Quello che non c'è di velvetmouth (/viewuser.php?uid=80658)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
- Non andrai mai molto lontano se fuggi da qualcosa che hai
dentro.
Olimpia lo trovò
seduto al tavolo di cucina, la solita sigaretta stretta fra le dita.
Sarebbe voluta entrare come una furia, fare una scenata e
litigare di nuovo come ormai succedeva quasi ogni giorno, ma si
ricordò dell'ora (circa le 3 di
notte), si ricordò del periodo che stava (o meglio, stavano)
passando e decise di lasciar perdere.
Non senza fatica comunque.
- Dai, vieni a letto...-
Lo implorò, quasi; vederlo in quelle condizioni la
straziava. La
luce era spenta, ma anche nella totale oscurità non poteva
fare
a meno di notare quanto il suo viso fosse gonfio e sciupato, con due
occhiaie violacee ai lati del naso e una ruga di preoccupazione
così profonda da sembrare una ferita aperta, proprio in
mezzo
alla fronte.
- E per fare che?-
Si reggeva la testa con la mano sinistra, mentre dalla destra prendeva
grandi boccate di fumo, che aveva ormai impestato tutta l'aria.
Olimpia sbuffò, storcendo il naso.
- Io capisco tutto, Tommaso, ma cazzo, almeno apri la finestra...-
Si avviò a passi pesanti verso le imposte, schiudendole
leggermente. Buttò uno sguardo fuori: la notte era limpida e
il
cielo terso, una luna lattiginosa svettava alta e sembrava quasi
illuminare a giorno le tenebre. Si girò
a guardarlo di nuovo. Nemmero si era mosso, neanche un millimetro.
Iniziava a mal sopportare tutta quella storia... Sì, le
dispiaceva che non riuscisse a dormire ormai da un mese buono, ma che
aveva fatto per risolvere concretamente la situazione? Assolutamente
niente. E
ovviamente, poi, chi doveva sopportare i suoi malumori e la perenne
luna storta? Chi si sorbiva risposte acide e mugugni ostinati, quella
faccia sempre distorta d'insoddisfazione? Sempre lei, certo.
Quasi gli strappò la sigaretta dalle mani e per un pelo non
finì per bruciarlo.
- Ma che cazzo stai facendo?-
Il tono era contrariato ed infastidito, ma la sua espressione svelava
tutta la sua apatia. Mentre lo guardava negli occhi Olimpia ebbe la
dolorosa percezione che se non avessero fatto qualcosa, qualsiasi cosa
e in fretta,
avrebbero rischiato di mandare tutto a puttane... Il loro rapporto ne
stava risentendo pesantemente: neppure ricordava l'ultima volta che
avevano fatto l'amore. Sì, ogni tanto lui si ricordava di
avere
quel minimo slancio vitale per prenderla da dietro, darle due colpi e
poi accasciarsi nel disperato tentativo di riposare, ma
quelle Olimpia preferiva non prenderle in considerazione come rapporti
veri e propri.
Con il mozzicone che ancora fumava nel posacenere gli si
sedette di fronte, fissando ancora quel paio d'occhi verdi che
ricordava essere stati (assieme alle mani) il primo particolare che
aveva notato in lui.
Aveva un gran bel paio di occhi verdi, ma di un verde particolare,
cangiante che lei aveva sempre adorato: passavano dall'essere chiari a
gradazioni via via sempre più scure, fino a sembrare persino
marroni. E poi avevano un taglio davvero intrigante, stretti, vivaci e
furbeschi, insomma lo sguardo di uno che ci sa fare e che non ha paura
di dimostrarlo.
Di tutto questo rimaneva ben poco in quelle iridi acquose ed arrossate.
Sembrava invecchiato di secoli, mangiava poco ed era
dimagrito da far paura; avrebbe voluto aiutarlo e Dio solo sapeva
quanto si era impegnata nel farlo, ma adesso era stanca, stanca di
vederlo così astioso e incattivito, talmente passivo da aver
perso l'entusiasmo nel fare qualsiasi cosa, lui! Che era sempre stato
un tipo così dinamico!
L'impeto di rabbia che l'aveva posseduta qualche attimo prima
svanì nella pena che gli suscitava, ma anche quel sentimento
per
un attimo le parve così sbagliato da sembrarle
pericoloso.
Non avrebbe dovuto provare pena per l'uomo che amava... Non era un
cucciolo ferito, ma un uomo fatto e finito che avrebbe dovuto alzarsi,
radunare i cocci della sua vita e cercare un modo per rimetterli
assieme. Ma decise che non era il momento di essere così
severa,
né con lui né con se stessa e scelse la via
dell'indulgenza.
Con un movimento rapido avvicinò la sua sedia a quella di
Tommaso, anche lui perso nel guardarla negli occhi. Un accenno di
sorriso, al quale lei rispose. Buon segno, dopotutto.
- Sono stanco...-
Aveva sussurrato prima che lei gli passasse i polpastrelli sulle
labbra. Le loro fronti si toccarono, lui chiuse gli occhi sentendoseli
così pesanti da fare male, Olimpia lo imitò,
intrecciando
poi le mani attorno al suo collo.
- Lo so... Ma devi darti una scossa, Momi...-
Era tantissimo tempo che non lo chiamava a quel modo o almeno a lui
così parve. Gli piaque.
- Ti amo, Olimpia-
- Ti amo anche io-
Svegliarsi fu un incubo e non solo perchè, come al solito,
aveva dormito a malapena ma anche perchè quella dannata
sveglia
faceva un baccano infernale, aveva un suono squillante e fastidioso che
proprio non riusciva a sopportare. Sapeva che sarebbe stata un'altra
giornata di merda e questo non migliorava certo le cose.
- Cazzo, Olimpia potresti anche cambiarla questa cazzo di sveglia di
merda...-
Bofonchiò, coprendosi completamente la testa col cuscino.
- Buongiorno anche a te, tesoruccio...-
Anche quel sarcasmo gratuito non gli miglioravano di certo l'uomore. La
sentì scendere dal letto, che cigolò ondeggiando
per
qualche istante, poi passi di piedi nudi sul pavimento e l'acqua
che iniziava a scorrere nella doccia.
Senza neppure rendersi conto con quale brandello di forza
alzò la testa leggermente. Fece una fatica mortale nello
''scollare'' l'occhio destro e aprirlo quel tanto che gli permettesse
di vederla.
Era in piedi sulla porta, gli dava le spalle e si era appena spogliata
della leggera camicia da notte che portava. C'era poca luce, per via
delle tapparelle abbassate, ma poteva distinguere bene i baci di
Venere sul fondo della schiena, proprio sopra a quel sederino tondo,
che lei continuava a ripetere almeno da quando l'aveva conosciuta, che
era troppo grande.
In tutta onestà, lui non l'aveva mai pensata
così, ma
ogni volta che provava ad obiettare sull'argomento lei lo zittiva,
così aveva smesso di dirle che la trovava semplicemente
perfetta.
Come aveva smesso di dirle quanto la trovasse eccitante quando si
scioglieva i capelli e li lasciava fluenti dietro le spalle, quando con
un gesto apparentemente indifferente si portava una ciocca dietro le
orecchie, aveva smesso di dirle anche quanto gli piacesse quando se ne
stava assorta e mordicchiava una penna o quando mescolando il sugo
nella pentola se ne stava con un piede sull'altro, in una posa
così infantile da fare tenerezza e anche quanto adorasse
l'espressione corrucciata che le veniva quando si arrabbiava, che
avrebbe voluto divorarla di baci e morsi ogni volta che alzava la voce
contro di lui, perchè diventava terribilmente sexy.
Non le aveva
neppure mai detto quanto l'amasse veramente e quanto non sopportasse
vederla soffrire così per via dei suoi problemi, delle sue
fragilità, dei suoi insuccessi...
Avrebbe voluto stringerla da dietro, abbracciarla forte, baciarla,
leccarla sul collo, spogliarsi e andare sotto la doccia insieme, fare
l'amore VERAMENTE come non facevano ormai da tempo. Ma la testa era
appesantita, non riusciva a muovere nemmeno un muscolo e la schiena gli
doleva talmente tanto da impedirgli qualunque movimento. Poi la sagoma
di lei scomparve, chiudendosi dietro la porta del bagno.
Non avrebbe sopportato di nuovo quella domanda, non in quel momento
almeno.
Sapeva che non era un'insistenza cattiva, sapeva che era solo una
richiesta innocente dettata dal fatto che non era mai più
tornato da allora... Praticamente da quando portava i calzoni corti.
Deglutì ed ebbe quasi paura che dall'altro capo del telefono
si potesse percepire quanto in realtà fosse in ansia.
Ma poi, in ansia per cosa? Non riusciva a capire bene neppure lui
perchè provasse tutta quella resistenza, sentiva
semplicemente
che non aveva nessuna intenzione di tornare.
Quel teatrino si ripeteva puntualmente ogni anno, specie in
prossimità di feste consacrate.
Era fine novembre, perciò sua madre aveva pensato bene di
iniziare a tartassare con largo anticipo, quell'anno.
-...E poi scusa eh, ma ti pare normale che dobbiamo spostarci sempre io
e tuo padre le rare volte che ci degni della tua
disponibilità?
Sei sempre in giro in qua e in là e appena hai qualche
giorno di
vacanza te ne scappi sempre più lontano! In questi ultimi
anni
ti avremo visto sì e no una decina di volte!-
La stette a sentire pazientemente o almeno costringendosi di esserlo,
ma avrebbe tranquillamente potuto lasciare la cornetta sulla scrivania,
andare di là, farsi portare un caffè dalla
segretaria,
mangiare anche un cornetto magari e sapeva, ne era sicuro, che una
volta ripresa la conversazione avrebbe trovato sua madre intenta
nella solita filippica che ormai conosceva a memoria.
- Mamma hai perfettamente ragione ma sai quanto sono oberato...-
Non era proprio una scusa, non del tutto almeno.
Ricopriva un ruolo di tutto rispetto in una delle società
azionarie più famose del Regno Unito, aveva a malapena il
tempo
per respirare e ancor meno per prendersi delle vacanze,
perciò
nei rari momenti in cui poteva riuscire a fare entrambe le cose
preferiva starsene ben lontano dal paesino da cui proveniva e che, in
tutta franchezza, gli ricordava da quanto ''in basso'' fosse partito.
Non conservava neppure ricordi così spiacevoli da
giustificare
tutta quell'avversione, né aveva mai sofferto da bambino,
semplicemente non aveva mai amato quel posto, gli era sempre calzato
troppo stretto... E poi riteneva quel capitolo della sua vita chiuso,
morto e sepolto dalla polvere di anni ed anni. Non aveva piacere nel
ritornarci, non aveva piacere nel rivedere le solite, vecchie facce.
Sì, gli dispiaceva per i suoi che effettivamente non
riusciva a
vedere quanto avrebbe potuto, ma se l'unico modo fosse stato quello di
tornarsene in Italia, bhe... Avrebbe preferito non vederli mai
più.
- Non dire scemenze, Orlando!-
Quel tono di voce lo conosceva fin troppo bene, aveva permeato gli anni
della sua infanzia e buona parte dell'adolescenza. Sua madre era stata
una professoressa di lettere al liceo ed era solita rimbeccarlo con
quella frase ogni qual volta lui eccedesse in fantasticherie o
stupidaggini. Aveva sempre voluto che suo figlio fosse un ragazzo con
la testa sulle spalle.
Non avrebbe voluto ribattere, sopratutto perchè odiava
discutere, sopratutto per telefono, ma le parole gli uscirono di bocca
quasi da sole:
- Mamma, io sto lavorando qua! Non sto a pettinare bambole! Ti ho
già detto che non tornerò per Natale,
né per
Pasqua, né per nessun'altra festa o ponte o ricorrenza! Ti
è chiaro il concetto? Sono pieno di lavoro, di impegni e di
appuntamenti almeno per i prossimi vent'anni! Se avete piacere di
vedermi sapete dove trovarmi, altrimenti ti dò gli auguri in
anticipo e festa finita!-
Non avrebbe neppure voluto sbattere la cornetta, troncando la
discussione nel modo più infantile e codardo,
nonchè poco
maturo possibile, ma si ritrovò proprio così, il
respiro
leggermente affannato e la mano destra che premeva la cornetta sul
basamento del telefono. Fissava un punto non ben specificato del
pavimento quando Heather entrò con dei moduli da fargli
firmare.
- Non adesso, per favore ripassa tra qualche minuto...-
Quella voce non sembrava provenire da dentro di sé,
assomigliava più a una voce metallica, da robot.
Quando si sedette alla poltrona di pelle, abbandonandosi lungo lo
schienale, si chiese con estrema lucidità se ci fosse
dell'altro
dietro a tutta quella storia, se quella reazione non fosse stata un po'
troppo esagerata.
''L'ho sempre odiato, quel posto...''
Fu la sua unica spiegazione.
Quando rientrò a casa l'unico a fargli le feste fu Cooper,
il
suo boxer di due anni e mezzo. Gli diede un buffetto sulla testa, poi
posando le chiavi sul mobile d'ingresso si avviò
verso la
cucina col cane che lo seguiva scorrazzandogli attorno alle gambe.
Sapeva che lei non era lì, ma controllò lo stesso
in ogni stanza. L'appartamento era vuoto, come previsto.
Si tolse le scarpe, facendo leva con la punta di un piede sul tallone
dell'altro e le abbandonò nell'ingresso. La mattina dopo
sarebbe
passata la domestica a mettere apposto il suo casino. Si tolse anche
giacca e cravatta, rimanendo con la camicia sbottonata sul petto.
Sintonizzò la sua tv al plasma su un torneo di golf e
andò a prendersi una birra in frigo. Un foglietto
fosforescente
attirò la sua attenzione, era un post-it che
staccò dalla
superficie del freezer.
Era opera di April, quella era la sua scrittura. Già prima
di iniziare a leggere stava sbuffando di impazienza.
Gli diceva le stesse cose che continuava a ripetere da tempo, che lui
non l'amava più come prima, che la stava trascurando e che
era
stufa di vivere con uno che non le dimostrava mai niente e... Che aveva
deciso di lasciarlo. Neanche quella era una novità. Finivano
per
lasciarsi almeno tre volte al mese, con un picco, nel mese passato, di
ben otto volte. Orlando sapeva che con il dovuto impegno sarebbe
riuscita ad arrivare anche a cifra doppia.
Sorrise a mezza bocca mentre riappiccicava il foglietto adesivo
lì dove l'aveva trovato e camminava verso il divano. Si
stese,
sorseggiando piano la sua birra ghiacciata. Sapeva, anzi no, era certo
che lei sarebbe tornata piagnucolando al suo solito che non poteva
vivere senza di lui, che lui era il suo ''Italian Stallion'', il suo
uomo, il suo amore, ma sopratutto... Il suo portafogli.
