La Cacciatrice di Spiriti

di Cara Jaime
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** On the road again ***
Capitolo 2: *** Ring of Fire ***
Capitolo 3: *** Sweet Home Alabama ***



Capitolo 1
*** On the road again ***


Di nuovo sulla strada, a bordo del furgoncino blu GMC, mani sul volante e un panino tra i denti. È ora di pranzo. Il veicolo fila lungo la statale del Kentucky in direzione est, verso la prossima destinazione. Una vita sulla strada, dormire dove ti va e mangiare cosa e quando ti pare, non è poi così male. Certo quando ero al liceo non era questo il futuro che mi aspettavo. Ma alla fine, ripeto, non è così male. Incontri persone sempre nuove, visiti posti sconosciuti, intrecci avventure. Ed è tutto qui nel mio diario. Lancio un’occhiata all'agenda posata sul sedile accanto al mio, consunta dal tempo e dall'uso. La copertina di pelle è rovinata e qualche foglio cerca sempre di volare via, soprattutto quando c’è vento. Tuttavia non mi separerei mai dal mio fedele compagno, al pari della mia Olympus. Eccola qui, sul sedile anche lei. Il diario e la fotocamera, una strana coppia. Potrei scriverci un fumetto. Non è per questo che sono diretta a est. In realtà sono a caccia dell’ennesimo mistero. Strappo l’hamburger dalla bocca con la mano sinistra e poi reggo il volante mentre con la destra scalo la marcia per affrontare una curva. All'orizzonte si delinea lo skyline serale della cittadina a cui farò visita molto presto. Chi sono io? Mi chiamo Helen. Helen Daisy Vincent e sono una fotografa molto particolare. Caccio fantasmi per una rivista del settore soprannaturale. Il mio ruolo è questo. Visito una città, un paesino di campagna, anche quelli più sperduti d’America, dietro segnalazione dei nostri lettori o della redazione. Vado sul posto e verifico che non si tratti di una bufala. Quando scopro che la storia è vera, scatto un mucchio di foto. Prima di mandarle al redattore via mail narro il passato del luogo e la mia avventura. È appagante. Venire a sapere di cose fuori dal normale ti apre la mente. Scopri di non essere solo e che dietro alla realtà visibile c’è qualcosa di più delle mere apparenze. Un bel po’ della senape del mio panino finisce sui miei jeans nuovi. “Accidenti, no!” esclamo seccata. Li ho appena presi e una lavanderia a secco non è così facile da trovare lontano dalla civiltà. Cavolo, adesso sarò costretta a fermarmi in un bar prima di presentarmi. Sempre che ne trovi uno dove sono diretta. Questo posto sembra davvero fuori dal mondo. Impreco ancora mentre appoggio il cibo sulla carta argentata accanto al mio diario di viaggio. Afferro una salvietta dal cruscotto e mi ripulisco alla bell'e meglio. Getto la carta sporca nel sacchetto che funge da pattumiera e sento l’auto sbandare. La ruota di destra ha preso un sasso. Mi rizzo rigida come un manico di scopa e tento di riprendere il controllo del veicolo. Fatto. Faccio un profondo respiro di sollievo e pigio il pedale. Voglio arrivare il prima possibile.
 
Davanti a me si allungano due corsie separate da un'aiuola d'erba corta. Una prosegue inerpicandosi su una collina per poi sparire dietro a essa. L'altra svolta a destra e viene nascosta alla mia vista da una macchia di alberi. Potrei facilmente attraversare la frangia di prato con il mio pickup, ma decido invece di imboccare la prima svolta a sinistra che mi permette di tornare indietro. Ho appena oltrepassato la mia meta, ben lontano dal centro del paese. Fortunatamente si tratta di un pub, così potrò ripulirmi i pantaloni. Faccio una bella inversione e passo davanti al locale notturno. È un edificio piuttosto spartano costituito da una bassa struttura in pietra e un caseggiato enorme sul retro che spunta da dietro il muro di cinta. Posteggio l'auto nel parcheggio accanto all'entrata, un semplice spiazzo costeggiante la strada. Scendo, armata della mia macchina fotografica digitale e della borsa in cui ho infilato il diario. Giro attorno al veicolo e mi avvicino alla porta d'ingresso, sormontata da un'insegna. La scritta bianca su sfondo rosso in caratteri calligrafici recita “Bobby Mackey. Da quello che mi hanno detto in redazione, è un pub in cui si può ascoltare musica country. Nonostante l'aspetto senza pretese, il locale ha un background storico non indifferente della durata di almeno un secolo. Mi sono informata. Devo sapere dove sto andando e cosa cercare prima di recarmi in un luogo presuntamente infestato.

“Buongiorno! C'è nessuno?!” esclamo prima che i miei occhi si abituino alla penombra dell'interno. Quando ritrovo la vista mi ritrovo addosso lo sguardo di un paio di avventori. A quanto pare non sono la prima cliente della serata. Rivolgo loro un sorriso imbarazzato, e i commensali col cappello da cowboy tornano alle loro birre. Le pinte sono bicchieri di vetro piuttosto resistente e spesso, colmi di fino all'orlo. Mi fanno venire l'acquolina. Magari stasera me ne faccio una. Prima però devo trovare il proprietario e iscrivermi a uno dei tour. A differenza di altri incarichi, questo mi è stato segnalato dalla redazione del Paranormal. Semplicemente vogliono mostrare ai lettori uno dei locali più infestati del mondo.

Mi reco al bancone e aspetto di essere servita quando noto un volantino appoggiato su di esso. Pubblicizza l'Haunted Tour offerto dal pub. Scopro così che potrò partecipare a quello del mattino seguente; inizia alle nove e un quarto. Soddisfatta, appoggio il depliant e sorrido al barista, un bel giovane sui trent'anni; mi si avvicina.

“Buonasera signora,” mi fa alzando il cappello in segno di saluto. “Cosa le porto?” Mi mordo il labbro inferiore. Ha una voce sensuale, roca e country che mi fa vibrare. Gli sorrido a trentadue denti.

“Una birra, grazie.” Tolgo la Olympus dalla tracolla e me la poso in grembo, quindi la avvicino al viso e scatto un paio di fotografie al locale. Nel frattempo il cowboy si allontana per spillarmi una bella birra con un paio di centimetri di schiuma. Lo ringrazio e gli sollevo il bicchiere.

“È una fotografa?” La voce proviene da dietro a me. Mi giro e vedo arrivare un uomo alto almeno un metro e ottanta. Indossa la classica camicia a scacchi del campagnolo sudista e un paio di jeans lisi da cui spuntano le punte degli scarponi.

“Sì, certo,” gli sorrido guardandolo dal basso in alto. Lo vedo montare a cavallo dello sgabello e ordinare un whisky liscio con un cenno del capo. Ha la mascella squadrata, i lineamenti forti e un velo di barba brizzolata appena cresciuta. Eppure ha folti capelli scuri senza traccia di ciocche bianche caratteristiche dell'invecchiamento precoce. Lo trovo affascinante. “È qui per un servizio o per piacere?” mi domanda con voce profonda e senza rendermene conto inizio a pendere dalle sue labbra.

“Entrambe, a dire il vero.” Mi lancia uno sguardo interrogativo proprio mentre il barista gli serve il drink. Lo prende in mano e lo avvicina alle labbra. Lo sguardo fisso su di esse, cerco le parole per spiegargli il mio lavoro. “Vede, faccio servizi per una rivista dedicata al paranormale.” Qui di solito la gente mi degna di occhiate perplesse. Lui no invece, sembra interessato. Così continuo, più sicura. “Il fatto è che i fenomeni paranormali sono anche la mia passione, quindi unisco le due cose.”

“Interessante.” Le sue labbra si schiudono e lasciano intravedere una fantastica fila di denti bianchi come perle. No, non può essere vecchio, nonostante mi sia praticamente impossibile indovinare la sua età. “Succede spesso da queste parti. Non mi sorprende,” spiega lui. Allora gli sorrido di nuovo.

“Dopotutto, questo è considerato uno dei posti più infestati del mondo,” aggiungo alla sua affermazione. Lo guardo annuire, lo sguardo vaga in direzione del fondo del locale senza una destinazione precisa. “Mi chiamo Helen.” Decido di presentarmi e gli tendo la mano. Lui la guarda poi alza gli occhi su di me. Il suo sguardo mi colpisce in pieno. Non so che mi prende, quale sia il motivo per cui mi affascina così tanto.

“Dalton.” Mi stringe la mano con la sua, grande e ruvida. Riesco a sentire i calli contro la pelle contrariamente morbida del mio palmo. Può essere che siano gli opposti ad attrarsi? Mi riscuoto. Lo stavo fissando inebetita, così mi affretto a puntare gli occhi nel mio bicchiere come se dentro ci fosse qualcosa di estremamente interessante. “Penso di partecipare al tour di domani mattina? Lei ci sarà?” Ho ipotizzato che anche lui sia di passaggio.

“In realtà conosco fin troppo bene questo posto,” risponde lui. “Ci sono cresciuto.” Ah, quindi è di qui. Non potrò sfruttare il ruolo della donzella spaventata per farmi sorreggere durante la visita guidata. Però posso intervistarlo, sebbene in via informale.

“In questo caso saprà tutto di questo posto. Le va di parlarmene?” È più forte di me. Anche quando potrei provarci con un uomo affascinante vado dritta all'argomento lavoro. Accidenti. A volte mi prenderei a sberle da sola. La sua espressione è enigmatica, mentre mi guarda. Sento che mi scivola sottopelle e attraverso i vestiti, ma non so se sia intenzionale o se stia pensando a quando sono invadente e strana. Di solito solo i nerd mi trovano interessante. Mi schiarisco la voce.

“La storia che fa da sfondo a questo posto, e di cui sentirà sicuramente parlare domani, riguarda una ballerina di nome Johanna che lavorava nei quartieri latini nei primi anni del diciannovesimo secolo.” Si bagna le labbra con del whisky, lo sguardo perso davanti a sé. "Si racconta sia stata uccisa dal padre nella cantina e che il suo spirito continui ad apparire in attesa del suo amore.” Mi lancia un'occhiata in cui leggo dolore. Corrugo la fronte. Ora tocca a me fare la parte della scettica.

“Ma è solo una storia, giusto? Insomma, di quelle che si raccontano sui vari posti infestati. Una delle tante ipotesi su cui si basano i fenomeni di apparizione.” Quest'uomo è un enigma. Non sono nemmeno certa sia vero. Con una scusa mi sistemo sullo sgabello e ne approfitto per toccargli uno stivale con la punta del piede. No, è reale, non un fantasma. Inizio ad arrovellarmi. Lui deve aver notato la mia faccia stupita, poiché mi rivolge un sorrido malinconico. “Johanna era la mia trisnonna.”

Questa poi. Devo essere rimasta per un bel po' a fissarlo a bocca aperta, perché ad un certo punto Dalton scoppia a ridere. È bellissimo, ha una risata melodiosa. Mi domando se per caso non faccia il cantante country in quel posto. Ho sempre avuto un debole per i musicisti. Dal palco in un angolo del locale proviene un rumore. Mi volto e vedo qualcuno armeggiare con il microfono. Lo infila su un'asta e srotola il cavo che andrà poi collegato all'amplificatore. Lo so perché quando andavo al liceo stavo con un ragazzo che cantava in una rock band.

“È il mio turno,” fa con un sorriso diverso. Lo guardo ancora a bocca aperta, seguendolo mentre si reca verso il palco. Batto un pugno sulla coscia, stringendo le labbra. E ti pareva. Sono una ficcanaso. D'altronde è il mio lavoro. Ho parecchia faccia tosta. Lo guardo sistemarsi la chitarra acustica a tracolla, illuminato solo da qualche faretto. Un brivido mi corre lungo la schiena e mi massaggio il braccio sinistro per scacciarlo. Certo che questo posto fa venire i brividi. Storia spettrale a parte, c'è qualcosa in questo luogo che in altre circostanze mi farebbe fuggire.

Rullo di tamburi e la band inizia a suonare un pezzo country che riconosco sin dalle prime note. Il ritmo è in sedicesimi e il mio piede inizia a tenere il tempo battendo contro la gamba dello sgabello.

“On the road again...” La voce di Dalton risuona cristallina nel salone. “Just can't wait to get on the road again...” Persino gli incalliti giocatori di biliardo interrompono la partita, posano le stecche e si avvicinano al palco. “The life I love is makin' music with my friends...” Le loro teste annuiscono un po' fuori tempo alla cadenza della batteria, ma le loro mani si scontrano perfettamente a tempo. “And I can't wait to get on the road again.” Presto davanti alla band si è raccolto un drappello di uomini e donne che si muovono, acclamano e fischiano. In una pausa strumentale della canzone vedo lo sguardo del cantante spaziare sopra le teste del pubblico e approdare su di me. Un tuffo al cuore quando alza un angolo della bocca in un sorriso sghembo e accattivante. Sta sorridendo a me?

Il brano successivo è più lento. Conosco anche questo. “Almost heaven... West Virginia...” La sta cantando fissandomi. “Blue Ridge Mountains... Shenandoah River...” Ne sono certa perché osservandomi attorno mi rendo conto di essere finita in ultima fila. “Country roads... take me home... to the place... I belong.” Gli sorrido e inizio a ondeggiare, battendo le mani a tempo. “West Virginia... mountain mama...” In sordina canticchio il motivetto orecchiabile di John Denver. Non riesco a togliermi questo sorrisetto dal muso. “Take me home, country roads.” La fine del brano viene accolta da uno scroscio di applausi, ma lo show non si ferma.

La band intona In the summertime di Mungo Jerry e mi lascio trascinare dalla melodia adatta alla stagione. Sollevo le braccia in alto e ballo seduta sullo sgabello, senza pensieri. La musica mi scivola lungo la schiena e mi penetra nelle vene, spazzando via i pensieri. Fischi ed esclamazioni accompagnano il gruppo. Dopo un po' da che ho chiuso il mondo fuori abbassando le palpebre, riapro gli occhi e guardo sul palco. Dalton mi sta fissando con un'espressione curiosa, ma piuttosto evidente. Quello che ha visto gli è piaciuto. Restituisco il sorriso stringendomi nelle spalle. Sono una a cui piace godersi la vita.

Manciate di minuti trascorrono insieme agli Truckstop Renegades, tra cover country e rock di diversi artisti, tra cui gli scozzesi Stealers Wheel. Il ritmo mi prende e mi accompagna fino a mezzanotte, ora in cui Dalton e i suoi danno la buonanotte alla gente del locale. Incredibile come siano riusciti a rimanere svegli fino a tardi. Poi mi sfiora il pensiero che forse è gente abituata a frequentare concerti del genere, tanto quanto io sono abituata a viaggiare.

