Come non d'ecto

di CottonCandyGlob
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Come un nastro, io ***
Capitolo 2: *** Un talento di etichette ***
Capitolo 3: *** Risposta senza domanda ***
Capitolo 4: *** Rassegnàti ***
Capitolo 5: *** Il piccolo salto di tempo ***
Capitolo 6: *** Complice di qualcuno(forse nessuno) ***



Capitolo 1
*** Come un nastro, io ***


 Come un nastro, io

Può capitare, ogni tanto, quando si vuole uscire da una vita monotona, che si consideri ogni piccolezza come una piccola avventura. Non importa che lo sembri per tutti, basterà che lo sia per te, e potresti farne nascere anche una bella vanteria. Consumeresti discorsi su discorsi, gesti su gesti, sbattimenti di ciglia e ti abbandoneresti a raccontare dell'avvincente spesa al supermercato.

 "Con quale foga ho alzato quella padella scacciando la mia vicina con un colpo di gomito! Questo è stato crudele sì, ma era necessario per una buona causa, il dieci percento di sconto, e le uova saltate che torneranno nel mio piatto a colazione."
Sì, sì, ridi pure Avery, lo so che tempo fa io ero del medesimo stampo. Parlavo tanto per parlare, era il mio modo per farmi sentire parte di voi, e sono grato per tutte quelle volte che la vostra faccia è riuscita a ricomporsi prima di insultarmi.

Ecco, perdonami, parlo ancora al plurale. Nel mio cervello la tentazione di incitare una platea è irresistibile. Poi appena devo spiegare una mia osservazione a qualche estraneo, la lingua mi si secca e mi strozzo col mio stesso respiro.

Ora mi trovo nell'assurda circostanza di ritornare ad essere il me stesso di una volta, se due anni fa può già essere considerato storia. Forse, dopotutto, sento che tu sei davvero speciale.
Oh, dai, ti prego, non sentirti in imbarazzo. Pensa cosa sto provando io! In un secondo sono passato dal tono degli estranei a quelli del mio vero io! Compatiscimi!
Mi fa piacere che ridi di nuovo. Ridi della mia sfacciataggine, ridimi addosso. Se non mi farà nè caldo nè freddo, allora ho ragione. Hai qualcosa di magico che non avevo mai incontrato.
Giusto, giusto...perchè stavo parlando di questo? No, prima della mia confessione d'amore.
Ah, bene. Continuerò di lì: si prospetta una lunga notte, dici? Dato che me lo concedi, voglio tentare un racconto un po' più esteso. Insomma, mi interessa sapere di tuo padre e del salvataggio di quell'uomo, ma è davvero difficile che tu ti possa addormentare.
Sempre che io non mi metta a fare digressioni, e in quel caso meglio che mi autorizzi a darti dei pizzicotti per farti riprendere il filo. È giusto che, se anche tu hai intenzione di starmi vicino- più che da amico si intende- tu possa capire battute e riferimenti che nella mia vita futura torneranno senza esaurirsi a questa storia passata di qualche anno fa.
Trascorrendo di novità con alcuni amici, ho saputo che qualcuno era stato informato dello strano garbuglio in cui mi ero trovato appresso. E tutti lo raccontavano in modo sbagliato! Non sai che cattiverie su di me! Onde evitare che tu conosca versioni errate e possa vedere un lato oscuro della mia anima che è pressoché inesistente, mi sono messo di incredibile impegno ad ascoltare i miei compagni di avventura.
Dopo questo doloroso periodo, in cui la gente mi parlava dei suoi appena rivangati affanni, e peggio ancora dovevo stare in silenzio ad ascoltare senza poter proferire parola, sono quasi sicuro di essere l'unico sulla Terra, nel nostro universo e nel mondo dei vivi, ad aver impressa l'intera storia.
Restituisco un po' di voce a coloro ai quali ho coperto spesso e volentieri i discorsi.
Restituisco un po' di voce anche a coloro che non la possiedono da tempo, ma che, come imparato, tra i loro invisibili e inudibili discorsi, ci hanno conosciuto.
Già volati sei minuti per questa filastrocca. Sarà meglio che mi dia una mossa.
Poichè credo che il protagonista di una storia debba necessariamente avere qualcosa di anormale, di essere speciale, oppure essere dannatamente normale per far da anticonformista, ti parlo di una ragazza che non rispecchia nessuna delle tre categorie.
Esattamente come la gente che passa per strada, che non spicca particolarmente per nessun dettaglio, che può parer normale, eppure siamo comunque ignoranti di quello che è in realtà.
Paula Stuart poteva annuire sull'aver il privilegio di arrivare a casa ogni sera e trovarsi di fronte una famiglia più o meno unita, attorno alla tavola. Sua madre sempre sulla destra, ad incurvarsi per non tenere i gomiti sul tavolo, suo padre rigido con il suo tic nervoso che gli faceva chiudere e aprire l'occhio cristallino, e il fratello che grattava via il formaggio dalla pizza, perchè neanche a suon di mance quel tipo azzeccava un ordine.
Visto? Passa per strada e non la si ritiene così importante tanto quanto lei consideri tutto ciò.
Oddio, conoscendo la sua abitudine nello sfrecciare con le mani alzate dal manubrio, dubito che passerebbe inosservata. Ma si darebbe dato uno sguardo ai suoi capelli biondi incredibilmente mossi e scomposti, al suo rossore sulle guance eppure non ci avrebbero detto niente.
Neanche per lei dicevano nulla. Uniti alla sua faccia riflettevano nello specchio un’immagine che si sarebbe potuto trovare ovunque. In realtà quello che allora era Paula Stuart, era il blocco di marmo che molte persone furono a loro tempo: tutte a fremere lì in attesa che un barlume di novità e fortuna si posasse sui loro occhi chiusi. Ti puoi immaginare il povero orfanello che contempla il cielo stellato esprimendo un desiderio non appena una fa un guizzo.
La ragazza in questione era costantemente in preda a pensieri simili. Ma i guizzi erano quelli dei fanali che entravano dritti come lame nella vetrata del locale. A ciascuno di quegli uomini al volante era riservato un tavolo e un suo sorriso, e, se la padrona non era in giro, anche qualcosa gratis, visto che la ragazzina era così ingenua e stupida.
Altrimenti a grandi passi marciava dalla porta sul retro un donnone tutta impacchettata di rosa confetto sgualcito che sbraitava verso i clienti. La proprietaria. Tirava schiaffi sui tavoli e minacciava di raddoppiare il conto a tutti se non la piantavano di fare gli spilorci.
Paula avrebbe tanto voluto essere come lei. Ferma. Decisa. Fiera. Inflessibile.
Da anni cercava di assomigliare alla più cara delle amiche di sua madre, non che alla sua madrina. Una madrina non legale, ma comunque in grado di rimpiazzare degnamente la zia Claudia che se n’era andata da poco.
Minta dal canto suo proteggeva la figlioccia come avrebbe potuto fare tuo padre. Perché doveva essere la volta in cui si sarebbe sentita una madre. Sarebbe stato assurdo montar su una famiglia, lei con la carnagione scura quasi quanto una tavoletta di cioccolato amaro, e la piccola Paula, il più cadaverico dei corpi viventi.
Dunque era al Minta’s Diner che questa nostra eroina si rifugiava dal mattino alla sera, consumando raramente sia pranzo che cena al tavolo di casa sua. Del resto non aveva amiche a cui dedicare la giornata.
L’unica vera compagna di vita era stata una certa Nicole, che, per la solita fortuna, si era dovuta trasferire dopo una frequentazione di ben tre settimane.
I suoi genitori dici? Te ne parlerò andando avanti. Vedi sono importanti per la storia, ma adesso ho sete, e non posso interrompermi senza lasciarti un po' di curiosità.
Facendola breve, per quanto vedere tutti i giorni lo stesso locale, gli stessi tavoli, gli stessi bicchieri e (s)fortunatamente le stesse persone era capace di destare una noia nervosa in chiunque fosse sano di mente, uno dei motivi per cui era interessante rimanerci era un ragazzo. Frequentava spesso quel bancone, e non la smetteva mai di borbottare fra sé. Ma a differenza degli altri non la trattava come una cameriera. Le parlava sinceramente senza abbassare mai lo sguardo e senza mutare espressione annoiata. Ma le parlava. E capisco che fosse normale una certa attrazione: Paula stava assaggiando con la punta della lingua la sua vita futura. E Dirk ne faceva parte, eccome.





Ah, quello lì andò avanti tutta la notte con il suo sproloquio. Che ho trascritto in parte, sottolineo, solo perché non sapevo come iniziare. E adesso sono al punto di prima. Non so come non iniziare.
D’accordo. Vi dico due cosette. Io la storia la so meglio di quel presuntuoso, registro meglio di un computer, io. Posso riportarvi indietro a ciascuno dei momenti di questa avventura con uno schiocco di dita. Per cui riavvolgo il nastro di un poco e vi faccio cominciare da Paula che va in bicicletta.
Oh, seconda cosa. Cancellate le ultime righe che avete letto nel capitolo precedente. Se si è capaci di iniziare un racconto, bisogna essere sicuri di farlo bene, non di tirare in ballo questioni che confondono solo!
Eccolo qui. Il 23 marzo. Erano solo sei mesi che il Minta’s Diner aveva aperto, con grande scetticismo da parte della comunità. Sia mai che una “negra dei bassifondi ci cucini pezzi interiora animali in fricassea. In quella lavanderia più che rovinare i colori non faceva, perché non ci ritorna?”
Come il mio collega ha detto, Minta non pativa per nulla insulti o pettegolezzi. Mezza città avrebbe tramato di trovarsela piantata sulla soglia con un grosso mattarello in mano. E di questo timore lei se ne compiaceva.
La sua più accesa sostenitrice era proprio Paula, la sua figlioccia, la ragazza che sfrecciava quel giorno lungo le vie di Borderlake colpendo i pedali con due consumate scarpe da ginnastica bianche. Certo, erano state bianche, immacolate, qualche anno prima.
Come sempre evitava con la testa il viale di pioppi che sbatacchiavano i rami di qua e di là. Del resto si annoiavano tutto il giorno lì impalati a fissare gli uomini, con quella risorsa immensa, le gambe, scoperte, coperte, ma pur sempre in movimento. Per loro le ruote della bicicletta erano un altro sfizio.
Ma vuole mettersi il grembiule mentre pedala? Non è pericoloso?
Oh, meno male, ci è riuscita prima che il manubrio si pieghi.
-Ehi, Minta!
-Ehi, piccola, sei arrivata in tempo!
Paula scese dalla sella saltando, si tenne in piedi per miracolo, ma non si sa come spalancava un sorriso degno di una fotografia.
-Ho assolutamente bisogno di bere qualcosa, sono esausta.
-Che è successo, oggi?
-Il professore di ginnastica mi ha dato una punizione per aver saltato la giornata sportiva-rispose lei, col fiatone, appoggiando la bici al muro sul retro del locale.
-Vedesse quanto corri tutti i pomeriggi qui dentro avresti il massimo dei voti.
-Lo so...-si asciugò esausta la fronte imperlata di sudore.
La donna aprì la piccola porta che entrava nella cucina.
-Acqua? -le offrì, prendendo un bicchiere dal servizio della sera prima, che aveva appena lucidato.
-Mh...potrei avere una cola? Me la scali dalla paga di oggi.
-Vai a prenderti una cola, da brava, e non pensare ai soldi.
La ragazza ringraziò battendo due volte le mani, scivolando fra i ripiani fino alle porte. Uscì nel corridoio dietro il bancone con grande sorpresa dei due anziani che si erano appena seduti in cerchio ad un tavolo.
-Signor Jefferson? Il solito?
-Grazie, cara, mettimelo in conto.
-Grace non ti ha di nuovo lasciato prendere il portafoglio, vero?
-Voi donne avete proprio un sesto senso-sorrise l'uomo, seguendo i veloci movimenti della giovane cameriera.
Paula arrossì di imbarazzo, perchè "donna" non era proprio il suo appellativo migliore.
Poteva succedere che la chiamassero così, solo perché entrambi avevano delle nipoti di statura non poi così promettente, ma secondo lei il suo cervello era più infantile di una bimba di sei anni.
-Ecco qui.
-Non lo dirai a mia moglie, vero? Resterà fra noi?
-Certo, ma questo sarà il suo unico bicchiere del giorno, vero?
-Nah-grugnì l’uomo allungando il braccio verso la bottiglia.
- Sua moglie vuole solo stare attenta alla sua salute.
-Mi dici come potrei protestare se a dirmelo è una fanciulla così carina?
Rieccoci. Facevano proprio a gara per darle appellativi che non le andavano affatto bene, o almeno, lei li percepiva così. Sta di fatto che non si era mai sentita fare dei complimenti tanto gratuiti in tutta la sua vita. Il signor Jefferson, il signor Doyle e poi Charles e Wimby, che quel giorno mancarono all’appuntamento quotidiano, erano le persone forse più vicine ad un amico che Paula potesse mai desiderare. E al diavolo se lo facevano solo per spillarle qualche goccia in più d’alcool! Le sue amichette dell’asilo erano poi della stessa pasta quando la accompagnavano a prendere gelato gratis dal furgone dello zio! Eppure per qualche misero secondo erano tutti costretti a condividere del tempo con lei, a parlarci, a volerle a tutti i costi starle accanto. Questo pensiero non scompariva mai dalla sua mente, e Paula se lo sarebbe ricordato per molto tempo. Ma se prima era gelato, ora era alcool, dopo cosa sarebbe stato? Era l’unico punto che aveva paura di chiarire. Fino dove era disposta a guardare per avere un po’ di compagnia.
Intanto mentre la paziente ragazza metteva in cassa il conto di un uomo che arrivava da fuori città, distaccato e soprattutto indeciso sul menu, le doppie porte del bar si spalancarono di botto, facendo sobbalzare i due anziani, persi in una sonnolenta discussione sui cuscini.
-Ehi!-disse un ragazzo, puntandole il dito contro-le birre per me e i miei amici!
-Quattro birre, Tyler?
-Ma ci vedi? In quanti siamo noi?
-In quattro, Tyler.
Il ragazzo si voltò imbarazzato a guardare il gruppo di amici. Componevano un mucchio ben assortito di giubbini neri e pantaloni di un jeans volutamente logori. Era impressionante come si somigliassero fraternamente l’uno con l’altro, come tre versioni dello stesso clone.
-Ah-disse titubante-Dirk si deve essere perso.
-Quindi quattro?
-Ehm...credo di sì-commentò il ragazzo senza scomporsi.
-Sedetevi, ve le porto.
Non che per quel gruppetto servisse la cortesia in pompa magna, ma almeno erano lontani dal bancone e poteva averli accanto solo quando li serviva. Sapete, non erano esattamente il tipo di ragazzi con cui si vorrebbe aver a che fare, o almeno, questo era un pensiero della cameriera, non certo di quelle ragazze con la bava tra le labbra che inondavano i corridoi a scuola.
Dirk sbattè le porte qualche minuto dopo.
-Ciao, piccola-la guardò di sfuggita.
La ragazza annuì di risposta. Fu difficile non dare a vedere come il sangue le ribolliva appena quel tipo le rivolgeva la parola. Avevo quel viso da bravo ragazzo accompagnato dall'atteggiamento più rude del gruppo.
-Oh, Dirk, non perdere tempo con quella lì. È tutta casa e chiesa, lo sai.
-Cosa vuoi, tu, Dirk?-azzardò lei da lontano.
-Vedi? Tutta casa e chiesa. Dovresti saper cosa vorremmo tutti noi, tesoro!
-Maiali-tossì lei, versando della menta nella gazzosa, con cui era sicura di non sbagliare.
-E tu, cosa vuoi?-sbottò Tyler, prendendole i fianchi.
Lei si ritrasse spingendolo indietro.
-Io lo so cosa vuoi...
Paula continuò a servire tutti senza farci caso. Aveva voglia di tirargli un pugno per quegli ultimi giorni  in cui la umiliava mentre faticava a fare il suo lavoro. Facciamo pure per quei tre anni in cui si era trasferito lì. Oppure solo perchè aveva avuto la brillante idea di venire al mondo.
-Tu vuoi dei soldi...
Una frecciata la colpì al cuore: "Questi ricconi nuotano nei soldi e non fanno altro che pensare a quello. Beh, oltre alle altre cose, ovvio".
-Vuoi la grana, vero, Stuart?
-Mi farebbe piacere-disse lei, disinteressata-a differenza vostra io non potrei mai usare i dollari come carta igienica.
-Non fingere che non li vuoi. A tuo padre hanno sfrattato bottega, e questo spiega il fatto che da due settimane qui ci vieni tutti i giorni.
Lei incrociò gli occhi sbuffando. Ma in effetti questo spiegava perché Minta le avesse aumentato le ore. Conosceva suo padre, testardo e orgoglioso, non ammetteva mai un errore da parte sua. E non avrebbe mai chiesto dei soldi a quell’amica stramba del locale. Se aveva bisogno per il suo portafoglio, magari trovava un po’ di compassione da parte della sua bambina.
-Possiamo fare uno scambio. Tu mi devi fare un favore, e io ti ricompenso in modo giusto.
Minta fece due passi dietro il bancone, aspettando di intervenire. Frugava già di nascosto con la mano per impugnare un oggetto contundente per ogni evenienza.
-Mi fai schifo, davvero.
-Ehi, ehi, niente di sporco, se è quello che pensi.
-E in cosa consiste il "favore"?
Tyler sorrise, come un pescatore appena la preda abbocca all'amo.
-Tra due giorni un mio amico viene qui in città e io puntualmente devo fargli una sorpresa. Avevamo scommesso che fino a che non ci fossimo visti di nuovo, avrei rimorchiato una ragazza.
-E fra tutte quelle meravigliose e dolci fanciulle che girano nella nostra scuola, a cosa devo tanto onore?-ringhiò lei, voltandosi.
-Beh, come ho detto, tu sei la ragazza meno socievole della scuola. Intendo, non hai amici a parte quattro gatti qui in questo postaccio, sei riservata, non parli quasi con nessuno...e questo lo sanno tutti. Sei una ragazza impossibile: questo è quello che lui ha chiesto quando abbiamo scommesso.
Qualcosa la convinceva ad accettare. Non che le interessassero i soldi, ma suo padre se fosse stato lì avrebbe accettato. In più Dirk annuiva compiaciuto fissandola direttamente negli occhi. Perché diamine la scommessa non era toccata a lui?
-Perciò devo fingere di essere la tua fidanzata?
-Hai capito bene. E la ricompensa sarà da cinque.
-Cinque? Cinque dollari? Guarda che non sono una morta di fame!
-Cinque dollari? Vorrai dire cinquecento dollari.
-Oh-deglutì di colpo.
La proprietaria del locale vide la sua figlioccia stringere la mano a quel ragazzaccio, tra le risate compiaciute degli altri. Posò il mestolo di metallo e mise a posto le maniche già rimboccate. Che odio, che odio quei tipi. E non era odio vero, perché secondo lei il suo vero odio dipendeva dalle azioni di ciascuno. Ma verso quei ragazzi c’era pura e semplice antipatia, perché esistevano, perché erano loro, e in quanto loro erano intollerabili. Scordatevi i bulletti della scuola sempre in giro a rimorchiar ragazze. Quelli erano tutti figli di papà, gente ricca, che passa il tempo a bighellonare, fingendo una ribellione interiore. Forse erano peggio dei veri bulli. Minta probabilmente si sentiva più una bulla, ecco tutto. Ecco, perché non tollerare quelle facce smorte di gente che si sente incredibilmente superiore perché sfoga finto malessere sociale.
-Domani era il tuo giorno libero, no?
Paula alzò le spalle e seguì con gli occhi i cinque ragazzi uscire.
-Si sta approfittando di te, stai attenta.
-Ovvio che se ne sta approfittando. Io faccio lo stesso. Mi ha già dato metà dei soldi, sono già soddisfatta così-disse, credendo che le fosse già apparso il simbolo dei dollari al posto delle pupille.
La donna le passò una mano umida di detersivo su una guancia.
-Cenerentola è una favola, Paula. Non esiste che una ragazza normale sposi il bel principe azzurro. Mah, chi sono io per commentare il destino. Magari quel Dirk un giorno ti farà la proposta.
La ragazza provò a sorridere, col cuore che batteva.
Era solo per ingannare un altro di quegli stupidi ragazzi ricchi. Tutti snob, maleducati e viziati. Si sarebbe divertita. Dirk magari l'avrebbe difesa. Magari uno dei ragazzi cattivi sarebbe diventato buono per lei.
 La piccola domestica, il principe azzurro, la matrigna e la madrina: in effetti bastava soltanto ancora che una zucca piovesse dal cielo.

Angoletto Autrice
A quanto pare proprio non riesco a scollarmi da questa sezione, perché dopo aver rivisto alcuni vecchi episodi e lungometraggi, mi è spuntata fuori questa pazza idea del prequel. Insomma, esistono sparsi qua e là alcuni riferimenti ai genitori di Shaggy, e parlo sia di facce che di nomi.
Quindi ho riciclato un po’ di tutto per scrivere qualcosa di perlomeno plausibile  che non segue una versione presentata in una precisa serie o film, ma letteralmente un miscuglio di idee diverse che avevano già a loro tempo avuto i creatori di questo cartone animato, che io amerò sempre. Vorrei omaggiarlo così nel mio piccolo.
Spero il capitolo vi sia piaciuto, e se è così, vi prego fatemelo sapere con un commentino. Come tutti i lettori di Scooby Doo, la ricompensa è uno Scooby Snack!
CCB

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Capitolo 2
*** Un talento di etichette ***


