Revenir

di Restart
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


23 dicembre 1947;

Oxford

Per Marion passeggiare su quelle pietre era un'esperienza meravigliosa. Teneva stretta la mano di Steve che l'aiutava a non cadere o scivolare. I pantaloni erano zuppi fino a metà polpaccio, ma a lei non importava minimamente. Sapeva che di lì a qualche minuto la sua vita avrebbe preso una svolta sconvolgente. Lo sapeva da quella mattina, quando aveva ficcato le mani nelle tasche della giacca blu di Steve e lo aveva trovato. Racchiuso in una scatola antica, come una conchiglia a protezione della sua perla, c'era l'anello della famiglia Smith. Luminoso, brillante e prezioso. Steve lo custodiva da chissà quanto tempo e lei non ne sapeva niente. Ci ripensava mentre erano lì a passeggiare, mano nella mano, ad osservare le solitarie lande inglesi. Steve si guardò attorno e dopo lungo rimuginare, scelse quello come posto giusto. Si fermò sotto lo guardo falsamente stupito di Marion. La fissò negli occhi, ammirando ogni parte del suo viso abbronzato. Degli occhi scuri e dei capelli acconciati. Erano solo loro, loro e l'Inghilterra, che svolgeva il ruolo di spettatrice cupa e silenziosa. Si inginocchiò davanti a lei tenendole stretta la mano e non staccando lo sguardo dal suo volto. 
«Marion sono settimane che sto studiando questo discorso e vorrei tanto che fosse come me lo sono sempre immaginato. 
Io so che sei la mia anima gemella e che sei la donna che è stata legata a me alla nascita. Tu sei la donna con cui voglio passare ogni secondo della mia vita da oggi in poi, quella con cui voglio condividere ogni momento bello e ogni momento brutto. Ogni risata ed ogni pianto, ogni sorriso ogni lamento. Tu sei la mia prediletta, la mia dea. E io vorrei essere lo stesso per te da questo momento fino al mio ultimo respiro». Finì pulendosi gli occhi con le mani. Le lacrime abbondavano sul suo viso dolce e gentile. Marion era senza respiro. Non aveva mai sentito parole tanto gratificanti e amorevoli come quelle che gli stava dicendo Steve. Lo osservava, lacrimando, studiando ogni dettaglio di lui, e scoprendo che non c'era nulla che non amasse di quel ragazzo.

«Se tu sarai il mio Ulisse io sarò la tua Penelope.
Se tu sarai il mio Marius io sarò la tua Cosette
Se tu sarai il mio Heathcliff io sarò la tua Catherine, senza morire però» entrambi sorrisero, prima che Steve facesse scivolare l'anello al sottile dito di Marion.
«Ti amo»
«Ti amo».

*

Bordeaux, Francia.
Camera 118 dell'ospedale cittadino.

Era da solo in quella fredda stanza ad osservare le pareti bianche, aspettando che qualcuno entrasse a fargli visita. Erano tre anni che era rinchiuso in quel buco e la notte aveva iniziato a sognarsi il suo paesello. A sognarsi quando era piccolo e giocava con i sassi sulla riva della Senna insieme alla bambina dai capelli neri. Avrebbe pagato tutti i franchi che c'erano sul suo esiguo conto in banca pur di tornare là, ad ammirare il bellissimo e colorato paesaggio. Il suo paese. La sua vera vita. Non quella che aveva distrutto la guerra con i suoi orrori e i dolori che gli aveva arrecato. E pensava a sua sorella Cosette, che si era ritrovata a morire con un foro nella pancia; un regalino tedesco. E ripensò a quella rabbia che lo aveva cinto dopo aver visto il corpo delicato della donna afflosciarsi a terra come un fazzoletto bagnato. Quella rabbia che gli aveva provocato tutto quel periodo in ospedale, senza che nessuno mai venisse a trovarlo.

Aveva fatto amicizia con una suora, che di una suora aveva poco, a partire dalla verginità, che gli portava il pranzo tutti i giorni. Mentre mangiava gli faceva compagnia raccontandogli di tutto: di come il mondo fosse cambiato, di come l'Europa stesse rinascendo dalla cenere e di come fosse bella Parigi, dove andava un fine settimana sì e uno no. Ci andava per trovare Casanova. Non quello originale, ovvio, ma solo un ragazzo che amava approfittare di tutte le belle donne che venivano ammaliate da lui, tra cui la povera sorella che si era bell'e che innamorata del birbante.

Quella mattina però era solo, solo come una cane. Si annusava l'aria natalizia fin da lì, ma a lui il Natale dava il voltastomaco. 
Girò lo sguardo verso la parete bianca alla sua destra. C'erano due quadri, due copie che la suora gli aveva portato da Parigi l'anno prima. Uno era il suo preferito: la notte stellata di Van Gogh, l'altro un Monet di cui non ricordava il nome. Fissò a lungo il giallo con cui erano state dipinte le stelle e vi trovò tante screziature. Come dentro di sé. Tante parti di un unico insieme. Gli venne da piangere ma cercò di trattenere le lacrime. Invano, inutile dirlo.

Si girò di nuovo e questa volta gli occhi erano puntati sul soffitto. Bianco come il resto delle pareti nella camera. Bianco e spoglio.

"Anche oggi depressione?" la voce squillante di Manon lo fece scuotere. Non se lo aspettava, soprattutto a quell'ora.

"Sei in anticipo. Sono sempre le undici" disse lui con voce piatta, non scostando gli occhi dal soffitto.

"Non sono qui per il pranzo, Jean" a quelle parole lui mosse la testa, con movimenti lenti e scattanti, come se avesse paura di quello che avrebbe visto. Si aspettava una schiera di dottori e infermieri pronti a portarlo in sala operatoria per l'ennesima operazione, forse quella che aspettava da secoli, quella che gli avrebbe finalmente tolto la vita per ricongiungerlo a Cosette.

Invece non fu così. Accanto alla suora c'era un ometto basso e tozzo, che teneva tra le dita callose un vecchio cappello di feltro. Se lo rigirava tra le mani con nervosismo, mentre cercava di non incontrare il bel viso di Jean. Il ragazzo dal canto suo era rimasto senza parole. Non riusciva a spiegarsi perché quell'uomo, quel parente, fosse lì.

"Zio?" sussurrò, credendo di avere davanti agli occhi un fantasma. Non era mai stato morto, ovviamente, ma lui e sua madre non si erano mai parlati, per quanto se ne ricordasse.

Alle parole del nipote, l'ometto alzò lo sguardo, come se fosse stato preso in fallo.

"Ciao Jean, come stai?" lo guardò con premura, facendosi piccolo piccolo dietro quel logoro cappello nero. Jean non seppe cosa rispondere, né con quale tono. Suo zio non c'era mai stato, ma per la prima volta, Manon a parte, qualcuno gli chiedeva come stesse.

Stava bene? Dopo tre anni inchiodato in una stanza d'ospedale? Ma neanche per sogno!

Stava male? In realtà, i dottori avevano sempre parlato di un "ottimo recupero, quasi miracoloso" negli ultimi mesi, quindi in realtà non stava né bene né male. Si trovava in quel fastidioso limbo da cui era impossibile uscirne.

Per tutta risposta alzò le spalle. Lo zio abbozzò un sorriso, un po' compiaciuto dal fatto che il nipote aveva tanta voglia di parlare quanto lui e un po' contento perché d'altra parte, Jean era uno dei pochi parenti che erano sopravvissuti alla distruzione della guerra.

Manon, da inguaribile chiacchierona, non poté sopportare a lungo la situazione, allora s'intromise:

"Tuo zio, Jean, è venuto a prenderti. I dottori ti hanno dimesso. Non sei contento?" sorrise entusiasta, guardando fisso gli occhi blu del ragazzo. Per la prima volta dopo tutto quel tempo, vedeva in lui, sebbene molto rada, un voglia di vivere che prima non aveva.

Jean non poteva crederci. Era finalmente libero. Nessuno più a vincolarlo, non più pareti bianche, disinfettante, non più infermieri, dottori, operazioni e quant'altro. Guardò lo zio che era contento almeno quanto lui. Il ciò dimostrava che, anche seppur poco, a lui ci teneva.

Manon l'aiutò a togliersi il camice, osservando silenziosa le cicatrici sul suo corpo. Erano tante e sparse, come delle dolorose stelle. Quando fu vestito, lo guardò nuovamente nel viso. Aveva paura, una paura folle di non rivederlo mai più. Di non parlare più con lui tutti i giorni, di non ridere più per la sua costante depressione, che si alleviava giorno dopo giorno, ma che lo tormentava sempre, come un'ombra scura nei suoi occhi color del mare.

Anche lui pensava alla stessa cosa. Pensava che la compagnia di Manon gli sarebbe mancata con nient'altro. E forse gli sembrò di scorgere in fondo al cuore quell'amore che aveva provato solo una volta prima d'allora

"Vieni con me Manon, ti prego. Ho bisogno di qualcuno come te, vicino a me. Qualcuno che non mi faccia desiderare di morire ogni mattina appena apro gli occhi. Per favore, vieni con me a Montereau*. Saremo vicini a Parigi, dove potrai incontrarti con Casanova tutte le volte che vorrai" la donna sorrise nell'udire quel nome. Si era dimenticata di dirlo a lui.

"Non vedo più Casanova da un anno ormai. Lui si è trasferito in Italia, a Venezia per ironia della sorte. Perciò ogni volta che vado a Parigi lo faccio perché..." si voltò verso la finestra e osservò fuori. "Non lo so nemmeno io. Vado lì, prendo una bella stanza in un albergo economico e poi sto tutti e due i giorni a gironzolare per la città. Qualche volta vado al cimitero di Montmartre a trovare la tomba dei miei genitori e di mio fratello e se è una bella giornata sto lì a parlare con le lapidi di quanto sia triste la mia vita. Qualche volta gli ho parlato anche di te, sai? Una conversazione col profondo nulla. Poi mangio brioches prima di tornare qui a Bordeaux alla solita vita. Triste, vero? Lo so, lo so, ma avevo paura ad ammetterlo a te, ai miei capi. Tanto di infermiere ce ne è a bizzeffe qua, in questo posto di merda. Quindi se non venissi più, nessuno se ne accorgerebbe" tornò a guardare Jean che la fissava curioso: "perciò d'accordo, vengo con te" Jean le sorrise dolcemente, facendo sì che la cicatrice sulla guancia si arricciasse. La donna sfiorò con il pollice la piegatura e pensò al giorno in cui era arrivato e in quella parte del viso non c'era altro che sangue. Era stata lei a ricucirgliela. Sentiva quindi che lui avrebbe sempre avuto una parte di lei con sé.

E quasi senza aspettarselo si trovò a baciarlo. Fu una cosa breve, ma abbastanza lunga per lui. Non ricordava nemmeno più l'ultima volta che aveva avuto un contatto così vicino con un essere umano. Figuriamoci un bacio.

