che si
mostrava, ancora in parte, all’orizzonte. Aprì con
un tasto il finestrino e
fece penzolare il braccio sinistro di fuori, gettando la cenere della
sigaretta. Subito avvertì il freddo esterno e
ritirò l’arto, chiudendo di nuovo
il finestrino. Rabbrividì scocciato, guardando il braccio
con la pelle d’oca.
“Ma in Italia non dovrebbe
far caldo?” protestò fra sé e
sé.
Decise di non riaprire il finestrino
ma di buttare la cenere
in un piccolo contenitore d’argento che aveva in auto. Non
aveva mai capito a
cosa servisse. Hope gli aveva detto che era un brucia incensi ma lui lo
trovò
più interessante come portacenere.
Accese la radio per coprire lo
snervante strombazzare dei
clacson e tentò di rilassarsi, nel traffico completamente
immobile. Ridacchiò
vedendo due automobilisti arrivare quasi alla zuffa per un parcheggio.
Guardò
l’orologio. Odiava essere in ritardo ma per fortuna era
partito da casa con
ampio margine di tempo, prevedendo la situazione. Un’auto blu
tentò di
sorpassarlo, facendogli segno più volte di spostarsi con gli
abbaglianti.
“Dove cazzo vuoi che vada?!
Sulle scalinate del monumento ai
caduti?!” sbraitò di risposta.
Dopo aver ripetuto a se stesso di
stare calmo, alzò
ulteriormente la radio e si accese una sigaretta con il mozzicone della
precedente. Lanciò un’occhiataccia dal finestrino
al tizio che lo seguiva.
Evidentemente lo aveva scambiato per una donna, dato i suoi capelli
lunghi, e
non sopportava l’idea di guidare dietro ad un rappresentante
del sesso
femminile al volante. Specie perché l’auto blu in
questione era un enorme SUV.
“Chissà dove
deve andare con quella specie di tir
metallizzato…” borbottò il padre di
Hope “…però, se mi incula, scendo e gli
rompo la faccia. Brutto fighetto esaltato…”.
Avanzò di qualche metro,
senza nemmeno toccare il volante.
Poi, d’improvviso, il traffico avanzò quel che
bastava per permettergli di
lasciare l’arteria principale e prendere una via secondaria.
Finalmente
soddisfatto per poter premere l’acceleratore, raggiunse in
fretta la sua
destinazione e parcheggio lungo un vicolo. Era buio,
l’illuminazione stradale
come al solito non andava. Tornò a guardare
l’orologio. Era puntualissimo, come
sempre, ma sapeva che lei ci avrebbe messo almeno mezz’ora
per scendere da quei
quattro salini che davano sulla strada. Odiava i ritardatari ma alle
signore
permetteva ogni volta quel po’ di tempo in più. Ne
valeva quasi sempre la pena.
Frugò nel cruscotto e si aprì una birra, in
lattina, che, come era prevedibile,
zampillò e trasbordò schiuma.
“Merda!” sibilò, pulendo con le dita la
superficie cilindrica. Poi si appoggiò allo schienale e
socchiuse gli occhi,
gustandosi il liquido ambrato con infinita letizia.
“Non dovresti essere del
tutto sobrio per guidare?” si sentì
chiedere.
Sobbalzò. Un uomo sulla
trentina con i capelli neri e la
giacca in pelle era entrato in macchina e gli sedeva accanto.
“Fuori da qui,
ragazzino!” sbottò, ma l’intruso non si
mosse.
“Sono qui per parlarti.
Rilassati. Non voglio né rapinarti
né ucciderti”.
“Non potresti fare nessuna
delle due cose, sgorbio. E adesso
và subito fuori dalla mia macchina!”.
“Sono venuto ad avvertirti…”.
“Io non parlo con chi
lavora per mio fratello”.
“È
così evidente che lavoro per lui?”.
“Vi si riconosce lontano un
miglio. Fuori!”.
“Ti consiglio di lasciar
perdere la mia protetta”.
“Sofia?”.
“Sonia!!”.
“Ah, sì,
giusto…Sonia! Ad ogni modo…perché
dovrei lasciarla
perdere?”.
“Altrimenti ci saranno
delle pessime conseguenze che vorrei
evitare”.
“Tipo?! Mi salti addosso e
mi aggredisci?”.
“No. Non io perlomeno. Ma
ci sono delle persone a cui certi
atteggiamenti non piacciono”.
“Se ti riferisci a mio
fratello puoi anche andare a dirgli
che può baciare il mio lui sa che cosa, per quel che mi
riguarda”.
“È una
ragazzina!”.
“Mica
tanto…”.
“Che non sa chi sei
veramente! Nemmeno le hai detto che hai
dei figli!”.
“Perché
dovrei?”.
“Tu dici che lei
è la reincarnazione della donna che amavi.
Quindi, forse, non stai solo giocando. Se la ami davvero dovreste dirle
la
verità”.
“Tu non sai un bel niente,
perciò vai fuori di qui, subito,
prima che le pessime conseguenze te le mostri io sulla tua piccola e
fragile
persona!”.
“Guarda che io sono solo in
pensiero per lei. Non me ne
importa di cosa fate voi due. Mi preoccupa solo il fatto che lei stia
bene e
temo possa stare molto male se continua a frequentare uno come
te!”.
“Meglio di me chi
può proteggerla?”.
“Meglio di te chi
può metterla in pericolo?”.
“Va bene. Ho capito.
Starò attento, ok? Sei soddisfatto
adesso?”.
“Io ti ho avvertito.
Più di così non posso far
niente…”.
“Esci!”.
L’intruso uscì
dalla macchina.
“Amore!”
chiamò la ragazza dall’appartamento.
“Dimmi, Sonia”
rispose il padre di Hope, aprendo il
finestrino.
“Vieni dentro. Fa freddo ed
io non sono ancora pronta”.
Lui scese dalla macchina e
salì i quattro scalini che
separavano il marciapiede dall’ingresso. Prese la chiave del
suo mezzo di
trasporto fra le mani e, senza girare la testa, premette il tastino che
stava
su di essa. Un piccolo “bip” gli fece capire che la
chiusura elettronica aveva
funzionato. Entrò in casa, che ormai conosceva bene,
togliendo il lungo
cappotto nero. Conosceva anche molto bene gli eterni tempi di
preparazione
della ragazza.
“Accomodati pure.
Sarò pronta fra un attimo!” si sentì
dire
dal bagno.
Aveva ancora un’ora e mezza
allora, più o meno. Sorrise,
sedendosi sul divano e accendendo la televisione. C’era un
film poliziesco fin
troppo banale, in cui il colpevole era subito evidente ma i poliziotti
impediti
non ci arrivavano. Girò un paio di canali, storcendo il naso
davanti ad un
reality show ed una partita di pallone. Sentì un rumore.
Abbassò il volume.
“Sonia?”
chiamò.
Lei urlò un
“Dimmi, amore?” da sotto la doccia.
Non poteva essere stata lei a far
quello scricchiolio.
Spense la tivù e rizzò le orecchie, alzandosi
lentamente. Fece il giro della
casa e non trovò nessuno. Si convinse che era stata la sua
immaginazione e
tornò in salotto.
“Tesoro”
sentì sussurrare.
Si girò verso la porta e
vide la sua bella, con ancora i
capelli biondi bagnati, con indosso un minuscolo completino intimo di
pizzo.
“Tesoro…cosa
metto stasera? Mi porti fuori a cena?”.
“Non vuoi che prima ti
faccia venire un po’ d’appetito?” le
rispose di rimano, pensando dentro di sé che poteva dire
addio al suo
autocontrollo.
“Vuoi fare una
corsetta?” ridacchiò lei.
“Veramente pensavo ad un
altro tipo di ginnastica…” sorrise
lui, andandole vicino.
Eppure, pensava mentre le dava un
bacio, c’era qualcosa di
strano, di inquietante, in quella casa. Ma forse era tutta
un’illusione. Forse
erano solo delle sensazioni che la sua mente produceva, forse allarmata
dalle
parole di quel giovane intruso in macchina. Forse…ma la
verità qual’era? Decise
di pensarci dopo. Ora aveva di meglio da fare. Scacciò ogni
altro pensiero
mentre lei gli ordinava, con sempre più insistenza, di
spogliarsi. Per poco la
sua mente si placò. Dopo qualche istante la sua testa
iniziò a fargli udire una
voce, indistinta e lontana, che lo chiamava per nome. Si
sforzò di ignorarla ma
questa si faceva sempre più forte. Più aumentava
il suo piacere e più quella
voce alzava il suo volume finché non fu costretto a fermarsi
gridando “Basta!”.
La voce finì ma lei,
Sonia, lo guardava in modo strano. Che
cosa dirle?
“Tesoro?”
sussurrò la ragazza “Che ti prende? Qualcosa non
va?”.
“No…va tutto
bene. Solo che…non hai la sensazione di
sentirti osservata?”.
“E da chi? Rilassati, amore
mio! Non c’è nessun’altro qui
tranne me e te. Và pure avanti…”.
Lui respirò a fondo un
paio di volte, per calmarsi. Lei lo
fissava impaziente, senza dire nulla. Lui sorrise. La voce non la
sentiva più e
nemmeno avvertiva quella strana sensazione di pericolo. Decise di farsi
perdonare per l’interruzione prendendo a sé quella
donna come mai prima d’ora e
lei ne fu veramente entusiasta.
Quando lei si svegliò, lui
non c’era. Sbuffò arrabbiata
perché se n’era andato così ma poi
sentì dei colpi provenire dalla cucina. Si
alzò pigramente, indossando la vestaglia, e
sbirciò fuori. Non aveva chiuso la
porta a chiave e temeva fosse un intruso. Afferrò una delle
katana che teneva
vicino al letto, regalo dell’uomo che attualmente amava, e si
avvicinò alla
porta della cucina. Entrò circospetta, notando una figura
scura vicino al
lavello. La figura ridacchiò.
“Buongiorno,
piccola” le disse.
E lei depose la spada, riconoscendo
l’uomo che l’aveva
soddisfatta poche ore prima.
“Tesoro! Sei tu! Mi hai
spaventata!”.
“Credevi fossi andato
via?”.
“Sinceramente…sì!
Voi uomini fate sempre così!”.
“Non io, mia
cara”.
“Che cosa stai
facendo?”.
“Cucino”.
“Ma sono le quattro del
mattino!”.
“E allora? Non ho cenato e
ho fame. Tu no? Non
mi va di aspettare fino al
mattino per fare colazione”.
“Cosa stai
cucinando?” domandò lei, sorridendo.
Lui aveva fra le mani un lungo
coltello e stava affettando
cipolle.
“Sto preparando le verdure
per il sugo”.
“Non piangi a tagliar le
cipolle? E poi…sugo per cosa?”.
“Speravi di vedermi
piangere così facilmente? E comunque il
sugo è per la pasta”.
“Pasta in piena
notte?!”.
“Non va di moda in Italia
la pasta di notte?”.
“Non sei italiano anche
tu?”.
Lui non rispose. Buttò in
pentola le cipolle, le carote ed i
pezzettini di carne, mescolando lentamente ed assaggiando di tanto in
tanto.
Lei si leccò i baffi. Il profumino era delizioso.
“Non sapevo che sapessi
anche cucinare…ma, del resto, ci
sono moltissime cose che non so su di te. Chissà quando ti
deciderai a dirmi
qualcosa…”.
Lui le sorrise e scolò la
pasta. L’orologio che aveva al
polso fece due “bip”. Le quattro.
“Buon appetito”
disse lei, arrotolando gli spaghetti con la
forchetta e facendosi versare il vino.
Mangiarono assieme, parlando poco.
Lui era di nuovo
pensieroso.
Finito di mangiare,
l’ospite rimise la camicia ed il
cappotto, salutò educatamente con un bacio ed
uscì, nel freddo che precede
l’alba. Non si sentiva a suo agio e decise che allontanarsi
da lei momentaneamente
gli avrebbe fatto bene alla mente. Risalì in macchina, senza
allacciare la
cintura, e si avviò verso casa. Accanto alla soglia un
pensiero gli balenò in
mente: “Devo dirle la verità”.
Inchiodò ed invertì la marcia.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** IX- Dubai ***
IX
Dubai, Emirati Arabi
Kriss arrivò al palazzo
del padre verso l’ora di pranzo, con
il caldo soffocante che lo accompagnò quando le porte
scorrevoli lo fecero
passare ed entrare. Aveva un’aria tranquilla ed
un’espressione serena, anche se
priva di sorriso. Si era vestito in modo semplice e sobrio, maglietta
bianca e
jeans, anche se dava nell’occhio a causa della pettinatura
nuova. La gente all’interno
dell’edificio non era abituata a vederlo con i capelli neri,
dritti e sugli occhi,
a coprire parte del suo sguardo color cioccolato. Hope era rimasta ad
aspettarlo nella stanzetta in cui era stata gentilmente accompagnata.
“Buongiorno,
Jibrihel” salutò Kriss.
Subito i presenti si alzarono in
piedi, in segno di
rispetto, e salutarono in coro il figlio del padrone.
“Dove sta mia cugina
Hope?”.
“Nella saletta privata,
Signore. Vi accompagno” si offrì
Jibrihel.
In realtà dentro di
sé si stava ripetendo che non meritava
tanta riverenza quel ragazzino di cui ricordava perfettamente la
nascita e che
non rispettava, momentaneamente, la volontà del padre.
“So bene, Jibrihel, che mio
padre ha dato l’ordine tassativo
di non far entrare Hope. E so che per questo tu disapprovi il mio
comportamento
attuale. Ma fidati se ti dico che lo faccio per una buona ragione.
Più che
buona. E adesso, scusami, ma la strada la conosco da me. Torna a far la
segretaria”.
Jibrihel non rispose. Chiuse i pugni
e tornò alla sua
postazione senza rimbeccare. Kriss imboccò il corridoio con
sicurezza fino a
raggiungere la stanza in cui stava la cugina. Rimase
sull’uscio ad osservarla.
Si era messa a giocare a scacchi con un impiegato
dell’edificio e stava
vincendo. Alzò gli occhi dalla scacchiera, notando
l’arrivo del cugino. Scattò
in piedi con un sorriso ed andò ad abbracciarlo, con
entusiasmo.
“Che bello vederti qui!
Fatto buon viaggio?”.
“Viaggio splendido, grazie.
E spero anche la tua momentanea
permanenza qui…”.
“Insomma. Avrei preferito
risolvere prima la faccenda, ma
ora che ci sei tu andrà di sicuro meglio”.
Kriss le porse il braccio ed insieme
si avviarono lungo lo
stretto e luminosissimo corridoio che precedeva le scale.
“Scusa. Ma mio padre
è stato categorico: se vuoi salire lo
dovrai fare a piedi. Niente ascensore”.
“Non fa niente, cugino. Non
mi fermerà con così poco!”.
“Benissimo”.
Iniziarono a salire i diversi piani.
Le scale erano in marmo
chiaro e brillavano alla luce del Sole. Dalle immense finestre si
poteva
scorgere uno splendido panorama.
“Si deve vedere
l’alba e il tramonto in modo perfetto da
lassù in cima…” osservò Hope.
“Risparmia il
fiato…sai quanti piani sono? Ad ogni
modo…sì,
la vista è perfetta dalla cima”.
