Maturità - Un anno per crescere 2

di Laylath
(/viewuser.php?uid=170978)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. Vecchie conoscenze ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. Partenze e arrivi ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. Nuova settimana ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4. Vita cittadina ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5. Il lavoro nobilita ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6. Ritratto di famiglia ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7. Accelerazioni e sterzate ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8. Una ragazza scappata di casa ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9. Echi del passato ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10. Festa del 1 dicembre. Prima parte ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11. Festa del 1 dicembre. Seconda parte. ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12. Quel che resta lo zoccolo duro ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13. Il momento di decidere ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14. Gli avvenimenti di East City. Prima parte. ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15. Gli avvenimenti di East City. Seconda parte. ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16. Gli avvenimenti di East City. Terza parte. ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17. Gli avvenimenti di East City. Quarta parte ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18. Gli avvenimenti di East City. Quinta parte ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19. Gli avvenimenti di East City. Sesta parte ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20. Meccanismi collaudati ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21. Frammenti da ricomporre ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22. Le regole del gioco ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23. Le persone giuste con cui confrontarsi ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24. Lato oscuro ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25. Luna storta ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26. Crepe ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27. Per un figlio ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28. Caino e Abele ***
Capitolo 29: *** Capitolo 29. Tempi di ripartenza ***
Capitolo 30: *** Capitolo 30. Rebecca ***
Capitolo 31: *** Capitolo 31. Interferenze ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. Vecchie conoscenze ***


 

Capitolo 1. Vecchie conoscenze

 


Quel piccolo angolo di mondo, 31 agosto 1901
 
Quell’ultimo pomeriggio di agosto era piacevolmente caldo, ma già portava i primi segni dei venti freschi che annunciavano l’autunno. Dopo tre anni in cui l’estate aveva dato il peggio di sé, finalmente il tempo aveva deciso di concedere una tregua e di regalare a quel piccolo angolo di mondo una stagione calda con temperature accettabili.
Tutta la campagna sembrava godere di quel cambiamento: le cicale frinivano, i campi brulicavano di vita con decine e decine di insetti e altri piccoli animali che, forti di quel tempo mite, operavano industriosi per accumulare cibo per i mesi più freddi. Pure loro, dopo quei tre anni di netta siccità, apprezzavano quel clima più gentile. Ma era tutta la natura che pareva festeggiare quell’estate bellissima che ormai volgeva al termine: ogni prato, albero, fiore sembrava risplendere di una vitalità del tutto nuova, con colori e profumi così intensi da inebriare persino chi stava in quei posti da una vita intera.
 