Un talento di etichette
-C’è uno spiffero…possibile?
-Joe, siediti su.
-Ci sono, ci sono.
-Non me lo stavo immaginando, cavolo, ho proprio uno spiffero qui dietro-si alzò di scatto il padre, facendo larghi segnali verso la sua nuca. Il figlio guardava basso con la testa in bilico sul braccio.
-Ho passato il pavimento in cucina e ho bisogno che asciughi entro le nove. Devo anche fare uscire questo orribile odore di limone…mi rovinerà la cena.
-Ma pensa un po’ se ti rovina la cena. Dà un gusto decisamente fresco e moderno a casa nostra. Piuttosto dovresti lasciarlo lì dov’è e fermare il getto d’aria che mi sta trapassando la schiena.
La donna posò pentola e mestolo sul lato del tavolo incastrandoli con un rumore pari a un brindisi da ricevimento. Poi a passi corti si avviò in apnea verso la finestra della cucina.
-Che hai da ridere, tu?-minacciò l’uomo diretto sul ragazzo.
-Oltre allo spiffero, ti sei accorto che sei in canottiera?
-Quando anche tu trascorrerai le giornate a lavorare, giovinotto, capirai il perché di mille canottiere.
-Ma fa così caldo adesso?
-Che vuoi che sia, è primavera.
-Quasi primavera-annuì Joseph.
-Ma che perfettini che siamo diventati, eh? A proposito, Wendy, te l’ha raccontato di quel suo professore mezzo…-le si rivolse, non appena la rivide passare.
-Arrivo subito, caro, arrivo…ho sentito bussare alla porta.
-E’ lo spiffero di papà che non riesce più ad arrivare dalla cucina-sogghignò il ragazzo.
-Ma smettila, scemo. Sarà tua sorella che non ha preso le chiavi.
-E il campanello, papà?-domandò distratto cercando di sbirciare sotto il coperchio della pentola bollente.
-E il campanello? Tesoro, il campanello, non avevi chiamato per il campanello?
-Devo essermene dimenticata. Appena finiamo chiamo subito il tecnico, non ti preoccupare.
-Bene, meglio così…non vorrei solo trovarmi la ragazzina congelata fuori dalla porta una di queste sere.
-Primavera, eh?
Finley battè una pacca sulla spalla del figlio spostandolo il più possibile dalla sedia . Non che fosse un uomo dalla massa muscolare abbondante. Era solo più forzuto di quel giovanotto mingherlino, decisamente più maturo ed allenato, scattante nei suoi compiuti quarantacinque anni. Contro un pivellino di appena ventitrè era uno scherzo. Anche con le macchine che riparava ogni giorno era un gioco da ragazzi. Però si teneva distante dai tipi più grossi di lui, evitava di cercar rogne quando non fosse strettamente necessario. E quando anche i guai gli bussavano alla porta la sua capacità di non voltarsi mai gli permetteva di dare di sé l’immagine dell’uomo più silenzioso e pericoloso del mondo. Forse l’unica persona a tenergli testa era la sua cara mogliettina, una lingua biforcuta come la sua, una lastra di granito, dura come lui.
Un vociare sommesso giunse facendosi strada dalla porta di entrata, arrivando qualche secondo prima di madre e figlia. Erano così strette e sorridenti che Finley per un attimo non notò che il biondo di Paula era di gran lunga più iridescente dei capelli crespi e consumati di Wendy. Complice anche, ovviamente, il buio che la sua benedetta finestra chiusa gettava sul tavolo della sala da pranzo, del tutto scura, nonostante un piccolo lampadario pieno di ghirigori di vetro cercasse di neutralizzarlo, almeno sui piatti.
-Ciao-sorrise Paula ai due uomini seduti.
-Ehi, ciao-le rispose il fratello, lasciando andare con aria innocente il coperchio semichiuso.
-Buonasera, come va la mia piccolina? -la afferrò suo padre, stringendo un lembo della camicetta.
La ragazza se la risistemò proprio mentre gli stampava un piccolo bacio sulla guancia che probabilmente sapeva ancora del pasticcio di agnello che le aveva fatto assaggiare Minta. Man mano che saliva le scale capì che l’odore di pasticcio di agnello le era davvero rimasto impregnato fino alla punta dei capelli, e la seguiva come una scia invisibile in qualunque punto si fermasse per più di due secondi.
 In cima svoltò l’angolo a destra del corridoio e si fiondò nella piccola soffitta. Agguantò di un colpo il piccolo bauletto che stava sulla punta di una piramide di altrettante scatole, scaffali di mobili e teli di iuta, e vi ripose la paga del giorno, che era già impaziente di evadere dalla sua tasca durante la corsa. Evidentemente qualche spicciolo di mancia era riuscito nell’intento. Almeno sperava lo trovasse qualcuno a cui faceva piacere. Qualcuno che amava anche l’agnello possibilmente.
In fondo Minta le diceva sempre che i nasi dei suoi clienti facevano tutto il lavoro di quella ronzante scritta luminosa di fronte al locale. C’era da pensare che un giorno o l’altro l’avrebbe immersa direttamente in un pentolone per farne una pubblicità vivente. Oppure una zuppa che cammina.
Perché pensava alla zuppa? Ah, giusto, una ventata di odore di zuppa l’aveva investita non appena aveva messo i piedi in casa. Strano, non se ne era accorta. Ma ora le aveva fatto venire l’acquolina in bocca.
Per fiondarsi al tavolo rovesciò due scatoloni inermi di vecchi scarabocchi e nastri di biglietti di auguri datati almeno vent’anni prima, ricordi del passato dei suoi genitori con cui Paula non voleva avere a che fare. Con una manciata di carta sistemò l’impiccio e con il piede li spinse sotto un banco a tre gambe appoggiato al muro.
-Ma il professore è nuovo…?
-No, insegna da parecchio…almeno una decina d’anni…-deglutì Joseph, strappando un pezzo di pane.
-Che roba, proprio una bella roba quel tipo. E gli altri non sono da meno, eh?
-Sembrerebbe-annuì Wendy riempiendo il piatto della figlia, che aveva appena fatto capolino dalla porta.
-Sembrerebbe cosa?-si inserì sorridendo la ragazzina.
-Che tuo fratello è finito in un manicomio. Sempre che l’insegnante di salute mentale sia anche lui incompetente-rise il padre, afferrando il bicchiere.
-Ehi, Ma, me ne daresti ancora un po’?
-Dai, passa il piatto-fece cenno la donna.
Sappiate che Ma era l’ultimo approdo dei suoi trentott’anni suonati di vita. Fino a che la piccola Gwendaline trascinava i piedi tutti i giorni alla scuola elementare della sua assolata cittadina oltre il Mississippi, nessuno si era mai sognato di chiamarla Wendy. Lei era al massimo Gwen, Dalen, o Lina. Facciamo semplicemente Gwen, perché gli altri erano soprannomi usciti dalla lingua lunga di alcuni suoi amici.
Finley aveva coniato Wendy lasciandola visibilmente impressionata. Impressionata per un nomignolo così evidente che nessuno in famiglia aveva mai voluto rivolgerle. Credeteci o no, era stato uno dei motivi per cui si era follemente innamorata di lui. Joseph fortunatamente ne aveva ereditato certi tratti, sicuramente migliorando il fattore creativo, e se ne era uscito, sei anni prima, con Ma. Non era il soprannome di “mamma”, ma è ancora troppo presto per spiegarlo.
Comunque a distanza di qualche anno, prima di Ma, il ragazzo, o meglio, ragazzino all’epoca, aveva già iniziato a tirarne fuori mille altri, uno più scemo(possiamo dirlo) di quello dopo. Praticamente tutti gli rubavano le idee, e mezza città si chiamava come Joseph Stuart l’aveva voluta, magari senza accorgersene, mentre sorseggiava una bibita.
I nomignoli ovviamente davano un potere di etichettare le persone assolutamente straordinario, bello e spiritoso finchè non si pestava un tasto dolente. E’ vero che il signor Richter era estremamente soddisfatto che sua figlia Mallory fosse ufficialmente diventata “Angel” a scuola, ma il fegato gli si rodeva un po’ quando suo figlio Craig era chiamato dal quartiere “Tonno”, per via di quei suoi occhi chiari e strabuzzanti.
Poteva anche attirare antipatie, essendo così potente nel campo, perché certi soprannomi si appiccicano senza essere graditi e spesso vengono usati come piccoli spilli a tormentare le persone. Ma in fondo la vocina che gli suggeriva le idee era solo lì per ordinargli la memoria e riuscire a distinguere quello che per i suoi genitori era “Craig che abita al fondo della strada con due cani bianchi che abbaiano e disturbano la signora Densel” da “Craig, il cugino di tua madre che vive a San Francisco e ci manda i biscotti della sua terza moglie svedese”.
Quando si era sparsa la voce (non è da dimenticare che la sua fama veniva anche dalla velocità delle pettegole e dei ficcanaso) che il figlio maggiore di Stuart si era iscritto alla scuola di medicina di South Bay, la tanto odiata città aldilà del lago, tutti si erano immaginati i lunghi elenchi di nomignoli con cui in carriera avrebbe riempito i registri. Le voci tornarono come un turbine alle orecchie dell’interessato, e per la prima volta Joseph capì che quel talento lo avrebbe tenuto sottobraccio per tutta la vita. Che poi, dopo un po’, era solo il suo tono di voce, il suo schioccare la lingua e la sola sua persona a decretarne la supremazia nel campo. Insomma, raggiunti i vent’anni era abitudine e moda starlo a sentire.
Bisogna dire che come sempre certe etichette in famiglia rimanevano per pochi intimi, ma in sostanza valevano per chiunque mettesse piede o buttasse l’occhio sulla loro casa.
Suo padre era diventato Bell, perché dalla mattina alla sera rompeva le scatole con la questione del campanello, il che rimpiazzava notevolmente quel “Ruotapale” che se ne era uscito durante il carro allegorico dei mulini alla festa di autunno. Quello coi clienti metteva sempre un po’ di imbarazzo, specialmente i forestieri.
Questo discorso il mio caro collega che si spacciava per menestrello all’inizio del capitolo precedente non avrebbe mai potuto farlo, perché per lui non ci furono mai soprannomi firmati Joseph. Mi direte, certo, basta non conoscere Joseph e tutti saremmo allo stesso punto. Ma la questione sta nel fatto che lui non capirebbe l’importanza di questo ragazzo. Forse voi ci siete arrivati, se solo provate ad immaginare dove finirà questa avventura.
Nella maggior parte dei casi, però, sempre ammiro l’estro di Joseph come uno dei più utili al mondo, come un’arte di far sentire speciale, nel bene o nel male, chiunque spunti nella sua vita. Perchè possiamo inventare quanti più nomi vogliamo, ma i soprannomi e i nomignoli li batteranno sempre in numero, in allegria e in umorismo. Perché sono etichette che non vanno su documenti e scartoffie, sono pezzetti della nostra personalità che si sostituiscono nel tempo, si aggiornano, vivono con noi.
Se Craig degli occhi di pesce e Craig dei biscotti firmano col nome un documento, il burocrate tutto silenzioso sul suo scrittoio vedrà solo e soltanto Craig. Niente tonno e niente biscotti, cari. Perché quello è il mondo logico delle cose ufficiali.
Un mare di parole per questo ragazzo, un mare di lodi, direi. Non è decisamente il protagonista assoluto di questa storia, ma uno dei suoi piccoli fallimenti lo è. Paula, la sua cara sorellina, non era mai stata soprannominata in alcun modo. O la chiamavano per intero, oppure usavano i termini più generici di questo universo. Joseph non era riuscito ad attaccarle un’etichetta. Ma si sforzava comunque di conservarle quella che solo lui le vedeva addosso.
-Domani Minta tiene chiuso il locale, c’è la partita e non verrà nessuno-spiegò Paula passando il cucchiaino sul bordo del sorbetto.
-Bene, allora stasera potreste uscire-propose distratta la madre.
-Stasera? -sbuffò il padre-Faccio ancora un salto in officina per controllare due cose, ma poi sono definitivamente senza forze.
-Come va all’officina? -chiese la figlia, ripescando improvvisamente la questione di Tyler.
-Bene, bene. Come sempre-e mandò uno sguardo complice verso Wendy.
-Comunque- battè le mani lei-potete andare al cinema voi due, ragazzi. Non hai detto che volevi vedere quel film pieno di sangue?
-Sì-rise Joseph-che ne dici, Ni?
Santo Cielo, vi siete dovuti leggere una miriade di parole più o meno serie e ora quello che vedete sono solo monosillabi. In effetti ve l’ho detto, quell’etichetta la usava solo lui. Evidentemente non era un gran successo. Ma gli ricordava tutto sommato il momento in cui imparò a conoscere la sua piccola sorellina, quel piccolo bozzolo di panno rosa e guance rotonde che gli era stato presentato al parco, appena finito un acquazzone.
-Nola? Nola Puffs?-aveva balbettato una volta arrivato a casa.
-Sì, tesoro, suona così-si era messa a sghignazzare la madre.
-Ah, che roba! Joe, vieni, siediti qui. Senti un po’, come si chiama la tua sorellina?
-Nola-lo aveva guardato, ficcandosi un dito in bocca.
-Ma che brava, tua madre-aveva applaudito deluso verso la moglie-no, lo so che vivresti di Nola Puffs giorno e notte, ma tua sorella si chiama Paula. Fammi una P con la bocca. Forza! Come Papà!
-Papà, Nola Fz!-balbettò due o tre volte il bimbo. Portava la mano a cucchiaio verso la bocca e scuoteva la testa per dirgli quanto trovava divertente che si parlasse di quei cereali colorati.
-Sei poi tu che compri sempre certe schifezze.
-Basta, che storia è mai questa? Mia figlia si chiama Paula, diavolo!
Finley perdonò la lingua ancora infantilmente impastata del suo piccolo campione, ma per le settimane successive in cui la moglie sporgeva nella sua visuale ne uscivano sempre secchi pugni sul tavolo.
Proprio mentre Joseph affinava la sua funzione di fratello maggiore responsabile, la sua bocca iniziò ad accorciare il nome dei cereali da “Nola”, a “No”. Il “Puffs”, o meglio il suo”Fz”, si era perso già nel momento in cui per almeno otto volte di seguito il padre aveva chiamato la neonata, senza accennare per nulla a quel suono divertente che non dimenticava mai nel posare sul tavolo la scodella della colazione.
Capirete che chiamare una persona come un apparente avverbio di negazione poteva parer originale, contorto da capire, ma originale. La maestra della seconda elementare, rappresentando quel mondo di leggi e nomi che vi mostravo prima, censurò quella follia “di usare paroline viziose che creeranno confusione per chi lo avrà ascoltato o letto in futuro”.
Che? Seriamente? Forse quella donna se ne sta ancora nel suo letto di missionaria in Africa a ragionare sulle notizie che sono uscite dalle lettere dei suoi. Joseph Stuart? Ma era quello dei nomi strani? Pensare che ora a colpi di etichette è sulle labbra di tutta Borderlake, che i suoi nomi sono quelli giusti mentre i veri nomi suonano banali! Non a caso nessuno la chiama più signorina Brent, ma anche le suorine bruciate dal sole la conoscono come Zugal.
Strana traduzione africana?
Solo una marca di caramelle biancastre che molte sue conoscenti, su esempio di un bimbo, riconobbero nelle perle dei suoi fili per occhiali. Certo che le marche dominano il campo.
Ma perché divago di nuovo? Dovevo essere quella della storia dettagliata e coincisa, e non posso fermarmi se una linea su questo quadro colorato spunta da un lato con un sottile filo di colore, da solo, in un angolo. Però torno sul disegno centrale.
Liquidati “Nola” e “No”, poiché la enne gli suonava sempre più naturale dell’iniziale vera, Paula diventò semplicemente “Ni”. Il padre si era già rassegnato alla seconda opzione, che pur rischiava di essere confusa per un secco rifiuto, invece di ricordare il viso di quella sua bimbetta che a stento aveva imparato a parlare.
Paula ora aveva diciassette, quasi diciotto. ”Chi se ne frega”, gli appariva di scatto nella mente.” Che scemo arrabbiarmi…ero arrabbiato e basta. Finchè alla mia bimba non le torce un capello non m’importa come la chiama. E Joe, chi gliene dice…lui le vuole bene, un bene dell’anima.”
Joseph cancellò, seppellì sotto il più alto cumulo di terra quella storia del nome dei cereali, delle risate di sua madre e della sua lingua incapace. Era un racconto perfetto da tempo morto tra un’ordinazione e l’altra al ristorante, da panchina con estranei, da rimorchio, magari. C’erano decine di nomignoli che facevano la fila per quei momenti. Quello di sua sorella si rivelava il più complicato, da rivangare e forse in parte da perdonare a se stesso.
-Ni abbrevia “Nuova”, la mia sorellina è stata la novità in casa mia-sorrideva sempre.
Ma non ne era mai totalmente convinto nel parlarne, quindi mai convincente, mai persuasivo, mancava del superpotere. Al che si potrebbe trarne che la sua lingua azzeccasse solo quando agiva nella più completa e spudorata sincerità.
-E’ proprio pieno di sangue?
Già, torniamo al presente, insomma, all’avventura.
-I miei compagni dicono che se ne fa schizzare parecchio…ma danno anche una commedia se preferisci. Solo che inizia tardi, verso le undici, penso-storse il viso in un dubbio.
-Potremmo andare tardi, no? Così riusciamo anche a vedere l’inizio della lezione della mamma-si voltò la ragazza, appollaiandosi con le mani al bordo del tavolo.
-Sei proprio una fifona-gli fece la linguaccia Joseph.
-Ma io ci tengo davvero, mamma!-insistette.
-Grazie, ma vi ho già detto che mi mettete in soggezione se state qui.
-Piantala lì, Wendy, siamo la tua famiglia, e che diavolo!-sbuffò Finley.
-Lo so, ma questa cosa mi mette ansia…potrei essere disastrosa come insegnante…
-Ma dai! Non potresti sbagliare una sola virgola, sai tutto di sta roba economica e quelle tre talpe non replicheranno nemmeno-le prese la mano l’uomo.-So che andrai benissimo, Wendy. Ma se ti disturba la nostra presenza faremo gli invisibili.
Nel silenzio in cui la donna scaricava la cappa d’ansia che le si era stretta intorno, Joseph ebbe l’idea di guardare sul quotidiano locale se il Blue Vynil, cioè l’eccentrico cinema più aggiornato della città, proponesse qualcosa di inaspettato rispetto a quei due titoli che gli ronzavano in testa dopo le mattinate di scuola. Ovviamente l’annuncio principale conteneva un’intera pagina di cerchietti e triangolini azzurri e gialli che ne facevano venire altrettanti agli occhi che ammiccavano nel fissarli.
-Ci credereste? Hanno aperto il Drive-in!-sbarrò gli occhi sfiorando col viso un angolo del foglio.
-Già a marzo? Quelli non perdono mai tempo per far soldi.
-No, papà, non il supermegabidone di quei ricconi! Il nostro Drive-in!
-Quello vicino al lago?-trepidò Finley-Ma Oscar aveva detto che avrebbe aspettato il ragazzo…perciò…
-Dici che Hunter è tornato?-scattò in piedi Joseph, lasciando andare la pagina di giornale.
Paula aprì un sorriso con un urlo di gioia che le morì in gola.
-Può darsi che abbia deciso di provare ad aprire comunque.-mantenne la calma il signor Stuart.
In meno di cinque minuti i due ragazzi erano già saltati in macchina riservando al padre i sedili posteriori. Non potevano neanche trovare una scusa minima per perdersi quel film. Un film completamente da ignorare, oppure da vedere tutto per filo e per segno in balia dei ricordi. Perché quell’apertura voleva dire che Hunter era tornato, oppure che non sarebbe tornato mai più. Non ci si poteva mai fidare del giornalista che scriveva gli annunci: qualsiasi testo gli dessero, lui doveva rimaneggiarlo per renderlo più commerciale. Oscar poteva averglielo dettato con le lacrime agli occhi, oppure impaziente di gioia.
All’incrocio con Abbey Road il padre fece segno di fermarsi. Doveva passare all’officina, e si rivelava scettico nei confronti delle intenzioni di quel vecchio volpone. Scivolò in canottiera nel mezzo della sera, con il giornale ancora sottobraccio . “Andate avanti, telefonatemi dopo”gesticolò loro, prima che il figlio rimettesse in moto.
-Come li vuoi i popcorn?
-Come li vuoi tu-sorrise debolmente la sorella, scorgendogli il rivolo di una lacrima che scendeva lungo il mento.
-Scusa-tirò su col naso-potrebbe essere la volta che la finisco di preoccuparmi. Ma non so se l’hanno aperto per…per lui…
-Lo aveva giurato, in chiesa, di fronte al quartiere. E’ un miracolo, forse, questo. L’hanno aperto perché lui è qui. Sono vicinissima ad esserne sicura. Su, asciuga-gli porse un fazzoletto, il primo trovato a casaccio nella sua piccola tracolla.
-Ne serviranno altri, tienili pronti. Stasera in un modo o nell’altro piangerò-sorrise con gli occhi già rossi.
Chissà perché erano così sicuri che tra giuramenti, voti e annunci, quel cinema all’aria aperta aprisse proprio perché era il nipote del proprietario a volerlo, vivo o no. Tutta quella sicurezza poteva farli piangere per un nonnulla. Tutta quella corsa poteva stancarli per un nonnulla.