Ridacchiando i due entrarono nel
primo livello
dell’edificio. Con una piccola Luna sulla porta a vetro
smerigliato che lo
separava dal corridoio, era affollatissimo. Gli impiegati dei primi
piani erano
molto indaffarati e correvano continuamente su e giù
riponendo ed ordinando
documenti in vari armadietti tutti uguali, stesso colore e stessa
forma. Hope
si chiese come non facessero ad impazzire. I due cugini passarono in
mezzo a
loro. Le scale erano state costruite in modo tale da dover per forza
attraversare tutti i piani interamente. Kriss si disse dentro di
sé che chi
aveva pensato ad una cosa del genere era un cretino ma poi
realizzò che, probabilmente,
era stato suo padre e a quello piacevano le cose complicate.
Percorrendo scale
e stanze, corridoi e uffici, i due raggiunsero il secondo livello.
Lì la folla
era più rada e tutti erano leggermente più
tranquilli.
“Quanti livelli ci
sono?” domandò Hope.
“Nove. Mi
spiace…sono un po’ tanti. Dimmi se ti devi
fermare”.
“Dimmelo tu! Io sono
abituata a far movimento,
mollaccione!”.
Percorsero gli altri livelli in
silenzio. Per risparmiare
fiato principalmente, ma anche perché gli impiegati erano
sempre meno numerosi
e sempre più silenziosi. Nessuno di loro sembrava far caso
ai due cugini che
procedevano alla pari, l’uno accanto all’altro.
Ogni livello aveva qualcosa di
particolare che Hope riuscì a cogliere. Quello
più luminoso, con il Sole inciso
sulla porta d’accesso, era un luogo di studio. Tutti
leggevano e riportavano
degli appunti su dei quaderni rilegati. In quello con il simbolo di
Marte
sull’uscio, con i corridoi rossi, notò che erano
riposte delle valigette uguali
a quella che Michael aveva portato con sé. Non chiese cosa
contenessero ed
avanzò convinta.
Il padre di Kriss aveva il suo
ufficio nell’ultimo livello,
oltre il nono. L’ingresso al decimo era spettacolare. Era
grande, luminoso,
dorato e privo di simboli. Kriss spinse quella specie di portone ed
entrò per
primo. Controllò chi c’era all’interno e
poi fece entrare Hope, porgendole la
mano.
Il decimo livello era composto da una
sola, immensa, stanza
con grandi finestre su tutte le pareti. Ma il panorama non era
mozzafiato come
si aspettava Hope. Tutt’attorno si vedevano solo nuvole e
nebbia. Una distesa
bianca e soffice senza fine, con il Sole lontano che ancora si
scorgeva.
“Padre?”
chiamò Kriss, ma non ricevette risposta. “So che
ci
sei” incalzò, ancora senza risultato.
Sbuffò, guardandosi
attorno.
“Accomodati, Hope. Credo di
aver capito dove si trova” disse
poi, fissando una grossa poltrona rivolta verso una delle finestre.
Anche Hope
si girò verso quella direzione e una mano si
allungò dalla poltrona alla vicina
scrivania per afferrare un bicchiere di vino rosso. Portava un grosso
anello
dorato. Kriss lo chiamò un paio di volte ma non ne
richiamò l’attenzione. Ruotò
gli occhi al cielo e sedette in un’altra poltrona,
più bassa e meno imponente,
facendo cenno ad Hope di far lo stesso.
“Io sono qui per parlarti.
E non mi interessa se sei
arrabbiato perché ho portato Hope su con me. Adesso io e lei
ci sediamo qua e
finché non ci darai ascolto”.
L’unica risposta che
arrivò fu un lampo dal cielo. Hope
trasalì. Era sereno fino a pochi minuti fa…
Kriss era rilassato.
Sfogliò distrattamente una rivista di
gossip che stava sul tavolino accanto ai suoi piedi e, a gambe
incrociate,
cominciò a conversare con Hope del più e del meno.
“Che cosa hai fatto ai
capelli?”si sentirono interrompere.
La voce del padre di Kriss era molto
profonda e faceva
spavento, specie se, come in questo caso, si metteva a parlare di colpo.
“Non ti
piacciono?” domandò il figlio.
“Per niente”
rispose il padre “Sembri un ragazzino. E non lo
sei più da un bel po’, da quel che mi risulta.
Anche se, da certi tuoi
atteggiamenti, dubito che tu te ne renda conto”.
“Lo so di non essere
più un ragazzino. Infatti sono qui per
discutere con te su un argomento molto serio, se ti degni di girarti ed
ascoltarmi”.
“E Hope? Potevi benissimo
venire da solo”.
“L’idea
è stata di Hope e quindi è giusto che sia
qui”.
“Giusto per chi?”.
“Giusto per me!”.
Seguì il silenzio,
interrotto solo dalla risatina di Hope.
“Cos’hai da
ridere?” tuonò il padre.
“Sono felice, zio. Mi rendo
conto che non è tutto rosa e
fiori nella vostra famiglia come vi piace far credere. State tanto a
criticare
la mia, ma pare che anche qui…”.
“Fa silenzio! Il rapporto
fra me e mio figlio è molto
diverso fra quello che c’è fra te e mio
fratello”.
“Io non credo. E comunque
sono qui per porti un invito”.
“Lo so bene”.
“Certo. Tu sai sempre
tutto” commentò Hope, sarcastica.
“Papà…siamo
qui per dirti che vorremmo riunire tutta la
famiglia” parlò Kriss.
“Idea ambiziosa, figlio.
Buon pro ti faccia cercare di
inseguire simili castelli in aria”.
“Ma…noi lo
vogliamo per un buon motivo! Lo zio ha dei
problemi e…”.
“Mio fratello ha sempre
avuto dei problemi!”.
“Non mio padre! Ci stiamo
riferendo all’altro zio!” sbottò
Hope.
“Numero due?” si
incuriosì il padre di Kriss.
“Sì,
papà. Quello che tu chiami "numero due". Sta
molto male”.
“Da tanto non avevo sue
notizie. Ha scelto un’isola
piuttosto sperduta e mi impedisce di sapere più di tanto
quello che combina.
Sta proprio male?”.
“Sta morendo”
affermò Hope, rimanendo tranquilla.
“Impossibile! Lo saprei!
Perlomeno prima di voi!”.
“Umy mi ha chiamato in
cerca d’aiuto. Non sapeva a chi
rivolgersi”.
“E ha chiamato te, Hope?!
Su tante persone nel Mondo non
avrei di certo chiamato te in caso d’emergenza!”.
“Papà!”
esclamò Kriss, lievemente allarmato.
“Papà! Perché
dici questo?!”.
“Tu chiameresti Hantay se
stessi male?”.
“Se fossi solo e spaventato
e se tu stessi male, sì.
Chiamerei mio cugino Hantay. E sua sorella Hope. E anche il loro padre,
che ti
piaccia oppure no!”.
Il padre non disse altro. Hope non
commentò e Kriss, ormai
in piedi, andò ad appoggiare le mani sulla scrivania a cui
dava lo schienale la
poltrona su cui stava il suo genitore.
“Papà…io
e Hope siamo qui per chiederti se vieni con noi
sull’Isola di Kai per rimanere accanto a tuo fratello, padre
di Ocean e Umy,
per restargli accanto. Che stia morendo non è certo, ma
sicuramente sta molto
male. Senza contare che tutta la nostra famiglia ha dei problemi che
sarebbe
bene risolvere. Sarebbe una splendida occasione ritrovarci e
discuterne. E magari
risolvere”.
Il padre non rispose.
“Ti lasciamo riflettere
ora, papà. Ma gradirei molto
rivederti in Indonesia”.
“Hope…”
parlò il padre, dopo qualche secondo di silenzio.
“Dimmi zio”
mormorò lei, alzandosi ed avvicinandosi al
cugino.
“Hope, mia cara nipote,
raggiungi tuo padre a Roma”.
“Ci ho provato. Ma lui non
ha voluto ascoltarmi”.
“Ora ti
ascolterà”.
“Cosa te lo fa
pensare?”.
“Me lo fa pensare il fatto
che io sono onnisciente e sapevo
gia da un po’ che sareste venuti qui e tutto il
resto”.
“Ma…”.
“Non mi interrompere!
Fidati di me. So cosa impedisce a tuo
padre di usare la sua solita, forte, razionalità. Ma sta
tranquilla. Presto
andrà tutto a posto. Ho ancora alcuni dettagli da risolvere
ma vedrai che
all’Isola di Kai saremo tutti, tuo fratello Hantay
compreso”.
“Ma Hantay è in
Nepal! Non ho idea di come contattarlo!”.
“Dubiti di me? Ricordati
chi sono…” esclamò il padre di
Kriss, facendo girare la poltrona e guardando la nipote con un sorriso
sornione. Hope lo guardò a sua volta, leggermente turbata.
Aveva i grandi occhi
marroni di Kriss ad una lunga barba bianca. Tornò a girare
la poltrona e a
guardare fuori dalla finestra.
“Vieni con noi,
papà?”.
“Non ancora, Kriss. Ho
ancora delle cose da fare, te l’ho
detto”.
“Bene. Allora…ci
incontriamo là”.
“Sì”.
“Entro la fine del
secolo?” borbottò il figlio.
“Non rompermi
l’aureola, Krist! Non ti preoccupare!”.
Kriss sorrise, soddisfatto. Porse il
braccio ad Hope e fece
per uscire.
“Mandami Jibrihel, ragazzo
mio, e fate entrambi buon
viaggio. Fate attenzione”.
“Sì
papà”.
“Magari
padre…”.
“Va bene, padre!”.
I due cugini si allontanarono,
accompagnati dallo sguardo
del Padre che li fissò un po’ perplesso ma poi
tornò a rilassarsi in poltrona,
in attesa di Jibrihel. Hope e Kriss presero l’ascensore per
ridiscendere. Era
di vetro e dava sull’esterno. Molto suggestivo scendere
attraversando le
nuvole.
“Raggiungi tuo padre, Hope.
Ci rincontreremo in Indonesia al
più presto”.
“Certo. E speriamo che
davvero siano tutti presenti…”.
“Dubiti di ciò
che ti ha detto mio padre?”.
“Non lo so…io
dubito sempre di tutti”.
“Non
dovresti…fidarsi di qualcuno è una cosa
buona”.
“Io mi fido di
te!”.
“Grazie per la
fiducia…”
Rimasero in silenzio, mentre
l’ascensore scendeva.
“Hope…io mi
chiedevo…so che è una domanda un po’
delicata ma…come
stai? Intendo dire…dopo quello che è successo a
tua madre…”.
“Sto cercando di non
pensarci. Ad ogni modo…dei membri della
mia famiglia in senso stretto sono quella con meno problemi”.
“Ho saputo che tuo padre
incolpa mio padre…”.
“Già. E non sono
del tutto sicura con abbia torto”.
“Come?! Non dirai sul
serio?!”.
“Tu saresti pronto a
giurare che né tuo padre né nessuno dei
suoi sottoposti siano coinvolti?”.
Kriss chinò il capo.
“No” ammise “Hai ragione, Hope. La
nostra famiglia è una cosa spaventosa. Fratelli che
litigano, cugini che si
odiano, mogli e mariti…tutti contro tutti…ma, per
fortuna, io e te andiamo
d’accordo!”.
“Vero! Bisogna cercare di
vedere le cose positive. Certo che
è strano…tuo padre sapeva gia tutto e ci ha fatto
fare tutta questa fatica.
Poteva andare da solo all’Isola di Kai!”.
“Non credere sempre a tutto
quello che dice mio padre. Non è
che sa sempre tutto…”.
Seguì un altro silenzio,
in cui Hope sorrise e Kriss sembrò
più che sereno.
“Sai
una cosa, Kriss?
Stai meglio con i capelli tagliati così!”.
“Davvero? Fin ora mi han
detto tutti che son brutti”.
“E tu non ascoltarli!
Ascolta me che ti dico che son belli.
Ti stanno bene”.
“Anche i tuoi,
così raccolti, ti stanno bene”.
“Grazie. E grazie per
avermi permesso di entrare con te”.
“Ogni tanto qualche regola
va infranta”.
“Questa affermazione mai me
la sarei aspettata da uno come
te”.
“In che senso?”.
“Nel senso che è
sempre strano quando il grande figlio del
grande Numero Uno fa qualcosa di strano, al di fuori degli schemi.
Dovresti farlo
più spesso. È divertente”.
“Stai cercando di indurmi
in tentazione?”.
“Sto cercando di liberarti
dal male!” sorrise Hope.
“E quale sarebbe il mio
male?”.
“Sei depresso!”.
“Non è
vero!”.
“Sì invece. In
India eri molto più rilassato e felice. Me lo
ricordo. Ma, ultimamente, ti sei intristito. Ora non sorridi mai e sei
sempre
pensieroso. Rilassati un po’…ti farebbe
bene!”.
“Anche tu dovresti
rilassarti, mia cara!”.
“Farò il
possibile!”.
Si fissarono. Hope sorrideva ma Kriss
era serio.
“E dai, Kriss! Ridi ogni
tanto!” lo stuzzicò Hope,
toccandogli la pancia per fargli il solletico.
Kriss la fermò e le
mostrò la lingua.
L’ascensore si
fermò con un tintinnio e le porte si
aprirono. Erano arrivati al piano terra.
Si separarono. Kriss si ricompose con
un colpo di tosse e
avanzò lungo il corridoio. Incrociando Jibrihel gli
riferì l’ordine del padre e
ricevette un piccolo inchino di risposta. Hope si lasciò
alle spalle il bancone
d’ingresso con passo svelto.
“Aspetta, Hope!”
la fermò Kriss.
“Dimmi cugino”.
Kriss rimase in silenzio qualche
istante. “Fa buon viaggio”
disse, dopo un po’.
“Grazie” rispose
lei.
Si lanciarono un ultimo sguardo,
lungo e strano, prima di
separarsi definitivamente.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** X- sfida in mare ***
Isola di Kai, Indonesia
Ocean era giunto nel tardo pomeriggio
in quell’isola
sperduta fra le acque del mare. Non sapeva bene cosa aspettarsi. La
casa
sembrava deserta. Entrò nel salone dalle arcate e dalle
colonne attorcigliate e
cominciò a chiamare i membri della famiglia.
“Mamma? Umy?
Papà? Ci siete? Sono io, Ocean!”.
La sua voce riecheggiò
lungo le stanze senza risposta. Ocean
storse il naso e si avviò lungo le scale, verso la sua
stanza. Era chiusa a
chiave, ma lui ne aveva una copia e quindi la aprì senza
difficoltà. Respirò a
pieni polmoni il vento dell’oceano che entrava dalla finestra
aperta. Chiuse
gli occhi per un paio di secondi e sorrise: si sentiva a casa
circondato dalle
acque! Appoggiò sul letto verde smeraldo il suo zaino e
guardò giù. Dalla
finestra spalancata poté vedere la spiaggia e intravide
delle figure su di
essa. Urlò chiamando la sua famiglia e una di queste figure
si girò,
salutandolo con la mano. Soddisfatto, Ocean decise di raggiungere il
gruppo. Si
cambiò e scese correndo lungo le scale e poi sulla spiaggia.
Lì ad attenderlo
c’era sua sorella Umy, sorridente e bagnata d’acqua
salmastra. Sua madre si
trovava poco più in là, assorta nella lettura di
un romanzo giallo.
