La Spirale di Pietra

di Nirvana_04
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO - La prima crepa ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO 2 - La distanza tra giustizia e vendetta ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO 3 - Sale e ferro ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO 4 - Schegge di mesolite ***



Capitolo 1
*** PROLOGO - La prima crepa ***


La prima crepa




Svea è la capitale. Sita in un cratere sedimentato di roccia lavica, il suo cuore batte sospeso al centro di una spirale di mesolite. Il candore del minerale si dirama in mezzo al bruno della pietra circostante, formando il motivo perfetto dell’aurea figura e raggiungendo con le sue spire più esterne perfino le rupi che la circondano.
Kira ne è affascinato. I saggi Ban’gh raccontano di come sia la tangibile visione della magia che tiene intrappolati i Demoni sotto gli strati di roccia e che garantisce agli sveani e alle città-stato del regno di Menrva di prosperare nella pace da più di milleduecento anni, ma a lui interessa solo perché gli ricorda la forma dell’ammonite che sua madre tiene legata al collo. Ogni volta, quando deve seguire il padre nel lungo pellegrinaggio da Darsta fino a Svea, per prendere parte al grande serraglio che si tiene annualmente nella capitale, eccitazione e nostalgia si accapigliano in fondo allo stomaco. Il viaggio è lungo e noioso, e Kira non fa che pensare agli alberi di pesco e alla voce di sua madre. Così, quando finalmente arrivano in prossimità del cratere, il bambino si tende oltre il bordo del carro alla ricerca di quel simbolo; e quello, puntualmente, appare cangiante di brillanti riflessi sotto l’irta rupe. Kira ne segue le linee curve nascoste sotto i tralicci della città, mentre, sbatacchiando assieme alle merci, discendono la stradina serpeggiante che degrada verso il cratere.
La città è stata costruita sopra tralicci di ferro e ossidiana, i quali la sostengono alcune braccia sopra la fragile roccia. Trentadue ponti, ognuno costruito verso un punto indicato dalla rosa dei venti, conducono verso altrettanti portoni d’ambra, infissi tra le mura in mattoni e rivestiti da quarzite gialla. La città stessa sembra fatta di pietre preziose: lo scheletro di ferro e ossidiana sostiene grandi e sottili muri dagli ampi serramenti; non ci sono altre porte per le vie, solo tende che si gonfiano e veleggiano sotto la forza di un vento imperituro, violento. Sembra che tutti i profumi del mondo confluiscano lì.
Il mercato si tiene per le vie del centro, in prossimità delle grandi quattro piazze della città, e coinvolge l’intero cuore di Svea. I mercanti giungono da tutta Menrva per fare i loro affari e condurre i loro scambi; gente di ogni ceto sociale urla a gran voce e intavola lunghe trattazioni. Il banco delle leccornie è il suo preferito; come ogni volta, prega suo padre di sistemare la merce vicino a quella dei dolci. È un uomo gentile suo padre, ma ogni volta scuote il capo, seccato. Kira mica vuole comprarli, sa che costano troppo per loro. Eppure il loro profumo inebriante stimola i suoi sensi e interagisce con le voci della folla e i liuti degli artisti di strada, partecipando a quella sinfonia che inebria il corpo e gli riempie l’anima.
Suo padre ferma il carro nel solito posto, tra la verdura dei contadini del sud e i falegnami del nord. Poco oltre Kira sa esserci i mandriani con i loro destrieri nei recinti improvvisati e poi ancora, sulla via a est, gli artigiani di Lirth; tra questi ultimi, proprio a ridosso della piazza dei mercanti di Canbel, c’è la bambina con i capelli rossi. L’anno scorso ha scoperto il suo nome: Demera, derivato da quello della dea Demel. Anche la bellezza che possiede è paragonabile solo a quella divina. Kira ha deciso che quest’anno le parlerà; chissà, forse giocheranno pure assieme.
Suo padre lo tiene con sé ancora un po’: il bambino lo aiuta a sistemare le merci e ad attirare a gran voce i clienti. I primi si accostano al carretto con sguardi critici. Suo padre vende frutta buonissima, succosa e dolce; ma i signori tentennano nel comprarla, a sentir loro non ha un bell’aspetto come quella del carretto accanto. Le trattative vanno per le lunghe, suo padre ne è completamente assorbito, e Kira teme di invecchiare ascoltando i discorsi sul colore che dovrebbero avere le pesche mature e sulla giusta consistenza delle nespole. Vorrebbe tirare un calcio a quel vecchio bacucco che la sta tirando da mezz’ora sul prezzo e del suo punto di rassegnarsi quando suo padre si gira un attimo verso di lui. È determinato suo padre, deciso a vincerla quella battaglia, ma al figlio regala un sorriso veloce e un cenno d’intesa: è libero.
Kira esulta e corre in mezzo alla folla. Getta uno sguardo intorno, sempre incuriosito da tutta quella caotica, festante agitazione, e in un attimo si sente invincibile, ingigantito da quella surreale prospettiva: con uno sguardo, gli sembra di poter abbracciare l’intero mondo. Lancia un’occhiata piena di desiderio ai dolci, ascolta da sopra un basso muretto i suonatori di strada provenienti da Karass. Si fa largo tra le gambe della gente e riesce a rubare qualche immagine fugace di una danzatrice di Vilant e ad assistere alle acrobazie dei saltimbanchi di Ur. Finalmente giunge nella piazza dei mercanti di vesti, gli apprendisti dalle divise rosse che invitano con un sorriso la clientela ad avvicinarsi alle loro mostre. Quella parte del grande mercato è più silenzioso, il brusio più effimero e dolce, quasi come uno strumento accordato: nessun suono acuto, alcuna voce stridente. I passi della gente sono più felpati, la folla più ordinata; persino i bambini ridono con toni sommessi, un po’ falsati dalla compostezza.
Kira rallenta il passo e vaga quasi casualmente tra le stoffe e i veli colorati tesi tra un tendone e l’altro. La gente cammina nella fresca penombra, i sandali calpestano basoli lisci, e persino il vento acquieta la sua grassa voce. Tutto appare delicato e sereno, sospeso. Da lontano, Kira tiene d’occhio la figura di Demera: la bambina sta ridendo mentre improvvisa qualche passo di danza. È una figura sottile, dai gesti leggiadri, accennati in punta di piedi; e ha un bellissimo sorriso, dolce come quello di sua madre.
È pronto. Prende un respiro profondo, si stampa un sorriso in viso e si avvicina con passo sicuro. Ma qualcosa lo fa inciampare e rovinare a terra. Sente la loro risata sghignazzante prima ancora d’incontrare i loro visi. Un gruppetto di tre ragazzini, più grandi e meglio vestiti di lui. Gli stanno dicendo qualcosa, forse commentano i suoi sandali sporchi di terra, o le sue mani sbucciate, a lui non importa. Kira ha occhi solo per la bambina dai capelli rossi e la pelle d’ambra; anche lei lo sta guardando. Sente il viso infiammarsi e un cocente rimescolio allo stomaco dargli la nausea. Si alza di slancio, i bambini si ritraggano sorpresi, ma lui li ignora e corre via. Vaga, controvento e senza una meta, infastidito dal brusio e dalle note discordanti che fischiano nelle sue orecchie.
Quando finalmente torna al bancone della frutta, suo padre sta sospirando, ma appena lo vede subito ricompone sul suo viso un’aria gioviale. «Già di ritorno?» Il suo babbo si piega verso di lui, ma Kira si siede malinconico sopra a una cassa riversa, la testa china.
Non dice un’altra parola, suo padre. Lo lascia lì e si allontana. Nessuno si avvicina alla loro merce, il bambino è libero di crogiolarsi nel ricordo della sua figuraccia. Per un anno aveva aspettato quel momento, ed era riuscito a rovinarlo. No, non lui, quei ragazzini coi vestiti di seta e i bracciali d’ambra. Kira avrebbe dovuto picchiarli, di sicuro sarebbe riuscito a batterli. Era stato un vigliacco, Demera lo avrà visto scappare e avrà pensato che era stato un vigliacco.
Quando suo padre torna, ha in mano un piccolo dolcetto. Lo spezza e dona la parte più grande a lui. È serio in viso quando gli sussurra: «La vita è piena di fatiche, spesso ha il sapore del sale e del ferro. Assapora attentamente i momenti dolci.»
Kira annuisce e morde con rabbia il pezzetto di dolce: sa di malinconia ed è un po’ salato, ma forse quella è colpa delle sue lacrime. Il suo sguardo è attirato di nuovo dal loro bancale; quasi tutta la merce è ancora lì. Guarda il suo babbo e, un po’ dispiaciuto, lo ripaga con un mesto sorriso; il resto del dolce lo mordicchia con parsimonia, assaporandone appieno la croccantezza e l’aroma caramellato. Quasi non si accorge che la bambina dai capelli rossi si è avvicinata al loro banco. Ne ode la voce – è così melodiosa – mentre si rivolge a suo padre. Vuole compra una pesca, una pesca gialla, quella preferita anche da Kira. Demera sorride e nel farlo guarda Kira con un’espressione incoraggiante; poi se ne va.
Mentre, con il tramonto alle spalle, lui e suo padre mettono via la merce, Kira pensa allegramente di aver assaporato il sale della vita, ma più di un momento dolce.
 
 
Kira ha quattordici anni quando scopre il sapore del ferro: sua madre non sta bene. La sua pelle è pallida e traslucida; il viso è incavato e sotto gli occhi due ombre violacee ne abbruttiscono i lineamenti. Suo padre tentenna per alcuni giorni; poi, disperato, decide di affrontare il lungo viaggio verso la capitale.
Non sono gli unici: gente di tutto l’est sta emigrando verso Svea in cerca dell’aiuto dei saggi Ban’gh. Kira vede donne malate sui carri e uomini che si appoggiano a dei bastoni per avanzare. Un nuovo nemico, infine, è giunto a colpire Menrva: la malanera. La sua avanzata è subdola e la sua forza inarrestabile; gli uomini cadono e i più muoiono lungo il pellegrinaggio, agonizzanti.
Kira lancia occhiate alle sue spalle, impaurito per la sorte della madre; ma è quando il padre inizia a mostrare i segni della stessa malattia, che il giovane inizia a temere il peggio. Dapprima, l’uomo rallenta il passo, il suo respiro si fa affannoso e chiede più volte di sostare un po’ ai margini della grande arteria principale, l’unica strada diretta che taglia i monti e giunge diritta fino al cuore del regno. Kira gli trova un bastone con cui sorreggersi e si prende la responsabilità di guidare il carretto e la mula che lo traina. Ma poi l’uomo non riesce a stargli dietro e incespica più volte; allora il ragazzo lo aiuta a distendersi accanto alla moglie e guida la mula al passo, tirando le briglie e macinando a piedi le leghe che rimangono dinanzi a loro.
Una fiumana di volti pallidi e stanchi scorre tra le rupi e si riversa nel cratere. Sembra che l’est si sia svuotato della sua gente, tanto che Svea viene sommersa come un formicaio straboccante di formiche. La processione di malati intasa i ponti a est e innervosisce gli animi; e quando le guardie sbarrano i portoni d’ambra, il panico attanaglia le viscere degli uomini e rompe la patina ovattata che li ha avvolti fino a quel momento. Kira si ritrova a tenere la mula dalla capezza e a condurla indietro: Svea sta cercando di isolarsi ed evitare il contagio.
Stringe i dente, ma non vuole arrendersi, non ora che a un passo dalla sua meta. Comincia a trafficare con i finimenti che legano la mula al carro di legno. Poi aiuta il padre a montare sull’animale, e con uno sforzo fa lo stesso con la madre. Li guida verso i ponti dell’ovest. Lì, la vigilanza è ancora al minimo e, nascondendo i genitori sotto i grandi mantelli, ottiene l’ingresso in città. Il padre riesce ancora a tenere la schiena dritta e, avvolgendo la moglie con le braccia, dissimula la loro spossatezza.
Kira lancia uno sguardo indietro quando sente le urla: altri hanno cercato di fare lo stesso, ma sono stati bloccati dai soldati. Un reparto armato sta correndo lungo la via per dare manforte ai commilitoni. Kira si avvolge la stoffa di lino attorno alla testa e prosegue dritto, dando mostra di sicurezza, mentre dentro, invece, brividi di terrore lo assaltano a più ondate. Le mani gli sudano e la paura cresce, ma in mente ha solo un viso, ed è quello che insegue tra le vie e i quartieri della città. Finalmente giunge al tempio della dea e i suoi occhi scartabellano i gradini, in cerca di Demera: la fanciulla è stata accettata tra gli adepti e da un anno a quella parte vive nel tempio. Ma ora non è lì; probabilmente è chiusa nella sua cella o forse si trova nei giardini dell’edificio o nella mensa con le consorelle. Dopo alcuni momenti di esitazione in cui teme di attirare l’attenzione, decide di legare la mula a una vecchia staccionata e risalire la gradinata. Dentro, le sacerdotesse della dea Demel si aggirano confabulando fittamente tra loro, ma nessuno fortunatamente lo ferma. Nella grande navata del tempio, molti uomini e donne della città si sono riuniti per cercare conforto e chiudersi nel loro silenzio di preghiera. Kira non ha mai avuto modo di affidarsi alla dea; forse perché nell’est il loro dio Kam ha legato la loro fede ai campi e alla bruta forza ed è attraverso il lavoro che lo pregano e lo venerano.
Demera è alla fonte, nei giardini interni. Seduta ai piedi della piccola statua della dea posta al centro della vasca e traboccante spruzzi d’acqua, la sua amica d’infanzia lascia che il vento le scompigli capelli rossi e che gli ultimi raggi del sole ne infiammino i riflessi. In quella visione, sembra proprio il ritratto di una creatura celeste.
«Demera!» Pronuncia il suo nome come un’invocazione.
La giovane sembra attenderlo. Non appena lo individua, si alza e gli corre incontro, gettandosi tra le sue braccia. «Kira, ho temuto per te. Come hai fatto?»
«Ho usato i ponti occidentali» spiega, e nonostante la fretta si ferma ad ammirare l’azzurro limpido dei suoi occhi. «Ho bisogno del tuo aiuto. La mia famiglia…»
Una ruga di dispiacere compare sulla perfetta fronte di lei. «I Ban’gh hanno già invocato l’aiuto della dea.»
«I miei genitori hanno bisogno di una cura» sbotta incollerito. Paura e stanchezza lo fanno delirare, mentre vorrebbe solo lasciarsi andare a un pianto consolatorio.
Demera apre la bocca senza emettere alcun suono. Lo stringe forte a sé e gli asciuga le lacrime con la tunica. «Le sacerdotesse e i Ban’gh hanno parlato. Non c’è cura mortale che possano usare sulla malanera, poiché essa è la maledizione scagliata dai Demoni che dalle propaggini della terra cercano di ribellarsi.»
«Scuse, solo dannate scuse!» inveisce. «Quali Demoni? Non ci sono Demoni! Né Dei! Solo uomini!» La scosta da sé e cammina su e giù per un pezzo di sentiero pietroso. Sente la calura del sole a picco ingannare i suoi occhi, vede i contorni della fontana sbiadire. «La malanera è una malattia degli uomini. Può essere curata dagli uomini. Deve esserci un modo!» La sua voce attira gli sguardi di alcune adepte, che corrono via impaurite.
«Se c’è» gli dice dopo alcuni secondi di silenzio, «io non lo conosco.» E poi sussurra a denti stretti, spaventata dalle sue stesse parole: «E nemmeno i saggi Ban’gh.» È spaventata, glielo legge nella voce, da come respira, da come lo guarda. Demera è nata e cresciuta in una di quelle città in cui il culto della dea Demel è radicato. Lei ha sempre pregato e avuto fede. Chissà quanta forza deve esserci in lei, adesso che i saggi Ban’gh hanno mostrato la loro fallace conoscenza.
Kira vorrebbe calmarsi, ma a lui pare di rassegnarsi. «Si può guarire col tempo? C’è una… speranza?» chiede, al limite del pianto.
«Nessuno è guarito finora.» Abbassa lo sguardo, non riuscendo più a sostenere il suo, e altre lacrime le rigano il viso.
A un tratto la stanchezza di quei giorni lo ghermisce, e Kira crolla a terra. Sente le mani di Demera, la sua amica d’infanzia, stringergli un braccio, tastargli il petto, ma non riesce più a vedere il suo volto, il suo bellissimo volto. Quel volto che ha inseguito lungo la strada, per anni, nei momenti duri, faticosi, disperati, adesso quel volto è ancora una volta a poche spanne dal suo, eppure non riesce ad afferrarlo. Vorrebbe stringerlo, toccarlo, sfiorarlo, ma non ce la fa. La vista è appannata, il fiato si è fatto raschiante, incerto. Per un po’ esiste soltanto il calore di Demera, ma neanche quello è in grado di dargli sollievo dai brividi che lo attraversano.
A riscuoterlo sono le urla che giungono dal tempio. Si piega su un fianco, incerto.
«Aspetta» cerca di fermarlo.
«Devo andare dai miei genitori. Restare qui non serve.» Le sue parole sono incolori, la sua voce riecheggia come proveniente da lontano.
«Ti prego, Kira» lo supplica, afferrandolo per la tunica. Il suo strattone è violento e per un attimo lo fa barcollare. «Resta con me. Non uscire. Io… resta qui ancora un po’. Il tempo che si calmano.»
Calmarsi? Chi si deve calmare?
Quelle voci confuse nella sua testa iniziano ad acquisire un senso.
I suoi genitori!
Kira si libera dalla presa e corre fuori, ma ormai è troppo tardi. La malanera è un male insidioso che ha infettato gli abitanti di Svea ancor prima del suo arrivo in città. La paura del contagio ha incattivito le genti e fatto dilagare la follia per le strade. Kira vede il sangue sulle gradinate, quello della mula sgozzata; suo padre è agonizzante sotto il suo peso, l’elsa di una lama che sbuca dal petto, mentre sua madre è colpita a bastonate dagli uomini avvolti nell’armatura, incitati dalla folla.
Kira urla, prova ad avvicinarsi, ma la gente ha serrato i ranghi e non gli presta attenzione, la psicosi degenera nei loro sguardi spiritati. Qualcuno si apre un varco verso il centro della massa; regge una torcia accesa.
«Kira!» urla Demera nelle sue orecchie, raggiungendolo.
Ma lui non si gira, i suoi occhi guardano fissi l’uomo dare fuoco alla madre e poi al padre, entrambi ancora vivi. La madre, pensa confuso, non parlava da giorni ormai; eppure adesso sta urlando. Urla, come il padre bloccato sotto la carcassa del quadrupede; ma lei è ancora in piedi, e il fuoco e il dolore atroce la spingono a dimenarsi e a correre fin quando anche l’ultima scintilla di forza non la consuma; allora resta a terra, preda di convulsioni e gemiti.
Geme, in fiamme. E il calore di quelle fiamme brucia anche Kira, sfregiandone irreparabilmente il cuore.
 
