•My God Of Mischief•

di LokiIsAnAsgardian
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** AVVERTIMENTI ***
Capitolo 2: *** •Capitolo I• ***
Capitolo 3: *** •Capitolo II• ***
Capitolo 4: *** •Capitolo III• ***



Capitolo 1
*** AVVERTIMENTI ***


Questa è una fan-fiction in cui compariranno molteplici dei personaggi della Marvel, ma NON tutti gli avvenimenti, che vengono descritti in seguito, corrispondono a quelli accaduti nelle storie originali.
La linea temporale non viene sempre rispettata nel collocamento degli eventi che verranno descritti.

Spero sia di vostro gradimento e mi scuso in anticipo per il mio esser prolissa.
Buona lettura!

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Capitolo 2
*** •Capitolo I• ***


[]

L'allarme acuto ed insistente che proveniva dalla fastidiosa sveglia, interruppe il mio dolce sonno, che sembrava esser durato decisamente troppo poco.
Aprii lentamente gli occhi e, nonostante la vista fosse ovattata, non ebbi molti problemi a riconoscere, alla mia sinistra, il mio adorato comodino di legno, sul quale era poggiata la radiosveglia rossa che produceva quel rumore infernale.

Allungai la mano verso il comò per spegnere l'allarme: sentivo i miei muscoli muoversi difficilmente, non essendosi ancora svegliati del tutto.
Fatto tacere quel suono logorante, feci ricadere il braccio sulla mia fronte e con la coda dell'occhio controllai l'orario scritto sulla sveglia: erano le 6:05.

Probabilmente il mio organismo era ancora abituato al fuso orario di Stoccolma, quindi era estremamente stanco e scombussolato.
Guardai in basso, vicino al letto: sul pavimento, non ancora disfatta, c'era la mia valigia.

La sera prima, verso le otto, tornavo dall'aeroporto, e dopo aver trascorso ben due mesi nella capitale della Svezia, fu un piacere immenso ritornare ad Atlanta e ad abitare un appartamento che fosse a me familiare.
Ero talmente stanca che crollai, senza spogliarmi, sul mio amato materasso, vecchio ma non inutilizzabile.

Quindi la vista della mia vecchia stanza da letto tranquillizzò e rilassò i miei nervi, ma mi ricordò anche che avrei dovuto riprendere la mia vecchia routine giornaliera.
Issai il mio busto in piedi e cercai di fare mente locale: alle 6:30 sarei dovuta trovarmi sul posto di lavoro, dove non erano assolutamente consentiti dei ritardi.

Con un movimento brusco, accompagnato da un mugugno, poggiai le piante dei piedi sul pavimento freddo e, a stento in equilibrio, allungai le braccia verso il basso, per poi, frugare nella mia valigia alla ricerca di un paio di skinny jeans neri e una canotta del medesimo colore, sopra alla quale avrei indossato il mio giubbotto di pelle rosso.
Questa era la mia semplice tenuta da lavoro, il mio capo era indulgente sul vestiario dei suoi dipendenti.

Non ero nervosa, mi aspettavo una giornata abbastanza tranquilla, prendendo in considerazione che quello era il primo giorno in cui tornavo a lavorare alla base di Atlanta, quindi ero sicura che non mi avrebbero assegnato altri compiti quali compilare moduli o testare i nuovi armamenti.

Mi cambiai velocemente, gettai ciò che indossavo prima sul divano color panna in soggiorno e mi diressi saltellando velocemente verso il bagno per stendere un leggero trucco sul mio volto e per pettinare i miei lunghi capelli.

Successivamente afferrai e mi infilai un paio di stivali marroni, aventi un insignificante tacco interno, per poi prendere velocemente la solita borsa bianca che portavo sempre con me, il cui contenuto comprendeva il mio amato ed inseparabile cellulare, e le chiavi della macchina. 

Uscii dalla mia dimora per poi voltarmi e chiudere a chiave la porta, infine inspirai profondamente ad occhi chiusi.
Mi strinsi lentamente nel mio giubbotto di pelle al pensiero di come mi sia mancata questa città.
Per non parlare di quanto abbia sofferto l'assenza dei miei colleghi, anche loro si erano allontanati da Atlanta, a causa di innumerevoli motivazioni e problematiche, e solo quando le acque si calmarono l'intero team si sarebbe riunito nuovamente.
Eccitata, mi diressi verso la mia modesta Fiat nera, entrandovi la misi in accensione e cominciai a guidare lungo un tragitto, ormai ben impresso nella mia mente, che portava verso la base di Atlanta dello S.H.I.E.L.D.