La band sbaracca, la gente defluisce dal pub e io scendo giù dallo sgabello. Penso proprio che dormirò in macchina. Non ho voglia di allontanarmi troppo dal locale. Improvvisamente il mondo si inclina di lato e mi sento afferrare alla vita da due mani forti. La faccia di Dalton entra nel mio campo visivo. “Hey bellezza! Non mi vorrai crollare adesso?” Il suo sorriso sfacciato ne strappa uno a me.

“Non credevo di aver bevuto tanto,” farfuglio. Infatti non l'ho fatto. Guardo confusa il mio bicchiere solitario sul bancone e corrugo la fronte. Intanto la mia testa decide di smettere di girare e riprendo sensibilità nelle gambe. “Forse mi sono alzata troppo velocemente,” ipotizzo poco convinta. Lui mi sta ancora guardando, in attesa di qualcosa. Allora gli sorrido e poso le mani sul suo petto. Al tatto mi appare sodo e il pensiero di cosa si nasconda più in basso mi attraversa la mente.

“Dove dormi stanotte?” domanda. Lo guardo persa per un attimo, quindi scuoto la testa. “Oh! In macchina. Non ho voglia di andare fino in città.” Barcollo. “Del resto non so nemmeno se riuscirei ad arrivarci,” borbotto subito dopo sfiorandomi la fronte con le dita.

“Non esiste. Permettimi di offrirti ospitalità.” Assottiglio lo sguardo. Dire di no a quel paio di occhi blu è arduo, ma non sono un'ingenua. Lui sembra cogliere il sospetto nel mio sguardo e sorride. “Non ti chiederò di venire a letto con me. A meno che tu non lo voglia.” Dio, sì che lo voglio! Ma che mi sta prendendo? Non sono mai stata una gatta in calore. Poi penso che è da mesi che non ho una vera relazione; nemmeno una finta. Perché no? Nella mia mente riecheggia la voce graffiante di Nancy Sinatra.

Bang bang, he shot me down
Bang bang, I hit the ground
Bang bang, that awful sound
Bang bang, my baby shot me down

Scuoto la testa e sorrido. Lui mi solleva per i fianchi al che gli avvinghio le gambe alla vita. “Andate da un'altra parte,” risuona la voce strascicata del barista cowboy. Dalton e io attraversiamo la porta sul retro ridacchiando come due ragazzini. Non vedo dove stiamo andando. Le braccia attorno al suo collo, sono troppo impegnata ad affondare la lingua nella sua bocca, mentre strofino il cavallo dei pantaloni contro il suo inguine. Non c'è dubbio sul suo desiderio, e nemmeno sul mio. Mi rendo conto del luogo in cui ci troviamo solo quando mi sento sprofondare in qualcosa di morbido. Mi ritrovo stesa su un letto, in una camera da letto vecchia, ma accogliente. Lo guardo disfarsi della camicia e alla vista della t-shirt attillatissima ruggirei. Non lascia molto all'immaginazione, nonostante quando se la leva è molto meglio. In un attimo sono nuda e lui mi viene sopra. Al contatto con la sua pelle calda mi sfugge un gemito. Mi inarco e lo percepisco scivolare dentro di me. La sua presenza mi colma e allora mi sembra di impazzire. Do un colpo di fianchi, pronta a dimenarmi sotto di lui come non ci fosse un domani, ma le sue mani ferme me lo impediscono.

“Calma piccola,” lo sento sussurrare contro la mia spalla. Per la frustrazione mi scaglio sulla sua e gli mordo il muscolo alla base del collo. Lo odo trattenere un gemito e sorrido compiaciuta. “Gatta selvatica...” Mi stupisce, cominciando a muovere i fianchi lentamente, malgrado la voglia che ci divora. È incredibile, ma lo sento vibrare come se fosse diventato parte di me. Il ritmo lento di una canzone romantica calma gradualmente i miei bollori, così invece di ricercare l'orgasmo a tutti i costi e rapidamente, lascio scorrere le mani sulla pelle liscia del mio cantante. Per quella notte mi appartiene, a me soltanto. Sospiri, ormai non so più se sono suoi o miei. Abbandonata sotto di lui ascolto la musica nella mia mente. Stavolta è Blondie a cantare.

Color me your color, baby
Color me your car
Color me your color, darling
I know who you are
Come up off your color chart
I know where you're comin' from

Mi risveglio dal trance in cui sono sprofondata nel momento in cui lo sento incalzare il ritmo. È duro e teso verso di me e sento che vuole venire. Mi inarco con un grido perché il contatto tra la sua cima e le mie profondità mi scatenano brividi lungo la schiena. Finora si è tenuto alla larga da quella zona, ma ora la sta colpendo senza pietà, sempre più veloce. Il mio respiro si accorcia, i brividi scorrono come l'acqua di una cascata sotto la pelle fino al momento in cui percepisco un'esplosione in cima alla mia testa.

“Cazzo!” Rimango immobile, stupita dalle mie stesse parole. Lui mi bacia una spalla sorridendo, mentre gli ultimi spasmi contraggono i suoi fianchi contro di me. Come faccio a “sentire” il suo sorriso sulla mia pelle? Abbandono le palpebre pesanti e il mio corpo alla stupenda sensazione di appagamento, e così scivolo nel sonno, nelle orecchie lo sfumare delle parole del ritornello di Girls Just Wanna Have Fun di Cyndi Lauper.

Mi sveglio alle prime luci dell'alba, destata dalla luce che entrava attraverso la finestra sopra al talamo. Guardando sotto al lenzuolo scopro di essere ancora nuda. Sorrido ripensando alla nottata scorsa. È stata una bella sorpresa. Improvvisamente mi ricordo di non avere la minima idea se abbiamo usato delle protezioni oppure no. Stringo il tessuto di cotone contro il petto e mi giro. Dalton sembra dormire profondamente. Mi alzo a sedere in ansia ed è allora che sento qualcosa sfiorarmi la schiena dalle scapole verso il basso. Riconosco il suo tocco, che mi provoca un tremito lungo la spina dorsale. Mi calmo un poco e torno a voltarmi.

“Buongiorno.” Al risveglio ha una voce ancora più sexy, arrochita com'è. Gli sorrido dolcemente e l'agitazione si sgonfia come un palloncino bucato. Mi ero dimenticata della pillola; la prendo ogni giorno. Questo non vuol dire che il mio sia stato un comportamento prudente. Potrebbe avere qualche malattia... In realtà non ci credo nemmeno io, guardandolo. Mi sdraio di nuovo al suo fianco, scivolando sotto al telo bianco di stoffa. Lui mi attira a sé mettendomi una mano sulla lombare. Al contatto con la sua pelle calda mi sento avvampare. “Qualcuno è facilmente infiammabile, qui.” Riapro gli occhi e gli sorrido, scoccandogli un lungo bacio sulle labbra subito dopo.

“Non è colpa mia,” dico con un'alzata di spalle. “Sei tu a farmi questo effetto.” Le sue labbra morbide si posano sulla mia fronte e io chiudo gli occhi. La stanza è colma di silenzio leggero; nessun rumore turba la nostra quiete. Faccio un gran respiro, completamente rilassata. Sto alla grande. Per un istante ho dimenticato il sogno di stanotte. Ora però mi torna in mente. Qualcuno mi stava inseguendo all'interno del casolare in cui mi trovo. Mio padre era furibondo. Mi aveva scoperto a giacere con Dalton e ora pareva proprio intenzionato ad uccidermi. Allo stesso tempo mi rendevo conto che tutto ciò non aveva senso, perché mio padre è in Minnesota a badare al ranch. Non me lo spiegavo, ma nella mia visione onirica il mio istinto di sopravvivenza mi spingeva a correre e correre. Non so come mi infilai stupidamente nella cantina. Sapevo di non dover scendere la sotto, che se l'avessi fatto sarebbe successo qualcosa di irrimediabilmente brutto. Eppure le mie gambe mi portarono là. Fu in quel posto che mi uccise. Il mio ricordo del sogno deve essere stato vinto dalla bella serata trascorsa e con un aiutino da parte dell'alcol, poiché solo ora lo rammento interamente.

“Cos'hai?” Alzo lo sguardo e incontro quello del mio bel cantante country. Non è preoccupato, no, nemmeno allarmato. È stupito.

“Scusami,” gli sorrido e lo bacio di nuovo. Percepisco i lineamenti del mio viso distendersi. Non mi ero resa conto di aver cambiato faccia. Non volevo dirgli dell'incubo. Probabilmente la prenderà male. Però mi guarda in modo talmente dolce che non so resistere. “Ho fatto un brutto sogno,” sospiro abbassando lo sguardo. “Solo che non lo ricordavo finora.”

“È normale.” La sua risposta mi coglie di sorpresa. “È questo posto,” dice abbracciandomi, e massaggiando la mia schiena con le grandi mani. Gemo di piacere; manca poco che mi metta a fare le fusa.

“Immagino di sì,” mormoro lasciando che il suo tocco spazzi via ogni preoccupazione. Apro un occhio. “Vuoi fare colazione?” Vedo le sue labbra allargarsi in un sorriso sfacciato. So cosa vuole ancora prima che lo dica.

Mezz'ora dopo mi inarco in preda a un nuovo fantastico orgasmo. Le mie dita sono aggrappate alla sua schiena, sulla quale ho lasciato dei segni rossi. Lui se la guarda incurante da sopra la spalla. “Ehm,” gli sorrido non appena incontro il suo sguardo cristallino. Dalton ricambia il sorriso e mi bacia, mentre i suoi fianchi rallentano il movimento in modo graduale. Il tocco delle sue labbra mi fa girare la testa, per non parlare delle carezze della sua lingua. Bastano quelle a farmi eccitare. Il mio cervello va imperterrito al motivo per cui sono lì, ma il mio corpo e il resto non ne vogliono sapere. Tra l'altro è ancora presto per il tour paranormale. Sospiro estasiata, abbandonando le membra indolenzite all'abbraccio di Dalton e delle lenzuola. Chiudo gli occhi.

Alzo la testa di scatto. Dalton è sdraiato, tutto vestito, nell'angolo a sinistra con un'inconfondibile tazza bianca in mano. “È caffè quello?” La voce mi esce rauca. Sorrido e lo vedo allungare il contenitore nella mia direzione. “Oh grazie,” mormoro e sculetto un po' per mettermi a sedere. Butto giù tutto d'un sorso anche se è amaro e freddo; fa parecchio schifo, ma ho bisogno di una bella sveglia. Riconsegno la tazza vuota e giro la testa verso la sveglia appoggiata sul comodino alla mia destra. “Sono quasi le nove,” dico afferrando la maglia dal pavimento. Sollevo le braccia e la infilo dalla testa. “Tra un quarto d'ora inizia il tour. Immagino che tu abbia le tue cose da fare, quindi...” Sento una presa al polso mancino e mi volto cercando incuriosita gli occhi del cantante.

“Stavo pensando,” dice inclinando la testa cinta dal cappello, “perché non ci facciamo un tour privato tu e io?” Dalton è in piedi e mi attira a sé per i fianchi. Il mio bacino poggia contro il suo e gli passo una mano sulla nuca, giocherellandoci con le dita. Taccio. Mi ha presa alla sprovvista. Credevo fosse uno di quelli da una botta e via.

“Ehm... certo!” esclamo regalandogli un bel sorriso e mi allungo verso di lui per schioccargli un bacio.

“Seguiremo un itinerario diverso da quello del locale, così non ci sovrapporremo,” lo sento dire mentre mi volto e cerco le mutandine. Le trovo in un angolo della stanza. Chissà come ci sono finite. Le indosso e vado a recuperare i jeans che spuntano da sotto il letto. Li guardo e riscontro che la macchia di senape non si vede poi tanto. Sono stata distratta da un affascinante cowboy e mi sono scordata di lei.

“Vorrei solo portare qualcosa da mangiare e da bere, non si sa mai.” Un giorno mi è capitato di rimanere chiusa in un ascensore e non avevo pranzato. Le quattro ore più brutte della mia vita.

“Ho chiesto a Keith di metterci da parte un paio di panini e due birre,” ribatte lui indicando il tavolo di fronte alla porta. Dirigo lo sguardo da quella parte e sorrido.

“Efficiente...” Infilo le mani sotto la nuca e tiro i capelli fuori dalla maglia. “... direi,” aggiungo prendendo una scarpa e saltellando per infilarla. Mia madre mi rimproverava sempre, dicendo che era più facile mettere le scarpe da seduti. Non le ho mai dato retta. “Pronta,” dichiaro infine. Borsetta di nylon alla mano contenente le vettovaglie, usciamo dalla porta. Ovviamente mi sono ricordata di recuperare la mia Olympus dal comodino. Mi trovo sul balcone che dà sul cortile interno del locale. Prendiamo le scale e scendiamo.

“La nostra prima tappa è la cantina,” dice conducendomi per mano.

“Quella in cui è morta Johanna?”

“Sì.”

“Wow... credi che sia ancora lì?”

“Non lo so. Non credo in queste cose ma... Vieni.” Stiamo attraversando il locale e prendiamo l'uscita che dà sulla strada. “Per arrivarci dobbiamo fare il giro.” Prendiamo a sinistra verso il parcheggio e lo costeggiamo fino a raggiungere una porta sul fianco. “Quando ero bambino ho visto delle cose... ancora non me le so spiegare.”

Ho visto un video amatoriale delle riprese del tour caricato su Youtube da un visitatore, ma non ho provato il brivido che mi coglie all'improvviso nel momento in cui varco la soglia. Ho l'impressione che la spina dorsale mi scorra sotto la pelle senza alcun punto fermo. “Tutto bene?” Dalton mi sta guardando preoccupato. È davanti a me e mi tiene ancora la mano. Mi rendo conto di essermi bloccata bruscamente.

“Sì... Sì, certo.” Muovo un passo guardando dove metto i piedi, ma non sono convinta di quello che dico. Ho una pessima sensazione... Prendo coraggio e alzo lo sguardo, lasciando la mano del cantante per prendere la mia fotocamera. Scatto un paio di fotografie a vuoto per regolare il filtro della visione notturna. L'ambiente è troppo scuro anche per usare il flash. Ecco che i duemila dollari spesi per l'attrezzatura specifica danno i loro frutti.

“A posto?” s'informa Dalton guardando da sopra la mia spalla. La sua mano mi accarezza quella opposta, ma la tensione mi impedisce di godermi il suo tocco. Basterebbe questo per convincermi che in questo posto c'è il male.