Aveva sempre fatto così, era una testa calda, le piaceva
litigare, fare scenate da prima donna, proprio perchè
Orlando
non le dava la soddisfazione di sentirsi al centro della scena. Davanti
ai suoi eccessi di emotività, degni di una vera drama queen,
lui
rimaneva impassibile, spesso divertito dalla lena con la quale lei si
calava in quelle parti da tragedia greca che sembrava apprezzare tanto.
E lei dal canto suo, sentendosi derisa e presa poco sul serio finiva
per sbollirsi da sola e tornare con la coda fra le gambe ogni
dannatissima volta.
E poi, onestamente, anche se avesse deciso di lasciarlo una buona volta
per tutte, di certo non si sarebbe strappato i capelli dalla
disperazione. Non era più bella, né
più
intelligente, né più simpatica o amabile di una
qualsiasi
altra donna che aveva avuto e questo lo sapeva perchè si
teneva
sempre bene allenato e aggiornato, al passo coi tempi.
La fedeltà non era materia adatta a lui, così
come
ciò che ne conseguiva, ovvero fiducia,
esclusività e nel
più tragico degli eventi, un'unione consacrata.
L'ultima cosa che gli poteva al momento passare per il cervello era
sposarsi e se mai, invece, l'idea fosse diventata irrimediabilmente
attraente agli occhi di April, Orlando sapeva, comunque non senza una
punta di
dispiacere, che la loro storia sarebbe finita col nascere di quel
desiderio. Ma per il momento il pericolo era lontano e i rimorsi
inesistenti.
Mentre si portava alle labbra l'ennesimo sorso di birra
ripensò
di nuovo a sua madre, forse perchè l'immagine dell'accasarsi
gli
ricordava i sogni provincialotti materni o forse perchè per
come l'aveva trattata un po'
in colpa si sentiva.
Un'altra cosa che non sopportava era sentirsi in torto o quantomeno non
in pace con se stesso. Succedeva però di rado, visto che sia
caratterialmente, sia con un apposito training interno durato anni,
aveva saputo acquisire su di sè un controllo emozionale
invidiabile, che lo facevano sentire realizzato e padrone di
sè
stesso.
La parte orgogliosa del suo essere sarebbe rimasta spaparanzata sul
divano fino alla fine del torneo, sarebbe andata in bagno a farsi una
doccia e sarebbe crollata tra le lenzuola di seta cinese, alla faccia
di tutto e tutti. La parte più piccola, ma anche
più
pedante, quella che continuava a tormentarlo quella sera, sembrava
invece avere tutt'altro piano.
Si tirò su, rimanendo a sedere contro il bracciolo, fissava
le
immagini sullo schermo senza vederle, perciò decise di
spegnerlo.
Si alzò, gettò la lattina vuota e rimase in piedi
di fronte al telefono fisso per almeno un paio di minuti.
Di nuovo quella sensazione di fastidio che aveva provato quella mattina.
''Che rottura di cazzo...''
Compose il numero ancor prima di controllare se fosse stato troppo
tardi laggiù. Anche se il fuso era di un'ora di distanza,
sapeva
che i suoi erano abituati ad andare a letto presto.
Il telefono squillò una, due, tre volte, poi si
sentì il ''click''.
- Mamma?-
- No, sono io... Mamma dorme.-
Dovevano aver discusso, perchè suo padre aveva la voce dura
e
fredda di quando aveva i coglioni girati, ma sapeva che non ce l'aveva
con lui.
Orlando non voleva, ma per un attimo gli venne da ridere.
- Lo so che è lì che ascolta, passamela dai...-
Anche se non poteva vederlo sapeva che in quel preciso istante suo
padre aveva quel suo stesso mezzo sorrisetto sulla faccia, lo aveva
preso da lui e da lui aveva anche ereditato il non prendersi troppo sul
serio, cosa che invece riusciva benissimo a sua madre.
Sentì dei colpi nella cornetta e poi la voce che diceva:
- E' Orlando...-
Come se ci fosse stato l'imbarazzo della scelta visto che era figlio
unico.
Doveva esserci stato un momento di ''collutazione'' visto che la
telefonata rimase in sospeso per qualche istante, le loro voci lontane
che parlottavano e Orlando che non riusciva a capire quello che si
stavano dicendo. Molto probabilmente era in scena l'opera ''L'Offesa''
in III Atti, interprete d'eccezione: Ofelia Landucci.
Poi, finalmente:
- Pronto?-
- Mamma-
- Ciao Orlando.-
- Dai mamma, ti volevo chiedere scusa per oggi...-
- Non azzardarti a ridere! Guarda come ti comporti, alla tua
età! Con due poveri vecchi... Dovresti vergognarti!-
La voce di Guglielmo Landucci si sentì forte e chiara anche
se un po' ovattata dalla distanza.
- Vecchia ci sarai!-
Volente o nolente la discussione finì a tarallucci e vino e
persino la mamma accennò una mezza risata. Le scuse vennero
offerte ed accettate e il tutto sembrò volgere per il meglio.
- Mi aspetto che tu ci sia a Natale, Lando...-
Ecco la stilettata finale, sapeva che avrebbe dovuto accettare adesso,
era una scelta obbligata.
- Dai mamma, non posso promettermi niente... E poi non mi chiamare
così, su!-
- Te azzardati a non venire e non ti parlo più,lo dico qui
ed ora!-
Orlando sbuffò, roteando gli occhi al cielo e bofonchiando
qualche obiezione, ma sua madre era irremovibile, non avrebbe
sopportato un altro anno di diserzione. Decise di tenersela buona e
promettere che sì, a Natale ci sarebbe stato, nella speranza
che
poi col passare del tempo e sbollita la rabbia, anche grazie al padre,
il fatto di non andarci poi per davvero non scaturisse nella tragedia
preannunciata.
Abbassò giù, sentendo come ultime parole il ''Ti
voglio
bene'' di sua madre, forse l'unica, vera e autentica esternazione
d'affetto nella vita di un uomo. E per un attimo gli si strinse il
cuore, per un attimo pensò pure che sì, dopotutto
sarebbe
potuto tornare per un giorno.
Ma fu solo un attimo, perchè solo al pensiero gli
cominciarono a sudare le mani.
Non le piaceva prendere la metropolitana, di solito preferiva spostarsi
in bici, perchè era veloce, pratica e stava seduta.
Sul sedile della bicicletta nessuno poteva commentarle il fondoschiena,
fare apprezzamenti sulla sua camminata, sulle sue gambe, sul modo in
cui le stavano i jeans attillati.
Ma la bicicletta era sparita. Quella mattina era scesa di casa, l'aria
fredda immersa completamente dalla nebbia, aveva guardato la grata
lungo il palazzo dove di solito la lasciava e... Niente, non c'era
niente.
Per un momento avrebbe voluto piangere, non tanto per il furto in
sè o la stizza, ma proprio per panico. Il pensiero di dover
camminare per strada la terrorizzava ogni volta. Ma non poteva
tornarsene a casa, chiudersi dentro e permettersi di non andare a
lavoro.
Ne aveva parlato tanto con la psicologa, non doveva permettere ai suoi
pensieri, alle sue paure di prendere il sopravvento sul normale
svolgimento della sua vita. Era migliorata tanto da quando era stata
presa in cura e di questo era sempre più sollevata, ma il
percorso era arduo e fastidiosamente lento.
Sapeva da sempre che c'era qualcosa ''che non andava'' in lei, nel
rapporto con gli altri, nel vivere serenamente la sua vita, ma fino a
quando non era andata a vivere da sola, non era cresciuta e aveva fatto
le prime esperienze, questo non le era pesato poi molto.
Poi era esplosa, credeva di essere pazza ed incurabile, era certa che
non sarebbe mai stata una ragazza normale, senza il terrore di mettere
piede fuori casa. All'inizio tutto per lei era una sfida, persino
andare a comprare il giornale, parlare con l'edicolante, dovergli
rivolgere parola la paralizzava.
Ma adesso stava meglio, anche se attraverso i colloqui con la psicologa
non erano ancora arrivate ad individuare il nocciolo del problema,
molti dei sintomi e delle paure immotivate che le avevano condizionato
la vita si erano attenuate o erano scomparse.
Strisciò il biglietto della metro ed oltrepassò
le barre,
sollevò un lembo della tracolla controllando che avesse
preso
tutti i libri e poi si avviò verso il sottopassaggio.
Era mattina presto, l'orario in cui di solito la gente va a lavorare,
perciò tutt'intorno era molto affollato.
Fino a qualche anno prima Costanza avrebbe provato fastidio e angoscia
anche nel camminare in mezzo a tutte quelle persone perchè
aveva
la percezione, la sensazione che tutte stessero guardandola,
giudicandola.
Ma adesso riusciva tranquillamente a non farci caso, anche se era
comunque infastidita da certe occhiate, magari indifferenti, ma che lei
scambiava per morboso interesse.
Comunque, odiava ancor più trovarsi in luoghi deserti,
perchè aveva la quasi certezza assoluta che le sarebbe
successo
qualcosa, che qualcuno sarebbe balzato dal nulla proprio sopra di lei e
che le avrebbe fatto del male.
Allontanò quei pensieri infilandosi le auricolari in fondo
alle
orecchie e lasciò che la musica la tranquillizzasse mentre
osservava la metro arrivare, aprire le porte e ripartire.
Salì.
Trovò un posto in mezzo a due signori, ma la cosa non la
infastidì per niente, cosa che la fece esultare internamente
e
farle venire un sorrisino timido sulle labbra.
Un ragazzo davanti a lei, appoggiato al tubo verticale la
guardò, sorridendo a sua volta.
Costanza si pietrificò, non riuscendo assolutamente
più a
sbattere le palpebre, ma durò un istante. Riprese a
respirare
regolarmente, il cuore le smise di pompare come un forsennato e il
giovane uomo stava guardando da un'altra parte.
''Era solamente gentile, ha risposto al tuo sorriso... Non vuole farti
del male''
Si ripetè per il resto del viaggio, anche quando lo vide
oltrepassare il tappo di persone che ostruivano le uscite e scendere a
due fermate prima della sua. Lo seguì con lo sguardo, con
interesse. Aveva un bel paio di occhi scuri e le labbra sottili ed
espressive.
Era carino. Sorrise.
Paradossalmente lavorare a scuola non era mai stato un problema, anzi.
Era entrata nel mondo dell'istruzione da relativamente poco, ma aveva
sempre accettato ogni incarico che le avessero offerto anche se questo
voleva dire spostarsi sempre più lontana. Quello dell'andare
via, a differenza di molte altre cose, non era mai stata una paura
quanto più un desiderio.
Ricordava vagamente la sua vita da bambina, i primi ricordi che poteva
richiamare alla memoria erano relativamente recenti: gli anni delle
scuole superiori o al massimo delle medie. Aveva sempre attribuito
questo gap mnemonico alla sua innata sbadataggine, alla testa fra le
nuvole che
non aveva perso mai, neppure ai tempi dell'Università. Ma
effettivamente si ritrovava a pensare che fosse molto strano il fatto
di non ricordare nulla o quasi di
quando era stata una bambina.
L'unico pensiero vivido che poteva rievocare era quel sogno di andare
via lontana, scappare via dal paesino nella campagna toscana nel quale
era nata e vissuta. Non era mai stata un cuor di leone, per quanto
potesse ricordare, nè un'incredibile avventuriera,
perciò
questa inclinazione che sentiva di possedere le pareva al tempo stesso
affascinante e poco adatta, come se appartenesse ad un'altra e non a
lei.
Sta di fatto che c'era riuscita, era andata via ormai da tempo e non
aveva mai avuto nostalgia di casa, probabilmente anche
perchè
non aveva nessuno di cui provare mancanza, visto che i suoi genitori
erano morti
quando ancora andava a scuola.
Era vissuta fino alla maggiore
età con una zia e poi aveva preso la sua strada, senza
ripensamenti nè paure.
Una volta allontanatasi dal paesino natale, Costanza aveva iniziato a
mostrare quei sintomi che l'avrebbero accompagnata più o
meno
assiduamente per tutto il periodo universitario e oltre.
Iniziò a manifestarsi un'acuta paura degli estranei, che
ovviamente intaccava irrimediabilmente la sua vita sociale. Non era mai
stata una ragazza estroversa e spigliata, aveva sempre fatto molta
fatica nel crearsi nuove amicizie, ma si rese conto che qualcosa non
andava quando già il solo uscire di casa le provocava crisi
d'ansia sempre più ingestibili.
Tra mille peripezie e scontri con sè stessa,
però, era
riuscita a laurearsi brillantemente in Storia dell'Arte e ricevendo
quasi immediatamente un incarico in un Liceo di provincia.
Per un periodo di tempo molto limitato fu felice, si sentiva libera e
anche molto più sicura di sè: aveva finalmente
trovato la
sua dimensione e l'ignoto sembrava spaventarla molto meno. Purtroppo
però questa condizione di benessere non durò a
lungo.
Prima delle feste di Natale Costanza era sprofondata nuovamente in
quelle paure che la tormentavano ormai da anni e, se possibile, in
maniera ancora più grave e disperata. Sentiva di non avere
il
controllo sulla sua vita, percepiva di correre costantemente un
pericolo, ma quale esso fosse rimaneva un mistero anche per lei.
L'ansia e la preoccupazione nella quale viveva sembrava riuscire a
condizionare la vita di tutti i giorni, impedendole di viverla
normalmente.
Chiese un periodo di aspettativa, che fortunatamente le fu concesso.
Inizialmente non credeva di avere bisogno d'aiuto, era convinta che si
trattasse di un semplice esaurimento e confidava nell'assoluto riposo.
Continuava a ripetersi la storiella dello stress, della stanchezza, del
fatto di essere sempre stata un po' troppo debole e ansiosa per non
poter incappare ogni tanto in un periodo di black-out: durante
l'Università riteneva che fosse stato lo studio e
l'agitazione
per gli esami a farla scapocciare, poi era arrivata la ricerca di
un'occupazione a metterla K.O e adesso... Adesso la
responsabilità di una classe di studenti tutta sua, l'ansia
di
non essere all'altezza, il dover avere a che fare con persone che non
conosceva, con un luogo che a tratti le pareva ostile.
Ma dentro di sè Costanza sapeva bene che quelle erano
solamente delle fragili obiezioni destinate a cadere nel vuoto.
Quando gli attacchi di panico aumentarono e si presentò
anche
un'immotivata agorafobia, la giovane donna decise di correre ai ripari.