Bastarono circa 25 minuti per raggiungere la mia destinazione, lontana dal centro della città, ma contemporaneamente distante dalla periferia, comunque era situata in un luogo non facilmente accessibile.

<> sussurrai rivolta al "Man in Black" posto al monitoraggio dei cancelli d'entrata della base, cercando di conservare un'espressione seria.
Ogni agente per poter entrare e confermare la propria appartenenza lavorativa in quell'edificio, doveva comunicare il proprio cognome, l'anno in cui ha cominciato ad essere attivo lì e chi lo ha assunto, ovviamente nella propria lingua madre.

Dopodiché, il mio interlocutore, con i suoi strumenti, scannerizzò il mio volto, per poi trascorrere qualche minuto a controllare, sul database dello S.H.I.E.L.D., la veridicità delle mie parole, infine decise di rivolgermi parola, attraverso una voce di circa due ottave più profonda della mia: <>.
A seguire il suo "Scusi per l'attesa, buona giornata" dietro di lui si aprirono gli enormi cancelli, costruiti in ferro, nel cuore dei quali era raffigurata, con il medesimo materiale, una maestosa aquila. 
Pensai per alcuni instanti a quella guardia, al fatto che dovesse necessariamente conoscere ogni lingua esistente su questo pianeta, e non, per confermare il codice d'ingresso di ogni agente che lavorasse ad Atlanta.

Oltrepassai con l'auto quei cancelli, e una gioia incontenibile nacque nel mio petto, un calore il quale mi suggeriva che adesso mi trovavo davvero a casa.

Parcheggiai la mia Fiat, chiusi la portiera e, con un gesto meccanico, riposi le chiavi nella mia borsa.
Quando osservai da vicino l'edificio, che non avevo visto per 62 lunghi giorni, esso suscitò in me infinita commozione, che fece sbocciare un sorriso sincero e genuino sulle mie labbra.
Con indosso quest'ultimo, mi avviai verso l'entrata e, arrivata alla porta, poggiai delicatamente una mano sulla maniglia facendovi una leggera pressione, alla quale conseguì l'apertura di essa. Appena entrata, notai molto movimento all'interno dell'edificio: oggi era il giorno di rientro per molti agenti e scienziati dello S.H.I.E.L.D. in Atlanta.

In lontananza scorsi un volto, che la mia mente non faticò molto a metabolizzare e riconoscere.


~ANGOLO AUTRICE~
Questo è il primo capitolo e tecnicamente non succede assolutamente nulla. Infatti in principio il numero 1 e il numero 2 dovevano essere un unico capitolo, ma -grazie ai reclami di chiunque a cui l'ho fatto leggere- ho deciso che era troppo lungo, quindi diviso, sarebbe stato più agevole da leggere.
Pubblicherò ogni -tot- di giorni, non chiedo stelline, because I don't fucking mind. 
Fatemi sapere cosa ne pensate~

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Capitolo 3
*** •Capitolo II• ***


[]

Ben presto anche Leo volse lo sguardo verso la soglia, riuscendomi a notare, quindi gli sfoderai uno dei miei migliori sorrisi, accompagnato da un gesto veloce della mano, in segno di saluto.
<> disse con un tono divertito, dal quale però si coglievano le sue note affettuose, mentre si avvicinava ad ampie falcate verso di me.
Imitandolo, anche io cominciai a camminare verso di lui, mentre le mie labbra pronunciavano compiaciute: <>
Finsi sarcasticamente una tonalità  seria, la quale però si concluse con una fragorosa e sonora risata.
Giunti ad una distanza tale da permetterci di comunicare con facilità, mi permisi di abbracciarlo dolcemente, ricevendo come risposta l'esser stretta tra le sue braccia calde. 

Leo era una persona infinitamente tenera, mi piaceva passare del tempo con lui.
Sembrava provenire da un fumetto: oltre ad essere semplicemente adorabile, era anche estremamente intelligente.
Nonostante non andassi particolarmente d'accordo con Jemma Simmons, parteggiavo per la loro coppia, una relazione amorosa simile alla trama di un romanzo rosa avente come protagonisti due scienziati folli.