Manon dette immediatamente le dimissioni, mettendo in un sacchettino di stoffa i franchi che le spettavano quel mese e seguì il ragazzo e l'ometto. Quest'ultimo si mise a sedere davanti al carretto di legno a comandare i cavalli, che li avrebbero condotti alla ferrovia più vicina, mentre i due giovani si sdraiarono dietro, abbracciati l'uno all'altro, ridendo delle loro disgrazie, come solamente due disperati come loro potevano fare.





 

--

*Per Montereau intendo un posto reale vicino Parigi che si chiama Montereau-Fault-Yonne. Lì c'è la confluenza tra la Senna e La Yonne. 

Angolo autrice:  questa sarà una storia leggermente diversa dalle altre, a partire dall'epoca in cui è ambientata; gli anni '50. Mi sono informata sui periodi storici che tratterò, ma se vedete qualche incongruenza, per favore segnalatelo, ve ne sarò molto grata


Alla prossima, 
Restart

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Montereau-Fault-Yonne, 19 novembre 1934
  
    Sono due i bambini sdraiati sull’erba, uno di fianco all'altro, che guardano le nuvole spostarsi leggiadre. 
     "Quella sembra un balena!" la bambina coi capelli neri sta puntando il suo indice paffuto verso il cielo che s'accennava a divenire completamente azzurro. Il bambino aprì un occhio, giusto per testare la veridicità di quello che stava dicendo l'altra. Effettivamente aveva un qualcosa che poteva somigliare ad una balena, notò, ma gli mancava a quella fierezza con cui quegli splendidi, a suo parere, animali scivolavano nell'acqua fredda del mare.
     "Non è una balena" constatò lui richiudendo l'occhio che prima aveva accennato ad aprire. Non capiva quella pazza passione dell'amica per quel gioco così noioso. Lui preferiva mille volte andare a ficcare i piedi nell'acqua gelida della Senna e contare i pesciolini che gli accarezzavano i piedi. D'accordo, non era un'attività più energetica di guardare le nuvole, ma almeno poteva essere a diretto contatto con quello che lo affascinava di più; gli animali. Passava ore ed ore a sfogliare quel vecchio manuale di biologia che si trovava nella biblioteca in cima al paese. O meglio, a lui sarebbe piaciuto andare per così tanto tempo, però gli andava bene se ci riusciva a stare venti minuti, o certe volte anche meno. Se non doveva andare a scuola, doveva aiutare lo zio nei campi; se non aiutava lo zio, doveva studiare, oppure trovarsi con l'amica del cuore. Va bene che l'ultima cosa gli andava più a genio delle altre, ma ritagliarsi un angolo e qualche minuto di solitudine ogni giorno era una delle cose che più lo aggradavano. Sospirò lievemente, tornando a osservare il cielo blu e bianco, mentre la bambina al suo fianco si era allontanata con il broncio schizzato sul suo viso delicato. Il bimbo si sentì ferito per le sue stesse parole. Girò la testa, osservando i piedi veloci della bimba farsi più lontani e capì che era il momento di raggiungerla.
     «Cosa ti è successo Memé?» le chiese ansimando per lo scatto appena fatto. Lei non si voltò neanche, continuando a camminare ma con passo più svelto. Lui non capiva perché lei facesse così, alla fine quella era solo stata una valutazione specifica, no?
     «Memé, Memé!» la chiamò ripetutamente, ma lei si ostinava a cercare di non ascoltarlo. Alla fine lui si fermò, stanco e infastidito per il suo comportamento e prese la strada di sassolini per arrivare a casa. La mamma lo stava aspettando sull'uscio di casa; sarebbe dovuto tornare un'ora prima, appena dopo la fine delle lezioni, ma non così facendo, l'aveva fatta spaventare e arrabbiare, tanto che aveva lasciato il controllo della cucina e del pranzo nelle mani di Cosette, la figlia maggiore.
     «Jean, come ti permetti di tornare a quest'ora?» sbraitò non appena lo vide arrivare al campo davanti alla porta dell'unica stanza che fungeva da cucina, salotto e camera da letto. In quell'angusta stanza ci stavano in tre. Ci stavano per modo di dire, visto che Jean non era quasi mai in casa, così come Cosette. L'unica che ne usufruiva era la madre che, essendo una sarta e un po' zoppa, raramente metteva il naso fuori dall'uscio. 
     Dietro la figura imponente sbucò il dolce viso di una bambina che si affrettava a diventare donna. Aveva profondi occhi turchesi e capelli corvini, un aspetto che secondo la madre "aveva rubato al padre" il quale da giovane doveva essere "bello da portare via il fiato" come sospirava spesso lei. Ma a quanto pare la bellezza era l'unico pregio di quell'uomo che l'aveva abbandonata dieci anni prima.                 Non era raro che un paesano nel pieno di una conversazione con la donna non ci aggiungesse un commento perfido sull'uomo che si era lasciata scappare. E quindi Nathalie era costretta a trattenere le lacrime e a ricomporsi con dignità agli occhi di tutti. In dieci aveva dimostrato agli invidiosi che lei poteva farcela egregiamente ad andare avanti e tirare su due figli.
      Cosette fissò il fratello che si avvicinava barcollando leggermente. Per lui, lei era sempre stata una seconda madre e i due avevano un invidiabile rapporto fratello-sorella. Lei gli fece cenno di stare zitto e obbedire alla madre, perché quel giorno era più irritabile del solito.
      “Dove eri finito? Maman era disperata. Continuava a parlare da sola a bassa voce, ero quasi tentata di chiamare il prete” gli tolse di dosso il giaccone scuro, troppo grande per il bambino, che loro padre aveva lasciato nell’armadio prima di scomparire e lo attaccò al gancio vicino al letto. Jean la fissava fare quei gesti così abituali che non le pesavano nemmeno. Non le dispiaceva fare le faccende domestiche e aiutare la madre. Non le dispiaceva cucinare e aiutare il fratello a fare i compiti. Adorava anche andare a scuola e sognava di poter studiare di più per andare a vivere a Parigi e fare la scrittrice.
       “Ero sul fiume con Memé. Stavamo, ehm, giocando” disse lui, abbassando ogni parola il grado di voce. Cosette lo fissò con tenerezza, accennandogli un sorriso. Lei non aveva mai avuto degli amici. Jean era l’unico amico che aveva, e lo invidiava moltissimo, perché quella che c’era tra lui e la figlia del notaio Rousseau era speciale come amicizia. Anche se non lo diceva mai ad alta voce, lei sognava che un giorno, diventati grandi, quei due si sposassero. Era sempre stata così, si dilettava a creare coppie certe volte strane, giusto per divertirsi e immaginare storie sempre diverse. Era come Emma, la protagonista di quel romanzo inglese che aveva preso in prestito dalla biblioteca paesana e di cui si era innamorata follemente. Lei era come Emma, con quell’immaginazione così fervida. 
       “Dovevi tornare a casa due ore fa, come mai te ne sei dimenticato? Tu non ti dimentichi mai di niente… E poi non le hai sentite le campane suonare? Lo sai che suonano ogni ora?” cercò nel suo repertorio di maschere quella che somigliò di più all’espressione di rimprovero e la indossò. Le sopracciglia nere e sottili si avvicinarono, dando nascita ai solchi sopra il naso e le labbra si strinsero fino quasi a diventare bianche. Ma alla vista degli occhi supplichevoli quella maschera costruita e studiata si rilassò, ritornando al dolce viso di quattordicenne.
         “Le ho sentite le campane, ovvio, ma non stavo più pensando al dovere. Memé mi ha raccontato una cosa bruttissima che io non voglio che accada” si passò la mano sudicia sul viso candido e dagli occhi azzurri cadde qualche lacrima.
         “E quale sarebbe questa cosa?” Cosette non lo aveva mai visto coì turbato come in quel momento. Si scuoteva in un pianto incontrollato e sonoro, tanto da svegliare l’attenzione della madre che aveva lasciato le pentole sul pavimento ed era accorsa a vedere cosa stava succedendo al figlio.
       “Memé va a Parigi. Ed io rimarrò quaggiù da solo, senza neanche un amico” si strinse al petto della madre e le bagnò il vestito azzurro. Nathalie guardò la figlia dubbiosa sul da farsi. Cosette aveva le labbra strette e fissava un punto vuoto della stanza. Nathalie si sentiva senza ancore; era in mare aperto. E non sapeva nuotare.
       “Ma tutti i tuoi compagni di scuola? Non ci vai d’accordo con loro?” tentò; un tentativo veramente scarso, ma l’unico che le era venuto in mente. Jean tirò su la testa per guardare meglio gli occhi neri della madre che tentava di sorridere.
      “Si, ma non sono Memé” rispose lui. Era ovvio. Nessuno poteva eguagliare Memé. Lei era solare, tenebrosa, chiacchierona e silenziosa, espansiva e chiusa. Lei era la sua luna e il suo sole. Se non c’era lei, lui si sentiva un pesce fuor d’acqua, per usare una di quelle frasi fatte che adorava usare lo Zio.
       La stanza era piombata in un fastidioso silenzio. Si sentiva il fruscio delle foglie che venivano scosse dal vento di novembre. Jean era ancora abbracciato alla vita della madre che finalmente lo riabbracciava di rimando, mandando all’aria tutta la rabbia e la frustrazione di pochi minuti prima. Cosette invece si era seduta, non riuscendo più a pensare a niente. Ancora una volta i suoi progetti erano andati in fumo. E sicuramente, pensò, non sarebbe stata la prima volta che il destino le remava contro. Alzò appena lo sguardo per vedere quello che lei, da sua madre, non aveva mai ricevuto. Amore. Si chiese se con suo padre in casa la situazione sarebbe stata diversa. Se anche lei si sarebbe sentita qualche volta la figlia prediletta.
        Se lo ricordava suo padre, lei. Si ricordava i capelli castani, morbidi, e gli occhi blu, proprio come quelli di Jean. Si ricordava il naso lungo, che gli rendeva il profilo quasi felino. Le labbra erano carnose, grandi che quando sorrideva mostrava quei denti bianchissimi che all’epoca erano piuttosto inusuali. Amava suo padre, lo amava anche se se lo ricordava a malapena. Si ricordava quando andava fuori a fumare quelle sue interminabili sigarette, con il cappello ben calcato sui capelli impomatati e i baffi, due baffi scuri che lo rendevano più vecchio di quanto non fosse.
        Lui se ne era andato con la notte. Quando il buio aveva sollevato il suo pesante telo scuro dai tetti delle case di Montereau, lui aveva preso la sua borsa di tela piena di vestiti, quelli buoni, aveva baciato la figlia sulla fronte, la compagna sulla guancia e poi aveva preso il figlioletto appena nato in braccio. Il piccolo aveva mugolato un paio di secondi, prima di crollare nuovamente in un sonno profondo. Il padre l’aveva guardato con profondo orgoglio e tristezza. In cuor suo non voleva andarsene, ma era quello che doveva fare. Strinse a sé il corpicino del figlio, per annusare per l’ultima volta il suo profumo. Qualche lacrima scivolò sul suo volto fino a bagnare la vestaglina di cotone del piccolo.
      “Mio piccolo Jean, questo è un arrivederci. Io devo tornare da mia moglie, quella moglie che ho abbandonato cinque anni fa, perché avevo incrociato gli occhi di tua madre. Ma ora devo tornare, devo tornare dai miei figli, quell’altri, che però non amo più di te e Cosette. Voi quattro e tua mamma siete l’amore della mia vita. Il sole che mi fa crescere giorno dopo giorno, che mi fa maturare. Vorrei rimanere qui. Lo voglio tanto piccolo mio. Voglio veder crescere te e tua sorella, ma non posso” aveva baciato per l’ultima volta i figli e se ne era andato che non era nemmeno l’alba. Ed era tornato nella sua famiglia, quella ricca, quella a Parigi.
       Cosette si chiese se avrebbe mai perdonato il padre per quello che aveva fatto. Se gli avrebbe perdonato l’errore, l’inciampo, la decisione di lasciarli crescere senza la figura paterna.
       Intanto, intorno a lei, la situazione era cambiata: la mamma stava preparando il pranzo, mentre Jean apparecchiava accuratamente la tavola. Si domandò per quanto tempo era rimasta a pensare al padre, ed evidentemente era passato tanto tempo. Si alzò e meccanicamente si mise a fare quello che più le piaceva fare; aiutare.
                                                                            *
       Memé stava ancora correndo sapendo bene che dietro non aveva più Jean da qualche minuto ormai. Ma continuava a correre, facendo lo slalom tra i paesani che si erano raccolti i piazza per il mercato settimanale. Si fermò solo quando fu arrivata all’elegante portone di ciliegio in fondo alla piazza. Bussò tre volte e quasi immediatamente accorse una cameriera con i capelli rossi e gli occhi neri come la pece.
       “Signorina, ma lo sa che ore sono? Sua madre si stava agitando. Oh, ma come è conciata? Ha tutto il vestito macchiato d’erba” parlò veloce, tanto veloce che la bambina non la stette nemmeno a sentire e salì le scale di fretta per andare dalla madre.
        Arrivata in cima si fermò a prendere un po’ di fiato. Aveva corso per venti minuti buoni e per una signorina come lei non era l’ideale. Ma a lei gli abiti da ricca signora le stavano stretti. Aveva sempre invidiato la vita di Jean, sempre così libero dalle regole che l’alta società aveva scelto per lei. Si passò le mani sporche di terra sul vestito bianco per renderlo più sporco per fare un dispetto alla madre, e bussò alla porta della camera di quest’ultima.
        Claudine Rousseau, nata Olivier, era una donna tutta d’un pezzo. In casa sua si stava alle sue regole ed era vietato sgarrare. Anche il marito era assoggettato al suo potere. Era lei a gestire la casa, e i soldi. Sapeva risparmiare, glielo aveva insegnato la madre quando alla morte del padre era stata costretta a vendere tutta la roba più buona che aveva e trasferirsi da una bella, ma piccola casa a Parigi in quel paese vicino alla capitale e tirare avanti con quello che poteva. Perciò teneva da parte quasi la metà dello stipendio del marito. Non era più tornata nella sua città, ma ormai si era adattata a Montereau dove poteva vivere da grande signora, quasi da principessa. Il grande sogno che portava nel suo cuore si era trasformato in desiderio di far sposare la figlia con qualche nobile. Era ancora presto, vero, ma si era già informata e aveva già messo l’occhio su qualche pupillo di casate importanti sia in Francia che in Inghilterra. Lo aveva già fatto dopo la nascita di Edouard, ma quando aveva cinque anni la tisi se lo era portato via. Questa volta però, avrebbe protetto la sua bambina da ogni male del mondo. Niente e nessuno le avrebbe fatto male.
        Claudine mise un po’ di crema sul palmo della mano prima di passarselo sul collo lungo e magro. Era la parte del suo corpo che più preferiva. Era stato il suo motivo di orgoglio fin da ragazza quando lo esibiva con collane fatte con cose quotidiane e, dopo il matrimonio, con perle vere e proprie. Aveva un piccolo baule che nascondeva nell’armadio, dentro il quale c’erano una collezione di collane di perle invidiabile. Ne aveva una per ogni occasione, che sfoggiava con grande eleganza. Ma ce ne era una, quella più bella, quella più lunga e preziosa, quella che custodiva per il matrimonio della figlia.
         Si guardò un’ultima volta allo specchio per assicurarsi della sua immagine. I capelli neri e corti, delle onde ben fissate alla testa; gli occhi scuri, due pozze di inchiostro che risaltavano sul viso squadrato ed elegante da signora, le labbra che prima erano carnose ora stavano diventando sempre più sottili e incorniciate da rughe, le stesse che circondavano gli occhi, che s’infiltravano tra le sopracciglia nere. Sorrise triste a quell’immagine che vedeva allo specchio; più invecchiava, più vedeva su di sé il volto severo della madre.
          Un leggero bussare alla porta la svegliò dai suoi pensieri. Una bambina dai capelli corvini e gli occhi identici alla madre fece capolino. Aveva l’abito completamente sporco di terra e le trecce sfatte. Più che la figlia di un uomo importante, sembrava la figlia di un contadino.
           “Buongiorno Maman” disse con voce sottile, cercando di evitare lo sguardo della madre. Ora era in piedi davanti alla porta, le mani giunte dietro la schiena e il viso nascosto tra i capelli.
          “È quasi pomeriggio, Marion, dove sei stata tutto questo tempo?” non si era nemmeno voltata. Osservava la figura gracile della figlia attraverso lo specchio che aveva davanti a sé. Continuava a passarsi strati di rossetto su quelli vecchi già presenti.
           “Ero con Jean giù al fiume. Gli volevo dire di quella cosa, ma…” non riuscì a finire la frase per via di quelle grosse lacrime che si apprestarono ad uscire dai grandi occhi pece. Solo allora la madre si girò a guardarla, con un misto di compassione e tristezza, un’espressione sul viso che non usava molto spesso.
          “Ma?”
          “Ma lui lo sapeva di già e si è arrabbiato tanto con me. Mi ha tenuto il muso tutto il tempo e mi ha giudicato perché mi piace guardare le nuvole… Maman, mi ha fatto piangere tanto quello che ha detto. Io gli voglio tanto bene e non voglio perderlo d vista. Voglio portarlo a Parigi con me, posso Maman?” si stropicciò gli occhi con le mani sudice e fissò la madre.
         Claudine si trovò in difficoltà. Teneva alla famiglia Lucas, stimava molto Nathalie per quello che aveva fatto e per quello che stava facendo per i suoi figli, ma non poteva farlo. Non poteva strappare Jean alla sua famiglia e non potevano andare tutti con loro a Parigi.
        “No, Marion, non possiamo” lo disse con tutta la dolcezza che le era possibile. La bambina scappò via, piangendo, ferita irrimediabilmente. La donna se la vide scappare, capendo solo molto dopo che aveva separato due persone che si amavano. Per sempre.


