Ma quando apriva il Drive-in? E chi cavolo si era ricordato di leggerlo? Se non fosse stato il quotidiano del giorno e ci fosse stato scritto “Stasera”, probabilmente non avrebbero nemmeno previsto la data. Le informazioni erano andate a braccetto del padre fino in officina. E va beh, chiediamo all’ingresso.
Dentro la cabina del bigliettaio qualcuno però scorse subito il getto dei fanali di un’auto abbassarsi, e due figure che arrivavano di fretta, e per giunta un’ora in anticipo.
- Ragazzi, apriamo tra un’ora!-annunciò il bigliettaio, tale Morgan, indicando a braccia larghe la doppia sbarra che serrava il passaggio.
-Sì, sì, noi aspettiamo- fece timida Paula, non prima di tirare un sospiro di sollievo alla notizia che l’annuncio del giornale era vero.
-Il signor Malloy è già arrivato?
Joseph sentiva l’impazienza divorargli a morsi le orecchie, era sicuro che a breve avrebbe perso la capacità di ascoltare la risposta.
-Lei sa del signor Malloy?-balbettò l’omino, strofinandosi il polsino troppo stretto della giacca.
-In che senso?-arretrò imbarazzato il ragazzo-Cosa dovrei sapere?
-Ehm, cosa non dovrebbe sapere…ancora.
Fratello e sorella deglutirono confusi.
-Aspetti qui-agitò la mano. Con un’agilità inaspettata, subito dopo una decisa tirata delle braghe che larghe spiovevano ai fianchi, quell’ometto spalancò di un acuto cigolìo l’angusta porta della cabina e balzò sull’asfalto.
Udirono ancora per qualche secondo la sua corsa trafelata verso il parcheggio buio, da cui, per via dell’ora tarda, non riusciva a mostrarsi l’edificio principale: un’alta casa squadrata e regolare in mattoni.
In lontananza però spuntavano sullo sfondo dell’ultimo respiro del tramonto i profili nodosi degli alti alberi che facevano da muro naturale al lago. Poco sotto la parete di bosco, loro se lo ricordavano bene, il signor Oscar Malloy aveva fatto installare il telo bianco che dava via alla magia. Quei tre lunghi anni di attesa avevano lasciato solo qualche traccia delle linee che, come trovata geniale, erano state tracciate per terra per segnare i posti, piene di miscele di fosforo e altre “schifezze chimiche” che le facevano brillare nel buio.
Quando tutti i parcheggi erano occupati, da fuori se ne aveva un disegno a chiazze irregolari sparse laddove le tracce non erano coperte, e il risultato era un quadro identico al cielo stellato, in una versione più artificiale, e chimica.
-Che c’è?-chiese la ragazza, sorridendo allo sguardo attento del fratello.
-Niente… posso avere il permesso di guardarti?-rise Joseph, di un riso nervoso, teso.
-Ci sono cose migliori che potresti fissare-alzò le spalle lei allargando il braccio intorno al suo.
Oltre al fruscìo del vento che spazzava il battistrada, il rumore della porta cigolante si ripeteva incessante nelle orecchie.
-Non bastava l’ansia, ci vuole anche sta cantilena ora-sbuffò lui.
Che discorso stavano evitando? Cosa stava per dire un secondo prima sua sorella, quando gli aveva rivolto due occhi spalancati e lucidi? Era lo stesso pensiero che aveva piantato in testa mentre anche lui usava gli stessi sguardi contratti? Entrambi temevano l’imbarazzo di rivangare la questione. Così ne uscirono altre, incredibilmente insignificanti rispetto al dubbio che li tormentava.
-Che film danno stasera?
E che noia. Doveva ricordarsi che suo padre si era portato via il giornale, no? Su sta cabina maledetta non c’era manco un annuncio. Quando Joseph girò la testa in cerca di un manifesto, trovò il palinsesto di cartone vuoto, vuoto e inquietante, come se il proprietario non ci avesse fatto caso. Non era affatto un buon segno. Gli ricordò tutto la sciagura, l’ombra di una brutta notizia che per mezzo di messaggi nascosti oltre a brutta diventa misteriosa. Hunter. Hunter. Che tamburo aveva in testa per quel nome.
Faceva una bella orchestrina insieme alle orecchie che fischiavano e allo stridio dei denti. Se si aggiungevano i morsi nervosi che Paula dava alle unghie, si scandiva persino il tempo di una piacevole ballata di ansia.
-Spero in ogni caso non sia un horror-sviò poi la sorella.
-Come pensi di sopravvivere a questa società se non hai mai visto un horror?-scandì lui a lunghe scosse di capo.
Incredibile come i discorsi si bloccassero. In due era difficile tenerli su. Almeno su un numero di tre c’era più probabilità di avere una parlantina continua. Eppure sembrava utile rivangare la questione dei film horror, perché avrebbero potuto tenere uno stupido dialogo perlomeno teatrale tra un sapientone in materia e una totale imbranata nel campo. Avrebbero perlomeno riempito il silenzio di quella piccola piazzola.
-Adesso basta-piantò i piedi Joseph. Girò le suole in direzione di quella fastidiosa porta scricchiolante. Dopo quella, avrebbe dovuto solo far smettere il vento, che ululava impaziente anche lui, senza dare mai pace alle ciocche ribelli di Paula.
A tre passi e qualche pezzo di ghiaia dalla cabina, le orecchie dei due fratelli si rizzarono. La porta sembrava ferma e il vento era pressochè spento. Ma allora che cos’era quel rumore? Pareva gli stessi due fastidiosi suoni di prima, fusi insieme da ritmo alternato.
Eccolo, un segno di vita. Un piccolo faretto proiettò una lunga scia che tagliava in due le sbarre di passaggio, scavalcandole nel loro metro di altezza. Veniva avanti scorrendo sull’asfalto come la luce di un treno.
Al posto del rumore della locomotiva ne usciva invece quel suono strano, accompagnato, ogni tanto, da un tossicchiare sommesso, che Paula non resistette dal paragonare al verso stralunato della foca ferita che una settimana prima aveva visitato allo zoo con la classe di scienze. Diciamo che il ricordo di quella povera creatura accasciata la preparò in parte a provare compassione.
Poi arrivò un formicolio metallico, e le due sbarre si alzarono maestose, nonostante spruzzate qua e là di ruggine. E finalmente apparì rischiarato e ravvicinato lo strano strumento musicale.
-Buonasera-disse piano una voce.
-Dannato Spirito del Sacramento!-aprì le braccia Joseph, come se volesse risucchiare sotto la sua giacca tutta l’aria respirabile.
Volete anche una bella parentesi sulle esclamazioni, oltre che ai soprannomi? No, spero di no. Altrimenti diventereste miei seguaci e ve ne pentireste. Abbiate pazienza per qualche capitolo, e poi se vorrete partirà il mio sproloquio.
Il grido che si era rintanato tra le corde vocali di Paula provò un’altra volta ad uscirle, ma fallì ancora.
Hunter se ne stava composto e ritto, sorreggendo la piccola torcia che ora faceva un buco di luce netto sul fianco della camicia stropicciata della ragazza. L’amico si buttò a capofitto tra le sue braccia, stringendolo pur facendo attenzione a non storpiarlo. Nulla gli parve strano in quel suo gesto, neanche che dovesse raggiungere nel buio un volto che si trovava all’altezza della sua cintura. Quanto gli era mancato quel volto! E le spalle! Quelle dannate spalle squadrate e robuste. Loro lo avevano condannato e adesso si nascondevano colpevoli dietro insignificanti paragoni: sì, ora non erano altro che squadrate, squadrate proprio come lo schienale della sedia a rotelle.
-Buonasera-spezzò l’imbarazzo dei suoi occhi lucidi. Non sembrava intenzionato a smettere di ripetere quel saluto.
-Oddio.
Joseph fremeva in preda all’emozione, ma si limitava a guardare prima Paula, poi Hunter, il cielo e a sventagliare le mani a livello delle tasche dei pantaloni. Gli occhi, i sorrisi, i respiri: parlava di loro tutto ciò che non poteva parlare, mentre la voce si ritraeva, imbarazzata di sé.
E’ divertente pensare che da lì a un minuto si aggiunse alla scena uno dei personaggi per cui la voce era l’unico, eccelso e poderoso strumento. E fu un bene, perché Hunter aveva iniziato a piegare la testa di lato e a fare giochi di luce sui visi dei due ospiti, con ancora stampato sulle labbra quel “Buonasera”.
-Signorino, Santo Cielo! Signorino Malloy!-si sentì scalpitare, accompagnato da un ticchettio di scarpe sulla ghiaia.
Tacchi. Paula rimase delusa del fatto che erano solo qualche misero centimetro rispetto ai trampoli che si era immaginata. Ma una cosa l’aveva inspiegabilmente azzeccata. Erano bianche opache, con l’aggiunta però di un delizioso fiocchetto sul lato interno. Sorrise di quel dettaglio curioso persa talmente nei suoi pensieri che neanche immaginò chi potesse essere quella donna. Non che si capisse, dato che la divisa bianca immacolata era coperta da un golfino beige, legato a vita.
Quella scaraventò le braccia sulle manopole della sedia del ragazzo, poi aderì ad una con il gomito per potersi sistemare il ciuffo di capelli mossi, tinti di un bel color caramello. Era divertente vederla mezza spettinata e allo stesso tempo delicata e posata nei lineamenti.
-Signorino Malloy-ripetè a fiato mozzo-come le devo ripetere che non deve uscire assolutamente non accompagnato?!
-E poi suo zio le ha detto di non uscire fino a stasera, sa, per la sorpresa-commentò alle spalle Morgan, tirandosi di nuovo su i pantaloni.
-Ma quello è il problema minore, è la salute che corre rischi, qui! Ci vuole assolutamente una maglia! Forza, fattorino, vai a svegliare la mia collega. Si sarà addormentata in piedi davanti alla sua finestra!
L’uomo si voltò in un ovvio “Fattorino? E chi sei tu per dirmelo?”.
La donna sgranò gli occhi in un “Non discutiamone, sono un’onesta lavoratrice e sto sgobbando, qui. Sbrigati, esegui”. Oh, sì, tutto questo, parola per parola.
Quando rimasero di nuovo un gruppetto di quattro, la sconosciuta scosse le manopole e parve sciogliersi all’improvviso in confidenza-Hunter, potevi almeno avvertirmi!
-Ma…ma…
-Ma…?-rise lei.
-Ho saputo che qui…lui è il mio migliore amico…
Hunter cercò lo sguardo di Joseph. “Dopo due anni, sei sempre tu?”.
L’amico per poco non scoppiò di nuovo a piangere. “Ommioddio, sì”.
-Stavolta la passi, signorino!
-Oh, sto signorino mi sta uccidendo! Sono un uomo adulto ormai!
Poi si ricompose da vero soldato per finire la presentazione.
-Questo è Joseph, Stuart, il mio migliore amico. Joe, questa è la mia infermiera, Diane.
-Sono la sua ombra, in realtà, adesso-strizzò l’occhio, porgendogli la mano.
-E questa, sempre più cresciuta, è la sorella, Paula-le indicò la ragazza nella penombra.
-E’ un piacere, signora-fece lei imbarazzata, appena vi si trovò a due passi. Vide che nel buio il suo viso era ancora più levigato di prima. Le piccole rughe si mimetizzavano spostando l’attenzione su due zigomi rotondi e truccati.
-Signora? Ma che formalità! Diane va benissimo.
-Ma signorino invece devi tenerlo, eh?-protestò Hunter.
-Signorino perché ora sei veramente piccolino rispetto a me!-spalancò un sorriso segnando a mezz’aria la sua statura.
Vedendo il sorriso sulle labbra dell’amico, i due fratelli ebbero un sobbalzo. Scherzare sulla carrozzina? Sulle sue gambe…gambe…ah, già, come? Cosa era successo? Le gambe non andavano più? Non c’erano più? Ah, no, i suoi pantaloni erano riempiti da sagome verosimilmente di gambe. Ma chissà. E chi aveva coraggio di chiedergli come stesse? Imbarazzante. Però l’infermiera non lo aveva offeso…già, lei. Ci sembrava abituata, lei.
Una rapida occhiata distratta riportò a Paula il pensiero del film horror: sarebbe stato incredibilmente migliore guardarsi sei film horror di fila, che parlare di Hunter, con Hunter. Per parlare degli orrori che aveva visto. Che fifona, era.
Uno scalpitio sommesso annunciò l’arrivo dell’altra infermiera, e un rumore di stoffa, di pantaloni, che raschiava al suolo, quello di Morgan.
-Eh, Magda, deh! Dove eri rimasta?-battè le mani divertita l’altra.
-Ho preso tutto, ombrello, cardigan, coperta di lana, borsa dell’acqua, antipuntura, qualche flacone dalla scatola di emergenza…avrei preso anche le bende ma…una chiamata…che c’era una cosa urgente insomma…mi hanno detto di correre!-respirò a fatica, con le dita tese dopo il lungo elenco.
-Eh, bisogna imparare a scattare! Immaginati un’emorragia? Che faresti?
Hunter si coprì una mano con l’altra e lasciò trasparire un bel paio di corna.
-L’infezione potrebbe diventare grave, insopportabile…l-letale!-alzò la voce Diane-Si vede che devi ancora imparare, mia cara!
-Sì, signora.-riuscì finalmente a rispondere. Pareva sfinita eppure perfettamente curata e in ordine, meglio della sua collega più anziana. Di anni ne avrà avuti venti scarsi. Da come si muoveva pareva fatta di panna montata, di spuma, di aria. La sua stanchezza si agitava dentro una nuvola che sbuffava, rimanendo sempre bianca. Quel pallore e quella dolcezza cozzava con i modi imponenti ed estroversi dell’altra.
-C’era comunque-respirò-una chiamata per te. Era un negozio, una pasticceria sembrava, dal nome.
Diane allungò il polso di Hunter, munito di orologio-Ora? Sicura fosse per me?
-Cr…
Ma l’altra la bloccò sul parlare e le prese le guance-Certo, la torta, Santo Cielo! La torta!
-Ma allora alla fine te l’ha fatta ordinare a te?-accennò Hunter, sorridendo ad una vecchia conversazione. Forse ad una delle prime che aveva avuto con la sua infermiera.
Con il doppio di rumore dell’arrivo, Diane scomparì nella notte. Hunter riuscì a mandare via anche Magda, concedendole un caffè, che i suoi occhi cerchiati accettarono immediatamente. Morgan se ne era andato da un pezzo. Probabilmente a casa del suo vecchio collega per controllare di non aver confuso le uniformi da lavoro. Il ragazzo, spingendo le rotelle, sorrise nell’avvicinarsi ai suoi ospiti.
-Silenzio, grazie al Cielo-tossì imbarazzato Joseph.
-Dunque…
-Vieni, vieni anche tu-offrì un abbraccio Hunter, alludendo a Paula.
Lei si chinò senza poco disagio e gli prese le spalle. Ma non le usciva nessuna parola.
-Da dove volete iniziare?-si morse il labbro-Da questo trabiccolo?
Joseph si guardò le punte dei piedi.
-Oh, avanti, ragazzi, cos’è questo mortorio? Non mi dite nulla? Mi aspettavo che mi aveste preparato almeno una festa di bentornato!
-Tornato? E chi lo sapeva?-protestò l’amico.
-Ma smettila, so da fonte certa che passavi qui davanti ogni giorno…carino da parte tua-schioccò la lingua.
-Beh, a scuola ci devo andare, e qui ci devo passare, per forza-gli fece una smorfia.
-Sapevo che ti saresti fiondato qui appena pubblicavano l’articolo. Insomma, stasera verranno solo i miei amici e quei curiosoni che vogliono sapere perché mi trovo già qui, e vivo per giunta. Pazienza, ci guadagneremo qualcosa.
-Io verrò qui tutte le settimane, se vi serve per guadagnare-gli prese il braccio l’amico.
-Tranquillo, io e lo zio ci siamo sistemati per il meglio.
-Quindi ora abiti qui? Casa tua è ancora sprangata…
-Vedi che ti ho beccato?-gli diede uno schiaffetto-Ci venivi nella mia strada a vedere se ero tornato!
-Se eri tornato, o…temevo..sai.
-Sono vivo, Joe. Forse non completamente integro, ma sto bene. Ora sono tornato. Mio fratello se l’è vista peggio…lo dimettono tra una settimana dall’ospedale. I miei vivono praticamente vicino al suo letto.
-Cosa…?-prese coraggio Joseph.
-Ci ha rimesso la faccia, quel poverino. Mi ha fatto tanta compagnia laggiù, in quel postaccio. Non ho trovato amici degni di te. Di voi, insomma. Solo qualche compagno di reparto stranamente cordiale. Che cosa stupida sarà…ma ti ho pensato ogni volta che stavo per addormentarmi.
-Io l’ho fatto sempre. Probabilmente sarei morto subito a venire con te, ma ho odiato comunque il medico che ha timbrato il mio fascicolo. Cavolo, ogni tanto lo vedo ancora, sai? Ti ha condannato ad andare a morire, quello sciagurato. Medico senza cuore.
-Uh, ti sei iscritto alla scuola di medicina, grazie a me-si fece un applauso Hunter.
-Beh, in un certo senso-si grattò la nuca.
-Davvero, ti senti meglio?-azzardò Paula, usando una di quelle domande tabù che si era prefissa di non tentare.
Stupito, il ragazzo diresse le ruote su di lei-Certo, soprattutto ora che posso andare a letto alle dieci di sera…anche se non da solo, come avrete capito. Sono sorvegliato a vista. Scherzo, ovviamente. Adoro Diane.
-E’ simpatica-continuò l’amico.
-E’ una vera forza della natura. Vi assicuro che sto ancora cercando le altre sei paia di braccia che usa per fare tutto. E poi comunque…beh. Questa cosa delle infermiere mi ha fatto venire anche quel complesso strano…che…aspirante dottore, lei lo sa?
-Ma quella è psicologia! Io studio medicina legale!-scosse la testa l’altro-Però ho visto abbastanza film, qui dentro, per confermarti che esiste solo nella fantasia.
-Si vede che sei proprio legale, eh?-guardò Paula-Secondo me ha senso, insomma queste due donne mi stanno incollate giorno e notte come delle piccole mammine. Può capitare, una cottarella, dopo mesi di assenza!
-Non sembra il tuo tipo- lo fermò Joseph.
-Sarebbe stata il mio tipo, purtroppo…felicemente impegnata-sventolò l’anulare.
-Ti sei preso una cotta...per Diane? Credevo Magda.
-Per la tirocinante? Dovrei stare con lei? Oppure con quella che mi porta sempre un cioccolatino a metà mattino e mi ha persino comprato le bolle di sapone?
Va bene, ai due scappò quasi una risata. Cercarono di mascherarla da contentezza, perché sapevano che qualsiasi cosa ora si mostrasse ad Hunter doveva far parte di una vita che per lungo tempo aveva visto lontana, se non perduta.
-Ma non ci sarebbero una roba tipo una quindicina d’anni di differenza? Non ti disturba?
-Wow, credimi glielo dirò-si rivolse a Paula-lo sapete che quella donna potrebbe essere mia, anche vostra, madre?
-Davvero?-spalancò gli occhi la ragazza.
-Ma sì, io ci credo perché mi ha fatto vedere una foto vecchissima in cui c’è lei da bambina. Penso sia dell’annata di vostro zio…potrebbero essere stati compagni di scuola?
-Potrei chiedere, per esserne sicuro-rise Joseph-Come fa di cognome?
-Rogers, mi pare…ah, no ovvio, tuo zio potrebbe conoscerla con il nome da nubile…cavolo deve avermelo detto…
-Non importa, mi farai sapere…
-Dai, venite, venite a scaldarvi a casa. Guarda, puoi parcheggiare la macchina dentro se vuoi, davanti alla porta dello zio. Così salite un attimo tranquilli e possiamo parlare. Se Diane non sta ancora parlando al telefono, e sarebbe strano, puoi chiederle il nome da signorina. Ma ti prego non chiedergli dei suoi figli, e soprattutto di sua figlia. C’è un cavolo di matrimonio in corso e la vedo sempre più disperata, vi prego.
E potete rassicurarvi col fatto che non tirarono fuori nessun discorso del genere. Probabilmente avrebbe alterato tutta la storia, e compromesso un bel po’ di momenti. Mi dispiace, forse questo non è stato un episodio particolarmente brillante. Ma serviva a puntualizzare che tra Joseph e Paula correvano davvero delle buone acque, nonostante quei bigliettini di passato lontano che erano stati scansati dalla ragazza, proprio quel pomeriggio. Poi anche per puntualizzare che spesso, ma molto spesso, le persone si esprimono a soprannomi, ed essendo pari a un nastro, io li registro come vengono. Cercherò di non beccare delle scene in cui siano fitti fitti .
Da ultimo, come degno tiro mancino a quell’altro narratore sfacciato, volevo fare un’uscita meglio della sua. Lui disse ad Avery e, grazie alla mia citazione, a voi che Dirk era scritto nel futuro di Paula. Ebbene, le due infermiere che sono apparse in questo ricordo si rivelarono estremamente importanti rispettivamente per Joseph e Paula.
E guarda a caso quel giorno una parlò di matrimonio.
-Lo sai che anche Magda mi chiama Freck, come te?
-Straordinario, davvero.
-So che qui lo fanno tutti…
-Straordinario, straordinario.
A.A.
Direi che era ora che spuntasse fuori “Rogers” da qualche parte…
Scusate per il capitolo lunghissimo (seimila parole?), se l’avete trovato eterno. Altrimenti scusate il capitolo brevissimo. La voce del racconto ha già detto parte delle motivazioni per cui l’ho scritto. Io ne posso solo aggiungere una: vi prego non scioccatevi se scoprite ora che Paula si pronuncia come rima di “Nola”. A volte è imbarazzante da dire. Va beh, io lo metto per iscritto, quindi potete leggerlo come preferite. Mi scuso per il testo fitto e il titolo incollato al corpo, ma l'editor me lo fa rimanere sempre scombinato. Cercherò di rimediare.
CCB