<> si mossero le mie labbra, ancora inarcate in un sorriso radioso, mentre il mio occhio ammiccò con malizia.
Il colorito del viso di Leo variò impercettibilmente, dipingendosi di un leggero rosso terso, alla sua reazione inclinai leggermente la testa, facendomi sfuggire uno sghignazzo divertito.
Mi rispose con un verso somigliante ad un risolino estremamente imbarazzato.
<> interruppe il suo discorso portando la mano destra dietro la nuca, facendola passare attraverso i suoi capelli corti, ricci e color biondo cenere, attraverso un gesto impacciato e assolutamente non disinvolto.
<<È stata un'esperienza fantastica lavorare in una città simile! Uhm... A te? Immagino ti abbia fatto piacere tornare, anche se sotto le vesti di un'agente, nella tua madrepatria, no?>> finì col cambiare argomento, non amava essere il centro di un dialogo, ma si dimostrò comunque interessato al mio viaggio in Svezia.
<> risi goffamente per poi continuare il mio discorso: <> conclusi abbassando lo sguardo e sorridendo delicatamente.
Fitz intonò la risposta teneramente: <> ridacchiò debolmente, stavolta a suo agio. Proseguì <> scandì per poi poggiare la sua mano sinistra sulla mia spalla destra. 

Distolse il suo sguardo e osservando qualcuno, lontano da me, affermò allegro: <>. Stuzzicando la mia curiosità, volsi gli occhi in cerca di ciò che l'indice dello scienziato di fronte a me indicava.
Capii che Leo si stava riferendo al mio adorato capo: Phil Coulson, e il mio amabile collega: Alphonso Mackenzie.
Il primo camminava, disinvolto e dignitoso, a passo svelto, dietro una lunga vetrata (che segnava il confine fra le diverse stanze e i multipli corridoi) accompagnato dal secondo agente nominato prima.

Salutai teneramente Fitz con un bacio sulla guancia, per poi avanzare rapidamente verso di loro; e, arrivata a circa due metri distante dagli agenti, richiamai la loro attenzione: <>.
I due uomini si voltarono quasi contemporaneamente, Phil indossava il suo solito sorriso leggero e un'espressione lievemente sarcastica, mentre Mack inarcò ampiamente le labbra ed enunciò in modo signorile: <> mentre toccò Coulson debolmente con il gomito.
Quest'ultimo ribatté con: <> la sua espressione divenne divertita <> disse continuando a camminare e invitandomi a seguirlo, con un gesto appena accennato della mano.
<> confermai cercando di conservare un tono rispettoso.

< E qui, ad Atlanta, abbiamo infiniti compiti da svolgere e missioni portare a termine. Per non parlare delle migliaia di inumani che stanno emergendo ovunque nel mondo, ultimamente>> intervenì sospirando rassegnato Mack, rivolto a me, e dirigendo il mio volto verso l'uomo torreggiante, lo incoraggiai dicendo: <> sottolineai una tonalità sarcastica, ma al contempo affettuosa.
Ricambiò con un sorriso garbato, per poi alzare le sopracciglia e assumere un'espressione scherzosamente saccente, sussurrando: <> al fine di sdrammatizzare.

Attraversammo la soglia dell'ufficio di Coulson, dove egli stesso prese un cumulo di scartoffie, per poi voltarsi, conservando il suo atteggiamento sicuro e, fissando il suo sguardo determinato nei miei occhi color turchino, disse leggermente amareggiato: <> continuò porgendomi le svariate cartelle che aveva afferrato precedentemente <<...E tu, Yvonne, vorrei che adesso ti dirigessi verso il blocco Est di questo edificio, dove custodiamo gli inumani radunati nelle ultime due settimane, per poi trascriverne i profili personali attraverso le domande presenti in ogni cartella. Ognuno di questi fascicoli è destinato ad uno degli inumani>> mi illustrò Phil, flettendo strettamente le sue labbra in una curva all'insù.
Come sospettai la stessa mattinata, il mio amabile capo non aveva intenzione di assegnarmi incarichi esageratamente complicati o particolari, essendo il mio primo giorno di ritorno.