Angolo autrice:
Questo capitolo sta a spiegare meglio la relazione tra Jean e Marion.
Come nel primo capitolo, se notate delle "stranezze temporali" ve ne sarei molto grata se me lo farete notare.
Un bacio e alla prossima, 
Restart

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


20 novembre 1934.
 
 Sulla riva erbosa della Senna, un bambino sta leggendo.
    Non un bambino qualunque, ma lo stesso bambino che il giorno prima aveva parlato con la bambina con i capelli neri e lo stesso che in tutto il paese era stato abbandonato dal padre. Un bambino illegittimo se così lo si vuol chiamare. Un bambino che si chiedeva continuamente se la sua amica sarebbe venuto a salutarlo, per poi andare via per sempre e non rivederlo mai più. Un bambino che bambino più non era, un bambinouomo.
    Quel bambinouomo aveva da poco capito che significa amare. E per lui amare faceva schifo. Sì, perché amare significa soffrire e lui non voleva soffrire.
     Però amare era anche bello, perché amare voleva dire vedere gli occhi neri di Marion quando chiudeva gli occhi e sentire il suo profumo anche se lei non era vicina a lui. Amare voleva dire provare i brividi ogni volta che Marion lo toccava o anche solamente quando lo sfiorava.
Amare era bellissimo; come verbo, come sensazione, come parola. Ricercava quel vocabolo nel volume che teneva in mano, solo per vedere i caratteri d’inchiostro impressi sulla carta giallognola.  
        Marion lo osservava già da qualche minuto; la schiena curva sulle pagine del libro, il berretto scucito ben calcato sulla testa e il giaccone sformato stretto addosso per non fare in modo che il vento s’azzardasse ad entrare. Chiuse gli occhi per fermare quell’immagine nella sua mente e non farla più andare via. Solo il pensiero che non l’avrebbe mai più visto gli faceva pizzicare il naso e far salire le lacrime agli occhi. Aveva nove anni, ma ben sapeva cosa vuol dire perdere qualcuno che si ama. Lo aveva già provato quando suo fratello era morto. Jean non sarebbe morto, ma non vederlo l’avrebbe distrutta allo stesso modo. Jean ormai custodiva l’anello chiave della catena che era lei e senza di lui sarebbe stata solo un ammasso di ferro.
       Riaprì gli occhi e lui era sempre lì. Sempre chino sui suoi amati libri, ad imparare qualcosa che non gli sarebbe mai tornato utile nella vita. Marion continuava a fissarlo mentre ficcava le mani rosee nelle tasche del cappottino nuovo di zecca che il papà le aveva portato da Bruxelles. Dopo qualche secondo estrasse il pezzo di puzzle che aveva portato da casa. Era il tassello centrale del puzzle che aveva appeso in camera sua, quello su Parigi. Lo guardò ancora e non aveva niente di speciale o indimenticabile. Era solo un pezzetto di cartone con un disegno grigio sopra. Un angolo che sembrava essere di una finestra e basta, tutto lì. Se lo rigirò ancora un paio di volte tra l’indice e il pollice della mano, per poi stringerlo in una morsa strettissima.
        Raggiunse Jean in qualche falcata a zig zag in modo tale da scansare le buche piene di fango.
        “Che leggi?” lo richiamò con un tono eccessivamente alto e acuto. Jean sussultò, chiudendo di scatto il volume.
        “Memé, che ci fai qui? Non dovevi partire per Parigi?” aveva lo sguardo interrogativo. Marion, presa in fallo, si morse il labbro. Cercò di evitare gli occhi chiari di Jean, ma fu impossibile perché lui le strinse il viso tra le sue mani callose, troppo callose per un bambino.
        “Non partire, ti prego” Marion sentì le lacrime, pronte ad uscire, corroderla da dentro. Lui non le lasciava scampo. Il naso affilato e lo sguardo puntati su di lei. Si divincolò dalla stretta feroce che lui esercitava con le sue forti dita da pianista sul suo viso. Non era proprio la stretta più amorevole che potesse esistere, ma per lei era sufficiente. A lei bastava sentirlo vicino. Ma poi, tutto d’un tratto, Jean mollò la presa e si allontanò da lei. Lo sguardo ferito, le spalle ricurve e le labbra strette.
       “Io parto, Jean, io devo partire. Ma prima ti volevo dire –e dare- una cosa. Innanzitutto, tieni questo” tirò fuori il pezzettino di puzzle dalla tasca del cappotto e lo poggiò sul palmo della mano destra di lui che la guardava con curiosità crescente. “Questa è una parte di me che spero conserverai, fino a che, e qui arriva la parte interessante, non ci ritroveremo. Jean mi prometti che ci ritroveremo, vero? Io voglio fare una promessa a te e con te, sei d’accordo?” lo guardò con gli occhi neri che fremevano dall’impazienza di risentire l’amico vicino. Jean si fece girare il pezzetto di cartone tra l’indice e il pollice studiandolo con attenzione.
        “Certo che sono d’accordo” le sorrise appena. Sapeva che quando Marion faceva le promesse era brava a mantenerle. E quello non sarebbe stato un addio.
       “Allora promettimi che tu, noi, tra…”
       “Diciotto, diciotto anni” intervenì Jean. Diciotto, uno più otto, gli anni di Marion quel giorno. Diciotto anni era l’aspettativa che aveva dato suo padre a sua madre. E per lui era l’età dell’amore. Dopo diciotto anni si sarebbero rivisti e si sarebbero appartenuti per sempre.
        Però a lei pareva un’enormità di tempo. Diciotto anni dopo avrebbe avuto ventisette anni e ventisette anni è troppo tardi per sposarsi e i figli, no? I figli non si fanno a ventisette anni. Maman glielo ripeteva sempre. Inizia già ad essere troppo tardi.
        “Sicuro diciotto? Perché non nove? Quando saremo tutti e due grandi abbastanza per prendere il treno e…”
         “Diciotto” ripeté lui ammiccando un sorriso. Diciottanni (tutto attaccato, ovviamente), il tempo dell’amore.
         “E sia diciotto. Ci ritroviamo. Qui. A Montereau. Noi due, per sempre”
         “Per sempre” Marion lo strinse in un abbraccio pieno di malinconia. Quello non sarebbe stato un addio, neanche per sogno.
Quella fu l’ultima volta che i due si videro.