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Capitolo 3
*** Risposta senza domanda ***


Solo quando la parete proprio dietro la testiera del suo letto rimbombò di colpo, Finley Stuart fu improvvisamente tirato fuori da quell’incubo. Gli era rimasta appesa al collo un’angoscia opprimente, che il risveglio non poteva per nulla levargli. Quelle immagini di scartoffie, ricevute e assegni appartenevano sia al sogno, che alla sua immediata visuale da coricato. Con un pugno nel cuscino si fece appoggio per alzarsi e si affrettò a lasciarsi alle spalle quel mucchio odioso di carta. Come un bambino che fa approfondite indagini sul mostro nell’armadio, fece capolino ancora due volte dalla soglia della camera.
Ma niente, rimanevano sempre lì. Allora cercò di scordarsene, buttando l’occhio qua e là nel corridoio. Trovò mille e più sorrisi della sua Wendy, intenta prima a piantare dei fiori, poi a mangiare una torta, a sostare al sole sotto una meridiana e l’indimenticabile ritratto sull’altalena in volo.
Finì sull’ultima immagine, la sua Wendy in carne ed ossa. Era già ricurva sul tavolo a leggere il giornale con la camicia da notte stropicciata sulla seduta.
-Buongiorno-le scoccò un bacio sulla testa.
La donna posò la tazza di caffè nero e voltò la pagina del giornale come se fosse fatta di vetro fragile.
-Ben svegliato-gli accarezzò il braccio.
-Ne hai fatto un po’anche per me?
-Vai là, dovrebbe essere ancora caldo…il mio scotta.
-Come mai già alzata?-le domandò prima di allontanarsi.
-Ho dimenticato di prendere i sonniferi ieri sera. Non sono riuscita a chiudere occhio…tra te e i tuoni…
-Oh, sempre a lamentarsi, mica russo forte!
-Ho incontrato Paula due volte in bagno, e si è lamentata del tuo concerto.
-Mah, anche lei ha il sonno troppo leggero-tirò su col naso.
L’uomo infilò il dito nel piccolo manico della tazza e barcollando arrivò a mettersi nella stessa posizione della sua compagna. Toccò con la punta della lingua l’orlo del caffè. Sì, ci voleva ancora un bel paio di minuti.
-Che c’è di bello stamattina?
-Niente, di particolare. Solo qualche innocua rapina in banca, sondaggi delle partite e un tizio che dice di aver inventato un nuovo tipo di forchetta.
-Dice niente delle quotazioni in Borsa?
-La Borsa? Deve essere fra quelle ancora tutte inzuppate-gli indicò il termosifone.
-Adesso è nata la mania di lavare anche i quotidiani?-rise con una manata sul tavolo.
Wendy sollevò lentamente la testa dall’ultimo paragrafo che aveva adocchiato-Visto? Bella vita per chi ha il sonno pesante.
Gli picchiettò teneramente la mano con la bocca semiaperta. A Finley ricordò tanto quando l’aveva conosciuta, perché era stato lui, proprio lui, a picchiettarle in quel modo la mano sul bancone del locale. E la manina sinistra pallida e tremante di Wendy era rimasta la stessa, in ogni minimo particolare. Già, la stessa.
-Ma hai sentito che parlavo di tuoni o sbaglio? Manda giù il caffè, ti farà bene-gli sorrise.
-Tuoni?
In effetti la sua testa elaborò inconsciamente che era stato un rombo nel muro a svegliarlo, che la luce della cucina era accesa e le finestre erano completamente sbarrate.
-C’è un temporale?-chiese a quel punto a se stesso.
-Un brutto acquazzone più che altro. La strada sembra allagata.
-Proprio oggi? Miseria…cancelleranno la partita-sbarrò gli occhi-chissà quando la rimandano…male, le cose ci vanno proprio male, di male in peggio. Dio, quanto vanno male…
Wendy non osò aprir bocca, se non per sorseggiare una goccia insignificante in fondo alla tazza.
Certo, a cosa dobbiamo pensare di prima mattina? Al football, che altro? Forse aveva scommesso una settimana prima, quando quella pila di fogli non esisteva, dato che era ben un uomo previdente da non rischiare di compromettersi. Ma cosa ne poteva lei? Non poteva mettersi contro la Provvidenza che mandava un’alluvione in piena regola!
Intanto Finley si era avvicinato al termosifone e aveva tirato via un pezzo di pagina di economia che si era staccato come un pezzo di burro.
-Dio, che odio!-lo gettò a terra con forza.
Non so se bisogna ringraziare per quel gesto la caffeina, la montagna di scartoffie o il temporale(o tutti e tre più un pessimo umore), sta di fatto che in quel momento Paula si svegliò. Era sommersa dai suoi stessi capelli nel bel mezzo del cuscino. Anche lei aveva avuto la sua dose di incubi, ma erano tutti legati alla scuola e chissà come il suo cervello realizzò subito che era vacanza, quindi non c’era da preoccuparsene affatto. Se proprio voleva preoccuparsi, il suo orecchio cadeva ad ascoltare le conversazioni che arrivavano dalla cucina. Cominciò a camminare scalza per il corridoio, perché chissà in quale angolo maledetto aveva dimenticato le ciabatte, e tastava ogni due passi il punto in cui passava il tubo del riscaldamento sotto il pavimento. Poi se ne restava qualche secondo in equilibrio su un rettangolino di piastrella per non ridurre i piedi a ghiaccioli.
Così mano a mano intercettava le discussioni dei suoi genitori. Voleva godersi quell’attimo di spionaggio fino al momento in cui avesse urtato contro qualcosa. Essere maldestri e avere una madre che ama i soprammobili di porcellana crea non pochi problemi. “Scusate, io sono sveglia, volevo sentire cosa dicevate in segreto, quindi voi continuate pure a parlare come se non ci fossi. Io sto qui ad ascoltarvi, ma davvero non consideratemi”. Quasi meglio che sentire a malapena due frasi e salutare un altro degli elefantini del set sei elefantini. Va beh, così rimangono solo in due e fanno la coppia.
Le venne anche uno scatto di risa pensando a quella assurda entrata in cucina. E le risate, si sa, sono difficilissime da trattenere. Vorresti respirare, urlare e spalancare la bocca, ma non devi fare rumore, e ti metti a singhiozzare in un modo così divertente che peggiori solo la situazione.
Di suo padre, tra colpo e l’altro, capì solo che era arrabbiato.
-Strage…disastro…che diavolo…come ne usciamo-ripeteva e poi un “Wendy, Wendy, Wendy” che manco l’intero romanzo di Peter Pan ne aveva tanti.
Di sua madre arrivavano solo suoni gutturali, quelli di chi non sa come rispondere.
-Capisci? Qui ci si gioca tutto…noi…noi pure…tra poco avrà(fatto?detto?) tutti quanti e cadiamo, Wendy, cadiamo.
Quelle parole evocavano l’immagine sinistra di una casa che crolla. Forse la loro.
Altro la ragazza non sentì, perché il telefono all’entrata prese a squillare e dovette fare un passo indietro, entrando nel bagno.
-Oh, buongiorno-le parlò il gabinetto.
Così Joseph rovinò tutta la copertura, la portò in cucina e le preparò la colazione mentre i genitori erano fermi immobili sulle sedie a stirare le pagine del giornale in via di asciugarsi. Piove, le venne in mente. Di nuovo. Non si può stare due ore al sole che ricomincia daccapo.
-Oh, piccolo, cosa hai fatto a quei poveri occhi?-si voltò Wendy ad un tratto, coprendosi la bocca con una mano.
Paula gli sorrise-Devi smetterla di studiare di notte…specialmente dopo il sabato sera.
“Sabato?” mi direte. Beh, sì siamo già a domenica. Vi interessa forse sapere cosa successe quel sabato? A parte la pioggia, una partita cancellata e nuove lacrime di gioia, fu di una noia mortale.
C’è da dire che il signor Stuart si era quasi mangiato una mano quando aveva scostato le tende e aveva realizzato in pochi istanti che la partita di football che lui aspettava veniva lavata via da un acquazzone. Durante il pomeriggio non potè apparire più teso e nervoso, tanto che mandò giù una decina delle tisane di Wendy, amare, perché la testa era da un’altra parte e non poteva ricordarsi dello zucchero.
Poi il signor Wimby aveva bussato(stupido campanello!) alla porta e aveva annunciato che rimandavano la partita al giorno seguente. Così Finley aveva ripreso a respirare normalmente e ad abusare della zuccheriera.
Con o senza partita, il Minta’s Diner era rimasto chiuso. Probabilmente Minta si era ritirata nel suo periodico “momento creativo” e presto o tardi avrebbe proposto a Paula qualche nuova leccornia(nel migliore dei casi) da assaggiare. In effetti quella domenica mattina dall’altra parte della cornetta, Wendy aveva intuito nella sua voce un che di euforico, impaziente.
-Chiama la tua bambina, dille che oggi ho bisogno di lei, mattino, pomeriggio e sera!
Poi una risata tossicchiata e un bip.
Lasciata la bici rossa a gocciolare tutta sola a fianco del garage, Paula si incamminò a piedi per la via principale. Ora che non poteva pedalare, era costretta a guardare anche solo per un attimo case, palazzi, lampioni, pezzi di città su cui mai si sarebbe soffermata, altrimenti il lampione le sarebbe arrivato dritto in testa.
L’ombrello le volava rovinosamente indietro, mentre le scarpe scivolosamente avanti.
Salutò due signore amiche di sua madre mentre ancora stava timonando il manico per schivare il vento, qualche isolato prima che le volasse via il riparo.
Quando aprì la porta del ristorante, ovviamente bagnata fradicia con le scarpe rumorose come uno stormo di anatre, ripensò ai secondi in cui era rimasta ferma a guardare instupidita il manico di legno rimastogli in mano. Addio, ombrello. Correva sull’asfalto bagnato troppo in fretta per essere preso.
-Santo Cielo, bambina mia, sei andata a farti la doccia sotto una grondaia?
Era con Minta, giusto con lei, quando aveva avuto la meravigliosa idea di guardare da vicino lo scarico del tubo del giardino. I suoi quattro anni le permettevano, da seduta, un perfetto getto d’acqua piovana in faccia. Probabilmente la sgridata e la sculacciata di sua madre le avevano impresso nella testa che la pioggia era uno dei peggiori mali nel mondo, dopo la guerra, la fame, le malattie e le scommesse perse.
Oddio. Della scommessa fatta a Tyler si era quasi totalmente scordata. Non era ancora riuscita a parlare con suo padre dell’evidente disagio famigliare di cui tutti tranne lei erano al corrente. Joseph aveva ancora una puntina di ansia dopo aver ritrovato Hunter, il che non riguardava affatto la sua salute, visto che i parametri medici dicevano che stava benone. Se qualcosa non andava, lei poteva essere utile. Volevano tutti aspettare che glielo dicesse Tyler? Dicesse, cosa, poi? “Guerra, fame, malattie, o scommesse perse?” ripetè l’elenco “Ok, calmiamoci, pensiamo a Tyler”.
Le venne un brivido di disgusto. Era già domenica. Due giorni dopo il venerdì.
-Ho perso l’ombrello.
Grosso. Ombrello. Rosso. A pallini. Perso non era proprio l’espressione migliore.
-Mi è scappato mentre camminavo. Non è stagione di tornado, vero?-scherzò.
Minta le tirò via il cappotto dal colletto-Vai ad infilarti la maglia di riserva. Ti metto nel forno questo.
E sappiate che lo fece davvero.
-Odio la pioggia.
-Ma che dici, la pioggia è un bene per noi. Beh, se non sei d’accordo, lo è per me.
-E cosa ci trovi di bello nella pioggia?
-Boh, l’erba bagnata, starsene al caldo mentre fuori viene giù il cielo…oh, la pioggia è una benedizione per i ristoranti!
-Hanno cancellato la partita, verranno tutti qui.
-Ma guardala qui! Parla come suo padre! Vieni qua signorina, senti bene-la tirò- ricordati che quando piove la gente non fa altro che cercare un riparo, e le persone preferiscono di gran lunga i posti riparati, caldi e dove sono in grado di riempirsi lo stomaco per bene. La gente lo fa coi ristoranti e tu devi farlo con i ragazzi.
Paula sbuffò sorridendo-Dai, smettila.
-Non smetto, perché ho paura che tu finisca in grossi guai nella tua vita.
-Come mio padre?
La donna si ritrasse contro il bancone.
-Non mi piace questa storia della scommessa…lo so, lo so che ti ho stressato, ma non smetto di pensare che quel ragazzo stia facendo un dispetto sia a te che al poveretto che gliel’ha chiesta. Le scommesse non sono buona cosa. Ecco, cosa non devi fare. Tu non sei come tuo padre.
-So che lui scommetteva, ma alla fine non gli è andata poi male.
-Già-rise amara l’altra-ha scommesso su un bel po’ di cose e poi se l’è viste sfumare davanti. Come il brodo che si annacqua. Guarda qui-le indicò la pentola.
Alla ragazza spuntò una domanda che non si sa come sembrava c’entrasse qualcosa.
-Minta, papà ha scommesso ancora?
Ci fu un solo istante di mento corrucciato prima che si sentisse la porta sbattere.
-Salve-pronunciò una voce incredibilmente monotona.
-Benvenuti-sorrise Minta-fai accomodare i signori, Paula.
La cameriera imbarazzata fece cenno alla ragazza che si appendeva affettuosa al braccio di Dirk.
-Prego. Vi porto subito i menu-disse cordiale.
Cambiò decisamente tono, poco dopo.
-Ma che novità è? Facciamo pure accoglienza all’entrata ora?-aveva urlato bisbigliando.
-Ti serviva un aiuto per rompere il ghiaccio…-le tirò una gomitatina affettuosa.
-No, ti prego, così peggiori le cose.
-Scherzi? L’unico tizio nell’intero pianeta che attira la tua attenzione, e io non faccio nulla?
-Esatto, nulla. A parte darmi il menu per i nostri nuovi clienti.
I due uomini che erano già dentro, nessuno li degnò di uno sguardo. Erano già stati serviti di una colazione abbondante e fortunatamente non necessitavano d’altro. Ma Dirk al mattino non si presentava mai. E che? Dargli il bicchiere di metà pomeriggio? E la sua ragazza pareva una difficile da accontentare.
-Chiedi se vogliono assaggiare la mia specialità. E cerca di non fare facce disgustate.
-Credo che sia gente a cui dare cose assolutamente scontate.
-Nessuno sconto! Vai ora-rise la donna, spingendola.
Paula si diresse verso di loro con una finta, pessima disinvoltura. Porse secca i due cartoncini lilla sul tavolo e raccolse le mani davanti al grembiule.
-Grazie-le si rivolse la ragazza seduta.
Non era esattamente un tipo grazioso. Aveva un sorriso smorto, che non riusciva ad illuminarle il viso. Anche perché in mezzo al cardigan di ogni tonalità esistente tra il porpora e il grigio, si formava un corpo esile e tremante. Andando avanti Paula scoprì che quello era il suo modo per esprimere gioia ed eccitazione, ma al momento la cameriera pensava soltanto alla finestra ancora da chiudere per non farla morire di freddo.
-Se per caso non sapete cosa scegliere, c’è pur sempre da provare la specialità del giorno…
-Ah, io prendo la brioche con il prosciutto e formaggio. E una tonica. Hattie?
-Io credo che studierò ancora un attimo il menu.
Il tono era quello da “per favore vattene e lasciami stare”.
Dirk a sorpresa però rilanciò uno da “rimani, dai rimani”.
-Guarda che Paula non ha tutto il tempo.
Wow, ancora più sorprendente. Sapeva il suo nome.
-Allora prendo anche io lo stesso. Ma la tonica no, meglio la spremuta.
-Certo, arrivo subito.
E subito fu subito. Le bevande erano pronte prima ancora che i due riattaccassero bottone. Appena servita, la ragazza si diresse verso il bagno. A Paula la cosa disturbò non proprio poco, dato che scattò in piedi nel momento esatto in cui lei era a un passo dal tavolo per porgere le cannucce.
-Ci vogliono cinque minuti per il resto.
-Non preoccuparti. Almeno ho tempo di parlarti.
Parlarmi, oddio, pensò lei. “Vuole parlarmi. Minta sta cucinando. I due signori guardano fuori dalla finestra. La ragazza è in bagno. Siamo soli e lui mi vuole parlare”. Le guance iniziarono a bruciarle. Che imbarazzo, l’imbarazzo.
-Tyler vuole avvertirti che vi vedrete mercoledì alle quattro qui al locale. Ha detto che devi esserci.
Dirk aveva sempre il solito sguardo ombroso, eppure i suoi occhi castani scuri da vicino parevano incredibilmente delicati e vivi. E annuiva mentre parlava, facendo annuire anche lei. Aveva impegni mercoledì? Forse sì, ma non voleva deluderlo. Tyler? E chi ci pensava a quello lì?
-No, no, ci sarò di certo.
-Bene, speravo che Hattie non sentisse la conversazione. La fortuna torna a girare dalla mia parte oggi.
-Scusa…Derrick…-no, non era suo amico intimo, lei non poteva usare il soprannome-non è stata male, vero?
-No, è che entrata qui dentro praticamente solo per quello-rise tossendo il ragazzo-e poi manco ha toccato il bicchiere. Si sa, le ragazze ci mettono secoli a bere un solo bicchiere.
-Ho visto mio fratello rischiare una congestione una volta e da allora bevo un sorso alla volta se riesco a ricordarmene.
Era incredibile. Eppure succede più di quanto ci sembri. A volte per rompere il ghiaccio tiriamo fuori storielle che puntano sul personale. Come se sforzandoci facessimo più del dovuto. Sinceramente Dirk poteva anche girarsi dall’altra parte, ma rimase fermo ad ascoltare, sorridendo. Anche lui quando sorrideva tirava fuori fin troppo, e dava vita ad uno strano ghigno maligno. Sembrava che la sua ragazza la volesse squartare.
-Fatto-riapparì l’altra, lisciandosi la gonna scozzese-che succede? Qualche problema?
In effetti c’era una cameriera dalle guance arrossate che stava ritta con il vassoio completamente vuoto.
-Nulla, sto aspettando che sia pronto.
-Già, Hattie, stavo solo parlando.
Di cosa? Classica domanda da persona gelosa.
-Sai, Paula qui è la ragazza di un mio amico, Tyler Philips, conosci?
-Sì certo, me ne hanno parlato.
Dirk apparì sinceramente poco sorpreso della cosa. Lo dava per scontato che lo conoscesse. Era il futuro imperatore di quella città e lui, modestamente, era il suo braccio destro.
-Oh, beh. Scusa Hattie. Paula, questa è mia cugina.
-L’avevo capito, piacere.
“L’avevo capito”? Da cosa? Ma perché non le era rimasto in bocca? Adesso che spiegare? Altro che intelligenza, qui non dimostrava un bel niente in quanto a cervello! Stava dicendo che quei due si somigliassero? Beh, Hattie era leggermente inquietante e la cosa le suonava come una critica al povero ragazzo. L’aveva capito da cosa si dicevano? Ben arguito, pure un’impicciona che ascolta i discorsi degli altri.
-Piacere, Hattania Rogers-le strinse la mano con un mezzo inchino. Forse non sentì né la strana risposta di Paula né il ronzio dei suoi pensieri, tutta presa in quella riverenza.
-Oh, davvero? Vivi qui vicino?
Le era balenata l’assurda idea in testa che la ragazza fosse la figlia dell’infermiera di due sere prima. Insomma il mondo è piccolo, cioè Borderlake è piccola e al massimo i cognomi si ripetono un paio di volte per ogni generazione. La ragazza un po’ bruttina era quella che si doveva sposare. Giovane. E decisamente poco aggraziata rispetto alla madre. Difficile eguagliare una visione tanto accattivante. Non ce n’era neanche la metà di quella Diane.
Chissà perché, ma quando pensò a Hattania in abito da sposa, ripensò al fatto che era soltanto la cugina di Dirk. La cugina, Paula! Non la fidanzata! Oddio! Contieniti, contieniti.
Per l’entusiasmo trattenne a fatica il vassoio quando ritornò al tavolo. Si fermò qualche istante lì accanto con due paia di occhi a chiedersi cosa volesse.
-Conosco-(parlare una serata intera sulle vaccinazioni in un drive-in poteva benissimo essere un “ conoscersi”)-una Rogers, una certa Diane, un’infermiera…
-Davvero? La zia Dee?-la interruppe secca Hattie.
Da come lo disse sembrò che avesse nominato una criminale. Una dispersa. Un fantasma. No, Santo Cielo. Aveva solo nominato la zia. La zia!
Niente, qualcuno aveva staccato la spina del suo cervello.
Dirk con la bocca piena fece cenno di tacere.
-Oh, bene. E’ davvero una santa, lei.
Argomento morto. Lasciamoli mangiare. Lasciamoli finire. Lasciamoli pagare(sarà meglio). Lasciamoli andare. Lasciamoli partire sotto quel cielo grigio cenere.
-Allora, che vi siete detti tu e il tipo interessante?
-Ha solo posticipato il giorno in cui devo fare la carina con Tyler.
-Ti vuole tutta per lui, eh?
-Minta!
-Che credevi? Che gli piacesse quella tipetta coi capelli flosci?
-No, quello no, è sua cugina. Anche io pensavo che i capelli fossero flosci-sorrise Paula, pulendo il bicchiere, quello di Dirk, ovviamente.
-Guarda qui, ne ha bevuta metà. Che tipa, non mi sorprende fosse la metà di te.
-O io fossi il doppio di lei.
-E’ uguale.
-No, cambia la persona a cui fai il complimento-schioccò la lingua la ragazza.
-A chi credi che io faccia complimenti? Quale razza di persona sul pianeta non vorrebbe la mia bambina, bella come il sole, lei, guarda che sorriso, guarda che sorriso!-la strattonò soffocandola in un abbraccio.
Poi si bloccò.
-Ehi, mica pensi che gli piaccia la cugina?
-No, certo che no.
-Direi, non ha un che di fascino. Potrebbe piacere ad Ernie, che dici?
-Povero Ernie-esclamò lei-Lo sai, ho conosciuto la zia neanche due giorni fa. Non ti sembra forte incontrare due parenti con lo stesso nome in così poco tempo?
-Io incrocio spesso te e tuo fratello-rise l’altra.
-Intendo- sbuffò- due sconosciute…e poi così diverse.
-Beh, prima o poi la suocera la dovevi incontrare, tesoro.
Paula la guardò di storto. E che c’entrava?
-Che è quella faccia? Hai detto cugina, zia…penso intendessi la madre di Derrick.-tornò a controllare la pentola sul fuoco.
-La madre di Derrick?
-Sì, l’infermiera. Hai detto che l’hai vista, no?
-Aspetta, l’infermiera è la madre di Dirk?
-E che ti aspettavi? Cos’hai in quella testa? Sei ben distratta, signorinella.
Non ci stava, non ci stava che Minta ci arrivasse prima di lei. Era lei ad aver parlato con Dirk, era lei che avrebbe dovuto capirlo e poi spiegarlo alla sua madrina. Sembrava che con quella frase che conoscesse il ragazzo più di lei. Cioè, era gelosa di una che poteva essere sua madre, con un ragazzo che aveva la sua stessa età.
-Hattie avrà tante zie, mica solo la madre di Dirk.
-Come si chiama? Come si chiama la zia? L’infermiera?
-Diane.
-Diane Rogers. Appunto. La madre di Dirk.
-Mio Dio, tu la conosci?-sbarrò gli occhi.
-Sì, mi ha fatto un paio di prelievi.
-Tu conosci la madre di Dirk?!
-Sì, ti ho detto. E mi ha anche fatto passare la paura degli aghi. Pazzesco.
-Tu conosci la madre di Dirk-si passò la mano sulla faccia.
-Sì, ne hai ancora per molto?-le sorrise.
-Tu la conosci e non me l’hai mai detto?
-Ma Paula, mica mi vieni a chiedere come sono andati gli esami del sangue e io la tiro in questione. Insomma, credevo conoscessi vita, morte e miracoli di giovanotto tal dei tali.
-Magari…Dio Mio, che figura ci ho fatto…-si grattò la fronte.
-Oh, quante storie. Ci sono ragazze che sanno fino alla taglia di scarpe, e tu ti lamenti di non essere una ficcanaso? Pensaci. Il tipo ha capito che tu lo lasci respirare, che vuoi soltanto vederlo qui tutti i giorni e non hai bisogno di altro per sentirlo vicino…
-Minta.
-Sì?
-I ragazzi non pensano certe cose. Forse non pensano. So solo che se la starà ridendo con la cuginetta. Ci sarà mai una persona con cui riuscirò a fare bella figura? Dovrò sempre trovarmi schiacciata così?
-Umpf. Mi fai ricordare quando presi sotto tuo padre con la bici. Manco sapevo che era il fidanzato della mia amica. L’ho insultato fino a che le orecchie mi fischiavano e poi mi sono accorta che sotto l’impermeabile vicino c’era tua madre. Vedi? Può essere figura peggiore?
-Guarda a caso pioveva, vero?
-Sì.
-E’ sempre la pioggia.
-La piccola Finley-le scompigliò i capelli- vieni, ti faccio assaggiare la specialità del giorno. Visto che ora non c’è nessuno, la propongo per pranzo. Rimani qui fino alle sette, no?
-Sì, ho già studiato ieri, e bene.
-Brava. Adesso seguimi.
Chissà dove la teneva la specialità del giorno. Fuori sul piano cucina sbucava soltanto il piccolo forno di emergenza con la sua giacca che spuntava per una manica, e la grossa pentola con la zuppa della vita di suo padre, che sfumava e si annacquava.
-Ce l’ho in casa, sopra il tavolo. Hai voglia di andare su?
Il caseggiato del ristorante era il residuo di una casa di macellaio. Minta abitava nella casa di questo macellaio, sul retro del suo stesso ristorante, nella parte di edificio che spuntava dall’alto, offrendo al pubblico l’unico muro dipinto(era quello a catturare l’attenzione). Aveva una rampa di scale breve dai gradini altissimi, tali da piantarsi le ginocchia nei fianchi a salire. La porta non c’era, al legno duro si sostituiva una morbida tenda a girasoli.
La ragazza vide subito la ben lucida teglia bianca di porcellana che in mezzo a scatole di farina, dormiva tranquilla sulla tavola della piccola cucina. Pesava abbastanza. Cavolo. Se non fosse piaciuta, l’avrebbero divisa a metà. Metà di macigno è comunque mezzo macigno.
-Prepara la forchetta.
Paula le bloccò il coperchio.
-Minta, facciamo un patto?
-Oh, e basta con ste scommesse e patti!
-Vuoi che assaggi?-la minacciò.
-Sentiamo-si arrese la madrina.
-Tu hai parlato con la mamma, giusto? Quindi sai cosa sta succedendo a papà. Ti prego dimmi che succede. Mi dà fastidio vedere questa diffidenza, tutto intorno. Vorrei che almeno smettesse questo nascondere i discorsi. Se è una cosa brutta, preferisco sentirla, che soltanto immaginarmela.
La donna lentamente spostò la teglia verso di sé, trascinandola sul piano. Respirò.
-Non ti siamo nascondendo nulla, piccola. Sai com’è fatta la vita, certe cose ci stressano anche se sono insignificanti. Tua madre è stressata per le nuove lezioni, tuo fratello per la scuola e tuo padre per la scuola di tuo fratello e gli studi che deve pagare a te. Oltre al solito problema col suo avvocato, sai, il solito. Ma perché ti dico questo?
Paula scosse la testa.
-Ti prego, vorrei solo la verità. Almeno tu.
-Sai, Paula, è difficile da spiegare.
-Le mie celluline grigie si sforzeranno di capire.
Minta guardò il piazzale oltre le vetrate, cercando un cliente che la sviasse.
-Paula, ti piace davvero Derrick?
-Che c’entra?
-Dimmi, è l’unico del gruppo a starti simpatico?
-Beh sì. Ma...
-Ne sono felice. Credo che sia il meno peggio. So che sua madre è una persona perbene. Fin troppo loquace ed espansiva- sorrise-ma perbene.
-E…?
-I teppisti che vengono qui ogni giorno, oltre a lui...devi startene il più lontano possibile.
-Quando li servo mi sforzo già abbastanza.
-Lo so, ma devi davvero fare attenzione. Specialmente al tuo caro collega, Tyler Philips.
-Lo faccio sempre, va bene. Sono tutti preoccupati che io finisca con Tyler? Cavolo. Mica l’avrà detto in giro che lui è il mio fidanzato? Adesso chissà cosa diranno a scuola, diamine…
-No-le poggiò una mano sulla spalla-Tyler Philips lo vogliamo tutti proprio fuori da questa città.
-Ma allora cosa succede a papà? Anzi, oserei dire ad un bel gruppo, a questo punto.
-E’ il padre di Tyler, Paula. Il signor Philips.
-Quello del cinema?
-Quello del cinema, della radio, del supermercato, delle linee telefoniche, dell’aria che respiriamo, tesoro. Lo sai che ci sta comprando tutti, vero?
-Cosa?
-I suoi prestiti hanno tassi d’interesse che schizza altissimo dopo solo qualche mese e finiamo tutti per cedergli parte delle proprietà.
La donna dette due pacche al bancone come se fosse un bimbo in lacrime.
-E poi dopo un anno o due, dove il signor Philips è passato capita un incidente e la polizia stabilisce sempre che sono i proprietari legittimi a frodare l’assicurazione per prendersi i soldi e mandare al diavolo le sue percentuali. Invece sono sempre gli uomini del signor Philips a fare il lavoro gratuitamente.
-E se la cava sempre, come?
-Comprando la polizia, ecco come.
-Ne sei sicura?
-Cosa? Lo sanno tutti in città. Ma che vuoi, nessuno parla, troppa paura. Neanche la legge è più legge, non c’è giustizia, e figuriamoci io, che sono detestata da mezza città.
-Certo, un uomo così non può che diffondere razzismo.
-Oh, tesoro, fosse quello. Devo cucirmi la bocca per quello che ho chiesto di fare.
-Che intendi?
-Beh, io sono l’unica a poter dare ragione alla polizia. La mia lavanderia non è andata distrutta per colpa di quel bastardo. O almeno, non direttamente.
Paula sobbalzò alla parolaccia inaspettata. Ma sì, non c’era altra definizione.
-E’ stata una mia idea. Ho detto a tuo padre di bruciarla mentre ero partita per la California. Avevo un alibi schiacciante e ovviamente il signor Philips non poteva dire a tutta la polizia che lui non aveva comandato niente. Sai, di tanto in tanto ci sono degli infiltrati onesti che poi marciscono nella corruzione.
-Mio padre? Ne è capace di simulare un incendio?
-Te l’ho detto, Philips mica ha commentato il fatto. Era palese che l’incendio fosse colposo, ma io ero fuori città da una settimana. Tuo padre di certo ha trovato il modo di non lasciare tracce. Ma il caro Vynil Philips non si è mai bevuto la mia innocenza. Il Minta’s Diner ora, come la lavanderia, è comunque per metà suo.
-Minta, mi dispiace-le prese la manica rosa.
-No, a me dispiace. Dispiace che Vynil possa pensare che tuo padre sia un mio complice. Sta alzando gli interessi all’officina. Se continua così lo rovinerà. Manda suo figlio ad importunare te per dargli fastidio. Un padre che si vede toccare la propria bambina! Non voglio che ti faccia del male, o che lo faccia a tua madre. Sì, anche lei, ha già i suoi problemi. Gliel’avevo detto di non insistere, che doveva starne lontano per difendere Wendy, ma lui niente, ha voluto fare l’eroe e aiutarmi.
-Testardo, lo so, ma fare l’eroe…
-Tuo papà è scorbutico come sei bicchieri di limone mandato giù in gola, ma è anche un uomo giusto, che non ammette scorrettezze. Forse non accettava subito l’incidente all’inizio, ma poi ha cambiato idea quando ha saputo che Vynil mi metteva anche le mani addosso.
Paula strinse i pugni ansimando.
-Vedi, piccola. Sei come tuo padre. Cuore grande, pugni piccoli. Calmati, non pensarci. Troveremo una soluzione.
-E io posso aiutare?
-No, nessun guaio. Tu stai in mezzo alla nuova generazione di corrotti, li servi ai tavoli, ci fai le ricerche di storia insieme. A volte non avere troppi amici, ti serve. Sei giovane, tra giovani. Tutti azzardati. Siete più forti di noi, ma troppo deboli per loro. Se anche qualche giovane in questa città ti dicesse nulla, tu nega, hai capito?
-Certo.
-Nessun giovane dovrà parlarti di questa roba, e tu a tua volta non lo farai con loro.
In quel momento si videro chiaramente gli Angeli del Destino fremere con le loro ali sinuose, scrutando lo spettacolo che si offriva loro.
 In un ristorante di Borderlake, a scoperchiare forse la peggior poltiglia della sua vita, Paula Stuart aveva la risposta. Aveva la più chiara immagine della sua città mai avuta. Ma era triste, perché i suoi cari soffrivano, e nessuno faceva la domanda a cui lei poteva rispondere.
Sulla strada fangosa che costeggiava il lago, arrivando da Southbay, una Mustang nera tracciava due scie nette di pneumatico. Fosse stata polverosa col bel tempo, non si sarebbe notato, tra la nuvola che avrebbe alzato, il fumo di una sigaretta dal finestrino del guidatore.
Le foglie volavano e si appiccicavano al parabrezza. Samuel Chastain, alla guida, cercava di non notarle per non distrarsi. Già non ci vedeva un tubo per colpa della pioggia. Vedeva solo chiaro nella sua testa.
Spuntò il cartello di Borderlake, con il suo discreto numero di abitanti. Doveva fermarsi per togliere quelle foglie. Appena fermato il motore, però, si accoccolò sul sedile. Voleva dormire solo un poco e pensare alla sua situazione.
Aveva una domanda in testa, la domanda giusta. Ma nei suoi pensieri, non riusciva proprio ad immaginarsi chi avrebbe potuto rispondergli. Non riusciva a concentrarsi. Colpa della pioggia. Lui odiava la pioggia.