Finito il discorso di Coulson, Mack attirò la mia attenzione: <> disse con la sua voce estremamente profonda, cercando conferma nei miei occhi, per poi allungare il suo braccio verso di me, tendendomi gentilmente una busta, contenente evidentemente una merenda con cui avrei potuto fare colazione.
Gli sorrisi goffamente e, assumendo un'espressione imbarazzata e addolcita, bisbigliai sarcasticamente: <>

Afferrai con fermezza ciò che mi stavano porgendo Al e Phil, dando una veloce occhiata agli ultimi, e sorridendo un'ultima volta ai miei due interlocutori, mi voltai su me stessa scandendo: <> mentre mi incamminai verso l'uscita dell'ufficio del mio capo.
Dopo aver ricevuto conferma da parte di entrambi gli uomini, mormorai velocemente un "a dopo" per poi camminare a passo disinvolto e spedito attraverso il lungo corridoio, pullulante di dipendenti, che conduceva all'ampio reparto degli "inumani".


~ANGOLO AUTRICE~
Ow piccolo Phil, lo adoro~
Non ho assolutamente nulla da dire su questo capitolo, vi prometto che tra poco arriva Loooki'd~
Spero sia accettabile come fan-fiction \OuO/
Baci_

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Capitolo 4
*** •Capitolo III• ***


{Canzone consigliata: Epic pop- Silent running [Hidden citizens- Epic trailer version]- Jannyni20 / https://youtu.be/y7chwkrQBh4 }

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<<...tutta la sua famiglia proviene dal Nord-Africa, signor Bloom?>> chiesi giocherellando con la penna che impugnavo instabilmente con la mano destra, mentre trasferivo il peso del mio corpo da una gamba all'altra, appoggiandomi leggermente alla scrivania in mogano dietro di me.
<> affermò l'uomo seduto sul suo letto di fronte a me; eravamo separati solo da un vetro tanto sottile quanto resistente.
Passò le sue ingenti mani sulla testa rasata, contemplando nervosamente ancora una volta la cella candida, abbastanza angusta rispetto ad una stanza di normali dimensioni, in cui si trovava ormai da due lunghi giorni, dando credito alle sue parole.

<> continuai a chiedergli  meccanicamente senza nemmeno più guardare i fogli che mi aveva consegnato Coulson. 

Fissai il mio sguardo nei suoi occhi color castagna, che vagavano bruscamente in ogni direzione, mentre la sua pelle scura era adornata da mille goccioline di sudore. 
Iniziavo a preoccuparmi per lo stato dell'inumano che stavo esaminando: Andrè, si chiamava, era molto inquieto, e non sembrava voler tranquillizzarsi.
Mi dispiaceva vederlo in quello stato, sembrava che potesse perdere i sensi da un istante all'altro.

<> sospirò profondamente cercando di calmarsi, quasi in vano.
<> deglutì tenuemente per poi continuare: <> concluse continuandosi a torturare le mani.

Annuii soprappensiero, distolsi la mia attenzione dall'inumano per cercare, nella mia borsa lattea, ciò che Mack mia aveva gentilmente dato più di cinque ore prima. Afferrai la busta di carta contenente i residui della graffa che avevo lasciato, per poi avvicinarmi a passo svelto verso la sottile e lunga fessura che, se aperta, metteva in comunicazione l'esterno con la cella di Andrè.

<> dissi garbatamente, per poi passarmi una mano sul mio jeans nero.
L'uomo mi guardò quasi esterrefatto, probabilmente pensava che qui sarebbe stato trattato come un esperimento, e il mio gesto premuroso lo rilassò.

Prese la busta e, lievemente scettico, controllò cosa ci fosse all'interno: con due dita della mano destra prese quel pezzo di ciambella e lo cacciò in bocca compiaciuto.
Sorridendo si rivolse a me: <> concluse abbandonandosi ad una risata smorzata.
Sospirai scherzosamente, rispondendo: <> chiusi gli occhi per poi accompagnarlo nelle sue risa, e lui, accartocciando lentamente la busta ormai vuota, che conservava nelle sue mani, disse stavolta con più calma: <>.
Gli risposi assumendo un tono comprensivo: <>.
Ribatté sussurrando: <<...Già...potere...>> per poi coprirsi ancora una volta il viso con le mani.

Mi avvicinai al vetro nitido della sua cella, chiedendo abbassando leggermente la voce: <>.
Alla mia richiesta riportò la sua attenzione su di me, sulle mie labbra rosee e, riflettendoci per qualche istante, volse a me queste parole: 

<<È stato a dir poco tremendo.>> fece una leggera pausa per poi continuare sospirando: <>

"Asma?" ipotizzai senza soffermarmi molto su quella descrizione.