Non solo la sua vita le appariva ormai come un incubo, ma non aveva un
rapporto sano con l'altro sesso da tempi immemori. Aveva avuto qualche
fidanzato, ma mantenere una relazione con tutti quei problemi
era così difficile e dispendioso in energie che si era
sempre
ritrovata sola nel giro di breve tempo. Chi avrebbe voluto avere a che
fare con una del genere, dopotutto?
Non era mai riuscita ad approcciarsi facilmente agli uomini da quando
aveva memoria, perchè, nella maggior parte dei casi, ne
aveva un
terrore paralizzante. Non riusciva a trovarne una spiegazione, ma
spesso e volentieri era spaventata a morte al pensiero di trovarsi da
sola con un uomo, per non parlare del pensiero che qualcuno potesse
approcciarsi a lei ed arrivare persino a toccarla.
Anche il solo parlare con loro era per Costanza una tortura peggiore di
qualsiasi altra.
Era ormai convinta che portare avanti un'esistenza soddisfacente e
libera dagli incubi fosse per lei impossibile.
Poi però aveva conosciuto la psicoterapeuta che era riuscita
a
sollevarla, almeno parzialmente, dal baratro nel quale stava
sprofondando sempre più.
Era in cura dalla dottoressa ormai da un anno ed i primi tempi non
erano stati per nulla facili...
Costanza, infatti, non credeva che sarebbe mai potuta guarire da quegli
incubi, perciò il suo approccio alla terapia era stato
sempre
scettico e ai limiti del mutismo.
Poi, anche grazie alla bravura della sua psicologa, Costanza era pian
piano uscita dal guscio e ad ogni appuntamento riusciva a migliorare
sensibilmente.
C'era ancora moltissima strada da fare, come le aveva detto la stessa
dottoressa, ma con impegno e assiduità sarebbero riuscite
insieme a sciogliere il bandolo della matassa, fino ad arrivare ad una
completa guarigione.
Costanza era emozionata già solo all'idea, anche se la
diagonsi
preliminare che la psicologa le aveva presentato non riusciva a
coincidere con ciò che credeva fosse il ''quid'' scatenante
di
tutto quel processo.
La dottoressa le aveva chiaramente spiegato che il suo spettro di
sintomi poteva essere associato ad un disturbo post-traumatico da
stress, il che implicava che ci fosse stato, appunto, un trauma dal
quale Costanza non era mai riuscita ad uscire completamente e anzi, la
sua mente e il suo corpo avevano reagito all'accaduto mascherandolo con
una serie di sintomi che le stavano rovinando l'esistenza.
In casi molto rari, aveva aggiunto la dottoressa, alcuni pazienti
presentavano persino delle amnesie parziali dell'avvenimento
traumatico, così da rendere l'analisi molto più
complicata e l'individuazione della causa ai limiti dell'impossibile.
La dr.ssa Lotti, però, non riteneva che questo fosse il caso
di
Costanza e continuava a ripeterle che il suo era semplicemente il
classico meccanismo di difesa che emerge successivamente ad un evento
traumatico, ovvero la rimozione e il successivo mascheramento delle
cause lampanti in sintomi che possono fungere da metafore dell'evento
stesso. Sta allo psicologo il compito di interpretare tali
''mimetizzazioni'', lei in quanto paziente doveva semplicemente avere
la forza d'animo di continuare con la sua analisi e portare avanti
minuziosamente ogni compito che la dottoressa riteneva potesse essere
d'aiuto.
Il pensiero di questo ipotetico ''trauma'', però, iniziava
ad ossessionarla.
Spesso passava il suo tempo libero nel vano tentativo di riportare alla
mente ricordi, sensazioni, momenti di vita passata, senza
però
di fatto giungere mai a nessun risultato soddisfacente. Anzi, spesso
quel pensiero finiva per portarla dritta verso uno stato di angoscia
che sfociava in vecchie abitudini e antichi terrori.
- Ciao Costanza!-
Lei si voltò, stringendo forte il bicchiere di carta che
aveva
in mano. Il caffè all'interno le cadde tutto sulla camicetta.
L'insegnante di ginnastica si affrettò a tamponarle la
macchia
con un fazzoletto, ma lei si ritrasse quasi spontaneamente portandosi
le braccia chiuse davanti al petto. Lui rimase interdetto per una
manciata di secondi, poi, le porse un fazzoletto che lei
accettò
con un cenno del capo.
- Mio Dio, mi dispiace... Non volevo spaventarti così,
nè combinare questo disastro!-
Era mortificato e continuava a grattarsi la testa con un gesto buffo e
goffo e che, malgrado la situazione, la fece sorridere.
- Non preoccuparti... Ero...Ero solo sovrappensiero, non è
colpa tua!-
Costanza fece una fatica immane per mettere assieme quelle quattro
parole, ma lui non sembrò accorgersene visto che le sorrise
imbarazzato.
Rimasero per qualche istante in silenzio, lei che inumidiva la punta
del fazzoletto di lui con la lingua e poi lo strofinava con forza e lui
ad osservarla come un cane bastonato, senza saper bene cosa fare o dire.
Poi prese coraggio, sia perchè quella ragazza le era
piaciuta
dal primo momento che l'aveva vista ad inizio anno (forse anche
perchè erano gli unici under 50 di tutto il corpo
insegnante),
sia perchè aveva un'aria tenera e spaurita che risvegliavano
in
lui sia una forte eccitazione, che un istinto protettivo.
Se ne stava sempre per i fatti suoi, anche durante l'intervallo,
nessuno sapeva dove vivesse nè da dove venisse... Attorno
alla
graziosa insegnante di Arte dagli occhi scuri e un po' tristi erano
iniziate a girare voci d'ogni sorta. Ma lui non ci badava,
perchè era sicuro che dietro quel visetto dolce e smunto
nascondesse solamente una profonda solitudine. E avrebbe fatto di tutto
per colmarla.
- Permettimi di offrirtene un altro, almeno!-
Costanza sentì il cuore batterle forte nel petto. Continuava
a
ripetersi che quella non era una situazione pericolosa, che non poteva
succederle nulla di male, che era solo un caffè... Ma le
mani
iniziarono comunque a tremarle e la gola le divenne arsa e dolorante.
Il professore di ginnastica Federico Giuliani intanto se ne stava ad
osservarla in attesa di una risposta, che sperava fosse positiva.
Costanza annuì con uno scatto deciso e meccanico che non
doveva
apparirgli poi tanto incoraggiante, eppure le labbra di Federico si
inarcarono in un sorriso. Il tamburo che aveva nel petto
sembrò
perdere vigore e una sensazione di assoluta calma si prese possesso di
lei. Riuscì a sorridere anche lei, come sollevata da un peso
enorme.
Il professore di ginnastica mise una mano nei pantaloni, ne estrasse
una moneta e la inserì nel distributore senza mai toglierle
gli
occhi di dosso. Costanza avvertì una vampata violenta alle
guance e un tremolìo sommesso all'altezza dello stomaco, ma
era
tranquilla, felice... Quasi... Emozionata.
- Senza zucchero, vero?-
Le domandò, l'indice in attesa sospeso a mezz'aria.
- Senza zucchero!-
Confermò lei con un sorriso disteso.
Lui rise con gli occhi bassi, appena appena imbarazzato, poi conscio
dello sguardo interrogativo di lei si affrettò a spiegarsi.
- Non sorridi spesso, ma quando lo fai... Bhe, è
splendido...-
Il cuore non le batteva più, le si era proprio fermato... E
per
un attimo ebbe come la sensazione che il groviglio di pensieri
negativi, paure e angosce si fosse sciolto, svanito nell'aria con tutto
il resto.
Era come se nell'intero Universo esistessero solo loro due, i timidi
sorrisi e quell'odore pungente di caffè amaro.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Capitolo 1 ***
- Ho questa foto di pura gioia
è di un bambino con la sua pistola
che spara dritto davanti a sè
a quello che non c'è
Sembrava una vita fa ormai, ma per lui era
come se fosse successo il giorno prima.
Ricordava ancora la sensazione che aveva provato nell'immediato, quando
era appena accaduto.
Un dolore, un dolore fisico tremendo e poi la nausea, talmente forte da
far venire il mal di testa... Non avrebbe mai più provato
una
sensazione simile in tutta la sua vita, mai, neppure quando Sandra
aveva avuto le doglie e lui le era rimasto accanto a stringerle la
mano, la
bile acida che per l'ansia gli risaliva su fino alle labbra.
Era un qualcosa di unico, di tristemente inimitabile, che ti si
appiccica addosso ed è difficile da mandar via, da
dimenticare... Non che non ci avesse provato, tutt'altro, anzi, aveva
sperato, aveva sognato, aveva pregato di poterlo fare, di riuscire un
giorno a svegliarsi senza sentire quel peso opprimente sul petto,
quella macchia oleosa che lo insozzava indelebilmente, senza che niente
o nessuno potesse mai mondarla una volta per tutte.
Ogni volta che abbassava le palpebre gli sembrava di rivivere certi
momenti, di ritrovarsi piccino, con la bocca serrata e gli occhi
spalancati, le membra e la testa fredde da fare male, come se non
fossero sue, come se lui in realtà fosse altrove, lontano,
in un
posto dove il dolore non esisteva e il senso di colpa non lo dilaniava
a piccoli morsi, straziandolo come una carogna.
Come in ogni sogno che si rispetti non riusciva mai a gridare
né
ad invocare aiuto ma Dio, quanto avrebbe voluto poterlo fare! Dire a
quel bambino con i capelli scuri e gli occhi chiarissimi di fuggire
via, di scappare più forte che avesse potuto, fino anche a
sentire in gola il sapore metallico del sangue. E invece no,
quel
bimbo che era stato rimaneva seduto su di un muretto polveroso e cotto
dal sole, le gambe penzoloni che oscillavano ritmicamente mentre
incontrava il suo destino.
Quell'estate era impressa a fuoco nella sua mente, ma pure
sul corpo. Ad inizio luglio era infatti caduto dalla
bicicletta di
suo cugino più grande e si era sbucciato tutta la gamba, dal
ginocchio fino alla caviglia, ne portava ancora una vistosa cicatrice
rossastra e un po' sbiadita.
Ancora ricordava le grida di sua madre quando gliel'avevano portato a
casa in braccio, tutto quel sangue che gli colava dal piede.
Ma non era stato il male maggiore con cui avrebbe avuto a che fare in
quei mesi; quella ferita si era cicatrizzata col tempo, l'altra la
portava ancora aperta dentro di sè.
Le feste di Natale si stavano avvicinando ed i bambini erano
già
elettrizzati, non aspettavano altro che quel momento magico: le lucine
luccicanti dell'albero, i pacchi dalle misteriose carte colorate, le
coccole dei nonni e il permesso di rimanere svegli fino a tardi assieme
ai grandi. Era fine novembre, ma era come se nell'aria si percepisse
già il cambiamento, l' atmosfera che riunisce ed allieta.
Anche se la porta del bagno era chiusa, Alberto poteva sentire
l'odorino di buono della cena.
Sandra doveva aver preparato l'arrosto con le patate, che le riusciva
così bene da far venire l'acquolina già solo al
pensiero.
Fu triste pensare che non avrebbe mai potuto mangiarlo per l'ultima
volta. Fu tentato per un attimo di desistere, ma non per l'arrosto
succulento, quanto per la meravigliosa vita che aveva: due figli
piccoli, una moglie dolce e bellissima, una casa tutta loro, un lavoro
rispettabile. Per tutti era certamente così, ma non per lui.
Si guardò allo specchio. Era anche un bell'uomo, lo era
sempre stato, come pure era stato un bellissimo bambino.
A quel pensiero sentì un conato scuoterlo dalle viscere.
Si aggrappò forte al lavandino, talmente forte che le nocche
gli si imbiancarono.
Poi, proprio mentre sentiva dal piano di sotto la sigla dei cartoni
animati in tv e Sandra che chiamava i bambini a tavola, prese il rasoio
che teneva nel primo cassetto, lo tolse dall'astuccio e con un due
tagli si recise di netto i polsi.
-Allora io vado... Ci vediamo stasera!-
Neppure aspettò che lui si degnasse di sollevare la testa
dal
computer, inforcò semplicemente la porta d'ingresso e
sparì, i tacchi che ticchettavano squillanti giù
per la
tromba delle scale.
Tommaso sbuffò, cancellando anche la riga di parole che
aveva appena, faticosamente messo insieme.
- Fanculo, fanculo, fanculo, fanculo!-
Ripetè spazientito, come in un mantra.
La barra verticale riprese a lampeggiare nell'immensità
vuota e
bianca del foglio di testo, come a ricordargli il fallimento della sua
intera esistenza.
In quei momenti di sconforto una rabbia cieca e cattiva si impossessava
di lui. Era come se non si trattasse del se stesso che conosceva, ma di
un altro, una sorta di Dr Jekyll e Mr Hyde che si alternavano dentro
di lui.
Pensava ad Olimpia e a quanto fosse semplice la sua vita da impiegata,
mica come lui che doveva sudarsi il pane con il suo talento, con la sua
ispirazione. Arrivava ad odiarla, persino...Per lei era facile
infilarsi in quel
taullerino striminzito e sculettare avanti e indietro in
ufficio,
facendo sbavare il capo che infatti continuava a promuoverla a
più non
posso. Se la immaginava mentre faceva la troia con quella risata a
bocca aperta, le labbra ovviamente pennellate di rosso e che utilizzava
come arma di seduzione per i poveri polli che la trovavano attraente,
quando invece a lui, quando esagerava col trucco, sembrava solo
volgare. Arrivò persino a
immaginarsela in ginocchio sotto la scrivania di qualche panzone
incravattato, mentre quello le teneva la nuca con una mano inanellata e
nodosa, facendole fare su e giù ritmicamente.
Gli venne talmente da vomitare che dovette alzarsi e in uno scatto
d'ira per poco non rovesciò il tavolo da fumo con sopra il
portatile.
- Sto diventando pazzo... Sto pensando a cose assurde, sto diventando
pazzo...-
Rimase qualche istante con la fronte poggiata al vetro freddo, gli
occhi chiusi nel vano tentativo di controllare il respiro.
Come poteva pensare quelle cose sulla sua donna? Questa era l'insonnia
che parlava per lui: lo stava tramutando in un individuo astioso e
pericoloso. Si faceva
persino paura da solo, dato che schifo se lo faceva già da
tempo.
Si trascinò fino in cucina, continuando a scuotere la testa
sommessamente, come a voler scacciare quei pensieri insensati e
ingannatori.
Aprì il frigo agguantando uno yogurt, controllò
la
scadenza e poi lo aprì ficcandoci dentro un cucchiaino
recuperato dal lavabo.