“A posto,” dico facendo un bel respiro. Mi guardo attorno. Persino la presenza del cantante mi irrita. Questo cambiamento di umore mi inquieta. Non sono il tipo da sbalzi. Talmente rigida da sentire dolore alle spalle, alzo la macchinetta e avanzo nella stanza. Oltre ad alcune tubature esterne del locale soprastante, incontro alcune scaffalature disseminate di ogni genere di oggetto. Alcuni di questi non c'entrano nulla con il pub. Mi meraviglio che ci siano. Forse qualcuno ha fatto lavori di manutenzione... Sto pensando questo, quando sento il mio piede affondare in qualcosa di caldo e liquido. Abbasso lentamente lo sguardo e vedo una pozza scura. “Cos'è?” mormoro. Mi accovaccio spostando la fotocamera nella mano sinistra e immergo la punta delle dita nella strana sostanza. La porto alla bocca e annuso. L'odore metallico e penetrante caratteristico del sangue mi inonda le narici. Mi alzo di scatto con aria disgustata. Detesto la vista del sangue, tanto più infilarci le dita. Ho un moto di nausea. Solo allora vedo una scia di impronte fatta apparentemente della stessa materia. Inizio a seguirle, china sul pavimento.

Imbocco una porta senza guardare dove sto andando e mi ritrovo in un corridoio da cui proviene un singhiozzo. Una donna sta piangendo. Con lo stomaco annodato dalla paura avanzo piano, sfiorando le pareti con le dita. “Chi c'è?” La mia voce riecheggia come in una stanza vuota. “Stai bene?” Man mano che mi avvicino, comincio a vedere la figura di una ragazza seduta per terra contro il muro. Mi precipito da lei. “Ehi, tutto bene?!” esclamo allarmata. Certo che non sta bene. Guardo in basso e vedo una macchia scura; può essere solo una cosa. “Dio, chi ti ha ridotto così?” sussurro mentre mi levo la maglia per tamponarle il ventre. Faccio pressione, ma lei non risponde, continua a piangere e gemere. Mi domando se si renda conto della mia presenza. “Ehi, parlami,” la incito dolcemente, sapendo di dover usare i guanti di velluto con una vittima di qualche tipo di violenza. Se ne vedono di tutti colori ogni giorno in televisione.

“Dalton! Vieni qui, aiutami! C'è una donna ferita!” Giro la testa in cerca del mio accompagnatore. Nel punto in cui dovrebbe esserci il principio del corridoio con la porta che ho appena attraversato, c'è una nebbia fitta. “Che cosa...?” Mi alzo in preda allo stupore. Colmo la distanza tra me e la massa aleggiante di vapore acqueo e vi immergo una mano. È gelida, impalpabile. Ritiro la mano e la vedo invecchiata di almeno una quarantina d'anni. Sempre più interdetta, mi guardo alle spalle alla ricerca della donna ferita. Al suo posto scorgo una figura trasparente dal volto completamente ricoperto dai capelli. Con mio grande orrore avanza verso di me, gli occhi due pozzi neri senza fondo colmi di morte. Si avvicina inesorabilmente, mandandomi nel panico. Cosa devo fare?! Quando solo alcuni passi ci separano, tra lei e la nebbia che mi sbarra il cammino... scelgo quest'ultima. Senza ormai più alcuna esitazione mi tuffo nella nube glaciale e umida e... piombo a terra.

“Ahia...” Credo di essermi scorticata gli avambracci ma... all'improvviso e senza alcuna spiegazione razionale sento di essere al sicuro.

“Piccola, dove sei stata? Ero preoccupato da morire.” La tenerezza nella voce di Dalton e la stretta delle sue braccia spazzano via qualunque cosa sia appena successa. Mi stringo a lui e, complice il calore del suo corpo in grado di riscaldarmi anche in quella fredda cantina, mi lascio andare. È solo quando ci scostiamo l'uno dall'altra, sul mio volto una profonda commozione, che mi rendo conto di trovarmi esattamente nel corridoio in cui ho trovato la donna. Una strana sensazione, non potrei definirla deja vu quanto piuttosto attrazione, mi spinge a guardare alla mia destra. Sulla parete, vergata da una mano senza dubbio femminile, sembra essere scritta una poesia. Mi sciolgo dall'abbraccio di Dalton e mi accovaccio per leggere meglio.
 

My Love is deep as the sea
That flows forever
You ask me where will it end
I tell you Never

My love is as bright as the sun
That shines forever
You ask me when will it end
I tell you Never

The world may dispppear
Like a Castile of sand
But I'll be waiting here
With My Heart in my Hand

My Love I love you so much
Now and Forever
You ask me when will it end
I tell you Never

(Fonte: http://bobbymackey.com/Paranormal/Johanna/Johanna.html)

Risento una voce melodiosa nella mia testa e istintivamente ne ricerco il ricordo dentro di me. Sono le parole che hanno accompagnato il mio sogno di quella notte.

Finalmente usciamo da quella stanza terribile. Lui mi sorregge con un braccio attorno alla vita, poiché le mie gambe ne sono ancora incapaci. Non credevo di essere così pusillanime, mi viene da pensare con una certa frustrazione. L'aria esterna sembra farmi bene, nonostante la calura del mattino inoltrato. Scorgo la posizione del sole e sgrano gli occhi. “Quanto tempo siamo stati lì dentro?!” Dalton si gratta la nuca con fare imbarazzato, ma mi attira a sé stringendomi tra le braccia.

“Non volevo dirtelo ma... mi sei sparita da un momento all'altro. Mi sono girato e non c'eri più.” Ci guardiamo negli occhi per un lungo momento. "Quando stavo per uscire a chiamare la polizia mi sei caduta letteralmente ai piedi." Il suo sorriso arrogante gli vale un buffetto da parte mia.

“È qui che porti sempre le tue ragazze?” domando con un sorrisetto sghembo. Lo vedo allargare le labbra in uno dei suoi favolosi sorrisi.

“Solo quelle che mi piacciono di più,” mormora. Il suo viso si avvicina al mio con una lentezza atroce e alla fine mi cattura le labbra in un bacio struggente che dubito riuscirò a dimenticare per un bel po' di tempo.

Quello stesso giorno, dopo aver pranzato e riposato, esprimo a Dalton il mio intento di tornare a casa. Devo far ritorno in città, esaminare il materiale raccolto e scrivere il mio pezzo. Ho cinque giorni a disposizione prima della scadenza. Nel parlargli di questo, la mia voce è priva del solito entusiasmo. Lui mi solleva il mento con un dito e mi guarda negli occhi. Non so resistere a quello sguardo. Mi scioglie come neve al sole. Con la sua voce bassa e roca dice di voler fare l'amore con me un'ultima volta. E io non posso dirgli di no, nemmeno se lo volessi.

Mentre guido il mio furgoncino nella direzione opposta dalla quale sono arrivata, ripenso all'ultima ora passata con lui. La prima volta è stata focosa e intensa, urgente e bisognosa. Questa invece è stata estremamente lenta e dolce, colma di un'intensità che mi ha fatto venire le lacrime agli occhi. Riesco ancora a sentire ogni sensazione, ogni suo tocco adorante sul mio corpo, persino la sua bocca intenta a farmi godere. La mia mente e il mio corpo staranno anche tornando a casa, ma credo proprio che un pezzo di me sia rimasto con lui.

 

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Capitolo 2
*** Ring of Fire ***


https://www.youtube.com/watch?v=HJowp6Nvhl8

Dopo un mese dalla mia ultima avventura in Kentucky, penso ancora spesso a ciò che mi sono lasciata alle spalle. Non tanto la pessima esperienza con il fantasma del luogo; mi ci è voluto un po' per smaltire lo shock, ma alla fine mi sono liberata della spiacevole sensazione di disagio che mi ha tormentato per un paio di settimane. Ogni qualvolta spegnevo la luce percepivo la sua spettrale presenza alle mie spalle. Ho dormito male per diverse notti, crollando esausta solo quando il mio fisico non ce la faceva più. Pian piano la situazione è migliorata e i ricordi sono sbiaditi. Ancora oggi mi porto addosso un senso di fastidio, ma il peggio è passato. Quello che non riesco a togliermi dalla testa è la mia breve storia con Dalton. Spesso mi ritrovo a sospirare ripercorrendo il viale della memoria. Non posso dire di provare nostalgia. In realtà pensare a ciò che ho fatto con lui mi fa sorridere languidamente.

Comunque, stamani in ufficio ho trovato la mail di un certo Elias Donaldson. Proviene da Glamis, in Scozia. Il curatore del Glamis Castle mi ha scritto a causa di alcuni inconvenienti accaduti nelle ultime settimane, ma non entra nel dettaglio. Afferma di potermi ragguagliare in modo più approfondito quando giungerò sul posto. Non sono mai stata mandata a indagare fuori dal Paese, perciò la richiesta mi ha stupito parecchio. Ne ho discusso col redattore, incontrando un certo scetticismo. Non a causa della natura della richiesta, ma per il fatto che il curatore ha contattato me direttamente senza passare per i canonici filtri della rivista. Adam mi ha espresso la sua preoccupazione per la mia incolumità. Personalmente ci tenevo un sacco a fare un salto in Europa, visto il periodo dell'anno. In agosto è facile trovare voli e alloggi low-cost. Così gli ho proposto di farmi accompagnare da Betsy Palumbo. È una reporter come me, acuta e tosta. Gira sempre con una pistola, con tanto di porto d'armi. Il capo-redattore ha sorriso e mi ha dato il permesso di partire. Convincere la collega ad accompagnarmi, però, era affar mio.

Mi presento alla sua scrivania quel pomeriggio con un bicchiere di carta di Starbucks colmo di caffè freddo americano, il suo preferito. Un paio di domande alla sua compagna di lavoro quella mattina mi hanno messo nella giusta direzione. Non ho mai lavorato con Betsy e a dire la verità sono un po' tesa. Non so come la prenderà né se accetterà, ma sono disposta a correre il rischio.

“Ciao Betsy!” dico avvicinandomi. Mi appoggio col sedere su un angolo della sua scrivania e le sorride sfacciatamente mentre le porgo la bevanda. Lei solleva la testa dallo schermo del computer e mi fissa freddamente con i suoi occhi neri. Se non altro la mia agitazione scema un poco. Questa donna mi dà i brividi. “Ho una proposta per te.”

“Ah sì?” ribatte lei pigramente. Torna a rimettere la mano sul mouse e sposta nuovamente lo sguardo sullo schermo. Poso il bicchiere davanti a lei ed estraggo dalla borsa che tengo in grembo una stampa della mail.

“Guarda, sarò diretta,” dico spiegando la carta e lisciandola perché si è stropicciata. “Stamattina il curatore di un castello scozzese mi ha mandato questa.” Gliela metto sotto al naso senza farmi problemi e vedo il suo sguardo, abbassarsi sul foglio bianco. Finalmente, esulto dentro di me. Sono riuscita ad attirare la sua attenzione. Sorrido tra me e me mentre la vedo prendere la carta tra le mani. Rimane immobile per un lungo minuto quindi alza la testa e mi guarda.

“Cosa vuoi da me?” Faccio un bel sospiro perché normalmente a quel tono risponderei con uno schiaffo.

“Adam non vuole che ci vada da sola, ma concorda che possa essere una storia interessante. Quindi volevo chiederti se ti va di venire con me,” recito pazientemente tutto d'un fiato. Riecco il nervosismo.

“E perché non me l'hai detto prima?” esclama. Poi assottiglia lo sguardo e piega la testa da un lato. “Perché proprio io?” Prendo un respiro per rispondere, ma... “Aspetta.” Mi fa cenno di fermarmi con una mano. “È per la pisola vero? Ti serve una guardia del corpo.”

“Cosa?” strabuzzo gli occhi incredula. “No!” Betsy non mi dà il tempo di ribattere e si alza.

“Non ho intenzione di fare la babysitter a una pubblicista che non sa badare a se stessa,” dice lapidaria raccogliendo le carte sulla scrivania in un mucchio. Le smazzetta sul tavolo e le ripone in una cassetta di plastica per documenti. Rimango fissare i suoi gesti e sbatto velocemente le palpebre.

“No. Aspetta.” Faccio una pausa per ritrovare i pensieri. “Se avessi voluto questo non ti avrei detto perché stiamo andando in Scozia. Ti avrei semplicemente chiesto di venire con me.” La vedo incontrare il mio sguardo, con enorme sollievo. “Invece ti ho mostrato questa.” Alzo il foglio di carta che è di nuovo nella mia mano. Nei suoi occhi vedo succedersi l'esitazione, poi fredda analisi. Probabilmente sta vagliando i pro e i contro di quella collaborazione. Accidenti, se avessi saputo che sarebbe stato così difficile avrei scelto un'altra.

“Va bene.” Non ci credo. Ha accettato? Mi punta un dito contro. “Ma non ti faccio da guardia del corpo.” Stavolta lascio trasparire il mio fastidio.

“So badare a me stessa, grazie tante,” sbotto alzandomi dal piano della scrivania. Mi allontano dalla sua postazione, diretta verso l'uscita dell'ufficio.

“Grazie per il caffè!” la odo esclamare alle mie spalle. Il tono sembra più allegro. “Ci vediamo domattina alle nove!” Chissà perché mi sento presa in giro.

 

Il giorno seguente, alle nove, arrivo all'aeroporto regionale di Montgomery. L'edificio principale è un grande parallelepipedo dalle pareti simili alle celle fotovoltaiche. Sfilo tra le colonne trovando riparo dal calore alla loro ombra e trovo la mia collega ferma di fronte all'entrata, un trolley nero posato a terra al suo fianco. “Betsy! Buongiorno!” esclamo di buonumore e mi sbraccio per salutarla. Lei solleva lo sguardo dal cellulare, punta nella mia direzione torna a trafficare con l'apparecchio. Cominciamo bene...

Una volta giunte al check-in dichiariamo i nostri bagagli, consegniamo i biglietti e veniamo indirizzate dall'addetta all'uscita adeguata. Quando prendiamo posto sull'aereo cerchiamo i nostri posti e riponiamo i bagagli a mano nel vano soprastante i sedili. Quindi ci sistemiamo l'una accanto all'altra. Tra il via vai di passeggeri che prendono lo stesso volo approfitto dell'occasione per mettermi a mio agio con Betsy. “Allora. Pronta per un viaggio in Europa?” Lei risponde con un muto assenso. Faccio un sospiro, volto la testa verso il finestrino e simulo un urlo silenzioso. Se i fantasmi non mi faranno venire un esaurimento nervoso, sono sicura che lei ci riuscirà. “Tranquilla andrà tutto bene,” dico più a me stessa che a lei, che non mi sembra preoccupata. “Ho messo la mia t-shirt portafortuna.” Tiro i lembi della maglietta nera; sul davanti ha una stampa in bianco e nero di Johnny Cash che fa il dito medio. “Carina,” dice Betsy lanciandole un'occhiata fuggevole, ma non capisco se è sarcastica o ironica. Vedendo che la mia collega non ha voglia di parlare, reclino leggermente lo schienale del mio sedile e mi rilasso, chiudendo gli occhi.

