L'ultima corsa

di Dark Swan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01/10/2015 - CAPITOLO 1 ***
Capitolo 2: *** 01/10/2015 - CAPITOLO 2 ***
Capitolo 3: *** 01/10/2015 - CAPITOLO 3 ***
Capitolo 4: *** 01/10/2015 - CAPITOLO 4 ***
Capitolo 5: *** 01/10/2015 - CAPITOLO 5 ***
Capitolo 6: *** 02/10/2015 - CAPITOLO 1 ***



Capitolo 1
*** 01/10/2015 - CAPITOLO 1 ***


Il Professor Montecchi sedeva svogliatamente in un banco qualunque di un'aula vuota.
Si era accomodato lì poiché quella settimana non si era presentato nessun studente a ricevimento. Forse perché i corsi universitari erano appena ripresi. Bisognava dare tempo ai giovani, di questo era fermamente convinto.
Estrasse dalla borsa dei fogli stropicciati ed iniziò ad appuntare su questi numeri privi di senso.
Dopo un'intera ora spesa ad eseguire quel monotono lavoro, si alzò per guardare fuori dalla finestra.
Di colpo la vetrata di quella si colorò di rosso, il suo stesso sangue fu l'ultima cosa che vide. Ripensò a sua madre.
Lorenzo Montecchi aveva quindici anni quando, spegnendo l'unica candelina che la madre poteva permettersi di mettergli sulla torta, espresse il desiderio di trovare la sua Giulietta. 
Lorenzo sapeva che i desideri sta a noi realizzarli, ma non avendo abbastanza soldi per iniziare la sua ricerca in giro per il mondo, e conscio del fatto che la madre, col suo misero stipendio da cameriera, non avrebbe potuto fornirglieli, e che non avrebbe avuto abbastanza denaro neanche se a quei ipotetici soldi avesse aggiunto la sua stessa paga da garzone, decise, come fanno tutti i figli in difficoltà, quasi sentissero un richiamo nel sangue, di chiedere aiuto al padre. 
Così il ragazzo aspettò, pazientemente, che arrivasse il giorno del suo sedicesimo compleanno per ricevere dei soldi che il padre gli inviava annualmente. Aggiunse a quella somma dei suoi risparmi, salutò la madre e partì per l'America, promettendole che avrebbe avuto abbastanza denaro anche per un viaggio di ritorno. Ma quella sapeva che non sarebbe andata così, che sarebbe stata abbandonata dall'unico uomo che avesse mai amato in vita sua, che il figlio, che aveva cresciuto per sedici anni, la stava lasciando.
Mr. Paul avrebbe voluto cacciarlo, abbandonandolo di nuovo come aveva fatto sedici anni prima per continuare a condurre la sua vita da libertino. Quando però lo vide sulla soglia del suo costoso appartamento, e guardò in quegli occhi azzurri che erano uguali ai suoi, non poté fare altro che farlo entrare attraverso quella porta nella sua vita. 
Mr. Paul, all'anagrafe Paolo Guerra, aveva allora quarantasette anni, era fuggito in America durante la Grande Guerra. Quando Lorenzo bussò alla sua porta, si guadagnava il pane esibendosi in piccoli locali e teatri della città, vivendo della fama guadagnatasi mentre l'Europa si autodistruggeva. Dopo la guerra tornò in Italia per vedere cosa restasse della sua casa e della sua famiglia: un bel niente, soltanto macerie e polvere. Prima di tornarsene nella sua America, si lasciò andare ad un paio di bicchierini di troppo, ad una conversazione un po' troppo lunga con una avvenente cameriera, per poi ritrovarsi, qualche chilometro più in là, nella stanza di questa. 
Appena Cristina si rese conto di essere incinta, scrisse a Paolo nella speranza che lui tornasse da lei. A tale speranza Mr. Paul rispose, dopo qualche settimana, con una busta contenente del denaro ed una lettera su cui vi era la promessa di inviarne tante quanti anni avesse vissuto il bambino, in cambio, però, chiedeva di essere messo a corrente del giorno in cui la sua prole avesse visto la luce e di conservare la sua libertà di scapolo.
«Parli l'italiano?»
«Certo.»
«Meno male», a quelle parole Lorenzo abbinò un mezzo sorriso intriso di nervosismo, «Lo sai, non ti ho mai chiamato, non ti ho mai chiesto niente. Ma questa è una questione di vita o di morte...»
«The same old story!», disse con un po' di mestiere Mr. Paul.
«Cosa?», chiese Lorenzo, che non masticava neanche una parola di inglese.
«Nulla.», fu soltanto pronunciando quella parola, che Mr. Paul si rese conto di star parlando per la prima volta a suo figlio, «Dimmi pure di cosa hai bisogno.»
«Soldi, per un viaggio, devo trovare una persona.»
«Chi?»
«Non lo so.»
«Come non lo sai?»
«Devo trovare l'Amore.»
«Ah, l'Amore! Ancora con questa sciocchezza? Di questi tempi? L'Amore!» ripeté Mr. Paul ridendo, «Ma quando capirete che l'amore è qualcosa di effimero che non conta un bel niente? Tutto ciò che conta è la fama, quella sì che è eterna. I soldi, il successo, le donne. Solo se sei un uomo di successo le donne faranno la fila per te.»
«Come l'ha fatta mia madre?»
«Senti», tentò di giustificarsi con un tono quasi dispiaciuto, «Avevo più o meno la tua età, forse più più che meno, il punto è che...»
«No, no, capisco.», tagliò corto Lorenzo che di quelle parole poteva farsene ben poco, e sarebbe tornato a testa bassa a casa sua se il padre non l'avesse fermato: 
«Perché non resti con me?»
«Cosa?»
«Sei mio figlio! Voglio che resti con me! Voglio insegnarti la mia arte.»
«Ah, lo swing... No grazie, a me piace il rock.»
«No, voglio insegnarti a stare su un palco, voglio insegnarti i trucchi del mestiere, voglio farti provare cosa vuol dire guardare una platea che impazzisce per te e ti inonda di applausi. Voglio, voglio... Non voglio morire da solo, lontano dal mio unico figlio.»
«E l'hai deciso adesso?»
«Sì, l'ho capito guardandoti. Voglio che rimanga qualcosa di me quando non ci sarò più, voglio che rimanga tu e che porti avanti tutto il mio successo.»
«Senti, non so nemmeno come dovrei chiamarti... il punto è che io non sono bravo in queste cose. Sono stonato, provai anche a ballare una volta, e a quella povera ragazza sono stati pestati i piedi più volte di quanto sia possibile immaginare!»
«Almeno era carina?»
«Per niente.»
«Poco male allora.»
«Tu sei proprio uno stronzo.»
«Hai ragione, ma lascia che ti insegni.»
«A essere stronzo?»
«Ad essere immortale.»
Mr. Paul gliel'ho insegnò così bene che in pochi mesi suo figlio divenne più famoso di lui, soltanto portandoselo appresso. 