Si sentiva sporco e infido, una vera merda d'uomo. Avrebbe voluto
chiamare Olimpia, dirle che la amava e prometterle che quando sarebbe
tornata a casa la sera avrebbe trovato la cena pronta e la casa pulita,
ma sapeva benissimo di non riuscire nemmeno a portare avanti quei
miseri buoni propositi. E poi sapeva che l'avrebbe
disturbata solamente.
Ultimamente Olimpia mal sopportava i suoi cambiamenti d'umore e anche
se Tommaso cercava di non darlo a vedere, intimamente era terrorizzato
all'ipotesi che lei potesse lasciarlo. Ipotesi che comunque si stava
pericolosamente concretizzando in realtà.
Si accese una sigaretta, aspirando nervosamente il fumo che poi
ributtava istantaneamente fuori, neanche fosse stato un treno a vapore.
Se fosse rimasto chiuso in quella casa sapeva che l'unica cosa che
avrebbe finito non sarebbe stato affatto un capitolo del libro, quanto
il pacchetto mezzo vuoto che aveva lì sul tavolo.
Perciò
arraffò il computer, le chiavi di casa e il cappotto e scese
giù le scale del condominio, diretto in biblioteca.
Quando uscì dal portone l'aria di novembre lo accolse in una
nuvola gelida, che lo fece rabbrividire fin dentro le ossa.
Iniziò a camminare, il berretto calato fin sopra gli occhi e
la
testa bassa nel vano tentativo di proteggersi da quel fastidiosissimo
vento nordico.
Prima di entrare in macchina controllò se per caso Olimpia
gli
avesse mandato un messaggio durante la pausa di metà
mattina, ma
l'icona a forma di carta da lettere rimase immobile. Sbuffò,
si
tolse i guanti poggiandoli sul cruscotto e poi mise in moto.
La biblioteca era un luogo di pace.
Il silenzio che la avvolgeva lo tranquillizzavano come poche altre
cose. Adorava sopratutto il frusciare di pagine, unico suono in
sottofondo a centinaia di mani che sfogliavano altrettanti libri,
vecchi volumi e giornali d'epoca.
Si sedette al solito posto, un tavolino leggermente defilato posto
sotto una delle grandi vetrate in stile liberty.
Prima di tirar fuori il portatile dalla custodia si diede una rapida
occhiata attorno, anche quello una sorta di tic abitudinale che
compiva prima di mettersi a lavoro.
Olimpia gli aveva fatto più volte notare che sembrava un
pazzo
mentre si guardava attorno con aria circospetta e le spalle incurvate.
Non lo faceva per un motivo preciso era più un atto
propiziatorio prima di porre le mani sulla tastiera, prima di impugnare
la penna, insomma era come un rito che serviva a liberare il suo flusso
di idee. Flusso di idee che negli ultimi mesi si era interrotto
bruscamente.
Non era mai stato uno scrittore dalla fucina colma e stracolma, doveva
ammetterlo. Aveva sempre invidiato colleghi molto più
creativi
che sembravano tirar fuori pubblicazioni, libri, articoli e quant'altro
neanche fossero maghi in grado di estrarre dalla tuba colombe, conigli
e
animaletti di ogni sorta.
Tommaso si era sempre considerato un mediocre plasmatore, dotato di
scarsa inventiva, ma d'altra parte sapeva anche di possedere una dote
che si era rivelata altrettanto importante nella professione che aveva
intrapreso: la passione e l'abilità nel manipolare le
parole.
Scrivere gli veniva naturale quasi quanto respirare, ma aveva sempre
peccato di poca originalità.
Ciò in cui eccellevva era il riuscire ad immergere il
lettore in
ciò che raccontava, in ciò che creava, con una
potenza
d'espressione alquanto rara. Ma questa sua qualità sarebbe
andata scemando se non fosse riuscito a percorrere strade o meglio,
storie originali e d'effetto.
Gli pareva sempre più spesso di scrivere
banalità, idee
rubate ad altri, pensieri che non gli appartenevano e che si rivelavano
tanto vuoti quanto privi di qualsiasi interesse.
I primi tempi Olimpia lo aveva consolato dicendo che un periodo di
black-out capita a tutti, anche ai più grandi scrittori,
bastava
semplicemente non sprofondare nel vortice del ''non sto combinando
nulla, tutto quello che scrivo fa schifo, sono destinato a scrivere
necrologi nei giornali locali'' e cercare di riemergere dal baratro.
Erano tutte belle parole e senz'altro veritiere, ma dopo mesi di totale
improduttività Tommaso si ritrovava perso e sconsolato e
quasi
deciso a trovarsi un ''lavoro serio'', come lo aveva pungolato per anni
suo padre.
L'anno prima aveva pubblicato un romanzetto di discreto successo, ma di
cui non era per nulla soddisfatto e la cui storia gli sembrava ogni
volta che ne leggeva qualche pagina di una leggerezza e
banalità
incredibili.
Anche su questa questione Olimpia aveva sempre una parola di conforto
in grado di farlo stare meglio. Onestamente Tommaso non sapeva dove
sarebbe andato a finire se accanto a lui non ci fosse stata lei, lei
che lo aveva sollevato dai pensieri più terribili, che lo
aveva
curato dalle ferite più brucianti, che riusciva ad amarlo
nonostante tutto quello schifo che quotidianamente le propinava.
Chiuse gli occhi per qualche istante, ispirando a pieni polmoni l'odore
di cellulosa e polvere. Per un attimo gli venne forse anche da
piangere, ma aveva dalla sua la certezza che le lacrime non sarebbero
uscite,
non in un luogo pubblico almeno... Era pur sempre un uomo, no? Gli
uomini non
piangono o meglio, fanno finta di non farlo mai. Era una bugia talmente
universale che anche a lui piaceva raccontarsela, perciò
tirò su col naso e ricacciò dentro tutto
ciò che
aveva osato balzar fuori e si mise a lavorare.
Tutto sommato, visto il periodaccio, quella giornata fu un totale
successo: era riuscito a scrivere ben tre pagine e, notizia ancora
più sconvolgente, ogni volta che provava a rileggerle le
trovava
sempre più valide.
Mentre dava un rapido controllo ortografico al testo lanciò
lo
sguardo in basso a destra dello schermo, quasi balzò in
piedi
rendendosi conto di essere rimasto su quella sedia per più
di
sei ore, senza mai alzare gli occhi, nè essere disturbato
dal
morso di bisogni di alcuna sorta.
Era proprio vero, quando scriveva si trovava totalmente immerso in un
mondo tutto suo, una specie di bolla inespugnabile.
Olimpia doveva essere già tornata da lavoro o almeno era in
procinto di arrivare. Si alzò dal tavolo con un sorriso
talmente
esteso da contagiare la ragazza che gli si trovava di fronte e con la
quale scambiò un cenno di saluto.
La giornata aveva preso una piega inaspettata, anche uscendo
dall'edificio Tommaso si lasciò sferzare a testa alta dallo
stesso vento che lo aveva ghiacciato nell'entrare, ma stavolta sentiva
non di camminare, ma volare ad almeno un metro d'altezza.
Quella bora fastidiosa a
lui sembrò solo una leggerissima brezza. Era felice, era
soddisfatto e non vedeva l'ora di condividere quell'euforia con la sua
donna.
Aveva già in mente di chiederle scusa, di prometterle
solennemente che si sarebbe ripulito dalle scorie tossiche di quel
periodo negativo, lei avrebbe potuto
prendere qualche giorno di ferie dal lavoro, sarebbero potuti andare al
lago, affittare una casetta e passare il fine settimana a fare l'amore
e comportarsi come se il mondo fuori non esistesse, proprio come i
primi tempi, quando erano così innamorati da scordarsi
perfino
di mangiare.
Bruciò una serie infinita di semafori rossi, in quel momento
lo
spauracchio di una multa non poteva nemmeno lontanamente scalfirlo.
Si fermò dal cinese all'angolo e ordinò gli
spaghetti e l'anatra all'arancia che Olimpia adorava.
Quasi cadde per le scale del condominio balzandone tre per volta,
scampanellò con foga, annaspando col fiato strozzato per la
fatica e l'eccitazione.
Quando Olimpia gli aprì la porta capì
immediatamente che qualcosa non andava.
- E' successo qualcosa?-
Non voleva farle quella domanda perchè non aveva intenzione
di
ascoltare la risposta. Il pensiero di dover assistere inerme
all'esplosione della bolla di gioia che lo circondava, lo
faceva impazzire.
Sarebbe volentieri scappato in un angolo, le mani premute sopra le
orecchie e la gola che esplode in una serie di gorgheggi senza senso,
come fanno i bambini quando gli viene detto qualcosa che non vogliono
sentire.
Dentro la sua testa si aprirono numerosi scenari apocalittici
nell'istante stesso in cui le labbra di Olimpia di dischiusero.
- Ha chiamato la Polizia...-
La sua espressione mutò, la fronte lisciata dall'ansia gli
si frastagliò di rughe confuse.
Avrebbe voluto dire qualcosa, ma le parole gli morirono in gola quando
Olimpia riprese a parlare.
- Alberto, il tuo amico d'infanzia, è morto.-
La nottata buttata a ripassarsi quella modella svedese iniziava a
fargli accusare il colpo e, onestamente, il risultato a fronte delle
premesse, si era rivelato alquanto deludente.
Di solito le tipe smilze e sprovviste di tutti gli attributi che
piacciono ai maschietti (ad esempio un bel paio di belle tette dal
calore materno o un sederino tondo tondo, come fatto col compasso) si
rivelavano delle vere furie a letto, forse proprio per compensazione
alla mancanza di accessori.
Quella invece no. Si era dimostrata di una noia mortale, anche quando
glielo aveva preso in bocca, Orlando non aveva provato nient'altro che
apatia mista anche a un certo disagio, che ovviamente gliel'avevan
fatto ammosciare in tempo record.
Non si poteva però dire che la ragazza non avesse affrontato
la
cosa con un certo spirito: evidentemente l'aveva presa come una
crociata personale, dato che aveva iniziato a succhiarlo fin quasi a
prosciugarlo. Anche lì, nient'altro che fastidio.
Non c'era tecnica, ma sopratutto non c'era la benchè minima
passione, anche un coglione qualsiasi avrebbe capito che quella
cagnetta accucciata in ginocchio si stava dando da fare solo per
alimentare il suo ego da fattona anoressica. Non che questo non andasse
bene, dopotutto per una botta e via Orlando non si metteva di certo a
questionare se la partner fosse stata soddisfatta o meno.
Era tutta una grossa questione di egoismo di fondo e non solo nel
sesso, quanto sopratutto nella vita stessa.
Questa rivelazione poteva lasciare l'amaro in bocca come anche no, ma
prima o poi tutti nel corso della loro esistenza dovevano fronteggiare
in qualche modo la triste verità. Tutti sono pronti a
metterlo
in culo al prossimo.
Venne per sfinimento e solo perchè si era stancato di
scopare un
pezzo di carne immobile e vagamente mugolante, che ogni tanto lanciava
un'occhiata all'enorme specchiera al lato del letto. Chissà
cosa
cazzo stava pensando in quel momento? Voleva controllare che
quell'unico grammo di cicca che aveva non sballonzolasse, rendendola
meno attraente? O voleva solamente ammirare il suo faccino da copertina
mentre la bocca le si spalancava di piacere?
Non gli importò nemmeno se stesse fingendo o meno, neanche
il
tempo di finire che già si trovava sotto la doccia per
eliminare
le scorie di quell'amplesso fallimentare.
- Rimango a Londra fino alla settimana prossima...-
Aveva ammiccato con un inglese da vichinga.
Lui aveva sorriso, di quel suo sorriso obliquo.
- Mi fa piacere-
Evidentemente non le capitava spesso di essere rifiutata o comunque non
in quel modo, ma almeno ebbe la decenza di inventare una scusa e
filarsela. La osservò mentre entrava in ascensore e lo
salutava
falsamente con la manina. Sapeva che se avesse potuto lo avrebbe
fulminato seduta stante. Quando le porte le si chiusero davanti e
l'ascensore si mosse Orlando promise a se stesso che la prossima
sarebbe stata una tipa latina tutta curve.
Arrivò in ufficio in ritardo e con i postumi di quella
nottata
odiosa. Gli sembrava un peccato aver sprecato energie per una roba del
genere, ma ormai il ''danno'' era fatto.
Si fece portare un caffè macchiato da Heather, che
arrivò ancheggiando al suo solito.
Mentre la osservava posare il vassoio sulla sua scrivania si chiese
perchè non avesse mai pensato di portarsela a letto, forse
perchè era un tipino piuttosto anonimo, ma nell'ultimo
periodo
aveva messo su un fisichino niente male.
- Vai in palestra, Heather?-
La ragazza sollevò il viso, vagamente interdetta dalla
domanda.
- Da qualche settimana, sì...-
Arrossì leggermente, ma fu un attimo e Orlando non avrebbe
potuto giurare che fosse successo davvero. Comunque aveva una gran
voglia di farselo, questo era più che ovvio.
Le sorrise mellifluo mentre soffiava sul caffè fumante.
Quando si voltò per tornare di là alla sua
scrivania le
osservò ben bene il didietro. Eccome se si vedeva che andava
in
palestra!
La giornata passò uggiosa e grigia, come il cielo plumbeo
che si
stagliava al di là delle finestrone della sede centrale
della
Franklin-Harrison Assicuration.
Si fermò a pensare ad April e a quanto stavolta riuscisse a
tener duro prima di capitolare nuovamente ai suoi piedi, ma Orlando era
fiducioso che sarebbe successo presto.
Dopo aver incontrato alcuni colleghi e aver discusso di un imminente
viaggio in Giappone si era chiuso in ufficio, mettendo sul piatto del
giradischi (che gli era costato una fortuna) un vecchio disco jazz di
Buck Owens. Aveva chiuso gli occhi e, mentre le note iniziali
prendevano corpo, era inesorabilmente sprofondato in un sonno pastoso.
Lo svegliò il tocco leggero di Heather sulla spalla. La
puntina
del giradischi stava friggendo in loop da chissà quanto
tempo.
- Orlando, c'è una chiamata per te dall'Italia...-
Era stato lui a volere che i suoi dipendenti lo chiamassero per nome e
non ''capo'', ''boss'' o altre cagate simili. Far credere loro che non
ci fosse un divario egemonico fra loro li rendeva più
propensi a
lavorare sodo.
- Sai come devi comportarti quando chiamano i miei genitori...-
La voce gli uscì dura, con uno sbuffo. Cristo, erano anni
che lavorava per lui e ancora non aveva capito?!
Ma qualcosa nell'espressione della sua segretaria lo fece desistere
dall'arrabbiarsi.