Dieci minuti più tardi mi ridesto al rollio del velivolo. Guardo fuori dall'oblò e scopro che stiamo decollando. Frugo nella mia borsa e tiro fuori il mio tablet. Lo accendo e verifico che la batteria sia carica. L'ho lasciato in carica fino a poco prima di uscire per assicurarmi di avere un'autonomia sufficiente. Infatti il display mi segnala una disponibilità del cento per cento. Benissimo. Con una compagna di viaggio come Betsy, i giochini che ho scaricato, accantonati per diverso tempo a causa del lavoro, mi terranno occupata fino all'arrivo. Spero che la batteria duri tanto. Ci vorranno quasi sedici ore per arrivare in Scozia se tutto va bene, tra le varie fermate.

Mi sveglio scossa da un terremoto. Spalanco gli occhi afferrando il sedile attorno a me e strillo. “Precipitiamo!”

“No scema. Stiamo per atterrare,” mi canzona la voce di Betsy. Assomiglia a quella di Mandy di un famoso cartone animato che coinvolge un bambino idiota di nome Billy e il Cupo Mietitore. Ora che ci penso si comporta un po' come lei. Mi guardo attorno stordita e mi rendo conto che il velivolo si sta inclinando in avanti. La voce dell'hostess all'altoparlante sta finendo di ripetere per l'ultima volta l'ordine di allacciare le cinture e prepararsi per l'atterraggio. Ringrazio Dio con un sospiro di sollievo e obbedisco. Non so se si nota, ma le mie ultime notti non sono state molto tranquille.

Coi piedi finalmente per terra, raggiungiamo il bar per prendere qualcosa. Tra merendine varie e bevande non troppo salutari, abbiamo bisogno di rinfocillarci. In classe economica non si può pretendere di essere servite a pane e vino. Mi fa pensare a mia madre, diceva sempre che a causa dei miei gusti alimentari sembravo più un'europea di un'americana. Personalmente non ho mai trovato divertente ingozzarmi di cibi in scatola e precotti. Punti di vista.

Lasciamo l'aeroporto di Dundee verso l'una di notte e noleggiamo un'auto con la quale raggiungere l'hotel. Prima di partire abbiamo prenotato una stanza in un albergo a due stelle fuori dal centro. La struttura sembra più un palazzo di appartamenti, tranne per l'insegna Travelodge che troneggia sia sulla parete sia sopra l'entrata.

Dopo aver posato i bagagli in stanze separate, diedi a Betsy la buonanotte e mi chiusi in bagno per fare una lunga doccia fresca. Sebbene la temperatura scozzese sia più bassa di quella dell'Alabama, sento il bisogno di levarmi di dosso un bel po' di sudore e stanchezza. Una volta finito, mi avvolgo nell'asciugamano e vado a buttarmi sul letto singolo della mia camera. Prendo il tablet dalla borsa e mi collego al Wi-Fi dell'albergo. Digito “Glamis Castle” nella casella di ricerca di Google e clicco sul sito ufficiale.

Come prima cosa scopro l'orario di apertura, che mi ricorda il nostro appuntamento a pranzo con il curatore. A proposito, devo confermargli il nostro arrivo. Avvio la posta elettronica e mando una mail a Donaldson. Quindi torno alle mie ricerche. Tra gli accenni alla storia del castello trovo una sequela di noiosi resoconti sulla sua costruzione. Non è questo che sto cercando. Torno indietro e scorro i risultati della ricerca fino a che un articolo non attira la mia attenzione. Si intitola “Glamis Castle, il castello più infestato al mondo”. Dubito gli si possa attribuire questo primato, ma l'argomento mi incuriosisce, così decido di dare un'occhiata.

Tra le altre cose scopro ben tre maledizioni legate a esso e addirittura una stanza segreta. In quel posto sono stati perpetrati una lunga sfilza di omicidi e suicidi. Ecco il motivo della sua reputazione in ambito spiritico. Tuttavia non sono convinta. Nonostante ora sappia più o meno a cosa andremo incontro, ho bisogno di vedere con i miei occhi. Intendo recarmi sul luogo, scattare un mucchio di fotografie e mandarle via Internet al laboratorio del giornale per farle analizzare. Solo allora riterrò infestato il castello di Glamis.

Uno sbadiglio mi distrae dalla ricerca e porto una mano alla bocca per nasconderlo. Ripongo il dispositivo sul comodino alla mia destra, mi corico sotto le coperte e scivolo presto in un sonno profondo.

 

La mattina consecutiva mi sveglio con gran cerchio alla testa e uno spaventoso debito di sonno. Spalanco la bocca in uno sbadiglio disteso e mi guardo attorno stropicciandomi gli occhi. Per secondo mi sembra di non riconoscere il luogo in cui mi trovo, ma subito dopo la memoria mi viene in aiuto. Ricordo così di essere in un piccolo albergo modesto della Scozia, l'interminabile viaggio in aereo e la presenza della mia collega nell'altra stanza. Guardo l'orologio sul tablet. Sono le otto. Avrei bisogno di dormire almeno altre quattro ore, ma un gorgoglio allo stomaco mi spinge a decidere di scendere per fare colazione.

Trovo la mia collega già seduta a un tavolo con la sua postura ritta. Dopo aver fatto rifornimento al buffet, mi dirigo verso di lei e prendo posto sulla sedia di fronte. “Buongiorno!” esclamo con un bel sorriso. Al mio the aggiungo del latte e lo zucchero. Quindi spalmo una fetta biscottata con della marmellata alla ciliegia prelevata dalla confezione monodose preparata. Nel frattempo occhieggio Betsy, la quale mi ha a malapena rivolto uno sguardo. Per qualche ragione so che non ce l'ha con me. A modo suo sta cercando di approcciarsi senza correre rischi. Mi domando cosa l'abbia spinta ad adottare questo atteggiamento. Con una stretta allo stomaco penso che decisamente non sono pronta a saperlo. E forse lei lo sente.

Finisco la colazione senza tormentare oltre la mia collega taciturna e la avverto che vado a fare una passeggiata. Fino all'ora di pranzo mancano quattro ore e voglio dedicarle a fare un giro nei dintorni. Così mi armo di uno zainetto in cui metto l'indispensabile, fazzoletti di carta, salviette umide profumate, il cellulare, il portafoglio. Indosso la mia Olympus al collo ed esco.

La giornata è bella, nonostante qualche nuvoletta e un tasso di umidità eccessivo. Il tepore del sole è piacevole sulla pelle accuratamente coperta dai vestiti. Inspiro l'aria aromatizzata dalla salsedine e mi incammino. Le tipiche abitazioni in stile Vittoriano sfilano lentamente accanto a me da un lato e l'altro della strada. Le osservo rapita, scattando di quando in quando un'istantanea. La Scozia è un paese di grande fascino e non solo grazie alle sue leggende. Su Internet ho scoperto che la fama di Dundee è da attribuire alla famosa marmellata che vi si produce, oltre alla notevole attività dei giornalisti. Il posto per me insomma. Curioso come nella mia carriera semi-giornalistica sia capitata in una cittadina in cui la mia professione è così praticata.

Prendo la metropolitana e in venti minuti arrivo in centro dove c'è un particolare museo che ho in mente di visitare. Si tratta del Verdant Works, un museo che espone oggetti e macchinari utilizzati nella lavorazione della iuta. Lo so, non sembra questo granché, ma le antichità di ogni tipo mi hanno sempre affascinato.

Non mi fermo per molto. Faccio qualche scatto dell'esposizione quindi mi sposto alla galleria e museo d'arte McManus. È ospitata da un edificio piuttosto grande in stile gotico vecchio di cento cinquant'anni. Quando arrivo a destinazione mi sento costretta a rallentare alla sua vista. Devo ammettere di avere un debole per questo stile. Fotografo alcuni particolari, oltre a prendere una bella panoramica da cartolina, quindi mi introduco. Secondo la guida che ho scaricato in pdf ci sono ben sei esposizioni da visitare, ma non credo di avere tutto questo tempo. Inoltre detesto fare le cose di fretta. Seleziono quindi un paio di esibizioni dedicate all'era glaciale e a un poeta e pittore britannico dell'anteguerra.

Rinvigorita da quel bagno d'arte lascio la struttura e mi avvio alla fermata della metropolitana più vicina. Alcuni passanti diretti nella direzione opposta voltano la testa verso di me, scrutandomi curiose e sorridendo. A quanto pare la mia soddisfazione è piuttosto evidente. Ricambio con un sorriso gentile e un cenno del capo e mi affretto. Sono ormai le dieci e, anche se ci metterò meno di dieci minuti ad arrivare, voglio essere in anticipo per farmi una doccia e cambiarmi d'abito. Voglio indossare qualcosa di più professionale per il pranzo.

Pigiata tra i passeggeri, all'interno della carrozza di metallo, sento un leggero senso di claustrofobia. Normalmente viaggio in auto da sola. Non sono abituata alle scatole per sardine. Cerco di respirare lentamente per evitare di cedere al panico, ma è arduo. Un'insistente sensazione di essere osservata mi spinge a cercare lo sguardo che mi fissa. Incontro gli occhi azzurri di un uomo alto almeno una ventina di centimetri più di me. È in piedi aggrappato a un passamano, come me. Gli faccio un sorriso e scosto imbarazzata una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

“Tutto bene, signora?” mi domanda con il tipico accento del posto, alzando la voce per sovrastare lo sferragliare delle ruote sulle rotaie.

“Certo!” ribatto in risposta, annuendo velocemente. “Non sono abituata a viaggiare in metro,” spiego. Siccome vedo formarsi una ruga di perplessità in mezzo alla sua fronte, mi affretto ad aggiungere. “Vengo dall'Alabama! Sono americana!” Spero che questo basti a spiegare il mio disagio in quella situazione. Lui fa cenno con il capo e una mano di aver capito. Rivolgo lo sguardo altrove quando l'altoparlante annuncia la mia fermata. “Arrivederci!” esclamo e mi infilo rapidamente tra le porte aperte, scivolando tra la gente. Finalmente fuori, prendo un bel respiro e corro all'albergo.

Elias Donaldson si rivela un uomo alto e distinto dall'aspetto diverso dal comune scozzese. Infatti mi rivelo di essere avere origini anglosassoni. Durante il pranzo in un ristorante italiano, mentre divoro letteralmente i miei calamari fritti, prosciutto e mozzarella e un calzone (sì, lo so, sembra uno schifo, ma vi assicuro che non è così brutto vedermi mangiare, anzi), il curatore ci ragguaglia sui dettagli della nostra visita.

“Ho letto i suoi articoli, Miss Dickson,” dice armato di forchetta e coltello con le quali sta tagliando le sue tagliatelle.

“Oh,” esclamo positivamente sorpresa. “Mi fa piacere.”

“Ho notato una certa dedizione alla materia e un istinto particolare nell'intuire la realtà delle cose.” Smetto di masticare e lo fisso con intensa concentrazione. “Per questo motivo mi sono rivolto a lei.” Ripone le posate e unisce le mani sopra al piatto, poggiando gli avambracci contro il bordo del tavolo ricoperto da una tovaglia linda. “Lasci che le spieghi cosa sta accadendo.”

“Da un mese a questa parte, membri del personale hanno fatto incontri... poco piacevoli. Per esempio c'è un giardiniere rimasto scioccato dopo aver incontrato una donna in camicia da notte nel parco. Dice che aveva lunghi capelli scuri sciolti sulle spalle e gli ha mostrato i suoi occhi nel palmo della mano.” Il boccone mi si blocca in gola. Batto un pugno sul petto e prendo una gran sorsata d'acqua minerale per mandarlo giù. Nel frattempo la voce di Donaldson si è zittita. Finalmente deglutisco e torno a guardare in faccia il curatore. Negli occhi vedo brillare una luce divertita e le labbra sono rilassate, gli angoli rivolti verso l'alto. Ecco qui, io soffoco e a lui viene da ridere.

“Continui pure,” lo incoraggio con un sorriso divertito e imbarazzato insieme. Del resto troverei anch'io buffa questa scena, se la vedessi da fuori. Ripongo le posate, forse è meglio che finisca di mangiare dopo. Temo questo non sia l'unico episodio macabro e non voglio rischiare di strozzarmi e fare altre magre figure.

“Il secondo episodio è accaduto davanti alla stanza della Regina Madre,” prosegue Elias con tono pacato. Ha un tono di voce carezzevole, sensuale. Scuoto brevemente la testa.

“Vada avanti,” sbotto per interrompere il corso dei miei pensieri. Sulla fronte dell'uomo appare una ruga e il sopracciglio sinistro si solleva, ma non dice nulla. Grazie a Dio riprende a parlare.

“Il guardiano notturno si è imbattuto in un ragazzino ben vestito, ma il suo abbigliamento è arcaico.” Alzo le sopracciglia con aria dubbiosa. “Se si trattasse solo di un'apparizione non ci sarebbe alcun male. Abbiamo fatto l'abitudine a certe cose. Purtroppo il bambino ha iniziato a perpetuare un comportamento molesto nei confronti dell'uomo, il quale è arrivato al punto di risvegliarsi nei luoghi più disparati del castello ricoperto di una strana sostanza non identificabile.” Betsy e io ci scambiamo un'occhiata eloquente. “Infine, nella Blue Room...”

“Blue Room?” È la prima volta che la mia collega si intromette nella conversazione.

“Sì,” fa lui con un cenno affermativo del capo. “Si tratta di un camerino. Qui invece sono stati visti due uomini in uniforme intenti a giocare a dadi.” Silenzio. Stavolta non si tratta di una leggenda metropolitana. Ho la sensazione ci sia qualcosa di serio sotto. Un fremito mi attanaglia lo stomaco, togliendomi quel poco di appetito che mi restava. Sospiro, distogliendo lo sguardo dal curatore dagli occhi azzurri.

“Faremo un sopralluogo,” sentenzio prendendo il comando. Mi pulisco la bocca con il tovagliolo e lo ripongo accanto al piatto. “Scatteremo un po' di fotografie dei luoghi degli avvistamenti e le esamineremo. Probabilmente ci vorrà qualche giorno. Se tra quelle di cui mi ha parlato di sono aree ad accesso ristretto, avremo bisogno dell'autorizzazione a introdurci liberamente.”