In un sentiero che costeggiava campi incolti, la cui erba ed i fiori selvatici emanavano una fresca fragranza, passeggiavano due ragazze che si tenevano amichevolmente a braccetto mentre chiacchieravano con aria complice. Una bionda, l’altra mora, erano in quella fase della vita in cui si sboccia definitivamente in donne, abbandonando gli ultimi residui dell’adolescenza: i corpi giovani e vitali avevano perso le ultime indecisioni della crescita e anche dagli atteggiamenti, a partire dal modo di camminare, si denotava una maggiore scioltezza rispetto alla goffaggine spesso presente nel delicato passaggio tra l’essere ragazzine ed essere donne.
“Ho un grande annuncio da farti” dichiarò Rebecca, stringendo ulteriormente la presa su Riza.
“Annuncio? – la bionda si girò verso l’amica con aria sorpresa – Mi devo preoccupare?”.
“Spiritosa – mise il broncio la mora, risultando adorabile persino con quell’espressione tanto era vitale il suo viso abbronzato – se non fossi la mia migliore amica mi offenderei irrimediabilmente per questa mancanza di fiducia”.
“Suvvia, non fare così – sorrise Riza con aria di scusa, consolidando a sua volta la presa sull’altra – non vorrai rovinarti questo fatidico annuncio che stai tenendo nascosto da almeno due settimane. Come se non l’avessi capito che ti stavi trattenendo: dev’essere davvero qualcosa di importante”.
Gli occhi scuri di Rebecca fissarono per qualche secondo quelli castani dell’altra e fu come se, per un collaudato meccanismo, l’armonia tornasse tra di loro.
“Va bene, va bene – annuì la mora, assumendo un’aria di grande importanza – come sempre hai ragione. Dunque, come sai tra due giorni iniziano le scuole e noi siamo delle donne libere: il nostro periodo di prigionia tra i banchi è finalmente finito”.
Riza annuì a quella premessa, ben conscia che per entrambe quell’estate aveva avuto un gusto completamente diverso: era come se fosse stata il preludio ad una nuova fase della loro esistenza, ancora in parte sconosciuta e misteriosa, ma proprio per questo piena di attrattiva e aspettative. Niente più scuola, ormai avevano diciotto anni ed erano delle donne: le loro vite erano ad una svolta decisiva, sebbene non sapessero ancora cosa avrebbero trovato dietro la nuova curva del loro personale sentiero.
“… ci ho rimuginato spesso in questi mesi – continuò Rebecca – a dire il vero da inizio anno e sono arrivata ad una conclusione. Ho deciso che come riniziano le scuole…”
“… ti prego, non dirmi che vuoi diventare insegnante che proprio non ti ci vedo!”
“Nemmeno per sogno! – inorridì la mora – se la smettessi di interrompermi… dicevo: ho deciso che a partire dalla settimana prossima inizio a lavorare! Non ti pare una cosa grandiosa?”
“Lavorare?” Riza si fermò di colpo nel sentiero, tanto che diede un lieve strattone all’amica che invece aveva proseguito allegra nella camminata.
Questa sì che era una grande novità e, proprio come la maggior parte di quelle che riguardavano Rebecca, sembrava annunciare una catastrofe. A dire il vero non c’era niente di male in quella decisione, sebbene facesse davvero uno strano effetto sentirla dichiarare così apertamente.
Il nuovo secolo era ormai iniziato e, soprattutto nell’ambiente cittadino, le donne avevano man mano preso una nuova consapevolezza di se stesse e delle loro possibilità: ormai avevano l’accesso a molti mestieri prima preclusi e sembrava che, volente o nolente, la società si dovesse adeguare a questi nuovi cambiamenti. Ovviamente nel piccolo angolo di campagna dove si trovava il paese tutto questo arrivava in maniera molto più ovattata, come sempre succedeva: nonostante rare eccezioni come Laura Breda e la sua attività di sarta, le ragazze preferivano ancora vivere nel guscio protettivo della famiglia prima e del matrimonio poi, limitandosi a lavorare nelle attività dei genitori o del marito. Solo l’insegnamento era considerato qualcosa alla portata femminile, ma solo per quanto concerneva le classi elementari. L’educazione di una fanciulla si considerava terminata con il liceo ed erano ancora pochissimi i casi di ragazze che avevano deciso di proseguire gli studi all’Università. Anzi, a dire il vero, in paese l’unica persona che avesse intrapreso gli studi in città era stata Elisa, la nipote del proprietario della piccola libreria.
“Sì, lavorare – ribadì Rebecca con aria fiera – non ho certo voglia di starmene a casa fino a quando non diventerò la signora Havoc”.
“Mi raccomando di non dirlo a Jean, altrimenti scappa fino all’altra parte del mondo. Sai bene che è particolarmente allergico alla parola matrimonio”.
“Nonostante siamo fidanzati da oltre cinque anni”.
“E tu ne hai compiuti diciotto a marzo – le ricordò Riza – non correre così, suvvia. Ne avete di tempo!”
“La questione è che non ho nessuna intenzione di passare le mie giornate a casa con mia madre. Prima tra scuola e compiti ci poteva stare, ma adesso urge fuggire via per quanto possibile”.
“Se non litigate almeno due volte al giorno non siete felici, eh?”
“Non mi capisce, tutto qui, e io mi sono stancata di essere accomodante. Sono arrivata alla conclusione che non le piaccia Jean, ma rimane fresca se pensa che rompa il mio fidanzamento con lui”.
Riza sospirò con indulgenza, ben sapendo che Jean era forse l’ultimo dei problemi nel rocambolesco rapporto tra madre e figlia. Penelope Catalina non era certo una donna semplice da gestire, tutt’altro e non si poteva dire che fosse la miglior persona del mondo: bastava pensare che, a distanza di cinque anni, era ancora una delle poche che nutriva sentimenti di astio nei confronti di Laura Breda per via del suo status di donna separata. Rebecca aveva preso molto del suo carattere rumoroso, ma per fortuna aveva una maggior dose di buon senso… nella maggior parte dei casi.
“E questo fantomatico lavoro?”
“Senti che grande trovata: da lunedì andrò a lavorare nell’emporio degli Havoc. Non solo starò lontana da casa, ma avrò occasione di passare più tempo con Jean: non sai che strazio quest’ultimo anno scolastico in cui lui non c’era”.
“Oh sì che lo so – sospirò Riza, ricordando le tragedie durante gli intervalli in cui l’amica si era lamentata della mancanza del fidanzato – ma, tornando a noi, i signori Havoc lo sanno, vero?”
“Ovviamente no, sei la prima che lo sa”.
“Fammi capire, Rebecca Catalina – la bionda questa volta si fermò saldamente sul sentiero, obbligando anche l’amica a fare altrettanto – lunedì hai intenzione di andare all’emporio e annunciare che lavorerai lì senza aver chiesto niente a nessuno?”
“Sono la fidanzata di Jean, non vedo che cosa ci sia da chiedere. Anche la signora Havoc ha lavorato all’emporio da quando era fidanzata, ce l’ha raccontato lei stessa”.
“Sì, ma sicuramente si era messa d’accordo con il signor Havoc e anche con la sua famiglia. Reby, non puoi fare di testa tua: devi prima chiedere il permesso”.
“Ho diciotto anni, sono maggiorenne”.
“Non si direbbe dal tuo atteggiamento – sbuffò Riza – Insomma! Rischi di creare un sacco di problemi. Per prima cosa devi parlarne a casa e vedere se per i tuoi va bene e poi ne devi parlare anche a Jean e alla sua famiglia”.
“Sciocchezze, o meglio ne parlerò con chi di dovere al momento opportuno. Tu stai sentendo la notizia in anticipo solo perché sei la mia migliore amica e confido nel tuo silenzio”.
Come spesso accadeva durante richieste simili, Rebecca puntò l’indice contro la fronte dell’amica e la squadrò con aria sicura, come se la sfidasse a tradire la loro storica fiducia e amicizia.
“E sia – concesse la bionda con aria contrariata – so benissimo che non riuscirò a farti cambiare idea. Ma non venire a piangere miseria quando tutto andrà a rotoli”.
“E’ un bene che ci sia almeno una ottimista tra noi due – dichiarò Rebecca con spavalderia, mentre la incitava a riprendere a camminare verso il paese – Forza, andiamo, non avevi un appuntamento con il tuo fidanzato? Domani parte per la città, dovete salutarvi come si deve, no?”
“Finiscila!” arrossì con imbarazzo Riza, cercando di non pensare a tutte le conseguenze che avrebbe portato la decisione fin troppo all’avanguardia dell’amica.
 