 
Stringe in mano l’ammonite, la sua forma si riflette tra le trame della mesolite sotto i suoi piedi. Kira è ai margini del cratere, sotto la rupe, e il suo sguardo cerca di imprimersi a fondo la visione di Svea.
È malato, lo sente. La malanera ha colpito anche lui, lo ha capito dallo sguardo di Demera. È stata lei a recuperare il guscio del mollusco dal corpo della madre, e sempre lei è riuscita a nasconderlo una notte in una cantina, e ancora lei a farlo uscire indenne dalla città.
«Resta con me» gli ha detto, stringendogli il viso.
«Ti contagerei.»
«Fammi venire con te» lo ha supplicato, tenendolo per il mantello.
«Il tuo posto è qui, è sempre stato questo. Io… questo lo capisco, ha senso. Tu sei bella come lei.» Solo la febbre è riuscito a farglielo confessare. Ma quando lei gli si è aggrappata, lui l’ha allontanata. «Tornerò. Io… ti voglio rivedere.»
«Troverai una cura» gli ha detto, e i suoi occhi hanno pianto, mostrando i segni dell’illusione a cui lei stessa si voleva aggrappare.
«Certo» le ha tenuto il gioco, «tornerò da te.»
«Ti aspetterò. Pregherò.»
Pregherà…
Adesso Kira si lascia cadere contro la roccia, il guscio vuoto stretto in mano; stranamente è rimasto illeso, senza uno sfregio, ma questo non fa che beffeggiare il suo stato d’animo. I suoi occhi sono lucidi, ma nessuna lacrima gli bagna il volto, la pelle le ha assorbite tutte quante.
L’amore e la speranza a cui si è aggrappato in quei giorni di esodo vengono lentamente sostituiti dalla rabbia e dall’odio. I suoi genitori sono stati messi al rogo, lui non ha potuto salvarli. La malanera sta per prendersi anche lui, ma nel frattempo l’odio cresce in lui e con esso la voglia di vivere ancora un po’. Vuole vivere per vendicarli; vuole vivere per vederla bruciare, le gemme dorate di quella città finalmente scarlatte. Ma è stanco, sente che non riuscirà a fare molta strada; probabilmente morirà per fame prima che per la malattia.
È la rabbia che gli fa scagliare l’ammonite contro la pietra, e quella, quasi per ripicca, finalmente si spezza contro uno dei più sottili tentacoli della spirale bianca, quello che quasi sfiora la parete verticale. L’ultimo legame con la madre, l’ultimo ricordo della sua famiglia, s’infrange contro la dura roccia, liberandolo dall’ultima catena. L’odio dirompe.
E mentre la sete di sangue ribolle nelle sue vene, una nuova forza cresce in lui, insieme alla consapevolezza di un domani di caos e terrore. Perché, gli risuona nella testa mentre avanza a ridosso della rupe, se la paura li ha fatti insorgere contro di lui, il terrore li avrebbe sepolti vivi.

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Capitolo 2
*** CAPITOLO 2 - La distanza tra giustizia e vendetta ***


CAPITOLO 2
La distanza tra giustizia e vendetta
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Kira macina leghe verso ovest, il più lontano possibile dalla sua terra. Viaggia come un miraggio per il deserto, sentendo i suoi piedi affondare tra i granelli e i suoi polmoni respirare calore. E più la terra rossa sotto i suoi piedi si fa dura, più egli sente la vita tornare nel suo corpo. Si aggrappa a quella sensazione per alimentare i suoi piani di rivalsa. Di giorno cammina, le vesti logore e i calzari consunti; di notte rivive la morte dei suoi, e i sogni sembrano nutrire la sua rabbia, incitandolo alla giustizia e chiamandolo al sangue.
Sangue, urla la sua mente. Ogni fibra del suo corpo reclama sangue e fiamme.
Raggiunge Vilant, la città dei veli e dei coltelli volanti. Davanti ai suoi occhi, donne con la pelle dipinta e vestita dai colori sgargianti di tulle gli riportano alla mente le danzatrici spiate al mercato di Svea, quando Demera lo costringeva a guardare quelle donne fare sfoggio della loro leggiadra bellezza. La sua mente lo obbliga ad allontanare quel pensiero e, con esso, il viso dell’amica svanisce in un angolo remoto della sua testa.
Vagabonda per le strade di terra, le quali sembrano tirarsi fuori a fatica dalle dune del deserto: la città è fatta d’argilla rossa e le tempeste di sabbia sono all’ordine del giorno. Sente la fame ghermire le sue membra ma, come ha imparato in quei giorni di marcia forzata, la rabbia sazia l’anima quanto basta per farlo camminare. Giunge ai piedi della cattedrale: il fango rosso, modellato a opera d’arte, disegna cupole sormontate da lance di ossidiana. È la forza di volontà a spingerlo verso i gradini; inizia a salirli. D’improvviso, la rabbia affoga nella stanchezza e le forze infine lo abbandonano. Kira stramazza al suolo, svenuto.
Quando si rià, gli occhi fissano confusi i mosaici sgargianti delle volte a ventaglio che lo sovrastano. Una donna anziana col viso grinzoso entra nella sua visuale: ha la testa avvolta in un turbante arancione e qualche capello bianco sfugge dalla stoffa e le drizza dritto davanti alla fronte. Lo osserva per un istante, gli tocca la fronte, poi sparisce di nuovo.
Kira sa di avere la febbre, le mani della donna sono gelate a confronto. I brividi lo scuotono e i denti tremano, ma la vecchia torna e lo costringe a bere un decotto amaro: riconosce il sapore, è identico a quello che sua madre gli preparava quando si ammalava da piccolo. Non sa se è la febbre o il desiderio di uccidere quei ricordi, ma chiude gli occhi e crolla nuovamente preda dei sogni.
E nei sogni li vede: città e fuoco, sangue e dolore; e lei, Svea, che ancora osa sovrastare quel caos con la sua inalterata perfezione. L'oro delle sue mura si spezza contro frammenti di cielo. Al suo interno c’è qualcosa che egli brama, sa cos’è. Demera è lì e lo attende. Ma prima c’è il cratere e ci sono i trentadue ponti; prima deve abbattere le difese della capitale.
Al suo risveglio scopre di essere stato ospitato da un vanyis, un lanciatore di coltelli di superba fama. Il padrone di casa lo viene a trovare ogni sera, portandogli personalmente la cena. Kira si riprende grazie alle cure dell’uomo e della vecchia. Nessuno lì è di molte parole e il primo passo lo fa il giovane, ringraziando il suo salvatore. Scopre che si chiama Amax: è un disertore dell’esercito, comune lì a Vilant, e nonostante ciò ha parecchio seguito; in molti bussano alla sua porta per chiedere favori o solo per scambiare due parole cortesi con lui. Non ha figli né mogli, ma apprezza la sua presenza e si prodiga perché egli abbia comodità e compagnia.
Amax si ferma sempre a suonare lo zufolo accanto al suo letto e Kira ha così il tempo per pensare a quali domande fare prima che l’uomo si congedi da lui. Nel frattempo ne ammira il corpo sottile come una serpe e nervoso come quello di una tigre. Ha i capelli lunghi che gli accarezzano le spalle, neri e ricci; e un pizzetto sotto il labbro che ne inscurisce il mento nodoso. Ma quello che più lo incuriosisce sono le vesti: indossa sempre una vestaglia di seta legata alla vita, ma quando si siede Kira scorge la tela grezza dei pantaloni a cui la sabbia è attaccata insistentemente.
«Perché mi hai salvato?» chiede una sera.
Amax gli dà le spalle e alimenta il fuoco con un tizzone. «Avevi bisogno d’aiuto. Ti è forse dispiaciuto continuare a vivere?» Anche la sua voce è sottile, aspira le vocali e strascica la fine della frase; ma non per questo è meno energica e decisa.
«Affatto» risponde con vigore ritrovato. «Ho ancora molto da fare» aggiunge, serrando le coperte tra i pugni delle mani.
L’uomo fa per andarsene.
«Perché hai disertato?»
«L’esercito di Svea risponde ai saggi Ban’gh, e loro venerano Demel. Non c’è posto per Isa tra le loro file.» Amax si concede una risata amara nel vedere la confusione sul suo volto. «La dea dei Veli e dei Coltelli, l’unica che un vanyis prega.»
«E se ti scoprono?»
«Ma loro lo sanno: sanno che non ho famiglia, così come molti vanyis da queste parti; sanno anche che ho molti amici, gente che mi stima e che mi ascolta. Non possono ucciderci né convertirci, così come sanno che non possono uccidere il nostro credo. Ci tollerano, e lo stesso fanno con Lirth e Ur e i loro dei. La nostra fede è radicata in noi, ci scorre nel sangue. Non combattiamo per un’altra dea.»
Sangue!
A quella parola, qualcosa scatta dentro Kira. «Però... voi innalzate statue per Demel!» lo accusa incespicando nella sua stessa rabbia, senza neanche provare a mascherare il tono ingrato. «Costruite i loro templi.»
Amax si acciglia e lo guarda con una strana espressione, tra la sorpresa e lo sconcerto. Afferma: «Sembri star meglio.»
Kira annuisce, il muso duro e gli occhi puntati sui suoi, decisi.
L’uomo sembra soddisfatto. «Bene. Domani allora verrai con me.»
Il giorno seguente Kira si ritrova a camminare a fianco dell’uomo per le strade di Vilant. Osserva il mercato e gli spiazzi per le grandi aste. Si fa strada tra le locande e i cortili delle bettole, dove donne dai corpi seminudi fanno il bagno in grandi piscine di marmo e gli sorridono ammiccanti. Passano sotto gli archi che saltano da una casa all’altra, nascondendo le botteghe dei sensali o ripide scalinate, dove incrociano gruppi di uomini chiacchierare sottovoce. Si fanno strada tra i vicoli stretti, in cui i bambini giocano con i bastoni o si sfidano a catturare i serpenti. Ma sono le arene di sabbia nei sobborghi che lo incuriosiscono di più. Lì grandi tendoni sono allestiti per riparare il cibo e le bevande dal sole cocente, mentre gli uomini e le donne assistono agli scontri dei vanyis.
Amax è atteso per un incontro: Kira ne può ammirare l’abilità e la precisione. Per certi versi il combattimento gli ricorda una danza a cui ha assistito una volta con il padre: la dama velata aveva danzato con dei serpenti. I vanyis sono mamba, si ritrova a pensare: le loro armi sono letali e anche se il bersaglio riesce a svignarsela per tempo, basta un piccolo taglio, e il veleno di cui sono intinte le lame non lascia scampo.
Si guarda attorno, e quello che vede sono serpenti. Serpenti chiusi in un cesto. Basta scoperchiarlo…
«Voglio imparare!» È la prima cosa che dice quando si riunisce al suo protettore.
«Non è una pratica ben vista a Svea» gli rammenta il vanyis. «Lontano da qui sarebbe la tua condanna.»
«Non intendo avvicinarmi alla capitale prima del Carhnokat» afferma, vaneggiando in un suono atonico. Lui stesso non riconosce la sua stessa voce.
Amax aggrotta la fronte e un guizzo offeso passa sul suo viso. «Non dire certe cose: sono eresie! E non credere che solo perché Vilant è ostile al culto dei Ban’gh, si possa considerare nemica di Menrva. Abbiamo combattuto e siamo morti per non veder mai giungere il Carhnokat.»
«Tu insegnami!» Kira ha lo sguardo deciso e le fiamme brillano nei suoi occhi. La sua voce sibila, minacciosa: «E io farò in modo che il giorno del giudizio non si abbatta mai su Vilant e la sua dea.»
 