“Ma certo. Sono a vostra disposizione,” dichiara Elias, collaborativo. “Siete libere di visitare il castello senza limitazioni nell'orario diurno dalle ore dieci antimeridiane fino alle cinque postmeridiante; a patto di sborsare il costo del biglietto.” Ti pareva. Eccola la sua vena scozzese. Guardo il suo sorriso stupendo e scuoto la testa sentendomi una scema.

“Signor Donaldson,” interviene Betsy burbera e spiccia come sempre, “se vuole che risolviamo questo caso avremo bisogno di accedere al castello di notte. Se non sbaglio tutti gli episodi citati sono successi dopo il tramonto. Vero?” La guardo fissare l'uomo con aria che non ammette replica.

“Sì,” risponde il curatore ammettendo la ragione della mia collega. Lo osservo mentre rimane muto per un lungo minuto, durante il quale si tormenta le mani, pensieroso.

“Se c'è qualcosa che la preoccupa, possiamo darle la nostra garanzia che non arrecheremo alcun danno alla proprietà.”

“Ne siete sicure?” replica lui alzando lo sguardo intenso nel mio, facendomi rimanere senza parole.


 

Cosa avrà voluto dire? È dall'ora di pranzo che questa domanda mi assilla il cervello. Persino ora mentre cammino con Betsy verso l'entrata del castello di Glamis, qualcosa mi tormenta, un presentimento.

“Donaldson non ci ha detto tutta la verità.” Alzo la testa e fisso la collega.

“Hai dato voce ai miei pensieri,” dico pagando il biglietto d'ingresso all'impiegata, che ringrazio e saluto prima di proseguire. Fianco a fianco, Betsy e io ci dirigiamo, cartina alla mano, verso il luogo della prima apparizione.

“Sono due ore che hai una faccia,” ribatte lei infilandosi il portafoglio nella tasca posteriore dei jeans. La guardo incuriosita.

“Davvero?” mormoro tra me e me. Percorriamo il lungo e spazioso corridoio per raggiungere l'accesso al parco. Devo ammettere che l'interno è impressionante. L'arredamento in stile medievale anglosassone è perfettamente restaurato e tenuto più pulito dell'obiettivo della mia Olympus, che sobbalza lievemente contro i miei seni a ogni passo. Spettacolare... Infiliamo una porta e attraverso una stanza simile a uno studio con tanto di caminetto usciamo sul sentiero. Il mio sguardo spazia da ovest a est mentre un senso di immenso mi investe. Quel posto è sconfinato. Alla mia ammirazione si aggiunge subito un certo scetticismo quando percorro alcuni passi sulla strada bianca. “Aspetta,” dico a Betsy, “devo vedere quale strada prendere.”

“Ho già studiato il percorso a memoria,” ribatte lei senza fermarsi. Allora le trotterello dietro e la affianco. La guardo incredula. “Dobbiamo arrivare qua,” aggiunge indicando sulla mappa un giardino circondato da mura, sito all'estremo angolo nord-est del possedimento. Sbarro gli occhi.

“Fino a là?!” protesto a gran voce. “Poteva almeno darci un paio di biciclette! Odio camminare!” sbuffo e piego il depliant per riporlo nella tasca dietro.

“Pensa a quanto seccava ai padroni del castello,” dice lei con un sorriso sghembo pieno di ironia e velato di sarcasmo.

“Loro avevano servitori e carrozze,” borbotto in risposta, ma mi metto di gran lena per stare al passo con la collega, evidentemente molto più in forma di me.

Love is a burnin' thing… Ci vollero circa trenta minuti per raggiungere il giardino. And it makes a fiery ring... Quando arrivammo al cancello mi riparai col fiatone all'ombra del muro di cinta e mi ci appoggiai. Bound by wild desire... Betsy si fermò poco prima di entrare, guardandomi con la fronte corrugata. I fell into a ring of fire...

“Sembra che tu stia per morire...” Alza un sopracciglio.

“Sto... bene,” sbuffo io liquidando la faccenda con un gesto della mano. “Devo solo... riprendere fiato...” Lei mi squadra con aria poco convinta.

“Dovresti fare più esercizio fisico. Per abituarti. Non sai mai in che situazioni ti puoi trovare...” Il suo sottinteso mi giunge bello limpido. Le lancio un'occhiata dietro la quale mi interrogo su quali situazioni abbia mai affrontato la mia collega. Secondo me ha avuto una vita movimentata, ma non ho il coraggio di chiederle... una cosa alla volta. Mi chino con le mani sulle cosce nello sforzo estremo di respirare, quando finalmente i miei polmoni riprendono regime.

“Oh sì,” dico raddrizzandomi contro la parete di pietra, “ora va molto meglio.” Dalla borsa estraggo la mia borraccia e bevo avidamente l'acqua che contiene. “Ancora meglio,” borbotto subito dopo, rimettendola via. No no no no no, it ain't me, babe... it ain't me you're looking more, babe... Mi allontano con un colpo di anche e raggiungo Betsy. “Andiamo?” le sorrido beatamente, sudata ma ancora viva, e la precedo all'interno.

Oltrepassato il grande portone in ferro battuto recante gli stemmi della famiglia reale scozzese, ci troviamo davanti a un lunghissimo sentiero, disteso davanti a noi per svariate centinaia di metri. “Non ci posso credere,” gemo scoraggiata alla prospettiva di dover camminare ancora. Volgo lo sguardo a sinistra, dove sta un trattore moderno spento. Il sentiero è costeggiato da piazzole d'erba e ampi prati. “Sinceramente, non saprei dove cercare qui,” confesso alla mia collega.

“Chiediamo a lei,” fa Betsy indicando avanti con un cenno della testa. Seguo il suo sguardo e incontro la figura di una donna che porta una carriola. Le mie labbra scattano in un bel sorriso e prendo il comando, rinvigorita. Mi avvicino a grandi passi e mi presento.

“Salve! Mi chiamo Helen, ho bisogno di farle una domanda!” La bionda, avrà una quarantina d'anni o poco più, mi guarda perplessa, e fa lo stesso con la mia collega. Betsy la saluta con un'alzata di mano.

“Non potreste stare qui,” dice la donna, “insomma non c'è niente da vedere, come potete riscontrare voi stesse,” spiega tendendo una mano verso il paesaggio. Non ha tutti i torti, se non fosse che siamo qui per un altro motivo.

“In realtà, il signor Donaldson ci ha incaricate di fare delle ricerche per via degli ultimi... incidenti.” Gli occhi azzurri della giardiniera si spalancano e posso quasi percepire i brivido che le congela le ossa. “Stia tranquilla,” dico posando delicatamente una mano sulla sua spalla, “siamo qui per risolvere la situazione.” Lei annuisce con gli occhi, lucidi, leggermente sollevata ma molto scossa.

“Le va di raccontarci se l'è successo qualcosa?” domanda brusca la mia collega. Le lancio un'occhiata di rimprovero alla quale lei non presta attenzione. Scuoto la testa sospirando.

“A me per fortuna non è successo nulla, ma sono impaurita. Non rimango più al castello dopo il tramonto. Anzi, me ne vado almeno quattro ore prima.” Strofina il viso con un braccio e solleva gli occhi supplici su di noi. “Vi prego, risolvete la questione. Salvate i nostri posti di lavoro!”

La guardiamo andare via ciondolando con la carriola appresso dopo esserci profuse in rassicurazioni. Le abbiamo promesso di fare il possibile per riportare la tranquillità, ma mentre ci guardiamo in silenzio, sappiamo entrambe di non essere affatto sicure di riuscirci.

Percorriamo il sentiero fino alla fine per permettermi di scattare diverse fotografie da svariate angolazioni, quindi lasciamo il posto e ci dirigiamo verso uno degli altri luoghi coinvolti. 

La Blue Room è un salottino rettangolare ingombro di un tavolino, un paio di divani di cui uno davanti al caminetto al centro della parete est. Le decorazioni e la carta da parati sono impressionanti. Chissà quanto lavoro ci vuole per mantenere quel posto in condizioni di tale splendore.

Mentre metto piede al suo interno alzo lo sguardo verso il soffitto altissimo, contemplandolo a bocca aperta. Prendo la mira con la macchina fotografica senza nemmeno avvicinarla al viso e premo il pulsante. Gli scatti vengono accompagnati dal suono elettronico preimpostato. “Ci credi? Qui ci viveva della gente,” dico alla mia collega, a qualche passo di distanza alle mie spalle. Riesco a sentire il fruscio dei suoi abiti dietro a me.

“Probabilmente c'era un sacco di polvere da pulire,” ribatte Betsy e quando mi giro scorgo un cilindro bianco spuntarle tra le labbra. Le rivolgo uno sguardo bieco.

“Betsy, qui non si fuma.” La vedo fare la faccia di chi se n'è dimenticato e girare i tacchi per uscire dalla stanza. Scuoto la testa con un sospiro, meravigliandomi della sua sbadataggine. Finito di riprendere il luogo da diverse angolazioni, mi reco nel corridoio dell'ultimo avvistamento, quello che porta alla stanza della Regina. Fremo dalla curiosità di dare una sbirciatina all'interno. Ho sempre sognato di vedere com'è fatta la camera di un reale; al pari tutte le bambine, immagino. Quando ho capito che non sarei diventata una principessa mi sono rimboccata le maniche e ho iniziato a cercare fantasie più realistiche. Una di queste era diventare la prima ballerina del La Scala.

Mi avvicino lentamente e con passo felpato verso l'ingresso della stanza. Mi guardo attorno per assicurarmi di essere sola quindi schiudo l'uscio. Infilo la testa nello spiraglio solo per rimanere basita quando scorgo il letto posto al centro della parete in fondo. “Mio Dio,” bisbiglio. È un antico letto a baldacchino in puro legno massiccio. Anche le coperte, i cuscini e le lenzuola sembrano originali. Probabilmente è così.

“I reali sapevano bene come trattarsi.” La voce maschile che riecheggia alle mie spalle mi fa trasalire, quasi fossi stata colta in flagrante nel commettere una trasgressione. Mi volto richiudendomi velocemente la porta alle spalle come se servisse a nascondere cosa stavo facendo. Donaldson mi fissa divertito, nascondendo un sorrisetto.

“Io stavo...” Ovviamente non ho una scusa pronta, non sono brava in queste cose, ma Elias mi viene subito in aiuto.

“Ammirando la stanza della Regina?” dice passandomi accanto con andatura compassata, le mani giunte dietro la schiena. Si avvicina alla porta e la spalanca con la spinta delle dita della mano destra. “E cosa ne pensa, signorina Vincent?” Ecco, mi sento un'imbecille. Avvampo e mi introduco nella stanza con imbarazzo malcelato.

“Beh...” Mi guardo intorno e fingo di cercare le parole adatte a descrivere quell'opera d'arte. Purtroppo non ho il dono della poesia. “È interessante...” Mi muovo attraverso la stanza, scattando istantanee di qualche particolare a mio avviso interessante. Poi decido di ripiegare su una questione meno tecnica. Volteggio su me stessa fino a trovarmi rivolta verso di lui. “Da quanto sono entrata qui mi domando quanto lavoro ci vuole per tenere un posto del genere in perfette condizioni.” Dalla sua espressione mi pare di aver fatto centro. Con un misto di soddisfazione mascherata da modestia, il curatore inizia a girare per la stanza elogiandone le caratteristiche. Non ne capisco nulla di stili d'architettura e simili, ma annuisco fingendo di stare seguendo il suo discorso mentre invece sto solo cercando una scappatoia. Non appena lui finisce il comizio con un sorriso smagliante, lo restituisco quindi indico il corridoio alle mie spalle.

“È qui che è stato avvistato il fantasma del bambino?” mi informo, malgrado sappia benissimo sia quello il posto giusto.

“Certo.” Lui si avvia premurosamente fuori dalla camera, precedendomi. Lo seguo.

“Mi sarebbe molto utile se potesse descrivere la scena di cui le ha parlato il guardiano,” aggiungo senza mollare un attimo la mia Olympus. Mi sento nervosa e mi domando il perché.

“Il signor MacDonald ha trovato l'apparizione qui,” spiega fermandosi davanti allo stipite destro della porta. “Il bambino spettrale sedeva con la schiena appoggiata alla parete. Quindi ha alzato la testa e... com'è che ha detto? Ah sì, lo ha guardato con due orbite vuote come il suo bicchiere alle sette di mattina.” Corrugo la fronte e faccio una foto del punto caldo.

“Allora il guardiano è scappato urlando, immagino,” mormoro pensierosa.

“Sì, ma dice di aver visto le impronte del bambino seguirlo lungo il percorso.” Lo guardo confusa.

“Le impronte lo inseguivano?”

“Sì,” annuisce, “ha detto che il bambino era scomparso, ma ne poteva vedere le impronte comparire e scomparire dietro di sé.” Mi gratto la testa. Questo sì è curioso... e per una persona che ha visto il suo primo fantasma soltanto un mese prima è tutto dire. Mi schiarisco la gola e faccio finta di ragionare tra me e me, quando Betsy giunge marciando dal fondo del corridoio.

“Betsy!” le sorrido e la raggiungo, vedendola aggrottare la fronte al mio entusiasmo. La afferro per un braccio, bloccandomi sul posto. Lei mi imita.

“Che cosa...?” Le faccio segno di tacere.

“Portami via di qui prima che muoia di imbarazzo. Mi fa domande a cui non posso rispondere,” le sussurro. La mia collega alza gli occhi al cielo e si vede si sta trattenendo dal ridere. “Lo trovi divertente?”

“Tu messa in difficoltà dal curatore di un castello scozzese? Sì.”

“La tua sincerità è confortante. Dai, ora troviamo una scusa e andiamocene. Devo fare qualche ricerca prima di tornare.” Mi volgo verso Donaldson e sfodero uno dei miei sorrisi. Lo vedo farsi interessato e compiere alcuni grandi passi per avvicinarsi a noi. “Per oggi abbiamo finito. Devo tornare in albergo a scaricare le foto sul mio computer e spedirle in redazione. Inoltre ho avuto lo spunto per un paio di idee e ho bisogno di spulciare tra i miei appunti. Per quanto riguarda la visita notturna...” Ecco che Elias si dimostra nuovamente in difficoltà. Tentenna, irrigidendosi per qualche momento in una postura militare.