*
Parigi, Francia, 25 agosto 1944
Dieci anni dopo
      
        Marion si avvicinò al soldato inglese che aveva di fianco. Era un’orfana ormai. Era senza più niente, senza un soldo, senza una casa, con una ferita lungo tutta la gamba che non voleva smettere di sanguinare e che le rendeva difficile perfino camminare o stare in piedi.
        Parigi era libera. E la ragazza in cuor suo sapeva che la pace sarebbe arrivata a breve. Che la parte difficile era passata, che ora c’era solo da piangere i parenti morti. Lanciò uno sguardo alla sua città che nel ’34 le era parsa una donna formosa e bellissima di cui era rimasto solo un cumolo di ossa. La zona dove abitava con la sua meravigliosa famiglia è solo polvere. Come, del resto, anche i suoi genitori. Guardò l’inglese e pianse, pianse tutto quello schifo che sentiva dentro, tutto quel marcio che ormai era la sua anima. Pianse per lasciare posto a quella che sarebbe stata la sua vita da quel momento in avanti. Niente più dolore, perdite o quant’altro.
        Il soldato inglese si sentì a disagio quando quella ragazza francese si gettò addosso a lui. Piangeva disperata e lui non sapeva come reagire. La prese in braccio e la portò all’ospedale più vicino dopo aver visto lo squarcio che si apriva colorito lungo tutta la sua gamba magra. La gonna d’alta moda era ormai tutta macchiata e incrostata del sangue che usciva dalla ferita e la camicetta aperta mostrava i seni rotondi, giovani e perfetti. Cercò di guardare la strada, ma ormai gli occhi seducenti della ragazza gli erano rimasti impressi in mente. I suoi lunghissimi capelli neri ondeggiavano ad ogni passo. Lei era svenuta, e questo convinse il soldato ad allungare il passo fino ad raggiungere la camionetta di francesi che si stava allontanando.
       “Aiuto! Aiutatemi!” urlò a squarciagola per far in modo che il veicolo si fermasse. Solo un soldato aveva alzato lo sguardo sentendo le urla. Guardò quell’inglese correre verso di loro, con gli occhi azzurri che si fermarono sul corpo della ragazza che teneva in braccio.
       “Marion” sussurrò con la voce spezzata. Si alzò di scatto urlando all’autista di fermarsi. Dopo qualche bestemmia, quest’ultimo si decise, seppur a malavoglia, a fermarsi. Non c’era nessuna fretta, per fortuna.
       Jean corse più veloce che poteva verso l’inglese. Sentiva il cuore esplodergli nel petto e le lacrime bagnare il suo bel viso.
      L’aveva ritrovata.
      L’aveva ritrovata.
      La frase gli rimbombava nella testa mentre vedeva il corpo esile sempre più vicino.
      Quando la vide senza sensi il suo cuore si fermò un attimo. Le prese di fretta il polso e appena sentì la vena pulsare sotto le sue dita riuscì a respirare nuovamente con ritmo regolare.
      “È ferita, bisogna portarla in ospedale” la voce dell’inglese gli arrivò lontana. Riusciva solo a spassare le dita sporche tra i suoi capelli d’inchiostro e toccare la sua fronte bollente. Doveva salvarla. Fece cenno all’uomo di seguirlo e gli fece posto accanto a lui sul camioncino.
 
*
     
   “La conosci da tanto?” il soldato inglese gli porse un bicchiere d’acqua, il massimo di quel che potevano recuperare in una giornata come quella. Jean accettò con un sorriso e lo bevve tutto d’un sorso prima di essere in grado di rispondere.
    “Sì” nonostante l’acqua bevuta sentiva la gola secca e quello era il massimo che poteva esprimere. L’inglese non si era mai trovato in una situazione tanto strana. Non riusciva a instaurare una conversazione con quel suo coetaneo, benché il suo francese fosse impeccabile. I vantaggi d’essere ricco era anche il fatto di permettersi di avere prima delle tate straniere e poi di studiare all’estero. Parlare cinque lingue lo rendeva più orgoglioso che il suo titolo nobiliare e tutta quella montagna di soldi che c’era sul suo conto alla banca d’Inghilterra. E per questo aveva discusso a lungo col padre riguardo alle sue idee innovative e moderne che non conciliavano neanche un briciolo con gli ideali tradizionalisti del vecchio duca.
     “Eravamo bambini insieme giù a Montereau. Lei era figlia dell’uomo più ricco del paese e io della famiglia più squattrinata” Jean faceva roteare il bicchiere tra le dita di una mano, mentre con l’altra era occupato a sistemarsi i capelli che, finalmente, stavano ricrescendo.
     “Ma, mi scusi per la scortesia, non mi sono neanche presentato; Jean Lucas” gli porse la mano che l’inglese strinse caldamente, come faceva al suo migliore amico.
     “Steven, detto Steve, Smith, piacere” accompagnò la stretta con un sorriso che Jean non esitò a ricambiare. Steve si trovò, stranamente, a pensare quanto fosse bello il suo sorriso. Non badava mai quando la gente gli sorrideva, né che fossero uomini né che fossero donne. Ma quello di Jean era particolare, come tutto il suo viso affilato e intrigante. I capelli castani tenuti a spazzola dovevano essere bellissimi se fossero stati più lunghi. E poi gli occhi erano il fulcro del suo volto, della sua persona. Chiari e trasparenti come l’acqua del ruscello vicino a casa sua, ma altrettanto ombrosi come il bosco dentro il quale si rifugiava quando era stanco di stare chiuso dentro le pareti marmoree della villa.
      Non si ricordava di essere stato così tanto tempo a studiare un volto, soprattutto se maschile. Si domandò se quelle fitte che lo colpivano allo stomaco e che gli toglievano il fiato erano una reazione normale per tutti gli uomini alla vista di qualcuno di così affascinante come il ragazzo che ormai non lo guardava più.
      Più volte negli anni successivi, prima di addormentarsi, avrebbe pensato a quel viso, a quei dettagli tanto studiati in quegli attimi di impazienza per quella che non sapeva ancora sarebbe stata la donna accanto a lui nel letto. E se gli accadeva di pensare a quel ragazzo, il suo sonno sarebbe stato tormentato.
     Il loro religioso silenzio fu interrotto dall’infermiera che li richiamò per comunicare che Marion stava finalmente bene. Entrambi tirarono un grande sospiro di sollievo. Seguirono la suora che li accompagnò al letto della ragazza.
     Marion era abbandonata in un sonno profondo e riparatore. Jean si avvicinò e le prese la mano tra le sue. Sembrava così piccola racchiusa in quel guscio di lenzuola pulite. I capelli erano stati tagliati e ora le arrivavano appena sotto il mento. Gli occhi bruni erano chiusi e le labbra rosee erano socchiuse. Jean le baciò la punta delle dita una per una, solamente posando le labbra sui polpastrelli.
     Lei era lì. Era lì.
     Dopo tutti quegli anni lei era accanto a lui.
     La accarezzò di nuovo sul viso e strinse le sue mani piccole e olivastre tra le sue grandi e abbronzate.
     Non smetteva di studiare il suo volto così diverso da come se lo ricordava, eppure le labbra erano sempre quelle grandi, rosee e carnose di quando aveva nove anni. Così come gli occhi e i capelli entrambi più scuri dell’inchiostro.
     Ma il volto della Marion diciannovenne era più spento, graffiato da sofferenze e perdite, vissuto e triste rispetto a quello gioviale e sorridente che apparteneva ad una che dieci anni prima era solo una bambina. Ora la sua amata era una donna. Una donna fragile e segnata dalle grandi cicatrici che la guerra aveva lasciato sul corpo di ogni persona che l’ha vissuta in pieno.
     Steve stava guardando la scena dall’alto chiedendosi come mai si trovava ancora lì, sentendosi enormemente inadatto e fuori luogo. Perché non se ne era andato? Perché era lì a fissare quei due?
     Eppure non ce la faceva a staccare gli occhi di dosso a loro, dalla loro nuvoletta felice. Lui non traeva nessun profitto da quella dolce riunione tra amanti, ma aveva i piedi incollati al pavimento e le mani strette al suo cappello di feltro marrone che puzzava di sudore, di dolore, di sofferenza come tutto quello che lo circondava. L’aria era impregnata di perdita e malinconia, di nostalgia per la terra natia, di morte.
     “Lucas, devi venire con noi, ci hanno trasferito a est. Si parte domani” un ragazzino che aveva appena, forse, diciotto anni fece capolino dall’entrata. Aveva la divisa coperta di polvere e gli stivali incrostati di fango. Il viso magro era delineato da grandi occhiaie nere e il naso spaccato.
      Jean sentì una fitta al cuore. Doveva lasciare Marion un’altra volta e aveva troppa paura di non riuscire a sopravvivere a questo trasferimento. Strinse ancor di più la mano fragile della ragazza e le lacrime che uscivano copiose dal suo volto la bagnarono inevitabilmente.
     “Va bene Lacroix, di’ al comandante che arrivo” disse con un filo di voce. Il ragazzo girò in fretta i tacchi e uscì dalla stanza. Jean rimase a fissare le unghie sciupate e mangiucchiate di Marion; aveva sempre avuto quell’orribile vizio di mangiarle nei momenti in cui era sotto pressione. Sì alzò dalla sedia e avvicinando il suo viso a quello della ragazza cercò di fermare quell’immagine nella sua testa, di modo che non si togliesse più. Poi le lasciò un leggero bacio sulle labbra socchiuse, come quello che le avrebbe voluto dare dieci anni prima quando lo aveva lasciato per andare a Parigi.
      “Steve, promettimi una cosa” l’inglese sobbalzò lievemente per la sorpresa di sentire la voce di Jean ancora. Era di fronte a lui, con gli occhi fissi su di lui. Sentì di nuovo quella fitta che aveva provato nella sala d’aspetto e in quel momento realizzò che provava per il francese qualcosa di sconosciuto, che aveva provato solo una volta nella sua vita.
        Dopo aver appurato che lo stesse ascoltando, Jean continuò; “Promettimi che la proteggerai. Lei è un fiore raro, e tu devi tenerla al sicuro, in modo che nessuno voglia prenderla o farle del male. Steve, io la lascio a te, sono certo che sei un bravo ragazzo sebbene tu sia inglese”
        Steve sorrise lievemente. Nessuno si era mai fidato così ciecamente di lui come stava facendo quel francese.
       “Lo farò. Puoi fidarti di me” Jean si sentì sollevato. C’era qualcosa dentro di lui, una voce che gli stava dicendo che Steven era uno di cui potersi fidare. E lui si era sempre fidato del suo istinto.
 