- Di che si tratta?-
Chiese, lapidario, mentre si scrollava di dosso gli ultimi sprazzi di
sonno che gli lambivano gli occhi.
- E' la polizia... E dicono che è urgente...-
La fronte gli si corrugò d'istinto. Che diamine poteva
volere da
lui la polizia italiana, visto che non metteva piede nel BelPaese da
almeno 10 anni? E non si poteva neppure parlare di un errore, anche se
l'idea gli era per un attimo balenata in mente... Non poteva credere
che le forze dell'ordine fossero così inette da sbagliare
persona, anche se trattandosi di Italia tutto poteva succedere.
Qualcosa gli faceva pensare che quel cazzo da cacare fosse proprio
tutto suo.
Si sollevò con un colpo di reni e ringraziò di
tenersi in
forma quotidianamente con la palestra, altrimenti ci
sarebbero volute ore di rodaggio prima di poter essere operativo,
comunque, un bel capogiro gli fece da benvenuto nel mondo dei vivi.
Odiava gli imprevisti e odiava ancor di più avere a che fare
con
la Legge, di qualunque cosa si trattasse. Mentre aspettava che Heather
gli passasse la telefonata sul suo cordless d'ufficio decise comunque
di mantenere la calma. Si ritrovò persino a rispolverare
quelle
cacate mantra pseudo meditative alle quali anni prima April lo aveva
trascinato: un corso del cazzo su come prendere possesso del proprio Io
interiore e governare le emozioni, stare in pace col mondo e cagare
fiorellini.
Poi il telefono squillò.
Avrebbe voluto rispondere subito e invece l'ansia lo
attanagliò
per una manciata di secondi. Uno, due, tre squilli, poi si decise ad
alzare la maledetta cornetta.
- Pronto?-
- Pronto, parlo col signor Orlando Landucci?-
Sentire quelle poche parole pronunciate in italiano lo fecero quasi
ridere. Non parlava mai la sua lingua madre a Londra, a parte qualche
raro caso e ovviamente con i suoi genitori, unito a tutta la faccenda
gli sembrò surreale e tragicomico.
- Sì, sono io... Mi dica...-
Si sforzò di apparire controllato e cordiale, due cose che
non erano propriamente punti forti del suo carattere.
La persona all'altro capo si presentò come il commissario
Eugenio Comencini, della stazione di Bologna.
In un lasso di tempo che non aveva superato il secondo, Orlando
riordinò le idee, rendendosi conto che quelle informazioni
non
gli dicevano niente, assolutamente niente. Nessuna lampadina accesa.
Decise di aspettare pazientemente, per quanto possibile.
Gli sembrava di esser stato catapultato in un poliziesco, quasi poteva
vedere un agente speciale che sfondava la porta con un calcio, seguito
da un reparto speciale di poliziotti a viso coperto e le armi in pugno,
che gli intimavano di non muoversi.
E invece no, non successe un bel niente e mentre riprendeva fiato
dall'inspiegabile terrore che lo stava pervadendo, il commissario si
decise a vuotare il sacco.
- Mi duole informala che un suo vecchio amico, tale...-
Comencini fece una pausa, evidentemente si era appuntato il nome
chissà dove. Orlando deglutì.
-...Peruzzi Alberto ha perso la vita questa sera...-
Orlando continuava a non capire.
- Scusi, io...Io non riesco a capire...-
L'altro riprese a parlare come un disco registrato, senza nemmeno
dargli tempo di assimilare la cosa.
- Abbiamo trovato appuntato il suo nome su un messaggio che pare abbia
scritto il defunto prima di tagliarsi le vene...-
Gli occhi di Orlando si spalancarono e una delle sue grosse mani gli
andò a coprire la bocca.
Alberto Peruzzi.
Quanto tempo poteva essere passato dall'ultima volta che si erano
visti? Più di 15 anni senz'altro.
Nemmeno ricordava di essergli stato poi così tanto amico o
almeno, non da essere l'ultima persona alla quale scrivere prima di
ammazzarsi. Sì avevan giocato assieme da bambini, ma non era
poi
tanto impossibile visto che abitavano in un buco di culo di paese nella
campagna toscana, era una scelta obbligata. Poi si erano
inesorabilmente persi di vista una volta iniziate le scuole superiori
prima e l'Università poi. Sapeva solo che aveva studiato
Farmacia a Bologna e si era sposato, tutte informazioni estrapolate
dalle parole vomitate a getto da sua madre durante le telefonate di
quegli anni. E adesso gli ritornava tutto alla mente. Ma apparte
quello, cosa poteva dire di sapere su quella persona? Gli amici che si
hanno da bambini diventano facilmente estranei da adulti, mica era poi
così raro.
Non poteva dire di non essere dispiaciuto, certo... Era abbastanza
sconvolgente venire a sapere che una persona con la quale aveva
condiviso un frammento, se pure minimo, della sua vita avesse deciso di
compiere un gesto così estremo, eppure continuava a non
capire,
a non cogliere il nesso. Si sentiva confuso e con uno strano sapore di
bile sulle labbra.
- Francamente non so come aiutarvi... Sono...Sono scosso, ma io non
ho... Non avevo contatti con Alberto da quasi vent'anni... Non capisco
proprio cosa possa averlo spinto a scrivere il mio nome...-
Per un attimo arrivò a pensare che quel coglione
insoddisfatto
poteva benissimo togliersi di mezzo senza rompere i coglioni a lui, ma
quella cattiveria gratuita non doveva proprio meritarsela. Alberto era
sempre stato un pezzo di pane, almeno a quanto poteva ricordare.
- Oh, ma lei non è mica il solo...-
Il tono del commissario gli sembrò quasi entusiasta e
leggermente velenoso, come quando un sadico schizzoide ti rivela che le
tue torture sono solo all'inizio, che c'è così
tanto,
tanto da divertirsi ancora.
- Non capisco...-
Si ritrovò a ripetere, le labbra che gli si muovevano in
automatico.
- Peruzzi ha scritto il nome di altri due suoi vecchi amici
d'infanzia... Presumo che fossero anche i suoi... I nomi...-
Di nuovo un frusciare di carte.
-...I nomi... Tommaso Nardelli e Costanza Ferrucci le dicono niente?-
Orlando scosse la testa, se possibile ancora più interdetto
e confuso. Poi un lampo improvviso, quasi doloroso.
- Sì... Erano miei amici, ma parliamo di... Quanto? 25 anni
fa!
Onestamente non riesco a comprendere dove vorrebbe arrivare...Non
dovrebbe essere lei a dare delle risposte? Se si diverte a comporre
enigmi come una Sfinge io di certo non posso aiutarla, ne so molto meno
di lei!-
Era alterato, stanco e incredulo. Era accaduto tutto talmente in fretta
che la testa gli pulsava e gli sembrava quasi di sentire le sue sinapsi
impazzite, tutte intente nel vano tentativo di capirci qualcosa.
Tommaso, Costanza... Alberto.
Ectoplasmi di ricordi fumosi gli si proiettavano
ad intermittenza davanti agli occhi. Non ricordava pressoché
nulla, a momenti neppure le loro
fattezze.
- Signor Landucci, si calmi per favore... Qui nessuno la sta accusando
di niente! Solo che, deve ammetterlo, questa faccenda è
alquanto
strana...-
Cosa stava facendo quell'incompetente? Insinuazioni del cazzo? Avrebbe
volentieri preso a calci la cornetta fino a disintegrarla.
Ma rimase calmo, respirando ritmicamente. Dopotutto stava soltanto
facendo il suo stramaledetto lavoro di sbirro.
- Mi scusi, ma sono leggermente scosso...-
Sibilò tra i denti.
- Posso capirlo... Devo però pregarla di presentarsi qua in
stazione entro e non oltre due giorni-
Il pensiero di ritornare gli fece venire i sudori freddi, come al
solito.
''Visto, mamma? Volevi che il tuo bamboccino tornasse per Natale?
Sorpresa! Ti viene a far visita addirittura con un mese d'anticipo!''
- Ma... Come posso esserle d'aiuto? Le ho già detto che non
so
niente! E poi non posso assentarmi da lavoro, sono un importante
dirigente!-
Il commissario rise di una risata pastosa fatta di pacchetti da 20 di
almeno una quindicina d'anni, poi parlò con un tono talmente
duro e funereo da far venire i brividi.
- Forse non ha capito, Landucci... Volente o nolente lei ha un morto
sulla coscienza e per quanto mi riguarda potrebbe essere pure il
Padreterno, si deve
presentare fra due giorni, altrimenti avrà più di
questo
inconveniente a cui badare...-
- Mi sta forse minacciando?!-
- No, gli sto suggerendo di non fare il coglione.-
Ci era voluto un po', ma alla fine ci era riuscita. Aveva iniziato a
prepararsi appena rientrata a casa da scuola.
Era andata in bagno, era rimasta qualche minuto a contemplare la sua
immagine riflessa allo specchio. Il suo naso non le sembrava
così brutto, nè la sua pelle tanto smorta e
persino la
fronte, quella fronte alta e leggermente bombata che aveva sempre
odiato, le era parsa interessante, particolare. Si ritrovò
persino a sorridere ripensando a Federico, alle sue dita lunghe e
affusolate che le sfioravano le mani, quel sorriso aperto e splendente,
quegli occhi che la guardavano con sincerità e nei quali non
aveva visto nessuna traccia di voracità. Mentre riempiva la
vasca da bagno d'acqua bollente si accorse di tremare. Era un lieve
tremore alle mani e sapeva benissimo a cosa era dovuto: l'ansia stava
salendo e sapeva bene che non sarebbe stata disposta ad esser messa a
tacere tanto facilmente.
Cercò di controllarsi prendendo, per quanto poteva, possesso
del
suo corpo... Sulla mente avrebbe lavorato successivamente.
Si spogliò con calma disarmante, continuando a guardare ogni
nuovo lembo di pelle che scopriva. Prima il maglione, che cadde a terra
assieme alla
maglietta. Rimase in reggiseno e quasi automaticamente le venne da
pensare che a Federico non sarebbero piaciute quelle sue tettine simili
a uvetta rinsecchita, nè tanto meno le costole sporgenti o
il
sedere piatto. Si strinse le braccia forte contro il petto, chiuse gli
occhi e si rese conto di non essere pronta. No, non voleva incontrarlo,
non voleva iniziare ad uscire con lui, non voleva ritrovarsi a
baciarlo, percepire la voglia di sentirlo premuto contro il suo
copro assieme all'istinto di tenerlo lontano, il disgusto al solo
pensiero di
essere toccata.
Un conato la fece vacillare, costringendola a mettersi in ginocchio
davanti al water.
Come poteva essere così illusa da pensare di essere guarita?
Era
solo una povera ingenua del cazzo a poter pensare di liberarsi dal
mostro che la dilaniava dentro, solo perchè credeva di aver
trovato il principe azzurro, che invece di un cavallo aveva un borsone
da ginnastica.
Premette la fronte contro il bordo della vasca da bagno e rimase
immobile finchè il respiro non le fu tornato normale. Si
alzò di nuovo, tolse i jeans e davanti alla sua immagine
quasi
nuda fece una promessa a se stessa.
Aveva passato il resto del pomeriggio a pianificare ogni cosa, ad
immaginare ogni possibile scenario, ma non era così stupida
da
credere che potesse avere tutto sotto controllo. Nel suo pensare
ossessivo allo svolgimento della serata aveva però un certo
controllo di sè, come se l'ansia e l'ossessione stesse si
piegassero alla meticolosità del suo ragionamento.
Impiegò due ore per scegliere i vestiti e un'ora e mezza per
truccarsi e sistemare i capelli. Una volta finito si rese conto di non
aver più di un quarto d'ora di tempo.
L'agitazione tornò a bussarle nel petto e la testa le si
fece
pesante come un macigno. Arrivò anche a pentirsi di aver
accettato l'invito, di aver dato il suo indirizzo a un perfetto
sconosciuto, perchè sì dopotutto cosa poteva dire
di
sapere di quel tipo?
Il suono del campanello la fece trasalire, immersa come era nelle sue
considerazioni. Il cuore continuava a martellarle come impazzito, ma
stavolta sapeva che non era solo per l'ansia, c'era dell'altro,
nascosto, quasi inudibile. Era emozionata, tantissimo.
Arrivò alla porta ed ebbe un brivido di piacere tutto
particolare nel guardare nell'occhiello per un'interminabile manciata
di secondi prima di aprire.
Appena lo vide seppe di aver fatto la scelta giusta. Portava una giacca
elegante sopra una camicia azzurra, dei pantaloni scuri e stivaletti
con le stringhe. Sorrideva.
- Troppo elegante?-
Le chiese lisciandosi le pieghe della camicia.
Costanza scosse la testa, sforzandosi di non perdersi nel pozzo liquido
e scuro dei suoi occhi.
- Sei bellissima...-
Aggiunse poi facendo apparire dal nulla un grosso mazzo di fiori, dei
bellissimi tulipani i cui petali violetti sembravano fatti di seta.
- Federico... Non dovevi!-
Le guance le si imporporarono e il cuore riprese di nuovo a correre
all'impazzata.
Lui non sentì ragioni, sollevò entrambe le spalle
e le intimò con un gesto di far silenzio.
- Li metto in un vaso...-
Cedette lei, assaporando con febbrile eccitazione il momento in cui le
loro mani si sfioravano nel passaggio.
- Posso entrare?-
- Se non vuoi rimanere impalato lì sulla porta...-
Si meravigliò di come le fosse riuscito così
automatico
fare dell'ironia. Federico scoppiò a ridere, richiudendosi
la
porta dietro le spalle. Quel gesto la fece rimanere qualche istante
sulle spine: erano in casa, soli e questo le dava un certo senso
d'angoscia e costrizione, la solita paura insomma, ma decise di
mantenere il controllo. Sparì in cucina dove
sistemò i
fiori in un recipiente alto e capiente, che di solito usava per
conservare gli spaghetti.
Federico la seguì arrivandole alle spalle.
- Sono veramente meravigliosi... Hanno un colore stupendo!-
- Altrettanto si potrebbe dire di te...-
Adesso si era fatto vicino, pericolosamente vicino. Una mano le si
avvicinò al viso, indugiò a mezz'aria prima di
scostarle
un ciuffo che le era scivolato via dallo chignon con cui aveva raccolto
i capelli. Costanza rimase col fiato sospeso, la bocca leggermente
dischiusa e gli occhi incollati su quelle labbra umide, increspate a
poche spanne dalle sue.
Lo vide avvicinarsi ancora, ma in maniera rispettosa, quasi di
riverenza, come se sapesse quanto quel contatto significasse per lei a
livello emotivo e mentale. Lei gli sfuggì, discostando il
viso.