“Sì... per quanto riguarda quella questione...” Si gratta il lato posteriore del collo, aggrotta la fronte, poi prosegue. “Il mio superiore non sa nulla di tutto questo e preferirei che le cose rimanessero così. Posso darvi il permesso di stare qui una notte sola.” Strinsi un pugno di nascosto in segno di vittoria. “Una. Notte. Sola,” ribadisce lui e io annuisco con decisione. “Anche se non vedete alcun fantasma o non si manifestano presenze durante quell'arco di tempo, non posso concedervene altro.”

“Sissignore, abbiamo capito,” ribatte Betsy rivolgendogli un saluto da gendarme.

Tornate in albergo, scarico le foto sul portatile e le invio in redazione prima di andare a cena. Dopo il pasto torno in camera mia e mi piazzo sul letto con l'apparecchio in grembo. Faccio partire un film in streaming e comincio a navigare.

Cosa può indurre gli spiriti dei morti che finora dormivano in pace a risvegliarsi? Scorro i risultati di una ricerca che non mi sta portando a niente, ma non vedo ciò che è scritto sullo schermo. Sono immersa nei miei pensieri alla ricerca della risposta alla mia domanda. Da cosa sono attirati gli spettri? Avanzando nella mia ricerca scopro diversi modi in cui gli spiriti dei defunti possono essere attratti nella nostra dimensione. Sedute spiritiche e altri metodi bizzarri vengono proposti dalle fonti più svariate. Sebbene dubiti che qualcuno si sia messo a evocare fantasmi durante la notte in un castello scozzese, prendo appunto mentale di domandarlo a Donaldson.

Dopo il tramonto, ci incontriamo al castello con il Curatore, il quale ci informa di essersi già premurato nel mandare a casa il personale. Immagino non possa permettere che succeda un incidente a causa della nostra attività di stanotte. Insieme ci rechiamo nell'edificio e, muniti ognuno di un walkie talkie, ci suddividiamo la zona. Dato che non ho una gran voglia di camminare, mi sono prenotata per la stanza della Regina, dove farò la mia posta. Elias si dirige al Giardino Murato, mentre Betsy prende la Blue Room.

“In posizione?” Lo scatto del pulsante causa una scarica statica che disturba il silenzio attorno a me.

“Ci sono,” risponde prontamente la voce della mia collega.

“Ci sono anch'io,” giunge infine la conferma del curatore.

“Bene. Ricordate. Tenete gli occhi aperti e qualunque cosa succeda, non muovetevi. Limitatevi a fare rapporto.”


 

“Sissignora,” è la risposta lievemente canzonatoria di Elias, in contrasto con il “Ricevuto” più secco di Betsy.

Rimaniamo in silenzio radio per un'ora senza che succeda alcunché. Ansiosa, afferro il mio ricevitore.

“Tutto bene?” Una breve pausa di alcuni secondi e odo la voce profonda e roca di Donaldson.

“Sì... è tutto dannatamente calmo.”

Scarica statica.

“Betsy?”

Nulla...

“Betsy?!” Praticamente urlo nel microfono, stringendo l'apparecchio convulsamente tra le mani.

“Che?!” sbotta lei dall'altra parte della linea. “Mi sono addormentata.”

Lascio ricadere la testa a penzolar tra le gambe ripiegate. Seduta con le spalle al muro, mi trovo nel punto preciso dell'ultima apparizione, la torcia spenta appoggiata accanto a me sul pavimento.

“Mi si sta gelando il sedere,” commento pigiando il bottone. Rialzo la testa e mi guardo attorno. Che idea bislacca quella di fare la posta ai fantasmi? “Direi che qui non si muove niente...”


 

Il walkie talkie mi cade di mano. Mi ritrovo a fissare lo sguardo assente della mia collega. Me la sono ritrovata davanti così, senza alcun avviso.

“Betsy...” Mi alzo spazzolando i pantaloni all'altezza dei glutei. “Che ci fai qui? Dovresti essere alla tua postazione? Va tutto bene?” La voce mi muore in gola.


 

È un sorriso quello? Un angolo della sua bocca si piega all'insù. Faccio appena in tempo a vedere le sue spalle inclinarsi che la sua mano è già stretta attorno al mio collo.

'Dio! Non riesco a respirare!' penso strabuzzando gli occhi e dibattendo le gambe nel tentativo di mollarle un calcio nel ventre. Tuttavia la lunghezza del suo braccio e la mancanza d'ossigeno incipiente tolgono vigore al mio sforzo.

'Elias! Devo chiamarlo!' Giro solo gli occhi verso il mio ricevitore caduto a terra, ma mi è impossibile raggiungerlo.


 

La saliva mi si sta accumulando in bocca, il mondo si sta sfocando sempre più rapidamente e il mio corpo ciondola a una decina di centimetri sopra il pavimento. Davvero grandioso. Mi aggrappo con le mani al braccio di Betsy (ma siamo sicuri sia lei?), cercando di spingermi verso l'alto onde liberarmi dal cappio.

Un velo nero cala sulla mia visuale nel momento in cui mi pare di udire uno scoppio...


 

“Avanti!”

Papà?

“Forza, devi lottare!”

Dalton?

Quella voce familiare riecheggia nel limbo buio in cui mi trovo.

Non riesco a riconoscerla, ricordare di chi è...

La figura di un bambino spettrale, vestito di stracci e dal viso tumefatto, appare di fronte a me. Sembra emanare una sorta di aura lattea, luminescente e traslucida. Alza lentamente il braccio sinistro e indica alla mia destra.

“Avanti!”

Un dolore atroce al petto mi risveglia costringendomi ad alzarmi a sedere. Sono troppo stordita per prestare attenzione ai ringraziamenti di Elias al cielo e ai santi. Per non parlare del male martellante alle costole.

“Dica è per caso impazzito?” biascico mentre cerco di sdraiarmi su un fianco. Sento un gran bisogno di dormire. Da quella posizione riesco a vedere il corridoio che porta alla stanza della sovrana, quindi concludo di trovarmi nella stanza accanto.

“Non si sdrai,” ribatte lui perentorio e mi afferra per il polso destro. Mi arrabatto per rimettermi in piedi con il suo aiuto e rimango addossata al suo ampio torace che emana un piacevole calore.

“Mi scuso per le maniere, ma credo volesse farsi una capatina all'altro mondo prima del tempo, signorina.” Lo sguardo sbattendo le palpebre. Man mano che la mia mente confusa realizza il significato di ciò che mi sta dicendo, sento calare l'ombra sul mio volto.

“Hey hey, rimanga sveglia,” insiste lui, più dolcemente, reggendomi i gomiti.

“No... non sto svenendo... mi sono appena resa conto...” Abbasso la testa perdendo il coraggio di finire la frase. Giro il volto da un lato e appoggio l'orecchio contro il pettorale dell'uomo. Il battito del suo cuore è potente e forse un po' accelerato, ma ha un effetto confortante.


 

“Betsy!” sbotto, irrigidendomi all'improvviso. Lui stringe le braccia attorno alla mia vita e ruota su se stesso di qualche grado. Scorgo la mia collega a qualche metro da noi, seduta a terra con una borsa del ghiaccio sull'occhio. Sgrano gli occhi e rivolgo a Elias un'occhiata perplessa.

“È una tosta. Mi ci è voluto un pugno per stenderla.” Aggrotto la fronte e carico una valanga di insulti da rivolgere a quel damerino scozzese (lo so sembra assurdo, ma è così che lo vedo) quando la voce della collega mi precede.

“Se non l'avesse fatto di avrei strozzato. Dì grazie e non fare storie.” La guardo con sospetto, ma poi, squadrandola per bene, decido che ha detto la verità. Perché mai dovrebbe mentire? Io stessa ho assistito alla sua...

“A proposito, cos'è successo?” Guardo la mia collega e alzo un sopracciglio. Una spiegazione almeno me la deve.

“Non lo so,” ribatte guardandomi dritto negli occhi, molto seria. “Ricordo che un attimo prima stavi urlando nell'apparecchio, quello dopo mi svegliavo con un pugno nell'occhio.”

Possessione. La parola mi precipita nel cervello senza lasciar spazio a dubbi. Eppure chi sono io per giudicare? Non ho esperienza. Betsy potrebbe soffrire di qualche malattia mentale di cui non sono a conoscenza. È stato stupido mettermi in viaggio con una persona di cui non so nulla. Ora me ne rendo conto. Eppure mi sono fidata...

“Non sono schizofrenica, se è questo che stai pensando.” Lo sguardo insistente della collega mi riporta alla realtà.

“Cosa? No, io... non stavo pensando a quello,” borbotto impacciata, ma abbasso lo sguardo con aria colpevole.

“Beh, in ogni caso è bene che tu lo sappia.”

La sua frase pone fine alla nostra conversazione e sento Elias allentare la presa sul mio corpo. Sto riprendendo sensibilità alle gambe e mi farebbe piacere riprendere a usarle. Però la vicinanza con quell'uomo mi dava un senso di beatitudine in questa serata assurda.

Alzo lo sguardo per incontrare i suoi occhi azzurri e vi trovo un'espressione di tenerezza. Rimango a bocca aperta, soprattutto perché, se è rivolta a me, non ne comprendo il motivo. Appaio così fragile seppur coraggiosa?

Mi allontano malvolentieri, per prendere distanza da questa situazione. È strano, non sono stata con un uomo da quando sono tornata dal Kentucky. Elias è il primo a risvegliarmi qualcosa dentro. Solo che non so che cosa sia.

Abbasso lo sguardo e faccio per guardarmi attorno, quando netta accanto a me, ad alcuni passi di distanza... una luce fluorescente e biancastra si concentra a mezz'aria. Lentamente da essa si allungano filamenti dello stesso colore, traslucidi, che paiono allungarsi verso l'esterno. La massa si espande grazie a questi tentacoli e gradualmente prende forma. Prima diviene una sagoma ovaleggiante senza particolari. Via via che le braccia sottili si ammassano, intrecciandosi e arrotolandosi tra di loro, la sostanza evanescente prende la forma di un viso fanciullesco, il cui resto del corpo è una nube sospesa a pochi centimetri dal suolo.

Apro la bocca per lo stupore. È il bambino del mio sogno. (Era un sogno?)

Altri filamenti si allungano e si intrecciano, ammassandosi per creare un arto simile a un braccio. Quando questo acquista nitidezza, si solleva indicando qualcosa alla mia destra. Volto la testa e noto una porta. Guardo il fantasma e lo vedo fare una sorta di cenno di assenso con il capo. Mi lancio di corsa verso l'uscio, la voce di Elias alle spalle che mi chiama da lontano.

Mi inerpico sulla scalinata ripida, aggrappandomi con forza al corrimano per aiutarmi e raggiungere la cima il più velocemente possibile. Odo i passi di Elias e Betsy riecheggiare più in basso, ma non ci bado. So di dover salire in cima alla torre.

Sbuco all'aperto, il petto ansante per il fiatone. Mi avvicino alla merlatura e scorro gli occhi sul panorama. Il podere visto dall'alto appare molto più esteso di quando lo si visita dall'interno. Non so come potrei mai vederlo tutto in una volta. Il chiaroscuro di colore verde predomina la scena, ma nel buio sto cercando qualcos'altro.

“Dammi il binocolo a visione notturna,” dico spiaccia alla mia collega, appena giunta insieme a Elias.

“Non potete stare qui!” si lamenta il curatore.

Mi giro e afferro l'oggetto dalla mano di Betsy. “Se vuole che risolviamo questo caso mi faccia lavorare,” sbotto a malo modo e appiccico il binocolo alla faccia. Mi sporgo leggermente verso l'esterno, ignorando l'avvertimento dello scozzese.

Il podere sembra circondato da un circolo di pietre bianche, ornato ogni quarto da una statua.

“Questo circolo,” passo il dispositivo a Elias e lo esorto a guardare, “c'è sempre stato?” Attendo che lui sbirci attentamente, quindi lo sento mormorare.

“Sì, c'è sempre stato...” Lo guardo interrogativa poiché si è interrotto improvvisamente. “Ne manca una.” Lo vedo accigliarsi. Faccio un passo all'indietro, incrociando le braccia sotto al seno e lancio un'occhiata alla mia collega.

“Cos'ha questo a che fare con i fantasmi?” Betsy è scettica ed è comprensibile da parte di qualcuno senza le appropriate conoscenze.

“Il cerchio era ed è spesso usato nell'occultismo come simbolo di vincolo o protezione. Ora sto parlando in teoria.” Il curatore si gira e restituisce il binocolo, che Betsy provvede a rimettere in borsa. “Quel cerchio, le cui statue sono state curiosamente poste nei punti cardinali, funge da vincolo per gli spiriti di questo posto. Fa in modo che non possano lasciare il castello.” Passano alcuni istanti di silenzio.

“Non ha senso,” protesta la collega.

“Betsy, è un'ipotesi,” apro le braccia gesticolando per la frustrazione. “Almeno sto elaborando una teoria. Ha senso come qualsiasi altra cosa, stanotte.”

“Non ha tutti i torti.” Incontro i suoi occhi ed Elias mi rivolge uno sguardo carico di significato.


 

Mi inarco con un grido. La sensazione proveniente dal ventre mi attraversa, svettando verso la cima della mia testa. Ho le unghie affondate nei fianchi del suo corpo asciutto e lo sento raggiungere un'altra volta il culmine subito dopo di me. Come siamo finiti a letto?

Gli sorrido languida e faccio scorrere una mano sulla pelle liscia, verso l'alto. Lui è bellissimo. E dopo Dalton per il momento è il solo in grado di darmi certe sensazioni.

“Sapevo che eri una gatta a letto,” lo sento dire e gli mollo una ginocchiata nel fianco. Lui si contorce per il colpo, geme e ridacchia.

“Porta rispetto, rude di uno scozzese,” lo apostrofo. Elias scivola al mio fianco, affondando nel letto morbido e io mi giro su un lato per averlo di fronte. Chiude gli occhi quando le nostre labbra si incontrano... le sue sono così morbide e fresche, nonostante i quaranta gradi che abbiamo raggiunto con l'orgasmo. Potrei cuocere un uovo sulla mia pelle. Le lingue si toccano dapprima delicate, poi vorticano in un nugolo di passione. Ora ricordo come siamo arrivati a questo punto.