“Dov’è
papà?” domandò Ocean e le due donne
indicarono il
largo, le onde.
Ocean allungò il collo e
vide suo padre, lontano, fra i
cavalloni.
“Ah bene! Vedo che sta
meglio!” si rincuorò il giovane.
“Non è che sta
bene ma…non riuscivamo a tenerlo lontano dal
mare” rispose la madre, ignorando momentaneamente la sua
lettura.
“Papà!”
lo chiamò il figlio a gran voce.
“Andiamo” gli
propose la sorella ed entrò in acqua.
Ocean non se lo fece ripetere e
seguì la sorella. Il mare
era favoloso, caldo, calmo e pulito. L’ideale per una nuotata
e per divertirsi
un po’. Una bracciata dietro l’altra si ritrovarono
circondati solo
dall’azzurro e dai cavalloni. Facevano a gara a chi andava
più veloce. Ocean si
immerse ed osservò il fondale, disapprovando il fatto che
anche lì poteva
scorgere bottiglie in vetro abbandonate e altri rifiuti che non si
sarebbero
sciolti facilmente. Riemerse accanto a suo padre.
“Eccoti, papà.
Non ti stanchi e star qui, così lontano dalla
riva? Forse faresti meglio a riportarti più vicino alla
spiaggia…”.
“Sto bene, Ocean”
lo tranquillizzò il padre.
“Sei sicuro? Per quanto
bravo sia a nuotare, non posso
garantirti di riuscire a riportarti a galla se affondi. Riportati in un
punto
dove, almeno, tocchi con i piedi!”.
“Il mare non mi
ucciderà, figlio mio. Questo è sicuro”.
“Però mi
sentirei più sicuro se ti riavvicinassi alle
sponde…”.
Il padre, di tutta risposta, si
allontanò ulteriormente. Non
mosse le braccia o le gambe ma si fece condurre dalla corrente,
improvvisamente
forte, che travolse anche Ocean, spostandolo.
“Smettila,
papà!” protestò, cercando di non farsi
trascinare.
“Non avere paura”.
“Non ho paura. Ma voglio
che tu la smetta!”.
Il padre sbuffò e il mare
tornò calmo.
“Sei più noioso
di tua madre…”.
“Non dire fesserie. E
adesso, da bravo, torna verso riva!”.
Il padre non obbedì ma
guardò il figlio in modo beffardo.
“Costringimi. Sono sicuro
che non ci riesci…”.
“Non obbligarmi a farti del
male…smettila di fare il bambino
e seguimi!”.
Anche Umy aveva raggiunto suo padre e
ora lo guardava, dando
ragione al fratello.
“A quanto pare,
ultimamente, mi date tutti del bambino…”
ridacchiò il genitore.
“Forse perché
fai il bambino, papà!” esclamò Umy.
“Allora…bambini
miei…a quanto pare la vostra bislacca idea
di riunire la famiglia non è andata a buon fine! Siamo
soli…”.
“Veramente Kriss sta
giungendo qui e anche suo padre. Presto
ci raggiungerà anche Hope e, forse, il resto della sua
famiglia” affermò Ocean.
Il padre parve molto perplesso e
stupito davanti a quella
affermazione. Guardò entrambi i suoi figli con grandi occhi
luminosi e non
disse altro. Immerse parte del viso in acqua e rimase così,
fermo, per un po’.
Poi riemerse e sorrise a suo figlio.
“Facciamo una gara,
Ocean?”.
“Una gara?!
Papà, nelle tue condizioni?! Ti droghi?!”.
“Avanti…non fare
il bacchettone! Facciamo una gara. Usa
tutte le tue forze e cerca di battermi. Facciamo a chi arriva prima da
tua
madre…”.
“Facciamo che adesso, da
bravo, vieni a riva senza far
storie e sforzi…”.
“E dai! Potrebbero essere i
miei ultimi giorni! Non mi
permetti di divertirmi un pochino?”.
“No, se compromette la tua
salute”.
“In realtà hai
paura di perdere…”.
Ocean non rispose. Si
accigliò e storse il naso. Umy,
rimasta in silenzio, incitò il padre a tornare in casa con
lei ma il padre
partì, con uno scatto, e passò accanto al figlio
con aria di sfida.
“Scommetto che non mi
raggiungi, ragazzo mio!” urlò.
Ocean sospirò. Si chiese
perché gli anziani, a volte,
regrediscono a livello infantile. Eppure, si disse, i suoi due fratelli
gemelli
non fanno così. O forse sì? Poco convinto,
iniziò a nuotare dietro il padre.
“Muta, figlio mio! Non
avrai la pretesa di battermi
rimanendo con quella forma? Per chi mi hai preso? Avanti! Anche tu,
Umy!”.
I due fratelli si guardarono negli
occhi e si immersero,
iniziando a nuotare sempre più veloce. Ma non riuscirono a
raggiungere il
padre, che li attese seduto sulla spiaggia.
Ocean riemerse, nel suo vero aspetto,
dalle onde del mare
con il fiatone. Umy si stese sul bagnasciuga per riprendersi. I due
fratelli si
fissarono, perplessi.
“Tu…sei un
imbroglione! Non è vero che stai male!”
accusarono il padre, che si era seduto accanto alla moglie, con gli
occhi
semichiusi.
“E voi non siete ancora
pronti. Avanti, mio piccolo ramarro
verde, torna pure al tuo aspetto di copertura e vieni a sederti accanto
a me.
Ti devo parlare”.
Ocean respirò a fondo,
mentre la sua pelle perdeva il
colorito verde e le squame. La piccola pinna che gli cresceva sul dorso
rientrò, così come le membrane fra le dita dei
piedi e delle mani. I capelli,
che si erano tinti di azzurro e gonfiati, tornarono biondi e calmi. I
suoi
occhi, grandi e tondi, ridivennero normali, umani. Sedette accanto al
padre,
fissandolo in modo strano, con rimprovero.
“Non guardarmi
così. Io sto male davvero. Sto perdendo forza
gradatamente e tu ancora non sei in grado di prendere il mio
posto”.
Ocean non parlò.
Guardò sua sorella Umy uscire dall’acqua e
tornare la solita ragazza dalla pelle nera, invece che la sirena dalla
pelle
color oltremare che era prima.
“Figlio! Non
demoralizzarti!” ridacchiò il padre.
“Non mi demoralizzo. Non
pretendevo di battere il dio del
mare”.
“Bravo. E allora
cos’è quella faccia?”.
“Ma speravo di andarci
vicino…almeno ora che, a quanto pare,
sono prossimo a prendere il tuo posto. Ma i nostri poteri, a confronto,
non
sono paragonabili”.
“Sei giovane, Ocean. Non
crederai mica che io sia nato così?
E nemmeno i miei fratelli son nati con chissà che
capacità. Si va a tentativi.
Quello che è vero è che né tu
né tua sorella siete pronti a far il lavoro che
svolgo. Non ancora. Ma verrà il giorno. Il problema
è che quando giungerà quel
giorno.. io non ci sarò già da tempo”.
Ocean guardò il padre, con
i lunghi capelli bianchi mossi
dal vento, e gli andò vicino. Gli si sedette accanto e lo
sfiorò con la mano.
“Guarda, Ocean”
mormorò il padre, e sollevò una mano.
Solo in quel momento il figlio
notò che il padre stava
perdendo il suo stato corporeo. Stava divenendo trasparente,
un’ombra e nulla
di più.
“Ma…papà!
Perché solo a te? Perché i tuoi fratelli stanno
bene?”.
“Nessuno di noi sta bene,
piccolo mio. Ma ognuno reagisce a
modo suo. Sono finiti i tempi d’oro. Come tutte le cose,
anche noi abbiamo un’alba
ed un tramonto, un inizio ed una fine. Siamo tutti figli del Caos e del
Destino, ricordatelo. Le cose capitano e non si può per
questo incolpare
qualcuno, salvo eccezioni. Ma nel mio caso non ci sono eccezioni. Non
è colpa
di nessuno se, lentamente, mi sto consumando fino a
scomparire”.
“Questa è una
cosa molto triste…”.
“Triste o non triste
è la verità, Ocean. Ed è meglio per
voi
che iniziate ad accettarlo. È notevole il vostro impegno per
riunire la
famiglia, ma non credo possa servire a qualcosa. Certo, mi farebbe
piacere
rivedere tutti, ma certe cose sono irrisolvibili. Senza contare che
Numero Uno
e Numero Tre litigheranno di sicuro. È il loro mestiere. E
più che il controllo
delle acque mi preoccupa il fatto che, senza di me, nessuno
controllerà loro”.
“Ci sono io.
C’è Umy. C’è Hope. Su Hantay non farei più
di tanto affidamento…”.
“Non lo
so…è un’impresa piuttosto ardua essere
sempre il
giudice di pace fra quei due. È vero,
c’è Hope che è una brava ragazza in
fondo,
gran cosa dato che razza di padre si ritrova. Ma dubito che il suo
genitore sia
gestibile. Per non parlare di Numero Uno…”.
“Per lui
c’è Kriss…”.
“Oh, povero
Kriss!!!!”.
“Dai! Non essere
negativo!”.
“Non sono negativo. Dico
solo che, quando e se, li avrai
tutti qui, ti renderai conto di quanto siano ingestibili sotto certi
aspetti e
di quanta pazienza ci voglia”.
“Kriss ha
pazienza”.
“Certo. Ma Kriss
è pacifista. Non imporrebbe mai le sue
idee”.
“Le cose cambiano,
papà” sorrise Umy.
“Chissà.
Potrebbe essere. Chissà cosa ci riserba il futuro”.
“Per ora il futuro ti
riserba una bella dormita!” si
intromise la moglie.
“Anfy! Tesoro! Cerca di
essere comprensiva…non ho sonno! E
poi sto facendo un discorso ai nostri figli sullo stampo del "un giorno
tutto questo sarà tuo". Lasciami finire!”.
Anfitrite sorrise.
“Vi do altri dieci minuti.
Dopodiché vi voglio vedere tutti
in casa! Vi aspetto là!”.
Detto questo si alzò e
lasciò la spiaggia, andando verso la
dimora color verde acceso.
“Allora
papà…” iniziò Umy
“…alla fine ammetti di essere
contento se la famiglia sarà qui!”.
“Non ho detto di esserne
contento. Dico solo che, a questo
punto, è inevitabile. Ma chissà se effettivamente
ci saranno tutti. Numero Tre
è
così…scostante…”.
“In effetti è
quello che dà più problemi. Dopo Hantay che
è
in Tibet…” commentò Ocean.
“Nepal” lo
corresse Umy.
“Quello che è!
Comunque è in mezzo al nulla e non è facile
contattarlo. Ma Hope mi ha assicurato che ha trovato un accordo con
Numero Uno”.
“Ah se Numero Uno ci mette
lo zampino in un modo o
nell’altro avrete Hantay alla festa. Cadavere forse, ma ci
sarà” commentò il
padre.
“Come cadavere?! Ma che
dici?!”.
“Diciamo che Numero Uno ha
uno strano modo di ottenere le
cose..”.
“Speriamo di no, in questo
caso!” ridacchiò Ocean.
“Non
c’è niente da ridere!” lo
rimproverò il padre.
“Andrà tutto
bene! E adesso rilassati e alzati. Rientriamo
in casa, altrimenti mamma si arrabbia”.
“Oh sì,
rientriamo di corsa! Preferisco vedere Numero Uno e
Numero Tre picchiarsi fra loro piuttosto che mamma
arrabbiata!” commentò il
padre, alzandosi in fretta.
I due fratelli lo seguirono, ad una
certa distanza.
“Allora…è
vero che arrivano tutti?” furono le parole di Umy.
E Ocean annuì, anche se non molto convinto.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** XI- sangue ***
XI
Roma, Italia
Quante volte aveva mentito? Quante
volte alla domanda “Chi
sei veramente?” aveva risposto con una menzogna? Non lo
sapeva nemmeno lui.
Quante volte ancora sarebbe stato costretto a celare la
verità? Il padre di
Hope correva veloce con la macchina, ripensando alla sua ennesima
bugia.
Ripensava a quando aveva raccontato a Sonia del suo tatuaggio. Sulla
sua spalla
sinistra, era lo stesso che portava suo figlio e le sue figlie.
Distrattamente
si era fatto sfuggire che tutta la sua famiglia ne aveva uno uguale,
nello
stesso punto. E lei aveva domandato se per famiglia intendesse i suoi
fratelli.
Lui, distrattamente come con la prima rivelazione, aveva negato e
allora lei
aveva voluto sapere chi esattamente portava quel tatuaggio. Voleva
sapere della
sua famiglia e lui non aveva avuto il coraggio di dirle che aveva dei
figli e
così si era aggrappato ad un’altra bugia. Ma ora
lui era più che deciso a
smettere. Aveva ragione quel ragazzo che era entrato nella sua
macchina: se
l’amava davvero doveva dirle la verità. Ma lui
l’amava davvero? Non aveva
importanza. Qualcosa gli diceva di tornare di corsa in quella casa e
parlarle.
Di essere, per una volta, sincero. Parcheggiò il suo mezzo
in fretta e furia e
salì i quattro scalini d’ingresso.
Suonò il campanello, ma nessuno venne ad
aprire.
“Sonia!”
chiamò, allegramente “Sono io! Ti sei addormentata
di nuovo, pigrona?”.
Fece per bussare ma si accorse che la
porta era aperta. Si
stupì della cosa. Lui era sicuro di averla chiusa per bene
quando era andato
via. Che fosse tornata ad uscire? Per andare dove, alle sei di mattina?
Spinse
la porta ed entrò silenziosamente.
“Sonia?”
chiamò un paio di volte, stando attento ad ogni
rumore.
Andò verso la camera, a
piccoli passi vellutati, senza far
scricchiolare il pavimento in legno. Vide il braccio di lei sporgere
dal bordo
del letto. Evidentemente si era addormentata di nuovo.
“Sonia! Sveglia!”
esclamò lui, con un gran sorriso.
Ma poi si rabbuiò.
C’era un profumo familiare nell’aria.
Familiare, ma non molto rassicurante. Sangue! Entrò nella
camera con
convinzione e vide la ragazza riversa sul letto, con un coltello
piantato nel
petto. Gli occhi spalancati verso il cielo e la bocca aperta per un
ultimo
grido, era immobile con i capelli biondi ormai tinti di rosso rubino.
Lui si
avvicinò, sperando in qualche segno vitale, ma lo
notò subito che ormai da
quelle labbra blu non sarebbe più uscito alcun respiro.
“Se fossi in te, io
scapperei” si sentì dire.
Voltandosi vide un uomo moro e
massiccio sulla porta, che
stava richiudendo una valigetta nera.
“Fossi in te scapperei. Il
coltello che ho usato è quello
che hai maneggiato tu stamattina per preparare da mangiare meno di due
ore fa,
le tue impronte sono ovunque senza contare che ora le suole delle tue
scarpe
stanno lasciando un chiaro disegno sul parquet macchiato di sangue. Per
non
parlare del fatto che ci hai fatto sesso. Troverebbero subito tracce
organiche.
La polizia non avrebbe dubbi sul colpevole se venisse qui. E se ti
accusassero
di stupro, oltre che d’omicidio?”.
“Bastardo!”.
“Tutto qui?
Suvvia…so che puoi fare di meglio!”.