 
Kira vive per tre anni nella casa del vanyis, ingoiando sabbia e duri insegnamenti. Presto le paure e le ansie di ragazzo lasciano il posto alla volontà di ferro di un guerriero: apprende l’arte dei coltelli e impara a maneggiare lo spuntone a due lame. I suoi movimenti diventano rapidi e sinuosi come quelli di una vipera, la sua forza e la scoperta agilità gli modellano il corpo. Amax lo segue da vicino, portandolo nelle arene e in mezzo alle ronde. Il corpo di Kira comincia a riempirsi di calli e cicatrici e il sangue che scorre sulla sua pelle si mescola con la terra rossa e le urla di giubilo degli abitanti di Vilant.
Le sue orecchie si riempiono di voci, sussurri che nascono in un deserto che si estende a perdita d’occhio e che le tempeste di sabbia cancellano l’attimo dopo. Amax gli dice che Vilant è libera, per il semplice motivo che non si può incatenare. «Io sono un vanyis, nonostante la disapprovazione dei Ban’gh. La nostra libertà è il nostro retaggio.» Gli dice che Vilant è come il deserto: cambia forma, ma non sparisce, anzi cresce. «Alla fine, saremo tutti sabbia.»
Ma Kira ascolta: sente il malcontento alzare la testa dalla sabbia, la coda della vergogna vibrare al profumo della libertà. Vilant è una città lontana dagli ammonimenti dei Ban’gh, mantiene la sua identità, libera quanto un lemek al pascolo però. È un città che si nasconde tra le dune, ma che un tempo esprimeva il massimo dell’energia della civiltà umana: c’era la forza dei vanyis che incuteva timore, il potere delle assahrì che ammaliava; e c’era il deserto, un deserto che Vilant sapeva sfruttare.
È in quella città che scopre la lussuria e di come essa va a pari passo con la guerra.
Le donne delle case del piacere sono più che semplici intrattenitrici, lo apprende una sera nella casa del vanyis Sefard, amico del suo ospite. Il suo maestro frequenta la sua casa per trovare conforto e, dice lui, un po’ di sano divertimento.
«Perché non vi trovate una moglie?» gli chiede dinanzi all’ingresso, un po’ scocciato di doverlo attendere lì insieme a ubriachi perditempo.
«Perché vorrebbe dire perdere la libertà. I Ban’gh non aspettano altro da noi. Se noi abbiamo una famiglia, loro hanno le catene con cui addomesticarci.»
«Ma io che dovrei fare qui?» domanda ancora.
«Osserva e impara.»
Amax se ne va insieme a due donne dalle chiome nere e Kira resta solo ad affrontare la sala. La prima cosa che nota è l’eleganza del luogo: a Darsta, la sua città, i bordelli sono topaie per cagne e roditori, ma le case di Vilant sono teatri di bellezza e seduzione. La sala circolare richiama l’oro della sabbia e il rosso del fuoco; i tavolini e i divani sono disseminati nel locale e solo uno spiazzo al centro, decorato da mosaici di lingue infuocate, è lasciato libero. Una fanciulla gli sorride e lo prende sotto braccio, accompagnandolo a un tavolo vuoto.
«Grazie, ma sto bene dove sono» prova a obbiettare.
Le mani di lei scivolano sul suo petto e risalgono verso la mascella; la guidano con presa decisa, incoraggiandola verso il mosaico vermiglio. Kira sussulta quando una lama arriva a poche spanne dal suo viso. Il coltello s’arresta a mezz’aria e rimbalza verso la sua proprietaria, al centro della pista: i seni e le parti intime sono l’unica cosa semi coperta del corpo; intorno ai polsi, al bacino e alle caviglie sono legati sottili veli alle cui estremità pendono le lame affilate dei lunghi coltelli. Il ragazzo si sistema meglio nella sedia mentre i suoi occhi vengono rapiti da quella danza fatale: la fanciulla si snoda in gesti sensuali e voluttuosi e ognuno di essi finisce con la fredda precisione del lancio delle armi bianche; persino i lunghi capelli ambrati sono intrecciati intorno alle else e le ruotano intorno, mulinando l’acciaio. Inarcando gli arti e balzando in una capriola, conficca le punte dei pugnali sui tavolini; alza lo sguardo e i suoi occhi bramano lui.
Più tardi, tra le lenzuola aranciate di una delle camere da letto, Serah gli insegna come il piacere può incendiare e far bruciare il sangue nelle vene tanto quanto la rabbia e l’odio.
Kira guarda la città con occhi nuovi, più attenti e bramosi. Cerca spesso la compagnia della donna e pian piano compone quel mosaico misterioso che è tessuto intorno alla sua figura: ella è un’assahrì, una donna della dea Isa; il suo corpo è un’arma che uccide prima ancora delle sue lame. Scopre che il loro potere, per quanto venerato, negli anni ha perso il favore della gente, anche a causa delle lotte pubbliche che i saggi di Svea hanno indetto contro di loro. Nonostante ella venda le sue abilità, Kira ammira la sua dignità, che le fa guadagnare il rispetto silenzioso dei suoi tanti amanti. Il ragazzo esce sempre più spesso dalla casa del suo protettore, perdendosi tra le strette viuzze di Vilant, dove guarda la forza di quel popolo che nasconde il viso sotto i veli, aspettando che le tempeste di sabbia passino oltre; sente la loro forza e capta la brama che scorre nelle loro vene, trepidante e iraconda. È allora che la forza che lo ha sorretto nel deserto si fa sussurro nella sua coscienza: sfruttali!
Serah diventa il suo secondo maestro: lo avvicina alla gente, gli insegna a capirne gli animi, a parlare la loro lingua fatta di sibili e lame sottili; gli presenta i sensali che mediano con la capitale e vanyis dalla tempra più guerrafondaia di Amax. Il suo protettore lo lascia andare, non lo ferma, ma è sempre lì, come un’ombra. Lo lascia sperimentare, gli lascia sfogare la rabbia nelle arene, per poi gettarlo di nuovo nella sabbia, sconfiggendolo. Kira sente la sua bontà scivolargli addosso come acqua nel deserto. Non è solo la lotta quello che lui gli tramanda: impara a suonare lo zufolo, legge i vecchi scritti della dea e conosce un po’ di più l’anima di quell’uomo che ha rinunciato a una donna che ha amato solo nei suoi sogni e un bambino che non ha mai visto nascere solo per non vederli in catene. Questa, pensa rammaricato Kira, è la sua unica libertà: una sofferenza barattata con la solitudine.
Infine, quando il suo coltello si ferma minaccioso sulla giugulare di Amax tra le grida della folla estasiata, Kira sa perfettamente cosa Vilant si aspetta da lui e come sfruttare la loro devozione per la sua causa.
«Figli di Isa!» inneggia alla gente, attirando subito la loro attenzione. «Mi avete accolto nella vostra città, mi avete custodito agli occhi dei Ban’gh come fossi stato uno di voi. Oggi sono finalmente il vostro degno figlio!» urla.
La gente risponde al suo richiamo, fa sentire la voce fiera; Serah è tra loro. Kira sa cosa vuole dal corpo di lei, ma conserva quei piani per momenti più favorevoli.
«Il male dell’est ha sradicato le mie radici, Svea ha bruciato la mia stessa carne, ma solo Vilant mi ha ridato la forza e una ragione per cui rinascere. Ed è alla vostra terra che io mi consacro oggi, fratelli!» Le sue mani lasciano il maestro e allontanano il pugnale dalla sua gola; lo brandisce in alto, incitando la folla. «Svea ha soppresso la vostra anima, vi ha legato le mani e smussato le lame in nome di una minaccia sconfitta secoli fa! I demoni sono il nemico, dicono! Ma non sono i demoni a condannare il vostro culto! Non sono i demoni che vi privano di una famiglia! I demoni sono sottoterra, morti e dimenticati, ma i Ban’gh e le dita arcuate di Svea decantano alla loro paura per dominarvi!»
Le sue grida hanno azzittito la folla. Il capannello di gente si è trasformato in una macchia colorata che ha invaso lo spiazzo e le vie adiacenti. Ogni uomo e donna di Vilant si è azzittito, i più piccoli hanno lasciato cadere i loro giochi e persino i venti sferzano silenziosi tra di loro, accecandoli e lasciando solo l’udito a cogliere le sue accorate parole, ingigantendo la sua ombra e pompando la sua figura, quasi fosse quella di un re. Con gli occhi attaccati dai mulinelli di sabbia, gli abitanti della città iniziano ad aggrapparsi a quell’unica immagine, nata da quell’ultima parola: dominio.
Se c’è qualcosa su cui nessuno può dominare, gli sussurra una voce incoraggiante nella testa, è la loro libertà!
«Avete lottato valorosamente secoli fa per la vostra libertà. Ve la siete guadagnata!» S’infiamma, gli occhi ardenti spalancati sulla folla. Kira avvicina il pugnale al petto, brandendolo con forza davanti al viso. «Menrva è un regno di popoli liberi. Vilant ne è stato il cuore pulsante. Ed è ora che Svea e la sua dea se lo ricordino! Che i Ban’gh lo accettino: noi-siamo-liberi!»
Il pugno armato si alza e con esso l’urlo di guerra dell’ovest galoppa verso la conquista della capitale.
 
 
Lirth è un popolo di artigiani; il suo dio è Masheb, o della Creta. Kira non ha bisogno di combattere, il vento ha fatto giungere le sue parole fino a loro. Sotto gli imponenti archi sono appoggiate foglie di papaya e palme di cocco. Quest’ultimo frutto, con il guscio raschiato e il succo miscelato a una strana pastura violacea, gli viene offerto al suo ingresso nella città dei Volti Piangenti.
Masheb è raffigurato su ogni colonna o edificio maestoso, con metà del volto perfettamente scolpita e l’altra metà appena abbozzata, quasi non avesse ancora deciso quale aspetto assumere. La creta pare piangere su metà della statua. Nessuna di quelle effigie è uguale alla precedente, mutano e cambiano come l’elemento di cui sono fatte. Lirth è una tipica città di Menrva: le sue strade sono di sabbia e i suoi palazzi di mattoni a crudo; poche finestre si affacciano sulle vie, tutte oscurate da stuoie opache dai toni smorzati. È una città povera, pensa Kira, ma ora è libera.
Un pensiero confuso lo fa sorridere. Alza il volto verso una delle statue e lentamente si sfila di dosso la tagelmust, mostrando il viso ben rasato e i lineamenti perfetti della sua mascella. Gli occhi grigi sfidano il volto del dio prima di tornare a dissimulare quel sentimento e guardare nuovamente il kesh Narsek, il capo della città.
«Questa città prega Masheb» pronuncia Kira con voce attenuata, «permettetemi di porgergli il mio rispetto.»
Il kesh sorride soddisfatto e lo guida verso il tempio del dio della Creta. La Casa Sacra non è altro che un’unica stanza circolare di terra cotta, senza idoli od ornamenti, che s’innalza a nord-est della città per quattro braccia verso il cielo; al suo interno non ci sono statue o pavimenti, solo terra e un braciere acceso al centro. Narsek vi si dirige con passo ossequioso e s’inginocchia un momento per raccogliere un pugno di terra; si alza, la mano tesa, e la getta tra le braci. Le fiamme si rianimano e sputano un getto violaceo verso l’alto del tempio, dove un foro all’apice della cupola sovrastante permette ai raggi della luna di fondersi con il riverbero delle fiamme.
Kira abbassa il capo e attende che l’uomo torni al suo fianco. Non ripete il suo gesto, ma socchiude gli occhi in segno di rispetto della divinità; al kesh sembra bastare.
Il capo lo ospita nella sua dimora, insieme ad Amax e ad altri due capi del suo esercito. È un pasto frugale quello che consumano, ma viene servito loro con timore reverenziale e una timida espressione di scuse: è tutto ciò che possono offrire. Amax è il primo a ringraziare e a condividere la sua porzione con i convivali. Kira mangia poco e ascolta tanto. E osserva: ci sono donne con la pelle scura macchiata dal sole e i capelli raccolti in lunghe trecce che riempiono il suo bicchiere e chinano il capo; ci sono uomini a piedi scalzi e con i vestiti ricoperti di sabbia che si addossano alla parete, guadagnandosi timidamente un cantuccio dal quale ossequiare la sua presenza; e ci sono bambini che si arrampicano alla finestra per poterlo spiare. Kira sa cosa vedono in lui – la promessa in un dio che si sta sgretolando – e capisce cosa deve fare.
«La tua campagna è onorevole» inizia il kesh, sincero. Il brusio si acquieta subito.
Kira sorride con fare incoraggiante.
Narsek incrocia le gambe e tende il busto verso di lui, riverente. «Lirth ha aspettato a lungo la tua venuta, guerriero. Siamo pronti per combattere.» Il suo viso si fa più serio. «Non credere che noi uomini della creta non sappiamo come impugnare le armi. Vilant vive per morire e lottare, noi serviamo la vita e le sue mille facce; una di esse è la lotta. Sappiamo essere temibili quando serve.»
Un lampo passa negli occhi di Kira. «Grande kesh, neanche per un attimo ho messo in dubbio le vostre capacità. Ricordo bene quanto la vostra mano può essere letale.» Il suo sguardo, per un attimo, si fa distante e sembra squarciare il velo del tempo; torna presente e il suo cipiglio si fa più deciso, meno ambiguo. Spiega: «Mio padre conosceva molte leggende della Grande Lotta, molte riguardavano il vostro popolo.»
L’uomo s’inchina, lusingato. «Grazie, guerriero. Lirth ricorda ancora, non ha dimenticato le catene. Per questo siamo con voi!» esclama appassionato. «Ma altri temono la sommossa. Ur è forte, ma il suo legame con Svea è fatto da maglie strette. La città dipende dalla capitale, i suoi uomini sono il cuore dell’esercito. Si sta preparando alla guerra sì, ma contro di te, guerriero.»
Kira sorseggia un po’ della bevanda fermentata che gli è stata versata nel bicchiere, pensieroso. Poi, molto lentamente, afferma: «Ur è corrotta al vertice, ma le fondamenta sono ancora sane. Lasciamo loro il tempo di preparare le truppe» sorride, nuovamente con quella fiamma negli occhi assetati di sangue, «al momento giusto saranno nostre.»
Gli uomini non ribattono: bevono le sue parole come se fossero il nettare più buono. Questo ha il sapore effimero di un miraggio, eppure è capace di inebriarli.
Il concilio ristretto finisce a notte tarda, ma Kira non è stanco e si dirige senza preamboli nella tenda di Serah. La donna sta dormendo, ma il sangue da combattente la fa fremere al suo arrivo. Egli nota subito la lama lucente tra le mani di lei.
Il viso le si colora di lussuria quando lo vede avvicinarsi. Si allunga verso di lui e si sistema a cavalcioni, iniziando a liberare il corpo dai vestiti insabbiati. Kira la lascia fare, ammirandone ancora una volta le abilità seduttive, letali e ammantate di potere. Si lascia trasportare dalla sua passione, bevendo di quel fuoco e dissetando per un po’ la sua brama di rivalsa. L’eroticità di quell’avvinghiamento placa la sua rabbia sempre più forte e mitiga la sua impazienza. Non ci sono luoghi che la lingua di lei non esplora, non c’è lembo della sua pelle che rimanga insoddisfatto. Quando lei infila le dita tra i suoi capelli, un lampo latteo sfugge dai suoi occhi, e il corpo di Kira prende il sopravvento, ribaltando i ruoli. Le sue dita affondano fino alle ossa, sembra quasi volerle strappare la carne. La morde, la graffia, e gode nel sentirla cedere alle sue insane torture. Le permette di sistemarsi contro il suo fianco solo quando il freddo delle notti del deserto non diventano altro che un un’ombra al di là della tenda.
«È stato divertente» la lusinga.
Serah ride sommessamente. «Tutto qui?» sussurra poi, invitante.
Kira la sovrasta, afferrandole il volto all’attaccatura dei capelli. «Un uomo potrebbe morire felice tra le tue braccia. Non ti servono lame.»
«Un uomo qualunque, forse» obietta, «ma non il grande guerriero dell’est.» Le mani di lei scivolano sul suo addome, lo stuzzicano.
«Basteranno contro i capi di Ur» afferma. La sua pelle è ora indifferente a quelle attenzioni.
Serah si acciglia, confusa. «Cosa vuoi dire?»
«Sei un’assahrì, e ho bisogno delle tue doti di serva della dea.»
La donna svicola dalla sua presa e lo allontana in malo modo. Lo fulmina, offesa e incollerita. «Vuoi usarmi?»
«Voglio lasciarti libera di essere quello per cui ti sei addestrata.»
«Mi vuoi condividere con un altro?»
Kira non può fare a meno di sorridere. «Non l’ho sempre fatto?»
Serah alza una mano per schiaffeggiarlo, ma egli le blocca il polso e l’attira verso di sé. «Mi piace quanto ti arrabbi, il tuo sangue brucia contro la mia pelle. Lotta al mio fianco, assahrì. Sii la degna donna del guerriero.»
Quelle ultime parole sembrano acquietarla un po’. Ancora con la fronte aggrottata, la donna si risistema contro il suo petto e lentamente si abbandona tra le braccia del sonno ristoratore.
 