Nello stesso momento pure Roy era in una situazione leggermente imbarazzante, sebbene per tutt’altro motivo. Osservava infatti la signora Falman che gli mostrava il contenuto di un pacco che stava preparando davanti a lui.
“Cinque maglie di cotone, tre paia di calzini puliti – elencò Rosie con aria pensosa – ah, e mi raccomando: se hai bisogno di qualcosa non devi esitare a farmelo sapere: ti posso anche spedire tutto via posta”.
“Signora – la bloccò Roy – sul serio, non c’è bisogno di tutto questo disturbo”.
“Disturbo – Rosie lo squadrò con sorpresa e poi sorrise – Oh, caro, nessun disturbo, ma quando mai! Per me è un piacere pensare a queste cose. Comunque credo che ci sia tutto: finisco di impacchettare così puoi mettere tutto quanto in valigia già stasera”.
Mentre osservava la donna che iniziava ad avvolgere tutto nella carta velina, Roy dovette fare uno sforzo per restare con l’espressione leggermente indignata piuttosto che lasciarsi andare ad un sorriso grato nei confronti della donna. Non era un mistero che la signora Falman lo trattava ormai come un secondo figlio da anni e questo voleva dire venir sottoposto anche a queste piccole torture, proprio come era successo a Vato per tutto il periodo in cui era stato all’Università.
“A dicembre finisco l’Accademia, così non si dovrà più prepararmi tutte queste cose ogni volta che parto”.
“Già, finisci l’Accademia – Rosie alzò lo sguardo dal pacco ormai legato e lo puntò su quel ragazzo alto e snello che nel corso degli anni si era fatto sempre più bello. Quel viso affilato, quegli occhi scuri e sottili, i capelli nerissimi erano completamente diversi da quelli di qualsiasi altro giovane di campagna – prima Vato con l’Università e ora tu con l’Accademia…come crescono i miei ragazzi”.
“Suvvia, signora, non faccia così – Roy si alzò con imbarazzo dalla sedia e si accostò alla donna, incerto su come gestire questo momento di sentimentalismo materno – non si commuova”.
“Commuovermi, io? – lo prese bonariamente in giro Rosie, posandogli una mano sulla guancia fresca di rasatura e ancora profumata da una colonia che ormai Roy era solito usare – Dici così solo perché mi sono messa a piangere la prima volta che ti ho visto con la divisa da cadetto. Ma è passato un anno e mezza ormai”.
“A gennaio torno con quella da soldato, mi devo preoccupare di reazioni simili?”
Sorrise in maniera tremendamente affascinante tanto che Rosie, se non l’avesse conosciuto sin da giovane e non avesse nutrito per lui sentimenti materni, si sarebbe trovata ad arrossire come una ragazzina nonostante i suoi quarantasei anni.
Il carisma e la sfacciataggine di Roy Mustang si erano smussati negli ultimi tempi, complice anche la vita cittadina, e ne era venuto fuori un uomo decisamente affascinante, capace di intrappolare il mondo con il suo magnetismo. In lui c’era qualcosa di nobile che lo differenziava dal resto dei suoi amici: che fosse con la divisa dell’Accademia o in vestiti borghesi, i suoi atteggiamenti denotavano qualcosa di diverso rispetto al resto dei coetanei del paese. Eppure, nonostante fosse chiaro che Roy fosse consapevole di questa sua peculiarità, non assumeva atteggiamenti di superiorità nei confronti dei suoi amici: restava il leader del gruppo perché era il suo ruolo naturale, ma niente era cambiato nei suoi rapporti con gli altri, sebbene, una volta finite le scuole, le loro strade avessero preso vie diverse.
“Suvvia, mamma – commentò Vato, raggiungendoli nel salotto – non intrappolare ancora Roy. Abbiamo delle commissioni da fare”.
“Già, è vero – Rosie si affettò a terminare il pacco e lo consegnò all’interessato – allora domani fai in tempo a passare per un saluto, vero? Ti preparerò qualcosa per il viaggio”.
“Come sempre, signora – rassicurò Roy – a domani”.
“Ci vediamo dopo, mamma” salutò Vato, mentre assieme all’amico usciva di casa.
Rimasta sola in quel salotto che le sembrava improvvisamente vuoto, la signora Falman rimase a fissare per qualche secondo la porta appena chiusa, mentre rievocava l’immagine di due ragazzi che, ancora a scuola, correvano fuori per andare a giocare con gli amici. Le sembrava una vita prima, eppure erano passati appena cinque anni.
Adesso suo figlio Vato di anni ne aveva ventuno ed aveva appena terminato l’Università con il massimo dei voti, laureandosi in materie umanistiche e con estrema stima dei suoi docenti che già gli richiedevano collaborazioni. Storiografo e filologo… a Rosie sembravano delle cose così astruse rispetto alla vita di tutti i giorni, ma non aveva mai avuto dubbi che suo figlio avrebbe seguito una strada simile. Forse nell’adolescenza Vato aveva avuto qualche indecisione se seguire la sua passione, ossia i libri, o diventare poliziotto come il padre, ma alla fine la sua vera vocazione aveva prevalso.
Proprio due giorni prima aveva ricevuto una lettera di un suo docente che gli richiedeva uno studio su un qualcosa che Rosie nemmeno riusciva a ricordare. Metà della chiacchierata durante la cena era stato su quell’argomento, ma per lei e Vincent era come se Vato parlasse un’altra lingua.
Oh, ma che importa – pensò con una scrollata di spalle – basta che lui sia realizzato.
E per quanto riguardava l’altro suo ragazzo, Rosie non aveva alcun dubbio che si sarebbe fatto onore in questi ultimi mesi d’Accademia. Ma mentre Vato era tornato in paese per restare, dichiarando che poteva tranquillamente lavorare a casa per la maggior parte del tempo, era destino che il secondo uccellino volasse lontano dal nido.
“No no – si disse, asciugandosi col grembiule una piccola lacrima che le pizzicava l’occhio sinistro – niente lacrime, Rosie Falman, l’hai promesso. Sei proprio un disastro”.
Trasse un profondo respiro, respingendo il groppo in gola che si faceva avanti, e si avviò in cucina per iniziare a preparare la cena. Lavorare le avrebbe impedito di farsi prendere dalla commozione, almeno fino al ritorno a casa di Vincent.
 