*
 
       Marion si svegliò per il dolore alla gamba quando era già notte fonda. La ferita le bruciava talmente tanto che le veniva da piangere. Le veniva da urlare a pieni polmoni ma sentiva la gola secca, troppo secca perfino per parlare. Si tirò su di scatto alla ricerca di un goccio d’acqua per rinfrescarsi. Ma quando riuscì a mettere a fuoco quello che la circondava notò un uomo appisolato sulla sedia accanto alla sua branda. Con la fievole luce della luna che filtrava dai vetri sudici dell’ospedale, riuscì a delineare il profilo dell’inglese che l’aveva soccorsa qualche ora prima. Alla penombra il suo volto sembrava ancora più interessante. Aveva la testa buttata all’indietro e le mani conserte sulla pancia. Marion si avvicinò a lui per studiarlo meglio, ma appena si mosse, la ferita le bruciò così intensamente che cacciò un urlo che lo svegliò.
        Appena aprì gli occhi vide la ragazza contorcersi tenendosi tra le mani la gamba magra. Intanto anche un’infermiera era accorsa con una siringa stretta tra le dita.
       “Stai calma tesoro, stai calma. Ora passa tutto” le sussurrava mentre toglieva l’ago dalla carne del polpaccio della ragazza. Le porse poi un bicchiere d’acqua che Marion buttò giù velocemente. Steve guardava la scena nel silenzio dell’angolino che si era ritagliato tra la branda della francese e di un altro ferito senza una gamba. Quando l’infermiera fu sparita, raccolse tutte le scaglie di coraggio che poteva trovare per chiedere come stesse a Marion. Lei lo guardò per qualche secondo prima di rispondere.
        “Meglio, grazie. Ora possiamo presentarci civilmente. Marion Rousseau” stese il braccio nella sua direzione e gli porse la mano che lui strinse un po’ titubante.
        “Steven Smith” sussurrò. Lei gli sorrise gentile e lui ricambiò senza esitare. Con la ragazza si sentiva stranamente a suo agio, proprio come con Jean. Non c’era bisogno di usare maschere o costruire muri per non entrare troppo in confidenza con gli altri. Sentì il petto riscaldarsi dolcemente mentre si soffermava a studiare i dettagli leggermente orientali di lei, a partire dal taglio a mandorla degli occhi.
        “Quindi sei tu che mi hai salvato? Ti sarò per sempre debitrice” gli fece il più bel sorriso che poteva fare.
        “Sì beh…” si soffermò chiedendosi se fosse il caso di parlarle di Jean. Ma alla fine decise che era meglio per entrambi. “Sono stato aiutato da un soldato francese che è stato al tuo fianco fino a che non ha dovuto andare per obbedire agli ordini del comandante della sua divisione. Si chiamava, uhm, Jean…” Marion trasalì lievemente. Lui era stato lì con lei. Magari aveva anche stretto la sua mano, sentito le sue dita stringerla mentre era completamente incosciente.
       “Lucas. Jean Lucas” rispose secca lei. Jean era stata al suo fianco e lei aveva dormito.
       “Sì, lui. Lo conosci bene vero?” Steven la guardò sorridendo docilmente. Dagli occhi della ragazza erano iniziati a scivolare delle grosse lacrime che rigavano la sua pelle olivastra.
       “Oh sì, molto bene. Lui, io, beh, eravamo bambini giù a Montereau e beh, io…”
       “Lo ami e anche lui” s’intromise Steve. Marion alzò la testa di scatto e lo fissò. Come osava quello sconosciuto dirle cose del genere?
       “Sì lo amo da dieci anni ormai. Ma il mio amore per lui non è più forte come nel ’34. Io ho bisogno di qualcuno vicino a me adesso, non tra otto anni. E lui vuole aspettare così tanto per sposarmi e io non voglio. Io voglio una famiglia. Voglio dei bambini al più presto.” Non stava più parlando a Steve, parlava a se stessa.
       “Ma come? Mi sembri una ragazza così intelligente, non hai un sogno da voler portare avanti?” le prese le mani in modo che lei potesse guardarlo. “Io non sposerei mai una ragazza che nella vita ha come unico obiettivo quello di sfornare dei bambini urlanti e lagnosi.” Marion lo guardò sorpresa. Nessun ragazzo con cui era stata fino a quel momento le aveva avanzato proposte del genere. Nessuno l’aveva mai spinta a continuare gli studi. Nessuno l’aveva spronata per iscriversi all’università che tutti i suoi amici maschi frequentavano. E nessuno le aveva mai fatto una proposta di matrimonio così celata ma allo stesso tempo diretta.
       “Dici davvero? Sai io ho sempre sognato di iscrivermi all’accademia di Belle Arti. Anche a mio padre Gabriel sarebbe piaciuto. Ma ora sono senza un soldo in tasca e un tetto sopra la testa” concluse con malinconia.
      Steve non ci pensò due volte: “Per quello non c’è problema: ti finanzio io. Di soldi ne ho anche troppi e preferisco investirli su una ragazza intelligente e giovane, con tante speranze per il futuro” credeva in ogni singola parola che aveva appena pronunciata. Ai suoi genitori l’avrebbe presentata come fidanzata, loro sarebbero stati contenti e gli avrebbero concesso il cottage vicino a Oxford e nessuno gli avrebbe dato fastidio. Sarebbero stati solo amici.
       Marion rimase in silenzio a fissarlo nelle iride chiare. Aveva veramente detto una cosa del genere? Ma alla fin fine non era una cattiva idea. Ma non risolveva il problema del tetto che non c’era. Dove avrebbe dormito?
       “Potrebbe essere un’idea. Ma io non ho un posto dove dormire e poi chi mi garantisce che questa guerra non duri altri cinque anni e quindi che si muoia tutti da qui al ’49?”
       “Per il tetto non c’è problema, puoi stare da me a Oxford; sai l’inglese giusto? E per la guerra non so che dirti, ma sono abbastanza sicuro che nel ’49 sarà tutta finito.” Le sorrise dolcemente e lei cercò di ricambiare. Le sembrava tutto così ipotetico e poco fattibile.
        Prima cosa; chi le garantiva che quello Steven avesse tutti i soldi che diceva di possedere?
        Seconda cosa; l’inglese lo sapeva bene, ma non abbastanza per vivere in una città in Gran Bretagna.
         Terza cosa; se si innamorava di quello Steve? Se decideva di sposarlo? Che ne sarebbe stato di Jean? Lei lo doveva aspettare, lei amava troppo Jean e avrebbe aspettato otto anni.
O no?
Alla fine aprì la bocca per rispondere: “….






||Nota autrice||
finale col  fiato sospeso che io adoro tanto! 
E' stato un capitolo che ho avuto un po' di difficoltà a scrivere un po' per mancanza di tempo e di ispirazione. Ma ora ho tante idee per i prossimi e per l'evolversi della storia!
Stesso discorso dei capitolo precedenti, poi, è quello del discorso temporale. Mi sono informata il più possibile riguardo ai fatti del 25 agosto del '44, ma non si sa mai; quindi se notate degli errori non esistare a farmeli notare!

Vorrei ringraziare asianoafrica, pandizenzero e Wjnter  per aver aggiunto la storia tra le seguite.