Continuai ad ascoltare i suoi sintomi: <<... poi un tremolio nervoso iniziò ad invadere i miei arti inferiori; la nausea era tremenda e soffocava il mio respiro irregolare; la mia pelle stava bruciando, come se, sotto al mio strato cutaneo, fossero presenti delle fiamme persistenti e le mie orecchie sentivano solo un assordante fischio inarrestabile.>>

"Non è assolutamente asma..." affermai stupidamente dopo aver ascoltato il resto di ciò che stava dicendo Andrè. 

Proseguì con il suo tono di voce grave: <<... Decisi quindi di alzarmi, usando lo schienale della poltrona che si trovava affianco a me. Appena la mia mano ne stabilì un contatto, una non poco leggera scossa percorse le mie dita, la quale non fece che peggiorare il bruciore che stava consumando la mia pelle; quindi volsi i miei occhi, che dovevano essere iniettati di sangue, dato che potevo sentirli distintamente pulsare, alla mia mano ancora a contatto con la pelle del divanetto: vidi una sottile, quando ruvida e non uniforme, patina di ghiaccio che ricopriva abbastanza della superficie di quello schienale.>> concluse fissando un punto indefinito all'interno della cella.

Rabbrividii a quel racconto, non nego che alcune volte il mio pensiero si volgeva al fatto che mi piacerebbe scoprire di conservare un talento inumano dentro di me, ma, a sentir descrivere quelle sensazioni, ringrazio il creatore di esser nata totalmente umana.

Andrè scosse febbrilmente la testa, probabilmente per scacciare il ricordo di quella malinconica giornata, in cui dovette dire addio alla sua, ormai, deceduta vita da umano, per poi rivolgermi un sorriso cordiale e pronunciare con tono rassegnatamente leggero: <> sforzò una risata amichevole.

Gli risposi con un caloroso sorriso, inconsciamente compassionevole, per poi avvicinarmi alle cartelle che avevo momentaneamente poggiato sulla scrivania dietro di me, e cominciai ad appuntare ciò che mi aveva riferito Andrè.

Mentre scrivevo, l'inumano mi osservava dubbioso e, dopo aver inarcato leggermente le sopracciglia, assumendo un'espressione interrogativa, disse volgendosi a me: <>.
Il suo modo di parlare, profondamente ironico, mi ricordava vagamente quello di Tony Stark, e volgendo il mio pensiero a quello sfacciato di un miliardario, mi chiesi cosa stesse facendo in quel momento, con tutta la troupe dei vendicatori.

Ritornai velocemente alla realtà di quel momento e non pensai più di una volta di parlare con Andrè inopportunamente del compito che stavo svolgendo a partire dalla stessa mattinata fino a quell'ora. 
Non so esattamente cosa in quell'uomo ispirava innata fiducia nei suoi confronti, eppure gli dissi ciò che non gli riguardava: <> gli spiegai velocemente, soddisfano la mia irrazionale impulsività e mi chiesi per quale motivo dovesse essere tanto dubbioso.

Poggiò lentamente il mento sulle sue nocche e guardando in basso sembrò riflettere su ciò che gli avevo appena detto. Pochi istanti dopo scrollò le spalle e alzando il lato sinistro delle sue labbra disse semplicemente: <<È che mi sembra strano il fatto che voi dobbiate segnare ciò che vi diciamo nonostante abbiate non so quanti hacker, che già dovrebbero aver registrato vita, morte e miracoli di ogni essere vivente su questa Terra>> parlò guardandomi con candida curiosità.

Mi piaceva guardarlo riflettere: era un uomo solare, uno di quei tipi con la battuta pronta e di certo non si poteva definire ignorante.

<> risposi gesticolando con entrambe le mani, mentre presi ad annuire, intenta a convincere più me stessa che il mio interlocutore.

In effetti, Andrè, con quell'affermazione mi fece riflettere su ciò che stavo svolgendo: concretamente lo S.H.I.E.L.D. possedeva infiniti hacker e informatici diplomati con tanto di bacio accademico. 
Per non parlare degli informatori che ci forniscono ogni rapporto o ragguaglio su qualunque persona della quale noi ne avessimo bisogno.
Quindi perché mi dovrebbe aver fatto perdere l'intera mattinata a scrivere su carta le loro informazioni personali?