Per un attimo sul volto di Federico serpeggiò un'ombra di
delusione o forse stizza, Costanza non seppe decifrare bene, ma fu
quasi certa che lui stesse iniziando a pensare di star perdendo il suo
tempo con una frigida come lei.
E invece no, perchè aggiunse, quasi in un soffio:
- Forse sto correndo troppo, perdonami... Ma... Veramente, sento di
provare per te qualcosa che va al di là della semplice
attrazione...-
Il suo sorriso non si era spento, aveva soltanto mutato
intensità, sembrava voler dire ''scusami, è
più
forte di me'', ma quelle parole le davano la certezza che lui la
rispettava, che forse aveva intuito il suo blocco.
Costanza abbassò lo sguardo sentendosi colpevole non tanto
per
quel mancato bacio, quanto per aver fatto sentire colpevole lui.
- Non scusarti, sono io ad aver bisogno di tempo...-
Federico annuì, senza mai interrompere il contatto visivo,
poi le prese una mano e se la portò al petto.
Anche il suo cuore stava martellando di gran carriera.
- A sentirlo fa paura, vero?-
Le chiese. Il lato della bocca che sollevava il sorriso formava un
buchetto sulla guancia. Era adorabile e anche attraente. Molto
attraente.
- No, è bellissimo...-
Gli disse, pensandolo veramente.
Appena varcata la porta il telefono di casa squillò.
- Non vai a rispondere?-
Costanza scrollò le spalle.
- No, non voglio interrompere quello che sta succedendo...-
E, come in una scena da film, gli intrecciò le mani dietro
al
collo e lo baciò, la schiena premuta contro il muro, come
unico
sottofondo il telefono che continuava a squillare e il tamburo dei loro
cuori all'unisono.
La portò a mangiare in un ristorantino lungo il fiume. Anche
l'aria di novembre sembrava essersi scaldata di un tepore tutto
particolare, come a voler rendere quella loro serata speciale.
Costanza non riusciva a smettere di guardarlo e per tutto il tempo che
lui le fu dinanzi non provò nemmeno per un momento l'impulso
di
voler essere altrove, anzi. Avrebbe voluto chiudere gli occhi e fermare
il tempo, rimanere lì a sedere, anche senza parlare, in
silenzio
di fronte al suo sorriso dolcissimo. Alla fine della cena Federico
aveva intrecciato le sue dita in quelle di lei in una sorta di preludio
d' amore. Parlarono molto, parlarono apertamente, parlarono
come
ormai da anni Costanza non riusciva a fare con nessuno. C'era qualcosa
in quel ragazzo che la spingeva ad essere se stessa, che la convinceva
del fatto di non essere sbagliata o almeno, non così tanto
come
aveva sempre creduto. Forse era un po' prematuro, ma iniziava a farsi
strada dentro la sua mente l'idea che Federico fosse adatto per lei e
lei per lui. Camminarono abbracciati, lei avvinghiata alla sua vita, la
testa lievemente poggiata sulla sua spalla e lui che la cingeva
dolcemente dietro il collo. Seguirono il fiume, emozionandosi come due
bambini al gracidare delle ranocchie, alla profondità
avvolgente
del cielo notturno, al faro pulsante delle stelle.
Le sue paure le sentiva lontane, c'erano è vero, ma erano
sopite, dormivano lontane dove non potevano minimamente disturbarla.
Entrarono in casa inciampando l'uno sull'altra mentre continuavano a
stare abbracciati, le loro bocche che si divoravano a vicenda.
Anche il sapore della sua saliva sembrò a Costanza il
più
dolce dei nettari e quello che provava mentre le loro lingue cozzavano
non avrebbe saputo spiegarlo in parole, sapeva solo che stava bene,
maledettamente bene. Ed era felice, così tanto felice.
Iniziarono a spogliarsi goffamente, ridendo delle mosse imbarazzate che
accompagnavano la loro eccitazione.
Le mani di lui le sollevarono il vestito quasi con un'impaziente
cattiveria e lei si ritrovò a pensare al ''dopo'' e a quanto
avrebbe voluto godere del momento massimo di piacere che c'è
nel
prepararsi al piacere stesso.
L'idea di lui dentro di sè non le provocava il solito
disgusto,
nè fastidio, nè niente di lontanamente
paragonabile alla
paura di essere esposta, sia fisicamente che psicologicamente. No,
l'unico pensiero che affollava la mente di Costanza come un urlo
assordante era: ''Voglio che tutto questo non finisca mai, voglio
divorarlo di baci, voglio essere sua!''
Scivolarono sul tappeto e Federico fu dolcemente attento a proteggerle
la testa dal tavolino da fumo nel centro del salotto. Costanza si
aggrappò alle sue spalle quando finalmente lo
sentì
entrare dentro di lei.
- Sei bellissima... Questo è un sogno...-
Continuava a ripeterle, le labbra premute contro il suo orecchio
destro, la teneva stretta quasi avesse paura che fosse solo una
visione, un ectoplasma pronto a svanire nel nulla al primo
battito di ciglia.
Sussultò quando lui iniziò a muoversi, a spingere
con
decisione. Sentiva un calore crescente nascerle dal petto e scendere
giù, giù verso il fuoco intimo della sua
eccitazione.
Fu intenso e, per quanto era stato bello, troppo breve.
Si ritrovarono ansanti a ridere, facendosi il solletico mentre si
rotolavano per tutto il pavimento.
- Voglio che sia sempre così... Me lo prometti?-
Gli chiese standogli a cavalcioni.
- No...-
Costanza rimase interdetta e delusa, ma solo per un istante.
- Io te lo assicuro!-
Poi la sollevò e la portò fin sul letto, nella
camera accanto.
Fecero l'amore tutta la notte, addormentandosi solo alle prime luci
dell'alba.
Li svegliò il telefono che squillava in salotto. Federico si
mosse appena, grugnendo e riprendendo a sospirare sommessamente. Prima
di alzarsi, ancora umida e scottante del suo tocco Costanza si
fermò a guardare il profilo del suo corpo abbandonato sotto
le
coperte.
Sollevò la cornetta con l'immagine di lui ancora impressa
nella
mente, un sorriso a metà tra il malizioso e l'adorante che
le
ornava le labbra. Quando chiuse la chiamata la sua faccia era terrea,
l'espressione persa.
Nel frattempo Federico si era alzato, stava sbadigliando appoggiato
allo stipite della porta di camera da letto.
- Torna a letto, dai...-
La incitò, facendo segno col dito di raggiungerlo. Poi
dovette notare il suo cipiglio, perchè aggiunse con tono
preoccupato:
- Costanza, cosa è successo?-
Quasi le corse accanto, passandole un braccio attorno ai fianchi.
Alberto era morto.
No, anzi non era morto... Si era ammazzato.
Senza nemmeno accorgersene gli occhi le si erano riempiti di lacrime,
che adesso le serpeggiavano giù per le guance inzuppandogli
la
maglia del pigiama.
- Mi spaventi così... Ti prego parlami!-
Ma Costanza non poteva farlo, perchè sentiva la lingua
incollata
e annodata contro il palato. Provò ad aprire la bocca per
più di una volta ma l'unico suono che riuscì ad
emettere
fu un rantolo strozzato.
Erano passati anni, a vederla bene era come se fossero passati secoli,
ma in quell'attimo al solo sentir pronunciare quel nome era stato come
se le fossero piovuti addosso decine, centinaia, migliaia di ricordi
sepolti chissà dove. Era stata una bambina, lo era stata
davvero
anche se se ne era dimenticata. Era stata una bambina che amava giocare
all'aria aperta, fare gare di bicicletta e comporre collanine di fiori.
Ed aveva avuto un amico, un bambino bello come un angelo.
Alberto aveva gli occhi blu e i capelli neri. Alberto aveva riccioli
arrabbiati e ribelli quasi quanto il suo carattere. Alberto quando
sorrideva mostrava fiero al mondo la finestrella vuota dei denti
davanti. Alberto non era stato più lo stesso dopo
quell'estate
là.
Già, quell'estate là...
Più si sforzava di immergersi nel ricordo, più i
particolari che un istante prima le parevano così vividi, le
sfuggivano di mano. Non ci aveva mai più pensato da allora,
ma,
mentre singhiozzava appoggiata al petto nudo di Federico, si
ricordò anche di Orlando e Tommaso. Si ricordò
pure di se
stessa, si rivide guardarsi dall'alto
(in una sorta di inquadratura
cinematografica)
le ginocchia ossute e sporgenti, le gambe magre da
maschio che
correvano a perdifiato. E quella sensazione di svuotamento interiore,
di qualcosa che ti lacera la carne e ti strappa via qualcosa per sempre
non era una mera impressione, ma il ricordo doloroso di qualcosa che
aveva vissuto, che aveva provato. Ma quando?
Federico se la scostò da dosso, tenendola ferma per le
spalle e
guardandola dritta negli occhi. Lei discostò lo sguardo,
terrorizzata che potesse guardarle dentro e capire... Capire quello che
neppure lei sapeva.
Non era semplicemente scossa per la perdita di una persona che le era
cara, perchè comunque non l'aveva mai più rivisto.
No, c'era qualcosa di più profondo sotto, qualcosa di
più
grosso e doloroso. Era come se si fosse reciso di netto un legame che,
seppur invisibile e per certi versi dimenticato, la manteneva a galla.
- E' morto...-
La vide talmente trasfigurata dal dolore e dalla tristezza che non
volle indagare oltre.
- Tesoro, mi dispiace... Mi dispiace tanto...-
E prese a carezzarla sulla nuca, incastrando dolcemente la fronte di
lei contro la base del suo collo.
- Non lasciarmi andare, ho paura... Non voglio andare...-
La testa le divenne leggera, iniziò a farneticare, troppo
sconvolta per poter capire quello che stava accadendo fuori e dentro di
lei.
Gli aereoporti.
Uno dei tanti posti da aggiungere alla lista di cose che odiava e che
gli facevano maledettamente perdere tempo.
Mentre aspettava che il suo bagaglio apparisse dalla bocca fagocitante
del nastro trasportatore controllò il palmare, constatando
con
bruciante disappunto che non vi era nessuna mail, nè
messaggio,
nè chiamata, nè niente di niente.
Borbottò qualcosa a labbra serrate, forse un'imprecazione un
po'
troppo colorita perchè un'anziana donna vicino a lui, forse
scambiandolo per un pazzoide, lo osservò in tralice
spostandosi un po' più in là.
Tutta quella questione era già abbastanza pesante, per non
dire
totalmente assurda, ma in un senso alquanto malsano e disturbante, non
c'era proprio necessità che ci si mettesse anche un
evitabilissimo ritardo.
Quasi come se qualcuno lo avesse ascoltato dall'alto, vide il suo
borsone blu far capolino dalle striscioline che rimasero ad
accarezzarlo per qualche istante, prima che lui lo sollevasse,
sbuffando.
- Affanculo.-
La vecchietta lo lumò di nuovo, increspando le labbra.
Suo padre era forse leggermente invecchiato e di certo quel paio di
baffoni bianchi alla Magnum P.I non lo aiutavano nel dimostrare meno
anni. Sua madre al contrario sembrava cibarsi della decadenza del
consorte, tipo vampiro.
Non sembrava mutata di un giorno nel fisico e ancor meno nel carattere.
Appena entrò a casa, inquietantemente invariata pure quella,
quasi gli saltò su per le gambe facendogli le feste come un
cagnolino. Per poco non se la immaginò farsela addosso
dall'emozione.
- Il mi bimbo è tornato a casa!-
Gli aveva stritolato la faccia con entrambe le mani.
- Dai ma'!-
Si era guardato allo specchio, controllando che non gli avesse lasciato
due begli ematomi sulle guance.
- Guardalo come si guarda! Il solito vanesio!-
Lo aveva ammirato, gli occhi luccicanti di lacrime, come se quello
fosse il giorno più bello di tutta la sua vita. E forse lo
era
proprio.
Si erano messi a tavola parlando del più e del meno, per
quanto
Orlando potesse riuscirci con la mente completamente annebbiata dai
pensieri, almeno. Alla signora Ofelia però, raramente
qualcosa
sfuggiva, sembrava riuscire a captare malumori e preoccupazioni anche a
km di distanza, figurarsi accanto a lei allo stesso tavolino.
- Orlando, cos'hai?-
Lo aveva guardato con preoccupazione, ma non senza una vena di
risentimento. La sua espressione sembrava dire ''Sei a casa, coccolato
come un pacha, cosa può esserci che non va?''
E a quella domanda lui avrebbe voluto rispondere urlando, sputando
fuori tutta la rabbia, tutta la stizza, forse anche tutto il dolore che
aveva covato da quando aveva buttato giù quella maledetta
chiamata con quel commissario del cazzo, che aveva alimentato mentre
arraffava indumenti a caso e li gettava nella borsa da viaggio,
sentimenti brucianti e al contempo che lo gelavano da dentro mentre
saliva in aereo e passava un'ora e mezza di angoscia e preoccupazione.
Da quanto sudava freddo persino un'hostess gli si era avvicinata,
chiedendogli se stesse andando tutto bene. Ci aveva guadagnato un
bicchiere d'acqua e il suo numero di telefono, ma sapeva che non
l'avrebbe mai chiamata, era solo per il suo ego.
Ma non disse niente di tutto quello che gli stava vorticosamente
passando per la mente, si limitò solo a sfoderare il sorriso
più falso che potesse in quel momento increspargli le labbra
e
rispose che no, andava tutto bene, che era felice di essere
lì e
che gli sarebbe dispiaciuto andare via.
I suoi abboccarono o almeno fecero finta, forse per preservare la
parvenza di pace e tranquillità; continuarono a mangiare
parlando col televisore
che fagocitava a tutto volume uno stupidissimo programma di quiz a
premi.
Quando entrambi furono spariti in camera da letto, Orlando senza la
minima ombra di sonno si era messo a fare un po' di zapping
inconcludente,
finendo persino su un canale pseudo erotico, dove una ragazza dai
tratti asiatici si spogliava lentamente davanti alla telecamera, sul
viso un'espressione vuota e assente che non l'avrebbe fatto venir duro
nemmeno per sbaglio. Spense per disperazione, arrivando persino a
pensare di chiamare l'hostess, ma desistette visto che doveva avere un
aspetto da zombie e le prestazioni sessuali
che avrebbe potuto offrirle in quel momento sarebbero state alquanto
insoddisfacenti.
Si trascinò verso l'ultima porta a destra del corridoio. Vi
entrò accorgendosi solo dopo aver oltrepassato la porta che
stava trattenendo il respiro. L'impressione che lo accolse fu quella di
un vero e proprio salto nel tempo: non era cambiato assolutamente
niente. Come in una sorta di flashback doloroso ricordò di
quando quella cameretta era casa sua, la sua tana, il suo posto, la sua
oasi di pace.