“Michael!”
sbraitò il padre di Hope e fece uno scatto verso
l’uomo “Mi hai incastrato, figlio di
puttana”.
“Non sono un figlio di
puttana e comunque io eseguo solo gli
ordini. Ti consiglio di sparire”.
Detto questo Mihael corse,
accompagnato dalle urla del padre
di Hope, che quasi scivolò sulla macchia scarlatta sul
pavimento. Michael aveva
ragione. Lo avrebbero trovato sicuramente colpevole. Chi altro se non
lui
avrebbe voluto la morte di quella ragazza? E le sue impronte erano
davvero
ovunque. Corse fuori, deciso come non mai ad acciuffare
l’assassino, ma questi
era gia lontano, in sella alla sua moto. Non si perse d’animo
e salì in
macchina.
Le scarpe macchiate di sangue, il
coltello, i testimoni che
lo avevano visto entrare ed uscire dalla casa…tutto era
contro di lui. Ormai il
Sole era sorto. Cosa fare?
Per prima cosa imboccò una
strada secondaria, sicuro che era
quella che aveva imboccato Michael. Accelerò a fondo. Se
dovevano arrestarlo
voleva che fosse per un servizio completo. Omicidio, stupro, furto,
dato che
lei gli aveva donato un gioiello ma nessuno gli avrebbe creduto, scasso
ed ora
un bell’incidente mortale. Meglio di così non
poteva chiedere. Accelerò
ulteriormente, intravedendo da lontano la moto di Michael.
“Fermati, fottuto schiavo
dell’Onnipotente!” urlò.
Era sicuro di sentire le sirene della
polizia e le grida di
paura di varie persone.
Michael entrò in un parco,
sfondandone il cancello.
L’inseguitore imprecò. Con la macchina era
impossibile seguirlo, il sentiero
era bloccato da due cunette in cemento. Lasciò la macchina
in diagonale, alla
bene e meglio, e corse dentro. Iniziò a correre, nella
penombra dell’alba, fra
gli alberi e le varie piante. Seguiva il sentiero di ghiaia che si
intravedeva
fra il verde e le panchine color rosso acceso, però aveva
perso di vista il suo
obbiettivo. Correva facendo scricchiolare i suoi passi sulle foglie
secche ed i
rami, mentre parte di loro rimaneva attaccato alle suole sporche ed
appiccicose
di sangue. Dov’era andato a finire l’individuo che
inseguiva? Un volo di corvi
accompagnò le sue grida di rabbia. Si mise le mani fra i
capelli, respirando a
fondo per calmarsi. Ma non ci riusciva. Le sirene della polizia si
facevano più
vicine.
“Mi hai incastrato! Mi hai
fottuto! Me l’hai portata via di
nuovo!” urlò al cielo “L’hai
portata via da me di nuovo!” ripeté ancora alle
nuvole.
In mezzo al parco c’era un
grande stagno, con due bellissimi
cigni che nuotavano fianco a fianco. Lui li guardò. Erano
splendidi, con quelle
ali candide. Avanzavano vicini. Erano una coppia e il padre di Hope li
guardò
con nostalgia e bruciante invidia. In lontananza un cigno nero stava su
una
piccola roccia, a capo chino. Lui e l’uomo si guardarono,
rispecchiandosi l’uno
con l’altro. Il padre di Hope si sentiva come quel cigno.
Aveva perso il suo
candore ed ora era da solo.
“Ma sei comunque
bellissimo” parlò una voce.
Lui trasalì. Chi era stato
a parlare? Il parco era deserto.
La polizia stava arrivando. Forse non poteva far altro che aspettarla
lì, in
mezzo al verde, e farsi rinchiudere. Non aveva niente da perdere.
“Cosa fai lì
impalato? Scappa! Corri! Non scontare la pena
per un crimine che non hai commesso!”.
Lui lanciò un grido:
“Basta! Chi sei? Un altro amichetto di
mio fratello? Fatti vedere!”.
E dall’acqua si intravide
un riflesso. Una donna bellissima.
Ma era solo un’ombra, un disegno su uno specchio
d’acqua. Aveva lunghi capelli
rossicci, come quelli di Hope, e splendidi occhi talmente luminosi che
non
avevano un colore ma erano di pura luce.
“Pistis”
mormorò lui.
“Sophia”
terminò lei “Chiamami per nome”.
“Ne abbiamo tanti di nomi
io e te. Uno o l’altro che
differenza fa?”.
“Tesoro mio…come
hai potuto credere che quella ragazzina
fossi io?”.
“Tu sei un’ombra.
Un essere di luce privo di corpo. Poco più
di morta. Ed io ho bisogno di corporalità. Sono alla ricerca
di una creatura in
grado di essere, anche solo in parte, quello che sei tu. Ma mi rendo
conto che
la cosa sia difficile”.
“La cosa è
impossibile. Io sono io. E nessun’altro. Tu ami
me”.
“E
nessun’altro” terminò lui, guardando
l’acqua.
Lei sorrise e i suoi capelli luminosi
si espansero lungo le
increspature del lago.
“Ti manco?”
domandò il riflesso.
“Ogni giorno. E manchi
anche ai tuoi figli”.
“Questo lo so. Ma loro non
mi ricercano altrove. Perché tu
lo fai?”.
“Perché no?
Nessuna potrà mai sostituirti”.
“E allora perché
ne hai avute tante di ragazze dopo quello
che mi è successo?”.
Lui non rispose.
“Sei arrabbiata con
me?” domandò dopo un po’.
“Come potrei? Io sono la
Sapienza, non mi arrabbio tanto
facilmente. Solo che cercavo di capire le tue ragioni”.
“Perché ora?
Perché mi appari ora e non prima, amor mio?”.
“Perché ora ti
sei perso. Ed io voglio guidarti. Non
lasciare che la natura muoia. Non lasciare che l’uomo abbia
il sopravvento. Segui
la voce della Speranza e va’ da lei. Non
c’è niente che tu ora possa fare per quella
ragazza. Ma puoi fare molto per altri, in primo luogo per te
stesso”.
“Come posso divenire
un’ombra, come te? Come posso divenire
un riflesso, un’immagine, un miraggio, come sei ora? Come
posso riabbracciarti
di nuovo?”.
“Non puoi. Solo chi mi ha
tolto il corpo può ridarmelo e
nessuno vuole che tu divenga un’ombra”.
“Io lo voglio”.
“Ciò che tu
vuoi, non ha importanza”.
“Quindi ora tu sparirai di
nuovo e non ti rivedrò più per
chissà quanto tempo?”.
“Questo è il
nostro destino”.
“Che schifo”.
“Non dubitare.
C’è di peggio”.
Lui si accoccolò accanto
all’acqua.
“Cosa credi che io possa
fare? Cosa credi che io debba
fare?”.
“Innanzitutto vedi di non
farti arrestare. In secondo luogo,
come ti ho gia detto, segui la Speranza. Segui Hope, nostra figlia.
Torna ad
essere quello che eri prima che ti perdessi”.
“Nessuno di noi
potrà mai essere come prima”.
“Provaci”.
“Come?”.
“Come solo tu sai fare, mio
amore dagli occhi azzurri. Come
tu facevi sempre”.
“Non ricordo più
come facevo sempre”.
Lui chiuse gli occhi. Una lacrima
scivolò sul suo viso e
cadde sulla superficie dell’acqua. Le onde che produsse
cancellarono
gradatamente il riflesso della donna. Lui la chiamò a gran
voce, ma ormai lei
era sparita. Non era più lì. Tuffò le
mani nell’acqua, come a cercare di afferrarla,
ma non c’erano nient’altro che fango e sassi fra le
sue mani, non i capelli
rossi di lei come sperava.
Le sirene della polizia si facevano
sempre più vicine ed
insistenti ma lui non si muoveva. Si era alzato di nuovo in piedi e
restava
immobile. Girò gli occhi. Tornò a guardare i
cigni. Quello nero era,
effettivamente, più bello dei due bianchi e attorno al capo
aveva dei riflessi
argento che lo facevano sembrare incoronato. L’uccello nero
scacciò i cigni
bianchi dalla sua strada con rabbia.
“Non importa se sei il
più bello, il più maestoso e il più
forte. Puoi anche essere il migliore degli Universi in molte cose ma
tutto
questo non conta niente se sei da solo” mormorò il
padre di Hope a mezza voce.
Il cigno parve capirlo, perché chinò il capo. Ma
spalancò le ali come a voler
dire:“Ma io vado avanti. Perché mai nessuno
potrà strapparmi le ali”.
“Bravo. Hai ragione. A te
nessuno impedisce di volare”.
Il cigno emise uno strano verso e
spiccò il volo. Il padre
di Hope lo guardò mentre si librava in aria. Era una
creatura meravigliosa.
“A te nessuno impedisce di
volare” mormorò di nuovo,
guardandolo mentre si allontanava.
“Credo che se fossi cigno
probabilmente sarei di color
argento, non nero come te…”.
Sorrise alla sua ombra, che si
intravedeva spezzata dalle
fronde degli alberi. Le sirene erano forti. La gente gridava. Indicava
la sua
macchina. Dava una sua descrizione precisa. Una folla indicava il parco
come
luogo in cui si nascondeva. Avevano tutti un elenco dettagliato di
ragioni che
lo avrebbero spinto ad uccidere la ragazza ed ognuno di loro, ora,
mostrava
tutti i suoi sospetti delineandolo come un individuo
dall’aspetto temibile.
Veniva descritto come un criminale. Non si sarebbe aspettato niente di
diverso.
Ora, agli occhi dell’adorata vecchietta che viveva
lì vicino e che lo aveva
sempre trattato come un gran bravo ragazzo, era un vero manigoldo con
gli occhi
troppo ravvicinati e pessime intenzioni. Ad un tratto tutti lo vedevano
per
quello che era davvero. Lui sospirò, sorridendo. I
poliziotti stavano entrando
nel parco, pistole alla mano per difendersi da
quell’individuo considerato
potenzialmente pericoloso.
Ed il padre di Hope sorrise con
più convinzione.
“Nemmeno a me nessuno
impedisce di volare” ghignò. Aprì le
ali e volò via.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** XII- Annapurna ***
XII
Da qualche parte sull’Annapurna, Nepal
Hantay aprì gli occhi.
Aveva momentaneamente interrotto la
sua meditazione. Leggermente accigliato, cominciò a rigirare
lo sguardo a
destra e a sinistra con fastidio. Non poteva credere alle sensazioni
che
provava. Costantemente in contatto con suo padre, stava percependo una
presenza
familiare al suo fianco. Una presenza che non doveva esserci!
Cercò di ignorare
la cosa ma non gli riusciva facile. Lasciò cadere le
braccia, inclinando il
busto e guardando in alto con un’evidente curvatura del
sopracciglio. Sbuffò.
Forse la meditazione non faceva per lui..
Si
passò le mani fra
i lunghissimi capelli neri e sorrise alle stelle. Fece qualche passo
con i
piedi nudi sulla neve e si allontanò dalla sua grotta.
Magari camminare un po’
gli avrebbe tolto certi pensieri, fra l’altro impossibili,
improbabili. Povero
papà…era stravolto e la sua mente malata gli
mostrava cose non vere. Hantay si
passò una mano sulla spalla sinistra, toccando quel
tatuaggio che aveva in
comune con tutte le sue sorelle ed il suo genitore.
Ridacchiò. Hope stava
chiamando tutta la famiglia…ma alle sorellastre non aveva
pensato. O
probabilmente ci aveva pensato, ma non le aveva cercate.
“Che grande famiglia
felice..”. Questo fu il suo commento
sarcastico.
Si accorse di avere i capelli
più lunghi della sua altezza e
quindi si trascinavano sulla neve, lasciando una lunga scia.
Arrivò fino in
cima ad una piccola escrescenza di roccia e vi si sedette sopra,
guardando il
cielo sereno e pieno di stelle. E la Luna? Non c’era quella
notte. O forse non
era ancora sorta. Canticchiò, già più
rilassato, e si accese l’ennesima
sigaretta. Chiuse gli occhi. Non voleva assolutamente meditare ma solo
rilassarsi. Rabbrividiva al contatto con la neve che cadeva a fiocchi
sulla sua
pelle nuda ma non per il freddo, bensì per il solletico. Ad
un tratto si sentì
chiamare. Pensò ad un’allucinazione
perché da quelle parti nessuno conosceva il
suo nome. O almeno così pensava fino ad ora. Ma,
evidentemente, non era così
perché si sentì chiamare ancora. E ancora.
E ancora.
Lui non rispose ma sentì
il suo nome ripetuto nella tormenta
ancora diverse volte.
“Hantay?!”.
Quale degli aguzzini di suo padre o
suo zio lo aveva trovato
lassù, in mezzo al nulla? Quale creatura veniva, in mezzo al
gelo, ad
infastidirlo? Che scocciatura…
Girò gli occhi, rimanendo
seduto e drizzando le orecchie.
Sentì un sommesso rantolio da poco lontano. Annusando
l’aria tentò di percepire
chi fosse a produrlo, ma non ci riuscì.
“Hantay!” si
perse nel vento.
“Chi sei?”
rispose, mentre l’eco ripeteva quelle parole
diverse volte.
“Dove sei?”.
“Non è
educazione rispondere ad una domanda con un’altra
domanda!”.
“Dove sei? Non ti vedo!
Puoi venire verso la mia voce?”.
“Arrangiati! Vieni tu da
me! Sei tu che mi cerchi…”.
Seguirono diversi minuti di silenzio,
in cui Hantay fumò con
tranquillità, appollaiato su uno spuntone di roccia che dava
su un dirupo
avvolto dalla nebbia.
“Sei un bastardo”
sibilò una voce alle sue spalle.
Girò la testa e vide chi
lo stava perseguitando.
“Jibrihel! Sei tu! Amico
mio…bastava dirlo”.
“Amico? Io e te non siamo
amici”.
“Ed io non sono un
bastardo. So chi sono i miei genitori. A
cosa devo la tua visita?”.
“Mi manda il mio capo. Tuo
zio. Devo dirti una cosa
importante”.
“Dilla se proprio devi. Ma
preferirei non ricevere ordini da
parenti vari”.
“Non sono ordini. Solo
notizie. Guardami negli occhi adesso.
E troviamo un posto tranquillo, se non ti dispiace.”.
“Mi dispiace. Io sto
benissimo qui. E poi…più tranquillo di
questo, che pretendi?”.
Jibrihel sorrise, beffardo.
“Sei proprio come tuo padre”
sogghignò.
“Questo non dovevi dirlo.
Andiamo. Forse nella grotta avrai
meno freddo, cherubino!”.
“Non sono un
cherubino!”.
“Giusto. Sei una
segretaria…”.
I due rientrarono nella grotta, solo
parzialmente al sicuro
dalla neve e dal freddo.
“Scusa tanto se non posso
offrirti latte e biscotti…”
commentò Hantay. Guardò il suo ospite un
po’ meglio e, notando quanto tremasse,
aggiunse “…e neppure una bottiglia di
Gin”.
“Tranquillo. Sono abituato
a non venire accolto in modo
normale”.
“Questo perché
non appari mai in modo normale. A
proposito…niente luci ed effetti speciali con me? Ti sei
stancato anche tu di
questi giochetti?”.