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Capitolo 4
*** Rassegnàti ***


Per Samuel, l’attesa non fu lunga. Prima che scoccassero le quattro del terzo giorno dal suo primo ingresso in città(biblicamente parlando) aveva incrociato per ben tre volte la stessa identica ragazza. Gli era venuta la strana presunzione che comparisse sempre non per coincidenza, ma per qualche macchinazione. Una ragazza che si mette fra i piedi in quel modo poteva ben lusingarlo. Ma lui non aveva tempo per le ragazze, ci voleva concentrazione, mantenere la calma, molta calma.
Era sicuro che la prima volta lei non l’avesse notato, al buio, in mezzo alla pioggia, e soprattutto ingabbiato in quella macchina, non sua. All’apparenza non sembrava una persona con lo sguardo da lince, e, a giudicare dal passo, ritardava di parecchio il momento di arrivare alla sua meta.
Le altre due volte la scorse soltanto da lontano, e lei non lo vide nemmeno. Non c’era neanche la minima speranza che potesse parlarle. Lui non parlava mai, stava in un angolo ad aspettare le parole d’altri.
Tra questi altri, come avrete capito, c’era anche Paula, che in effetti sguardi da lince non ne aveva, neanche per arrabbiarsi, dato che sbuffava sui capelli come un cavallo. A quel tempo non sapeva nè chi nè cosa facesse questo misterioso individuo; è vero, non sapeva manco esistesse. Ma anche lei, proprio come Samuel, aveva iniziato a scontrarsi con la stessa persona. Da ingenua che era, le sembrò persin normale. E diamine, mica siamo in una metropoli. Sì, fino alla seconda volta.
Quando le cose si fanno tre, e di colpo quattro, e il tre e il quattro non sono una botta che ci si dà per strada, allora decisamente si inizia a credere che qualcosa non vada.
La prima fu normale. Camminava a lunghi passi nel cortiletto, aspettando la campanella, ripetendo mentalmente la divertente colonna dei gas nobili, quando aveva visto una di quelle scene da film: il ragazzo alto, sorridente e con un ego grosso come una casa, che apre la portiera della sua macchina appena parcheggiata alla first lady di turno. La saluta con un bacio(sulla guancia? Strano.), continua a sventolare la mano all’aria mentre lei si allontana e appoggia il gomito alla carrozzeria quando lei si gira per l’ultima volta.
Nulla di strano. Ci sono a bizzeffe liceali che amano la compagnia di giovinotti appena usciti dall’inferno della scuola, e liberi di andare e venire dai college. Di certo quel tipo era da college, perché, nonostante di macchine non ne capisse un caspio, la sua le sembrava lucida da copertina. Quindi lei non poteva sapere che su quel sedile aveva posato il suo posteriore il caro Samuel, e che a malincuore aveva dovuto scollarlo di lì, per restituirla al suo legittimo proprietario.
Nella classe di letteratura aveva di nuovo incrociato la first lady. Non che fosse una celebrità internazionale, ma era una tipetta abbastanza popolare. Valerie Grant poteva ancora essere la fidanzata di Tyler. Chissà, mica ci facciamo tutti i fatti suoi. No, lo fa la maggior parte soltanto.
“Vediamo se mi guarda male. Se mi guarda male, sta con Tyler. Magari non sa nemmeno della scommessa e mi vorrebbe ammazzare di invidia. Allora è questo? Sentirsi i piedi ad un metro da terra è avere l’invidia degli altri addosso? Ma che invidia, scema, sei la finta fidanzata di Tyler. Manco tu ti invidieresti da sola.”
Infatti si sentì il fiato sul collo per tutta la giornata.
Perché ovviamente, alle tre in punto di quel lunedì, come da protocollo, la nostra cara ragazzina pedalava lungo il corso prima del viale, e, passando per la via mediana al parco, indovinate chi aveva mezza saliva di Valerie in bocca?
Passò così vicina alla loro panchina restringendo la curva, che entrambi scattarono sbaccaliti sul posto.
“Che figura. Avranno pensato che sia un’impicciona invidiosa” sbuffò, dando un’occhiata al suo grembiule, che era penosamente mezzo penzolante da un lato.
-Dove eravamo?-aveva ripreso subito Valerie, senza pensarci su, ricevendosi un paio di occhi ancora confusi.
“Devo dirlo a Tyler…oppure no?”.
In fondo era carino pensare che lo prendessero in giro. Piccola vendetta, ci sta.
Poi arrivò la terza volta, quella su cui ci fai una risata e ti ripeti  ”Ma possibile?”. Solo che non puoi raccontare a tuo padre, di fronte ad altri estranei, che il giorno prima hai assistito a due stadi dell’accoppiamento umano(i primi, sia ringraziato Iddio) e che di sfuggita hai già visto l’ugola della persona che hai di fronte. Quindi non ridi, deglutisci la situazione e sorridi.
-Si tratta di pochi chilometri, giusto un passaggio, ma ne abbiamo bisogno entro il prossimo fine settimana-ripeteva per la quindicesima volta la signora con la faccia olivastra che si era appena piazzata sulla sedia. Sul posto di Wendy.
-Certo, certo. Se è un problemuccio come un raffreddore può riaverla entro domani. Non ho molto da fare al momento-puntellava i gomiti sul tavolo il signor Stuart.
-Bene, benissimo-aveva appuntato sul suo taccuino-non sa quanto le sia riconoscente. Lei ci ha salvati tutti!
-Spero di accontentarla come previsto. Vuole del caffè?-si alzò lui, arretrando verso la cucina.
Lei si guardò l’orologio pensierosa-Ho ancora sette minuti pieni. Volentieri.
-E lei?
-Volentieri due dita anche io-rispose il giovane di un bel biondo caramello che gli stava accanto, tutto impettito.
Lasciamo perdere che Paula entrò nella sala da pranzo proprio a quella frase e subito non capì. Clienti, tesoro, clienti. Una macchina si era piantata neanche a due isolati da casa loro.
Tanto nella testa della ragazza si era fermata l’immagine di quelle due labbra sottili che sfioravano il servizio di sua madre, rigato da roselline gialle. Il mignolo di quell’intrigante cliente sporgeva quasi distrattamente in fuori. Un gesto così raffinato che una cameriera non poteva che ammirare, e immediatamente riderci dietro. Ma il portamento, il portamento era impeccabile. Mettersi in piedi per quel giovane era come rallentato e guidato da leggerissime mani invisibili.
Quante cose inutili le erano spuntate in testa. Paula realizzò solo dopo che di mignolo, caffè o macchina rotta, nulla le sarebbe mai più importato. E ci arrivò solo quando accompagnò col padre i due ospiti fino al cortile.
Non uno, ben tre ragazzi c’erano ora fermi vicino alla curiosa donna occhialuta e frettolosa: il giovane impettito, Derrick Rogers, con una mano sulla portiera della povera macchina malata. E a due metri era ferma una Mustang(suo padre la illuminò quella sera), particolarmente familiare(e se ne illuminò praticamente subito). Appoggiato al cofano di quel guscio di metallo, c’era l’ormai conosciutissimo sconosciuto.
Persino l’occhiolino di Dirk le sfuggì, presa com’era a fare la faccia più instupidita della storia e fissare quel ragazzo come se chiedesse a sé stessa di lasciar stare le allucinazioni. Dal canto suo lo sconosciuto aveva circa la stessa espressione stampata in faccia. Facevano a turni per guardarsi mentre l’altro si volgeva altrove. Solo per tre, massimo quattro secondi pensarono bene di mandarsi occhiatacce a vicenda direttamente.
Tutto questo per riassumere quel poco che c’è da dire su coincidenze che nella vita capitano sempre e comunque. Magari oltre a questa gente sarà successo anche a voi.
Tuttavia, le circostanze successive furono abbastanza singolari. Sono dopotutto le circostanze che finalmente sperereste di ritrovarvi di fronte. Intendo, volete arrivare subito al momento chiave, il punto di svolta, no? La scommessa vogliamo ancora rimandarla?
Rimandarla? Sarebbe stato divertente combinare qualcos’altro nel mentre, ma Tyler era seriamente preoccupato per la sua cara Valerie. Chissà che brutto momento, vedersi portare via il ragazzo da una sfigata e sostituirlo strategicamente con una sua dolorosa vecchia conoscenza.
Avanti scoprireste comunque che Valerie non pensava nessuna delle due cose. Via il ragazzo viziatello e bentornato ex ragazzo dal bel visetto. Dovrei narrare in ordine? Volevo solo far vedere che Tyler in fondo fu da sempre un cretino, e diciamo che, per ciò che avvenne quel mercoledì, ci sono andata leggera.
Per lui era facile farsi sedere sulle gambe l’agitatissima cameriera del Minta’s. La cameriera del Minta’s invece si era preparata psicologicamente ogni notte, in quasi ogni sogno, ad apparire come una ragazza reale. Figuriamoci, mai avuto un ragazzo. Mai succhiato la faccia ad uno come la first lady al parco. Giusto? Voleva che lo baciasse?
-Sei solo?
-Dovevo venire dalla mia ragazza con un seguito?- si avvicinò al bancone Tyler-Devi iniziare a darti una tirata, perché non ci metteranno molto a fare il giro per arrivare.
Paula non alzò neanche lo sguardo dalle cannucce che stava allestendo nel barattolo.
-Ehi, mi senti? Stanno arrivando.
-E allora?
-E allora? Niente preparativi per andare in scena?
-Beh, mi dai il dovuto?
-Più tardi.
-Allora sono pronta così.
-Bene. Meglio, la normalità è più reale. Con quei capelli sei ancora più simile al resoconto che gli ho fatto.
-Cosa gli hai detto?
Il ragazzo assunse un ghigno decisamente poco promettente.
Entrambi furono attirati da un clacson che suonava oltre le vetrate.
-Già qui?-corse alla porta Tyler.
-Perché, ho interrotto qualcosa di importante, piccioncino?-commentò sorridendo il suo amico. Il “poveretto della scommessa” come l’aveva definito Minta. La donna, attenta in un angolo ai fornelli, si ricredette subito su quella sua opinione.
-Bel posticino. Nuovo immagino-bisbigliò.
-Ha qualche mese. E’ da un po’ che non ti fai vivo da queste parti.
Dietro di loro c’era il corteo del solito gruppetto di amichetti, quindi le procedure per sistemare il palcoscenico della pseudo truffa occuparono due minuti abbondanti. Alla fine, nonostante il sovraffollamento alle loro spalle, i due ragazzi della scommessa erano rimasti uno di fronte all’altro, nel posto direttamente vicino al corridoio fra i tavoli.
-Sei sparito per un po’. Pensavo fossi sepolto sotto quei grossi mattoni che vi danno da studiare.
-Fortunatamente ho potuto incontrarti di nuovo.
-Certo, Cole, ma non sei più quello di una volta. Ti ricordi quando mi facevi ripetizioni di matematica?
-Davvero?
-Mi sa che ti hanno sciupato il cervello, bello mio. Che scuola.
-E mentre io studiavo, tu mi cercavi la ragazza messa peggio della città, quella che nessuno riuscirebbe mai a rimorchiare. E dici di esserci riuscito?
-Eccome. Guarda lì, presuntuoso.
Tyler indicò a linea del bancone come fosse l’orizzonte. Davanti al suo dito indice vide scorrere solo le mensole piene di bicchieri e stoviglie e il viso corrugato della padrona del locale.
L’amico scoppiò a ridere-Ma no, Tyler, io avevo detto chiaramente una giovane!
Il gruppo seguì le risate rivolte ad un cupo, sempre più irritato, capobranco.
-Beh, almeno sul “non bella” ci hai azzeccato...
-Piantala, certo che non è quella decrepita. Minta!
Lei sorrise, quasi. Il bulletto si abbassava al suo livello? Pronunciava il suo nome? Che caro.
-Puoi dire a Paula che sono arrivato! E che faccia veloce, ho amici che la vogliono conoscere!
Praticamente come se tutto lì dentro fosse sempre rose e fiori.
“Se scegli te stessa, non avrai neanche da fingere. Ma che bello sarebbe essere un’altra ragazza per una volta. E se facessi la smorfiosetta? Nah, poi non me ne viene niente in tasca. Vai Paula, cerca di fare più pena del solito.”
Detto questo, uscì dalla porta del retro bancone. Gli occhi al momento ce li aveva inchiodati al suolo, con i capelli che lisci e pettinati le ricadevano perfettamente dritti sulle spalle.
-Paula, vuoi venire un attimo qua, tesoro?!-sentì chiamare subito.
“Calmati. Sii felice. Una ragazza impossibile da rimorchiare.” Il tipo lo aveva appena pronunciato. La sua voce aveva fatto un acuto tale su quell’”impossibile”, che sembrava sottolinearne più volte il significato stesso della parola. Paula non potè leggere quanti altri acuti gli uscirono nella testa non appena fu vicinissima al tavolo sovraffollato. Ma sentì chiaramente gli acuti che uscirono nel suo di cervello.
-Oh, eccolo qua, il mio tesoro.
Le venne un tuffo al cuore quando Tyler le scoccò un velocissimo bacio sulla guancia. Peccato che lei fosse apatica, rigida, imbarazzata. Le venne automatico seguire il movimento verso il basso che le mani del ragazzo le imponevano di fare. Come ho detto, fu facile per Tyler sedersela addosso.
-Posso portarvi qualcosa?
Insomma, era pur sempre una cameriera.
-Tranquilla, volevo solo farti conoscere un mio vecchio amico…Colton, questa è Paula Stuart, la mia ragazza.
E riecco un altro bacetto.
-Piacere-sorrise il ragazzo, mezzo distratto.
-Piacere-cercò di imitarlo lei.
Prima un muretto, poi la bicicletta, poi suo padre. Ora non c’erano più barriere che tenessero. Lo sconosciuto che si presentava da alcuni giorni nella sua vita era con il viso a neanche un metro da lei. I suoi lineamenti le apparivano nitidi e posati, era pronto per entrare nell’archivio mentale delle persone che ormai poteva ritenere di conoscere.
-Ci siamo già incontrati, credo.
Paula sentì Tyler fare un movimento brusco-Ah sì?
-Mi pare…
-Cristo, Cole! E’ la figlia del meccanico che abbiamo incontrato ieri!- balzò alle sue spalle Dirk.
Grazie, Dirk. Un viso conosciuto e leggermente complice. Ci proverai a difenderla?
-Oddio, hai ragione! Me lo stavo completamente scordando. Allora è un piacere incontrarti un’altra volta, Paula.
-Piacere mio.
-Puoi anche portarci qualcosa, ora-si irritò Tyler, spingendola di nuovo in piedi.
-Cosa vorreste?
-Iniziamo con un giro di birre per tutti.
La ragazza annuì, tornando leggermene colorita in volto.
-Ma sei pazzo? Ci arrestano se ci trovano con dell’alcol in mano, non hai mica detto che eri più vecchio?
-Oh, Collie, che ti preoccupi. E’ la mia ragazza, farebbe tutto per me.
Colton appoggiò i gomiti al tavolo, mordendosi il labbro.
-Quindi…tu e lei…insomma, ti darai da fare.
-Avevi detto solo rimorchiare, no?
-Abbiamo due diverse idee del rimorchiare, a quanto pare.
-Non hai specificato quando abbiamo scommesso. Ora ce l’hai davanti agli occhi. La ragazza meno socialmente aperta della città. Puoi andare a chiederlo a chiunque. Se non ci credi, fai un giro in centro ed intervista qualcuno. Meglio a scuola. Lì neanche i professori la vedono.
-Sì, sì, me lo hai già spiegato. Ma se io intendessi secondo la mia idea di rimorchiare? Dici che ce la faresti lo stesso?
Tyler scosse la testa-Nessuno a scuola ha ripreso il coraggio per farsi decentemente una ragazza. Dopo il disastro di Yvette, i ragazzi e le ragazze stanno a metri di distanza. Persino io, col mio potenziale, non riuscirei nemmeno a convincere Valerie.
-Valerie Grant?
-Ecco, sì-si grattò la testa l’altro-sai, anche ora che ci siamo lasciati…lei rimane sempre di più aperti orizzonti rispetto a Paula.
-Ho visto per caso Valerie, e so che senza di te è rimasta un pezzo di marmo.
-Era così anche quando l’hai lasciata per il college. Per fortuna ci sono io.
-Già-schioccò la lingua Colton-Ma Yvette Waters cos’ha combinato?
-Ivette Perkins si chiama, adesso.
-Perkins? Si è messa con Andy Perkins? Sembrava mancasse qualcuno nel gruppo oltre a me.
-Che occhio, vecchio mio!-rise Tyler-In ogni caso, sappi che la tua cara Yvette ormai fa proprio Perkins di cognome. Poco prima che te ne andassi lei e Andy hanno coppato in pieno un appuntamento e lei c’è rimasta fregata. Il padre di Yvette era una furia: ha girato un’intera giornata a cercare Andy andandosene in strada in pigiama.
-Fortuna che l’ultima baionetta delle sue vetrine gli è volata in un tombino mentre inseguiva me. Sempre un simpaticone, il signor Waters. Così adesso Perkins ha messo su famiglia. Chi l’avrebbe mai detto.
-Io no di certo-si inserì Dirk-io avrei scommesso che il primo sarebbe stato Colton.
-Haha, divertente. Avresti perso un bel po’. Tra l’altro, quanto ti devo già?
-Mille, mille tondi.
-Non vado in giro con mille dollari nel portafoglio. Te li do stasera a cena.
-Ottimo.
Dopo tutto quel chiacchierare e quel bere, se ne sarebbero andati. Sarebbe finita lì, con quella decina di birre. Poi era libera, decisamente soddisfatta e fiera di essere sopravvissuta a tutto quella smania di controllo che Tyler possedeva, in eredità probabilmente paterna. La aspettavano duecentocinquanta bigliettoni per quello sporco lavoro.
-Minta?
-Sì?
-Ho lavato i cucchiai insieme al resto.
-Sei stata brava, ho visto-le sorrideva la donna.
-E allora, perché stai usando un coltello per far cuocere il brodo?
Minta tossì-Santo Cielo, non me ne ero accorta! Da quant’è che lo hai visto?
-Neanche cinque minuti.
-Quando eri “seduta” là con quelli?
-Sì, ti ho visto benissimo, ma non riuscivo a capire cosa c’era di strano. Avevo l’alito di Tyler troppo vicino.
La padrona diede un accenno di risata e ripartì a canticchiare, rigirando la lunga lama nella pentola bollente. “Che lo vedano bene sto coltello, perdio”.
-Paula-la fermò, puntandogliela contro da lontano -se ti torce un capello, tu non lasciarlo neanche respirare, hai capito?
La ragazza deglutì. Che, voleva mandare tutto all’aria? Era in gioco anche un po’ la vita di casa sua. Ormai in quella storia c’era entrata e al gioco doveva starci.
Si accomodò un’altra volta sulle gambe di Tyler, ad osservare il nuovo arrivato che mandava giù a lunghi sorsi l’intera bottiglia. Erano tutti così presi, che non notarono neppure il viso del loro capobanda avvicinarsi intimamente a quello della cameriera.
-Stuart, che dici, un bacio?-gli bisbigliò nell’orecchio.
-Ti costerà molto più caro-ebbe il coraggio di commentare lei, con un filo di voce.
-Andiamo, cosa ti cambia? Potrebbe essere la tua ultima occasione. Avanti. La tua guardia non sta controllando ora.
-No, non esiste niente di gratuito.
-La mancia di un cameriere non è obbligatoria. Persino quelle signorine del Grace Palace mi hanno offerto qualcosa dalla casa.
Tyler era praticamente incollato alla sua guancia. Si strofinava verso il suo naso, e lei andava a finire sul suo orecchio.
-Prova a rovinare tutto adesso, ragazzina.
La potevano chiamare donna o fanciulla. Lei ne risentiva sempre perché si sentiva sempre un cervello da bambina. Quindi signorina ci stava pure bene come appellativo. Ma la voce di quel ragazzo, il disprezzo che sputava con quella lingua biforcuta che era pronta a tutto pur di baciarla, lo faceva suonare come un aperto insulto.
“Io non voglio baciarlo. Neanche per cento, mille dollari”. Tyler però voleva baciare lei. Non che gli piacesse quella cameriera da quattro soldi; il potere che aveva su di lei, il potere dei soldi, del carattere, del controllo, di tenerla in pugno non volevano lasciarla respirare letteralmente. Probabilmente sarebbe soffocata. Senonchè un orgoglio e un coraggio mai avuto prima la spinsero a dargli un morso netto all’orecchio.
A dire il vero non pensò proprio a quello che stava facendo. Non pensò agli occhi che la stavano guardando. Non pensò purtroppo alle conseguenze che poteva avere un gesto simile.
-Cristo!-aveva urlato Tyler, coprendosi il punto in cui sentiva bruciare con una mano e battendo un pugno sul tavolo con l’altra.
Il suo gruppo si sfilò dalle sedie e si radunò intorno alla cameriera, che era finita per terra di fianco.
-Brutta deficiente! Che diavolo ti è saltato in mente? Eh?
Paula aveva la spalla che pulsava sul pavimento, così freddo da darle un po’ di sollievo.
-Tu, tu, stai lontano tu!-pestò i piedi Minta, portando con sé il mestolo. Lo aveva furbamente sostituito al coltellaccio, prevedendo di arrabbiarsi parecchio.
-Ho detto lontano!-ripetè, chinandosi a fatica per alzare le spalle a Paula-Tutto bene?
-“Tutto bene?”-la prese in giro Tyler.
-Non cercare di sfottere, stai lontano da lei! Non hai un minimo di cavalleria!
-Cavalleria? Stai scherzando, vero? Tu conosci la parola cavalleria?
Minta lasciò andare la ragazza per un attimo, assicurandosi che si reggesse ritta con la schiena.
-Le hai fatto male! Non dovresti neanche permetterti di toccarla!
-Ah, tu sei il mastino che protegge la principessina dagli avventori-battè le mani Tyler-ora capisco, capisco, capisco e prevedo. Che è? Te la vuoi tenere immacolata fino a che non entra in convento?
La donna gli prese inaspettatamente il bavero della giacca nera con uno strattone.
-Vai ad importunare quelle stronzette che girano con te! Gira i tacchi, idiota, e vattene!
-Metti giù quelle sudicie mani! Ragazzi!
I quattro spettatori, compreso Dirk, afferrarono con forza le braccia di Minta che si dimenava.
-Che volete voi?-urlò Tyler alla coppietta che poco prima si stava giusto gustando un gelato in un angolo appartato del locale. L’uomo dava segno di voler intervenire, mentre lei, probabilmente la moglie, lo tratteneva. Al minimo accenno di rimboccarsi le maniche, Tyler lo fulminò.
-Provaci soltanto! Vedi quante ne passi se alzi le mani sui Philips e sui loro amici!
Colton stava lì tranquillo con le braccia incrociate a seguire la scena, quasi annoiato.
-Avete sentito? Mi hai sentito tu, deficiente? Spero che tu e il tuo mastino mi ascoltiate bene! Patirete le pene dell’inferno se continuerete a rovinarmi la festa, siamo intesi?!
In quel momento Paula cercò di alzarsi a fatica.
-Vai al diavolo, Tyler-sussurrò.
-Che dici, signorina?
-Ti ho detto di andartene al diavolo!
Sfilò il mestolo dalla mano bloccata di Minta, che stava proprio dietro di lei e colpì in pieno stomaco il ragazzo. Tyler finì per appoggiarsi a Colton, massaggiandosi la botta.
-Pena. Ecco-cosa-mi-fai -disse spezzato.
-Davvero? Mi pare che tu sia quello malconcio-cercò di riprendersi dalla scarica di adrenalina.
Lui si mise a ridere. Ridere forte. Gli altri non capirono. A parte Colton, anche lui rise forte seguendo l’ilarità del momento.
-Piccola, sai che per l’unica volta nella mia vita stavo provando pietà? “Ma no, no” ho detto a mio padre ”è una ragazzina affidabile, innocente, dolce”. Dio, mio padre riesce sempre a far centro.
Il ragazzo si mise seduto nell’esatto punto di prima, e accavallò le gambe.
-Lo sai-prese tempo-lo sai che finirai male se continui a comportarti come questa pezzente? Ti piace tanto che si sacrifichi per te? Che eroina fallita. Non ti sei accorta dove andrai a parare nella tua vita? Piccola demente, finirai come lei! Io ero in grado di darti una nuova possibilità!
Era tutto dannatamente teatrale. Quasi quasi si poteva credere che Tyler dopo si scusasse, quando l’ospite ci era cascato e aveva goduto di quella scenetta. In effetti Tyler voleva proprio fare quello. Gli insulti ce li aveva lì pronti sulla punta della lingua, ma ora li selezionava apposta per creare un bel dialoghetto da scena. Il fatto che Paula reagisse male ad un’inaspettata accusa era perfetto per guadagnare a pieno titolo i suoi mille dollari. La ragazza impossibile e inattaccabile si mostrava tale.
-Tu sei solo un bambino viziato-alzò di nuovo il mestolo.
Minta intanto usava il labiale per chiedere aiuto alle due statue umane in fondo alla stanza. Chiamate la polizia. Chiamate qualcuno. Fatelo prima che mi liberi e strappi tutti i capelli a quel farabutto. Cavolo, mi tengono bene, però.
-Giuro che se non ti togli da questo posto entro un minuto, puoi star sicuro che ti ammazzo!
-Con un mestolo? Bimba cara, che fantasia-la prese in giro.
-Sei davvero uno stupido!
Le arrivò una spinta dritta al petto che la fece collassare sulle ginocchia di Minta. Sentì quella sensazione alla testa di quando sei sicuro che sia intera, ma il tuo cervello si è ribaltato al contrario. In più, aveva preso una bella botta al sedere.
Allora pianse. Prima qualche rivolo le scese sulle guance, poi fiotti di lacrime iniziarono ad arrossirle gli occhi. Non riusciva più a trattenere i singhiozzi.
-Brutto…!-lo minacciò Minta, spostando con un solo braccio almeno due ragazzi.
Paula rivolse il viso bagnato ai volti che stavano sopra di lei. Distinse chiaramente i profili di Tyler e Colton. Uno annuiva soddisfatto con il mestolo in mano, l’altro non la smetteva più di riderle addosso. Quella risata tra le altre le faceva un male lancinante, tanto quanto il suo singhiozzo suscitava il buonumore nel ragazzo.
-Credo che sia abbastanza. Paula, mi sa che tra noi è finita.
Lei annuì soffiandosi il naso nella manica della maglia. Si era arresa. Aveva pensato a Minta, al locale, ma soprattutto alla sua spalla dolorante. Lei era davvero una nullità. Tyler era la persona più stronza che conoscesse, e proprio per quella sua bravura, seppure in un campo così ignobile, era comunque qualcuno. Lei era nessuno.
Mi chiedo ancora adesso chi le fece sferrare quel colpo. Tutte le persone a cui spezzava le ossa nei suoi pensieri, alla fine si ritrovavano con un sorriso amorevole. Paula non era in grado di fare del male ad una mosca, perché temeva che se lo sarebbe rimproverato per tutta la vita.
Stava diventando un’eroina fallita come suo padre. Caspita, aveva davvero i pugni piccoli.
-Con un mestolo? Siamo poi due furbe-le aveva detto Minta, poco prima di chiudere il locale.
-I mestoli hanno anche loro un po’ di dignità. Tutti sono bravi a minacciare con i coltelli.
-Allora potremmo girare per i vicoli con i mestoli in mano da adesso.
Strano riuscire a scherzare guardandosi i lividi.
-Che cosa succederà ora?
-Oh, secondo me quando a quel tonto passeranno i capricci, manco ci ricorderemo di questo pomeriggio.
-Immagino sia inutile chiederti di chiamare la polizia.
-Immagini bene, tesoro.
Ah, la polizia. Poltriva nei suoi uffici, nuotava nei suoi sporchi soldi, mostrava i suoi distintivi logori e corrotti. Mezzo distretto si riunì quella sera nei salotti grande stile del signor Philips. Che rapina ci poteva mai essere se a sorvegliare la città c’era il timore per quell’uomo dal bel taglio simmetrico e vestito di grigio firmato?
Per l’occasione anche il suo unico erede aveva indossato il completo in tinta con quello paterno, apparendo come una sorta di copia malriuscita.
Ma che razza di salto di scena è questo? Beh, voglio sfruttare quel delizioso clima di tensione e violenza che Tyler ha sollevato, seppure con il carisma e la spavalderia di un ragazzino.
Vynil Philips invece era un uomo fatto e finito. Per lui ogni disputa era un’occasione di affari, per lui ogni secondo che passava doveva in qualche modo brillare come una montagna di monete d’oro, una statua d’oro, insomma qualcosa di incommensurabile. Incommensurabile in denaro, ovviamente. Niente faceva brillare di più la vita che una bella eredità, una bella casa e una bella macchina.
A proposito di casa, doveva essere stato ubriaco l’architetto che gli aveva costruito una villa spaziosa di campagna sopra cui si innestava un altissimo palazzo condominiale stile grattacielo.
Vynil era seduto nel suo ufficio all’ultima finestra di quel torrione, pronto alla sua riunione di ricognizione con i suoi cari amici agenti. Sua moglie era a teatro con la suocera, Tyler se ne stava buono a spiluccare dal lauto buffet destinato agli ospiti. Chissà che non facesse pratica di conversazioni socialmente utili. Era ora che entrasse in società.
No, no, ci stiamo rilassando troppo con questo momento di pace.
Serviva che l’assistente(per Philips il maggiordomo era un clichè da ricchi) lo disturbasse sull’uscio della porta.
-Sì, Hardman, vieni. Credevo fossi già partito stasera.
-Signore, stavo scendendo le scale e ho incontrato questa persona che dice di venire a colloquio con lei.
-Di chi si tratta?-gli offrì una sigaretta il capo.
-Un tipo alto, mezza età-rifiutò con la mano.
-Nome?
-Mi ha mandato di corsa, signore. Non ho fatto in tempo a domandarglielo.
-Dov’è ora?
-Al sesto, signore. La sorveglianza l’ha bloccato solo al piano sesto.-tremò l’assistente, timoroso di una scenata in piena regola.
Il signor Philips fece un leggero balzo dalla poltrona, facendo leva sugli ampi braccioli. Allungò due passi oltre la scrivania e posò la sigaretta nel posacenere.
-Fatelo salire al settimo, chissà che non si voglia unire ai festeggiamenti. Ma fatelo aspettare nel guardaroba.
L’assistente tirò un sospiro di sollievo.
 