Annusando l'odore dei soldi, Lorenzo dimenticò il profumo della madre: le sue telefonate si fecero sempre più sporadiche, fino a scomparire del tutto. Una notte in cui non riusciva a dormire, continuamente pungolato dai sensi di colpa per la sua infelice condotta, decise di chiamarla, ma dal vecchio mondo non rispose nessuno. Preoccupato ed oramai straricco decise di farle una sorpresa tornando casa. Bussò alla sua porta, con l'entusiasmo di un bambino che esce dall'asilo solo per abbracciare la mamma che gli è mancata tanto, ma non aprì nessuno. Con una preoccupazione ancora maggiore di quella che gli aveva fatto attraversare l'oceano, andò nel locale dove lavorava la madre. Non appena varcò la soglia di quel posto, gli venne all'orecchio un mormorio indistinto di sospiri, a cui pose fine un'amica della madre che gli si avvicinò e, tra le lacrime, gli disse che l'avevano trovata pochi giorni prima in una pozza di sangue. Lorenzo, impietrito, non sapeva come reagire alla notizia. Pochi giorni prima? In una pozza di sangue? Cosa significava? Che stava dicendo quella donna? Si gettò fuori da quel locale che gli stava togliendo l'aria, e si ritrovò su una strada che oramai non riconosceva più; chiamò il padre e soltanto quando ne udì la voce realizzò cosa fosse accaduto.
«Ehi, che succede? Lorenzo? Pronto?»
Fissando il vuoto, Lorenzo non trovava le parole per rispondere, "Mia madre è morta", pensò, e trascinato a fondo da quel pensiero, annegò in un mare di lacrime. Trascorse le ore successive vagando per le strade di una città che non gli diceva niente, chiedendo bruscamente a chiunque incontrasse cosa fosse successo alla madre; ma non appena lo scoprì, dannò se stesso per averlo voluto sapere.
Perché quando le loro parole ti spingono verso basso, opprimendoti, soffocandoti, vorresti solo smettere di ascoltarle; faresti di tutto per fermare quelle voci. Eppure non riesci a zittirle, e inizi a piangere, a gridare ma quelle voci non se ne vanno, ti tormentano. E quando non sei abbastanza forte da ignorarle o conviverci, diventano parte di te al punto tale che non riesci più a distinguere la tua voce dalla loro. Inizi ad avere paura, pensi che nulla sia rimediabile, ma ti fai forza poiché sei ancora abbastanza lucida per ragionare, ma poi succede di nuovo, e continua a ripetersi un giorno dopo l'altro. Pessime giornate non fanno altro che rincorrersi e cerchi un qualche conforto ma non c'è più il suo volto, non c'è più il suo odore per casa, non c'è più lui, e tu hai davvero bisogno di una bella giornata, ma non incontri più il suo sorriso; allora inizi a chiederti a cosa serva resistere se l'unica cosa per cui valesse la pena continuare a vivere se ne è andata, è scomparsa, si è dimentica di te, ti ha abbandona. Perché continuare ad aspettare una chiamata che sai già che non arriverà? Tanto lo sai che le persone sono cattive e tuo figlio non è da meno; lo sai che le persone non fanno altro che abbandonarti e lo fanno perché tu sei sbagliata. Tutti sanno controllare quelle voci, le sopportano, ne alzano il volume, lo abbassano, in pratica ci giocano, ma tu no, tu sei diversa, non funzioni e niente ti aggiusterà mai, per questo non hai più nessuno.
«Caro Lorenzo, ti ho amato più di quanto mi fosse possibile fare. Lo sai, la mattina in cui ricevetti la lettera di tuo padre in cielo mi sembrò di scorgere ancora una stella che era rientrata tardi la sera prima, lo presi come un buon auspicio. Lessi quella lettera pervasa dall'emozione perché quello che volevo stava finalmente accadendo: un uomo che mi amava stava per dirmi che mi avrebbe sposata e si sarebbe preso cura di me e di mio figlio, non sarei più stata sola, la mia vita sarebbe cambiata. Poi lessi e mi svegliai da un sogno per ritrovarmi in un incubo. Furono mesi difficili, pensai di non farcela, ma ce la feci e dal primo momento che ti vidi capii che saresti stato per me il calore del primo sole dopo un inverno senza fine. Eri tu il mio sogno, tu eri mio ed eri meraviglioso. Non dormire, lavorare fino a tardi, dolori e sacrifici su sacrifici non mi pesavano perché mi bastava guardare il tuo faccino per trovare un senso a quelle fatiche. Ma poi tu te ne sei andato e hai promesso di tornare, ma non sei più tornato e io non ce la faccio più a vivere così. Cosa deve fare tua madre per ricevere la tua attenzione? Uccidersi? È quello che farò. Tu per me sei già morto, e da morto mi hai ucciso. Ho sempre pensato che fossi la cosa più bella della mia vita, ma me l'hai rovinata, sei uguale a tuo padre, sei uguale a tutti gli uomini.»
Le parole successive, macchiate di sangue, si leggevano a malapena. Lorenzo per fortuna non trovò mai quella lettera, né tantomeno vide la madre in una pozza di sangue, con le vene aperte e una lametta in mano. La morte per dissanguamento di Cristina fu lenta, e lei non fece altro che piangere desiderando che tutto finisse il prima possibile. Quando capì che non sarebbe finita così presto, si alzò a fatica, e reggendosi a malapena in piedi, si accostò tremando alla cucina; intravide il suo riflesso sul fondo di una pentola posata lì per caso, poi senza la minima esitazione aprì un cassetto, estrasse un coltello e si trafisse. Il dolore fu atroce, nei suoi ultimi momenti di vita continuava a piangere, ma nessuno la sentì.
Era certa che se qualcuno l'avesse sentita lamentarsi, avrebbe iniziato ad incolparla. La colpa di Cristina fu quella di riversare la sua intera esistenza nel figlio. Colpa che identifica i genitori come gruppo sociale.
Nei giorni che seguirono il direttore del locale la chiamò più volte a casa; nella terza telefonata le annunciò che se non si sarebbe presentata, l'avrebbe licenziata. Stanco, decise di andare in persona a casa sua, almeno per riprendersi il grembiule che era solito far portare alle sue detenute a casa per lavarlo. Bussò alla porta, ma non rispose nessuno, adirato la buttò giù: la vide, e capì che c'era molto più di un grembiule da lavare.
Fu il suo sangue l'ultimo pensiero del Professor Montecchi.