“Questi, come li chiami tu,
‘giochetti’, funzionano
solo se non conosci il trucco. Tu
conosci bene chi si cela dietro ad ogni apparizione perciò
che senso ha, per
me, consumare energie per un’apparizione in grande stile per
te? A che serve?”.
“Va bene, va
bene…non ti agitare!”.
“Non sono
agitato”.
“Come
vuoi…” esclamò Hantay, alzando le
spalle ed
intrecciandosi i capelli.
“Come mai sei in un posto
come questo? Insomma…tutti dicono
che non è nel tuo stile star qui a
meditare…insomma…non so se
capisci…”
parlottò Jibrihel, accoccolandosi in un angolo, soffiandosi
sulle mani per
scaldarle.
Hantay lo guardò male.
“Non sono
stupido” sbottò “So che vuoi dire! E so
anche che
tutti quanti credono di conoscermi ma in realtà non
è così. Io sono molto
diverso da come il Mondo pensa. E adesso dimmi quello che hai da dirmi
e
sparisci. Qui sto bene perché posso stare SOLO e in pace.
Sono venuto qui
proprio per schivare la gente come te, mio zio…e mio
padre!”.
“Questa è
bella…tuo padre?”.
“Sì.
Problemi?”.
“Tu hai problemi, non io!
Perché tuo padre? Sembrate così
uniti…”.
“Non equivocare,
portalettere! Non ho problemi con mio
padre. È solo che si aspetta determinate cose da me. Ed io,
sinceramente,
gradirei crearmi il mio futuro da solo e non avere già tutto
predefinito.
Vorrei seguire la strada che io da solo mi creo e non seguire un
sentiero già
tracciato”.
“Questo è
strano. Teoricamente tu, come Kriss, dovresti
prendere il posto di tuo padre…”.
“Dovrei. Ma non
è quello che voglio. Almeno…non è
quello che
desidero ora. E adesso parla e vattene, per favore. Hai visto? Son
stato
educato. Ho detto: per favore!”.
“Sono ammirato da
questo…”.
“Parla. Sei venuto a dirmi
che partorirò un figlio
nonostante la mia verginità? Guarda che sei arrivato
tardi…” ridacchiò Hantay
arrivando alla fine della sua treccia e facendo un piccolo nodo.
“Cose del genere non
capitano più”.
“Non ci sono più
le ragazze di una volta!”.
“Nemmeno i
ragazzi…”.
“Bene. Però ora
arriva al punto. Non sarai mica venuto fin
quassù per parlarmi di verginelle…”.
“No. L’argomento
si distanzia molto dalle vergini. Sono qui
per parlare di tua madre”.
“Bada a come parli, postino
volante!”.
“Non ho ancora detto
niente!”.
Hantay guardò Jibrihel con
sospetto, con gli occhi
leggermente screziati di rosso che però tornarono subito di
un azzurro omogeneo
e tranquillo.
“Carini i pantaloni che
porti, Jibry. È un cambiamento che
mi piace. E la camicia è un tocco di stile. Dì la
verità…hai lasciato perdere i
suggerimenti di Kriss nel campo della moda”.
“Non so a cosa ti
riferisci…”.
“Andiamo! Kriss si veste in
modo terrificante! Adesso poi si
è dato all’Emo e va in giro a righe orizzontali
che lo rendono somigliante ad
un grosso bruco nero e rosa! Per non parlare di quelle cose a
quadrettoni rossi
che fan sembrare grasso chiunque…”.
“Non mi ha mai dato
suggerimenti riguardo al mio modo di
vestire”.
“Menti! Quella tunica
informe con i sandali era un’idea
sua!”.
Jibrihel girò gli occhi al
cielo, cercando di fuorviare
dall’argomento.
“Sono italiani?”
domandò Hantay, giocherellando con un
grumetto di neve.
“Cosa?”.
“I bruchi neri e rosa!
SVEGLIA! I pantaloni, Jibry! Dove li
hai comprati? Da dove vengono?”.
“Non saprei. In effetti
potrebbero essere italiani. Ma non
credo. Al capo piace spendere poco. Avrà schiavizzato un
branco di cinesi!
Ma…adesso che ci penso…è
più facile che il capo convinca gli italiani! I cinesi
hanno altri punti di vista…perciò sì,
potrebbero essere italiani”.
“Bene!”
esclamò Hantay, sorridendo “Allora
chiederò a mio
padre di procurarmene un paio! Magari neri, non color nocciola come i
tuoi…”.
“Di questo anche vorrei
parlare”.
“Di cosa? Del
nocciola?”.
“No! Di tuo
padre!” sbottò Jibrihel, arrossandosi il volto.
Aveva infilato le mani nelle tasche
del cappotto imbottito,
dello stesso colore dei pantaloni, ed aveva alzato il cappuccio per
coprirsi i
capelli biondi. La sciarpa, arrotolata attorno al collo, pendeva da un
lato
toccando quasi la terra. Rabbrividiva. Faceva molto freddo e i guanti
non gli
impedivano di perdere sensibilità alle dita. Hantay
sorrideva, chiedendosi
quale misterioso animale era stato ucciso per creare gli stivali che
l’ospite
portava. Erano pelosi, molto pelosi, all’esterno come
all’interno, e bianchi
candidi.
“Sono finti. È
pelo sintetico” borbottò Jibrihel, come a
leggere nei suoi pensieri.
“Ma…hai tanto
freddo?” si stupì Hantay.
“Ovvio! Fa freddissimo qui!
Saranno almeno 40 gradi
sottozero! Non sono io quello con i problemi ma tu, che sei mezzo nudo
in mezzo
alle tempeste di ghiaccio!”.
“Ho altro in testa. Basta
non pensarci e il freddo non si
sente”.
“Sarà…”.
“Ad ogni
modo…cos’è che devi dirmi? Mia
madre…mio
padre…scegli tu con chi partire”.
Hantay, nel dire quelle parole,
sembrava con la mente
distante, persa chissà dove. Si era seduto a gambe
incrociate e guardava fuori,
nel buio della notte e della tempesta. Nel grigio della nebbia e delle
nuvole,
infranto dal bianco di neve e ghiaccio.
“Vorrei partire da tuo
padre, se non ti dispiace. Tua
sorella Hope era molto preoccupata per lui. E tu che sei sempre in
collegamento
mentale con lui capirai che c’è qualcosa che non
và. Ha perso il controllo. Ci
sarà qualcosa che lo tiene a freno nel fare
sciocchezze…”.
“C’era. Era mia
madre. Tanto tempo fa. Perché è passato
così
tanto tempo…”.
“Capisco…e non
c’è altro modo per farlo ragionare?”.
“Mmm…no! Ma a
che ti serve farlo ragionare?”.
“Non serve a me. Ma al mio
capo”.
“Allora in questo caso
poteva pensarci prima”.
“Non sarai mica anche tu
dell’idea che tutto ciò che è
accaduto a tua madre è colpa del mio capo?”.
Hantay non rispose, ma il suo sguardo
fece capire a Jibrihel
che era esattamente di quell’idea.
“Perché pensi
una cosa del genere?”.
“Perché il tuo
capo ha sempre qualche cosa a che fare con
tutto. Non dice forse di essere onnipotente, onnisciente,
onniognialtacosa
eccetera eccetera….?!”.
“Anche tuo padre dice
così”.
“Ma con meno
frequenza”.
“Se lo dici
tu…”.
“Che cosa hai da dirmi su
papà? Come ti ho detto all’inizio,
preferisco stare da solo”.
“Niente. So già,
ora, quello che mi serve. Piuttosto…vorrei
che tu mi dicessi che cosa sai esattamente sulla sorte di tua
madre”.
Hantay fermò ogni suo
movimento, dai giochetti con la neve
agli scricchiolii che produceva con le giunture delle dite della mani.
Jibrihel
fece un passo indietro, un po’ inquietato
dall’improvviso silenzio. Nemmeno il
vento fischiava all’interno della grotta. Silenzio totale.
“Che intendi
dire?” disse Hantay, con un tono di voce
leggermente più basso del solito, e senza guardare
l’altro occupante della
grotta.
“Intendo dire quello che ho
detto. Cosa ne sai esattamente
sulla sorte di tua madre?”.
“Non molto”
ammise Hantay. “So che è morta”
mormorò, girando
gli occhi verso Jibrihel.
Questi fece un altro passo indietro,
allarmato
dall’espressione leggermente malvagia dell’altro.
“Mmm…morta…incorporea…”.
“Che intendi
dire?” scattò Hantay.
“Niente…”.
“Come niente?”.
“Era questo che ti volevo
dire. Ma…devi promettermi di non
arrabbiarti!”.
“L’unica cosa che
ti posso promettere è quello di non
ucciderti. E non perché non abbia voglia di farlo”
ringhiò Hantay,
avvicinandosi con fare minaccioso a Jibrihel.
Lo spinse contro il muro e lo
guardò negli occhi, prima di
continuare.
“Ora tu mi dirai tutto,
fattorino. E spero che non ci siano
strane macchinazioni sotto tutto questo perché ho sofferto
già abbastanza per
la perdita di mia madre. Perciò non mentirmi. Ricorda di chi
sono figlio…”.
L’ultima frase era quasi
sibilata. Jibrihel deglutì
ripensando, fra se e se, “Ambasciator non porta pena un paio
di balle!”.
“Ok. Ti dico tutto. Ma
adesso siediti e stai calmo”.
“Non dirmi di stare calmo.
E parla”.
I due si guardarono negli occhi per
un po’. Poi Jibrihel, in
seguito ad un lungo sospiro, iniziò.
“Tu, Hantay, dentro di te
hai gia visto la verità. Tua madre
ha parlato con tuo padre. E non era il frutto della mente, ormai
malata, del
tuo genitore. Era la realtà. Tua madre non è
propriamente morta. Ma è una
storia complicata…”.
“Inizia dal principio. Se
non vuoi che ti scaraventi di
sotto. Sai quanto è alto l’Annapurna? Non ti
consiglio di volare con il culo
fino a valle!”.
“Va bene. Ricordati
però…che non è colpa mia!”.
“Colpa di qualcuno
è. Saprò con chi
prendermela…”.
“Spero non con me.
Comunque…io devo solo dirti questo: tua
madre non è morta. Ma non ha più un corpo fisico.
È un’ombra. Non un’anima.
Qualcosa di difficile da spiegare. Ma non è morta. Io dovevo
solo dirti
questo…”.
“Come può non
essere morta?” si arrabbiò Hantay, iniziando a
camminare nervosamente per la grotta, a pugni chiusi e ringhiando
sommessamente.
“Io…non conosco
i dettagli…il capo mi ha detto solo di
venire qui e dire questo: tua madre non è morta. Tuo padre
ti ha mentito.
Ora…posso andare?”.
Hantay scattò verso
Jibrihel e lo afferrò per la gola.
“Come sarebbe a dire devi
dirmi solo questo? Come puoi
venire fin qui per darmi un’informazione a metà?
Parla! Apri quella bocca!”
urlò.
“Io…io…non
so niente! Te lo giuro!” balbettò Jibrihel,
dimenandosi. “Non so niente! Niente di più! Mi
è stato solo detto che lei non è
morta. Credo che tuo padre possa saperne più di
me”.
“Mio padre?!”.
Hantay lasciò cadere la
sua preda e rilassò le braccia.
“Sì. Tuo
padre…”.
“Hai ragione. Lui parlava
con lei. Lui sapeva che non era
morta…” mormorò Hantay.
“Esatto…”.
“…e mi ha
mentito…”.
“Già”.
“…e me lo ha
tenuto nascosto…”.
“Così
pare”..
“…perché
ha fatto una cosa simile?”.
“Non te lo so
dire”.
“Perché ha detto
a me e ad Hope che era morta? A che
scopo?”.
“Nemmeno a questo so
rispondere. Che pensi di fare, ora che
sai la verità?”.
“Andarlo a prendere. E
mostrargli che anni di meditazione
non mi impediscono di incazzarmi come una bestia!”
ringhiò Hantay.
Detto questo si allontanò,
correndo a folle velocità,
balzando da una rupe all’altra con determinazione e furia.
Aveva gli occhi
completamenti rossi, segno della sua rabbia.
Jibrihel estrasse un piccolo telefono
dalla tasca.
“Missione
compiuta”sussurrò all’apparecchio e
qualcuno
dall’altra parte si complimentò, mentre Hantay
imprecava al vento chiedendo il
perché di ogni bugia.
Saltava, da una roccia
all’altra, come se fosse la cosa più
naturale del Mondo. Scendeva rapidamente, lungo le impervie discese dei
crepacci dell’Annapurna, urlando e ringhiando. Era furioso,
ed i suoi occhi non
accennavano a voler tornare azzurri.
Jibrihel sorrise. A quanto pare tutti
quegli anni passati in
completa meditazione non avevano in alcun modo intaccato il suo pessimo
carattere. Meglio così. Rabbrividendo, ed infilando le mani
in tasca, alzò la
testa e riprese il volo verso casa.
Alcuni monaci aprirono un solo
occhio, distratti da tutta la
confusione che si era sprigionata. Intravidero Hantay buttarsi fra i
venti ed
il ghiaccio, allontanandosi velocemente dalla loro vista. Alcuni di
loro
pensarono ad una sorta di segno del cielo, un messaggio dagli
Dèi o da qualche
altra entità superiore. Ne rimasero meravigliati e per un
bel po’ non fecero
altro che guardare il punto in cui il giovane era scomparso, con
ammirazione.
Altri pregarono più
profondamente, vedendo in quel giovane
un incitamento a credere più intensamente. Lui si gettava
fra le rocce senza
paura, aveva molta più fede. Fissarono lo stesso punto che
fissava il
precedente gruppo ma con devozione.
La maggior parte di loro vide, in
quel gesto insensato ed
immotivato, tutto il manifestarsi di uno scompenso mentale serio.
Richiusero
subito l’occhio che avevano aperto, ignorando il suicida.
In ogni caso erano tutti
più che certi che si fosse
sfracellato sulla prima sporgenza incrociata, fede o non fede,
divinità o non
divinità.
Invece Hantay continuava a scendere,
velocissimo, con sempre
maggior determinazione.
“Papà! Spero tu
abbia una spiegazione più che valida per
tutto questo perché, se non è così,
farò in modo di essere davvero orfano di
uno dei genitori! Con le mie mani!” gridava.
Nella sua mente sorgevano
innumerevoli dubbi. Primo fra
tutti era il pensiero che, forse, Hope sapeva qualcosa e lo aveva
lasciato
all’oscuro. E se era così allora la sua rabbia si
sarebbe sfogata anche sulla
sorella, nonostante tutto il bene che provasse nei suoi confronti. Se
era una
traditrice doveva pagare. Tutti dovevano pagare. Tutti dovevano capire
che non
si poteva prendere in giro una creatura come lui. Non era
più un bambino e non
aveva bisogno di essere protetto e circondato da inutili bugie per
evitargli
sofferenze. E se poi, alla fine, la causa di tutto si potesse
ricondurre allo
zio? Il solito zio che aveva lo zampino un po’ in ogni cosa,
senza mai
ammetterlo? Poteva essere così. Poteva non essere colpa di
suo padre, in fondo,
ma ad ogni modo non aveva alcun diritto di raccontargli balle in quel
modo.