Aveva passato centinaia, no forse pure migliaia di ore chiuso
lì
dentro a fare chissà cosa. La stanza era rimasta identica
per
davvero, come se fosse uscito da lì dentro solo qualche
istante
prima... I poster sui muri, i libri impilati nella libreria a muro.
Persino un fumetto lasciato aperto sulla scrivania e incredibilmente
privo di polvere. Era come un simulacro, una tomba lasciata inviolata e
intatta.
Gli venne da sorridere quando lo sguardo gli si posò sulle
foto
attaccate alla porta. La sua prima vera fidanzatina, il migliore amico
dei tempi del Liceo, il gruppo di amici durante un torneo di calcetto.
La sensazione che lo investì fu di un'irrealtà
completa... Si sentiva estraneo, dolorosamente estraneo nel
fronteggiare il se stesso che era stato. Ma sul serio aveva avuto 15
anni? E aveva veramente portato i capelli a quel modo? Per non parlare
poi del look... Così tragicamente anni '90.
Se ne rimase per un tempo che gli sembrò
un'eternità a
spulciare fra le sue vecchie cose, il sorriso ebete riflesso nella
specchiera sopra la scrivania. Nel cassettone accanto all'armadio,
ormai privo della biancheria che vi prendeva posto un tempo, sua madre
aveva
gelosamente conservato ogni santa reliquia di quel suo figlio prodigio,
talmente in gamba e intelligente da essere andato a vivere all'Estero!!!
Era sempre il suo cavallo di battaglia il celebrare gli incredibili
successi collezionati dal suo stupendo bamboccio oltreManica, anche (e
sopratutto) se all'interlocutore fregava meno di zero.
Rovistò fra pile di vecchi quaderni, che risalivano persino
alla
prima elementare e sfogliò diari di cui aveva cancellato
l'esistenza notando in un misto tra orrore e vergogna che non avevano
nessuna barriera protettiva contro lo sguardo indagatore e impiccione
di sua madre. Si poteva ben dire che dopo un'attenta lettura zelante di
quelle memorie adolescenziali a sua madre non rimaneva molto altro di
cui conoscere sui primi 18 anni di vita del figlio.
Arrossì violentemente quando arrivò al massimo
picco di
aulica poesia raggiunto nelle due pagine in cui descriveva con
minuziosa dovizia di particolari il suo primo rapporto sessuale. Era
un'accozzaglia sdolcinata di sentimentalismi, con scariche d'ormone
adolescenziale da far rabbrividire. Chiuse l'agenda con uno scatto
riponendola di nuovo in fondo al cassetto.
Si ritrovò a pensare al ragazzino che era stato, alle paure
e le
angosce che lo avevano divorato, alle speranze che gli avevano fatto
volare la testa fra le nuvole. Tutti sentimenti ed emozioni che adesso
sembravano lontani anni luce.
Continuò a curiosare tra le sue vecchie cose, raccolse da un
involucro di plastica una pila di fotografie e si mise a sfogliarle
lentamente, divertendosi a riconoscere i volti impressi, non senza un
po' di nostalgia.
Mentre se le passava fra le mani una foto, più piccola e
rovinata delle altre, volteggiò a mezz'aria finendo sotto la
scrivania.
Posò le altre sul ripiano, mettendosi poi carponi per
recuperarla. La raccolse con calma disturbante, quasi sapesse
già cosa vi avrebbe visto voltandola.
Ci mise qualche istante a riconoscersi, ma alla fine scorse quel
sorrisetto impertinente che gli fiammeggiava fiero in mezzo ad un viso
molto più piccolo e acerbo.
Gli altri erano proprio loro: Tommaso, Costanza e Alberto. Sorridevano
tutti, gli occhi leggermente socchiusi dal sole accecante che sembrava
rendere i piccoli dentini scoperti delle perle luccicanti.
Era un ricordo labile, lontano, sfumatissimo, ma era quasi certo che
quella foto gliel'avesse scattata sua madre nel cortile dei giardinetti
pubblici. Sì, riconosceva la fontana sullo sfondo, unica
fonte
di sollievo nelle giornate d'estate.
Si tenevano stretti in una sorta di piccola catena umana, mani
arpionate ai fianchi, ginocchia sbucciate, labbra sporche di gelato...
Guardò negli occhi del piccolo Alberto impresso nella
pellicola
fotografica, ma non riuscì a scorgere il germe che gli
avrebbe
tolto la vita più di 25 anni dopo. Erano un gruppo di
bambini
felici durante le vacanze estive, niente di strano. Allora cos'era
quella fastidiosa voragine che sentiva in mezzo allo stomaco? Rimise
apposto tutto, quasi con stizza, il pensiero che quella foto lo avesse
disturbato tanto lo sconvolgeva oltre ogni misura. Paradossalmente
però, appena toccato il cuscino sprofondò in un
sonno
talmente beato che fu quasi un atto di crudeltà abbandonare
le
coperte, il mattino seguente.
Lo svegliò il bussare delicato di sua madre che entrava a
portargli il caffè.
Si tirò su coi gomiti, strizzando gli occhi per abituarsi
alla luce che filtrava dalla porta.
- Mamma, così mi vizi!-
Lei non disse niente, si limitò a sedersi sul bordo esterno
del
letto, il vassoio ben stretto tra le mani. Orlando notò
subito
la ruga di preoccupazione che le attraversava la fronte, anche se era
ancora intontito dal sonno.
- Potevi dirmelo, Orlando...-
Capì subito a cosa si riferisse. Era stato quantomeno
ingenuo a
pensare di poter tenere nascosto il vero motivo del suo ritorno. Era
pur sempre un piccolo paese di provincia dove le chiacchiere erano
sempre circolate liberamente.
- Quel povero ragazzo... Eravate tanto amici da bimbi...-
Orlando si morse il labbro inferiore, osservando la patina acquosa che
andava a riempire gli occhi di sua madre.
- Purtroppo è successo...-
Poi, Ofelia Landucci gli si fece più vicino, agguantando una
delle mani del figlio fra le sue, stringendo forte.
- E' stato un gesto bellissimo venire per il funerale, tesoro...-
- Già... Quantomeno glielo dovevo...-
Sussurrò lui, invidiandola per non dover portare
almeno
parzialmente il fardello di quella morte, come invece stava toccando
fare a lui.
L'espressione di Olimpia era carica di domande, di interrogativi, ma
lui ben sapeva che era una persona troppo rispettosa per dare il via a
parlarne per prima.
Anche mentre stava lavando i piatti, voltata di spalle, Tommaso poteva
percepire l'incessante fucina di preoccupazioni che si alimentava a
dismisura dentro di lei. Lo aveva visto sconvolto e se ne era
immediatamente spaventata.
Quello non era già di per sè un periodo semplice,
aggiungerci anche questa tragedia non aiutava affatto. Quello che
Olimpia neppure lontanamente poteva sospettare era quanto
EFFETTIVAMENTE tutto quella storia lo avesse sconvolto.
Non si trattava ''solamente'' di un vecchio amico che si era ucciso,
fatto già di per sè orrendo... Olimpia non sapeva
nulla
del biglietto lasciato da Alberto prima di recidersi i polsi,
nè
delle macchie purpuree che vi erano zampillate sopra rendendo il suo
nome quasi illeggibile, non sapeva assolutamente niente neanche delle
dita del poveretto ancora serrate su quel lembo accartocciato e sporco
di carta.
Tommaso immaginava tutto questo e anche di più, andava
oltre,
torturava la sua mente con immagini dolorose e crudeli. Chi lo aveva
ritrovato? La moglie? O addirittura uno dei piccini che aveva? Che
trauma doveva essere, si ritrovò a pensare, ritrovare il
proprio
padre annegato nel suo stesso sangue, magari gli occhi sbarrati, la
pelle del viso già cascante e giallognola, l'espressione
statica
e allibita che prende immediatamente un morto.
Ebbe paura di quel filone di immagini macabre e cercò di
pensare
ad altro, ma era come se la mente gli tornasse continuamente e
insistentemente su quel corpo riverso sulle piastrelle non
più
immacolate di un bagno che non aveva mai visto, ma che in modo sadico e
inquietante a lui piaceva immaginare. Come se potesse vederli e di
conseguenza toccarli, fissò davanti al suo sguardo un paio
di
asciugamani puliti, morbidi, di quella consistensa soffice che fanno
immediatamente pensare a casa, al profumo di bucato e alla piacevolezza
di gettarvi dentro le mani. Erano uno turchese e l'altro di un colore
ambiguo, ma caldo: tra l'avana e l'ocra.
Su uno dei due, quello azzurrognolo, era ricamata con filo
più
scuro, in rilievo, la lettera ''A'' con un ghirigoro vezzoso
nell'estremità destra. Il candore immacolato degli
asciugamani
era interrotto qua e là da piccole macchiette oblunghe,
color
ruggine. Non erano troppe, niente affatto grosse, ma erano comunque
disturbanti... Rendevano imperfetta la sensazione iniziale di estrema
pulizia.
Il suo sguardo si spostò dinanzi a sé, ancora
come
potesse avere la situazione proprio lì di fronte. Tutta la
stanza emanava una sensazione di accoglienza estrema, di un qualcosa
che si può chiamare ''casa'' e che fa sentire a proprio
agio. La
parete bianco-sporco era interrotta qua e là dalla presenza
di
mattonelline in ceramica, deliziosamente pitturate a mano e che
raffiguravano iris e glicini. Da quanto era elevata la fattura, si
poteva quasi sentirne il profumo in lontananza. Gli venne automatico di
inspirare. L'unico odore che sentì distintamente sopra un
vago
sentore di shampoo e sapone fu quello ferroso del sangue. Non era
forte, ma abbastanza pungente da infastidirlo.
Nell'angolo più lontano da dove sentiva di trovarsi c'era
una
vasca da bagno bella spaziosa, addossata alla parete, munita di un
doccino in alto. Sul bordo c'erano delle paperelle di gomma, una a pois
e l'altra gialla, tradizionale. Su quest'ultima qualcuno, molto
probabilmente un bambino piccolo, vista la calligrafia, aveva scritto
il suo nome con tratto incerto e sbilenco.
Lo spazio concavo della vasca da bagno era immacolato, mentre il dorso
esterno era insozzato da una manata lunga lunga di sangue, che
terminava a poche spanne dal pavimento.
Non avrebbe voluto, lo sapeva, ma quel sogno aperto doveva terminare
proprio lì, col suo sguardo abbassato su quel corpo inerte
piazzato proprio nel centro della stanza. Del tappetino che si trovava
sotto di esso non riusciva neppure a scorgere il colore originario
tanto era impregnato di quel rosso brillante che continuava a
gocciolare incessante da entrambi i polsi riversi sul pavimento.
Il viso dell'uomo era poggiato a terra sulla guancia sinistra e anche
se non poteva vedere bene, lui sapeva che aveva gli occhi aperti,
statici, ma di un favoloso colore tra l'azzurro e blu e che in vita
erano stati talmente vividi e penetranti da apparire a tratti
inquietanti.
Gli occhiali con montatura di corno erano scivolati un po'
più
lontano, affianco al lavandino, ma sembravano intatti, pronti ad essere
riutilizzati.
- Tommaso?-
Sbattè gli occhi varie volte, prima di rendersi conto di
essere nella sua cucina, a casa sua, con la sua ragazza.
Olimpia lo fissava in modo strano, le sopracciglia corrugate e la bocca
semiaperta.
Ci impiegò qualche secondo prima di bofonchiare, incerto.
- Mh?-
Lei gli sventolò la teiera sotto il naso, al chè
lui
annuì appena, avvicinando la tazza che aveva vinto ad una
lotteria di beneficenza forse 5 anni prima.
- Come stai?-
Il tono di lei voleva apparire rilassato, ma la nota di agitazione che
ne scaturì rese inutile il mascheramento. Tommaso comunque
non
le fece capire di averlo notato.
- Meglio...Grazie...-
Le prese una mano fra le sue per poi portarsela alle labbra e
schioccarle un bacio sulle nocche. Olimpia sorrise appena poi si
toccò le sue labbra con l'indice, che infine
poggiò sulla
bocca di Tommaso.
- Sei bellina, labbra di pesca-
Le soffiò sul naso, avvicinandosi al suo viso rotondo.
- Anche tu non sei male, occhietti vispi-
Fecerò l'amore tutto il pomeriggio, ma Olimpia non sapeva
che
Tommaso continuava ancora a sentir nel naso quel puzzo pungente di
sangue.
Si svegliò che non c'era, ma la parte del letto vuota e
tiepida sapeva ancora di lei.
Tommaso affondò il naso nel cuscino di Olimpia inspirando
come
fosse la prima boccata d'aria che avesse mai preso nella sua vita. E la
sensazione fu proprio come se lo fosse davvero. Poi si alzò,
si
preparò un caffè con la moka e si accese una
sigaretta,
facendo però attenzione ad aprire la basculante della cucina.
Per un po' fece finta di lavorare al suo libro, ma quella dannata linea
verticale lampeggiante gli ricordava con terribile efficacia quanto gli
ultimi eventi avessero fiaccato ancor più la sua ispirazione.
Richiuse il portatile che si era portato a letto e lo scansò
lontano da sè, come a voler cacciarne il pensiero.
Si portò entrambe le mani dietro la nuca osservando per un
tempo
infinito il soffitto, distratto ogni tanto solo dal rumore di un
bambino che piangeva, forse il neonato di quelli del piano di sopra.
Chissà se Olimpia voleva un figlio?
Fino a quel momento non se lo era mai chiesto veramente. Avevano
l'età giusta per poter pensare di metter su famiglia, lui
specialmente, ma semplicemente non erano mai entrati nel discorso, o
almeno erano stati entrambi tanto accorti da non farlo.
Il pensiero della famiglia un po' lo terrorizzava. Non tanto il fatto
di dover prendersi cura di una creaturina piccola e bisognosa (che
già bastava a far venire i brividi) quanto il concetto
stesso
dell'esistenza di un figlio: un prodotto di sè, una copia,
una
sintesi dell'amore di due persone, un'unione che creava dal nulla (DAL
NULLA!) un' altra persona unica, inimitabile, con una sua mente, un suo
corpo, un suo pensiero e che poi avrebbe potuto in futuro continuare a
fare lo stesso... Era un qualcosa di serio, di gigantesco, un pensiero
che lo schiacciava nella sua enormità. Era attratto
dall'idea,
ma la sua attuazione non lo convinceva fino in fondo.