 
Kira la rivede solo sei giorni dopo, davanti alle porte sbarrate della città. Il suo esercito è accampato qualche miglio più a ovest, al sicuro dalla gittata delle balliste. La donna cammina verso di loro, nascosta da una tempesta di sabbia che scivola alle sue spalle, la figura completamente avvolta nel mantello. La riconosce e l’attende; una parte di lui è contenta di saperla viva, ma una voce nella sua mente si aizza sospettosa.
È quest’ultima che prende la parola, malefica e priva di espressività sennò quella che mostra ira: «Torni da me, ma le porte sono ancora sbarrate!»
«I dodici capi sono morti. Con il sorriso sulle labbra» aggiunge, mentre le sue due compagne lo salutano e raggiungono le carovane dei viveri; una di loro è ferita superficialmente a un braccio e viene presa in consegna da un uomo dei guaritori. «Ma altri, tra le loro fila, cercano di far schierare Ur contro di te. Non appena abbiamo iniziato a parlare alla folla, hanno attaccato.»
Kira guarda le scuri grigie: Ur è l’unica città di Menrva a essere stata costruita con la solida pietra. Le sue mura sono alte più di cinquanta braccia e sui portoni, a monito dei nemici, vi sono scolpiti i visi contorti e demoniaci in evidente supplizio, a significare che nessun tipo di creatura, demone o uomo, può varcarne la soglia con i vessilli di guerra spiegati.
«L’esercito è in rotta, necessita solo di un capo» mormora lui. «Mobilitate gli uomini. Attacchiamo!»
Serah sobbalza, ma è Amax che prende la parola. «Kira, Ur non è il nemico.»
«No, certo» conferma, accondiscendente. «Ma è preda di uomini corrotti, e va liberata.»
«Non con la forza. Non farti corrompere dal potere, ragazzo.» Il vanyis è ancora il suo maestro, e in lui vede solo il ragazzino impaurito e debole che è giunto ai suoi piedi anni prima. «Quella città ha bisogno di una guida, non di un tiranno.»
«Certo, certo…» Kira sopprime un lampo latteo e i suoi occhi si rilassano in un'espressione pacata.
Alla fine, avvantaggiandosi della protezione della tempesta, Kira conduce un manipolo di guerrieri verso la cinta muraria. Accanto a lui, Serah lo guida sicura lungo il fianco orientale. Lì, dissimulata tra i blocchi di pietra, grazie a un marchingegno di carrucole e ingranaggi, si nasconde il varco segreto usato poco prima da lei e dalle sue compagne per uscire.
«Il comandante del bastione aveva voglia di chiacchierare» spiega allusiva, e fa scattare il meccanismo.
Percorrono un intricato incrocio di strette gallerie, dove la roccia è stata lasciata allo stato grezzo, e trovano i gradini irregolari che portano all’interno della caserma. Al di là della porta che sbarra loro la strada riecheggiano delle voci. Attraverso un foro nelle assi, Kira può vedere due soldati seduti intorno a un tavolo e illuminati da una lanterna. Con un calcio poderoso, sfonda la porta e lancia due lame verso i due uomini sorpresi; questi cadono a terra, i punteruoli conficcati nei loro corpi.
Approfittando dei tafferugli all’interno delle mura, il piccolo manipolo si fa largo verso le scale e poi giù tra le vie della città. Serah cammina svelta, certa che gli altri le stiano dietro. Il suo corpo è piegato ed evita il contatto visivo con la folla; la sua mano stringe quella dell’uomo che ama. Si ferma ai bordi di una grande piazza, dov’è raccolta la maggior parte della gente: qualcuno sta cercando di prendere le parola, ma sono troppe le discussioni accese tra gli astanti.
Serah gli indica un giovane uomo tra quelli in piedi sui blocchi di pietra, ai lati della stretta scalinata. «Brav, il luogotenente di Trorah; e quella è la Via Perpetua» la designa. «Si snoda lungo tutta la città, sempre più stretta tra gli edifici neri, tagliando a metà, come una saetta, Ur. Trorah è lì che invoca Arg, il dio della città, sotto gli occhi dei comandanti delle altre unità. È lui che ha il maggior assenso. È un khatà» lo avverte, quasi a giustificarsi. «L’unico piacere che si concede è la lotta.»
Kira annuisce, lo sguardo puntato sulla folla. «E questi?»
«Molti sono fedeli di Trorah. Gli altri sono solo curiosi o indecisi che aspettano di vedere se Arg risponderà.»
Kira fa per avanzare, ma Amax lo afferra per un braccio e lo costringe a fermarsi. «Non essere avventato, figliolo.» Lo ammonisce con quella nota d’affetto che Kira ha imparato a cercare durante i momenti di spaesamento; lo trattiene con discrezione, per non minare alla sua credibilità. E Amax è fiero di quello che è diventato, glielo legge negli occhi. Eppure Kira, per la prima volta, prova il desiderio di liberarsi di lui, della sua influenza, della sua protezione. Sente un sibilo risalire nella gola, e lo trattiene tra i denti, risentito. Una parte di lui vorrebbe ascoltarlo, ed è proprio quell’istinto all’obbedienza che l’altra parte, invece, vorrebbe debellare.
In quei pochi attimi le discussioni in piazza si sono animate, la gente viene alle armi. Un guizzo di sangue schizza sul mantello del giovane guerriero, l’odore del ferro arriva alle sue narici, inebriandolo. Il vanyis gli sta parlando: consiglia di non cercare lo scontro aperto. Una voce, nella sua testa, è d’accordo; ma solo in parte.
Sicuro di sé, Kira libera il braccio dalla presa. Volta le spalle al suo maestro. «Apri i portoni. Conduci il mio esercito qui!» ordina alla donna. Si fa strada tra la gente e il suono cacofonico delle loro grida. Mette un piede sul primo gradino e comincia a salire, ma Brav gli si para davanti, ostacolandogli il cammino.
«Sono qui per Trorah» annuncia, sereno. Alle sue spalle, sa che Amax lo segue come un’ombra.
«Solo le alte cariche possono raggiungere in preghiera Arg!»
La tagelmust cade a terra. Kira si volta leggermente verso la folla e afferma: «Sono il guerriero dell’est, consacrato a Isa e alla guerra contro Svea! Sono qui per Trorah» ripete poi, con tono deciso. «E tu mi farai passare.»
Brav sussulta, ma è solo un attimo: lesto, afferra la sciabola e cerca di colpirlo con un tondo. Mostrando un’atavica indifferenza, Kira si abbassa e riprende a salire; alle sue spalle, Amax para il colpo e trafigge al torace l’uomo, lasciandolo morente in una pozza di sangue. Insieme, i due guerrieri salgono i settemila gradini che conducono al tempio, lasciando i compagni a sedare la sommossa dei fedeli.
Le porte del tempio sono identiche ai battenti delle mura esterne, anche se più piccole e con i visi combattivi raffigurati sopra. Sul frontone vi è incisa una scritta. Kira pensa di non conoscere quei glifi, ma la risposta giunge comunque.
«Nel mezzo dell’inverno ho scoperto che c’era, dentro di me, un’estate invincibile» legge a fil di labbra.
«Il motto dei khatà» annuisce Amax, colpito dalla sua conoscenza. «Addestrati al piacere della lotta sin da quando erano in fasce. Dicerie dicono che ad alcuni fanno bere il sangue di animali insieme al latte.» Forse vuole spaventarlo, forse solo metterlo in guardia. Amax stringe le lame e lo affianca con disinvoltura, una calma così differente da quella che imbavaglia la furia di Kira: il suo maestro è freddo e preparato, mentre lui ha il fuoco ad alimentare la sua sicurezza.
Sarà gloria da quest’oggi in avanti, e nascerà dal dolore patito fino a qui. «Non mi fermeranno» giura.
I battenti sono chiusi, ma non bloccati: a Kira basta spingere con forza per aprirle. Con il sole alle spalle, la sua scura figura si staglia sulla soglia e la sua ombra si allunga sulla cella sottostante. Con lentezza misurata, inizia a scendere i gradini interni, fino a trovarsi di fronte i capi dell’esercito di Ur. Dai lati della navata circolare giungono delle guardie armate, ma lascia che sia il vanyis a occuparsene.
«Cerco colui che ha prestato giuramento a Svea!» proclama.
«Tutti qui sono tenuti a rispettare quel giuramento, straniero!» lo sfida una voce. «Persino tu.»
Kira osserva gli uomini dinanzi a lui prima di concentrarsi sull’uomo che ha parlato: vestito con una lunga veste spaccata ai fianchi, Trorah tiene una mano sull’elsa della sciabola e i suoi piccoli occhi lo guardano omicidi da sotto le folte ciglia nere; sul suo viso, la tipica barba dei guerrieri di Ur arriva sino al petto.
Kira sorride affabile. I suoi occhi scrutano i sette busti e la grande statua del dio Arg. Lentamente, con gesti misurati, estrae la spada e la poggia al suolo. «Sono morto sottoterra, tra la polvere e la luce abbagliante» dichiara, enigmatico. «La mia nuova vita è iniziata col fuoco e si spegnerà solo col sangue.»
Le sue dita scattano alla cintura e prima che gli uomini possano mettere mani alle loro lunghe lame, il suo corpo volteggia nell’aria, scagliando i coltelli a ventaglio. Otto uomini cadono a terra, Trorah rotola sulla pietra e si rialza, in agguato e pronto alla contromossa.
È senza armi, adesso Kira, e non può far altro che eludere gli attacchi dell’altro. È calmo, però: le lame dell’avversario gli danzano vicino ma non lo riescono a colpire; sembra deviare i colpi con la concentrazione dello sguardo. È in attesa, il guerriero, mentre risale a ritroso i gradini e si sposta di lato e li ridiscende nuovamente, lasciando che il khatà lo sovrasti con la sua boria.
Un fischiettio attira l’attenzione di Kira: con la coda dell’occhio, vede giungere Narsek. Lo chiama per nome, ed egli tende finalmente la mano per afferrare l’oggetto lanciatogli. Prima che Trorah possa attaccare, con un affondo che lo porta a genuflettersi conficca la lancia nella gola dell’avversario. L’ultima cosa che Trorah vede è il bianco che per un attimo si impadronisce degli occhi del condottiero.
 