Come se fosse un cucciolo. Un pulcino. Non lo era più da
tempo ed era stanco di
essere trattato come tal!. Non era quella cosetta preziosa che suo
padre
credeva! Non era il figlio perfetto che desiderava! Ed Hantay si chiese
di chi
fosse colpa.
Sempre correndo, passò
lungo diversi villaggi, urlando e
rimuginando su diverse cose. E tutti quelli che incrociò si
terrorizzarono. Era
spaventoso ed innaturale. Specie di notte, quando i suoi occhi color
del fuoco
illuminavano il buio più della Luna piena e delle stelle.
“Anche Shiva si
arrabbia…” mormorò un induista, con
apparente calma.
“Una creatura malvagia
è appena passata per qua” rispose un
buddista, senza scomporsi.
“Un’anima
tormentata…” commentò un animista,
tranquillo.
“Iblis!” e
“Satana! Il demonio corre fra noi!” urlarono,
isterici, cristiani ed islamici.
“Non
sono colui che
voi dite…” sibilò Hantay, passando
oltre a tutte quelle voci e grida, persone e
religioni, stati e regioni, continuando a correre. La sua voce, solo un
sussurro, e la sua lingua non erano comprensibili
“…sono suo figlio!”.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 13 *** XIII- Croci ***
XIII
Isola di Kai, Indonesia
Kriss arrivò, con un
piccolo zaino, nella dimora dei suoi
zii. Sospirò. C’era tanto silenzio e,
sinceramente, era piuttosto preoccupato.
Ripensava al fatto che suo padre gli aveva promesso che avrebbe risolto
tutto
ed i metodi del suo genitore lo spaventavano sempre.
“Kriss!” lo
chiamò Umy, dal piano superiore.
Corse giù per le scale, a
braccia aperte, per accogliere il
cugino.
“Benvenuto, Kriss! Che
bello vederti!” esclamò, dandogli un
bacio sulla guancia.
“Anche per me è
bello vederti, Umy. Com’è la
situazione?”.
“Abbastanza buona. Mio
padre oggi è tranquillo. E questo mi
riempie di gioia. Almeno non fa i capricci come sempre! Tu come
stai?”.
“Io? Io sto bene.
Dov’è Ocean?”.
“Dove vuoi che sia?! In
spiaggia! Vuoi raggiungerlo?”.
“Prima vorrei salutare i
padroni di casa”.
“Da questa parte,
allora”.
I due cugini salirono lungo le scale,
senza far rumore. Il
legno scricchiolava sotto i loro piedi.
“Chi è,
Umy?” urlò Anfitrite, da una delle camere.
“Kriss, mamma. È
arrivato Kriss!”.
“Ciao, zia”
salutò Kriss, pur non vedendola.
“Ciao, mio caro! Vieni!
Vieni qui!”.
Kriss ed Umy seguirono la voce ed
entrarono in una grande
camera, blu e verde. Lì stavano i genitori di lei, seduti
l’uno accanto
all’altro su un piccolo tavolo vicino al letto.
“Buon pomeriggio zia, buon
pomeriggio zio” salutò Kriss, con
un piccolo inchino.
“Vieni! Vieni qui! Fatti
vedere!” disse la madre, con
entusiasmo.
Lui uscì
dall’ombra dell’ingresso della stanza ed
avanzò
verso al luce, prodotta da una lampada azzurrina e a forma di
campanula. Le
tende erano tirate ed il Sole non entrava.
“Kriss! Come sei cambiato!
Che ti è successo?” esclamò il
padre di Umy.
“A cosa ti riferisci,
zio?”.
“Mi riferisco ai capelli,
ai vestiti, alla barba…a tutto!”.
“La barba la sto facendo
ricrescere. E per il resto…non
so…mi sento a mio agio così”.
“L’importante
è questo. Se uno sta bene così
com’è allora è
così che deve restare. Guarda mio figlio Ocean!
Và in giro con quelle
imbarazzanti camicie hawaiane e quei pantaloni a fiori che mi danno la
nausea,
ma se lui è felice di stare
così…”
“Ognuno i suoi
gusti”.
“Già…com’è
la situazione a casa, Kriss?”.
“Bene, zio. Più
o meno…”.
“C’è
sempre un più o meno nelle nostre famiglie”.
“Vero. Ma ormai dovremmo
averci fatto l’abitudine!”.
“Non so tu…ma io
no! Vorrei tanto che qualcuno di voi, prima
o poi, mi dicesse che va tutto bene senza aggiunte o
ripensamenti”.
“La vedo molto difficile.
Ma la speranza è l’ultima a
morire!”.
“Povera Hope”.
Il silenzio scese nella sala. Umy,
girando gli occhi a
destra e a sinistra con ansia, ruppe il silenzio.
“Suvvia! Non parliamo di
morte! Piuttosto, Kriss, sai quando
arrivano gli altri?”.
“Mio padre mi ha giurato di
esserci, appena risolte alcune
faccende. Hope dovrebbe essere a Roma dal padre e quindi immagino che
poi
verranno qui entrambi. Hantay…chi lo sa! Non ho modo di
sapere nulla da lui, ma
mi hanno assicurato il suo arrivo…”.
“Sei sempre stato
così fiducioso nel prossimo…anche quando
tutto sembra perduto…”.
“Non è tutto
perduto! Presto saremo tutti qui, accanto a te.
Pronti ad aiutarti”.
“Aiutarmi? In che
modo?”.
“Non lo so!
Perché credi che io debba saperlo?”.
“Sai sempre
tutto…”.
“Quello è mio
padre!”.
“Ok. Va bene…non
volevo farti arrabbiare”.
“Non mi hai fatto
arrabbiare…”.
“Giusto. Questo
è impossibile!”.
“Ok, adesso
basta!” si intromise Umy “Adesso piantatela! Tu,
Kriss, vieni con me. Ti mostro la tua stanza. E tu, papà,
sei stato molto
scortese, vergognati!”.
“Non è
necessario, Umy!” la fermò Kriss “Non
sono offeso!
Tranquilla! Non è stato scortese!”.
Il padre di Umy, di risposta,
mostrò la lingua e sorrise,
beffardo.
Kriss venne trascinato fuori dalla
stanza dalla cugina, che
si inchino in segno di scusa.
“Scusalo tanto, cugino mio.
È convinto che, visto che è
malato, gli è tutto dovuto!”.
“Ti ho gia detto che non
c’è problema! Ora potresti
mostrarmi la mia stanza? Sono piuttosto stanco. Sto viaggiando
continuamente da
un sacco di tempo…”.
“Certo! Per di
qua!”.
I due si avviarono lungo il
corridoio, a passo svelto.
“Ho preparato personalmente
le stanze. Una per una. Spero
che ti piaccia la tua!”.
Umy girò la chiave di una
porta in legno e fece entrare il
cugino. Era una camera piccola, semplice e molto luminosa. Dipinta a
colori
accesi, discordanti fra loro, provocava un certo smarrimento entrarci
di colpo.
Ma a Kriss piaceva. Sorrise, soddisfatto. Appoggiò lo zaino
al letto, rotondo
ed azzurro, morbido come una nuvola. Si guardò attorno e poi
si fermò.
“Qualcosa non
va?” domandò Umy.
“Cos’è
quello?” sibilò Kriss, indicando un crocifisso di
legno appeso alla parete.
“Credevo ti
piacesse…”.
“Toglilo
immediatamente!”.
“Ok, scusa!
Pensavo…non ti creasse problemi”.
“Mettiti una rete di pesca
in camera!”.
“Ho capito il concetto. Lo
tolgo subito. Scusa ancora”.
“No serve che ti scusi per
ogni cosa! Non sono arrabbiato!
Come ha detto tuo padre…è difficile che io
reagisca per ira. Ed ora porta via
quell’affare da me. Mettilo nella stanza di mio padre. Lui
è sadico. Apprezza
queste cose…”.
“Perfetto”
sorrise Umy, nascondendo il crocefisso dietro la
schiena. Detto questo lasciò la stanza, con
l’ennesimo piccolo inchino, per
lasciare a Kriss la possibilità di dormire.
Kriss, rimasto solo,
guardò fuori dalla finestra. In
lontananza, fra le onde, vide suo cugino Ocean e sorrise. Colto da
un’idea
improvvisa, cominciò a cercare nel suo zaino e ne estrasse
una piccola freccia.
Sghignazzando, e senza l’uso dell’arco, la
lanciò ed andò a colpire il cugino.
Ocean capì subito che solo
Kriss era in grado di fare una
cosa del genere e cominciò a chiamarlo per nome, in mezzo a
qualche velato
insulto.
“Evviva! È
arrivato quello stronzo di Kriss!” urlò, risalendo
le onde e andando verso casa.
Kriss nascose lo zaino, prima che il
cugino entrasse,
fingendo di non aver fatto nulla. Poi si alzò per chiudere a
chiave la porta ma
era troppo tardi. Ocean si fiondò nella camera e contro il
cugino,
scaraventandolo in terra. Rideva, completamente bagnato
d’acqua di mare.
“Levati! Ciccione
fradicio!” protestò Kriss, nettamente
più
piccolo e mingherlino del grosso e muscoloso Ocean, che gli stava sopra.
“Bastardo, figlio di
vergine! Credevi che non lo avrei
capito che sei stato tu a lanciarmi quella freccia? Solo tu sei in
grado di
fare una cosa simile!”.
“Era uno
scherzo!”.
“Ti sembro arrabbiato? Sto
ridendo!”.
“Va bene, però
togliti! Pesi un quintale!”.
Ocean si alzò, porgendo la
mano palmata al cugino ed
aiutandolo ad alzarsi.
“Cosa mi racconti,
Kriss?”.
“Niente di
ché…” mormorò di risposta,
sistemandosi i
capelli.
“Non fare il fighetto! E
raccontami qualcosa!”.
Ocean si era seduto, ancora bagnato
d’acqua di mare, al
centro del letto e fissava suo cugino, che a sua volta si guardava allo
specchio, sistemandosi.
“Non ho molto da
raccontati…tu, piuttosto…”.
“Calma piatta. Nessuna
novità” ammise Ocean, incrociando le
gambe. Kriss continuava insistentemente a fissargli i capelli,
così gonfi e
disordinati da irritarlo. Il cugino sbatté gli enormi occhi
verdi, dello stesso
colore del resto del corpo. Non era molto vestito. Aveva solo una
specie di
gonna rossa aperta ai lati. Kriss lo fissava, quasi con orrore.
“Non ti piaccio in
verde?” domandò Ocean, ridacchiando.
“Non mi piace che tu sia
seduto sul mio letto con le chiappe
bagnate!”.
“Ah, ok! Allora mi
distendo!”.
E così fece, allargando le
braccia ed agitandole, schizzando
in giro.
Kriss sospirò, scuotendo
il capo. Ocean non riusciva proprio
a fare il serio.
“E papà, quando
arriva?” domandò il giovane verde.
“Mio padre? Non ne ho idea.
Ma dovrebbe arrivare pesto.
Almeno così mi ha detto”.
“Ah, capisco. A me ha
chiamato Hope…”.
“Hope?”
rizzò le orecchie Kriss.
“Sì. Hope.
È anche mia cugina…perché ti stupisci
che mi
chiami?”.
“Non mi stupisco che ti
chiami!”.
“Ah…allora che
problema c’è?” sorrise Ocean, passandosi
le
mani dietro la testa e socchiudendo gli occhi, sempre restando disteso.
“Nessuno. Nessun
problema” borbottò Kriss, continuando a
guardarsi allo specchio.
“Bene, allora!”
rispose il cugino.
Poi i due restarono per un
po’ in silenzio. Ad un tratto
Ocean spalancò gli occhi.
“Aspetta! Ho
capito!” esclamò, alzandosi a sedere “Ti
piace
Hope!”.
“Non dire
fesserie!” sibilò Kriss.
“Non mentirmi! Guardami con
quei begli occhi color mogano!”.
Kriss non lo guardò.
“È mia
cugina…” si limitò a rispondere.
“Non è un
problema, mi pare, in questa famiglia. Mio padre è
sposato con sua sorella e anche i genitori di Hope eran fratelli.
Funziona così
fra noi!”.
“È
innaturale!”.
“Fai troppo il corporeo
mortale!” sbottò Ocean, alzandosi e
passandogli una mano attorno al collo.
“E
così…” iniziò a parlare
“…veramente ti piace Hope”.
“Pensavo lo avessi
capito…”.
“Ma sentirtelo dire di
persona è meglio!”.
Kriss sospirò, togliendo
con la mano il braccio del cugino
dal suo collo.
“Prometto di non dirglielo,
se non vuoi, Kriss!”.
“Le tue promesse non
valgono molto. Si sciolgono come sale
in acqua”.
“Prima o poi non si
scioglie più, però. Si satura”.
“Non voglio verificare se
sei saturo!” sibilò Kriss, convinto.
“Come
vuoi…allora glielo dico!”.
“NO!”
esclamò, spalancando gli occhi, il cugino.
“Non allarmarti! Sto
scherzando! Facciamo un patto. Io giuro
di non dirle niente! Diciamo che è un ringraziamento per
essere venuto qui per
mio padre”.
“Va
bene…” mormorò Kriss, poco convinto.
“Qua la mano.
Stringiamocela come veri uomini. Promessa
fatta, croce sul cuore!”.
I due cugini si strinsero la destra,
mentre Ocean celava la
sinistra dietro la schiena, incrociandone le dita. “Non fare
croci” si limitò a
dire Kriss, mentre al piano di sotto arrivava suo padre.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 14 *** XIV- Volo ***
XIV
Roma, Italia
Hope correva lungo le strade
di Roma. Le era stato detto che il padre aveva bisogno di
lei ma non
riusciva a trovarlo. Era passata per la grande casa il cui lui viveva
in Città
del Vaticano. Aveva attraversato la moltitudine di stanze, buie e piene
di
mobili antichi, che riempivano l’aria di odor
d’antico, profumo d’eternità.
Aveva chiamato il genitore lungo i corridoio sentendo di risposta solo
il suo
eco ripetuto. Eppure, constatò, non poteva essere molto
lontano perché tutte le
cose a cui teneva di più erano lì. Non sarebbe
mai andato da nessuna parte
senza molte delle cose di mamma che ora lei vedeva. Al cellulare,
ovviamente,
non le rispose. Lasciò l’edificio, stupita
poiché non c’era il giardino. Suo
padre sceglieva sempre case con ampi spazi verdi. L’ingresso
dava sulla strada.
Fece per attraversare, rassegnata perché non sapeva
più dove cercare, quando
una moto le tagliò la strada e quasi la investì.
“Guarda dove vai,
stronzo!” urlò, continuando a camminare.
“Povera piccola
Hope…” sentì il motociclista mormorare.
“Mi conosci?”.
“Certo. Povera piccola
Hope…hai cercato papà dappertutto,
vero? Case, locali, parchi, catacombe…eppure lui non
c’è! E tu ti senti
frustrata perché ti han detto che ha bisogno di
te…”.
“Se sai
dov’è dimmelo, se no chiudi la bocca e lasciami in
pace!”.
“Quanta rabbia in te,
giovane Speranza”.
“Giovane un paio di balle e
adesso sparisci, se non sai
aiutarmi”.
“Io non posso dirti dove si
trova esattamente ma posso
aiutarti…ricorda che devi guardare in alto”.
“Guardare in
alto?”.
“Tuo padre è
alla costante ricerca di un pezzo di cielo
perduto. Guarda in alto, bambina!”.