“Mi raccomando di scrivere qualche lettera a casa – stava dicendo Vato in quel momento, mentre con l’amico si dirigeva verso la libreria del paese – lo sai che mamma e papà ci tengono”.
Non disse i miei, non lo faceva ormai da anni. Per un tacito accordo erano i genitori di entrambi, sebbene fosse rimasta quella strana forma di orgoglio adolescenziale per cui certe cose, per quanto ovvie, non andavano mai dette a voce alta. Del resto non c’era nessuna nota legale che diceva che Roy, orfano di entrambi i genitori, fosse stato adottato dalla famiglia Falman: no, lui continuava ad avere la sua stanza sopra il locale di sua zia, Madame Christmas, continuava a tenere il suo cognome e a non aver ufficialmente niente a che vedere con la famiglia del capitano di polizia.
Però era un dato di fatto che il tempo passato con l’amico ed i suoi genitori fosse aumentato col passare degli anni. Così come era vero che i legami con i due adulti si fossero mano a mano rafforzati, tanto che le figure sbiadite dei defunti genitori erano state man mano sostituite da Vincent e Rosie Falman. Della madre Roy conservava solo una vecchia foto e ancora si cullava nella certezza che, se non fosse morta, l’avrebbe amato con tutta se stessa, mostrandosi fiera di lui e delle sue scelta di vita. Ma ormai Katherina Berriel Mustang era sfumata in una figura mitica, quasi un’icona di valore religioso a cui si è legati per principio: nella vita reale, nei momenti difficili così come quelli quotidiani, il conforto e l’affetto materno, da oltre cinque anni, provenivano da Rosie Falman. Del resto sua zia, da quel gran personaggio che era, non aveva mai instaurato con lui un rapporto di confidenza tale: per quanto lo conoscesse più del previsto l’aveva sempre lasciato agire come meglio credeva, dandogli pochi e fondamentali insegnamenti.
A volte Roy pensava che Madame Christmas avesse trovato parecchio divertente il momento in cui il capitano Falman aveva deciso di sua iniziativa di prenderlo sotto la sua ala protettiva e di metterlo in riga.
“Certo che scriverò – sbottò Roy con aria rassegnata – so bene che il capitano mi farebbe una ramanzina infinita sulla mia mancanza di tatto”.
A quella rimostranza Vato ridacchiò con malizia, a dimostrazione di come in tutti quegli anni il rapporto in parte burrascoso tra il giovane Mustang e Vincent Falman non fosse molto cambiato. Certo, il tempo delle bravate era terminato, ma il punzecchiarsi a vicenda era rimasto una costante a cui ormai tutti erano abituati.
“In realtà lo sai bene che lui aspetta le tue lettere con la stessa aspettativa di mamma – commentò ancora Vato, le sue ciocche bicolori mosse leggermente dalla brezza pomeridiana, mentre arrivavano davanti alla piccola libreria gestita dal nonno di Elisa – mi aspetti qui? Me la sbrigo in un paio di minuti: devo solo prendere alcuni accordi col signor Meril”.
“Vai pure: tra poco dovrebbe anche arrivare Riza e nel caso la intercetto piuttosto che farla andare inutilmente al locale di mia zia”.
Osservando il ragazzo alto e snello, fin troppo, che entrava dentro l’edificio dalla vetrina piena di libri, Roy rifletté su quanto era cresciuto quella strana forma di fratello adottivo così diverso da lui. Forse era una suggestione dovuta al fatto che avesse terminato l’Università ad inizio estate e dunque quella fase del suo percorso di vita si fosse conclusa, immettendolo ufficialmente nella fase adulta, eppure c’era qualcosa di nuovo in lui. Come se avesse preso una nuova sicurezza di chi sa perfettamente come andranno le cose; del resto era proprio così: avrebbe lavorato nella libreria a partire dalla settimana prossima e poi c’erano tutte quelle collaborazioni con l’Università di East City. Sebbene il paese fosse abbastanza perplesso sull’avere uno studioso, dato che l’unico esempio che conoscevano era lo strambo Berthold Hawkeye, Vato non si lasciava minimamente scoraggiare. E poi a breve sarebbe tornata anche Elisa che, finalmente, aveva terminato i suoi mesi di tirocinio all’ospedale della città, diventando una dottoressa a tutti gli effetti.
Sì, effettivamente la sua vita si sta pienamente realizzando – pensò Roy, guardando con aria distratta lo spago che teneva assieme il pacco che teneva in mano – niente male per un ragazzo d pensiero.
Scosse il capo e cacciò via la lieve malinconia che faceva capolino nel suo animo.
Non doveva farsi prendere dalla nostalgia per quel paese, non era proprio il caso. Terminata l’Accademia sarebbe entrato ufficialmente nell’esercito: la sua vita era destinata ad essere in città, nel fronte, ovunque tranne in quel posto che, per tanti anni, gli era sembrato troppo stretto.
In quell’anno e mezza di Accademia aveva provato, seppur in maniera limitata, l’ebbrezza della vita cittadina ed era stato un qualcosa di incredibilmente affascinante. Il ritmo era molto più rapido, una danza più vivace e complessa rispetto a quella della vita paesana… una danza i cui passi lo attiravano sempre di più e che scopriva di saper ballare alla perfezione.
Restava però il paese, con quelle persone che erano tanti fili che lo tenevano legato a quella realtà. Fili sin troppo belli e dolci e per questo a volte scomodi, quasi gli impedissero di prendere davvero la rincorsa per il suo volo. Perché Roy Mustang era caparbio e voleva diventare un alto grado dell’esercito ed un alchimista di stato, coerente fino all’ultimo con le sue scelte di vita fatte quando era ancora un ragazzino. Eppure una parte del suo cuore era rimasta intrappolata in quel piccolo angolo di mondo e così quei mesi di Accademia che ancora lo attendevano gli apparivano quasi come una piccola grazia. Un piccolo rimandare una separazione forse definitiva.
Sei un vigliacco – si rimproverò amaramente.
“Ciao, Roy” salutò Riza, interrompendo quei pensieri.
“Vi lascio soli, piccioncini – strizzò l’occhio Rebecca, rivolgendo appena un cenno di saluto al moro – mi aspettano a casa. Ci vediamo domani, Riza”.
“Piccioncini? – commentò sarcasticamente Roy, osservandola allontanarsi – Sempre simpatica…”
“Non farci caso – scosse il capo Riza, le guance rosse per l’imbarazzo di quel nomignolo – rispetto a quello di cui mi ha parlato sino a poco prima è ben poca cosa”.
“In che senso?”
“Diciamo che parti giusto in tempo per evitarti un periodo alquanto movimentato”.
I due fidanzati si guardarono in silenzio per qualche secondo e poi riuscirono finalmente a sorridere. Al contrario di altre coppie non si diedero un bacio o si presero per mano: se da una parte Riza era molto timida per simili cose in luogo pubblico, dall’altra Roy le riteneva non necessarie. Non che quando fossero soli il romanticismo tra loro mancasse, ma tendevano ad essere parecchio riservati. Era come se il loro essere diversi rispetto agli altri ragazzi del paese, con le loro vite normali, si dovesse riflettere anche in questi dettagli.
“La signora Falman ti ha preparato qualcosa per l’Accademia? – chiese Riza, spezzando quella pausa e accennando al pacco – E’ davvero gentile con te”.
 “Già. Comunque sto aspettando Vato che è entrato qualche secondo per parlare col nonno di Elisa”.
“Lo aspetto volentieri pure io. Non vedo l’ora che lei torni in paese… ci pensi? Una dottoressa! Sono così fiera di lei”.
“Allora è proprio intenzionata ad esercitare qui, eh?”
“Beh, del resto il dottore ha una certa età – annuì la ragazza, squadrando il fidanzato con curiosità – mi pare più che ovvio che torni in paese se ha la possibilità di farlo”.
“Spero sia pronta a quanto la aspetta” scrollò le spalle il moro con fare enigmatico.
“Oh, sono sicura che è bravissima e se la caverà alla grande”.
“Sai bene di cosa parlo. La diversità non piace molto a buona parte della gente…”
“… ma lei è Elisa – lo bloccò Riza – e sarà un medico fantastico, superando qualsiasi stupido preconcetto. Oh, ciao, Vato. Come stai?”
“Tutto bene – salutò l’altro, uscendo dalla libreria – allora, vogliamo andare a fare le ultime commissioni?”
“Ci conviene passare anche da Heymans – propose Roy – dato che domani parte con me, tanto vale chiedergli se vuole unirsi alle compere dell’ultimo minuto”.
Annuendo allegramente il terzetto si avviò per le vie del paese, chiacchierando di quell’estate appena trascorsa, del tempo, della vita quotidiana. Preferivano ancora cullarsi nel presente prima di lanciarsi nella sfrenata stagione che li aspettava dietro l’angolo.
 