un bacio e alla prossima,
Restart

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


 
Enya – Only time
 
Bordeaux, Francia, 
26 agosto 1944
      
      Cosette spense l’ultima sigaretta nel portacenere rosa che conservava davanti alla finestra di cucina. Quando il mozzicone fu definitivamente spento, chiuse le persiane verdi scrostate e stinte dalla luce del sole. La stanza era crollata in una gradevole penombra e non si sentiva più il caldo soffocante gravare sulle spalle come un macigno. Cosette girò un po’ attorno al tavolino, guardandosi attorno e costatando uno squallore non indifferente.
       La piccola casa era divisa in due stanze: la prima era una sorta di cucinotto, dove si ergeva una catasta di piatti da lavare che dava subito nell’occhio. Il tavolino da quattro persone era stato appoggiato alla finestra della cucina per sfruttare meglio la luce naturale la sera per cenare; le sedie erano tre, e nel complesso erano i mobili più nuovi che si poteva trovare in quella casupola. C’era ancora, sopra la tavola, la tovaglia a fiori macchiata di vino rosso e tre piatti sporchi di cibo e bicchieri mezzi pieni di liquido nero.
       La seconda stanza era quella da letto, dove un letto con un materasso da una piazza e mezzo catturava l’attenzione di un ospite; le lenzuola, una volta bianche, ora erano sgualcite e sudice, come se non vedessero il sapone da mesi; i cuscini, bassi e consunti, erano a terra, come reduci di una feroce guerra; la rete e il bandone erano incrostati da un lieve rossore che con la fievole luce che filtrava dalle persiane si riusciva a vedere malapena. Un mobile di legno da quattro soldi era rifilato in un angolo; i cassetti larghi e profondi erano aperti e da essi uscivano abiti dozzinali e scadenti e tutti di colori smorti. Sopra il mobile poggiava una cornice elegante e preziosa che nel contesto in cui si trovava stonava e non poco. Aveva i bordi decorati da girandole in argento e ritraeva quella che all’apparenza sembrava una famiglia felice. Un padre, una madre, una figlia e un figlio neonato. Cosette si avvicinò al mobiletto e sfiorò il bordo della cornice con tristezza e malinconia. Il viso di suo padre, che nella foto aveva poco più che trentaquattro anni, era bello e fresco come quello di un ragazzo. Benché la fotografia non lo permettesse, lei poteva vedere il blu dei suoi occhi di lui brillare davanti all’obbiettivo. Le stesse identiche iridi di quando l’aveva incontrato due giorni prima. Aveva i capelli striati di grigio e non portava più i baffi come vent’anni prima. Il viso era solcato da leggere rughe, ancora troppe poche e lievi per un uomo di cinquantaquattro anni. Aveva addosso abiti eleganti e lussuosi e la ragazza che gli camminava accanto, col suo vestito rosso stretto in vita (un vitino da vespa che Cosette le invidiava e non poco) e scarpe nere lucide. Lo aveva visto dalla vetrina della bottega dove lavorava da due anni. Lui si era fermato sul marciapiede perché la ragazza lo stava supplicando di entrare. Alla fine aveva ceduto e non appena messo piedi nella stanza piena di stoffe colorate, aveva incrociato lo sguardo chiaro di Cosette e si era bloccato. Lei aveva sentito lo stomaco stringersi per i ricordi, per i dolori, per la memoria di Nathalie, sua madre, morta nella sua piccola casa a Montereau, mentre abbracciava una fotografia, l’unica rimasta della sua famiglia. Sua madre morta nel silenzio, nell’attesa di un uomo che non la meritava, senza nessuno vicino che potesse vederla un’ultima volta.
       Insomma, mentre la ragazza volteggiava felice tra le stoffe colorate, ascoltando consigli da Madame Lacourt, l’allegra vedova proprietaria della bottega, l’uomo, che si era appurato fosse suo padre, guardava sottecchi l’altra figlia, quella povera e illegittima che cuciva un delizioso abito azzurro in maniera così scrupolosa e precisa che pareva una macchina. Si avvicinò silenziosamente alla ragazza, con le mani dietro la schiena e gli occhi puntati sul pavimento.
      “Buonasera” aveva detto a bassa voce, continuando a guardare le mattonelle bianco ghiaccio pulitissime. Le aveva lavate Cosette poche ore prima, quando doveva tornare a casa per mangiare, ma era rimasta lì volutamente per evitare di entrare in quel buco pulcioso che era casa sua. La ragazza alzò lentamente gli occhi dal suo lavoro e lo fissò.
      “Buonasera” rispose meccanicamente. “Desidera?” L’uomo sorrise lievemente, facendo arricciare le rughe ai lati degli occhi e della bocca.
      “Cosette? Cosette Lucas?” chiese con un filo di voce. La ragazza annuì leggermente, sorpresa dal fatto che lui l’avesse riconosciuta. Anche lui la imitò, continuando a sorridere. Si avvicinò e fece per prenderle la mano, ma lei si ritrasse velocemente impaurita dalle intenzioni dell’uomo. Ma lui non si fece scoraggiare dalla diffidenza della giovane e continuò nel suo intento. La appoggiò le labbra sulle dita gelide della mano destra e si ritirò su subito dopo con un sorriso stampato sul volto leggermente abbronzato.
       “Sei identica a Nathalie” pronunciò il nome della donna con somma malinconia. Lo sguardo celestiale si era rabbuiato. Il sorriso si era fatto meno largo e gioviale. Anche il solo pronunciare il suo nome gli era costato uno sforzo immenso, un dolore indicibile. Cosette non immaginava quanto avesse sofferto a lasciarli, quante notte insonni avesse passato a pensare i capelli corvini di Nathalie, gli occhi neri sempre sorridenti, il naso delicato e la bocca aperta in un sorriso pieno d’amore.
      Nathalie che parlava nel sonno;
     Nathalie che gli baciava la punta del naso prima che partisse per i viaggi di lavoro che in realtà erano solo visite alla moglie Jacqueline e i figli che lo credevano in un lungo viaggio di lavoro in Germania;
    Nathalie che si lavava le mani continuamente e che si toccava il naso ogni volta che parlava;
   Nathalie che teneva in casa decine di libri ma non sapeva leggere nemmeno una parola;
   Nathalie che amava con più di lui stesso, ma che aveva abbandonato al suo destino in quella casa grande come un buco.
  Nathalie che ora era solo un ricordo e niente più.
     “Come sta?” Cosette sprofondò in un doloroso sconforto. Sentì la bocca secca e gli occhi umidi.
   Due parole, sette lettere per mandarla in tilt.
      “Nathalie, mia madre, è morta nel bombardamento di Montereau del 1940, mentre io e Jean eravamo stati mandati qui a Bordeaux da mio zio Pierre.” L’uomo era visibilmente sconvolto. Aveva la faccia di uno a cui erano appena state tagliate le gambe.
      Distrutto.
     Gli tremavano le mani e sulle guance abbronzate erano segnate da rigoli di lacrime amare. Non riusciva ad accostare una figura così piena di vita come era quella della donna, a l’immagine della morte. Guardò Cosette che continuava a fissarlo in viso, con lo sguardo gelido che la rendeva sicuramente figlia sua.
       “Papà, tra poco ho fatto. Dopo andiamo in pâtisserie a prendere il dolce per Maman” il forte accento bretone dell’altra figlia s’insinuò nella conversazione tra i due. L’uomo rispose con un leggero sì e la ragazza tornò a discutere con Madame Lacourt a proposito del tessuto dell’abito. Nel frattempo il padre aveva estratto un fazzoletto bianco dal taschino della giacca e si era asciugato gli occhi con gesti lenti. Cosette era tornata al lavoro, perché l’abito era per la principessa Elisabetta d’Inghilterra e andava finito quella sera per poi essere spedito a Londra, insieme a quello di sua sorella. La ragazza era rimasta stupefatta quando qualche giorno prima Madame Lacourt era arrivata a lavoro con una bottiglia di vino e dei bignè per festeggiare questa importante richiesta. E aveva parlato di buona pubblicità grazie al lavoro che avevano svolto l’anno precedente quando una star di Hollywood era finita per caso nella loro bottega ed era rimasta incantata da un abito che stavano preparando per una signora del posto. L’anziana raccontava questo mentre s’infilava un dolce pieno di crema nella bocca, insudiciandosi le labbra. Cosette l’ascoltava sorridente con in mano la sua porzione di gioia racchiusa in un contenitore di pasta choux riempito di panna soffice e deliziosa che solo l’odore la faceva andare su di giri.
         Gli mancavano solo le ultime rifiniture e sarebbe stato pronto per essere impacchettato e spedito. La stoffa azzurra era morbida e scivolava velocemente sotto le sue dita abili. Quando cuciva si sentiva una superstar e niente e nessuno poteva batterla. Era il suo ossigeno. Quando dette l’ultimo punto e spezzò il filo, guardò la sua opera. E solo allora si accorse che il padre era ancora nella stanza e la fissava con orgoglio.
        “Sei brava sarta e sono sicuro che sei anche una brava ragazza. Non voglio perderti ancora, voglio incontrarti di nuovo, magari insieme a tuo fratello” fece una pausa ed estrasse dal taschino un cartoncino bianco dove battuti a macchina c’erano una manciata di numeri e di lettere. La ragazza distinse quello che era anche il suo cognome, Lucas, e il nome che lo precedeva, Xavier, il nome che sua madre non le aveva mai voluto dire. Sorrise per ringraziarlo e se lo infilò nel reggiseno. “Seriamente, Cosette, io voglio rivederti. Tu e Jean siete miei figli quanto Marjorie e Arthur. Sarebbe bello che diveniste amici. Che vivessimo insieme” un sorriso zuccheroso decorò il suo viso stanco.
         “È troppo tardi per voler vivere insieme alla tua famiglia illegittima. E poi Jean ora è impegnato nell’esercito, fa il soldato. Non lo vedo più da mesi ormai. Ci sentiamo solo per lettera. Comunque ci penserò” concluse gelidamente lei accompagnata da un veloce innalzamento degli angoli della bocca.