Detto questo la moto
ripartì, con un boato, a si allontanò.
Hope, tossendo per i fumi di scarico, storse il naso.
“Guarda in alto”?
In che senso? Fece ancora qualche passo,
con le mani nelle tasche del lungo cappotto nero, e poi alzò
lo sguardo. Non
vedeva altro che case, case e strade. E poi lo vide. E si rimise a
correre.
Quell’ombra lassù, in piedi su un ponte
sopraelevato, era sicuramente suo
padre. E guardava giù.
Sentiva il vento, contaminato
dall’inquinamento di Roma.
Nessun rumore naturale. Solo motori, clacson e sgommate. Sotto i suoi
piedi
solo cemento ed asfalto. Sopra di lui solo il grigio del fumo e delle
nuvole di
quella fredda mattina di fresca primavera. Avvolto in un Mondo
artificiale, il
padre di Hope rimaneva immobile, sul ciglio di un ponte rialzato,
guardando le
macchine che ci passavano sotto. Dietro di sé
avvertì lo spostamento d’aria
provocato da un grosso TIR che decisamente infrangeva i limiti di
velocità. Con
gli occhi screziati di un magnifico rosso, si accorgeva di quanto
indifferente
fosse la gente. Nessuno faceva caso al fatto che, se avesse voluto,
avrebbe
potuto lasciarsi cadere di sotto. Apparve una smorfia sul suo viso. I
capelli
neri, sciolti e mossi dal vento, avevano su di loro tutto
l’odore delle
sigarette che il loro proprietario fumava continuamente, assieme ad una
lieve
venatura di balsamo speziato. Si sentiva in mezzo al cielo. Il vento
gli
spingeva indietro la camicia, quasi del tutto aperta, e lo sorreggeva.
Teneva
le mani in tasca, con sguardo perso nel nulla, in cerca di un angolo
azzurro
fra le nuvole. Le macchine continuavano a passare e nessuno dei loro
occupanti
si preoccupò del fatto che, molto probabilmente,
c’era una persona in procinto
di buttarsi.
“Umani…come
siete diventati…” mormorò lui, restando
in piedi
per non si sa quale legge infranta di gravità e con
espressione di rimprovero.
Il vento iniziò a soffiare
più forte, fischiando fra i
pilastri di cemento. Lui socchiuse gli occhi. Un’ombra scura
lo fissava, da
sotto il ponte, levitando in aria in posizione orizzontale.
“Israfil…”
mormorò il padre di Hope.
“Ciao, Iblis” gli
rispose l’ombra, con voce profonda.
“La foglia
dell’albero cosmico con su scritto il mio nome è
finalmente caduta, angelo della morte? Sei venuto a
prendermi?”.
“Sai che questo non
è possibile, amico mio”.
“E allora perché
sei qui?”.
“Tua figlia, la mia
consorte, la Morte, è in apprensione ed
io sono venuto personalmente a vedere che cosa
combini…”.
“Torna a lavorare, angelo
nero. Io faccio ciò che voglio!”.
“Puoi fare ciò
che ti pare. Ma ti ricordo che, anche se ti
butti, non puoi morire!”.
“Questo è tutto
da vedere!”.
Spalancò
le braccia e
si inclinò in avanti. L’angelo lo fermò
con un dito, riportandolo in posizione
verticale. Poi scomparve.
Rimasto solo, colui che era stato
chiamato Iblis tornò a
sporgersi, pronto ad andare di sotto.
“Qualcosa non
và, signore?” sentì una voce alle sue
spalle.
Molto stupito, il padre di Hope
girò la testa leggermente.
Sbatté gli occhi con aria interrogativa.
“Tutto bene?” si
sentì domandare di nuovo.
Era un ragazzo, alto e magro, vestito
di chiaro al quale
Iblis non rispose.
“È tutto a
posto?” insistette il ragazzo.
“Certo!”
ridacchiò di risposta l’uomo, con tono sarcastico
“Ogni giorno io mi metto così sui ponti.
È il mio hobby. È divertente e non ho
niente di meglio da fare che contare gli automobilisti che guidano
parlando al
cellulare senza auricolare”.
“State
scherzando?”.
“No. Sono un ausiliario del
traffico. La creatura più
malvagia e diabolica della Terra”.
“Non dite fesserie. Non
vorrete mica buttarVi di sotto?!”.
“No. Sto qua a cantare,
come gli uccellini sui fili della
luce”.
“La smetta. E venga via di
lì”.
“Non darmi ordini,
ragazzino!”.
“Papà!”
urlò Hope, arrivando di corsa “Che
fai?!”.
“Guardo il panorama. Puoi
portarmi via questo scocciatore?”
borbottò il genitore, indicando il ragazzo che gli stava
accanto.
“Andres?” disse,
in tono interrogativo, Hope.
“Ciao, Hope”
salutò il ragazzo.
“Conosci questo
impiccione?”.
“È il mio vicino
di pianerottolo a Kilkenny”.
“Un irlandese?”.
“Non proprio,
signore” rispose Andres.
“Peccato. Mi piacciono gli
irlandesi…”.
“Non cambiare argomento e
vieni qui!” esclamò Hope,
sporgendosi leggermente dal battistrada.
Ma suo padre non si mosse.
“Non fare il bambino! Vieni
qui! Dammi una mano, Andres…”.
Andres le andò vicino, non
sapendo bene che cosa fare.
“Figlia
mia…” iniziò il padre
“…che tristezza! Gli umani
sono cambiati così tanto! Non sanno più la
differenza fra bene e male, fra
giusto e sbagliato. Conoscono solo l’indifferenza. A che
serve la Sapienza, la
Speranza, la Libertà, la Colpa.. ed a cosa serviamo tutti
quanti noi, fratelli,
se loro vivono per l’indifferenza? A cosa serve la mia
presenza e la tua,
bambina, per non parlare di tutti gli altri membri della famiglia, se
non hanno
altro che nebbia nel cervello questi esseri?”.
“Non parlare
così!” sussurrò Hope
“C’è uno di loro qui
accanto a me!”.
Il ragazzo non parve agitato sentendo
quelle parole.
“Sono privi di sentimenti e
di emozioni. Ma non perché ne
siano al di sopra, come déi, ma perché ne sono
privi, come i sassi! Ed io che
ho tanto faticato, assieme ai miei fratelli, a donare a questi cosi
qualcosa di
speciale…”.
“Papà,
piantala!” sibilò Hope, accigliata.
“Guardatemi!”
urlò suo padre, spalancando le braccia
“Guardatemi, esseri ingrati! Ho le mani grondanti di sangue
mortale e porto i
segni sulla pelle di tutti i vostri errori! Guardatemi! Guardate
l’aspetto che
mi ritrovo per la scelta della Sapienza!”.
“Papà!
Basta!”.
“Guardali, figlia mia!
Potrei aprire le ali qui, ora, e
nessuno ci farebbe caso. Potrei mostrare il mio aspetto più
terribile e nessuno
si fermerebbe a fissarmi, spaventato!”.
“Ok, ho capito il concetto.
Anche se non comprendo i
discorsi sulla Sapienza. E adesso vieni qui, smettila. Stai tranquillo
e
calmati”.
“Non voglio
calmarmi!”.
“Sei veramente fuori di
testa! Sei davvero impazzito come
dicono!”.
“Chi lo dice?!”.
“Che te ne frega?! Ma
muoviti da lì e stai zitto”.
“Non darmi
ordini!”.
“Ok. Stai pure
lì, se ti va! Ma chiudi la bocca…o,
perlomeno, abbassa la voce!”.
“Non è un
problema” affermò Andres, sorridendo.
“In che senso non
è un problema?” si stupì Hope.
“So chi sei. Più
o meno…”.
“In che senso?”.
“Ho visto il tuo tatuaggio.
Quello che porti sulla spalla
sinistra”.
“E con questo?”.
“Sono qui per un
motivo”.
“E quale sarebbe il
motivo?”.
“Non lo
so…”.
“Stupido umano, parla in
modo decente!” protestò il padre.
“Non saprei spiegarmi
meglio di così, signor L.”.
“Signor L?!”.
“Non le piace? Ho fatto
delle ricerche e so che non ha
propriamente un nome ma tanti diversi perciò, dato che
mister X mi pareva tanto
stupido, ho pensato di usare la prima lettera del nome con cui la mia
cultura
vi identifica…Lucifero. Signor L”.
“Carino”
ridacchio Hope.
“Stupido”
commentò, invece, suo padre.
“Ad ogni
modo…io, mi spiace, ma seguo te, Hope, già da un
po’. Questo in seguito ad uno strano sogno che ho fatto una
notte…”.
“Fammi
indovinare…un angelo?!” borbottò il
“Signor L.”.
“Sì, esatto! Ho
sognato un angelo. Un meraviglioso angelo
che mi ha detto che avrei incontrato Hope, spiegandomi chi fosse, e che
l’avrei
riconosciuta da un tatuaggio sulla spalla. Poi mi ha avvertito che
avrei dovuto
starle vicino. All’inizio pensavo che fosse solo un sogno e
non ci ho fatto
caso. Ma poi ho visto lei ed era come mi aveva detto
l’angelo: i capelli, il
tatuaggio, il nome e soprattutto…i suoi bellissimi
occhi!”.
Hope arrossì, stupendosi
della cosa.
“Grazie”
mormorò.
“Prego! È la
verità! Avete degli occhi bellissimi e ho
rivisto gli stessi occhi in voi, Signor L., ed ho subito capito
perché avrei
dovuto seguire Hope: per aiutarvi. Non so cosa stia succedendo, ma mi
piacerebbe poter fare ciò che l’angelo mi ha detto
di fare. Voglio aiutare”.
“Lo hai gia
fatto” sorrise Hope “Ti ringrazio, Andres. Gli
hai impedito di buttarsi giù”.
“Bravo”
ghignò, sarcastico, il padre “Adesso sparisci e
torna alla tua vita! E, comunque, non posso morire perciò
non sarebbe cambiato
nulla anche se mi fossi buttato!”.
“Avresti arrecato danni al
tuo corpo materiale. Per non
parlare del fatto che i mortali inconsapevoli ti avrebbero
visto…” iniziò Hope.
“E avrebbero chiamato
qualche strano programma televisivo in
modo da stabilire se sono un alieno. Già ce li
vedo…”.
“Non fare lo stupido,
papà! E ringrazia”.
“Perché
dovrei?”.
“Non serve che mi
ringrazi…” esclamò Andres.
“Di fatti non lo deve
fare” ringhiò qualcuno, alle spalle
dei tre.
“Hantay!”
esclamò il padre, balzando al sicuro, lontano dal
bordo del ponte.
“Esatto. Hantay. Il tuo
adorato, unico, figlio maschio. Al
quale hai nascoste un po’ troppe cose”.
“Che intendi
dire?” si stupì Hope.
“Mia cara
sorella…tu sei troppo buona e fiduciosa. E, sinceramente,
troppo stupida per capire”.
“Non parlare in questo modo
a tua sorella!” tuonò il padre,
sconcertato dalle frasi del figlio.
“Perché se no
cosa mi fai? Mi nascondi e dici a tutti che
sono morto?”.
“Non so a che cosa tu ti
stia riferendo, ragazzo mio, ma mi
auguro che questo tuo atteggiamento sia solo temporaneo, magari dettato
da
chissà quale accadimento…”.
“Credimi, non lo
è. E adesso buttati di sotto, prima che ti
ci scaraventi io!”.
“Ma che stai
dicendo?!” parlò Hope, con voce più che
meravigliata da quell’ordine.
“Fatti gli affari tuoi,
donna!”.
“Hai appena ordinato a mio
padre di gettarsi da un ponte!
Sono affari miei!”,
“Non è solo tuo
padre!”.
“Appunto! Come fai a
parlargli in questo modo?”.
Hantay aveva gli occhi completamenti
rossi, lucenti e con
pupille sottilissime. Oltre al colore avevano anche cambiato forma,
divenendo
simili a quelli di un gatto. Non sbatteva le palpebre ma guardava fisso
la
sorella. E sorrideva, con un ghigno malvagio ed inquietante. Ringhiava
sommessamente. Hope non si mostrò intimorita ma
ringhiò a sua volta. Il
fratello, stuzzicato, spalancò la bocca in una specie di
ruggito, mostrando una
riga di denti aguzzi e affilati. Il tutto senza che nessun autista di
passaggio
ci facesse caso o notasse nulla. Il padre rimaneva in disparte, a
braccia incrociate,
guardando i suoi gemelli, lei vestita in modo quasi normale e lui con
solo la
specie di gonna che aveva in Nepal. Ma di nemmeno questo nessuno dei
passanti
parve interessarsi o, in qualche modo, stupirsi. Andres, intimorito dal
ruggito, sobbalzò. Solo in quel momento Hantay si accorse
che quel ragazzo era
mortale. Ghignò, soddisfatto, e si passò la
lingua biforcuta sulle labbra.
“A che stai
pensando?” sibilò il padre, alzando un
sopracciglio.
“Che volete
fare?” chiese Andres, allarmato dall’eccessiva
vicinanza di Hantay.
Pur essendo un ragazzo parecchio
alto, risultava più basso
di chi aveva di fronte. Hantay era più alto del padre, che
comunque era sopra
la media.
“Che volete
fare?” ripeté, non ricevendo risposta.
“Vedi un po’
tu…” rispose l’altro, annusando e
toccando il
ragazzo.
“In che senso?”.
“Tu sei un umano. Un misero
ed inutile umano. Ed io…”.
Il padre rizzò le orecchie
e sciolse le braccia, chiamando
la figlia.
“Hope…”
parlò, mentre la figlia si girava a guardarlo,
allarmata.
“Io ho fame!”
sibilò Hantay, balzando verso Andres.
“…scappa!”
urlò il genitore, scattando e riuscendo ad
anteporsi fra figlio e mortale, afferrando quest’ultimo fra
le braccia e
buttandosi dal ponte.
Andres gridò. Hantay pure
e Hope sbuffò, sollevandosi da
terra per allontanarsi dal gemello furioso.
“Figlia mia! Ci vediamo in
Indonesia!” gridò il padre,
spalancando le ali e attraversando il sottopasso con
agilità.
Questa frase fece sorridere la
figlia, che atterrò e si
allontanò verso la casa in cui aveva lasciato la sua borsa e
le sue cose per
poter, poi, raggiungere la famiglia.
“Ti uccido! Torna qui,
maledetto bugiardo!” sbraitò Hantay,
spalancando enormi ali da pipistrello ed inseguendo il gruppo.
Il tutto senza che nessuno dei
mortali sulla strada notasse
qualcosa, tranne un bambino che però non venne creduto
quando raccontò cosa
aveva visto.
Andres era terrorizzato ma il suo
trasportatore lo
rassicurò. Non lo avrebbe lasciato andare.
“Non per offendere, Signor
L., ma credo che stia volando un
po’ troppo in alto!”.
“Non per essere sgarbato,
Andres, ma direi che ho parecchia
esperienza di volo. Ad ogni modo sono piuttosto in alto per uno scopo:
non
essere visto. Avvertimi se, per caso, non riesci più a
respirare. A voi umani
capita se siete troppo in alto”.
Andres si immobilizzò e
trattenne il fiato.
“Non tremare! Non ti
lascio!”.