Circa un’ora dopo, Roy e Riza entravano nel cortile trasandato della villetta degli Hawkeye, poco fuori dal paese.
Il tempo sembrava essersi fermato in quel posto così isolato, con quel piccolo raduno di salici a nascondere buona parte della casa alla visuale della gente. La facciata era sempre cadente, in parte coperta da edera e rampicanti, con calcinacci che ogni tanto cadevano sul terreno dove le erbacce la facevano da padrone. Le imposte erano come sempre tutte chiuse, tanto che sembrava un’abitazione abbandonata da tantissimo tempo e appariva inverosimile che qualcuno ci abitasse.
In realtà, a ben guardare, le imposte della cucina, nella parte laterale del cortile, erano solo gentilmente accostate e lasciavano entrare nella stanza un piccolo spiraglio di luce. Un accorgimento di Riza per evitare che l’ambiente si riscaldasse troppo nelle ore più calde delle giornate estive.
“Scommetto che troverò la cucina invasa di piatti sporchi così come il suo studio – sospirò la ragazza, aprendo la porta e portando le buste della spesa in cucina – E’ sempre un disastro venire qui. Papà, siamo Riza e Roy! Sistemo la cucina e ti preparo qualcosa per i prossimi giorni, va bene?”
“Ti serve una mano?” chiese Roy, liberando il tavolo dalle stoviglie sporche dove già alcune mosche svolazzavano fameliche e portandole nel lavabo.
“No, ci penso io – scosse il capo la bionda, andando ad aprire del tutto la finestra e facendo entrare l’aria fresca del tardo pomeriggio – tu vai pure da lui. Nel caso poi portami le stoviglie sporche che sono lì: ho svariata roba da fare e vorrei tornare a casa prima di cena per aiutare la mamma”.
Mentre la ragazza si metteva all’opera aprendo il rubinetto ed iniziando a lavare i piatti, Roy si avviò per i corridoi polverosi della casa. Per quanto Riza venisse una volta alla settimana a fare le pulizie era come se in quella villetta ci fosse qualcosa che impedisse all’ordine e al pulito di avere ragione.
Sebbene Roy fosse estremamente razionale, non poteva fare a meno di pensare che il cupo proprietario avesse in qualche modo intessuto un incantesimo per lasciare il suo regno in quello stato di decadenza in cui sembrava trovarsi così a suo agio. Sotto quel punto di vista era davvero felice che la sua fidanzata già da cinque anni non vivesse più in quel posto, ma in una casa accogliente e pulita, con delle persone che si interessavano davvero a lei.
Proprio questo pensiero gli fece tornare i soliti, fastidiosi, pensieri poco produttivi.
Un giorno lui e Riza si sarebbero sposati, questo era chiaro. Avrebbe sofferto molto nel seguirlo in città, abbandonando i Fury e quella vita tranquilla che sembrava adorare così tanto? Oggettivamente, per quanto pure lei fosse diversa rispetto alle altre ragazze del paese, Riza aveva trovato una sua perfetta dimensione in quel posto. Forse la città con i suoi ritmi ed il suo caos non facevano per lei, senza contare che per i primi tempi la vita di un soldato non era certo stabile ed i trasferimenti potevano essere all’ordine del giorno. E poi c’erano le guerre: per quanto la situazione sui fronti fosse momentaneamente tranquilla, si sapeva benissimo che le ostilità si potevano riaprire da un momento all’altro. Quel mondo ovattato che era il paese sembrava dimenticarsi che esistevano scomodi vicini che per qualche chilometro di confine in più scatenavano guerre decennali che insanguinavano le trincee.
“Maestro, perdoni se la disturbo – salutò Roy, entrando in quello studio polveroso e lasciando da parte quei pensieri – sono venuto a salutarla, domani parto per terminare l’Accademia”.
Berthold Hawkeye alzò lo sguardo su di lui per qualche secondo e poi tornò a scrivere degli appunti su dei fogli. Una vecchia lampada illuminava la scrivania, mentre il resto della stanza era praticamente in penombra: le pesanti e polverose tende erano tirate, quasi fosse un’eresia far entrare la bella luce di fine pomeriggio, come se quella stanza, quei libri, avessero bisogno del buio per non rovinarsi. Alla faccia delle muffe e della polvere che distruggevano piano piano pagine e copertine.
“Finalmente termini quell’inutile perdita di tempo – commentò l’alchimista – spero tornerai a dedicarti agli studi veramente importanti. Saresti già a buon punto se non avessi fatto quella stupida scelta di entrare nell’esercito”.
C’era una componente aspra di rimprovero, ma Roy se la fece scivolare addosso come ogni volta. Non era più spaventato da lui come quando era un quindicenne, più che altro provava un misto di rispetto e pietà per il suo maestro: gli riconosceva di avere una delle menti più brillanti che avesse mai incontrato, ma allo stesso tempo si riprometteva di non diventare mai e poi mai come lui. Roy voleva seguire le sue ambizioni, certamente, ma il tempo gli aveva fatto capire di voler anche una famiglia, una vita vera e propria: non si sarebbe mai ridotto a quello stato di sporco e logoro eremitaggio, dimenticandosi della propria figlia, lasciandola a se stessa.
Rispetto e pietà, certo, ma anche una strana forma di rabbia per come quell’uomo aveva trattato Riza, specie dopo la morte della moglie.
“Finita l’Accademia conto di prendere il titolo di alchimista di stato”.
“Non sei ancora pronto, lo sai bene”.
“E quanto ci vorrà ancora? – chiese Roy con uno sbuffo, mettendosi a braccia conserte: lo odiava quando giocava a dargli il sapere con un lento e logorante stillicidio, quasi a punirlo di non essersi dedicato anima e corpo all’alchimia – Studierei anche in città se mi desse l’occasione, lo sa bene”.
“Sul serio tu vuoi diventare un semplice alchimista? – gli occhi azzurri di Berthold si puntarono di nuovo su di lui – Eppure potresti avere ben altro se avessi la dovuta pazienza, allievo”.
Roy annuì, ben sapendo di cosa parlasse: l’alchimia del fuoco era ancora in fase di perfezionamento, ma la sua formula era già ben avviata. Il maestro gliene aveva parlato più volte, riferendosi ad essa come lo studio della sua vita, ma gliene aveva mostrato solo una minima parte. L’aveva costretto a marcire anni ed anni sulle basi della scienza piuttosto che farlo andare avanti, facendogli sempre intravedere quello spiraglio esaltante della vera ricerca.
“Sono il suo unico allievo, signore – scrollò le spalle con aria sicura – presumo voglia che la sua ricerca non vada perduta. Come tornerò dall’Accademia ne parleremo ancora, ma personalmente io non vorrei che i frutti di una vita andassero perduti”.
Gli occhi scuri e quelli azzurri si squadrarono con sfida per qualche secondo, ma Roy sapeva di godere di una posizione di vantaggio. In quegli anni aveva imparato che, per quanto geloso delle sue ricerche, Berthold Hawkeye era anche tormentato dall’idea che andassero perdute. Probabilmente l’aveva accettato come allievo anche in previsione di lasciargli quest’eredita al momento giusto dato che Riza aveva preso del tutto le distanze da lui e tornava a fare le faccende di casa solo per senso del dovere.
Sì, non puoi fare a meno di me, maestro. Mi dispiace, ma non eserciti più l’ascendente di una volta.
“Parti pure – lo congedò sbrigativamente l’uomo – ne riparleremo come torni con quella tua sciocca divisa da cane dell’esercito”.
“Allora la saluto – annuì Roy, recuperando i piatti che stavano impilati ad un lato della scrivania – tornerò ad inizio anno venturo”.
Nessun accenno a Riza, come sempre: poco importava se la ragazza gli stesse preparando da mangiare e stesse rendendo decente almeno quella cucina. Era come se Berthold si fosse completamente dimenticato di aver avuto una figlia.
Decisamente non la meritavi, non l’hai mai meritata. Se non avesse trovato i Fury ti avrei odiato per sempre, che tu sia dannato.
 