 

Dopo la mia performance in cima alla torre del castello di Glamis, Elias ci ha mandato a casa con l'assicurazione che da quel momento in poi poteva cavarsela da solo. Più tardi mi ha rivelato che non voleva mettermi in pericolo più di quanto lo ero già stata. Inoltre, individuata la causa delle apparizioni era inutile restare in quel luogo di notte, ma usare quest'ultima per diversi e più utili piaceri. Il suo sorriso sghembo mi aveva spiazzato, il luccichio malizioso nel suo sguardo limpido conquistato. Sospiro al ricordo. Il giorno seguente ha contattato le autorità, dicendo loro di aver riscontrato la mancanza di una statua storica nella proprietà. La denuncia era stata raccolta e le forze dell'ordine di erano messe alla ricerca praticamente subito, poiché tre giorni dopo l'opera d'arte era stata rimessa al suo posto. In concomitanza con ciò, le apparizioni erano cessate. Durante quei tre giorni di attesa, Elias e io abbiamo perso a frequentarci. O meglio, lui ha preso a farmi una corte dolce e spietata, alla quale non ho avuto altra scelta che soccombere. Avevo un gran bisogno di lavar via dalla mia mente quella storia e non c'era modo migliore di cene al lume di candela e della passione tra le lenzuola.

Tuttavia era arrivato il momento di partire. Le mie valigie erano già pronte in albergo. Betsy dormiva nella sua stanza, in attesa del giorno della partenza.

“Domattina?” Alzo gli occhi. Mi sono persa nei pensieri e lui mi risveglia spostandomi una ciocca di capelli umidi dalla fronte.

“Mh? Ah, sì. Domani.” Un po' mi dispiace. Lo guardo dolcemente. È stato un partner fantastico, ma sappiamo entrambi che non può durare. Le nostre vite stanno l'una a miglia di distanza dall'altra e tra l'altro non siamo innamorati. Siamo due adulti consenzienti che hanno goduto di reciproca compagnia sapendo che sarebbe finita presto.

“Sono stato bene.” Infatti. Sfoggio il mio sorriso sfacciato, guardandolo con malizia.

“Oh, anch'io...” Sorride anche lui e la sua bocca si scontra con la mia, mordendola. “Ma... sei insaziabile,” mormoro tra un bacio e l'altro, senza dare segno di disprezzare quello che sta facendo. Le sue dita si intrecciano a quelle delle mie mani e le sollevano sopra la testa, spingendole contro i cuscini.

“Tra un paio d'ore sono pronto,” ribatte lui continuando a sorridere impudente. Lascio scivolare il labbro inferiore tra i denti e sollevo la testa per afferrare il suo.

“Un paio d'ore sono tutto ciò che ho...”

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Capitolo 3
*** Sweet Home Alabama ***


Metto le chiavi sul tavolino del soggiorno. Sono appena rientrata da Dundee e mi sento appesantita. Mi guardo intorno nella stanza buia. Solo la luce dei lampioni ne rischiara l'interno.

Betsy e io siamo partite dalla Scozia col volo delle sei e mezza. Elias è venuto a salutarci all'aeroporto e ci siamo scambiati il numero di telefono per tenerci in contatto. Inoltre ci siamo promessi di scambiarci mail una volta al mese per aggiornarci su come vanno le cose. Posso dire di aver allacciato un legame di amicizia con lui, malgrado la parentesi sessuale.

Mi dirigo a passi lenti verso la mia stanza da letto e tolgo di dosso la borsa a tracolla. La poso accanto alla porta e mi spoglio sulla via del bagno, lasciando una scia di abiti dietro di me. Entro nel box e faccio scorrere l'acqua, regolando il miscelatore su una temperatura intermedia. Entro e abbasso la testa e le palpebre, appoggiando gli avambracci contro la parete di piastrelle. Rimango immobile, permettendo all'acqua fresca di impegnarmi i capelli castani e la pelle eburnea.

Mi sento stanca. Ho un gran bisogno di riposo e di smaltire il jet lag. In meno di due settimane ho fatto andata e ritorno da un fuso orario all'altro e posso dire di essere altrettanto... fusa. Sospiro profondamente. Grazie alla doccia e alla calma di casa mia mi sto rilassando.

Non oso ancora pensare a ciò ch'è accaduto in quel castello, quando Elias mi ha rianimata. Non sono una sciocca, so bene cosa mi è successo, ma il solo pensiero di ammetterlo mi spaventa a morte. Non posso pensarci.

Abbasso la manopola, interrompendo così il flusso dell'acqua e mi volto per uscire dalla doccia. Afferro un ampio asciugamano, nel quale mi avvolgo prima di lasciare la stanza. Mi reco in soggiorno dove, accanto al mobile della televisione, ho approntato una scrivania completa di sedia. Mi serve per lavorare da casa col portatile. Mi avvicino al trolley nel quale ho riposto l'apparecchio e lo estraggo per poi posarlo sul tavolo. Da cinque giorni non controllo le mail, perciò decido di farlo ora, prima di andare a letto. Lancio il sistema operativo e il programma si avvia automaticamente non appena ha finito di caricare. Il suono della notifica di ricezione di mail mi accoglie leggero, dandomi un senso di conforto, di normalità. È ciò di cui ho bisogno dopo la brutta esperienza. Nonostante mi faccia paura pensarci troppo nel dettaglio, mi trovo a pensarci spesso. Persino Betsy se n'è accorta. Si è dimostrata preoccupata nel lasciarmi andare a casa da sola, ma l'ho convinta con la promessa di chiamarla l'indomani. Sposto lo sguardo sull'area in cui compaiono le mail.

Mittente: Dalton
Come stai?

Sorriso ebete, rimanendo a fissare la striscia con il nome per un po'. Mi sento invasa da una sensazione di felicità pura.
Emozionata, clicco sul nome, aprendo così la schermata di lettura.

È passato un po' di tempo da quando ci siamo visti e non so se ti ricordi di me, ma ho deciso di rischiare.

Rischiare. Per me. Nessuno lo aveva mai fatto finora. Nonostante il rischio comporti solo una figuraccia. Tuttavia il mio petto si riempie di emozione. Le mie dita volano sui tasti bassi e morbidi della tastiera.

Helen
Re: Come stai?

Assolutamente. Mi ricordo di te. Come non potrei? Abbiamo passato dei bei momenti, anche se alcuni sono stati terribili, come in quella cantina. Ma non per questo ti ho dimenticato, anzi. Credo di...

Lui ha corso un rischio per contattarmi e non so nemmeno come ha fatto a trovare la mia mail, ma non mi importa. Ne sono felice. Quindi è il mio turno di rischiare.

Continuo...
...aver lasciato una parte di me lì con te.

Invio il messaggio. Rimanendo in trepidante attesa di una risposta.

https://www.youtube.com/watch?v=IwWUOmk7wO0

Il campanello della notifica mi sveglia. Apro lentamente gli occhi e mi ritrovo a guardare il mobile della TV. Le braccia conserte sopra il mobile, ho la testa adagiata su di esse, voltata verso sinistra. Cerco si sollevarla e il mio collo irrigidito protesta. Emetto un gemito e allontano il busto dalla scrivania, appoggiandomi allo schienale della sedia. Sospiro, e inizio a farmi un massaggio alle spalle contratte. Quando percepisco la tensione alleggerirsi sbadiglio e rivolgo lo sguardo allo schermo, poso la mano sul mouse. Il chiarore che proviene dalle due finestre di fronte a me, mi induce ad alzare lo sguardo, il quale viene accolto da un cielo plumbeo. Corrugo la fronte. Che ora è? Sposto il puntatore sulla barra delle applicazioni e leggo l'ora. 06:30. Caspita. Ho dormito pochissimo. Sarà stata mezzanotte passata, se non l'una, quando sono crollata. A dire il vero non lo so; non ho controllato l'orario. Sbatto le palpebre per disfarmi della foschia da risveglio e assottiglio lo sguardo per scoprire chi mi ha scritto.

Dalton
Re: re: come stai?

Che ne dici di vederci? Magari per bere un caffè.

Sospiro e scuoto la testa. Uomini... sempre a fare i macho, cocciuti nel manifestare i propri sentimenti liberamente, quasi fosse una debolezza. Personalmente lo ritengo un punto di forza. Rischioso, certo, ma quale azzardo viene senza ricompense?


Helen
Re: re: re: Come stai?

Certo, ma credo ti tocchi un lungo viaggio, dato che tu sei in Kentucky e io vivo in Alabama. :)

Invio. Chissà perché non ho dubbi sulla sua immediata risposta.

Dalton
Re: re: re: re: Come stai?

Veramente sono all'Alabama Hotel, in Monticello Dr.

Rimango a bocca aperta con l'espressione da pesce lesso. Lui è in città.
Vengo presa dalla frenesia di raggiungerlo immediatamente, ma mi devo frenare. Se lui vuole andarci con i piedi di piombo farò lo stesso. Non ho intenzione di buttarmi in una relazione in cui lui si trattiene. Quando anche lui avrà mollato i freni, allora mi concederò senza riserve. Eppure in Kentucky non si è fatto grossi problemi. Vai a capirli, i maschi.

Helen
Re: re: re: re: re: Come stai?

Allora è molto più facile. Ti aspetto al North Star, in High St a Columbus, per le undici e mezza.

Sì, perché prima voglio fare un'altra bella doccia e provare a infilarmi a letto ancora per un po'.

Dalton
Re: re: re: re: re: re: Come stai?

Ci sarò.

La sua risposta mi fa ben sperare.


Il bar in cui ho dato appuntamento al cantante country è vicino a casa mia. È un caffè-barra-ristorante americano in cui vado spesso quando voglio gustare qualcosa di diverso dal solito caffè da asporto. Fanno un caffè alla menta fredda che secondo me è la fine del mondo; specialmente in estate. È un posto un po' troppo elegante per i miei gusti tipicamente rustici, ma di solito consumo seduta ai tavolini esterni, quindi non mi importa granché. Rispetto a stamani, il cielo si è rischiarato, lasciando il posto a uno splendido blu limpido. Il sole splende sereno e, nonostante il suo bruciore sulla pelle, all'ombra si sta una favola.

Quando arrivo, abbigliata in un paio di jeans strappati in voga oggi e una t-shirt dei Lynyrd Skynyrd, adocchio brevemente la facciata del locale; l'edificio è in mattoni rossi, l'entrata incorniciata da un rivestimento composto da assi di legno. In alto sopra l'ingresso di vetrate torreggia l'insegna gialla in caratteri che simulano la scrittura.

Sweet home Alabama
Where the skies are so blue
Sweet home Alabama
Lord, I'm coming home to you


Sposto lo sguardo sui tavolini esterni e riconosco la sagoma familiare di Dalton. Fremo e mi lascio andare a un ampio sorriso accattivante. Colmo la distanza che ci separa salendo gli scalini e svoltando a sinistra. Mentre mi avvicino con passo spedito e deciso, vedo il cantante alzarsi dalla sedia per accogliermi. Ha l'andatura rigida ma ciò non mi distoglie dal mio proposito. Mi avvicino velocemente a lui e mi alzo sulle punte dei piedi per avvolgere le braccia attorno al suo collo e ricompensarlo con un bacio torbido. Percepisco la sua sorpresa iniziale, ma subito dopo lo percepisco sciogliersi da ogni remora. Le sue braccia mi avvolgono in un abbraccio caldo e confortante e la sua bocca conquista la mia con passione. Il sollievo mi invade, oltre al fremito di passione suscitato dal suo bacio. Credevo ci fosse qualcosa di sbagliato tra noi. Lieta di essermi sbagliata.

Mi distacco solo nel momento in cui rimango senza fiato e gli rivolgo un sorriso languido. Scommetto di avere gli occhi lucidi e lo sguardo adorante. Non importa. Fa parte del rischio.

“Come stai, bellezza?” Ah, la sua voce... solo ora mi rendo conto di quanto avevo bisogno di sentirla.

“Ora benissimo.” Mi sta ancora tenendo tra le braccia e non mi spiace affatto. Una confessione mi sale alle labbra, ma decido di riservarla per un secondo momento. È troppo presto e non sono sicura dei suoi sentimenti nei miei confronti. Devo sapere se mi ha contattato con la sicurezza di trovare una donna pronta per lui al porto o se sono l'unica a cui si sarebbe rivolto indipendentemente dalle circostanze.

“Per quel caffè...?” sorrido furba. Odio rovinare il momento, ma devo fargli capire in qualche modo che ho bisogno di una dimostrazione chiara.

“Certo.” Le sue braccia lasciano la presa, ma nel suo tono percepisco una vaga delusione; il cuore mi si stringe. Scivolo via dal suo abbraccio e mi accomodo nel posto di fronte a lui. Un cameriere esce dal locale e raccoglie i nostri ordini, per poi tornare all'interno.

“Allora, che ci fai da queste parti?” Accavallo le gambe e passo un braccio dietro lo schienale della mia sedia.

“Sono in tour con la band.” Lo vedo squadrarmi. Fa un cenno col capo rivolto alla mia maglietta. “Ti piace il country rock?”

“Secondo te?” gli ammicco con un sorriso sghembo. Lo vedo unire le mani e appoggiare i gomiti sul tavolo per sporgersi verso di me.

“Secondo me ti piaccio molto anch'io.” Sento un tuffo al cuore. Dalton mi guarda dritto negli occhi e io faccio una fatica tremenda a mantenermi distaccata... ma devo farlo.

“Cosa te lo fa pensare?” ribatto senza perdere la mia espressione sorniona. Per ora è la mia migliore difesa. Lui allunga una mano e inizia a giocare con le dita della mia posata sul tavolo a tamburellare rilassata.

Train roll on, on down the line,
Won't you please take me far away?

Sospiro languidamente e abbasso la testa sulle nostre falangi. Mi azzardo a rispondere la tocco. “Dalton...” Mi fa venire voglia di mettere le carte in tavola. Tuttavia non so se sia la cosa migliore.

“Lo so.” Lui cerca il mio sguardo e lo trova.

Now I feel the wind blow outside my door,
Means I'm, I'm leaving my woman at home.

“Che cosa sai?” mormoro. Voglio metterlo alla prova.

“Credi non sappia cosa pensano le donne di me? Questo è un cantante, gira per gli Stati Uniti, e avrà una donna in ogni porto. Il che era vero e mi stava pure bene; fino a qualche mese fa.” Ricambio il suo sguardo e sprimaccio le labbra tra di loro. Quindi la mia ipotesi non era del tutto errata.

“Cos'è successo?” Mantenendo una faccia neutra, supplicai mentalmente che non pronunciasse quelle parole. Infatti non lo fa, si limita semplicemente a sfoderare quel suo splendido sorriso. Mi trovo a tirare di nuovo il fiato, scuotendo piano la testa. Per fortuna il cameriere ci interrompe portando il mio caffè alla menta fredda e il suo single origin.

Tuesday's gone with the wind.
My baby's gone with the wind again.