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Capitolo 2
*** 01/10/2015 - CAPITOLO 2 ***


Gli anni passano, e i mesi ritornano. Accasciati su un foglio, su un ricordo, s'una preoccupazione. Un chiacchiericcio indistinto di voci intorno coprivano l'attesa. Si faceva a gara a chi era più strano in quell'università, la ragazza nella felpa accanto china sul telefono o lei piegata su un'illusione?
Il sapore amaro del caffè che aveva appena bevuto le lasciò addosso la sensazione del fallimento; voleva studiare il significato che si nascondeva dentro al destino altrui perché non riusciva a comprenderne il proprio.
"Sei mesi" recitava l'annuncio della casa editrice che stava leggendo. 
"Sei mesi e se il vostro lavoro risulterà degno di interesse, riceverete risposta."
Sei mesi, centottanta miseri giorni, che Elena Rossi iniziò a contare ad uno ad uno.
Non riusciva a capacitarsi di aver inviato il suo manoscritto ad un muto indirizzo di posta elettronica. 
Sei mesi erano troppi per aspettare una risposta che forse non sarebbe neanche arrivata.
Aspettare era la parte difficile. Scrivere un libro, invece, non lo era stato. Ad Elena bastò scrivere ciò che tutti volevano sentirsi dire: l'amore esiste, Dio pure; non siete soli, la vostra vita ha un senso.
La ragazza sapeva che le bugie si vendevano meglio delle verità e che erano anche più brevi da appuntare.
Avrebbe voluto essere come la protagonista del suo libro, ma la distanza tra le due era così grande che finì per rendere quella simile a lei.
Elena le sembrava un bel nome da dare ad un personaggio di finizione.
Per scrivere quel suo romanzo iniziò ad osservare la gente per strada, e camminando, appuntava fatti e personaggi nella sua testa. Ma le sfuggiva sempre qualcosa, il suo occhio non sembrava in grado di fermare nulla. Al punto tale che se da un semaforo fosse spuntata una luce blu, avrebbe continuato a camminare con la testa tra le nuvole e il cuore all'inferno, dannata per un peccato che non aveva nemmeno commesso. Camminava perdendosi, in esilio dalla sue certezze. È così facile lasciarsi, pensava, mandare a puttane tutti quei progetti, cancellare di colpo tutti quei disegni di una sbiadita felicità; tenersi è difficile, aggrapparsi ad un sorriso, reggersi ad una corda che non sopporta più il tuo peso; rinunciare è impossibile, ma era tutto ciò che avrebbe dovuto fare.
Avrebbe dovuto continuare a scrivere soltanto per se stessa e non avere la presunzione di pensare che a qualcuno potesse piacere ciò che lei aveva scritto. Non avrebbe dovuto sottrarre il ragazzo alla protagonista; se la immaginava così arrabbiata da uscire dalla pagina per prenderla a pugni. Ma la morte del ragazzo che amava era stata l'unica cosa realistica nel mare di sciocchezze in cui galleggiavano le parole di quello stupido romanzo. Le storie finiscono male Elena, le avrebbe detto, non puoi pretendere di abitare il paradiso se dentro hai l'inferno.
La pioggia si infrangeva rumorosamente contro la finestra dell'aula in cui si era accomodata. 
La testa china sul telefono, le dita che accarezzavano con incertezza lo schermo per paura di alterale il numero di parole che stava fissando.
Le consumò tutte prima di averci capito qualcosa.
Per quel vizio di dare un nome a ciò che non si conosce, la ragazza definì quello un brutto periodo. Era un brutto periodo perché non riusciva a tenersi occupata in quell'attesa infernale.
Al cadere dell'ora della lezione di Letterature Comparate, l'aula venne assalita da quella che Elena chiamava ‘la generazione dal pollice piegato'. Aveva coniato questa formula osservando il comportamento dei suoi giovani colleghi: stavano tutti attaccati al telefono, come se stessero aspettando la risposta ad una domanda che non avevano il coraggio di fare, quella scena, quella giovinezza che si faceva vecchia a forza di aspettare le straziava il cuore. Era fermamente convinta che le generazioni future sarebbero nate con il pollice piegato a causa di quell'assurda abitudine dei padri.
Dopo mezz'ora di attesa, tutti si convinsero che il professor Montecchi avesse dato buca, e l'aula iniziò a svuotarsi lentamente; Elena, dal canto suo, si convinse che non avrebbe mai ricevuto risposta dalla casa editrice che aveva contattato. Che cosa stupida pensare che un po' di inchiostro macchiando della carta strappata alla natura potesse dare un senso alla sua esistenza. 
Quante ore sprecate, buone a non far nulla di diverso. Quante speranze distorte, quante carezze all'unica cosa che le era cara in quei momenti: una pagina, chiara, silenziosa. Non sapeva più che dirsi, e non capiva per quale motivo dovesse continuare a dirsi qualcosa. Ogni giorno a cui sopravviveva, era un giorno in più che allungava la sua agonia. Andare alla ricerca di parole che potessero piacere a qualcuno, e non trovare niente. Scriveva mezza pagina e ne era contenta, solo ed esclusivamente perché la sua vita era così povera di felicità, che amava illudersi che qualche rigo in più potesse aiutarla a dispiegare pian piano il disegno della sua esistenza. E con che coraggio si sarebbe detta che una volta svelato quello sarebbe svanita anche lei con esso? Voleva semplicemente smetterla di aggiungere pezzi; voleva strappare tutte quelle pagine e cancellare se stessa insieme a loro.
Iniziò ad arredare il tunnel in cui si trovava usando la luce che vedeva in fondo a questo per leggere meglio le parole con cui si stava stordendo.
La sua mano si rifiutò di scrivere parole che non avrebbe letto mai nessuno; e perse l'unica cosa che le era rimasta. Non era mai riuscita a portare a compimento nulla, senza mai a lasciarsi la soddisfazione di riempirsi la bocca con frasi di senso compiuto.
Capì che la letteratura avrebbe fatto per sempre parte della sua vita quando le fu raccontato di un tale che si era perso perdendo la donna che amava, e che passando per l'inferno alla fine la ritrovò in paradiso più bella e più radiosa che mai. Stupide altre materie che le sottraevano tempo per leggere. Stupidi rumori, stupide chiamate e stupidi caffè. Le uniche persone che valeva la pena di incontrare stavano incollate nelle pagine dei libri. Emma Bovary esisteva, il signor Heathcliff era fatto di carne ed ossa e Zeno Cosini se ne stava ancora a fumare la sua ultima sigaretta.
Di colpo, fuori la porta, si udì infrangersi qualcosa in un gran trambusto di grida ed esasperazione. Elena non si mosse, il virus che aveva nella testa le impediva di agire.
Qualcuno però si era mosso ed era andato a cercare il professore, e del professore aveva trovato ben poco.
L'università fu evacuata ed arrivarono degli agenti del dipartimento di polizia più vicino.