“Non era necessario che mi accompagnassi fino al bivio – commentò Riza un’ora dopo – devi ancora finire di preparare la valigia”.
“Figurati, mi fa sempre piacere passeggiare con te”.
A quella dichiarazione la ragazza sorrise compiaciuta, sentendosi veramente felice: ora che aveva compiuto la sua missione settimanale a casa del padre sembrava che un peso fosse stato levato dalla sua persona. Per quanto fosse un compito che svolgeva ormai da anni, provava sempre una strana forma di magone a stare in quella casa con quella presenza inquietante e niente le era più gradito di andare via.
E poi passeggiare con il suo fidanzato era sempre fonte di gioia, specie in previsione della partenza del giorno successiva. Per quanto sapesse che si trattava solo di pochi mesi prima del suo ritorno, si sarebbe comunque trattato di un periodo di tempo parecchio lungo.
Il loro rapporto a distanza non aveva causato problemi, tutt’altro: non sentivano nemmeno il bisogno di scriversi tante volte. Un paio di lettere al mese bastavano, come se fosse presente un legame impalpabile che li assicurava a prescindere che tutto procedeva alla perfezione.
“Domani ti accompagno alla stazione: passo a prenderti alle due davanti al locale di tua zia, va bene?”
“Va bene, allora dopo dico ad Heymans che ci vediamo direttamente lì, così facciamo la strada assieme”.
Riza annuì e si mise con le mani dietro la schiena.
Era diventata davvero bella in quei cinque anni e ricordava molto la sua defunta madre. I capelli biondi erano cresciuti e le arrivavano a metà schiena, sebbene lei adorasse fermarli sulla nuca con un fermaglio che Roy stesso le aveva portato dalla città. Al contrario di Rebecca che aveva il viso leggermente affilato, quello di Riza era morbido, con teneri occhi castani ad illuminarlo in una maniera del tutto particolare. Erano occhi estremamente comprensivi, pronti a prestare attenzione a chiunque, come se la sua turbolenta infanzia l’avesse portata ad essere estremamente solidale nei confronti di chi voleva bene.
Roy si sentiva estremamente confortato in sua presenza, come se fosse certo che assieme a lei avrebbe risolto qualsiasi problema.
Spostando il pacco della signora Falman sotto il braccio sinistro, con l’altra cinse la vita sottile della fidanzata, accostando il viso al suo, sentendo quel lieve profumo di violetta che ormai si metteva da un anno dopo che la madre di Elisa gliel’aveva fatto provare.
La ragazza rispose a quel gesto e gli cinse le braccia attorno al collo.
“Gli ultimi quattro mesi – mormorò – come vola il tempo”.
E poi…? E poi? – la sua mente impazziva a quell’idea. Paura, aspettativa, non sapeva nemmeno lei come definire il caos di emozioni che vorticava nel suo cuore.
Osservò il suo fidanzato e le parve che fosse sul punto di dirle qualcosa, ma poi le labbra sottili di lui si schiusero in un lieve sorriso.
“Mi aspetterai?”
“C’è da chiederlo?”
“No, ma voglio sentirtelo dire”.
“Certo che ti aspetterò – sorrise Riza – come sempre”.
Non si dissero ti amo o altre romanticherie. Le altre cose furono tutte sottintese nel lungo bacio che si scambiarono nella campagna illuminata dal rosso del tramonto dell’ultimo giorno di agosto.