-Smettetela di tirare così la tovaglia, mica sono tutti scemi!
-Ehi, pinguinello grigio, cerca di calmarti. Non sei tu quello con il sedere incollato al pavimento-grugnì Dirk, sventolando il lembo di tovaglia che gli copriva la fronte.
-Se volete rimanere qui, vi tocca il pavimento.
-E se dovessimo andare in bagno?-lamentò Grady.
-Santo Cielo, che ragazzine!-riprese Tyler- Vedete di non cacciar fuori la testa qui davanti. Vi ho lasciato spazio dal muro per passare da dietro.
I tre ragazzi lasciarono ricadere la tovaglia e si stesero al pavimento per sbirciare la scena che proprio in quel momento aveva animato la riunione.
-Il signore sta scendendo, ora, ha detto nel guardaroba.
-Beh allora? Se proprio mi voleva da parte poteva tranquillamente chiedermi una conversazione in strada!
-C-c’è un evento in corso, qui-sudava Hardman.
-Io non mi muovo.
-Ma la prego, la prego. I gentiluomini nella sala sono ospiti, non sono affidabili per conversazioni private.
-E allora mi pare il signor Philips avesse un ufficio.
-Non riceve mai nessuno nel suo ufficio. Solo i famigliari salgono fino all’ultimo piano.
La trentina di poliziotti in borghese e piccole autorità si era messa a vociare sulla figura che era comparsa così bruscamente a rompere l’atmosfera. Una maligna aria di superiorità si era alzata non appena avevano scorto l’atteggiamento tutt’altro che pacifico dell’intruso che era balzato sulla soglia. Non un minimo di charme, di autocontrollo, di eleganza. Non si aspettavano uscisse chissà quale sermone dalla sua bocca.
-Diamine, Vynil, ti rendi conto che ci sono in mezzo delle persone? Cose con braccia, gambe, anime, vita?
-Non la metta sul filosofico, siamo ragionevoli.
-Uh, Vynil, non è il caso di irrigidirsi tanto per due persone che ci guardano! Scommetto che loro neanche sanno di cosa stai facendo!
-E cosa starei facendo?-aprì le braccia verso la sala, mentre i suoi compari gli sorridevano complici.
-Avanti, Finley, cosa sto facendo?-sussurrò sporgendosi sul suo viso.
Era sulle punte dei piedi. Non poteva mai misurarsi con la folla in quanto ad altezza. E adesso la cosa lo stava umiliando ancor di più. Ma erano tutti contro uno. Non poteva perdere. Erano definitivamente fuori dal guardaroba e completamente dentro il ricevimento.
-Le scommesse sono scommesse. Ora lei lavora per me. Avanti, non fare…insomma non faccia la vittima. Chieda ad Hardman come si sta bene con me.
-Con te, hai detto bene. Ti ricordi? Prima che iniziassi a darmi del “lei”, io lavoravo con te…hai una bella faccia tosta a riderci sopra.
-Mio caro signore, lei mi trattò allo stesso modo quando ci si occupava del suo matrimonio…
-Quest’uomo-si rivolse agli altri con il dito indice puntato-ha cercato di comprare un processo!
-Strada indolore, no?-suscitò le risate del pubblico.
-Disonesta come scelta.
-E il piccolo angelo preferì tenersi il fardello. Preferì farsi staccare le alucce un poco alla volta. Erano proprio di cartapesta però, sono volate subito via.
Finley piantò il piede sinistro per terra, innervosito da tutto l’entusiasmo di quei farabutti nei confronti di una delle pagine dolorose e neanche ancora concluse della sua vita. Adocchiò il figlio dei Philips pulirsi tranquillamente i denti con uno stecchino. “Gli si ficcasse in gola” gli venne in mente.
-Per favore, comportiamoci da civili. Le do appuntamento, vediamo, sabato mattina alle nove. E pensi un po’, le farò usare il mio ufficio se ci tiene tanto. Non ci posso credere di averlo detto.
L’uomo scosse la testa, esausto. Voleva strozzarlo con le sue stesse mani, farlo soffrire solo per qualche secondo. Togliergli il fiato che lui accorciava a quei poveri uomini ingenui come lui.
-Ora ho da fare, non si faccia pregare. Hardman la accompagnerà fuori. Se non basta come servizio, sono a un bottone dalla sorveglianza, e loro sono decisamente più scattanti. Povero Hardman, stai invecchiando, eh?
L’assistente abbassò il capo, il capo di un trentenne coi capelli ricci, nel pieno della giovinezza. Stava invecchiando certamente in un postaccio del genere. Il suo braccio fece poi un gesto ampissimo e pieno di solidarietà al signor Stuart, che lo seguì senza fare storie.
-Signor Stuart!-lo chiamò lontano Vynil.
Tutti stettero in silenzio per la battuta finale.
-Ho bisogno di tua moglie, ricordatelo.
Senza un verso, Finley passò oltre al guardaroba e varcò la soglia del corridoio.
-Ecco i furfanti che per l’unica volta che non riescono a farla franca nel gioco, ti chiedono di cancellare l’intera partita. Bisogna saper perdere con stile.
Tyler stava misticizzando con lo sguardo il volto soddisfatto del genitore. Allo specchio non gli veniva bene come a lui. Aveva il naso pronunciato di sua madre che gli copriva una possibile espressione trionfante.
Colton gli tirò la gamba dei pantaloni.
-Eh?
-Eh, sono felice di averti dato i soldi in tempo, direi.
-Oh, Collie, ma tu non sei mio dipendente, mica ti trattavo così. Siamo amici.
-Tuo padre è il suo capo?-intervenne Dirk, spuntando con la testa.
-Ma come? Il tipo non era quello dell’officina della macchina?-si girò Colton verso l’amico.
-Ha anche un’officina ora-annuì Tyler, sistemandosi la cintura.
-Tu potresti prenderti la tavola calda della moretta-rise Grady.
-Tanto Paula a questo punto mangia già con i soldi di mio padre. Vuoi toglierle anche quel posticino alla poverina?- fece una smorfia-Vedrete, adesso vivrà lì. Farà di tutto per il suo povero paparino.
Tra i ragazzi ci fu un brivido improvviso.
-Fa freddo qua, eh, Collie?-incrociò le braccia Dirk.
-Marmo, freddo per forza.
-Io dovrei sempre andare in bagno.
-Prendi- e Tyler cacciò sotto il tavolo il secchio vuoto dello champagne.
Lo stile del signor Philips piaceva a molti, potremmo dire. E stava antipatico a molti, ugualmente. C’era poi chi di stile in quell’uomo non ci vedeva nulla. Pagava persone per arredargli casa, acconciargli la moglie e studiare i completi per le uscite pubbliche.
E poi uno che con una faccia riesce a farti lo stesso effetto di un calcio nel fondoschiena, ha un gusto di stile abbastanza dubbio. Tra un boccone e l’altro per distrarsi, Samuel Chastain aveva studiato questo aspetto particolare del suo obiettivo. Percepiva il clima ostile intorno a lui, il timore che qualcuno lo vedesse, che scoprisse la sua missione, dannatamente pulita, giusta, onesta in mezzo a quella feccia illegale che si faceva chiamare polizia di Borderlake.
Credeva si sentisse la sua risata stonata all’uscita di scena dell’ospite inatteso. Suonava male, perché era finta. Non lo aveva fatto ridere vivere quella situazione. Lo aveva incuriosito, soltanto. L’ostinazione di quell’uomo nei confronti di Vynil e l’improvvisa rivelazione di una vecchia conoscenza, amicizia finita male, a giudicare dalle parole: il riccone si sarebbe trovato qualche metro sotto terra se non fosse stato almeno una volta amico di quell’uomo. E con uomo intendeva il malcapitato. Sotto sotto tra i due si capiva chi avrebbe prevalso sull’altro, senza pubblico, senza cortesia e soprattutto senza soldi in circolo.
Le sue orecchie per la prima volta avevano degnato i discorsi che il figlioletto del grande uomo di casa faceva con gli amichetti, nascosti sotto il buffet. Se ne era lasciato distrarre dall’intera conversazione della serata. Ne aveva sentito qualche pezzo sparpagliato e non riusciva più a connettere il filo logico sul quale il signor Philips parlava. Ma alla fine si ricredette sulla sua sagacia.
Aveva aperto gli occhi su quel meccanico spuntato fuori dal nulla, che sembrava conoscere bene i problemi che Vynil dava alla gente. Poteva conoscere tutti i dettagli della sua carriera. Poteva conoscere le prove per incriminarlo una volta per tutte.  Insomma, Samuel vide, per la prima volta dal suo arrivo, un complice per sé.
Ma lo lasciava perplesso che ora lavorasse per Philips. Non gli serviva un complice così esposto, così controllato a vista. E soprattutto così impulsivo e pronto a vendicarsi. Gli serviva una persona che fosse alleata del suo possibile alleato. Qualcuno che gli fosse vicino e riuscisse a tenerlo a bada.
Gli venne l’illuminazione.
Attese tutta la serata di poter essere libero di tornarsene a casa. Corse alla piccola scrivania accanto al suo letto e tirò fuori fogli e penna come una furia.
“Ne sei sicuro?” si ripeteva in testa ”Puoi fidarti?”.
La sua mano sinistra iniziò a scrivere ferma, con la tensione addosso ad ogni singola parola.
Cara signorina Stuart,
so che lei probabilmente non sa nulla di me e potrebbe spaventarsi per questo improvviso messaggio da uno sconosciuto.
Lì accanto, sempre in Polish Avenue, una penna più nervosa ed incerta preferiva iniziare diversamente.
Cara Paula,
non hai idea di quanto mi dispiaccia...

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Capitolo 5
*** Il piccolo salto di tempo ***