 
Kira ringrazia l’arrivo tempestivo dell’uomo e gli va incontro.
«La vostra attesa è stata largamente ripagata, kesh.»
«Trovare la lancia nelle fondamenta del tempio non è stato un lavoro facile, guerriero» si giustifica con un po’ di affanno nella voce. «Abbiamo dovuto scuotere le fondamenta, ma Masheb ci perdonerà: combattiamo per una giusta causa. I nostri antenati l’avevano ben seppellita.»
«Questo perché nelle mani sbagliate può essere un flagello per Menrva» mormora Kira.
I suoi occhi osservano con ammirazione la siffatta bellezza dell’arma: la lancia ha una linea semplice e primitiva e in entrambe le estremità termina con una lama piatta di spectrolite; nessun graffio o abrasione ne intacca la materia e il filo è rimasto affilato in tutti quei secoli. La polvere sembra evitare di depositarsi su di essa, il potere di cui è intrisa che pulsa dormiente al suo interno.
«Allora, forse, sarebbe stato più saggio lasciarla sottoterra» li interrompe Amax.
«L’arma migliore, per il condottiero che ci libererà!» prorompe Narsek, indignato.
«Posso parlarti da solo?» lo ignora il vanyis, rivolgendosi al suo allievo.
Kira sospira, ma lo segue docilmente fuori dal tempio. Ridiscendono la scalinata silenziosamente, Amax davanti con le mani strette dietro la schiena. La roccia è macchiata qua e là dal sangue, alcuni morti sono abbandonati sugli alti gradini. Ma è una volta giunti in piazza che lo scempio si mostra ai loro occhi: ogni uomo che era rimasto ad attendere i comandanti in preghiera al tempio è stato ucciso brutalmente, passato a filo di spada senza remora; persino le donne non sono state risparmiate.
Sangue! Urla la sua mente.
«È questo ciò che volevi?» gli chiede. «La vendetta è il trofeo che brami?»
«Io voglio solo giustizia per me e il mio popolo» afferma, ma neanche lui riesce a mettere abbastanza enfasi per risultare convincente. «Erano nemici» riprova, un guizzo di sfida che nasce e muore nel suo animo.
«I Ban’gh sono il nostro nemico, Kira. Questi erano uomini, e molti di loro ti avrebbero appoggiato» lo redarguisce.
Urla di vittoria lo acclamano; il suo esercito lo invoca per nome. La mente di Kira traballa, confusa. Per un istante, il volto della fanciulla con i capelli in fiamme compare davanti al suo volto, poi l’odore del sangue lo scaccia via.
In un sussurro, risponde: «Sono vittime della guerra. Verranno ricordate.»
Si allontana, lasciando il suo maestro e amico sulle scale, a domandarsi cosa abbia cambiato tanto il ragazzo solo e addolorato a cui aveva dato aiuto tre anni prima.
E la stessa domanda se la pone Kira, più tardi, nella stanza assegnatagli dentro Ur: è spartana e senza mobilio e il letto è un giaciglio spoglio, con le coperte ripiegate ai suoi piedi. Egli vi si è rannicchiato sopra, le gambe strette contro il busto e la testa poggiata sulle ginocchia. Ha chiuso la porta, allontanando tutti, persino Serah. C’è solo la sua mente a fargli compagnia.
«Non volevo» sussurra. «Ma è stato necessario» si giustifica subito dopo. «Erano innocenti»… «Come i miei genitori»… «Non voglio uccidere degli innocenti»… «I Ban’gh sono assassini, il loro sangue sazierà la sete di giustizia di Menrva.»
Delirante, preda delle sue paure e delle sue colpe, Kira sogna: vede città in fiamme e Svea che si regge ancora in piedi in mezzo al caos, dorata. Lui è diretto lì, brama quello che la città custodisce; lo vuole, lo desidera.
«Demera!» si sveglia, il nome della fanciulla sulle labbra, una morsa stretta al petto.
Si è addormentato con i vestiti impolverati addosso, il tessuto si è appiccicato al corpo sudato.
«Demera!» accarezza quel suono, come un piacevole ricordo lontano; sa di dolce e sembra dargli un po’ di pace.
I suoi vestiti puzzano ancora di sangue, quell’odore gli riporta alla mente altri ricordi: le fiamme, la malattia, l’esilio, la condanna. Risveglia la sua sete di giustizia, per i suoi genitori e le vittime di quella guerra appena iniziata. Kira stringe le mani a pugno, ringhiando.
«Pazienza» sussurra la sua mente, «conquisteremo Svea e avremo la nostra giustizia.»
Gli occhi acquamarina sbiadiscono ancora una volta tra le fiamme della sua rabbia.

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Capitolo 3
*** CAPITOLO 3 - Sale e ferro ***


CAPITOLO 3
Sale e ferro
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Kira tiene gli occhi chiusi, la testa china come in preghiera; ma non rivolge alcuna supplica o canto verso i cieli e gli alti Idoli. I suoi occhi, dietro le palpebre, bramano le ossa di ossidiana che reggono i trentadue ponti, tanti quanti sono i venti e le città erette verso ognuno di essi; smaniano per poter nuovamente osservare l’alta cinta dorata e incastonata di pietre preziose, le strade senza lastricato e le case senza porte, la fiducia degli abitanti che, anche dopo tutti quei secoli, riesce a farlo sogghignare. Con la mente ripercorre le sue fatiche, dall’inizio dei tempi fino alle più recenti.
Da Svea, aveva impiegato un’intera decade per raggiungere Vilant; con l’esercito a seguito, a Kira sono occorsi otto mesi per tornare laddove tutto è iniziato.
Gli uomini di Ur giocano un ruolo importante nella sua avanzata. Tra lui e la capitale ci sono cinque città-stato. La guerra è diventata il suo pane quotidiano: marcia di giorno, senza sosta, in un continuo stato di eccitazione; la notte attacca. Ormai non esiste più il buio, dopo il tramonto giunge il fuoco. Le città che non si arrendono sposando la sua causa, vengono semplicemente date alle fiamme, in pasto a colui che ha divorato anche la sua anima.
Con il riverbero costante del vermiglio, i suoi occhi hanno cambiato colore: il grigio tipico degli abitanti dell’est ha lasciato il posto al bianco latteo delle antiche popolazioni estinte, che il guizzo delle braci trasforma puntualmente in rubini lucenti. I suoi uomini hanno iniziano a temerlo e venerarlo. La stessa psicosi che aveva invaso le anime degli sveani, affogandole nella paura, adesso ha elettrizzato i guerrieri delle sue truppe, che lo osannano e ripongono in lui le loro speranze di rivalsa.
Ciò che è nato nel nome della libertà, è mutato in una sistematica soppressione: nessun uomo, donna o bambino trova scampo dopo il loro rifiuto. Prima Samoa e Kraeta, le città dei pescatori dei flutti e dei mandriani di cavalli; poi Leda e Zeris, signori dei pascoli di lemek e droghieri di spezie. Avaen, la città delle miniere, gli apre le porte, come aveva fatto Lirth: i servi si sono ribellati ai padroni, spinti dall’onda d’insurrezione che stava giungendo dall’ovest. Kira è accolto come il salvatore. Le catene vengono spezzate e gli uomini lasciano i picconi per brandire le armi, poiché il giovane giunto dall’est li ha chiamati alla guerra.
Sulla cresta occidentale di Azar, la montagna più alta che separa l’ovest dal cratere, Kira pensa ai giorni passati, senza nostalgia o rimpianto nel cuore. Serah non riscalda ormai da tempo il suo letto, la donna non gli è più di alcuna utilità: la sua pelle è scottata dal sole, i suoi capelli non sono più lavati con oli profumati e i vapori d’incenso delle case del piacere sono distanti troppe miglia per poter ancora sortire qualche effetto su di lui. Le assahrì continuano a seguire il suo esercito e a combattere per la sua causa, ma non è stato più possibile replicare l’astuzia mossa verso Ur; comunque, sono servite al loro scopo.
Al kesh Narsek, si sono aggiunti i capi degli eserciti di Avaen e Balar, la città dei cacciatori di lemek del nord. Nonostante sia la gemella di Leda del nord, ha risposto al richiamo del salvatore. Ancora ricorda come il polh dei pastori di Leda aveva cercato di rimediare all’affronto e aveva supplicato di aver salva la vita; e qualcosa, in un punto indefinito del suo corpo, si bea, crogiolandosi ancora nelle echi delle sua urla mentre lo squartava.
In lui non c’è neanche dolore per la morte del suo maestro.
Asfum è un agglomerato di case che in via del tutto pacifica ha ricusato di abbracciare la loro cagione: desiderano solo vivere in pace. Kira prosegue la sua scalata su per il monte sacro, tra rocce ricoperte di sabbia e piante sporadiche di stramonio, e poi si volta, e guarda la terra sotto di lui, e scaglia un dardo infuocato sul villaggio addormentato: non c’è salvezza per gli abitant, ignari del pericolo.
Il suo mentore gli si scaraventa contro dinanzi all’intero esercito. «Che ragione c’era?» vocia.
«Il Carhnokat incalza alle nostre spalle, vorace. La sua rapacità dev’essere saziata ogni giorno, ma io non permetterò che si cibi con la carne dei miei fratelli.» Kira ha parlato con tono rauco, senza emozione, ma la folla di soldati si lascia andare a urla di tripudio e a folli danze selvagge tra le strette maglie della notte. Sotto il pendio il villaggio arde, e l’odore di carni carbonizzate e le urla disperate si alzano verso il creato insieme alla loro verve.
«Quello che stai cibando tu è un demone maligno, figliolo. Liberatene.» Lo guarda con biasimo, e di quel biasimo Kira si vergogna, ma solo in parte e solo per un attimo. Qualcosa dentro di lui spinge per urlare all’offesa e al tradimento; si agita e smania per divorarlo.
La notte dopo un male incurabile ha acciuffato il vanyis: che sia stato il dolore o una malattia giunta dall’est, Amax si contorce per due giorni e due notti sotto le calde coperte, la figura di Kira a vegliare costantemente al suo capezzale. Il guerriero ha persino dato l’ordine all’esercito di arrestarsi, non volendo gravare le condizioni del suo consigliere più fidato.
Amax soffre: all’inizio in silenzio, poi le urla veleggiano tra i venti caldi che soffiano da sud, tra le tende dell’accampamento. Guarda con occhi spiritati il suo allievo e figlioccio, e ciò che vede non è più ciò che guardano le donne che lo assistono in quella tenda scura. Ormai, dicono loro, è preda del delirio.
«Carhnokat, Carhnokat» raspa la sua voce, gutturale. Tra i lembi della tenda, suona come un ceppo che sfrigola avvolto dalle fiamme.
Kira si piega su di lui, avvicinando le fredde labbra carnose al suo orecchio, e lo culla verso la morte, prendendo un impegno: «Non preoccuparti, maestro. La morte arriva per tutti. E io ti prometto che la tua non sarà la più dolorosa.»
Amax muore quella notte stessa, Kira ne incenerisce le spoglie, poi comanda di proseguire la marcia.
Presto, ciò che ancora si regge in piedi dell’ovest si prolifera sulla grande vetta di arida terra, tra arbusti rachitici e ceppi vuoti e secchi, dove i roditori hanno fabbricato le loro tane, per raggiungere l'esercito di Kira. Le aquile nere dagli occhi rossi hanno sorvolato i grandi esodi per giorni, terrorizzando i più piccoli e facendo crescere ombre di terrore sui più anziani. Infine, le genti dell’occidente raggiungono il condottiero, una fiumana di alleati che inscurisce i pendi e le valli dorate dell’Azar. Kira solleva un braccio disarmato e, con un unico grido, sfida gli uccelli del malaugurio. Subito, sotto gli occhi dei popoli, il più grande tra essi scende in picchiata e gli si poggia docilmente sul braccio, artigliandolo come un ara fa con un trespolo.
Kira urla, pieno d’ardore: «Non temete il destino, poiché noi saremo le sue dita su questa terra! Non temete il Messaggero degli Dei, perché sarà colui che racconterà ai cieli la nostra vittoria!»
E la gente risponde: «Condottiero, condottiero! Tua è la mano che dominerà il male!»
E come un unico uomo, un’unica armata, la gente dell’ovest marcia fino alle cresta più alta del monte sacro; ne calpesta incurante il suolo con i calzari ai piedi e le armi ai fianchi, e ne ridiscende i declivi del versante orientale. Senza fretta, ma inesorabilmente, la manna guidata dal condottiero dell’est naviga sulle terre spoglie a occidente della capitale e ne esaurisce ogni oasi e laguna, come le tempeste di sabbia che ricoprono le città, inaridendone l’immagine e insecchendone l’energia. Alla fine, sembra che il deserto torni a divorare tutto quello che l’uomo ha costruito, di nuovo padrone delle terre che gli aveva donato.
E infine Svea, con il candore della sua terra, il fulcro di Menrva e della tanto decantata pace. La città dei venti e dei trentadue ponti, colei che si erige sopra la bocca dell’inferno coperto dalla sfuggente bellezza della spirale di mesolite; la vetta nascosta dalle alte rupi del cratere, il ragno che ha tessuto la sua effimera tela sopra i turbini e le malie dell’oscurità… la capitale… sbalza a oriente piena del suo vanto fulgore, scoppiettante di luci, dando fuoco al cratere spento da millenni. Ed è quel cratere che Kira intende far scoppiare di nuovo.
Finalmente Kira apre gli occhi ed esulta nel sentire la paura degli sveani solcare il vento di nord-est, il Grecale: il fiato degli schiavi risorge dalle ceneri, e nemmeno il ghiaccio e la pietra sono riusciti a spegnere. Gli abitanti della capitale guardano ciò che lui ha creato, nonostante le catene sfibrate che ancora legano i suoi polsi: la marea di soldati dell’ovest, coloro che un tempo erano stati gli eroi, adesso giungono alle porte del baratro per conquistare la libertà, la sua.
La notte giunge impaziente sull’accampamento. Fuochi di segnalazione vengono allestiti tra le tende e lungo il perimetro, posti di vedette vengono organizzati sul fronte orientale. Le donne cuociono la minestra, le aquile banchettano con la sugna e i pezzetti di carne rubati con prepotenza dai vassoi. Gli uomini affilano le armi, molti si preparano alla loro prima battaglia. La voce che un condottiero vuole sfidare il potere dei Ban’gh è giunta persino a settentrione e meridione. Le città più limitrofe, come Balar e Karass, hanno mandato i loro eserciti per dar manforte al salvatore giunto dall’est.
Kira passa tra gli uomini, molti gli chiedono perché non attaccano subito: sono trepidanti, sanno che l’ora del cambiamento è vicina.
«Ma non la comprendono appieno» sussurra la voce nella sua mente.
«La luce del giorno dovrà essere testimone del nuovo inizio. I cieli ci benediranno con il bagliore dell’aurora. Avrete la libertà» promette ad alta voce.
Il bellun di Balar lo raggiunge vicino a uno dei fuochi di vedetta. L’accampamento è sito sullo strapiombo nord-ovest, sopra i ponti di Maestrale, Vespero e Traversone. Roban è un uomo burbero con una folta barba ispida e rossiccia, un viso tondo e colorito, forse dovuto anche a quella forte bevanda amara che bevono al nord; è tarchiato e porta sempre con sé un’ascia bipenne legata alla cintola e due coltelli dentati.
«Condottiero» lo incalza con voce tonante. «Pensi a domani?»
Kira annuisce, quatto sul terreno.
«Comunque andrà, verrai ricordato. Sei il primo dopo Errka ad aver riunito le città dei venti sotto un unico stendardo. Svea ha perso molto tempo fa questo potere.»
La voce nella sua testa ride a quel paragone.
«Errka?» chiede, evasivo. «Ho già sentito quel nome.»
«Ci credo!» sbuffa, aggiustandosi meglio il panciotto e sedendosi al suo fianco. «Ma forse il nome Bastian ti è più noto.»
«Il primo sovrano di Svea, colui che sconfisse i demoni» biascica con voce atona.
Roban asserisce, soddisfatto. «Era del nord, sai? La sua famiglia era una delle più antiche di Gilda, la capitale del settentrione. Il suo mestiere era la terra stessa.» Il suo sguardo è lontano mentre ripercorre le vie della leggenda. «I Sicari dell’inferno avevano già inaridito tutto il sud e parte dell’est e dell’ovest. Giungevano sempre più voci su terre morte e anime perdute, e Bastian sapeva che la stessa sorte sarebbe toccata alle nostre terre.» Si gratta la barba e prosegue: «Dicono che fu lui il primo ad affidarsi ai Ban’gh. Gli antichi saggi di Svea erano uomini del Nord, sapevi? Covavano le loro nenie magiche nei mausolei di pietra tra i nostri boschi, situati in luoghi segreti ai più. Errka, che nel gergo antico vuol dire proprio pietra, chiese aiuto ai saggi e da loro ebbe in dono un corto pugnale di mesolite, la lama sottile come l’osso del mignolo di una donna.» Mostra il suo dito grassoccio al ragazzo e ride della sua stessa similitudine. «Poi partì verso il Carhkaan, il monte del supplizio, da cui i demoni uscivano a frotte, vomitati dalla terra, insieme a lava e lapilli. E lì conficcò il pugnale nel cuore del loro sovrano e tiranno, e lo uccise. Il Carhkaan crollò su se stesso e un boato sconquassò le terre di Menrva. I demoni e i loro Sicari furono inghiottiti dentro profondi baratri e la terra si richiuse sopra di loro. Errka, Bastian, costruì Svea e la proclamò la vigilante dei popoli liberi.» Il braccio con il pugno ancora alzato e il viso infuocato, Roban finisce di raccontare la sua storia; poi, come se si accorga solo in quel momento della sua veemenza, tossisce e si risistema meglio sulla dura pietra. «Beh, immagino tu conosca la storia.»
«Una delle sue varianti» risponde, con un sorriso felino. «Fa piacere rivangare di tanto in tanto il passato.» Corruccia teatralmente la fronte e piega il viso un po’ verso l’uomo. «Chissà perché gli sveani sono finiti a venerare Demel.»
«Oh, è la figlia di Radaht-uat, l’unico dio del nord. Dicono che suo era il pugnale donato al condottiero del nord. Serviva il potere di un Divino per contrastare quello dei Demoni, e Demel s’incarnò in terra per permettere a Errka di condurci alla vittoria.» Si raspa i peli sotto il naso. «Bene, ragazzo… ehm, condottiero… domani sarò al tuo fianco. Ma per stanotte intendo chiudere giusto un occhio.»
Se ne va, con un cenno del capo a mo’ di saluto.
«Quanta memoria serbano gli uomini del Nord?! Certamente più di quelli dell’ovest» La voce ride e anche lui sogghigna, un po’ tetro. Il sussurro continua: «E dire che questi ultimi furono tra i primi ad appoggiare il condottiero del Nord, proprio quando la sua stessa gente si rifiutò di scendere in battaglia, credendosi immune dalle piaghe delle altre terre. La storia si ricorda dei re, non dei soldati.»
Muovendo le labbra, invece dice: «Kesh! Vi è piaciuto il racconto del nostro amico?»
Narsek gli si avvicina, uscendo dall’ombra. «Mai fidarsi delle storie degli uomini del Nord, condottiero. Raccontano frottole per combattere il freddo.»
Kira sa che, all'altro, il nordista non sta molto simpatico. Quanti appigli che dà la mente di un uomo e la sua natura facinorosa… «Su quale punto non siete d’accordo, kesh? Sulle storie di una dea che si fa donna? Oppure temete l’ira della divinità?» lo stuzzica.
«Voi sapete che c’è un solo dio che io venero, condottiero. Ed è Masheb» risponde fiero, pensando che la domanda sia un modo per metterlo alla prova.
«Ma Masheb non è il dio dai mille volti? Allora uno di questi non potrebbe essere quello di Demel?»
Narsek sobbalza e sgrana gli occhi, impaurito da un simile dilemma.
E Kira stesso che lo tira fuori da quel pantano. «State tranquillo, kesh. Se il vostro dio fosse contrario, vi avrebbe già punito per aver depredato il suo tempio» lo congeda con parole ambigue.
Kira si alza e scruta ancora un po’ la città. Ormai è talmente vicino alla meta… Domani finalmente metterà le mani sull’oggetto dei suoi desideri e lo stringerà, e le fiamme lambiranno la sua carne, ma non lo bruceranno.
«Domani» ripete la sua fedele compagna, nella sua testa, «il sole illuminerà e spegnerà la sua luce su un nuovo mondo. La terra cambierà e risorgerà a nuova vita.»
 