*Al contrario dell'Università che segue i normali semestri ed inizia l'anno accademico a settembre (come succede da noi), per l'Accademia Militare ho sempre messo l'inizio dei corsi a gennaio per poi finirlo a dicembre. Di conseguenza se Vato ed Elisa hanno conseguito la laurea ad inzio estate, Roy diventerà soldato a inizio nuovo anno.



_________________________
Bene, eccoci arrivati a questo seguito tanto atteso: come promesso a settembre sono qua, puntualissima.
In primis scusate per il titolo, non è un granchè, tanto che mi sono trovata anche a riprendere quello della storia originale. 
Allora, a che punto eravamo rimasti?
Come ben ricordate, Un anno per crescere, epilogo escluso, si concludeva il 9 settembre 1897, in occasione del dodicesimo compleanno di Kain. Sono passati cinque anni e la maggior parte dei nostri amici ha concluso la scuola e preso la sua sua strada. Questo comporta la prima grande novità di questa storia, ossia il fatto che le vicende non si svolgono tutte stabilmente in paese, ma l'azione si sposta anche ad East City.
In questo primo capitolo ho introdotto soltanto alcuni dei nostri eroi, piano piano arriveranno pure gli altri: non vi preoccupate se non vi ricordate cosa diventavano nell'epilogo della storia principale, verrà spiegato piano piano per ciascuno di loro cosa è successo in questo lasso di tempo.
Proprio a questo proposito ci tengo a fare una piccola precisazione su Riza. 
Forse sarà il personaggio con il maggior "cambiamento" rispetto al manga/anime a livello di IC: qui infatti siamo proprio davanti a quello che spesso ci siamo chiesti, ossia come sarebbe diventata se non avesse avuto sulla sua anima e sul suo corpo il peso dell'alchimia del fuoco. Fortunatamente in questo AU la nostra amica si è affrancata da Berthold prima che succedesse quello che ben sappiamo.

Come sempre vi auguro una buona lettura.
Ringrazio in anticipo chi leggerà, recensirà, metterà tra le preferite, seguite ricordate e così via... che siano nuovi recensori o vecchi. Un ringraziamento speciale a Benni non solo per l'entusiasmo che ha dimostrato per questa serie, ma anche perché col suo punto di vista slegato dal mondo di Full Metal Alchemist, mi ha sempre dato spunti di riflessione molto interessanti.

Questo è quanto.
Enjoy!



 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2. Partenze e arrivi ***


 

Capitolo 2. Partenze e arrivi

 


Quel giorno, primo settembre, il cielo era terso e pulito, con solo qualche filo bianco a disturbare quella che altrimenti sarebbe stata una perfetta distesa azzurra. Nell’aria si sentiva ancora il profumo delle pietanze che avevano costituito il pranzo e c’era un’atmosfera così calma e placida da invitare ogni persona a stendersi sul divano a riposare per godersi fino all’ultimo il pasto.
Jean Havoc aveva accolto a braccia aperte questo invito dopo una pesante mattinata di lavoro al magazzino dell’emporio di famiglia e così, dopo l’abbondante ed ottimo pranzo preparato da sua madre, si era disteso in tutto il suo metro e settantotto di altezza sul divano, chiudendo pigramente gli occhi e godendosi il fresco dell’ambiente arieggiato. Da bravo lavoratore quale era riteneva che questi momenti dovessero venir goduti appieno, anche per rendere omaggio alla cucina materna e…
“Fratellone!”
La voce acuta di Janet gli penetrò nell’orecchio come il più fastidioso dei rumori, peggio della forchetta fatta graffiare sul piatto.
“Sparisci – le disse, senza nemmeno aprire gli occhi, limitandosi a fare un vago cenno con la mano – prima delle tre io non esisto, lo sai bene”.
Possibile che ad undici anni non avesse ancora recepito quelle semplici e fondamentali regole di convivenza? Eppure si doveva rendere conto che c’era una bella differenza tra frequentare le elementari e lavorare duramente all’emporio. Forse doveva farle provare l’ebbrezza di una mattinata passata a…
“Fratellone, te ne sei dimenticato? – questa volta la voce aveva una sfumatura d’impazienza – Guarda che vado da sola a salutare Heymans”.
Gli occhi azzurri di Jean si spalancarono per trovarsi davanti quelli del medesimo colore della sorellina. Janet indossava già la piccola tracolla e sulla testa aveva premuto il cappello di paglia che metteva in risalto le sue trecce bionde ed il suo viso infantile abbronzato.
“Merda! Me n’ero completamente dimenticato! – sibilò il giovane, alzandosi di scatto e rischiando di dare un calcio alla ragazzina – Che ore sono?”
“L’una e mezza passate – dichiarò lei, iniziando ad avviarsi verso la porta – è da dieci minuti buoni che ti chiamo dalla mia stanza, ma non hai risposto manco una volta. Io vado, tu raggiungimi!”
“E aspetta!” la richiamò Jean, ma ormai era troppo tardi: la figuretta snella era già scomparsa fuori dalla porta d’ingresso della casa, chiudendola sdegnosamente alle proprie spalle.
Dannata sorella minore – sbottò Jean, decidendo che non era il caso di andare in bagno a lavarsi la faccia: avrebbe perso troppo tempo – bel rispetto per il suo fratellone.
“Ti eri addormentato della grossa, eh?” lo prese in giro Angela, comparendo dalla cucina con un canovaccio in mano.
“Ti ci devi mettere pure tu? Io vado!”
“Salutami tanto Heymans e Roy: dì loro di comportarsi bene in città e che li aspettiamo presto”.
“Sì, sì, le solite cose – borbottò Jean, uscendo di corsa dalla casa. Calcolò mentalmente la distanza ed il tempo trascorso e si convinse che, nell’arco di nemmeno due minuti, avrebbe raggiunto Janet – Mi vuoi proprio distanziare con le tue gambette da mocciosa? Povera illusa!”
 