         “Grazie, e saluta Jean da parte mia nella prossima lettera. Ah, e dopo domani ma moglie e i ragazzi vanno a La Rochelle da mia suocera. Sono a casa da solo, quindi sarebbe un ottimo pomeriggio per vederci. Dietro al cartoncino c’è il mio indirizzo”
         “Ci penserò” ripeté secca. Con un cenno del capo Xavier incassò il colpo e si allontanò con un accenno di sorriso che illuminava il suo volto.
         Due giorni dopo, Cosette aveva ancora il cartoncino chiaro infilato nel reggiseno ed aveva paura a toccarlo. Quello era il giorno dove avrebbe dovuto vederlo, in cui si sarebbero dovuti incontrare e parlare di quei vent’anni di vuoto, di buio. Non una parola, niente. Controllò il piccolo orologio da polso e con grande frettolosità radunò gli oggetti sparsi per il pavimento e cercò di riporli nei loro posti originali. Prese la grande cesta dall’angolo dove era stata riposta a prendere polvere e ci infilò le lenzuola incrostate, le federe sciupate e le portò di corsa giù dalla lavandaia, sua unica vera amica in tutto il condominio. Era una donna di circa quarant’anni con una figlia di venti che abitava a Parigi e che aveva preso Cosette sotto la sua ala protettiva non appena aveva trovato casa in quel palazzo fatiscente. Una ventina d’anni prima doveva essere stata bella, con i suoi profondi occhi scuri e i capelli lunghi e morbidi, ora sempre raccolti in un’acconciatura rigida che lasciava intravedere qualche ciocca bianca. Le sere d’inverno, quando non erano impegnate, condividevano un unico camino per risparmiare la legna e si raccontavano le loro storie. Yvonne le raccontava di quando era stata una ballerina molto brava e popolare e a diciannove anni si sarebbe dovuta unire al corpo di ballo de l’Opera di Parigi, ma s’innamorò di un artista di New York e scappò dalla casa dei genitori per andare in America. Un anno dopo si ripresentò alla casa paternale con gli occhi gonfi dalle lacrime, il cuore spezzato e una bambina in braccio. Aveva avuto la grande fortuna di essere riaccettata in famiglia così poté crescere la figlia senza tanti problemi. Si sposò in fretta e furia con un bravo ragazzo che faceva l’artigiano a Bordeaux. Così si trasferì dove ancora stava e cominciò a lavorare come segretaria, ma fu licenziata dopo qualche anno perché venne fuori che tradiva il marito. Così lui la lasciò prendendosi la bambina e si trasferì a Parigi. Lei finì nel palazzone in periferia a fare la lavandaia e, per arrotondare, concedersi a qualche piacere. Durante l’occupazione i suoi unici clienti erano dei soldati tedeschi che avevano bisogno di sfogare la loro frustrazione per la lontananza dalle mogli. E qual miglior sistema che una puttana? In compenso loro gli facevano recapitare rifornimenti alimentari, abiti e quant’altro che lei poi dava alle persone che ne avevano più bisogno che di lei. Le bastava quello che aveva, il suo lavoro di lavandaia le aveva già beneficiato in abbondanza per una che viveva in un monolocale ai bordi di Bordeaux e poi aveva qualche soldo da parte dell’eredità che le aveva lasciato il padre, ma che conservava per potersi trasferire un domani a Parigi, dalla sua Elodie.
      Cosette la trovò avvolta in uno scialle grigio mentre leggeva un piccolo libriccino sciupato. Strizzava gli occhi e allontanava il braccio dal viso di tanto in tanto per colpa della vista che la stava lasciando piano piano. Non appena sentì i passi svelti della ragazza alzò la testa dalla lettura e le sorrise.
       “Mia cara, mi ha portato un po’ di svago?” chiese indicando la cesta piena di lenzuola. Cosette annuì appena.
        “Quello di stamattina ha fatto un disastro, non posso presentarmi con delle lenzuola così al Capitano stasera” gli occhi erano velati di lacrime. Fare quello che ormai faceva da due anni ormai era diventata una vera necessità da un anno e mezzo, quando zio Pierre era morto lasciandogli tre bambini di tre, cinque e sette anni in custodia. Il suo stipendio della bottega non bastava mai a coprire le spese e quindi quello che prima faceva per comprarsi degli abiti nuovi o dei libri, o andare al cinema, era diventato necessario per comprare cibo, legna per l’inverno e stoffe per fabbricare abiti per i bambini che erano rimasti senza niente. Così aveva preso in affitto la stanza comunicante con quella che era la sua camera da letto e ci aveva fatto mettere tre brandine, un armadio e un mobile dove riporre tutti i vestiti nuovi che aveva comprato. Quei bambini erano il suo orgoglio e quindi faceva sempre in modo che non gli mancasse nulla. Anche se questo voleva dire lavorare di più sia in bottega che a casa. Quando lei lavorava, i tre andavano da Madame Pauline che abitava al piano di sopra. La donna era una vedova di circa sessant’anni, l’unica a non disprezzare lei e Yvonne e che soffriva terribilmente di solitudine. I suoi tre figli erano nelle Americhe e avevano dei figli che lei non aveva mai visto. Quindi quando Cosette bussò alla sua porta, con quei tre marmocchi appiccicati alla gonna, lei sorrise affabile e accettò di buon grado di badare loro quando la ragazza lavorava. Aveva insegnato a Monique, la più grande, a leggere, a scrivere e a ricamare. Raccontava a Mélanie, la mezzana, tutte le storie popolari e a Valére, il più piccolo, cantava le ninnenanne del suo paese. E Cosette poteva stare tranquilla.
         Mentre Yvonne lavava le sue lenzuola peggiori, Cosette era ritornata nel suo bilocale e aveva tirato fuori dal cassettone quelle migliori, quelle color avorio, con i bordi ricamati e con le federe nuove. Quelle le teneva solo quando sapeva che sarebbe arrivato il Capitano. Era un uomo giovane, biondo, con gli occhi azzurri e un sorriso gentile. Se con i suoi uomini lui era sempre severo e rigido, ma quando era con lei, diventava un’altra persona. Più affabile, dolce e premuroso, tanto che le faceva dimenticare che fosse un tedesco, che fosse un nemico. Quando lui le raccontava dei posti che aveva visitato, dei libri che aveva letto, dei quadri che aveva ammirato, lei si scordava di tutto e tutti. E anche il sesso non era come con gli altri; non era doloroso e violento, era piacevole, come dovrebbe essere. 
       Mentre infilava i cuscini dentro le federe sentì bussare alla porta. Corse ad aprire per paura che fosse lui, ma in realtà era il giovane studente di Medicina del quarto piano.
       “Buonasera Cosette, scusa il disturbo, ma ho un grande bisogno di te. Una ragazza che ho incontrato in boulangerie oggi. È rossa, con due occhi verdi come smeraldi e una meravigliosa risata. Mi devi annodare la cravatta, per favore” la guardò con occhi supplichevoli e il labbro inferiore tirato fuori. Cosette rise appena e si avvicinò a lui. Con abilità fece un nodo perfetto e il giovane ricambiò con un affettuoso bacio sulla guancia. Girò velocemente sui tacchi e salì le scale, mentre gli giungeva la voce della ragazza alle spalle:
        “Oh, Alexandre, ricordati dei fiori!”
      Richiuse la porta e si andò velocemente a vestire. Indossò l’abito rosso, quello buono. Mancavano sì e no quaranta minuti all’arrivo del Capitano così Cosette ebbe il tempo di finire di cuocere il gratin dauphinois, che aveva preparato il pomeriggio dopo che quei due se l’erano filata, e finire di prepararsi. Tirò fuori scatolina di legno bianca, che teneva nascosta tra gli abiti da tutti i giorni. Prima di aprirla rimase qualche secondo a fissare il suo nome scritto in bella calligrafia inciso sulla parte superiore. Era una della poche cose che gli erano rimaste di sua madre. Non l’apriva da qualche mese ormai, perché dopo quell’osceno appuntamento in brasserie con quello squallido matematico, non aveva più usato né il rimmel, né il rossetto rosso. Aveva anche una cipria opaca e la matita nera che aveva utilizzato solamente una volta per farsi il neo finto sopra il labbro superiore, come quello che si facevano le dive di Hollywood. Prese la cipria e se la passò con lentezza sugli zigomi prima di prendere il rimmel e scurire le ciglia già lunghe e scure e infine il rossetto. Era rosso fuoco, metteva in risalto le sue labbra grandi e carnose. Si fissò qualche minuto allo specchio e delineò la donna che era diventata. Non era più Cosette Lucas, la povera ragazza di provincia, che aveva adottato i suoi tre cugini e che per tirare avanti faceva la puttana. No, lei era come Marjorie, la sua sorellastra, che viveva in una villa con tutti i lussi possibili immaginabili, con due genitori che l’amavano e magari un diamante grosso come una nocciola al dito. Si passò le dita tra i capelli scuri che le arrivavano appena sotto le clavicole sporgenti. Non erano setosi, morbidi e profumati come sognava, ma era lo stesso. Una volta ogni tanto aveva i boccoli scuri che scendevano delicati sulle spalle. E a lei bastava così.
         Un leggero bussare la fece sussultare. Era in anticipo. Ampiamente in anticipo e lei non aveva ancora apparecchiato, sistemato la cucina e insomma era largamente indietro. Si fece prendere un attimo dal panico, mentre guardava la sua pallida immagine allo specchio.
         Un altro bussare e questa volta più forte, tanto che riuscì a girare la testa. Ma non si mosse, neanche di un passo.
         Un altro ancora, insieme alla voce dell’uomo, che era dall’altra parte della porta, chiamare il suo nome. Ma non era il modo meccanico e gracchiante in cui lo faceva Il Capitano. No, era una voce calda, l’accento francese e il tono familiare, troppo familiare.
         A grandi falcate raggiunse la porta e con un gesto veloce l’aprì. L’immagine davanti a sé non era quella robusta del tedesco; era solo un ragazzo di appena vent’anni, coi capelli troppo corti per il suo bel viso e gli occhi blu come il cielo.
         “Jean, cosa ci fai qui?” 