 
Gli steli d’erba del deserto sono bianchi e più frequenti vicino al cratere, e in particolare nella zona sita tra i ponti di Solano e Altano; ed è proprio in direzione di quest’ultimo che sorge la sua città natia, Darsta. I suoi abitanti sono un popolo di coltivatori: le terre sono spartite in acri e ogni famiglia ha il suo piccolo frutteto; e i più fortunati hanno due pecore o tre, da cui ricavano la lanugine per poi filare la lana e scambiarla con i mercanti di Ortog, maestri nel creare capi di altissima e finissima qualità, famosi in tutta Menrva; e avanza sempre un po’ di spazio per un piccolo orto curato, magari di patate e rapanelli, o fagioli. D’estate i bambini fanno a gara per raccogliere i frutti dagli alberi, sotto la tutela dei padri e degli zii, e d’autunno reggono il filo che le madri tessono nell’arcolaio, arrotolandolo tra le mani, fino a formare una matassa precisa e ordinata. In inverno i giorni sono corti e immersi tra le tempeste di vento, e il divertimento più grande consiste nel vedere quanto gli alberi spogli riescono a resistere a quelle frustrate senza spezzarsi. La primavera è dedita alle chiacchiere e ai grandi viaggi verso la capitale.
Adesso è primavera, e Kira si trova sulla rupe che si getta sopra il ponte dell’Altano, in attesa del segnale. Nella sua mente questi ricordi non esistono più, o forse sono talmente seppelliti sotto cumuli di ceneri di risentimento e colate d’ira da soffocare senza alcun riguardo da parte sua.
Narsek guida parte del suo esercito nella parte opposta, sopra i ponti occidentali: saranno loro ad attirare l’attenzione delle guardie della capitale. Con lui, invece, c’è Roban, l’uomo del nord. È stata una sorpresa spiacevole per il kesh di Lirth venire a sapere che non avrebbe conquistato la città nella posizione di secondo. Invece il nordista era rimasto indifferente alla cosa, superiore, quasi sicuro di quel suo inappellabile diritto; dopotutto, ha mormorato, il nord è stato al fianco del primo condottiero, secoli prima.
La tagelmust lo isola dalle voci dei compagni, ovattandole e sopprimendole, lasciando solo il rumore del suo cuore a riempirgli le orecchie. La mente è pervasa dall’ebbrezza e dalla smania di chi, dopo tanta attesa, è impaziente di lanciarsi sopra ciò di cui più a patito la mancanza: il suo regno, quella terra arida che gli sveani avevano fatto risplendere di luce opalescente, falsa, esile e debole, quali essi sono, spegnendo e annientando la vera forza del fulgore delle fiamme.
«Le temono, eppure le hanno brandite contro la gente dell’est» lo aizza la voce.
Sì, le hanno dato impasto i miei genitori, pensa in risposta. La collera monta e la sua rabbia risponde alla parte della sua mente che mantiene una parvenza di lucidità, quella che si risveglia e ride al sapore del sangue e al calore del fuoco.
Gli uomini guardano la bruna polvere sollevarsi in nuvole dal versante nord occidentale: il kesh ha dato inizio all’attacco. Nel cratere risuona il suono degli zoccoli dei cavalli al galoppo e lo sfregare delle roche voci dei guerrieri contro le pareti rocciose. Kira osserva i fuochi di segnalazione accendersi per tutta la lunghezza delle mura giallognole, il trambusto della città che si riversa per l’ovest e i primi tafferugli che indicano l’inizio degli scontri ai portoni. Roban freme al suo fianco, ma lui non dà l’ordine di avanzare. Aspetta. Il silenzio si scontra contro l’irruenza dei suoi uomini, ma questi ultimi restano ai loro posti, sotto l’influsso costante del suo potere carismatico.
La canicola del sole nascente sfiora la sua pelle e lambisce le sue spalle, coperte da strati di cotone. Kira getta la tagelmust a terra, e questa risuona con uno schiocco sordo, liberando il segnale. Come un solo uomo, l’esercito cammina sopra il ponte dell’Altano, silenzioso, con un unico respiro, un unico ritmo cadenzato. Da dietro le mura, sembra di sentire i tamburi battere da sotto le fondamenta, scandendo il corso della loro fine.
Svea non mostra difese sulle mura, le sentinelle tutte richiamate alla porta del Grecale, i portoni d’oro il solo ostacolo tra loro e le strade della capitale. Serah è abile a trovare un varco per scalare le mura e, insieme alle altre assahrì, a spalancare le porte. Kira apre le braccia e la fiumana di soldati si riversa per le strade, scalpitante, rabbiosa, come cani che sbavano alla ricerca del coniglio.
Inizia la carneficina.
Le tendine dinanzi le porte delle case vengono lacerate, pezzi di stoffa volano al vento mentre i primi raggi avanzano lucenti tra le pietre e le costruzioni. La lancia nelle sue mani infilza senza distinzione uomini armati e giovani indifesi; le guardie che accorrono sono poche e disorganizzate, e vengono distrutte. La luce del sole pare avanzare con lui.
Il suo passo è cadenzato e non mostra cedimenti. Ogni ostacolo viene eliminato, ogni nemico abbattuto. Para, attacca, uccide. Cammina. Sempre più avanti.
La cacofonia allegra di quel luogo che albergava nei suoi ricordi viene soppiantata dalle note stridule dell’inferno. Lo scoppiettio delle fiamme sale, unendosi alle urla disperate dei morenti. È musica che fa danzare l’anima; e il suo cuore improvvisa un battito a tempo con essa.
I suoi occhi nivei sono freddi e puntano sempre più verso il centro della città. La sua mano si stringe più forte intorno alla lancia mentre passa accanto alla scalinata del tempio di Demel. Per un attimo, il ricordo dei suoi genitori morenti lo strazia e lo blocca. Il suo sguardo s’ingrigisce ed egli si piega dolorante, confuso.
C’è rumore, confusione, dolore. Kira vorrebbe indietreggiare. Capire cosa lo ha spinto fino a lì.
In quel momento un dardo vola verso di lui, lo manca. Uomini corrono per affrontarlo, ma Roban è ancora al suo fianco e lo difende con un ringhio in bocca, urlando il suo nome, lo stesso che lo aveva tenuto in vita in quegli anni.
«Condottiero!»
Un secondo dardo ferisce il nordista a un braccio, il sangue cola dal taglio profondo, ma l’uomo continua imperterrito a mantenere la sua posizione.
«Rosso, le fiamme…»
«Il sangue…» La voce lo richiama a sé, la sua mente torna prigioniera del bianco, scattante.
Un guizzo d’ira lo spinge in avanti. Allontana Roban, infilza un nemico, libera la lancia e ruota l’asta; la testa del secondo sveano si stacca in parte dal corpo e penzola su una spalla, mentre la figura si accascia, morta. Kira uccide gli ultimi due, poi torna ad avanzare verso l’edificio che, più alto del tempio, s’innalza alle spalle di quest’ultimo.
L’avorio dell’alta torre risplende mentre i raggi dorati strisciano sulla sua liscia superficie, risalendone i fianchi. Alle sue radici, una dozzina di uomini è schierata per fermare la loro avanzata.
«Abbiamo aspettato troppo per poterci far fermare da loro» lo istiga la voce nella testa.
Kira avanza, inesorabile. «Occupati dei superstiti. Concedimi più tempo che puoi» ordina a Roban.
Non gli lascia il tempo di ribattere. Si lancia nella mischia, perforando le fila con la forza del suo gesto avventato. Supera i primi, allontana i due uomini alle loro spalle e intreccia l’arma con l’ultimo che gli si para di fronte. Alle sue spalle, il nordista impedisce al grosso dei nemici di raggiungerlo, ma non può bloccarne l’avanzata. Kira non se ne preoccupa: elimina il suo avversario e s’immerge nell’oscurità della torre. La battaglia, gli uomini, ogni cosa resta fuori. È lontana.
Comincia a scendere le rampe di scale.
Svea non ha re, non ha padroni. Il comando, affidato a uomini ricchi eletti dal popolo ogni otto anni, risiede in un palazzo color albicocca nel quartiere nord-est della città; eppure non ne è il centro. Il cuore della capitale è occupato da quell’alta costruzione bianca che si erige come un enorme dito verso il cielo e affonda le sue radici fin nelle profondità della pietra bianca e, ancor più giù, in quella nera.
Così Kira scende nelle viscere della roccia, con l’unica compagnia di quella voce che si risveglia alla vista delle fiamme e all’odore del sangue. I gradini si interrompono all’improvviso, lasciandolo a camminare su un terreno battuto. Le pareti sono fatte di pietra calcarea, senza fronzoli o elaborati rinfreschi, inscurite dal tempo e illuminate solo dalle danze rosse del fuoco che dai bracieri delimita la via. L’austerità di quel luogo è un pugno nello stomaco dopo la preziosità delle mura e dei palazzi della città; eppure conserva il potere antico della maestosità della natura e di forze sconosciute o dimenticate dall’uomo.
La roccia è ovunque: intorno, sopra e sotto di lui; persino nel suo cuore. Le due punte della lancia sono cangianti di riflessi, sfiorate dal languido calore, e assorbono la poca luce, accumulando potere.
Infine la terra cede il posto alla mesolite, la voluta più piccola della spirale serpeggia sotto i suoi piedi. Un cerchio di luce trafora l’alta sala e giunge dal cielo, attraverso le sessantacinque braccia di pietra verticale sopra di lui. La cupola grezza è retta da trentadue colonne di calcare grigio, spoglie e rudemente scanalate; al di là di esse, la sala si perde nell’oscurità.
E lì, al centro della stanza, colpita dalla luce del sole che entra dall’occhio in alto, c’è lei. Impulsivamente smania per tendere una mano e afferrarla, e Kira muove di scatto il braccio, per poi farlo ricadere confusamente contro il fianco.
Demera è lì, vestita di bianco, un lungo saio che la riveste dal collo ai piedi nudi, e la sua pelle ambrata sembra sbiancare, colpita dalla luminescenza della candida roccia; ma i suoi capelli bruciano sotto il riverbero dell’astro solare e ricadono come vene aggrovigliate sulle spalle e sulla stoffa grezza. Fa un passo verso di lui, verso il centro della spirale; si frappone tra lui e la luce e tende le mani tra loro, gli occhi due pietre di acquamarina dorate dalle lacrime, e le labbra, leggermente spalancate, che cantano silenziosamente per lui.
C’è silenzio, nella stanza e nella sua testa, e per la prima volta da tanto tempo un sordo dolore lo fa tremare, convulsioni che lo costringono in ginocchio.
«Demera» sussurra. La sua fronte si contrae, il suo volto libera le sue pene. «Demera!»
Kira urla, spaventato, e corre verso di lei, quasi striscia sulla roccia, fino a cadere ai suoi piedi, e stringe un lembo della sua veste. La vede esitare un attimo, poi l’amore è più forte della ragione, e la sua mano gli sfiora la testa, tremolante.
«Kira.» La sua voce è un fremito che il silenzio minaccia d’inghiottire. «Perché?»
Scuote il capo, la voce gli muore in gola. Vorrebbe dire tante cose, molte senza senso: la morte dei suoi genitori, il sangue, la solitudine, il sapore del sale, l’odore del ferro, il sangue, la morte di Amax…
«È morto. Amax è morto» riesce a dire.
La verità sembra raggiungerlo solo in quel momento. E finalmente piange: per i suoi genitori, per il suo maestro, per i morti che imbrattano la sua anima di sangue; e piange anche per la sua futile sorte e quella di lei. E pensa: e se fosse riuscito a sapere il suo nome quel giorno… se avesse saputo baciarla… se fosse rimasto al suo fianco e avesse cercato il riscatto tra le sua braccia…
Demera lo stringe forte a sé e il tempo pare riavvolgersi intorno a loro. Se fuori perversa la battaglia, a lui non importa più: non è più il condottiero giunto dall’est, ma il ragazzo che ha ballato con lei durante la festa del Darthì, quella che celebra la dea Demel alla fine dei giorni di mercato; colui che ha rincorso la cascata di fuoco che danzava sui suoi fianchi, mentre rideva per le strade di Svea; lui è chi si è arrampicato sull’obelisco della piazza nord, imbrattato di grasso, per regalarle il foulard di seta d’oro. Così, mentre finalmente stringe le mani intorno al suo corpo, Kira riprende possesso della sua mente e dei suoi ricordi.
«Demera!» la chiama, infine consapevole dei significati di quel nome. «Io non posso…»
«Ho temuto per te.» Gli accarezza il viso e sorride. Sussurra solo per lui: «I miei pensieri non ti hanno lasciato un solo istante.» La sua fronte si piega, si riempie di crepe. «Perché, Kira? Perché lo hai fatto?»
Kira non sopporta quel cieco dolore nella sua voce. Boccheggia: «Non lo so. Loro sono morti, lui diceva… io volevo… non lo so…» Per un attimo distoglie lo sguardo da lei e si osserva intorno. «Dove siamo?»
«Dentro al cuore di Menrva. Il centro della spirale.» Esita, poi lo esorta ad alzarsi. «Usciamo da qui. Ferma i tuoi uomini. Non versare altro sangue su questa pietra, o essa se ne ciberà.»
«Non volevo che qualcuno morisse.» Preme la testa contro il suo ventre. Dei, aveva desiderato farlo così tante volte! Strofina il viso sulla sua veste: vorrebbe baciarle la pancia, sfiorarle i seni. Affondare le dita nella sua carne… Trema di paura e desiderio.
«Sono morti in tanti. Troppi» si dispera. «Ma puoi impedire che altri muoiano ingiustamente. Fermali, Kira.»
Alza gli occhi. L'acquamarina delle sue iridi brucia il grigio dei suoi, illuminandole del suo amore, della sua speranza. Gli tende una mano, fiduciosa. E lui prende un respiro profondo, s’inginocchia e con delicatezza stacca una mano dal suolo per afferrarla. Con la pace nell’animo, si tira su e le sorride.
Ed è in quel momento che l’inferno s’infiamma di luce.
Le labbra di Demera si piegano verso il basso e i suoi occhi si spalancano, terrorizzati. La pietra intorno a loro scricchiola, fragile, privata della sua forza, del suo punto saldo. Lo sguardo di lei si abbassa e quello di lui lo segue, fermandosi sulla lama bianca che inconsapevolmente stringe nella sua mano. Una parte della sua mente è confusa mentre qualcosa, dentro di lui, riconosce l’artefatto: è l’oggetto dei suoi desideri, quello che nella sua testa si era più volte sovrapposto al viso di Demera in quegli anni di esilio; ed è ciò che prima di scorgere la donna aveva visto, colpito dai raggi del sole, al centro della spirale.
Kira alza il volto, smarrito.
«Perché, Kira?»
«Io… non lo so…»
Demera apre le labbra, ma la voce le muore in gola. Ansima in cerca d’aria, mentre un rivolo di sangue sgorga dalle labbra. Il corpo si accascia tra le sue braccia ed egli lo sostiene, impallidito. Sente l’odore, lo riconosce: è sangue, ed è dappertutto, sulle sue mani, sulla pietra, sulla veste candida di lei. Non comprende, ma vede la lama bianca perforare il ventre della fanciulla, il ramato dei lunghi capelli infuocarsi contro il rosso scuro della vita che l’abbandona. Gli occhi sono spalancati, coscienti e vigili; lo guardano sofferenti, intimoriti.
«Ho paura…» riesce a mormorare tra un ansito e l’altro.
«No… ti prego… no… io… oh, mia dea, ti prego, lei no…» Le lacrime gli solcano il viso e cadono su quello della fanciulla, mischiandosi a quelle di lei. La mano della morte restituisce a Demera la sua vera bellezza: la pelle indorata dall’oscurità crescente si frantuma contro la lucentezza degli occhi opachi, mentre il corpo trema, preda delle convulsioni.
«Non temere, troverò un modo per salvarti. Deve esserci. Lo troverò, non temere» vaneggia, disperato.
Demera sussulta, gli occhi guardano qualcosa che lui non può ancora vedere. Per un attimo si perdono nell’oscurità, poi tornano da lui, partecipi. Con un ultimo sforzo, si allunga verso di lui, cerca di tenere ancora un po’ il suo viso nell’incavo della mano. Le forze, però, l’abbandonano e lei ricade, rantolante.
«Non temere…» ripete, ormai incapace di reagire, «non temere.»
Demera chiude gli occhi, una lacrima scivola via, lontano. Prova a parlargli ancora: «Ho paura… per te.»
Infine il pallore della morte colpisce le sue membra e il corpo si arrende, cadendo vittima del freddo della dura pietra. Tutto ciò che resta è l’odore del ferro e il sapore del sale sul volto esangue.
Il viso di Kira si contrae. «Demera…» sussurra, piangente, «DEMERA!»
Il grido disumano riecheggia tra le colonne di calcare, mentre una risata metallica lo deride alle spalle, vittoriosa.