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Capitolo 3
*** 01/10/2015 - CAPITOLO 3 ***


L'unica condizione peggiore dell'assenza, era quella dell'attesa. Ne era convinta. 
Alta, mora, spalla larghe, sguardo travagliato. Si trascinava dietro il peso della propria esistenza, e nel farlo, sembrava che si affaticasse ad ogni passo un po' di più. Un passo maledetto, come se qualche stregone l'avesse indotta a bere un infuso promettendole invincibilità, e credergli le avesse avvelenato l'anima.
L'estate era ufficialmente finita, e di tempo non se ne poteva più sprecare così apertamente, bisognava tornare a farlo in segreto, tra uno sbadiglio e l'altro, tra un domani ed un mai. 
Con gli anni le estati si allungano. Ventott'estati, una più lunga dell'altra, trascorse dentro ad un completo a sudare, mentre gli altri se ne stavano stesi al sole a contare i propri errori. 
Chissà su quale spiaggia caraibica a godersi qualcosa che Alessandra non aveva mai conosciuto.
Ventott'estati e una bugia troppo difficile da ricordare. 
Non aveva mai capito il senso della sua esistenza, ma era convinta che dovesse essere qualcosa di diverso dal contare le ore che le mancavano e decidere come sprecarle. Altro dall'essere un disco rotto, un torpore strascinato, una parola che non prendeva senso. 
Soffriva nel fingere sorrisi sorseggiando un caffè, o interesse aspettando il momento giusto per riattaccare il telefono, anche per questo motivo scelse quel tipo di lavoro, convinta che le risposte si cercassero soltanto in compagnia di se stessi.
«Cosa abbiamo qui?», chiese un giovane uomo ben vestito, insofferente alla cravatta che non era abituato ad indossare.
«Lorenzo Montecchi, quarantatré anni, scapolo. Professore di Letterature Comparate, ben voluto dai suoi studenti.», rispose puntualmente il medico legale.
«Chi l'ha trovato?»
«Il custode del piano. L'avevano sollecitato a cercare il professore dopo che non si era presentato a lezione.»
«Ho bisogno di parlarci.»
«Faccia pure.»
«Ah, un'altra domanda», aggiunse Manuel, «Da quante ore è morto?
«Approssimativamente da due ore.»
«Quindi tra le 9 e le 11?»
Il medico fece un cenno poco convinto con il capo.
«E nessuno ha sentito niente?», insisteva Manuel.
Il medico aprì le braccia nascondendo uno sbuffo in un sospiro.
L'aspirante Detective si avvicinò al custode del piano, richiedendogli le generalità.
«Quindi ci sono telecamere soltanto all'ingresso?»
«Certo, ma...»
«Ma cosa?»
«Questa facoltà è frequentata da centinaia di studenti, per non parlare degli addetti ai lavori, delle persone esterne... », il custode iniziò a sospirare come se stesse per confessare una colpa, «Potrebbe essere stato chiunque.»
«Controllate il corpo», ordinò Manuel, «Cercate tracce di DNA, forse c'è stata una colluttazione.»
«A me, sembra una esecuzione. Guardate il sangue sul vetro e la postura del cadavere, scommetto che è stato sparato dalla porta, un colpo preciso...», e si abbassò ad osservare il foro.
«Buongiorno detective!»
«E tu chi saresti?», chiese Alessandra non allontanandosi dal corpo ancora fumante.
«Manuel piacere», e tese la mano ottenendo in risposta soltanto una guardataccia, «E' il mio primo giorno di servizio, sono la sua nuova recluta.»
«Perché l'altra che fine ha fatto?»
«Come che fine ha fatto? È stata promossa.», disse euforico.
Capelli corti, ben curati e chiari come sembrava essere il suo umore, lineamenti perfetti, pettorali pronunciati, addome piatto in un completo blu con una stupida cravatta viola un po' allentata.
Tutto sommato poteva andare.
«Chiedi in giro se qualcuno ha visto qualcosa e torna a farmi rapporto.»
Manuel obbedì volando via in un battito di ciglia.
«Grazie, adesso ce ne occupiamo noi.», disse Alessandra alla scientifica.
«Cosa? Avete bisogno di noi per analizzare il corpo.»
«Io non ho bisogno di un bel niente, siete liberi di andare.»
Il team di medici non se lo fece dire due volte. Ad Alessandra non serviva un'autopsia, aveva ben chiare le dinamiche dell'omicidio. Le serviva un movente, l'arma del delitto e l'assassino; tutte cose non presenti in quella stanza. Curiosò nella borsa del Professore: mancava il cellulare e non c'era traccia neanche di un portatile; c'erano soltanto alcuni compiti corretti per metà; degli appunti di una lezione che avrebbe dovuto tenere in mattinata e un elenco di trenta studenti iscritti al corso.
Il ragazzo della scientifica tornò nello studio affannando:
«Ah dimenticavo», disse col fiato corto alla Detective, «Abbiamo trovato questo sul corpo.»
Alessandra avvicinò quel foglietto intriso di sangue agli occhi e lesse:
«Ah, se questa mia troppo solida carne potesse sciogliersi in rugiada! O se Dio non si fosse opposto al suicidio... Morto appena da due mesi... E di lei così innamorato da non permettere nemmeno al vento di sfiorarle troppo violentemente il viso. E lei che s'appoggiava a lui e più e più ne voleva. Un mese... oh, donna come sei debole! Un mese! Prima ancora che si consumassero le suola delle scarpe con cui ella aveva seguito il funerale del mio povero padre! Perfino una bestia avrebbe pianto più a lungo! Un mese, prima ancora che il sale di quelle lacrime abbia cessato di gonfiarle gli occhi s'è risposata con mio zio. Maledetta fretta di correre tra incestuose lenzuola. Ma io devo tener a freno la lingua!»
Alzò lo sguardo attonita, pensando a cosa mai potessero significare quelle parole; guardò quella finestra sporca di sangue; ne sarebbe battuta di pioggia a lavarle prima che ne fosse venuta a capo.
Diede l'ordine a Manuel di visionare le riprese di quella mattina e divise con il ragazzo gli studenti da interrogare citati su quel foglio.