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Nota autrice;
Un capitolo piuttosto lungo per i miei standard in cui ho voluto approfondire un po' il personaggio di Cosette e quello che è diventata in soli dieci anni.
Anche questa volta ho messo il finale un po' sospeso, anche se il quinto capitolo ripartirà proprio dove finisce questo.
Come sempre, se avete dei commenti riguardanti alla storia soprattutto per il discorso temporale non esitate a farmeli notare; io faccio del mio meglio per scrivere tutto storicamente corretto, ma non si sa mai. 
Un  bacio e alla prossima
Restart

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


«Jean cosa ci fai qui?» Il fratello le sorrise dolcemente prima di abbracciarla forte come faceva lei quando erano piccoli. Era cambiato Jean in quei mesi. Aveva una tristezza infinita nei suoi occhi blu che erano soliti ad essere pieni di gioia. Il viso era scarno, talmente tanto che gli zigomi spigolosi le facevano quasi paura. Prima di arruolarsi aveva i capelli lunghi e morbidi, ora il capo era rasato e aumentava l’aspetto malaticcio del giovane. Cosette lo guardava in silenzio, non ricambiando la stessa gioia e la stessa felicità dipinte sul volto del fratello.
«Cosa ci fai qui?» ripeté con tono duro. Lui non doveva essere lì, non in quel momento, non in quel posto, in quel suo piccolo appartamento. Il sorriso del ragazzo si spense irrimediabilmente.
«Sono qui per te. Ho qualche giorno prima che mi mandino a est, in Alsazia». Cosette lo fissava con gli occhi sbarrati e il cuore che le batteva in gola. Spostava frequentemente lo sguardo da Jean allo spazio alle sue spalle sperando che non arrivasse, che non la vedesse con un altro uomo.
«Jean te ne devi andare» sospirò piano, avvicinandosi al fratello per stringerlo in un frettoloso abbraccio che non aveva niente a che fare con quelli che gli dava quando erano piccoli. Quando si staccò, Jean non accennò a muoversi neanche di un centimetro. Era sempre fisso sulla soglia della porta, con la divisa consumata e troppo grande per il suo corpo troppo magro. Gli occhi erano sempre incollati su di lei che si sentiva bruciare il suo sguardo addosso.
«Cosa succede Cosette, eh?» il suo tono aveva sfumature rabbiose che la ferivano. Non lo riconosceva più. Si stava trasformando in uno di quei soldati che la trattavano peggio di un animale, che le strappavano gli abiti di dosso, che le facevano male non solo fisicamente.
«Jean calmati, per favore» gli aveva poggiato la mano sul petto asciutto, ma lui l’aveva respinta. Non voleva pensare a quello che stava pensando, non voleva credere a tutto quello che gli avevano detto sia in boulangerie che dal fioraio quando aveva detto che era venuto a trovare Cosette Lucas. Il panettiere si era arricciato i grossi baffoni neri e gli aveva fatto un occhiolino fin troppo malizioso per i suoi gusti.
Si sentiva mancare le gambe, aveva la gola completamente secca. Aveva bisogno di bere qualcosa.
«Jean devi andartene, per favore, ascoltami almeno una volta» Cosette piagnucolava quando cercava di spingerlo fuori dalla porta. Aveva gli occhi blu velati di lacrime e il labbro inferiore che le tremava dalla paura. Sapeva cosa avrebbe fatto se l’avesse visto lì. Sapeva che suo fratello sarebbe morto.
«Jean stammi a sentire una buona volta» lo spinse indietro più forte che poteva, con le lacrime che le bruciavano gli zigomi coperti da un leggero strato di cipria. Ma lui rimaneva lì, con lo sguardo fisso su di lei.
«Cosette che sta succedendo?» queste quattro parole fecero accapponare la pelle della ragazza. Il Capitano era in piedi alle spalle di Jean. Non indossava la divisa, ma si era messo il vestito che gli aveva cucito lei. Era bellissimo: aveva i capelli biondi in ordine e gli occhi azzurri che brillavano alla fioca luce del piccolo lampadario del corridoio.
Nel sentire quell’accento straniero, Jean si voltò di scatto. Un tedesco. «Chi è lei?» la voce del giovane francese non era ferma come avrebbe voluto e la sua mano tremava. L’altro aveva uno sguardo di ghiaccio che non lasciava trapelare emozione alcuna. Solo le sue nocche facevano trasparire quello che provava: erano pallide come un lenzuolo, così le sue dita, strette attorno al mazzo di rose rosse.
Respirò piano prima di rispondere. «Mi dispiace, soldato. Sono io che dovrei farvi questa domanda» sfoderò un francese perfetto che lasciava poco spazio a sbavature d’accento.
Jean aveva la bocca secca e la testa che gli faceva male per le mille idee che vi frullavano. Quell’uomo, quel tedesco. Con sua sorella. La voce della sua coscienza gli diceva di stare fermo, calmo, e magari ascoltare quello che avevano da dire entrambi. Ma non le dette ascolto.
«Cosa ci fate voi qui con Cosette?» chiese ancora il Capitano, ma questa volta il suo tono era cambiato: Cosette lo percepiva perfettamente. «Andatevene, e per ora sono gentile». Ma Jean non accennava a spostarsi di neanche un millimetro. Rimaneva lì, in piedi, a mantenere il contatto visivo con quel tedesco.
«Andatevene» ripeté, ma il francese non si spostava. Fu allora che tutto ciò che Cosette temeva, successe. In un attimo Jean era steso a terra, con una grande ferita nello stomaco. Il Capitano lo colpì ripetutamente sul viso, graffiandolo con un coccio che aveva trovato davanti alla porta. Il giovane era svenuto, forse peggio, ma la ragazza non era più lucida. Emise un grido talmente forte che lo sentirono in tutta la palazzina. Si gettò sul corpo del fratello cercando di tamponare il sangue con la gonna del vestito, continuando ad urlare a pieni polmoni. Il Capitano la zittì premendole la mano sanguinosa sulla bocca.
«Zitta brutta troia. Ed io che credevo che tu fossi diversa, in realtà sei uguale a tutte le puttane con cui sono stato» tolse la mano dalla sua bocca solo per premere il grilletto alla sua pistola e spararle un colpo alla pancia. La vista di lei s’offuscò. L’ultima cosa di cui si ricordò, erano gli occhi brillanti di Alexandre.
Si svegliò molte ore dopo in un letto che profumava di pulito. Le lenzuola bianche erano nuove e fresche. Inclinò appena il capo e vide Alexandre profondamente addormentato al suo fianco. Aveva il volto corrucciato e due profonde occhiaie scure. Era stanco, sebbene stesse dormendo. I capelli erano scompigliati come non glieli aveva mai visti. Cosette si accorse solo allora del bel volto di Alexandre. Si chiese come mai non ci aveva mai fatto caso prima d’allora. Era sempre stato il giovane e ordinato (il più delle volte) medico del terzo piano che una volta si era occupato per qualche ora di Monique dopo che aveva preso una storta. Lo fissò a lungo, o almeno così le parve. La vita al di fuori della sua protetta stanza d’ospedale la vita procedeva. Affannosamente, sì, ma forse con qualche successo. Ad un certo punto sentì le palpebre farsi nuovamente pesanti e si addormentò stringendo debolmente la mano del ragazzo di lato.
Quando si risvegliò aveva un sorriso beato disegnato sul volto. Non aveva idea di quanto avesse potuto dormire, ma stava bene. Stava bene come non lo era mai stata. Cercò il volto di Alexandre di fianco al suo, ma trovò solamente la federa candida del cuscino. Si era alzato, stava confabulando con una giovane infermiera dall’altra parte della stanza. Non riuscì a captare una frase intera solamente qualche parola sparsa.
«Sì, dammi retta, è meglio per tutti» pronunciò alla fine lui con tono grave e leggermente più alto. Per un motivo sconosciuto quelle parole rimassero impresse nella mente di Cosette per molti anni senza capire come mai. Nel frattempo lui si era voltato e le aveva sorriso.
«Sono contento che tu stia bene» le disse accarezzando la mano. Nessuno dei due intese come mai, ma in quel momento era parso loro un gesto più che naturale. Ma poco dopo un’ombra passò sul volto della ragazza. Si sentì stupida per non averci pensato prima. Guardò il medico con lo sguardo impaurito e faticosamente sillabò la prima parola dopo tre giorni. «Jean»
Alexandre si sentì invadere dal panico. Aveva preparato il suo discorso, ma non era pronto a dirlo. Non di fronte a lei, lei che aveva quegl’occhi così belli, così bisognosi d’aiuto.
«Ne riparliamo dopo. I bambini sono qui» disse piano, sottovoce, con le lacrime che premevano per uscire. Non avrebbe voluto ferirla così.
I tre bambini portarono uno sprizzo di gioia in quella camera asettica. Madame Pauline aveva fatto indossare loro i migliori abiti che avevano. Aveva raccolto i capelli lunghissimi e biondissimi di Mélanie in una treccia all’olandese ed era riuscita a spazzolare l’indomita e riccioluta chioma di Valère. Si sentì improvvisamente in forze nel vedere i loro occhietti giocosi e i loro volti vivaci.
Passarono tutto il pomeriggio lì in sua compagnia finché non arrivò l’infermiera per la cena e con lei Madame Pauline che era pronta per riportarli a casa.
Quando fu finalmente sola, sazia e felice, Alexandre tornò avvolto da un’aura di tristezza. Si sedette sulla sedia accanto al letto e le prese la mano.
«Jean non ce l’ha fatta» lo disse velocemente, come volesse togliersi il peso il più velocemente possibile. Non osò guardare Cosette che dal canto suo ebbe la sensazione d’essere travolta da un’ondata di dolore in pieno petto. Sentì il respiro venirle a meno e cercava disperatamente un appiglio, ma era consapevole di averli persi tutti. Era rimasta sola.
Trovò solo le dita morbide di Alexandre a soccorrerla. Le strinse più forte che poté e uguale fece negli anni successivi, quando quella sensazione di paura, di vuoto l’invadeva.
Nel frattempo, in terapia intensiva, nella stanza 118, Jean si era appena risvegliato dopo 48 ore in cui la sua vita era stata sul filo del rasoio. Il medico, il dottor Lefrève, lo guardava amabile. L’infermiera al suo fianco invece, pareva pervasa dalla paura. Chiese di sua sorella e nessuno dei due osava aprir bocca. Lo chiese una, due, tre volte, aumentando sempre di più il tono della voce, ma niente. Quella scialba infermiera tremava, cercando di non piangere. Dopo qualche istante entrò Manon, col suo passo veloce e sicuro, con quello sguardo fiero che colpì Jean.
«Se n’è andata mezz’ora fa» disse duramente, come se non avesse voglia di lasciarsi trasportare dai sentimentalismi. Era stanca, aveva lavorato per 36 ore e voleva solamente tornare a casa. Il dottore chiese a Manon di portare via Evangeline che aveva iniziato a frignare senza ritegno. Si scusò con Jean:  «È nuova» ma lui non riusciva più a sentire niente. Sentiva solo un fastidioso fischiare che non gli permetteva di udire una sola parola. Cosette non c’era più. Non aveva mantenuto la sua promessa. Non gli era rimasta accanto, era sparita. Si ribellò con cattiveria, voleva scappare, voleva trovare il tedesco che gliela aveva uccisa, voleva riabbracciarla, stringere la sua mano un’ultima volta. Servirono le grandi mani del dottore a fermarlo. Anche Manon l’aiutò, tenendogli il volto, cercando di farlo ragionare. Gli occhi azzurri erano iniettati di sangue, i denti digrignavano ferocemente. Era come una bestia selvatica. Lei aveva paura. Ma aveva imparato a nasconderla. Glielo aveva insegnato Benoît, suo fratello. Cercava di respirare piano, di mantenere la calma per farla tornare a lui. Le avrebbe dato una buona dose di morfina se ci fosse stata. Ma mancava sempre, soprattutto in quel periodo. Doveva farcela da sola, con la sua sola forza. Con la coda dell’occhio notò che la sua mano iniziava a cospargersi di un liquido rosso, viscido. Il taglio sulla guancia cominciava a riaprirsi.
«Jean, fermo, morirai dissanguato facendo così» lo ammonì rabbiosa, anche se non sapeva da cosa provenisse tutto quella rabbia. Forse per il fatto che non riuscisse a controllarlo, forse dalla paura di perderlo per una menzogna.
«Jean per favore calmati» aveva urlato a pieni polmoni, con la paura che aveva sopraffatto l’ira. Gli stringeva il viso e lui si dimenava senza ritegno. Nessuno arrivava ad aiutarla, non c’era nessuno che potesse darle una mano. Iniziò a piangere, perdendo tutta la sua freddezza, tutta la sua rigidità. Lasciò andare la presa, lasciò che lui si contorcesse quanto gli pareva, non aveva più forze. Crollò a terra come un fazzoletto bagnato. Sentiva tutto il dolore di Jean, lo sentiva forte e chiaro. Era stato suo un tempo. Un tempo piuttosto recente, in realtà. Si ricordava di suo fratello, di sua madre, della sua bellissima mamma e di suo padre. Sapeva cosa significava perdere qualcuno. Le era rimasto solo quello zio nell’esercito che la vedeva una volta alla settimana per controllare che fosse sempre viva, che non si fosse uccisa per il dolore.
Alla fine le grida di Manon avevano placato quelle Jean. Ora era lei a piangere, a singhiozzare. Ora era lui che si era avvicinato per abbracciarla, per baciarla sulla guancia, per cercare di calmarla.
Si calmarono insieme, i loro respiri tornarono regolari nello stesso istante. Manon piagnucolò un grazie soffocato mentre cercava di ricomporsi e ritrovare un briciolo di quella fermezza che le apparteneva e che aveva appena perso.
Jean si fece curare le ferite con calma, ma non per l’ultima volta. Negli anni successivi le crisi diventavano una routine fissa, un qualcosa che solo lei riusciva a placare. Fu per colpa di queste che non riuscì ad uscire dall’ospedale per tre o quattro anni, nemmeno si ricordava più.
Una notte di gennaio del ’45 gli sembrò di vedere Cosette nei corridoi, gli sembrò di vederla camminare abbracciata ad un giovane medico, forse aveva la sua età. Gli sembrò di riconoscere i capelli neri, tagliati appena sopra le spalle, il suo sorriso gentile. Non riusciva ad alzarsi, ci aveva provato, ma sembrava legato alle lenzuola. Cosette scomparve e al suo posto apparve Manon, col suo dolce profumo. Lo abbraccio, gli fece una carezza e lui si riaddormentò beatamente, sognando gli occhi verdi della giovane infermiera.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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