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Capitolo 4
*** CAPITOLO 4 - Schegge di mesolite ***


CAPITOLO 4
Schegge di mesolite
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il buio è il padrone della sua mente, ma il suo cuore brucia tra le fiamme dell’inferno.
Il suono di passi scalzi risuona sotto la cupola, le figure di due donne si stagliano ai margini del suo campo visivo. Kira è preda del dolore e non si preoccupa di scoprire chi siano. Le loro voci sibilano, raschiano contro la fredda pietra. Nonostante i bracieri accesi, la sala è sempre più oscura e gelida. Può sentire il fiato della morte sul collo. Per un attimo chiude gli occhi e attende che ghermisca anche lui.
La morte, però, ride, facendosi beffe del suo desiderio. I passi risuonano metallici e duri alle sue spalle. «Condottiero» lo deride, lasciva.
Kira spalanca gli occhi, riconosce la voce: è la sua, o meglio quella con cui ha conversato durante le notti di tormento ed esitazione.
«Già, dubbi che hanno saziato la mia fame, per un po’.»
Nonostante la voce risponda ancora ai suoi pensieri, essa risuona vivida tra le pareti rocciose. La fronte di Kira si riempie di rughe: pensa di essere preda della pazzia.
«Oh, che cosa insulsa, la pazzia» la voce si fa acuta e teatrale. «È sopravvalutata.» Una mano cianotica gli passa davanti agli occhi e cattura la sua chioma, costringendolo a fissare lo sguardo verso la voce. La morte e la follia hanno un volto, finalmente. L’aria minaccia di strozzarlo mentre i suoi occhi si fissano su quelli bianchi del demone. «Perché tremi, condottiero? Hai riso con me per anni, ti sei rafforzato con il mio potere, hai brandito le mie armi e hai guidato il mio esercito. E lo hai fatto con me al tuo fianco, a consigliarti.» Si picchietta la mente con un dito, allusivo.
Lo guarda ridere: una risata acuta e senza intonazione, un’unica nota che l’eco delle pareti prolunga nel silenzio delle tenebre. L’essere guarda il volto della fanciulla dai capelli del fuoco e ne segue il pallore del viso esangue.
«Un così bel fiore, difficile appassirne il ricordo. La sua figura era imbastita degli ultimi poteri della dea, una forza fastidiosa da scacciare.» Fa sporgere il labbro inferiore e si mostra dispiaciuto: quell’espressione non potrebbe essere più canzonatoria. Sibila ancora, suadente: «Nonostante i miei sforzi, la tua mente si aggrappava alla sua ombra, che tu ne fossi consapevole o no.» La levigata pelle bluastra del viso si lascia solcare da una sola ruga, mentre il bianco degli occhi rifulge di una sinistra luce. «A volte, ho temuto che ella riuscisse a sottrarti al mio controllo. E per un attimo c’è riuscita, pochi attimi fa. Ma… nel mezzo dell’inverno ho scoperto che c’era, dentro di me, un’estate invincibile.» Kira riconosce questa frase: è la stessa scolpita sul tempio di Ur. Loro – lui e il demone – l’avevano letta insieme il giorno della conquista della città. «E sei stato tu a farmela scoprire. Lei era giovane e innocente» lo ascolta parlare, «ha creduto di poterti salvare. Non sapeva che ormai mi appartieni.» E muove incurante una mano.
Stavolta Kira si accorge di ciò che sta accadendo, lo vede: la lama bianca, che fino a poco prima reggeva in equilibrio la magia della mesolite, affonda nel corpo senza vita della sua amata, ancora e ancora, il suo braccio che infierisce sulle sue spoglie mentre, incapace di fermarsi, egli urla angosciato dall’orrore di cui ormai è vittima e carnefice.
«Basta, ti prego» supplica, sconfitto e umiliato.
«Basta?» Ride. «Il Carhnokat è giunto e tu hai promesso che dilagherà su questa terra, purificandola dal male.» L’ultima parola echeggia minacciosa.
La risata del suo aguzzino è seguita da quelle stridule delle due figure femminili, che le fanno eco, l’amplificano e la innalzano lungo le verticalità della pietra.
Kira è confuso e disorientato. Ciò che credeva solo una leggenda si è palesato dinanzi ai suoi occhi: i demoni sono reali e adesso, grazie a lui, liberi di calcare di nuovo la terra illuminata dal sole. E Demera è morta, colpita a tradimento dal suo amore perverso.
«Uccidimi…» Kira trova la forza per adagiare il corpo di Demera sulla pietra e prostrarsi dinanzi alla creatura. «Uccidimi!»
Le risa si spengono di botto. «Ucciderti?» Il demone spalanca gli occhi, allibito. «E perché mai dovrei farlo?» Allarga le braccia, la bocca per un attimo aperta nel silenzio. «Sei il condottiero» esclama. «La tua gente si aspetta che tu la guidi verso la vittoria e la libertà. Libertà di vivere» e alza la voce, «libertà di razziare, libertà di saziare la fame degli oppressi, maltrattati e bisognosi di… potere.» Ogni sua parola è scandita da un gesto, ogni suo passo è arricchito da un sorriso spietato: è irriverente, stravagante, e fa paura. Con uno scatto, si volta nuovamente verso di lui e s’inchina leggermente verso la sua figura avvizzita al suolo. «Ucciderti farebbe andare a male il nostro cibo! Tu hai riempito il loro animo di rabbia, d’odio, di rivalsa, e questo li rende così gustosi. E sai cosa li renderà irresistibili?» striscia la domanda tra i denti. «La disperazione del tuo tradimento.»
«Non li condurrò tra le tue braccia!» ringhia, sbavando di collera.
Il volto del demone si fa tutt’a un tratto serio, rigido, e la sua figura si drizza, severa e maestosa. «Non hai mai condotto nessuno da alcuna parte, ragazzino. Sono io che ho mosso le fila fin dal primo istante. La tua rabbia, la tua debolezza hanno scalfito la spirale, mi hanno destato e dato la forza di aggrapparmi alle tue spoglie. Saresti dovuto morire, per il dolore della malattia prima e la fame dopo, ma io ti ho tenuto in vita fino a Vilant, io ti ho buttato tra le braccia di quel sentimentale di un vanyis. Chi credi ti abbia suggerito di goderti le gioie della vita tra le braccia di quell’assahrì, di sfruttarla? Chi ti ha sussurrato alle orecchie le paroline magiche con cui hai abbindolato quelli stolti a seguirti?» agita le dita. «Chi ha mosso la tua mano, mentre azzittivi per sempre la voce di quell’odioso uomo? Chi…» Ammutolisce, mettendo un freno alla sua ira. «Pss» sbuffa, sibilando, «milleduecento anni intrappolato nella fredda roccia, padrone della solitudine, e alla prima occasione di sgranchirmi le gambe che faccio? Inveisco contro il mio salvatore?! Perdonami, condottiero.» Lo raggiunge con due energetiche falcate e si piega verso di lui, passando un lungo braccio sulle sue spalle. «Alla fine sei stato tu e la tua umanità a salvare il mio popolo dal gelo e dal vuoto. Ed è per questo che manterrò la parola data. Il Carhnokat si sazierà di ogni infedele che ha osato marciare contro di noi, ma risparmierà coloro che hanno combattuto per la nostra causa. Vivranno per servirci e divertirci» gli mormora a un orecchio.
Kira vorrebbe muoversi, ma scopre di non poterlo fare. La sua mano stringe ancora il pugnale bianco, quello che secondo la leggenda è stato investito dei poteri della dea per confinare i demoni sotto la roccia; ma non può brandirlo contro di lui, il suo corpo si rifiuta di rispondere al suo comando.
Il demone ride e con un cenno lo costringe ad alzarsi. Un movimento del capo, e le dita di Kira aizzano la lama contro il suo stesso braccio, disegnando un taglio superficiale sul palmo della mano libera.
«Adesso è più chiaro, salvatore?» lo deride con un ghigno che monta sempre più largo sulla linea sottile delle labbra violacee.
Kira sostiene per un lungo istante quello sguardo: il viso è cianotico, un ovale incavato da cui è possibile scorgere gli aguzzi zigomi perforare la pelle diafana sulle guance; la testa è calva e ricoperta da sottili placche cornee di un grigio slavato, due più arcuate sopra le tempie. La sua epidermide sembra quella di un serpente, il corpo rivestito di pelle nera. Una coda, del medesimo colore del corpo, è ritta di aculei per tutta la sua lunghezza e si attorciglia intorno alla vita. Non ha denti, ma quattro zanne che gli conferiscono una strana pronuncia; ma la voce è quella che lo ha condotto fino a lì, a fare scempio della sua umanità.
Finalmente Kira torna padrone dei suoi sensi. Come se qualcuno avesse tolto un tappo, i suoni smorzati diventato chiari e sovrastano il sibilo che striscia sulle pareti. Passi risuonano giù dalle rampe di scale, mentre tutto intorno a lui scricchiola e va in frantumi. La spirale bianca, che tanto gli ricordava l’ammonite di sua madre, si scheggia e si frattura, le crepe si rincorrono sulla sua superficie fino a farla scoppiare in una pioggia di cristallo.
Il demone getta un urlo acuto e saltella via; e Kira scopre di potersi muovere e, spinto dall’istinto di sopravvivenza, si lancia sulla dura pietra prima di sprofondare negli abissi dell’inferno. La luce della mesolite riempie di brillio le tenebre, avvolgendo in un surreale velo il corpo della donna che ha amato lungo la sua caduta, le fiamme dei capelli spenti dall’oblio del sottosuolo.
Kira sente il dolore, è una cosa tangibile che gli sta perforando la pelle; e questo lo rinfranca. Se il dolore è concreto, anche l’oggetto che la procura lo è. Egli tasta il terreno sotto le sue ginocchia fino a stringere tra le mani una scheggia di mesolite. Con lo sguardo spiritato, ringhia e alza la debole arma contro la creatura in movimento dinanzi a lui. La scheggia si conficca tra le scapole della figura femminile, la pelle violacea solcata da zanne ricurve che fuoriescono dal dorso. Lo stridore disumano lo fa indietreggiare. Si tappa le orecchie, ma tiene gli occhi spalancati: l’essere sembra cristallizzarsi, il veleno della pietra che si dipana sulla sua pelle, fin quando l’intero corpo non ne è ricoperto. La gemella della creatura si lancia ai piedi dell’essere e si prostra, sofferente alla sua perdita.
Kira sposta lo sguardo vittorioso verso il suo vessatore e agghiaccia nel vederlo sogghignare, fiero. Il demone si avvicina alla creatura e, sfiorandola leggermente, la manda in frantumi, senza pietà. Poi sganascia, frivolo e divertito.
«Oh, Kira, me lo sentivo che saresti stato il mio diletto» prorompe come uno squillo di tromba, ticchettando le dita tra loro. «Smettila, tu. I tuoi pianti sono amari e non mi saziano affatto.» Afferra la lancia, che l’altro aveva abbandonato al suolo, e la scaglia contro il demone femmina, passandole di parte in parte il collo.
Kira sobbalza.
«Che c’è? Ti sorprende che io l’abbia uccisa? E perché? Perché era un demone come me?» Sbuffa in una risatina. «Uh, quanti uomini come te hai ucciso, condottiero?» Gli occhi nivei si spostano su un punto alle sue spalle e aggiunge, sovrappensiero: «E quanti ancora ne ucciderai…»
Un rumore involontario fa voltare Kira. Vede Roban indietreggiare, gli occhi spalancati che scattano dall’essere a lui senza sosta, senza riuscire a darsi una spiegazione.
«Ba’al…»
«Scappa!» arriva a urlargli.
«Sì, scappa Roban. Renderà la caccia più divertente.»
Ba’al avanza di un passo, ma Kira è libero dalle sue catene e balza in piedi, frapponendosi tra il demone e la fuga dell’uomo del nord.
«Oh, pensi che lo inseguirò? No» fa la faccia offesa. Con uno strattone, libera la lancia dal corpo della donna. «Sarai tu a dargli la caccia…»
«Mai!»
«… e a ucciderlo» conclude la frase, mentre con un gesto lo priva della parola. Poi sorride: «Se vuoi però, puoi continuare a dirgli di scappare mentre gli squarci le budella.»
E con un ultimo cenno del polso lo costringe a inseguire il suo vecchio alleato.
Kira si ritrova come in un sogno, cosciente ma incapace di controllare i propri movimenti o decidere la direzione da prendere. Con lentezza esasperante, risale l’alta torre e ritorna alla vita. Fuori la battaglia si è conclusa, gli uomini sono tutti radunati ai piedi del tempio, in sua attesa. Stanno già festeggiando, dandosi pacche e inneggiando alla libertà. Il sole bagna i loro visi e le loro voci rispondono al nuovo giorno con vigore. Tutti ignorano i feriti e i morti, i fumi che si alzano dalle mura e i detriti delle statue crollate al suolo.
Roban ha già raggiunto i suoi uomini, e lo sente gridare: «I demoni, i demoni…» cerca di metterli in guardia Roban. «Ha liberato i demoni.» I più vicini si azzittiscono, lo ascoltano vaneggiare: tra loro c’è Narsek, giunto dai portoni a ovest della città.
«Ma guarda un po’» sussurra Ba’al nella sua mente, imbavagliandolo di nuovo. «Narsek non ama molto il nordista, vero?» gli suggerisce con una risatina.
«Uomini» urla la sua voce, fuori dal suo controllo. «Il nord ci ha tradito e lo ha fatto cercando di mirare al cuore del nostro potere.» Mostra il palmo insanguinato. «È ora che i nostri nemici capiscano che non esiste modo per annientarci. Noi siamo il Carhnokat!»
Gli uomini rispondono al suo appello, e Roban e i suoi commilitoni si trovano d’un tratto a fronteggiare le maglie strette dei fedeli dell’ovest. Il kesh avanza e l’uomo del nord si vede costretto a incrociare le armi con l’occidentale. Kira rimane a guardare l’uomo inveire e lottare per la sua sopravvivenza.
«Maledetti!» vocia, obbligato a proteggersi dagli attacchi di altri due soldati.
«L’ovest» se la ride Ba’al, il demone nella sua testa, «non trovi divertente che coloro che ci hanno combattuto sono quelli che lottano per liberarci?»
«Non esiste alcun noi!» biascica tra i denti.
Kira freme di rabbia, intrappolato in quelle fasce di potere che lo avvolgono e lo muovono come una marionetta. E quando un soldato di Ur trancia in due parti il corpo di Roban alle spalle, egli inneggia alla loro vittoria, il suo urlo che contagia e tira dietro di sé la gioia venerante dei suoi uomini.
«Adesso torna da me, Kira.»
Esortando gli uomini a radere le case e a impadronirsi dell’intera città, il condottiero dell’est ritorna all’ombra della torre d’avorio e questa volta inizia a salire le scalinate verso l’alto della costruzione. Non ci sono porte o corridoi secondari lungo il suo cammino. Abbarbicata sulla sommità del minareto, esposta ai venti che tutto l’anno soffiano nel cratere e sormontata da una tettoia spianata, vi è solo la loggia, lo studio e il punto di riunione dei Ban’gh.
Ba’al è lì, accerchiato da due dozzine di demoni di ogni sorta, i volti mefistofelici rivolti verso gli uomini denudati, stretti a ridosso del lato occidentale della terrazza coperta.
«Ah, eccoti qui, condottiero. Ti stavamo aspettando!» esordisce l’essere, accogliendolo a braccia aperte. «Ecco qui i tuoi nemici. Sono un po’ malconci perché i miei amici hanno giocato con loro, giusto per ammazzare l’attesa. Ma che vuoi che importi? Nessuno si ricorda mai dei dettagli» fa spallucce. «Ciò che conta è che l’eroe uccida il mostro! Rammenti cosa ti dissi una volta? La storia si ricorda dei re, non dei soldati. Ed essa si ricorderà di te, del grande condottiero che ha liberato il mondo dal giogo dei saggi Ban'gh» ghigna. Poi si arresta bruscamente, la faccia falsamente sorpresa. «O forse no.»
I demoni, scappati dalle crepe della spirale, ridono e sghignazzano disinibiti, accennando movimenti osceni e derisori. Kira osserva disgustato i saggi di Svea tenersi vicini gli uni agli altri, i volti angosciati contriti in espressioni di costernazione e vergogna. Può leggere sopra di essi l’amaro fallimento del loro compito, così onorevolmente perseguito nei secoli. Su di loro grava la colpa di aver distrutto tutto ciò che chi li ha preceduti ha faticosamente costruito. I loro volti emaciati, ricoperti di lividi e da diversi turbazioni meschine, sono colpiti dagli alti raggi del sole che, ormai quasi allo zenit, rifulge nel pieno della sua luminescenza.
«Il tempo è giunto, Kira. Il Carhnokat è arrivato. Distruggi il nostro ultimo nemico!»
Con le labbra leggermente dischiuse in una smorfia d’impotenza, Kira avanza inesorabilmente verso gli ultimi protettori degli uomini e li trucida, crogiolandosi nelle loro urla di dolore e imbevendosi della soddisfazione del demone che, attraverso la sua mente, gode appieno della morte inflitta.
 