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Capitolo 4
*** 01/10/2015 - CAPITOLO 4 ***


La fresca aria autunnale, quella che stava avvelenando i polmoni ad Elena, lo rifocillava. Sorrideva, di un sorriso senz'altro più luminoso di quel cielo che guardava distratto quelle anime dall'alto, troppo impegnato a farsi scuro, a confonderci i sensi con piogge fuori luogo. Eppure lui sorrideva, e il bel tempo lo trovava finalmente nel cuore, al punto tale che quando una raffica di vento lo colpiva all'improvviso aveva come unico effetto quello di spingerlo più in alto.
Corpi destinati a morire, felici di essere sbattuti di qua e di là da un soffio instabile purché spinti verso altri corpi.
Quel pomeriggio continuò a piovere, non faceva altro da un po', se un bambino fosse nato in quei giorni avrebbe creduto che non fosse mai esistito il sole.
E Federico, con il suo sorriso più chiaro del giorno, tornò a casa dopo una notte spesa nel letto di qualcun altro. Quel lavoro notturno gli pesava sulle gambe, ma gli alleggeriva il cuore. Sereno, leggero, Botticelli avrebbe cambiato il titolo del suo quadro a vederlo.
Eppure com'era stonata quella felicità, quel sorriso in mezzo al niente. E come era avido di parole afferrate per caso, se ne è appropriava come se fossero destinate soltanto a lui, per renderlo più bello, per farlo restare stampato sulla faccia di chi era di nuovo felice dopo anni troppo lunghi per essere contati.
Ma a volte, nell'afferrarle, le parole si stringono troppo, si finisce per soffocarle, per spezzarle.
Sarebbe meglio lasciarle vibrare per aria o farle scivolare al suolo senza chinarci poi a raccoglierle, perché le parole che salviamo, quelle che compongono le frasi che ci ripetiamo tutto il giorno, per tutta la vita, quelle parole che non scorderemmo nemmeno se fossimo costretti a rinascere di nuovo, ci uccidono.
«Hey!», con sua sorpresa Federico trovò Elena già a casa, «Che ci fai qui?»
La ragazza alzò la testa agli addominali del ragazzo, aspettò che l'amico si sedesse per guardarlo in faccia. 
«M'hanno ammazzato il professore.»
«Cosa?»
«Hanno ucciso il mio professore.»
«Ma dici sul serio?»
Fuori, la pioggia, col suo sordo rumore, rattristiva il verde che colpiva.
L'intero sistema era stato inventato da qualcuno che voleva soltanto farle perdere tempo.
Anni ed anni a studiare, a recensirsi la vita per farla sembrare un po' più bella, ed ora non era altro che una causa persa; persa dietro ad uno scrittoio ad imbrattar pagine che non erano piaciute a nessuno.
Elena aveva la testa completamente da un'altra parte in quel periodo.
Il peso del tempo, la sua insufficienza. La voglia di vivere, il dolore per non riuscirci. Il dovere di stare bene, l'impossibilità di farlo. La speranza che moriva asfissiata, il cuore avvelenato dal presentimento dell'insuccesso, l'addio soffocato d'un senso.
La ragazza smise di fare l'analisi logica ai suoi pensieri soltanto quando si accorse che il campanello del suo appartamento suonava da un po'.
Alessandra notò dapprima quegli occhi di un marrone così intenso da sembrare impregnati di sangue; poi i capelli dello stesso colore. Doveva essere una stregoneria perché quel sangue stava facendo ribollire il suo.
La guardò. Cos'è uno sguardo per il cuore dell'uomo? Il più delle volte non è altro che una rima sbagliata che suona bene all'interno di un componimento perfetto; altre, un violino che stride in un'orchestra malandata; una relazione tenuta insieme con la colla.
«Salve», esordì la Detective, «Sto cercando Elena Rossi.»
Un profilo degno di un applauso, pensò Elena guardandola. Ed il grigio della sua anima iniziò a schiarirsi, schizzando spruzzi di celeste sulla tavolozza delle sue emozioni; piccoli raggi di sole filtravano attraverso le nuvole e si andavano a posare su quella che stava guardando.
Vi è mai successo di guardare qualcosa senza riuscire a mettere a fuoco ciò che avete davanti, e poi, all'improvviso, riuscire a focalizzarvi su un punto preciso e tranquillizzarvi, consapevoli di non star perdendo la vista? Ecco, questo è ciò che successe ad Elena. All'improvviso tutto divenne chiaro e lei, ovviamente, non capì più niente.
«Sono io.»
«Bene, dovrei farle alcune domande sul professor Montecchi.»
«Si accomodi.», e con lo stesso sospiro con il quale pronunciò quelle parole chiuse la porta alle sue spalle.
«Lei chi è?», chiese la Detective a Federico.
«Federico Rossi, per servirla.»
Alessandra ingoiò una grassa risata.
«Siete fratelli?»
«No», rispose il ragazzo, «Siamo cresciuti nello stesso orfanotrofio.»
«Ah capisco», e si accomodò sul divano, «E vivete da soli?»
«Sì, cioè no, c'è anche un'altra nostra amica Maria Rossi.»
Dopo aver impaurito il ragazzo, Alessandra desiderava venire al dunque, ma Elena se ne stava all'in piedi con le braccia conserte appoggiata al tavolo. La guardò una seconda volta per sollecitarla a sedersi.
«Posso offrirle qualcosa?», continuò in tono servizievole Federico.
«Un caffè, magari.», poi guardando Elena: «Guarda che neanche i colpevoli si mostrano così poco collaborativi.»
Elena avrebbe voluto un foglio per ragionarci su, per stillare una lista di reazioni possibili e poi scegliere quella più appropriata alla situazione. Ma non lo aveva, e sulla superficie sabbiosa della sua mente non riusciva a scrivere una frase allineandola correttamente: si collocavano tutte in maniera sinusoidale su quelle che registravano il battito del suo cuore. Prese un respiro profondo, ma non le bastò; ne prese un altro, e con un terzo si andò a sedere di fronte all'investigatrice:

«Abbiamo trovato il suo nome e quello di altri ventinove studenti su una lista tra i documenti del professore.»
«La lista degli iscritti al corso?»
«Sì... mi potrebbe dire perché ha scelto proprio il corso del professore?»
«Beh, si dice in giro che sia uno tranquillo... che fosse uno tranquillo. Poi il programma è davvero bello, era. "Shakespeare e il teatro."»
Ad Alessandra gelò il sangue.
«Come mai quest'argomento, non è inerente alla Letteratura Inglese?»
«No, il corso prevedeva l'analisi comparatistica di alcuni drammi di Shakespeare con altri, soprattutto spagnoli.»
«E ricorda qualcuno di questi drammi?»
«Beh, i più noti, il Macbeth, l'Amleto...»
Alessandra questa proprio non se l'aspettava.
«Va tutto bene?», chiese Elena mentre Federico posava sul tavolo due tazze fumanti di un caffè nero come il cielo in cui si rispecchiavano i pensieri dell'investigatrice, la quale iniziò a sorseggiarlo soltanto per fingere indifferenza.
«C'è qualcosa che dovrei sapere?», chiese Elena alla quale quel caffè parve un poco più amaro del solito.
«Nulla», rispose Alessandra freddandosi come quella tazza che reggeva.
Ringraziò politicamente i due ragazzi e lasciò loro il suo numero con la preghiera di chiamarla se gli venisse in mente qualcosa di utile.
Diede loro le spalle, mostrandogli i lunghi capelli scuri che le cadevano sulle spalle. 
Erano mossi, come lo era stata tutta la sua vita.
«Però!», commentò Federico non appena ebbe chiuso la porta.
Elena abbozzò un sorriso, ma in quel momento nello stomaco, al posto delle solite farfalle, le volava uno pterodattilo, che sentiva estinguersi man mano che lo stomaco si restringeva. 
Ali che si aprivano ogni volta più grandi in uno spazio sempre più piccolo.

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Capitolo 5
*** 01/10/2015 - CAPITOLO 5 ***


Una solo giro di chiave era quanto Elena Rossi reputasse necessario a salvaguardare il suo appartamento e tutti i beni in esso contenuti; di fronte alla porta di casa però, si accorse che qualche ora prima aveva dimenticato di compiere quel gesto abituale, ragion per cui le bastò infilare la chiave nella serratura per ritrovarsi di nuovo, tutta da sola, immersa nel tanto agognato silenzio.
Rientrata da una serata di intenso lavoro, buttò la borsa sul tavolo e il giubbotto di pelle sul divano; si levò a volo le scarpe e analogamente alla borsa e al giubbotto buttò se stessa sul letto. Quella notte la ragazza provò tutta l'angoscia di un sonno che non viene a chiuderti gli occhi. La prima volta che li aprì, il cellulare indicava le tre, era rincasata poco dopo l'una, possibile che fossero passate soltanto due ore? Respirò, si disse che avrebbe dovuto spogliarsi e mettersi comoda per riuscire a dormire, lo fece ed iniziò a respirare ad intervalli regolari. La seconda volta che riaprì gli occhi erano le cinque, "E' impossibile svegliarsi precisamente ogni due ore", pensò; andò in cucina a prendersi un goccetto di rum per conciliare il sonno, le piaceva darsi arie da pirata, ma neanche quello le fu d'aiuto. All'angoscia subentrò il peso di una giornata che non finiva.
Alle cinque e mezzo, disperata, con i nervi eccitati come se avesse appena bevuto tre caffè e non mezza bottiglia di Rum, decise, per intrattenersi e per evitare di pensare alla voragine in cui stava precipitando la sua vita, di mettersi a leggere. 
Accese la lampada posta sullo scrittoio della sua camera, scelse a caso uno dei volumi ammassati sulla scrivania, "Santo cielo," pensò, "sono le cinque e mezzo, dovrei leggere la bibbia per riuscire a prendere sonno."
La scelta cadde, casualmente, su un volume datato 2002 che Elena aveva comprato in un mercatino, non ricordava precisamente dove; oltre alla provenienza, aveva dimenticato anche di leggerlo. Il volume, ben rilegato, forse per questo acquistato dalla ragazza, portava sulla copertina il titolo Recita; in sostanza era un romanzetto da quattro lire, che presentava il solito schema trito e ritrito della coppia di amanti infelici, separati dal destino, che dopo varie peripezie riusciva a ricongiungersi. Ma oramai nemmeno più nei libri che leggeva c'era un lieto fine; da qualche anno questi si chiudevano quasi tutti con un finale sospeso che non faceva capire nulla al lettore, il quale giustamente s'arrabbiava pensando a quanto tempo aveva sprecato, quante energie, rivelatesi poi futili, aveva speso per gioire delle vicende, avventure o disavventure, dei protagonisti, per poi essere privato, all'apice dell'aspettative, di quel momento in cui, ritrovandosi alla fine di una storia, alla fine di un'esperienza che poteva essergli piaciuta o meno, non gli veniva permesso di ‘salutare' il romanzo con un sorriso, ma con un'espressione da imbecille, con l'espressione di un idiota che non ha capito nulla, insoddisfatto, esterrefatto, come deve essere l'espressione di una persona nel momento in cui sta morendo. 
Ma quale favilla al Sole sarebbe andata a dire, se avesse potuto, a Foscolo. 
Elena si stancò velocemente di quella lettura; ma come spesso accade quando leggiamo, anche dal prodotto più scadente, riusciamo, quasi sempre, ad estrapolare qualcosa di piacevole. La ragazza fu colpita da alcune frasi di François, lo sfortunato amante-attore, il protagonista insomma, che poteva vedere la sua bella Marie soltanto sulla scena, in quanto già promessa ad un altro uomo.
«Farsi conoscere da qualcuno è seriamente pericoloso, per quanto siamo realmente imperfetti e imperfettamente reali. Gettare via la maschera che ci affligge, contando quanti personaggi abbiamo impersonato. La stanchezza che ti porta la scena...»
"Ma perché comprai questo libro? Chi è l'autore? Dove mi trovavo? E se non fosse mio?"
Il mistero non si risolse, e lei si stufò di assillarsi con altre domande; erano quasi le sette meno venti, oramai la giornata poteva iniziare, e lei poteva farsi la doccia, bere il primo caffè del mattino ed uscire.