E’ difficile credere che nei successivi tre mesi non accadde nulla di importante. Prima di tutto c’era stato il compleanno di Paula, ma, in tutta onestà, la festeggiata aveva passato la giornata a rigirare il cucchiaino nel piatto da torta. Non se la sentiva proprio di far festa, circondata da sorrisi tirati e reduce da una brutta influenza.
Aprile, maggio e giugno videro soltanto crescere di fronte allo specchio il broncio del signor Stuart, che non si rassegnava per niente all’idea di aver perso. Aveva scommesso con quell’ingrato vecchio amico: lui rivoleva tutta l’officina per sé, non un bullone di meno. E Vynil Philips non voleva sentirsi minacciato, come sempre. Così aveva scommesso sulla partita. Se avesse perso, avrebbe rinunciato ai suoi diritti, ma, in caso di vincita, avrebbe potuto prendersi officina, Finley e dignità.
La cosa peggiore di aver perso era di sentirsi dire a tavola dalla propria figlia che il ragazzino viziato continuava ad essere una presenza invadente al ristorante. Roba da farlo alzare e correre alla casa dei Philips di tutta fretta.
Minta evitava ora più che mai di passare a casa loro e congedava quasi sempre Paula, con la scusa che doveva studiare e non perdere tempo in quel postaccio infame. Il segreto di quel pomeriggio nero in compagnia dell’allegra banda aveva fatto sprofondare un frequente silenzio nelle loro conversazioni.
Intanto, Vynil voleva incontrare la moglie di Finley, perché aveva ancora una percentuale minuscola di officina, e doveva arrivare a patti anche con lei prima di essere totalmente soddisfatto. Furono quindi tre mesi di continui promemoria (e relative posticipazioni), mandati avanti soltanto dalla speranza che prima Joseph e poi Paula se ne andassero da lì presto.
Il primo raggio di sole era spuntato con la fine della scuola e il diploma, con cui la ragazza rompeva le catene da quella massa informe di gente pressoché sconosciuta e si preparava alla sua nuova vita.
Il secondo raggio di sole fu quando un imprenditore del Maine notò il talento originale di Minta e la valutò come possibile candidata dei suoi futuri investimenti.
Il terzo raggio di sole (per la gente della città) fu la voce che girava nei quartieri, secondo cui un’ombra si muoveva fra di loro. Solo che non era un’ombra come quella del signor Philips, ma pareva una di pari forza contraria. Si vociferava che un uomo misterioso scrivesse parole pesanti sui muri di Borderlake riguardanti questioni particolarmente private della famiglia Philips, che neanche l’assistente del signore in questione avrebbe potuto sapere. Vynil si trovava in grande confusione, perché tra il vasto assortimento di persone che lo odiavano, non sapeva come distinguere questa nuova presenza. Era solo in grado di far ripulire perbene quegli imbrattamenti non appena se ne avvistasse uno nuovo.
La polizia non era ancora riuscita ad acciuffarlo, e uno degli amici di suo figlio, esperto di libri gialli, gli aveva confidato che magari si trattava di una persona finta, messa in piedi da un gruppo di gente meschina. Altrimenti come cavolo facevano a sapere che questa persona stava seriamente portando speranza? Poteva essere solo un ragazzino stupido, incredibilmente veloce, ma stupido.
Il 15 luglio la città ebbe finalmente un nome.
L’enorme emporio della signora Densel, probabilmente uno dei più prostrati sotto il giogo dei Philips, era ritornato al legittimo proprietario in un battibaleno, e in ancor meno tempo era passato ad uno nuovo.     “Se il debito con il relativo creditore viene estinto, la percentuale di possesso di quest’ultimo viene proporzionalmente diminuita, permettendo al contraente di riprendere pieno possesso della proprietà nell’ eventualità di debito totalmente estinto”. L’avvocato della proprietaria aveva sbandierato il contratto sotto il naso del signor Philips porgendogli la somma tonda del suo debito. Il giorno dopo, quando l’uomo non aveva ancora richiuso la bocca dallo sgomento, gli aveva portato il nuovo contratto da firmare per lasciare andare la sua cliente. Aveva firmato? Quell’avvocato sembrava straniero di lingua e non avrebbe potuto intendere i furbi giochetti di favore che lui di solito faceva. Ma il foglio che gli era arrivato sotto il naso lo aveva definitivamente incuriosito a procedere.
-Così, questo signor Chastain ha comprato il negozio. Ha fatto un ottimo affare, devo dire. Ma non mi pare di aver mai sentito il suo nome.
-Oh, è un uomo ezcellente signore. Lui ha fatto molto favore ad la mia cliente.
-Mi piacerebbe incontrarlo.
Ma l’avvocato con la fronte gli aveva fatto capire che era una cosa impossibile. Nessuno aveva mai parlato con quell’uomo. La signora Densel si era trovata sul portico una busta strana, che a sua insaputa le avrebbe cambiato la vita. Il signor Samuel Chastain era stato il suo salvatore. Si sentiva quasi pronta a riprendere marito, la vecchia volpe.
Ma per arrivare effettivamente al primo round fra Vynil Philips e Samuel Chastain, bisogna passare, per quanto possa essere ancora insensato, a parlare di Paula, cioè quella la cui cassetta della posta doveva riempirsi da un momento all’altro e invece non accadde. Di fatto due persone erano interessate a lei, e avevano il disperato bisogno di confidarsi. Ma una aveva fermato l’altra prima che la spedisse. “Sarebbe imprudente scriverle così, giusto?”. “Fosse per me, rischierei. Ho bisogno di aiuto sincero, per aiutare le altre persone”. “Secondo me le aiuti solo per sentirti orgoglioso e farti riverire. A te importa solo di finire il lavoro. Lo fai solo per te”. “No, sei tu che lo fai solo per te, per pulirti la coscienza. So cosa pensi, so che ti vergogni”.
-Mamma!
-Sì, tesoro, è successo qualcosa? Non mi sarai diventato alto per i pantaloni?
-Cosa? No!-rispose il ragazzo, guardandosi le caviglie.
-E a vita? Ti stringe, ti è largo?
-Ah, Dee, questo ragazzo avrà sempre i fianchi perfetti, eppure ha lo stesso stomaco della mamma.
-Trovi, eh? Non mi crede nessuno quando dico che è la sua immagine sputata…ah, la mamma.
-Mamma!
-Cosa c’è, dimmi!
Il ragazzo fece due passi e si appoggiò coi gomiti allo schienale della sedia. La madre e la zia stavano trafficando con barattoloni di perline e metri di spago, che quasi non si vedeva più la tovaglia.
-Mamma?
-Sì, dimmi, su, forza-gli disse, brandendo le forbici a mezz’aria.
-Veramente è una cosa un pochino personale- tossì guardando l’altro capo del tavolo.
-Rose, credo stia parlando con te-sorrise la madre.
La zia buttò giù gli occhiali appesi al collo e si girò di lato.
-Mi vorrai mica fuori di qui? Lo sai chi sono io, vero?
-Non di certo una diplomatica-borbottò Diane, con lo spago fra i denti.
-Sai che sono la tua unica cara madrina? Dovresti darmi un po’ di fiducia, giovanotto! In fondo pensaci, con chi parlerai quanto la tua cara mamma non ci sarà più?
La sorella alzò gli occhi al cielo.
-Faccio finta di non aver sentito.
-Credo mi sia uscita male-si rimise al posto- Insomma, dico, ora tua sorella sta per andarsene. Da qui a un anno sfornerà già tanti piccoli marmocchi, e tua madre li assisterà giorno per giorno mentre i genitori sono impegnati al lavoro. Poi sarà la volta di tua fratello maggiore e anche lui promette bene in quanto a cucciolate, visto che domani si porta dietro la sua nuova fidanzata, ed è pure ad un passo dall’altare. Tua madre avrà già così poco tempo da spendere che non avrà la forza per stare dietro a te. Ed ecco fatto, ci sono io.
-Smettila, non è vero che avrò poco tempo. Io il tempo lo trovo sempre. E raddrizza quel fiocco che sembra si stia sgonfiando!- le indicò il sacchettino che aveva in mano.
-D’accordo, fa niente-si sedette il ragazzo- va bene così.
-Su dai, dicci-tirò il nastro la zia.
Non era facile da spiegare. Sono difficili da spiegare quelle questioni in cui ti senti colpevole, e anche se vuoi mostrare di esserti pentito, il racconto della cosa orribile che hai fatto verrà sempre prima. Prima ancora di finire potresti riceverti un paio di forbici nella spalla e un cappio di nastro color crema intorno al collo.
-Una settimana fa, sai che sono andato in giro con Tyler e i soliti, no?
-Lo hai fatto tutta la settimana-commentò lei.
-Non si può neanche più uscire ora?
-Non si dovrebbe uscire sempre, intendevo. C’è da fare qui.
-Ma per studiare ho tutto il tempo dopo, quando abbiamo finito la festa.
-Potresti anche aiutarci con la festa-lo rimbeccò la madrina.
-Posso almeno dirvi cosa è successo?
-Non girarci, vai dritto al punto.
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo sperando di potercela fare. Quando si mettevano le due sorelle da sole intorno a un tavolo, nessuno riusciva a uscire dalla giungla di discorsi che iniziavano, senza la garanzia di finire.
-Beh, eravamo in un bar, e Tyler ha fatto la scommessa di riuscire a conquistare una ragazza.
-Gli serve una scommessa per prendersi una ragazza? Roba da matti!-sogghignò la zia.
-Doveva trovare una ragazza impossibile da conquistare e lui ha trovato la cameriera di questo posto. Solo che poi, nel mezzo di una, ehm, conversazione… Tyler si è messo ad insultarla di fronte a tutti e lei si è messa a piangere.
Non seppe mai la velocità con cui riuscì a sparare l’intera frase.
-Ahah-mugugnò la madre distratta, raggruppando sei perline.
-E quindi…?-completò l’altra, pulendosi le lenti con due fiati.
-Beh, Tyler sapete com’è, giusto? Giusto?
-Sì-lo guardò sorridendo la madre, per tornare subito al lavoro.
-Beh, ha riso tanto, proprio tanto, e io ho fatto lo stesso. Non ero l’unico, vedeste i miei amici, anche loro ridevano…
Era almeno la decima volta che pensava a quella situazione. Lui era colpevole, molto colpevole, come tutti gli altri. Per degli istanti che furono secoli, i suoi occhi scavarono di nuovo nella sua coscienza, e lo fecero sobbalzare, ancora.
-Dovrei andare a scusarmi di persona?
-Con Tyler?
-No, con la ragazza!
-E non parli più con Tyler?-si voltò la zia-Ma come?
-No, non voglio parlare con Tyler, voglio parlare con la ragazza di Tyler, o almeno quella che era, o almeno…insomma, che devo dirle?
-Ma perché dovresti interessarti alla ragazza di Tyler? Lui non era tuo amico? Ti osi a parlare con lei da solo…in privato?-alzò le palpebre la zia.
-Ma per questa questione?
-Per cosa?
Il ragazzo era stravolto. Non una parola. Avevano ascoltato non una parola.
-Mamma! La ragazza, ok? Tyler l’ha maltrattata, ok?-le schioccò le dita vicino al viso.
-Che bastardo!-scattò la madrina sulla sedia, tutta stupita.
-Rose!
La zia alzò le mani per scusarsi.
Va bene, secondo tentativo.
Facciamo terzo.
-E lei si è messa a piangere e io ho riso, con tutti gli altri, insomma lei era lì che piangeva e noi ridevamo, c’era il suo capo che si sbracciava e si agitava tutta, insulti di qui, insulti di qua, e io ero lì e la vedevo piangere e la prendevo in giro con gli altri, ma insomma lo facevano tutti e non ne potevo niente perché sono già fortunato ad avere i miei amici e di ragazze ne incontro tutti i giorni, insomma non ci stavo pensando che lei era lì a piangere a terra, a terra! L’ha sbattuta a terra! Io non…uffa!
 -Ehi, ehi! Signorino, respira!-gli prese il braccio la madre. Aveva dovuto acchiapparlo a mezz’aria mentre gesticolava furiosamente. Almeno, con la scusa di aiutarle, si era guadagnato un po’ di attenzione. E mani piene di colla.
Lui si calmò subito-Insomma, che devo fare?
-Oh, sono sicura che lei lo sa quanto sono stupidi i ragazzi. Mi chiedo solo come ci sia finita con Tyler-gli rispose.
-Magari ci è finita perché è una poco di buono. Ne girano di quel tipo, qui intorno.
-Ma lei è di Borderlake.
-E Borderlake infatti è qui intorno, dopotutto- si corresse la zia-Ma io so, da buona veterana sorella maggiore di un’adolescente e soprattutto da buona interprete dell’anima umana, che quella ragazza ora si è ripresa dal brutto episodio.
-Tesoro, ha ragione. Fosse una ragazza stupida piena di odio e vendetta verrebbe qui a spaccarti i vetri alla macchina. Hai controllato la macchina stamattina?
-Ehm…credo-disse il ragazzo con il cuore che gli saliva in gola.
-Quindi scommetto che adesso può solo essere rassegnata all’idea di non pensarci più e di perdonarvi tutti. Alla peggio è semplicemente una ragazza sveglia ed intelligente che preferisce una sana vendetta lunga e dolorosa-gli sorrise la zia, con due pacche sulla mano.
-Ma se tu sei preoccupato, che so, vai a parlarle.
-Ma sarebbe imbarazzante.
-Ti vuoi prendere o no la responsabilità in quella tua testolina? Faresti contenta anche me, che odio un figlio impertinente.
-Già-sbuffò il ragazzo-Il figlio impertinente della cara persona che manda al diavolo la sua futura consuocera due giorni prima del matrimonio di sua figlia.
La madre sbattè l’intera matassa di spago sul tavolo-Non voglio che diventi una questione nazionale, questa sfuriata. Entrambe siamo prese dallo stress, per i preparativi, per gli addobbi. Ci sono saltati i nervi, tutto qua.
-Non ti devi scusare, io le avrei fatto ingoiare quelle stupide tovaglie una per una.
Diane sorrise teneramente alla sorella. “Grazie”.
-Volevo scriverle-fece lui, tracciando cerchietti in aria con la stilo.
-Oh, tieni la carta. Falle tutte così, con una leggera inclinazione a sinistra-gli indicò i cartoncini.
-No, mamma, non le presentazioni. Voglio scriverle, scrivere a lei, alla ragazza.
La madre ritrasse la carta delusa-Oh, certo. Se vuoi fare qualcosa, perché no. Mi raccomando la grammatica, non fare il solito pigrone che ripete troppe volte…alle ragazze di adesso piacciono i tipi intellettuali. Però non esagerare col mieloso, che poi diventa una lettera di amore. Sii schematico, ma armonioso. Le dichiarazioni di amore a tua sorella arrivavano sempre ben scritte e profumate.
-Mica mi voglio dichiarare, voglio solo scusarmi.
-Stai comunque attento a Tyler. Mi ricordo che qualche tempo fa un certo Colton gli portò via la ragazza e fu una vera rissa-sogghignò l’altra.
-Ah, sì? Beh, zia, sai cosa ha fatto Colton, sai cos’ha fatto?-si rizzò dalla sedia-Se l’è portata via di nuovo!
Il ragazzo si diresse immediatamente verso la porta e tirò con forza la maniglia.
-Ci vediamo più tardi. Io esco-e ci fu un tonfo.
-Comincio a pensare che il ritorno di Colton sia una vera e propria tragedia.
-Oh, Rose, non badarci, gli passerà.
-Spero entro domani, perché non vorrei musi lunghi nella foto della mia nipotina.
-Allora faremo tagliare la famiglia dello sposo.
Entrambe scoppiarono a ridere, prima che il barattolo di perline si rovesciasse a terra.
Così, quella notte, al 6 di Polish Avenue, chiunque passasse per il corridoio verso la cucina faceva una breve scivolatina appena piantava il piede su una di quelle minuscole palline argentate, se non bastava ovviamente il fresco strato di cera steso dalla zia. Di traffico però non ce ne fu molto. Le bomboniere avevano occupato tutto il pomeriggio e avevano azzerato le forze delle due povere donne al tavolo. Ma la sposa amava la torta al cioccolato, viveva di torta al cioccolato, perché darle dei confetti e nessuna torta al cioccolato(fatta in casa, certo)? Sei teglie da forno per confezionarle tutte. Una famiglia mezza a digiuno perché il frigo ne era strapieno per conservarla. Diane si era inginocchiata al suo letto e aveva ringraziato Dio di aver ordinato la torta nuziale alla prima pasticceria che l’altra svitata della sua consuocera le aveva proposto. Aveva ripensato a sua madre e alla faccia che aveva quando lei, appena ventenne, aveva pensato bene di marciare all’altare con il suo Francis. Poi Francis era entrato in camera, e il suo braccio aveva fatto un velocissimo segno della croce.
La loro piccola grande signorina dormiva come un ghiro, stremata dal calore dell’asciugacapelli della zia, nella camera degli ospiti. In camera sua, la camera per intenderci in cui per la prima volta aveva staccato la vite della culla e l’aveva ingoiata (successe solo due volte, non preoccupatevi), dove si provava di nascosto le scarpe di sua madre e capovolgeva i cassetti per farsi la bara di Biancaneve, c’era suo fratello che fissava il soffitto.
 Non c’era proprio gusto a rubare la camera ad Adele, se poi gli era permesso farlo per il resto della sua vita. Non c’era niente di male a dormire in una camera tutta rosa, se era per farle uno scherzo. Ma ora? Patetico. Eppure gli piaceva. Anzi no. Sicuramente in testa gli passava tutto meno che il rancore per quella povera cameriera. No, quello era successo pochi giorni prima. Quella notte lui non aveva età. Non gli era piaciuta nessuna delle età che aveva avuto finora, una volta arrivato a tutte, aspettava subito quella dopo e ripiangeva quella prima.
Da bambino sua sorella gli prendeva sempre la mano e lui gliela rifiutava per farle un dispetto. Poi quando la prendeva a lei, era lei a staccargliela, perché voleva raggiungere le sue amiche. Poi lui le chiedeva di aiutarlo a studiare, e lei era troppo occupata con i suoi compiti, ma, ogni tanto, sbuffando, si arrendeva. Ora lei partiva per una nuova vita, e lui se la lasciava scivolare via. Non sopportava il pensiero che non si sedesse più a tavola con loro senza che ci fosse il signor bell’imbusto a farle compagnia.
La fretta con cui il carillon si sforzava di finire la melodia era la stessa con cui i suoi pensieri correvano verso l’unica possibile spiegazione: stava crescendo. L’adolescenza stava finendo, ma lui cresceva solo ora. Perché? Perché forse sono gli altri a darci la cognizione del tempo che passa? Adesso aveva paura che il tempo con sua sorella dovesse diminuire per prepararsi a perderla per sempre. Ma sì, perché non andare dritti al problema, un giorno li avrebbe persi tutti.
Fatto, il cavallino tutto sbilenco si era fermato. Lo ricaricò un’altra volta. Lo zio Ludwig lo aveva regalato per Natale a loro tre, ma l’unica a volerlo in camera, ovviamente, era stata Adele. Talvolta quel tintinnio malinconico arrivava da sotto la porta, e lui se la rideva alla grande che una signorina degnasse ancora quel fossile di legno.
Sigillò bocca e occhi mentre scorreva la musica, intrappolando per sempre il meglio di sua sorella in quelle tre note lente. Cominciarono così le sue cinque ore filate di sonno.
E’ uno di quei momenti del mio racconto dove vorrei tanto poter intervenire. Anche io avevo un carillon con la stessa musica e devo dire che di così tristi non ne ho mai sentite. Eppure se la si accelera un po’ diventa pure orecchiabile. Mi verrebbe la tentazione di fermarlo per farlo rimanere ancora qualche secondo nei suoi pensieri, ma ormai è scomparso in un bel sogno colorato, e quelli sono difficili da sbirciare.
Dov’era scomparso invece Samuel Chastain intanto? Non era riuscito a concentrarsi, oppure ci voleva un bel po’ per portare avanti il suo lavoro? Oserei dire entrambi.
Respirava così tanta aria dei Philips che aveva temuto di non resistere a denunciarli subito. Persone fidate lo allontanarono per due mesetti da quelle strade e la sua indagine nascosta divenne nascosta persino a lui. Non bastava solo un esilio forzato a rimuginare su come accalappiarsi le prove che i suoi mandanti aspettavano, ma aveva pure il rimorso di non aver scritto a quella ragazza che gli rodeva il fegato. E la cosa gli apparì urgente solo quando la febbre dell’influenza si alzò pericolosamente in una notte e lo tormentò per una settimana. Quando corpo, e soprattutto mente, si erano raffreddati, la questione ritornava solo come accessorio.
Quando il liceo aveva chiuso i battenti, Samuel era stato costretto a ritornare, perché uno dei ragazzi della città doveva festeggiare il suo fresco diploma. A Borderlake, Tyler non si sarebbe mai atteso di venir promosso, se avesse portato diverso cognome.
Dopo un breve salto a South Bay (avevano avuto il tempo di ridipingere il cartello e fare scandalo per quel madornale errore) per rivedere la casa che aveva lasciato mesi addietro, il nostro paladino della moralità si era diretto subito alla città sull’altra sponda. Quale fu, secondo voi, la prima cosa che fece? Dare una sbirciatina al Minta’s Diner per scorgere la sua conoscenza. Non si sa perché gli avrebbe dato sicurezza vedersela intenta alla sua normale vita, così come l’aveva lasciata.
Si vede che quel giorno, il cielo doveva piombargli addosso. Minta non era la tipa che si metteva in mostra facilmente. Preferiva la cerchia di clienti fidata che l’affollamento abnorme del locale. Un signore aveva notato il suo talento e lei gli si era quasi attaccata ad una manica della giacca. Per la donna indipendente e fiera che in parte avete conosciuto, non era una cosa normale.
Ma d’altronde non era nemmeno normale camminare in mezzo a un mucchio di macerie incenerite.
 Non credo sia difficile dirvi cosa accadde. Per padre Voltner lo fu, in quei tre minuti che parlò con Samuel.
-Come se mi avessero trafitto il cuore da parte a parte. Dio mi perdoni se per un attimo ho pensato di mettere le mani addosso a chi ha solo immaginato un simile scempio.
-Ma si sa chi è stato? Come hanno fatto?
-Figliolo-aveva sospirato l’uomo- non credi di correre troppo sulla tua strada?
-Ma, ascolti, io devo sapere se…
-Se qualcuno si è fatto male, è rimasto ferito….tremi dal desiderio di saperlo, o sbaglio?-lo squadrò sorridendo.
-Ci sono stati feriti?-arrossì.
-No, sia ringraziato Dio, nessuno si è fatto male. No, no, quello che hanno ferito è lo spirito, lo spirito di gente onesta. Difficile operare con una cosa fragile e preziosa come l’animo della gente.
“Paroloni” bofonchiava Samuel nella sua testa.
-Quindi? Cosa è accaduto?
-Nell’arco di poche ore, fiamme alte come un palazzo hanno trasformato in cenere quel ristorante.
-E come è successo?
-Non è stato certo un incidente, come sostiene il giornale. Ma si tratta solo della mia opinione ed esperienza. E’ l’ennesima conferma della regola.
-Quale regola?
-Non posso dirtelo.
-Perché?
-Cause di forza maggiore. Immensa oserei dire.-puntò il dito verso la volta della stanza.
- E non se ne può fare nulla?
-Nulla, figliolo.
-Ottimo.
Samuel aveva raddrizzato nervosamente la giacca sulle spalle, senza dar segno di voler lasciar perdere.
-C’è altro, figliolo?
-Pensavo, che a lei, padre, certa gente viene qui a parlare dei suoi problemi e…
-Ti ho già detto che i discorsi a cui il Signore assiste qua dentro sono sigillati nel sacro segreto.
-Ho capito, ho capito. Ma dico, a lei la gente viene a confidare i segreti per cui non esistono persone fidate…
-Segreti che rimarranno solo nelle mie orecchie e in quelle di Dio.
-D’accordo-controllò i nervi lui-ma in fondo…
Il sacerdote allungò la mano sulla sua spalla e tirò dolcemente avanti, chinando il capo.
-La gente che viene qui, vuole solo che il Signore la perdoni. Ma credimi, ben pochi hanno ancora quella sana dose di timor divino in corpo per farlo. No, ti dico, alcuni parlano con se stessi in una camera vuota quando sentono il bisogno impellente di confrontarsi con qualcuno di fiducia. Dopotutto, però siamo umani, e queste persone sono davvero un raro caso. Ci sono i dottori della mente, ma chi intendi tu non da soldi ad uno perché si tenga i suoi segreti. Siamo deboli, ragazzo mio, e preferiamo spesso una strada che ci pare per metà sensata.
-Cioè?
-Cioè prendere quei segreti inconfessabili e riporli comunque in una persona fidata. E questo non vale solo per la gente che tu citi ogni volta che torni qui. Vale per me, vale per tutti. Vale anche per te.
-Dice che dovrei cercare le persone fidate a cui la gente che io intendo di volta in volta svela i suoi segreti?
-Tu l’hai detto.
-Ma ci ho già pensato e non funziona…avevo una lista, ma è andata in fumo negli ultimi tempi-si grattò la fronte.
-In realtà-si ricompose il prete-io volevo intendessi un'altra cosa. Io pensavo a te. Hai mai pensato ai tuoi segreti? Non ti scoppiano in testa ogni tanto? Non sei stanco di parlare rare volte con un tonacato che ti ripete la parola Dio incessantemente e che ti insegna a credere nei miracoli? Scommetto che sei stanco di aspettare, sperare, pregare, giusto?
Il ragazzo era rimasto in un’espressione perplessa.
-Tempo fa avevi in mente di cercare aiuto, perché non pensi prima a trovare una persona fidata per te?
-E’ una cosa difficile, padre!
-Lo so, lo so. Difficile scovare ormai una persona fidata, amichevole, onesta, laboriosa ed entusiasta.
-Forse solo un cane riuscirebbe ad avere tutte le doti giuste.
-Cani o persone, l’onesto e l’amichevole sono nascosti ovunque e non credo tu abbia una testa così offuscata da non poterli vedere. Sono certo di avere davanti un ragazzo sveglio, a prescindere che tu abbia o meno una missione da portare a termine…Samuel-gli sorrise- lascia che qualcuno ti conosca davvero. Cerca bene, prenditi il tempo che ti serve. E’ pur sempre un azzardo, devi rischiare sapendo che non potrai tornare indietro in alcun modo. Che il Cielo ti assista.
-E se la convinco?
-Ogni eroe ha la sua spalla.
Samuel aveva selezionato in testa un paio di persone che potevano fare al caso suo, schivando l’ancora precoce possibilità di un cane. Peccato per lui, perché la sera di due giorni dopo la signora Rogers si era trovata indaffarata a gestire l’arrivo dei nuovi cuccioli della loro cagnolina Lois. Erano saltate fuori due dolci miniaturine pelose a cui era stata immediatamente assegnata la camera in disuso della figlia maggiore. L’euforia per il diploma di Dirk era spostata tutto sul lieto evento, tanto che si temette Diane intendesse già mostrare una voglia irrefrenabile di nipotini. Questa questione interessa solo perché i due cuccioli appena nati hanno decisamente un ruolo decisivo per gli eventi che seguono, e determinarono anche l’andamento della festa del 3 luglio.
Innanzitutto la data, visto che Diane, tutta presa dalla novità, aveva deciso che gli avanzi di quella sera erano da rifilare ai parenti il 4, quando avrebbero festeggiato insieme. Così non doveva nemmeno cucinare due volte, geniale. Bisogna anche tener presente il traffico limitatissimo al piano superiore della loro casa per non disturbare i nuovi arrivati. L’avvertimento corrucciato col figlio e i suoi amici ad inizio festa era stato decisamente esauriente. Il piano di sopra era solo per i bagni. Capito.
Bisognava modulare la voce e la musica anche a quello inferiore, comunque. Infatti appena era uscita, lo stereo era esploso. Gli ospiti erano messi abbastanza alle strette psicologicamente e fisicamente, però non ci furono grandi problemi.
E dopo due scene sconnesse e per niente legate alla protagonista, arriviamo finalmente a lei, l’invitata arrivata alla festa con il cuore in gola, al culmine di imbarazzo, in uno stropicciato vestito turchese e due piccole scarpe di tela nuove, di un bianco accecante. Non si esagera a dire che la maggior parte non si curò di lei, a parte chiedersi chi l’aveva voluta lì, in tutta onestà. E soprattutto, ci era venuta?
Paula era impalata davanti al tavolo sistemato in un salotto del tutto sgombrato. Osservava la tappezzeria di quella che le pareva una reggia, un sogno che le ricordava a pieno la padrona di casa. La musica alta aiutava i suoi pensieri ad isolarsi dal mare di conversazioni lì accanto. Persino da pensieri incessanti dei suoi vicini.
“Bene, e ora come la faccio girare?”.
Si sentì sfiorare le spalle. Grazie al vuoto tra ritornello e strofa riuscì a captare un debole “permesso” alle sue spalle, un suono che le ricordava Dirk.
-Prego-disse quasi automaticamente voltandosi.
Finì col naso a sfregare contro una manica di camicia color caffè. Fresca di lavanderia, dal veloce assaggio che ne diede.
Si ghiacciò quando vide che quella spalla apparteneva ad un viso familiare, ma non certo quello di Dirk. Si trattava di Colton, l’amico di Tyler. Le venne un tuffo al cuore e un groviglio di pensieri in testa.
Voleva dire qualcosa, ma l’audio le toglieva persino le orecchie per ascoltare il suo buonsenso. Il ragazzo pure non faceva nulla se non tentare con le labbra di lasciare uscire qualche discorso. Provò di dirle qualcosa, invano, pur muovendo la mano come in un saluto insicuro. Si rivolse allora al tavolo a cui pochi secondi prima si era appoggiato e svuotò il fondo di una caraffa in un bicchiere pulito.
Quando con la testa piegata e il suo bicchiere in mano le indicò la porta che dava all’esterno, lei si sentì avvampare in volto.
“Vuole che lo segua? E’ per me?” fissò il liquido che ancora frizzava di schiuma.
Colton si aprì un passaggio tra la piccola folla vicina e diede di nuovo un colpo d’occhio indietro.
Fu allora che Paula si affrettò ad afferrare il bicchiere stracolmo.
Sbuffò su un ciuffo di capelli ”Calma, diamine, mantieni la calma”.