 
La minuscola crepa, l’invisibile scheggia che l’ammonite scagliata da Kira aveva creato anni prima, è la prima che lacera la bianca spirale di pietra davanti agli occhi degli eserciti. All’improvviso l’antica magia, posta a baluardo della loro sopravvivenza milleduecento anni prima, si frantuma in una pioggia di diamanti, lacrime bianche che piovono nelle profondità del cratere del Carhkaan, sporcate dal sangue dei loro fratelli e intrise del sudore dei loro antenati. La città di Svea, retta dallo scheletro di ferro e ossidiana e unita alle pareti a strapiombo del cratere, si regge sopra l’abisso oscuro come un ragno con le zampe dilagate verso ogni punto e appiglio possibile, tremolante e incerta sulle sue sorti.
Gli uomini smettono di combattere e si voltano all’unisono verso la bocca del Carhkaan: non esiste più confine, alleato o nemico. C’è la gente di Menrva, riunita dal condottiero dell’est, intrappolata nella città dorata, sospesa al centro del cratere. Ci sono le donne, che hanno seguito i loro figli e mariti, che scappano a cercare un riparo o le braccia dei loro cari; ci sono i bambini che guardano la pioggia di cristalli e sgranano gli occhi, meravigliati, ancora innocenti.
E ci sono i demoni che risalgono come piccoli e grandi insetti lungo le propaggini della terra, si arrampicano in superfice come un’orda oscura rigettata dal cratere e investono come un mare di tenebra la capitale degli uomini.
E mentre Kira il Traditore avanza tra le sue genti, lo sguardo vuoto perso nei suoi ricordi ritrovati e una mano del demone adagiata amichevolmente sulla sua spalla, gli uomini crollano sconfitti, le armi insanguinate risuonano sorde contro la strada, l’eco acuto del metallo fischia tra i venti.
E i demoni inneggiano tripudianti al loro salvatore. «Ba’al Zebul! Ba’al Zebul!»
Kira vorrebbe morire, prega le sabbie di portarlo con sé, a casa o nel nulla, se serve. Ne sarebbe grato. Ma Ba’al ha ancora qualcosa in mente per lui: lo costringe a tenere la testa alzata, fiera. I suoi uomini sibilano davanti a tanta ostentazione, serpi del deserto che lo minacciato di odio e disgusto. E lui guarda il suo esercito crollare al suolo, il sangue mischiarsi alla sabbia e attaccarsi alla pelle; le assahrì, sempre forti e belle, piangere e stringere le loro vesti, gettare a terra i pugnali. Il demone guida il suo sguardo verso Serah: non l’ha mai amata, questo lo sa. E lo sa lei, che forse più di tutti può intuire quale tipo di catena lo costringe ad avanzare; ma non resterà per gridarlo agli altri, non lo salverà. La lama che ella ha in mano non cade a terra ma viaggia verso la sua gola: un taglio netto, e il corpo scivola tra le mani di chi apprezza le sue carni anche da morte.
È libera, si ritrova a pensare Kira, ma non capisce più se è un suo pensiero o un’altra beffa del suo aguzzino.
Il principe dei demoni raggiunge il cuore di Svea, l’anima di Menrva, e lì si volta verso gli astanti. Il sole ormai è calato sull’ovest, una palla di fuoco che annuncia l’arrivo dei nuovi tempi. La spirale ha compiuto il suo ultimo giro e infine ha capovolto il destino del mondo. La grande aquila nera sorvola la piazza e si appollaia sulla spalla destra di Kira, fedele al volto conosciuto del suo padrone o forse solo per farsi beffe del suo burattino.
«Il Carhnokat è sorto! La nuova era è iniziata! E voi, piccoli omuncoli, la vedrete nel pieno del suo splendore» annuncia, il sorriso estasiato rivolto agli ultimi uomini vivi. «Vi è stata promessa la vita, vi è stata promessa la libertà!» Lancia uno sguardo adorante verso l’involucro ormai vuoto che è il corpo di Kira al suo fianco. «Io ve la dono. Godete del nuovo mondo al nostro fianco, iniziate a correre dove volete! La caccia è iniziata» urla, facendo tremare la terra.
«Ba’al Zebul! Ba’al Zebul!» urlano i demoni, deliranti della loro libertà.
Kira ha gli occhi persi nel vuoto. Vorrebbe strapparsi le orecchie e il cuore dal petto, per non sentire il dolore degli altri e il suo. Ha ancora le mani sporche del sangue di Demera e la volontà del demone gliele fa sollevare, in modo che l’aquila possa assaporarlo. Lo becca, lo ferisce, e il suo sangue si mischia a quello della sua amata.
«E voi, fratelli, godete del calore del sole, dissetatevi con il sangue dei morti.» Allarga le braccia e assapora l'aria sul volto. Poi torna a sorridere alla folla, sadico. «E non temete! C’è cibo per tutti!»
Ci sono urla e gemiti: le urla inneggianti dei demoni, quelle di orrore degli uomini; i gemiti di piacere dei mostri, quelli di dolore delle donne. E ci sono gli strilli dei bambini, perché adesso hanno capito, hanno visto.
La mente di Ba’al è ancora ancorata alla sua, e attraverso di essa una nuova visione si affaccia davanti agli occhi di Kira: Vilant divorata dal deserto, i vanyis ormai mendicanti o giocolieri che i demoni barattano durante i loro banchetti; Ur svuota della sua forza, il vento che ulula tra le intercapedini della pietra e i moribondi che vengono costretti a strisciare su per la Via Perpetua, con i demoni che fustigano, e lacerano, e bruciano la loro pelle; Lirth saccheggiata e derisa, Narsek incatenato nello stesso tempo che lui gli ha ordinato di depredare. Vede l’est, la sua casa: i frutteti dati alle fiamme e i tronchi inscuriti, donne impiccate, bambini che mangiano vermi; pecore dagli occhi gialli e staccionate usate per impalare. Vede la gente azzannarsi per un osso, bambini bastonare i cani per salvare le loro, di ossa.
«Vedi, condottiero? Manterrò la mia promessa. Vilant potrà giocare con le sue lame, il kesh bearsi nel tempio del suo dio. E gli uomini e le donne avranno ciò che vogliono. Basterà che se lo prendano.» Ride, e ride. Allarga le braccia e ride.
Kira alza lo sguardo. Non ha più voce, non ha più ragione di vivere; eppure respira e pensa e capisce che l’avvento della nuova alba promessa è infine giunto, e lui la vedrà sorgere ancora e ancora, mentre il vento sarà solcato dalle urla dei moribondi e i suoni della vita saranno i lamenti della sua gente e il sangue che, silenzioso, scorrerà mortalmente dalla sua anima dannata.




 
N.B.

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