Ho una paura tremenda. Se intende dire quello che penso, ovvero di aver rinunciato alle altre per me, non posso permetterlo. Come ha appunto detto lui stesso, è un uomo che gira l'America. Questo ci porterebbe a stare lontani per mesi. Ho il mio lavoro e non ho intenzione di rinunciarci per seguirlo; nemmeno se questo comporterebbe perderlo. Sì, farebbe male, ma lasciare la mia “caccia” agli spiriti sarebbe peggio. Sentirei di aver perso la mia identità. Le nostre dita si intrecciano sul tavolo mentre sorseggiamo le bevande in silenzio, e finalmente so cosa dire.

“Facciamo un passo alla volta. Va bene?” Evito di spostare lo sguardo dalle nostre mani al suo volto; non mi sento abbastanza forte in questo momento.

“Certo, bambolina.” Abbozzo un sorriso e faccio di nuovo un segno di diniego con il capo. Infine alzo lo sguardo.

“Quanto tempo resti?” E se lui fosse sufficientemente empatico, prenderebbe questa mia domanda come una confessione. Tuttavia non lo conosco così bene.

“Una settimana.” I nostri sguardi si immergono gli uni negli altri e mi sento perdere... Mi tornano in mente i momenti trascorsi insieme tra le lenzuola, ma stavolta sarà diverso. Quello era sesso, sola passione. Qui stiamo parlando di qualcosa di più. Non devo cedere così presto. Se vuole fare sul serio, me lo dimostri. “Domani sera sei libera?” Col cuore in gola e il respiro affaticato, deglutisco in modo che lui non se ne accorga. Almeno spero che non lo faccia.

“Certo.” Porto con nonchalance il mio bicchiere alle labbra, abbassando gli occhi con apparente tranquillità. Entro il weekend devo consegnare il pezzo sul castello di Glamis, ma ho tutto il pomeriggio e altri quattro giorni per finirlo. Il materiale è già tutto pronto nella mia testa, devo solo scriverlo. “Hai in mente qualcosa?” I suoi occhi si fanno furbi.

But I'm not home
I'm not lost
Still holding on to what I got
Ain't much left
Though there's so much that's been stolen

“Fatti trovare pronta alle otto,” dice solamente con un sorriso storto e riprende a bere il suo caffè con gusto. “È davvero buono,” dice alzando il bicchiere con un gesto. “Ottima scelta, piccola.” La sua sfacciataggine è incredibile. Gli sorrido, ma mi domando come faccia a sembrare così rilassato, quando dentro di me c'è una tempesta di sabbia. Mi sembra di stare giocando a poker. E non sono sicura di essere così brava a bluffare.

Guess I've lost everything I've had
But I'm not dead, at least not yet
Still alone, still alive, still unbroken
I'm still alone, still alive, I'm still unbroken

“A proposito...” Lo vedo infilare una mano destro la schiena e far comparire un cartoncino rettangolare molto lungo.

“Cos'è?” mi sporgo incuriosita. Lui me lo porge e io lo rigiro tra le mani, dopo aver posato il mio bicchiere quasi vuoto.

“Il biglietto per il nostro concerto. Prima fila.” Abbozzo un sorriso e gli lancio un'occhiata.

“Chi ti dice che ho voglia di venirci?”

“Suvvia, sappiamo entrambi che adori sentirmi cantare.” Si stravacca sulla sedia con gli avambracci posati sui poggioli e io ridacchio. Non posso dargli torto, perché è così. Leggo la data.

“Sabato,” annuisco. “E va bene.” Tengo il biglietto stretto in una mano e finisco il mio caffè, guardando lui con decisione.


 

Nel soggiorno di casa mia, mezz'ora più tardi, ascolto la band a cui è dedicata la mia maglietta per ispirarmi a scrivere l'articolo; una sorta di meditazione atta alla concentrazione. Mi lascio trasportare dall'arpeggio iniziale della chitarra, e presto le corde della mia anima iniziano a vibrare con la musica.

He's the last rebel on the road...

'Cause he's the last rebel
And he's all alone, He's the last rebel
His friends are all gone
He's the last rebel, the last rebel on the road

Non riesco a concentrarmi. Penso solo a Dalton. Anzi, questo brano sembra parlare di lui. Dannazione, non mi ci voleva. Mi volto su un fianco. Ci rimango per una manciata di secondi, poi mi alzo nervosa e vado a sedermi davanti al portatile. Devo buttare giù qualche cosa, anche se mi manca l'ispirazione. Mentre il computer si avvia, penso, lo sguardo che sfiora la tastiera senza vederla. So qual è l'unico modo per levarmelo dalla testa; ma richiede l'unica cosa che non voglio fare. Non ancora. Prendo il cellulare e mando un messaggio al redattore.

Ehi, capo. Ho qualche difficoltà a riprendermi dal jet lag. Mi daresti una proroga per l'articolo sul Glamis?

Vado in camera e... alla vista del talamo mi blocco. La mia fantasia corre avanti a me e mi rimanda l'immagine di Dalton e me stretti tra quelle lenzuola. Sono per caso impazzita?! Emetto un verso di frustrazione e mi volto per lasciarmi cadere scompostamente sul materasso. Dio, quanto vorrei che fosse qui... Mi rannicchio in posizione fetale e lì rimango fino alla notifica di ricezione di un messaggio.

Certo. Ti sembra il caso di farti vedere da un medico?

Rispondo.

No, no. Ho solo bisogno di riposo.

Mezzo minuto dopo...

Okay, allora. Hai fino a domenica prossima. Poi lo voglio sulla mia scrivania.

È stata una fortuna trovare un redattore che raramente fa lo stronzo.

Grazie, capo.

Figurati. Rimettiti presto.

Sarà anche dovuto al fatto che tra noi c'è un rapporto di amicizia. Ciò non toglie che resti il mio superiore e entro domenica prossima devo aver scritto l'articolo. Però, finché non avrò risolto questa cosa con Dalton, sono sicura di non riuscire a scrivere.

Ehi.

Stavolta è Betsy a scrivermi. Guardo lo schermo del cellulare per un momento, sorpresa. Non mi aspettavo un messaggio da lei.

Ciao Betsy. Tutto bene?

Sì. Tu? Il capo mi ha chiesto un articolo in sostituzione del tuo.

Accidenti. Avrebbe potuto chiederlo a qualcun altro. La mia collega ha fatto subito due più due.

Diciamo... Ho qualche grattacapo, rispondo digitando sullo schermo.

Posso aiutarti?

Rimango a riflettere per un po'. Ci conosciamo appena lei e io, eppure dopo l'avventura condivisa in Scozia ho la sensazione di potermi fidare. Il mio senso senso sbaglia di rado, purtroppo o per fortuna, a seconda dei casi.

È un po' complicato parlarne via messaggi...

Vengo da te.

Guardando il suo ultimo messaggio, non posso fare a meno di domandarmi come mai Betsy sia così premurosa con me. Mi pareva di non piacerle.


 

Quello stesso pomeriggio ho preparato degli stuzzichini salati per la mia ospite. Mi sembrava un po' triste accoglierla col nulla, così ho dato fondo alla mia dispensa. Patatine, salatini e un paio di birre in frigo da consumare fredde. Sono sicura apprezzerà. Sto raccogliendo le briciole dal tavolino per gettarle, quando suona il campanello. Getto i bruscoli nel lavabo della cucina e corro ad aprire.

“Ciao Betsy, accomodati pure.” Mi faccio da parte con un sorriso. Mentre lei mi saluta entrando, noto che indossa una semplice t-shirt bianca di due taglie più grande e un paio di jeans stile seconda pelle. Pensavo di essere io quella acqua e sapone. Forse qualcosa in comune ce l'abbiamo, dopotutto. “Ho pensato che uno stuzzichino ti avrebbe fatto piacere.” Le indico dove può poggiare la borsa, ovvero il mobile dietro al divano, quindi la precedo. Siedo sui cuscini e alzo lo sguardo su di lei, incuriosita. Esito ancora un po' prima di dire qualcosa, giocherellando imbarazzata con le mie unghie.

“Lo so.” Lancio uno sguardo sottecchi alla collega, e incontro il suo. Mi guarda dritto negli occhi. Non l'ha mai fatto così apertamente. “So che effetto faccio alla gente.” Annuisco.

“Non c'è problema,” faccio un cenno di noncuranza con una mano. Poi la allungo e catturo un fiocco di patatine tra le dita. Comincio a rosicchiarlo.

“No, invece.” La sua voce ferma torna ad attirare la mia attenzione. I suoi occhi stanno fissando il mio tavolino come se non lo vedessero. “Ti ho trattata come un'estranea e ora mi sento in colpa. Avrei dovuto aiutarti in Scozia, invece mi sono limitata a seguirti.” Sfarfallo le ciglia con aria perplessa.

“Ma che stai dicendo?” La osservo mentre mi accomodo meglio sul sofa, flettendo una gamba per sedermi sul polpaccio. Mi appoggio allo schienale con una spalla e inclino leggermente la testa da una parte. “Tu mi hai dato una mano. Sei stata con me tutto il tempo e...”

“Non ti ho protetto!” Sgrano gli occhi quando sbotta in quel modo.

“Di cosa stai parlando?” Mi sporgo verso di lei e cerco di prenderle una mano, tentando di capire a cosa si riferisca. “Non mi sembrava di aver ingaggiato una guardia del corpo,” ironizzo con un mezzo sorriso. Lei si alza evitando il mio tocco, al che io mi ritiro. Il suo gesto mi ha infastidita; mi sento come se rifiutasse la mia compassione e ciò mi irrita. Perché non mi permette di esprimermi? La scruto senza nascondere il mio stato d'animo.

“Non mi piace che mi si tocchi.” Sta in piedi, accanto al tavolino. Ora è lei a tormentarsi le unghie.

“Non lo farò.” Metto da parte il mio orgoglio e scuoto la testa. “Promesso.” Le mostro indice e medio incrociati. Lei sembra sollevata, le sue spalle non sono più tese. Torna a sedersi. Aspetto che sia di nuovo a suo agio, sebbene Betsy appaia sempre sul chi va là. La vedo esitare, allungare la mano per prendere un salatino e infilarselo in bocca. Lo scrocchiare del cibo nella sua bocca è l'unico rumore nella stanza.

“Quando sono stata posseduta...” gesticola, tenendo lo sguardo sulla ciotola dei salatini. Posso percepire le sue rotelle girare dietro a quegli occhi. “Quando mi sono ripresa, tu eri a terra; e non respiravi.” Mi guarda. Sbatto le palpebre un paio di volte. Dove vuole arrivare? “Ho visto il curatore in ginocchio accanto a te mentre cercava di rianimarti.” Annuisco. Questo spiega il brusco risveglio. Scuoto il capo rassegnata.

“Mi spiace; ancora non capisco dove vuoi arrivare.”

“Helen, lui ti stava rianimando,” esclama dando maggiore enfasi alle parole. “Il cuore ti si era fermato.”

“Ah...” Quel tipo di rianimazione... Distolgo lo sguardo iniziando a sentire uno strano disagio crescermi nel petto. Mi ritrovo a stringere la maglietta a quel altezza. Dimeno piano la chioma. “No... Non potevo essere morta.” La guardo. “Il mio cervello lavorava ancora, ho fatto un sogno!” La mia veemenza stupisce anche me. Mi rilasso e indietreggio con il busto, essendomi allungata verso Betsy. Non riesco a guardarla.

“Non so cosa dire,” comincia lei, ma le afferro saldamente un polso, attirando il suo sguardo nel mio.

“Qualsiasi cosa sia successa, non è colpa tua. Hai capito.” Dalla sua espressione capisco di averla colta di sorpresa. La vedo fare un lieve cenno positivo con il capo.

“A proposito... ch'è successo?” Scuoto la testa.

“Dio solo lo sa...”

“Quando torni a lavoro?” Un tuffo al cuore, che inizia a battere per conto suo. Diamine.

“Devo... sistemare alcune cose...” Rimango sul vago. Non mi sento sufficientemente in confidenza con lei per dirle quello che succede nella mia vita. Invece, quando Betsy se ne va, chiamo Jimmy.

Jimmy, alias James Wingfield, è il mio migliore amico da quando avevamo dieci anni. Siamo cresciuti insieme, abbiamo frequentato le stesse scuole, almeno finché lui non è partito per laurearsi. Abbiamo condiviso di tutto ed è quanto di più vicino a un fratello per me. Devo attendere solo uno squillo prima di udire lo scatto della risposta.

“Ciao Besen.” Sorrido. Era un po' che non sentivo quel nomignolo. Quando avevo quindici anni mi prestavo a fare la babysitter ai bimbi del vicinato. Una sera ero a casa mia con il figlio di un anno dei vicini, i Gromley. Insieme ai miei genitori erano andati a una festa country “per vecchi”, così rimasi a casa a fare la balia. Alle nove il bambino dormiva già e alla televisione davano uno di quei film dell'orrore che adoravo. Così mandai un messaggio a Jimmy e lo invitai a vederlo insieme. I miei lo conoscevano, ma se avessero saputo che eravamo in casa da soli, mi avrebbero fatto passare un supplizio. Il piccolo dormiva tranquillo, raggomitolato sulla poltrona, quando nel sonno disse il mio nome. Come sempre, lo storpiò dicendo “Besen”, invece di “Helen”. Da allora è diventato il mio soprannome. Jimmy mi chiama sempre così.

Gli raccontai delle mie ultime avventure, tralasciando il fatto che ero quasi morta. Per qualche motivo mi sentivo ancora a disagio con quell'idea. Era il caso di abituarmici prima di dirlo a qualcuno, specialmente a Jimmy. Si sarebbe di certo alterato e nel mio stato non ero sicura di poterlo affrontare nel modo giusto. Spiegai la situazione tra me e Dalton. Dopo un lungo silenzio, udii un sospiro dall'altra parte della cornetta.

“È una situazione complicata. Lo ammetto. Ma hai fatto bene a parlarmene, come hai agito nel modo migliore con lui. Non è facile rimanere lucidi in certi momenti, ma tu te la sei cavata alla grande.” Sbuffo.

“A volte penso che se non fosse per il mio senso di sopravvivenza non sarei qui a quest'ora.”

“Non dirlo nemmeno per scherzo.” Il suo tono pungente mi riscuote. Ho detto quella frase con ironia, senza nemmeno pensarci troppo. Forse è questo il problema.

“Tranquillo, non intendevo sul serio. Era una battuta.” Non so come, percepisco il sollievo di Jimmy.

“Sei una tosta. Non è facile romperti.”

“Mi piego, ma non mi spezzo. Giusto?”

“Giusto.” Una pausa colma di silenzio. “Non farti troppe illusioni. Prendi questa storia come viene.” Non poteva darmi consiglio migliore.


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