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Capitolo 6
*** 02/10/2015 - CAPITOLO 1 ***


L'arrivo del mese di Ottobre è considerato da molti un sollievo: il caldo scompare e fa posto all'odore della pioggia che s'intreccia a quello della pelle che può finalmente nascondersi dopo mesi passati in bella vista.
Ma a guardarlo bene in faccia, questo mese, non serve a nulla. 
Ottobre si ritrova lì, con le sue incertezze, a metà strada tra l'estate e l'inverno non sapendo da che parte andare. È un mese insignificante. Deve essere terribile nascere ad Ottobre; sposarsi ad Ottobre; morire ad Ottobre.
Alle otto di mattina Maria Rossi, una barista senza peli sulla lingua con un diploma in ragioneria, era sveglia già da trenta minuti. Strano, era solita dormire fino a tardi visto che il suo turno a volte si allungava anche fino alle quattro.
Guidò prudentemente fino al supermercato, scansandosi i pedoni che cercavano di investirla. Si mimetizzò bene tra la massa di casalinghe disperate in tuta che, correndo da uno scaffale all'altro, cercavano di accaparrarsi l'ultimo prodotto in offerta.
Notò che i limoni costavano un occhio della testa; e non riuscì a spiegarsi come qualcosa di così amaro costasse così tanto.
Il giubbotto di pelle lo lasciò slacciato, scelta stupida. Se solo fosse andata verso qualcosa. Come si fa a rimanere fermi per tutta la vita? Di ventiquattro anni si era allungata la sua e di questi quanti ne aveva vissuti? Elena fermò la moto in una strada a cui lato si ergeva uno spesso muro; ne percorse tutto il perimetro ed entrò per un cancello mezzo arrugginito. L'erba che calpestava era interrotta da lastre di marmo quadrate sopra le quali erano incisi nomi di persone ormai dimenticate; in quel labirinto di lapidi e cappelle, con cui si facevano lucrosi affari, alla ragazza non serviva il filo di una sciatta Arianna per orientarsi: conosceva la strada a memoria. Poche volte in vita sua era riuscita ad ascoltare il rumore dei suoi stivali sull'asfalto; in quel sovraumano silenzio si avvicinò ad una tomba davanti alla quale sedeva una figura di ragazza che con quei suoi capelli chiari vivacizzava il pallido scenario in cui quelle superflue controfigure si sarebbero esibite per sempre.
«Hey.»
«Hey.»
Elena prese posto accanto a lei. Le due ragazze restarono in silenzio per un po'.
«Federico mi ha detto che ieri sono venuti gli sbirri a casa.»
«No, ma che! Una Detective sta investigando sull'omicidio di un professore. E io come un'idiota mi ero iscritta la suo corso.»
Elena rivolse lo sguardo che fino a quel momento aveva fissato del cemento al profilo di Maria: quella mattina la ragazza le sembrò un cumulo di ossa simile a quelle che giacevano sotto di loro.
«Ogni volta che la guardavo», confessò all'improvviso, «Mi chiedevo sempre come mai non m'avesse ancora lasciato... lo sai, non ci ho mai creduto in realtà.»
«A cosa?»
«Al fatto che potessi essere felice.»
Elena prese un lungo respiro pensando a cosa dire.
«E adesso cosa penseresti a guardarla?», si decise a chiederle.
«Riuscirei solo a chiederle perché l'ha fatto.»
Le parole non servivano a nulla e Elena questo lo sapeva bene.
«Secondo te è colpa mia?»
Erano tre anni che Elena stava aspettando quella domanda e non aveva ancora deciso cosa rispondere.
«No», disse non essendone sicura, «Non possiamo salvare chi non vuole essere salvato.», e dicendolo se ne convinse.
Federico camminava lungo quel muro senza toccarlo.
Si sentiva attaccato da quello stesso muro, che secoli prima era stata innalzato da qualcuno per difendersi; un freddo insieme di cemento e rimpianti lo separavano dalle sue coinquiline.
Quelle due non avevo i pensieri che aveva Federico ad ingombrare loro la mente.
Fu contro il muro di un convento, gelido come il ghiaccio, che si ritrovò ad otto anni, spinto dalla cattiveria di un parroco, che gli abbassava i pantaloni con la stessa mano con cui la domenica distribuiva l'ostia ai fedeli.
La piccola Elena, di qualche mese più grande di lui, lo vedeva spesso aggirarsi con aria imbronciata per il giardino dell'orfanotrofio di Santa Maria delle Vedove dove erano rinchiusi.
Quando gli si avvicinò, con la leggerezza con la quale i bambini fanno amicizia, questo le disse subito di stare lontana dagli uomini che le facevano male; Elena non capì, allora Federico le spiegò cosa facevano i grandi ai bambini, spaventandola a morte.
Ogni pomeriggio tornava sempre a giocare con il bel bambino dai capelli scuri e dal volto triste.
E questo le raccontava cosa gli succedeva la sera prima. Poi ognuno tornava nel proprio dormitorio.
Un giorno le mostrò dei lividi sulle braccia e sui fianchi, Elena spaventata andò a riferire tutto ad una suora. Questa con un accanimento maggiore di quello che avrebbe avuto un diavolo, fece di tutto per scoprire chi fosse il responsabile di quelle violenze; ma l'omertà dei fedeli che giuravano di non aver visto nulla di strano nel comportamento dei frati che abitavano quel luogo, e che anzi si dimostravano così misericordiosi nell'accogliere bambini in fasce lasciati sulla soglia del convento, le legò le mani.
La suora non si arrese, e trovò il modo di far intrufolare Federico nel dormitorio femminile per tenerlo a sicuro. A Federico bastò qualche cioccolata calda e qualche giocattolo per capire che il mondo fosse abitato anche da persone buone e che quella donna ne facesse parte. 
La suora riuscì a nascondere il ragazzo ogni notte nella sua cella per cinque lunghi anni.
Poi tentò di spiegare a Federico come accettare serenamente l'accaduto; un'accettazione cristiana, perché la suora credeva più in Dio che in Freud, la quale avrebbe avuto come tappa finale il perdono concesso al prete.
Federico le disse di non capire cosa stesse dicendo; la suora allora fu felice di intuire che il ragazzo avesse rimosso il trauma subìto e continuò a tenerselo ogni notte fra le braccia finché il ragazzo non compì diciotto anni.
Prima di abbandonare il convento, Federico decise di recarsi nel luogo in cui mancava da dieci anni, dopo i Vespri per essere sicuro di trovare il parroco. 