Ebbe improvvisamente paura che Olimpia invece desiderasse ardentemente
diventare madre, ma che lo negasse; sopratutto a se stessa. Non le
sembrava il tipo, questo era vero, ma si è davvero pronti o
propensi ad essere genitori prima di esserlo veramente?
Poi, il pensiero che fosse lui la causa del tacere sull'argomento gli
spezzò quasi il fiato. Anche se la sua donna avesse voluto
un
figlio, come poteva pensare che volesse metter su famiglia con un
tipo come lui? Complessato, problematico, senza sicurezze?
E non voleva di certo raccontarsi la favoletta che ''basta l'Amore''.
Niente affatto, con un figlio serve ben altro oltre che affetto.
Su cosa poteva contare lui di concreto, apparte quel bilocale che
erano riusciti faticosamente a comprare dopo innumerevoli sacrifici?
Poggiò i piedi per terra al di là del bordo del
letto,
senza però accennare ad alzarsi. Fissò
semplicemente
fuori dalla finestra del decimo piano immaginando poi di aprire la
finestra, far dondolare un piede al di là del bordo e di
chiudere gli occhi, spostando semplicemente il peso in avanti.
Pensò
pure che Alberto aveva avuto due palle grosse così a far
quel
che aveva fatto.
Le piaceva molto giocare con gli animaletti di plastica, di quelli che
riproducono fedelmente gli animali veri. Ne aveva moltissimi e tutti
diversi, il suo preferito però rimaneva un bellissimo leone
che le aveva regalato il babbo a Natale. Era pitturato a
mano e sembrava essere in grado di ruggire da un momento all'altro.
Le piaceva sopratutto far finta che potessero parlare, si immaginava
che potessero fare le cose che fanno le persone, come andare al cinema,
bere il té e giocare a scacchi.
Passava le ore a creare storie dove la signora Elefante invitava la
signora Leprotta a casa sua e, insieme, cucinavano lo sformato di
patate che faceva anche la sua mamma, nella realtà.
Giocava molto da sola perchè aveva sempre desiderato un
fratellino (o sorellina, non era mai stata specifica sull'argomento)
che però non era arrivato mai.
Non era triste a riguardo, perchè sapeva che i suoi genitori
si
volevano un gran bene anche così e che sopratutto ne
volevano
moltissimo a lei, ma a volte sopratutto prima di addormentarsi,
immaginava di dormire affianco ad un altro bambino e che quel bambino
fosse suo fratello. Schioccava un bacino nell'aria e gli augurava la
buonanotte e così dormiva beata fino alla mattina.
L'ultimo ricordo veramente felice della sua infanzia era un ricordo
semplice, per molti versi forse anche banale.
Si rivedeva a sedere in cucina su una delle sedie di vimini alle quali
la mamma aveva cucito dei cuscini imbottiti con la stoffa a fiori,
coloratissimi. Era mattina e il sole caldo di inizio estate filtrava
piano dalle finestre leggermente discoste.
Il babbo guardava la mamma sorridendo e lei gli rispondeva andandogli
affianco e affondandogli una mano in mezzo ai riccioli neri e
fittissimi che gli incorniciavano la testa. Si guardavano e gli occhi
era come se brillassero, sprizzavano una luce, un'energia
speciale, come se anche così senza parlare riuscissero a
comunicarsi un segreto che nessun'altro poteva conoscere.
Lei, che ancora non arrivava neppure a toccare il pavimento coi piedi,
li guardava guardarsi e sognava di riuscire a capire cosa si stessero
dicendo senza aprire bocca.
Poi il babbo le prendeva una manina, se la portava alle labbra e la
baciava mentre come per magia nell'altra sua mano appariva una fetta
biscottata già imburrata e a cui lei si divertiva a spalmar
su la
marmellata. Adorava quella di more.
Il più delle volte poi, il babbo la accompagnava a scuola in
motorino. Poteva sentire ancora la brezza leggera che le
alzava
la gonna e le battute e i giochi di parole che lui le raccontava e che
la facevano ridere talmente forte da aver paura di perdere la presa. Ma
il babbo le diceva sempre di stringerlo forte e così lei non
era
mai caduta.
A cadere invece erano stati proprio lui e la mamma un giorno d'ottobre
particolarmente freddo.
Quando la zia venne a prenderla a scuola aveva già intuito
che qualcosa non andava.
Da quando aveva iniziato le elementari, la mamma non aveva saltato
neppure un giorno, era sempre stata puntuale: la aspettava appena fuori
dal cancello che delimitava il cortile della scuola, stretta nel suo
cappotto a scacchi rosa e blu, il sorriso bellissimo, i capelli scuri
sciolti e lunghi che profumavano di buono, di mamma.
Quel giorno invece non c'era ad aspettarla e neppure nei giorni
successivi. Così come pure il babbo e la sua motocicletta
azzurra, che non era più apparsa sotto casa.
Aveva cercato di non piangere perchè la zia era gentile e
anche
lei le preparava le fette con la marmellata, ma era stato
più
forte di lei, dopo una settimana senza mamma e papà era
crollata. Senza che nessuno glielo avesse detto apertamente aveva
capito da sola che non sarebbero mai più tornati.
Aveva 7 anni ed aveva appena iniziato la seconda elementare quando
affrontò per la prima volta concretamente la sottile linea
che divide vita e
morte. La morte l'aveva sfiorata e si era attaccata a lei come una
patina opaca e grigiastra. Finì per chiudersi in se stessa
talmente tanto da rendere pressochè morta anche lei.
I primi tempi sua zia, la sorella della mamma, fu sull'orlo della
disperazione. Lei e il marito non avevano avuto figli e non ne
avrebbero avuti neppure in futuro e la consapevolezza di dover crescere
e prendersi cura di una bambina orfana appesantiva loro il cuore come
un macigno.
La piccola Costanza passava ore seduta sul bordo del letto che le
avevano preparato nella camera degli ospiti (ormai la sua cameretta),
con lo sguardo vuoto e triste, le labbra leggermente dischiuse e aride,
gli occhi consumati dalle lacrime che ormai non venivan fuori nemmeno
più.
Quel dolore sembrava talmente forte, profondo e tremendo da apparire
senza rimedio. A nulla erano valsi i milioni di tentativi messi in atto
dalla zia Caterina e suo marito, la bambina rimaneva totalmente
discosta dalla realtà, come congelata in uno spazio-tempo
irraggiungibile.
Passavano i giorni, passavano i mesi e pure gli anni, ma la piccola non
accennava ad un recupero, seppur minimo e misero. Amava sognare ad
occhi aperti, con lo sguardo perso nel vuoto, oppure rimanere ore a
scarabocchiare su blocchi di fogli che lo zio le comprava assieme ai
pastelli, matite ed acquarelli. Quei disegni erano sempre
coloratissimi, vivaci, allegri a differenza dell'espressione dipinta
sul viso della piccola artista.
Una volta a settimana, da quando i suoi erano deceduti, Costanza aveva
le sedute con una psicologa infantile. Alla bambina quella signora non
piaceva: era alta, magrissima e con un naso aquilino simile al becco di
un rapace pronto a calare sulla preda, era fredda, controllata, quasi
non provasse emozioni ne' empatia. Non le piaceva proprio.
L'unico slancio emozionale che sembrava scuoterla avveniva quindi in
prossimità dell'appuntamento settimanale con la dottoressa:
Costanza si rifiutava di lasciare la sua camera, iniziava ad urlare
come indemoniata, le guance rigate da un mare di lacrime.
La zia arrivava persino ad odiare se stessa mentre trascinava la
sventurata piccina giù per le scale della palazzina e poi
dentro
la macchina, ma era necessario: doveva superare quel trauma.
Quel trauma, invece, non lo superò mai del tutto ed anzi,
crescendo e prendendo coscienza delle invalidanti ansie di cui
soffriva, Costanza arrivò a capire che niente sarebbe
tornato
mai al proprio posto, neppure sottoponendosi a tutte le terapie
dell'Universo.
Crebbe senza amici, senza confidenti, senza poter sublimare la sua
naturale e sconfinata fantasia. A primo acchito sembrava una bambina
triste, arida, seriosa, a tratti inquietante, con quel paio di profondi
occhi simili a pozzi, densi di dolore. Eppure, in fondo a tutta quella
sofferenza Costanza sentiva dentro di sè un fuoco
scoppiettante,
multicolore, vivido e che le permetteva di sopravvivere.
Il senso di abbandono, la perdita e la solitudine rimanevano una
costante nella sua vita, ma seppe man mano controllarlo, almeno per
riguardo e affetto nei confronti dei suoi zii, che la amavano proprio
come fosse loro figlia. Entrambi non avevano mai perso la speranza con
quella bambina così tristemente sconsolata ed anzi, le
dimostravano sempre più una
dolcezza e un'estrema preoccupazione. La zia la
portava sempre al parco, anche se lei spesso se ne rimaneva seduta
sulla panchina ad osservarsi la punta delle scarpe, lo zio la portava
in campagna a raccogliere le fragole selvatiche, quando era bella
stagione, anche se lei compiva la mansione quasi come un animaletto
addestrato, meccanicamente, senza nemmeno un sorriso.
Fu nell'estate del suo decimo compleanno che conobbe Alberto.
Era fine maggio e lei se ne stava come al suo solito seduta sulla
panchina di legno del piccolo parco del suo paesino. L'aria era densa,
soffocante e una miriade di bambini vociavano tutt'attorno,
rincorrendosi o giocando a palla. Costanza osservava intensamente un
gruppetto di bambine che saltavano la corda, recitando a squarciagola
una filastrocca. La conosceva anche lei, ma non l'aveva mai cantata con
qualcuno della sua età, non aveva il bruciante desiderio di
partecipare al gioco... Si sentiva molto più protetta e
tranquilla nell'osservare il divertimento altrui, soffermandosi sul
sorriso di ciascuno di loro.
Proprio mentre osservava la scena qualcuno le si parò
davanti,
d'istinto il suo sguardo si spostò verso la zia, dall'altro
lato
della panchina intenta a parlare con una signora, mentre l'indice della
sua mano destra teneva il segno del romanzo che stava leggendo.
Costanza strinse il labbro inferiore con i denti davanti, poi
alzò gli occhi.
- Ciao!-
Un bambino di circa la sua età la stava fissando negli
occhi, il
visetto furbo e tondo, gli occhi di un blu intensissimo, irreale quasi.
Lei si guardò spaurita intorno: avrebbe voluto rispondere,
davvero, con tutta se stessa... Ma l'unica cosa che riuscì a
fare fu deglutire il bolo di saliva che sentiva in bocca.
- Perchè te ne stai sempre qui da sola?-
Il sole feriva quel bel paio d'occhi elettrici, ma il bambino sembrava
non farci granchè caso, era piuttosto interessato a lei
dacché la osservava fisso, senza mai sbattere le palpebre.
Di nuovo Costanza avrebbe voluto esprimere un qualsiasi suono, ma non
lo fece. Si limitò a fissarlo di rimando.
- Sei sicura di stare bene?-
Insistette il bambino, gli occhi testardamente ancorati nei suoi.
- Sì-
Fu tutto quello che riuscì a dire, ma fu pur sempre un
inizio.
Continuò ad andare al giardino con la zia, ad osservare i
bambini senza prendere parte a nessun gioco, semplicemente
stando
seduta al limite della panchina, la schiena ben dritta e i piedi che
sfioravano appena il terriccio brullo.
Spesso riconosceva anche il bambino dagli occhi azzurri di quel giorno
e, anche se ne sentiva un irrefrenabile desiderio, non riusciva mai ad
andare a parlargli. Anche lui la osservava, certo, ma era come se
avesse compreso la sua diffidenza, come se stesse aspettando il momento
giusto per non inquietarla.
Quel momento arrivò, qualche tempo dopo verso la fine
dell'estate di quello stesso anno.
Costanza se ne stava seduta sulla sua panchina, come al solito e non
sembrava, specialmente per lei, un giorno così diverso dagli
altri, eppure lo era.
- Ehi!-
Inizialmente non volle voltarsi, pensò semplicemente che
quel
saluto non fosse rivolto a lei, ma in cuor suo, quando sentì
ticchettarsi la spalla sperò con tutto il cuore che si
trattasse
del bambino con i riccioli scuri.
Infatti era lui.
- Sei stata tutta l'estate piantata qua?-
Le chiese sorridendo. Non era un tipo che la tirava per le lunghe,
questo no... Quello che pensava passava dal cervello alla lingua senza
filtri. Ma non voleva essere cattivo, questo Costanza lo
capì,
per cui abbozzò un sorrisetto tirato.
- Stavo scherzando, comunque!-
Specificò lui, notando il leggero disagio della coetanea.
Prese
posto affianco a lei, mentre Costanza sentiva irrigidirsi qualcosa
dentro di lei.
- Io comunque mi chiamo Alberto-
Lei annuì, di nuovo quel sorriso poco convincente.
Alberto sollevò le sopracciglia, interdetto ma divertito.
- Di solito quando ci si presenta si dice anche il proprio nome!-
La punzecchiò.
Il viso di Costanza avvampò in un lampo. Avrebbe voluto
essere
al contempo lontana kilometri e kilometri, eppure il fatto di essere
lì accanto a quel bambino la rendeva intimamente felice, di
una
felicità che non sapeva esprimere e che non provava da
molto,
troppo tempo.
- Costanza-
- E' un bel nome!-
Un sorriso molto più sincero le increspò le
labbra.
Ci fu un momento di silenzio, un momento in cui Alberto
sembrò
osservarla con ancor più profondità di come
avesse fatto
fino a quel momento. Quegli occhietti blu sembravano essere
così
indagatori da riuscire a leggere nel pensiero.
Era un'idea stupida, ma Costanza abbassò lo stesso lo
sguardo, non si sa mai.
- Perchè te ne stai sempre qua da sola?-
Forse era quella la domanda con la quale la sua stessa solitudine
voleva evitare di avere a che fare. Si isolava per non farsi chiedere
perché si isolava. Era un meccanismo complicato da spiegare,
persino da capire.
Pensò che dire la verità non sarebbe costato
nulla, per cui con un filo di voce riuscì a dire:
- Io.. Non lo so...-
Per la prima volta Alberto spostò lo sguardo dal viso di lei
e
Costanza ebbe paura, se non l'autentico terrore, che il bambino se ne
andasse, che la lasciasse sola, ora che sola non voleva essere
lasciata. Fu turbata da quel pensiero, perchè era la prima
volta
che desiderava qualcos'altro che non fosse il niente.
Sentì avvicinarsi timidamente la mano piccola, ma
già
abbozzata da uomo di Alberto e, sebbene l'impulso iniziale fosse stato
proprio quello, non ritrasse la sua. La lasciò appiattita e
quando lui le sfiorò le dita smise di trattenere il fiato.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=3519171
|