Quell'arco temporale di silenzio, privo di una risposta da entrambi, sviluppò un leggero disagio aleatorio fra me e lui.
Andrè, non sentendo alcuna parola provenir da me, si chiese se avesse chiesto ciò che doveva evitare di dire o se avesse superato il limite del mio spazio personale e lavorativo, così cominciò a proferir parola con tono scusante: <> concluse con una candida e accorta risata.

Portai il mio sguardo sorpreso su di lui, mentre portai, con un gesto svelto della mano, una ciocca di capelli color castano cenere dietro all'orecchio, per poi rispondere con: <> che accompagnai con una goffa risata.

Nel tempo in cui Andrè proseguì col dire: "Immagino che deve essere davvero fantastico far parte di un team del genere", o una frase simile, il mio sguardo si pose distrattamente sul mio orologio da polso.

Sgranai gli occhi; era davvero tardi, quasi ora di pranzo.
Afferrai le cartelle degli inumani per controllare a quale numero fossi arrivata: 20; avevo quasi finito, ne mancava solo uno.
Mi guardai attorno, in cerca della cella numero 21, eppure, quella di Andrè, sembrava effettivamente l'ultima.

Mi allontanai di pochi passi dalla cella dell'inumano che stavo esaminando al momento, per poter osservare meglio la stanza in cui mi trovavo, e, a destra della cella che avevo davanti a me, notai uno stretto corridoio che si concludeva con una non poco grande porta, sulla quale vedevo inciso il numero "21".

Ri-porgei il mio sguardo su Andrè e, afferrando la mia borsa e le scartoffie di Couslon, pronunciai a lui queste parole: <> accompagnandole con un gesto svelto della mano e un sorriso cordiale.

Ricevetti come risposta: <> concludendo con una risata genuina e sincera.

Stavo già camminando attraverso quel corridoio quando sentii la frase che Andrè pronunciò. 
Quella frase fu capace di attanagliarmi il cuore. Quella frase mi era fin troppo familiare, l'ultima volta che le mie orecchie la sentirono, a pronunciarla fu una persona che ricoprì un ruolo molto prezioso nella mia vita, se non il più prezioso. Un ruolo che sarebbe destinato a restare vuoto ed arido finché il mio cuore mi permetteva di vivere, un ruolo che nessun altro sarebbe stato capace di svolgere.

Nella mia mente viaggiarono infinite e dolciastre memorie, che ritraevano i mille e, ormai, melanconici momenti che trascorsi con quella persona.
Sentii i miei occhi riempirsi di lacrime salate e cominciai a tirar su con il naso, eppure non mi fermai, continuai a camminare verso quella porta, consapevole che chiunque si trovasse dalla parte opposta avrebbe assistito allo squallido spettacolo del mio pianto amaro.

Sforzai la maniglia di quel portone e appena riuscii ad aprirlo completamente ed immergere parte del mio corpo nella nuova stanza in cui stavo entrando, un vento gelido si insinuò nella mia pelle, sino ad arrivare nelle profondità delle mie ossa.
Un alito di vento ghiacciato si abbatté contro il mio volto, ghiacciando sul momento le lacrime raccolte precedentemente nei miei occhi, non permettendo che scivolassero lungo le mie gote.

La mia bocca si aprì leggermente, facendo assumere una sfumatura di stupore alla mia espressione, quando focalizzai la mia attenzione su ciò che mi si parava davanti: avevo trovato la cella numero 21, al centro di quella stanza gelida, e all'interno si ergeva una figura maestosa con una postura orgogliosa ed un'immagine altrettanto regale.

Guardai il viso di quell'uomo: sembrava quasi assumere un'aria derisoria e non appena incastrò il suo sguardo nei miei occhi color celeste, sembrò variare espressione in una che mi mostrava abbastanza sorpresa.
In quel preciso momento lo riconobbi, riconobbi il gigante di ghiaccio che, recentemente, aveva conquistato una fama di livello mondiale. Una fama negativa, sicuramente, avendo distrutto, quasi completamente, la città della Grande Mela.

Rimasi immobile, con la mia mano destra ancora a contatto con la maniglia del portone, fu l'uomo dai capelli color corvino a smuovermi dai miei pensieri, dicendo, con un tono di voce soffice: <>.


~ANGOLO AUTRICE~
**Mary Kubica è una scrittrice famosa per i suoi thriller, uno dei più recenti si intitola "La sconosciuta" ed è quello a cui si riferisce Loki, vedendo arrivare Yvonne.

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