Il prete, sedeva, leggendo la bibbia, quieto, chiuso nel suo scrittoio; alla vista di Elena e Federico che si tenevano per mano rispose con parole gentili, invitandoli a confessarsi, ripetendo parole d'elogio per il santo sacramento del matrimonio e di disprezzo per la peccaminosa moda della "fuitina". 
Nell'invitarli, pose la mano sulla spalla di Federico. Quella mano che l'aveva toccato con forza tante di quelle volte, e al tocco della quale, soltanto ora, dopo anni, Federico sentì tutto il dolore che gli aveva arrecato. Lasciò la mano di Elena ed afferrò quella del sacerdote, girandogli il polso. Lo sbattete contro la scrivania, colpendolo ripetutamente. Si accanì contro quelle mani chiudendole nei cassetti e negli armadietti che erano lì vicino. Poi passò alle parti intime. Non si distinguevano gli sputi dai calci. L'anziano uomo non sarebbe riuscito a contrastare l'ira di Federico nemmeno se l'avesse sentita arrivare dieci anni prima.
Il ragazzo lo guardava contorcersi per terra mentre perdeva sangue, completamente in balia delle sue di mani adesso, ma non lo sfiorò nemmeno per un secondo l'idea di fargli patire quello che aveva subìto lui. 
Elena se ne stava a guardare compiaciuta il pestaggio; non voleva e non avrebbe potuto fermare il ragazzo. Quando capì che questo non si sarebbe fermato da solo, gli si gettò addosso, conscia del fatto che se Federico non si fosse appropriato di se stesso in quel momento, si sarebbe perso per sempre.
Gli asciugò la fronte con un fazzoletto e con lo stesso le mani che gli fece lavare nel contenitore dell'acqua santa posto all'ingresso della sacrestia. Rimase con lui tutta la notte, e gli asciugò anche le lacrime con un fazzoletto diverso. Il sacerdote non riuscì ad alzarsi se non con l'aiuto di altri frati; decise di non recarsi in ospedale, né di sporgere denuncia, e ai fedeli che gli chiedevano cosa fosse successo, rispondeva che la sera prima era venuto il diavolo in persona a visitarlo.
Camminando lungo quel muro, Federico si domandò cosa ne sarebbe stato di lui se non avesse incontrato Elena.
Andò a sedersi vicino a loro con grossi occhiali scuri già poggiati sul naso.
Maria non era mai riuscita a capire come la parola ‘futuro' pronunciata da Giulia sembrasse più bella. Sorrise. Spense quel sorriso nelle lacrime quando capì che lei a Giulia non glielo aveva potuto dare un futuro. Lacrime lievi, come quella pioggia che non smetteva di cadere; costante come il ricordo di chi non c'era più.
Negli ultimi tre anni aveva scelto con cura la sequenza delle scene da visualizzare nella sua testa, si iniziava sempre dalla prima volta che l'aveva vista: erano su una spiaggia, la sabbia alleggerisce i cuori, Maria non ricordava bene cosa ci facesse lì, tutto ciò che ricordava era il sorriso di quella ragazza così strafatta da reggersi a malapena in piedi. Di Giulia a lungo vide solo il sorriso, ne toccò solo le spalle in abbracci frettolosi; desiderò per un'infinità di tempo vedere e toccare altro. Forse se la ride il destino a realizzare i nostri sogni soltanto per distruggerli. Maria realizzò il suo di desiderio in una notte perfetta, la luce era perfetta, e l'aria, e la pelle di lei nonostante tutti quei vuoti dovuti ai piercing che portava. Maria credeva che sarebbe riuscita a riempire il vuoto che Giulia aveva al posto del cuore, e che la ragazza che amava fosse in grado di mantenere le promesse che faceva quando pronunciava quella parola che in bocca a lei pareva così bella. "Non puntare più in alto dell'altezza da cui sei disposto a cadere", lesse una volta da qualche parte. Poi, una sera, ai vuoti che era abituata a vedere ed ad amare, ne vide altri, sulle braccia. Non sarebbe bastato un esercito a fermarla, e tra le urla, oggetti che volavano portandosi appresso parole singhiozzanti, Giulia le disse che era colpa sua: Maria le mancava tanto, e lei ci era caduta soltanto una volta, gliel'avevano offerta, era pulita da anni, una volta sola non significava nulla!
Maria lasciò quella camera d'albergo e Giulia dopo quasi mezzo anno trascorso a non reggere nient'altro. Avrebbe preferito essere tradita, lasciata, dimenticata; avrebbe sopportato l'idea di essersi illusa, di essere stata ingannata, ma non quella di non essere abbastanza. Drogarsi la faceva sentire meglio di quanto riuscisse a farlo lei. Non riusciva a sopportarlo; Giulia avrebbe dovuto scegliere, ma lo aveva già fatto! E Maria glielo rinfacciava ogni volta che Giulia tornava da lei. Glielo ricordava sempre di mattina, dopo una notte passata ad ispezionare ogni centimetro della sua pelle. Solo per assicurarsi che Giulia non le mentisse, sia chiaro. La mattina dopo Maria passava ad ispezionare l'interno della sua borsa e le tasche del giubbotto. Non trovava mai nulla, quindi continuò a farsi trovare nella loro camera d'albergo ogni volta che Giulia le diceva che si sarebbero potute incontrare. 
Poi, una notte che non aveva nulla di perfetto, bagnò con lacrime silenziose il cuscino sul quale non riusciva a riposare; si rese conto che quella parola che Giulia pronunciava così bene non sarebbe mai esistita per loro e decise di dirglielo. 
Si fece trovare nel solito luogo e come un romanzo che si scrive da solo, come un murale dipinto da un cieco, le disse quello che doveva dirle, senza guardarla, nemmeno per un attimo.
Trascorse la notte seguente aspettando che si facesse giorno per tornare in quella camera d'albergo e dille che si rimangiava tutto, che anche se le cose non andavano, voleva stare soltanto con lei, se ne era accorta rinunciando a lei. Come un bambino che regge un aquilone finché la mamma non gli compra un gelato, ne piange l'assenza dopo aver placato la sua fame.
Maria aspettò che si facesse giorno. Fu quello il suo errore: da quel momento non sarebbe stata altro che l'insieme del tempo che avrebbe perso.
La cosa che le mancava di più era la possibilità di poter realizzare quella parola che pronunciata da lei sembrava così bella.

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