“Perché non mi
lascia andare a casa?”.
“Non lo hai detto tu che
hai uno scopo? Che un angelo ti è
apparso? E allora vieni con noi, con me e la mia piccola Hope, e
cerchiamo di
capirci qualche cosa. Anche perché se hai sognato un angelo
di sicuro hai
qualche cosa a che fare con mio fratello”.
“Fratello?!”.
“Sì. Che mi deve
delle spiegazioni. Ecco perché lo sto
raggiungendo a Kai. Sei cristiano?”.
“Esatto. Si vede
tanto?”.
“No. Ma siete la
maggioranza…”.
“Le da fastidio che io lo
sia?”.
“No. Che me ne frega! Ad
ogni modo…”.
“Avete un
fratello?!” interruppe il giovane.
“Hai presente tutte le
storie su Dio, il Diavolo, il fatto
che lui ha creato tutto da solo eccetera?”.
Andres annuì.
“Bene. Sono tutte balle! E non solo dal punto
di vista scientifico”.
Andres non disse niente, non trovando
le parole.
“Capirai tutto, forse,
quando sarai in Indonesia. Puoi
sentirti onorato. Non credo che mai a nessun mortale sia stato permesso
di
sapere certe cose, ma dato che il mio caro fratellino ti ha mostrato un
angelo…immagino voglia vederti. La mia è solo
un’ipotesi. Potrei anche
sbagliarmi…”.
Hantay volava dietro al genitore,
velocissimo, urlando in
varie lingue, quando una luce fortissima lo fece fermare. Si
coprì il viso con
le mani finché non si abituò al bagliore e
riaprì gli occhi. Davanti a lui
stava un’angelo, una femmina, che lui trovò
splendida, con lunghi capelli
turchini ed occhi viola.
“Lasciali andare, Hantay.
Trattieni la tua rabbia per quando
sarete tutti in Indonesia” parlò.
Lui la trovò
così bella da non avere la forza di far altro
che obbedire, in silenzio, prendendola per mano per andare assieme
all’Isola di
Kai.
“Attento, Andres.
Reggiti” ridacchiò il “Signor
L”,
scendendo in picchiata.
Andres non poté far a meno
di urlare, vedendo il mare sotto
di sé avvicinarsi a folle velocità.
“Chiudi gli
occhi!” gli consiglio il trasportatore.
“Già
fatto!” gemette il trasportato.
“E adesso vediamo,
pivellino, se meriti di essere mio
figlio!” sibilò, con un ghigno compiaciuto, il
genitore mentre planava
vicinissimo all’oceano.
“Riapri gli occhi, Andres.
Te lo consiglio”.
Andres obbedì e rimase
ammirato. A destra ed a sinistra
c’era un’infinita distesa di mare blu.
“Apri le braccia. Fingi di
volare” si sentì suggerire.
Il ragazzo obbedì e
urlò di gioia. La brezza era piacevole,
Hantay non li inseguiva più e un gruppo di delfini li
stavano come scortando,
con grandi salti.
“Dove siamo, Signor
L?”.
“Sull’oceano
Atlantico. Non voglio passare sull’Africa ma sorvolare
l’America questa notte e arrivare alla meta da est”.
“Come mai, se mi
è lecito chiedere?”.
“Perché gli
americani son facili da far fessi e mio figlio
non ci può trovare oltre la coltre di inquinamento che ci
avvolgerà oltre
l’azzurro su cui voliamo ora”.
Il “Signor L”
ridacchiò, mentre invitava Andres a guardare
il tramonto e il ragazzo spalancò gli occhi pieno di
meraviglia e gioia. Pur
essendo in bilico, ed in braccio ad una creatura non molto
rassicurante, sopra
il mare aperto, non poteva far altro che provare sensazioni piacevoli.
“Bellissimo!”
esclamò, vedendo apparire le prime stelle.
“Grazie. Devo ammettere che
certe cose ci son venute bene”
fu la risposta, mentre con il buio gli occhi del trasportatore
iniziarono a
brillare in modo molto intenso.
Alcuni americano sotto di loro,
vedendoli, si convinsero di
aver visto delle stelle cadenti. Altri un U.F.O.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 15 *** XV- Riunione ***
XV
Indonesia, Isola di Kai.
Numero
Tre fissava
la porta, senza parlare. Al suo fianco, Andres era visibilmente
imbarazzato.
Congiungeva gli indici, lanciando rapide occhiate a colui che lo aveva
portato
in volo fino a lì. Il padre di Hope si accorse di quegli
sguardi e, riuscendo
ed intercettarne uno, rispose con un mezzo sorriso. Quel povero umano
mortale
doveva essere in preda al panico e, probabilmente, non capiva
qual’era il suo
scopo in tutto quella storia. Nemmeno Numero Tre lo capiva, ma doveva
far parte
del “gran disegno macchinoso” di suo fratello.
Doveva esserlo per forza, se lo
sentiva. Allungò la mano verso la porta, per bussare, ma si
fermò.
“Fallo
tu” mormorò.
“Come?”
balbettò
Andres, non avendo capito bene quello che gli era stato detto.
“Fallo
tu. Bussa”
ripeté il padre di Hope.
“Perché?”.
“Fallo
e basta!”.
Il
ragazzo obbedì e
colpì la porta in legno un paio di volte, con poca energia.
Questa si aprì,
dopo qualche momento, e dall’interno si intravidero un paio
di occhi verdi, che
si spalancarono vedendo chi aveva bussato e si affrettò a
far spazio ai due
nuovi arrivati. Entrambi titubarono sull’ingresso, prima di
fare un passo, dopo
un lungo sospiro, ed entrare.
“Ben
arrivato, zio”
salutò Umy, colei che aveva aperto la porta.
Lui non
rispose, per
nulla felice e convinto di ciò che stava facendo.
“E
questo ragazzo
chi è?” domandò la ragazza, indicando
Andres.
“Mi
chiamo Andres,
piacere” si presentò lui, stringendole la mano.
“È
uno delle pedine
di mio fratello e un amico di Hope” tagliò corto
Numero Tre “Lei è qui?”.
“Hope?
Sì, è appena
arrivata. Si sta sistemando in stanza”.
“E
mio figlio?”.
“Hantay
è sul tetto,
non so a far cosa. Da quando è arrivato non si è
mosso da lì”.
Il padre
di Hope
annuì. Era lieto che fossero effettivamente arrivati
entrambi. Lui, doveva
ammetterlo, aveva fatto un giro panoramico per ritardare il
più possibile
l’arrivo.
“Accomodatevi.
Toglietevi quei cappotti” invitò Umy, notando
che entrambi vestivano in modo da coprirsi dall’inverno che
non accennava ad
andarsene dall’Italia.
Numero
Uno, in piedi
nel salotto subito alla sinistra dell’ingresso, rimase serio.
“Vedo
che lo hai
portato” si limitò a dire, fissando Andres.
Il
fratello non gli
rispose. Una volta tolto il cappotto e la camicia nera, salì
le scale che, dritte
davanti alla porta, conducevano alle camere.
Andres
rimase lì,
immobile, senza sapere cosa fare o dire.
“Non
avere paura” lo
rassicurò Umy “Vieni, ti offro qualcosa da
bere”.
Il padre
di Hope
salì le scale, lentamente, e si incamminò lungo
il corridoio, fino a giungere
alla camera dove suo fratello, Numero Due, riposava. Era chiusa. Non
fece in
tempo a bussare che una voce all’interno lo chiamò.
“Fratello,
sei tu?”
si sentì chiedere “Ma si che sei tu, riconoscerei
la tua aurea ovunque! Entra”.
Numero
Tre entrò.
Nella penombra, Anfitrite sedeva accanto al letto dove il marito stava
steso.
Gli teneva la mano e si sorridevano. Stavano chiacchierando. Il padre
di Hope
provò una punta d’invidia per quei suoi due
fratelli che ora vedeva tanto uniti
ma poi si ricordò che Numero Due stava male, e lo si vedeva
chiaramente.
Bastava guardarlo in viso, per accorgersi di rughe e segni che fino a
non molto
tempo fa non aveva. Tolse gli occhiali da sole, mostrando che pure lui
qualche
ruga l’aveva, accompagnata da due occhiaie spaventose, e
salutò i padroni di
casa. Anfitrite si alzò, dandogli un breve abbraccio.
“Ciao,
sorellina” la
salutò lui.
Poi
incrociò le
braccia e sorrise al fratello.
“Cosa
mi combini?”
domandò, fingendo allegria.
“Io?
E tu? Mi son
giunte all’orecchio parecchie storielle divertenti sul tuo
conto, tipo che sei
impazzito o cose del genere”.
“Io
sono nato pazzo,
non te lo ricordi?”.
“Sinceramente,
no”.
I due
fratelli si
guardarono in silenzio, senza sapere esattamente come continuare la
conversazione.
“Vi
lascio da soli”
interruppe il silenzio Anfitrite, uscendo lentamente con un gran
frusciare di
vesti color del mare.
“E
così…” riprese Numero
Due, dopo un sospiro “…a quanto pare,
sarò io il primo a lasciarci le penne a
questo mondo”.
“Ma
che dici?!
Quelli come noi non muoiono” lo zittì il padre di
Hope.
“Sai
bene che non è
così”.
“Sei
solo debole.
Basterà capirne il motivo e porvi rimedio. Saremo ancora in
grado di fare
qualcosa noi fratelli, no? E con l’aiuto dei ragazzi vedrai
che andrà tutto a
posto”.
“Non
lo credi
davvero, neanche un po’. Lo capisco al volo quando
menti”.
“Va
bene. Vuoi la
sincerità? Eccoti la sincerità! Nei tuoi occhi
rivedo quelli di Sophia quando
mi ha lasciato, con alle spalle voialtri fratelli che stavate a braccia
incrociate a guardare. Ed è quello che succederà
pure a te. Ti spegnerai, con
tua moglie che ti stringe la mano e ti supplica di non lasciarla e noi
fermi,
senza far niente”.
“Tu
non mi
aiuteresti?”.
“Non
saprei come
fare. Non credere che io mi trovi tanto distante alla condizione in cui
sei tu
ora. L’unica differenza è che non ho nessuno che
mi obbliga a stare a letto e
si preoccupa per me”.
“Hope
è molto
preoccupata per te”.
“Hope
farebbe meglio
a pensare a se stessa. Vero che la Speranza è
l’ultima a morire, ma prima o poi
muore anche lei”.
“Dici
che siamo
tutti condannati?”.
“No.
Numero Uno sono
certo che troverà il modo di salvarsi il culo, come
l’ultima volta”.
“Ti
riferisci alla
faccenda di suo figlio Kriss?”.
“L’unico
mezzo
mortale della famiglia, figlio di un’umana, generato e
sacrificato più volte per
ridare forza e credo al padre, relegando l’ultima volta a me
il ruolo del capro
espiatorio di ogni disgrazia e ignorando te, come se i nostri ruoli di
Ade e
Poseidone per secoli non avesse contato nulla. Ora, con questo
monoteismo, lui
è il buono ed io il cattivo. Ma io e te siamo solo figure
marginali nel suo
grande disegno attuale. Forse è meglio
così…”.
“Sei
contento di
essere colui che viene incolpato di tutti i mali del mondo?!”.
“No.
Sono contento
che tutto questo finisca. Sinceramente, sono molto stanco. Vorrei
proprio
dormire un po’, ma quelli come noi non dormono”.
“Tu
potresti essere
molto potente. Gli umani hanno molto più a che fare con te
che non con Numero Uno,
mi sembra. Solo che non vuoi. Avete passato miliardi di anni a farvi la
guerra
e poi, ad un tratto, hai perso ogni entusiasmo ed interesse”.
“Da
quando mia
moglie se ne è andata, non ha avuto per me più
senso litigare per degli esseri
che qualsiasi cosa facessi continuavano, e continuano, ad interpretarmi
a
piacimento di Numero Uno”.
“Hai
abbandonato il
tuo ruolo”.
“Ti
sbagli. E ti
invidio”.
“Perché
sono
costretto a letto?!”.
“Perché
hai una
moglie che si prende cura di te e perché hai due figli
magnifici, li ho visti.
Non litigano mai, si vogliono bene”.
“Anche
i tuoi figli
si vogliono molto bene!”.
“Talmente
bene che
tentano di uccidersi”.
“Sai
che non lo
farebbero…”.
“Era
la loro madre
che li fermava. Io non ho voce in capitolo e loro mi odiano per la
faccenda di
Liberay, Noxia e Kareru”.
“Libertà,
Colpa e
Morte? Dove sono, a proposito?”.
“Non
lo so, ma
arriveranno presto. Noxia in particolare, non si allontana mai troppo
da me”.
“Tutti
i tuoi figli
sono meravigliosi, al pari dei miei. Ti basta pensare che è
stata di Hope
l’idea di riunire la famiglia. È speciale, come lo
sono tutti gli altri”.
“Però
nessuno di
loro, né dei miei né dei tuoi, è in
grado di prendere il nostro posto”.
Nella
camera calò il
silenzio. Era vero. Non erano ancora pronti ad
un’eventualità del genere.
“Ora
ti lascio
riposare” concluse Numero Tre, non sapendo che altro dire.
Si
allontanò e si
diresse verso la porta.
“È
stato bello
rivederti. Sono tanto felice che siate tutti qui” gli disse
Numero Due.
“Guarda
che anch’io
capisco quando menti!”.
“Sono
felice
davvero. Mi preoccupa solo l’eventualità che tu e
Numero Uno vi mettiate a
litigare”.
“Sai
che è
inevitabile”.
“Allora
vedete di
non fare troppa confusione”.
Numero
Tre uscì
dalla camera. Si chiedeva quali strane idee avesse Hope per la testa. A
che
scopo ci teneva tanto a riunirli tutti lì? Pensava davvero
di poter cambiare
l’inevitabile? La vita di esseri come loro era legata da
tempo a ciò che credevano
le creature che avevano creato e Numero Due era quello che si era
trovato più
svantaggiato, dopo la scomparsa di determinate religioni antiche. Il
padre di
Hope era talmente perso nei suoi pensieri che non si accorse nemmeno
che la sua
bambina lo stava chiamando. Passò accanto a Kriss, che
indietreggiò,
leggermente spaventato dallo zio. Kriss era sempre piuttosto
intimorito, anche
se il membro della famiglia con cui aveva più problemi era
Hantay. Con
quell’essere, così alto e così
inquietante, aveva sempre litigato e si
aspettava di vederselo davanti da un momento all’altro, con
il suo solito modo
di fare minaccioso e cattivo. Quando Anfitrite chiamò
l’intera compagnia in
sala da pranzo per mangiare, il suo primo pensiero fu che sarebbe stato
allo stesso
tavolo con la sua nemesi. Sospirò e scese le scale, seguendo
con gli occhi Hope
e la sua capigliatura rossa.
“Accomodatevi.
Il
pranzo è pronto” sorrise Umy, indicando il lungo
tavolo imbandito.
Già
sedute, una
accanto all’altra, stavano tre donne.
“Ciao,
papà”
salutarono, fissando Numero Tre. Erano le sue figliastre, creature che
lui
aveva generato da solo: Libertà, Colpa e Morte.
“A
quanto pare ci
siamo tutti..” sorrise Hope, leggermente infastidita dalla
presenza delle
sorelle “Possiamo incominciare”.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=3513779
|