Angoletto Autrice
Rieccomi!Le cose da dire sono tante e questo mi porta a doverle condensare tutto in un supercapitolo concentrato. Spero comunque vi sia piaciuto e che inizi ad essere apprezzabile oltre a "Rogers" l'accenno all'indispensabile ingrediente"cane". Questo capitolo nasce anche un po' da una dedica da fare ai fratelli e sorelle, di sangue o spirito, persone di intesa e segreti inconfessabili. Nel mio caso in particolare, quel fratellino che alla mezzanotte prima dei miei 18 anni mi ha confessato in lacrime di non volere che io crescessi. Beh, infatti, eccomi qua :)
Alla prossima CCG

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Capitolo 6
*** Complice di qualcuno(forse nessuno) ***


-Qui le mie orecchie possono finalmente riposare, ah-strinse il bicchiere sull’orlo delle labbra, già incurvate in un compiaciuto sorriso.
-C-c’è così confusione lì dentro-fece lei, sospirando in modo evidentemente falso. Poi giustificò il silenzio con una lunga sorsata del liquido giallastro che le era stato versato. La gola iniziò a bruciarle come se ci fosse passato un fiume di lava: finì per tossicchiare miseramente alcune volte, prima che l’altro iniziasse a parlare.
A mano a mano che anche le sue guance parevano surriscaldarsi, Paula elaborava la situazione. Era da sola, appena dieci passi fuori da una porta finestra che si era quasi tirata in testa, appoggiata ad un muro in finti mattoni, il tutto in compagnia di un ragazzo la cui faccia dannatamente divertita le era rimasta sepolta e dimenticata per settimane. Talia, un’altra delle sue conoscenze temporanee, le aveva confidato che una situazione del genere era la tipica strategia da rimorchio dei ragazzi. E le era pure saltato in testa per un attimo, ma poi (la gioia?) si era subito spenta, perché in fondo lei era Paula Stuart, e questo le veniva ricordato spesso nelle sue giornate, specialmente le grigie.
-Dunque, non mi sbaglio, tu sei Paula Stuart, vero?
Appunto, che vi dicevo.
-Sì, in carne e ossa.
“In carne e ossa? Sul serio? Ma potresti pensare a cose più furbe, stupido cervello?”
-Scusami, non volevo beccarmi tua sorella gemella e farmi una figuraccia-rise.
-Certo che no-gli restituì la risata.
“Ma stiamo scherzando?”.
-Forse tu non ti ricordi, ma ci siamo già presentati.
-Sì, mi ricordo, mi ricordo bene. E’ stato un po’ di tempo fa, però.
“Vai così, ragazza mia!”
-Sei un amico di Tyler, vero?
-Te lo ricordi, eh?-si rabbuiò grattandosi la fronte.
-Ogni tanto mi capita di avere una buona memoria.
Colton (perché quel nome non se lo era scordato) lasciò passare due secondi in cui raschiò con le suole per terra. Stava elaborando nella sua testa come costruire un discorso decente. Ma il tempo fu così lungo, che la ragazza riuscì a preoccuparsi delle sue vere intenzioni (più che altro conversazioni) e scolò l’intero bicchiere rimastole in mano. Non sentì neanche bruciare, tutta presa in quel “Scusami, devo tornare dentro”.
Lui cadde subito nel tranello, capì volesse rientrare per riempirsi da bere, e prontamente le sporse il suo.
-Tieni.
-No, tranquillo, faccio da me.
Gli occhi di Paula, delusi della scusa fallita, continuavano a vedere il bicchiere teso in avanti che fluttuava desideroso di essere preso.
-No, davvero faccio da me-stava per voltarsi.
-Beh, allora me lo tieni solo per un attimo, se non ti dispiace?-sogghignò, consegnandoglielo.
Era caldissimo, come se fosse stato sul fuoco. Certo, era pur sempre piena estate, però era inevitabile che Paula si mettese a confrontare i due bicchieri. Quello del ragazzo che le stava di fronte era decisamente caldo, d’altronde le sue mani erano più grandi delle sue, dei suoi pugni piccoli. Ma magari c’era dietro anche il fatto che in materia di drink lui ne capisse e lo tenesse in mano con una confidenza e quasi un affetto tale da entrarne in simbiosi. Fissò il ridicolo modo che le proprie dita avevano di sorreggere il bicchiere, tutte ammucchiate sul fondo, pericolosamente indicate per farlo schiantare a terra.
Corresse il suo errore spostando lo sguardo su Colton, che nel frattempo era riuscito a tirare fuori una sigaretta e a tenersela fra i denti.
-Prendi.
-No, grazie tante, non sono una tipa da sigarette.
-Immaginavo fossi la tipa da sigari-disse a denti stretti, facendo scattare l’accendino.
-No, no, io non fumo proprio.
-Lo so, stavo scherzando-la guardò.
Paula percepì una sorta di pietà nella sua voce, quella a cui era abituata dopo una dimostrazione di stupidità e zero senso dell’umorismo. Era confortante sapere che in quel momento rimaneva la solita ragazza verso cui portare pazienza nelle conversazioni, confortante sapere che non stesse facendo la parte di un’altra, e che il tipo che aveva di fronte conoscesse la compassione.
-Boh, neanche io fumavo, mesi fa. Ma sai, per stare in compagnia…
-Già, si fa di tutto…
-Sicura di non volerne una?-gliele sporse di nuovo.
Era perché non sapeva adeguarsi? Tutto qui il mistero dei pochi amici? No, c’era di mezzo anche una buona dose di iella per inventare infiniti modi di farli fuggire in capo al mondo dopo pochi giorni. Avrebbe fatto di tutto per un po’ di compagnia sincera, e quell’astuccio argentato all’altezza del suo gomito iniziava a tentarla parecchio. La incantava quasi il pensiero di scivolare via da quella situazione in una nuvoletta bianca del fumo che lasciava lentamente le labbra di Colton. Però si accorse del suo respiro, affannato ma limpido nel suo scorrere, e quello vinse i nervi tesi. No, non avrebbe ceduto. C’erano altri modi per avere compagnia, e lei lo sapeva, perché ne aveva provata un’intera collezione.
-Davvero, sei gentile, no grazie.
-Ah, se avessi risposto così mesi fa al mio amico, ora non avrei questo ingombro da portarmi sempre in tasca.
-Io non ho neanche le tasche!
Wow, stava seriamente cercando di essere simpatica? Almeno lui le aveva sorriso.
-Visto che non posso tenerti con una sigaretta, rimarresti lo stesso qualche minuto qui con me?
-Direi proprio di non essere occupata al momento. Diciamo per tutta la sera.
Diamine, quella poteva essere la frase più equivoca dell’universo, se non si fosse trattato di lei. Nel frangente in cui noi potremmo ragionare sulle mille aspettative che un ragazzo può ottenere da una risposta simile, Colton non se le sognò nemmeno, ma superò Paula e si sporse dall’angolo della casa.
-Sei gentile a darmi tutta la serata, ma dubito che ce ne staremo tranquilli neanche per cinque minuti, qui.
-Che c’è?
-Non è un posto isolato, arriverà qualcuno, qui, stanne certa. Vieni!-la tirò per un braccio.
Lei emise un urletto silenzioso che andò perso nel buio tra il frusciare della siepe dietro cui andarono a finire. Erano piombati in un punto indistinto del giardino, si scorgeva di lontano un lastricato di pietre sagomate, bagnate da una recente lavata. Anche le scarpe di Paula erano recentemente bagnate dal prato, ma era estate, e non c’era neanche da temere un’influenza, anzi, l’acqua che le aveva inumidito le calze dava ancor più secchezza alle dita di Colton, sempre a presa salda poco sopra il suo polso.
-Arrivava qualcuno?
-No, ma ora spero di aver tempo per parlarti…anche se, non siamo abbastanza lontani dal portico.
-Ma non c’è nessuno, tranquillo.
Non mi rimane ancora molto chiaro come la diffidenza di Paula si era trasformata in complicità. Il passaggio fu così veloce che penso nessuno dei due se ne accorse. Per uno era normale che una ragazza gli desse retta e per l’altra era normale sfruttare una passeggera simpatia rivoltale da qualcuno.
-Non c’è nessuno, lo so. C’è che non mi piace quel posto. Ad una festa Tyler una volta mi ha pizzicato con la sua ragazza e mi ha fatto le feste.
-Oh, ma io non sono…
-…la sua ragazza, so anche questo, non ti preoccupare.
-E allora perché…
Colton le fece segno di abbassare la voce. Tipico, era un suo vizio parlare ai quattro venti, quando era sotto stress.
-A dire il vero non sapevo neanche fossi una cameriera, all’inizio-rise-ma sai, questo Tyler non l’ha mai saputo. Tutto quello che lui sa e che ha sempre saputo è che io credo che tu sia la sua ragazza. Per cui sai com’è, pizzicarmi un’altra volta con una ragazza che in teoria dovrebbe essere sua, sarebbe l’ennesima mia scorrettezza nei suoi confronti, e mi dispiacerebbe…poi lui si arrabbierebbe comunque, sai com’è fatto, anche se potrei difendermi con la storia che lui ti ha lasciata.
Abbassò lentamente gli occhi. Silenzio.
-Forse ora è un po’ tardi per chiederti scusa per quel giorno, sai, quello del ristorante e tutto il resto.
-Oh, non fa nulla, sono passati mesi ormai-scandì con una gran voglia di fare la magnanima.
-Sì, suppongo sia tardi in quel senso, ma…beh, non credevo potessi trovare il modo di evitare l’argomento da dieci minuti che ci parliamo. Prima o poi questo momento doveva arrivare, non credi?
Annuì.
-Il bello è che ora non so proprio cosa fare per difendermi al momento, non posso fare altro che scusarmi semplicemente.
-Davvero, fa nulla.
-Nessun rancore?-le tese la mano.
Aveva rifiutato un bicchiere e una sigaretta, cose totalmente inutili per lei, cose che potevano scivolarle maldestramente per terra. Non ci pensò nemmeno un minuto di evitare quella stretta, anche se nel momento esatto del contatto le venne un flashback sulla mano che aveva offerto a Tyler quel maledetto giorno. Era la solita scema, la scioglievano con nulla, vendeva fiducia a chiunque capitasse.
-Nessuno-gli sorrise.
-Bene, direi che la macchina è salva-si disse fra sé.
-La macchina?
-Scusa, sono stato messo in guardia su di te a proposito della macchina con cui a volte giro…il proprietario era un po’ spaventato.
-Quella nera?
Colton sbarrò gli occhi-Sai qual è?
-Certo, l’ho vista di recente-fece lei imbarazzata.
-Ed era…intera, giusto?
-Intera? La preferiresti senza qualche pezzo?-scherzò.
-No, no, è perfetta così!-portò le mani avanti- Chi hai visto con quella macchina?
-Te…tempo fa, è stato persin prima del ristorante. Chi altri, scusa?
-Pensavo.
Colton piroettò su sé stesso e sbirciò al lato della siepe.
-Nessuno in zona-e tirò fuori daccapo l’astuccio metallico.
-Non potrebbero chiamare i pompieri se vedessero una siepe che fa fumo?-obiettò Paula.
Lui si bloccò-Ehi, che è, cominci già a farmi da coscienza?
Paula era lì lì per scuotere la testa.
-Nah, va bene, hai ragione tu. Meglio andare a prendere qualcosa da mettere sotto i denti. Ho bisogno di forze per parlarti di due cose importanti… vado e torno.
Paula elaborò qualche pellicola mentale mentre lui era via. C’era la possibilità che un giorno si pentisse di non essere fuggita da quella siepe prima di combinare un disastro. Oppure, avesse deciso così, avrebbe preferito starsene lì ad ascoltarlo piuttosto che trovarselo ad aspettarla davanti a casa ogni giorno. E se la cosa era solo uno scherzo? Un’altra scommessa a cui era stata tenuta all’oscuro?
Purtroppo c’era sempre il “fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio”. Perché allora lei sceglieva il bene e non il meglio?
Colton tornò e se la trovò rannicchiata per terra che si teneva in equilibrio per non toccare la terra bagnata.
-Rieccomi, ho trovato coda al tavolo-le sventolò due fagotti rossi con spesse righe bianche ricamate sopra.
Lei si alzò in piedi massaggiandosi le ginocchia.
-Scusa se non ho portato tavolo e sedie, ma sarei stato leggermente visibile. Purtroppo non ho nemmeno il quarto braccio e ho dovuto lasciare il mio bicchiere di là.-e porse invece una brocca riempita fino a metà di quella che sembrava, e fortunatamente era, acqua naturale.
-Usiamo il mio.
-Ah-sorrise morbido-allora non ti fa schifo bere dallo stesso bicchiere! Ti ho giudicata male prima…va bene, mi fiderò del tuo bicchiere. Dai, apri, qui ci sono due sandwich.
-Carino, questo pacchetto-commentò lei, convinta, fino ad un attimo prima, che quella roba fosse solo per lui.
-Non essere troppo buona, questo servizio è pessimo, non fingere!
-Che?-fece lei a bocca piena.
-Sto porgendo un orribile pacchetto ad una cameriera professionista. Questa cosa mi mette terribilmente in imbarazzo-girò gli occhi.
-Se ti può confortare, sono già due le volte che servo una zuppa senza piatto-rise lei.
-Ah sì?-corrugò la fronte.
-Sai, il piatto resta sul vassoio e la zuppa…viene servita-tentò quasi un occhiolino.
-Bene, allora non sono poi così male-ricambiò il sorriso-Ho visto Tyler, sai? Non si è manco accorto di quello che stavo facendo, sono tutti o presi o fuori di testa là dentro.
-Già…
-Non penso si siano accorti che manchiamo.
-Non ti succede mai?-scherzò amara.
-Di solito è il contrario, non si accorgono che ci sono-rispose lui, prendendole il bicchiere di mano-il che mi porta a pensare cosa io ci faccia qui…
-Idem.
-Credevo fosse per mangiare gratis-piegò la testa.
Paula scrollò le spalle, aprendo con cautela il fagotto che aveva ricevuto in mano.
-No, dimmi, seriamente, che ci fai qui?
-Ho deciso di venire ad una festa…per una volta. Non è normale per una ragazza impossibile, però…
-Tyler e gli altri mi hanno detto che eri una cameriera e non ci ho creduto, mi hanno anche detto che sei una tipa asociale e sono a pronto a non crederci di nuovo.
-Perché non crederci?
-Perché ero convinto mi volessero fare fesso e spillarmi mille dollari. Ti ho incontrato un po’ di volte prima del ristorante, questa cosa mi sapeva di imbroglio. Sembrava mi volessero far credere che eri vera.
-Ma io sono vera-si pizzicò la guancia.
-Lo vedremo-accennò una faccia scrutatrice-Vuoi sapere cosa ci faccio io qui?
-Alla festa, o qui dietro?-azzardò, per togliersi gli ultimi dubbi.
-Non fa molta differenza. Il motivo solo e unico è che dovevo incontrarti, Paula Stuart.
Suonava strano quel verbo “dovere”, con il suo nome, più un sorriso complice e non canzonatorio.
-Non voglio che tu ti senta a disagio nel sapere questo, ma c’è una persona che ti ha tenuto d’occhio e mi ha mandato qui da te.
-Una persona? Chi?
-Vorrei essere sicuro di potermi fidare di te.
Curioso, un momento prima era lei ad avere problemi sulla fiducia.
-Sì, certo, purchè tu non mi faccia firmare nulla sulla carta- tossì lei-mi mette ansia.
-Nessuna carta, mi basta la tua parola. Questa persona ritiene sia abbastanza.
-Allora certamente.
Colton deglutì l’ultimo boccone e le puntò un dito contro.
-Sono amico di Tyler Philips dalle scuole medie, e nonostante l’abbia perso di vista dopo che si è fatto bocciare al primo anno di liceo, sono sempre rimasto uno a cui lui ha rivelato tutti i segreti più intimi. Poi è successo il casino con la sua ragazza e per quel tiro Tyler me l’ha mandata brutta per parecchio tempo. Quella persona che ti dicevo è entrata nella mia vita proprio quando c’è stato questo disastro. Abbiamo deciso che avrei dovuto recuperare il rapporto con Tyler per ritornare ad essere suo amico. Ho deciso di dargli retta.
-Gli? Un uomo? Chi è?
-Si chiama Samuel Chastain-abbozzò uno sguardo misterioso-non è una persona molto aperta di solito, ma direi che modestamente ha fiuto per le persone giuste. Mi ha scelto affinchè mi riprendessi il mio vecchio posto, quello di Dirk, ma purtroppo ormai pare impossibile. Ha deciso così di coinvolgere anche te.
-Me? Ma di cosa si occupa questo…signore?
-E’ un poliziotto, sottocopertura.
-Un poliziotto? Lo sai che i poliziotti…
Si bloccò. Aveva promesso di non fiatare. Così era la fiducia di Minta che andava in fumo. Ci mancava soltanto che qualcos’altro di Minta finisse in cenere. Ma la persona che le stava davanti era ben informata.
-Se ci fosse vera legge, qui, la polizia si chiuderebbe in carcere da sola…Samuel la pensa così.
-E cosa ci fa un poliziotto con te…e con me?
-Non l’hai capito?
Scosse la testa.
-Vuole le persone il più vicine possibili a Tyler Philips, ai Philips, insomma. Vuole dei complici.
-Dei complici per cosa?
-Per distruggere Tyler e tutta la sua famiglia! Tutti quegli sporchi soldi strappati alla gente, capisci?-aveva alzato la mano come un generale in battaglia.
-M-ma io non sono la sua ragazza!
-Infatti sono io ad occuparmi di lei-sorrise malizioso-ma non ci ha dato molte informazioni. Per questo ha deciso che ci serve sì una ragazza, ma che ci faccia da complice. E ci sei capitata tu fra le mani.
-Io? Una ragazza qualunque?
-Tu, già, la ragazza qualunque il cui padre era amico di Vynil Philips, tu, la cameriera che lavorava in un ristorante sfrattato da quella gente. Tu, che l’hai convinto di essere la ragazza più ingenua e stupida di questo universo e nonostante tutto gli hai piantato un mestolo nel fianco! Tu che sei nella casa dove i Philips brucerebbero all’Inferno giorno e notte e dove tutti quelli che vanno e vengono si possono lamentare senza che nessuno vada a fare la spia!
Rimase immobile: non aveva mai pensato a quei “tu” che c’erano nella sua persona. Non spuntavano mai nell’elenco.
-Tu sei la miglior complice sottocopertura che lui può avere, perché tu stessa sei la tua copertura!
-M-ma io, cosa dovrei fare?
-Devi aiutarci, Paula, aiutarci a trovare uno straccio di prova che possa incastrarli. Trovare un errore che hanno fatto prima che lo cancellino. E so che tu conosci tanta gente che è finita sotto di loro. Scommetto che è nelle cose semplici che hanno nascosto le prove. Devi aiutarci, non posso trovare nessun altro.
“Nessun altro”. Non stavano giocando a palla pazza e lei era l’ultima scelta. No, lei era l’unica e sola scelta. Contro i Philips? Suo padre ne sarebbe stato orgoglioso.
Paula gonfiò i polmoni-Quando si comincia?
Colton le sorrise con gli occhi sgranati-Ci stai?
-Se ne avete bisogno, penserei di accettare.
-Vorrei esserne totalmente felice, ma devo ricordarti che potrebbe essere molto pericoloso. Non so se arrivino all’estremo, ma i Philips non scherzano, uno sbaglio e siamo spacciati.
-Ma Samuel Chastain è un poliziotto, ci può proteggere, no?
-Preferisco non contarci troppo. Saremmo noi due gli unici a pagarla. Ma, riguardo a questo, abbiamo deciso che tu devi essere il meno esposta possibile, perciò se vorrai parlare con Samuel dovrai scrivergli una lettera che io consegnerò a lui, e viceversa.
-Non c’è molto da fidarsi, però. Insomma, come faccio a sapere che lui esiste davvero?
-Solo dopo averci lavorato per un po’, fidati, te ne accorgerai.
-E quindi lui come lavorerebbe?-fece lei dubbiosa.
-Che so, mi dice che “va a caccia” e poi lascia il grosso a me.
Colton abbassò lo sguardo sull’ultimo sandwich rimasto.
-Beh, adesso ce lo dovremmo dividere, questo grosso.
-Non se ne accorgeranno subito che nascondiamo qualcosa? Insomma, ci dovremmo inviare anche noi delle lettere?
-Gironzoleremo per Borderlake, io lì non sono molto conosciuto. Torno a malapena qui a Southbay. E poi ormai Samuel mi ha addestrato bene, signorina.
-Ho paura di non…
Un tonfo le evitò di finire la frase.
I due ragazzi, ancora infervorati da una conversazione che per loro pareva reggere il destino del mondo, si piegarono all’angolo della siepe l’una alle spalle dell’altro. Per terra, nel prato, era arrivata una scarpa rossa di vernice con il tacco ormai sporco di parecchi fili d’erba bagnata. Delle voci, dal lato della casa, parevano in qualche modo reclamarla.
-Diamine, proprio qui? Razza di ubriachi! Non sono nemmeno le undici!-sussurrò Colton.-Ok, non abbiamo neanche il tempo per un brindisi…
-Veramente non abbiamo neanche un bicchiere-aggiunse lei, mentre vedeva che il ragazzo si contorceva affannato dentro la camicia.
-Prendi, leggi e distruggila quando hai finito-le sorrise-ma fai che riciclare la busta se ti riesce.
Paula strinse con la punta delle dita la strana busta consumata. Non era un genio, ma capì di chi poteva essere.
-Sempre che tu sia sicura di volerla-cercò i suoi occhi.
-Penso di volerla-contenne tutta la sua avida curiosità.
-Bene, allora quando sarà il momento, ci rivedremo. E’ stato un piacere rivederti- e indietreggiò con un saluto militare.
Lei scosse per qualche secondo la mano, ritirandosi non appena una spettinata, furiosa e zoppicante Valerie Grant comparve nella sua visuale.
-Stupidi idioti! La prossima volta la scarpa ve la ficco io…argh, ma quest’erba è un lago! Dio che…Collie? Che ci fai qui?
Sentì arrivare fra le foglie una voce un po’ più brilla di quella con cui aveva discusso fino a un attimo prima.
-C’era coda, Val, ai bagni…sai…
-Ah, voi uomini! Aiutami a mettermi la scarpa!
-Certo…ecco qui, Cenerentola.
Quando la via fu pulita, Paula sgattaiolò fuori da quell’angolo segreto per ributtarsi nella mischia. Aveva seguito l’esempio di Colton, si era ficcata la busta sotto il vestito, e si era fatta dare un’ispirazione sul come trascorrere il resto della serata, prima che a mezzanotte suo fratello le desse un passaggio a casa.
Cara signorina Paula Stuart,
è evidente che questa lettera è finita nelle sue mani perché, con metodi sicuramente molto grossolani, il mio amico Colton le ha spiegato quale sia il mio intento sia l’uso del suo e del vostro aiuto. Se sta leggendo questo messaggio è perché lei ha accettato di partecipare a questa missione. La gente del mio distretto ne sarebbe molto orgogliosa, come pure tutta la cittadinanza. Ma lei non mi pare avida di applausi per impegnarsi a fondo in questa faccenda, forse è proprio per questo che è la persona più indicata ad assisterci. C’era bisogno di un tocco femminile a questo gruppo.
Un giorno me ne sono arrivato a Borderlake e ho scoperto che una signorina era riuscita ad accalappiare Tyler Philips, e, ancor più importante, suo padre conosceva il signor Philips come le sue tasche. Poi sono venuto a sapere che questo non era altro che un effetto di una banale scommessa di un certo ragazzo per riconquistarsi una fiducia persa. Capirà che io vi dovevo avere nella mia squadra, in un modo o nell’altro. Sarete la mia squadra d’ora in poi, farete la differenza in questa storia.
Le farò sapere tramite il nostro socio quando avrò bisogno di lei. Per ora la invito a non preoccuparsi per la sua sicurezza, perché finchè terrà il segreto, nessuno potrà toccarla. Le chiedo scusa, a questo proposito, se non potrò esserle visibile, ma di questo io e Colton abbiamo discusso abbastanza. E’ meglio per lei.
Spero che Colton sia scusato con lei per l’incidente sfortunato in cui vi siete conosciuti: non voglio sia motivo di problemi fra voi. Ripeto le scuse anche da parte sua, assicurandole che un trattamento così non le doveva essere riservato.
Le auguro una buona serata.
A presto,
Samuel Chastain
P.s. La prego di distruggere questa lettera e di conservarne almeno la busta, se non l’ha già gettata via.
Paula raddrizzò il collo. Aveva seguito emozionata quella grafia leggermente inclinata a sinistra, dimenticandosi di essere seduta su un gabinetto. L’avrebbe distrutta così, non vedeva modo più semplice. Bruciarla era ottimo, ma non sapeva dove trovare un accendino in quel bagno. Sola in quella stanza sentiva che il segreto era al sicuro. Non aveva neanche il dubbio di aver disubbidito a Minta.
L’orologino sul bordo del mobiletto segnava le undici e trentasette.
Ancora più di venti minuti per rileggersela una terza volta.






A.A.
Questo è il capitolo più breve che abbia mai scritto in mezzo ad una storia. Ci sta proprio a malapena il racconto di qualche ora, e una valanga di dialoghi. Però era un episodio importante e volevo metterlo un po’ isolato. Diciamo che non è una vera fanfiction di Scooby Doo se non c’è del mistero e dell’indagine. Ma la via per i fantasmi, ahimè, è ancora lunga… o forse no? Che ne dite del signor Chastain?
Al prossimo capitolo, se avrete la voglia di aspettare
CCG

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