Al contrario di quanto era appena successo a Jean, Heymans Breda aveva ben altro a cui pensare, nonostante il pranzo che aveva da poco mangiato fosse stato più che eccellente. La sua attenzione era rivolta alla valigia che stava sul letto alla quale stava dando gli ultimi tocchi prima di chiuderla definitivamente e potersi così dichiarare pronto per la partenza.
Guardando con aria pensosa i libri disposti in bell’ordine sulla mensola sopra la scrivania, il robusto ragazzo dalla chioma rossa si decise infine a prenderne due e a metterli sopra tutto il suo bagaglio, chiudendo così la valigia.
Quindi andò davanti al piccolo specchio che stava appeso alla parete e si guardò con aria critica la camicia, sistemando il colletto e sbottonando il primo bottone per far fronte alla calura di quell’ora. Si passò una mano tra i folti capelli rossi, osservandone compiaciuto l’effetto leggermente spettinato: assieme al colore degli occhi erano l’aspetto che maggiormente preferiva della sua persona, ossia quello che non ricordava suo padre. Ormai si era accettato completamente nel suo aspetto robusto, con quel viso dai lineamenti decisi e dal taglio degli occhi leggermente infossato: sapeva che non sarebbe mai stato bello come Jean o Roy, ma questo non aveva minimamente intaccato la sua autostima.
I suoi pensieri in quel momento erano rivolti all’inizio del suo secondo anno di Università: una parte di lui non vedeva l’ora di arrivare ad East City, sistemarsi nella sua stanza al solito pensionato e poter finalmente tornare in quelle aule dove stava dando prova di essere un eccellente studente.
Tutto l’ultimo anno delle superiori era stato tormentato dal decidere cosa fare una volta terminata la scuola, ma alla fine si era giustamente concesso di realizzare una sua ambizione nascosta e così si era iscritto all’Università, forte anche del sostegno della sua famiglia. A posteriori era stata la scelta migliore: in città e nell’ateneo, la sua mente brillante aveva scoperto un ambiente molto più stimolante rispetto a quello più placido del paese. Aveva deciso di diventare avvocato e sembrava che la città fosse pronta ad offrirgli tutto quello di cui aveva bisogno.
A conti fatti si sarebbe trasferito senza pensarci due volte per poi tornare in paese solo in determinate occasioni, tuttavia c’erano dei motivi importanti per non rendere definitiva una simile decisione. Per esempio in fatto che in quell’ameno e sperduto angolo di mondo c’erano la sua famiglia ed i suoi affetti più cari, un qualcosa che la grande città non era in grado di sostituire.
“Tutto pronto, Heymans?” chiese Henry entrando nella stanza e sedendosi nel letto accanto alla valigia.
“Tutto pronto – confermò il maggiore – la mamma?”
“Ancora un paio di minuti e credo che potrai scendere senza trovarla nel mezzo di una crisi emotiva – sogghignò amabilmente il ragazzo – sai bene che bisogna darle tempo”.
Heymans sogghignò di rimando e pensò che, al contrario di lui, Henry prometteva di diventare un giovane davvero affascinante. Non c’era minima traccia paterna nel suo aspetto: aveva preso tutto dal ramo degli Hevans, a partire dalla corporatura snella. Era alto, tra breve l’avrebbe raggiunto, armonioso, con un viso decisamente accattivante persino nella spruzzata di efelidi identica a quella materna.
Se non fosse stato per i colori simili sarebbe stato difficile poterli definire fratelli.
“Mi raccomando di scrivermi se ci sono problemi – si riscosse con una scrollata di spalle – per qualsiasi cosa rivolgetevi ad Andrew Fury o al capitano Falman, intesi?”
“Mi prenderò cura della mamma come al solito, stai tranquillo – annuì Henry – e, prima che tu me lo dica, mi farò onore a scuola pure quest’anno”.
“Seconda superiore… non è mica uno scherzo. Ormai ti stai facendo grande”.
“A sedici anni direi che un po’ di fiducia la merito. Del resto stai partendo per il secondo anno d’Università: durante il primo è andato tutto alla perfezione. A partire dal fatto che sono in grado di consolare la mamma come tu uscirai da qui tra pochi minuti”.
Heymans non seppe che dire davanti a quell’aria da uomo di casa di cui si stava fregiando il fratello: da un lato se ne sentiva estremamente fiero, ma dall’altro un po’ se ne sentiva in colpa. Henry avrebbe dovuto pensare solo allo studio e allo svago, non prendersi a carico la casa mentre lui era via.
Ma dai, scemo, che vai a pensare? – si rimproverò – non c’è niente di cui preoccuparsi.
Ormai da diversi anni le cose si erano messe bene per la famiglia Breda: il paese aveva ormai accettato lo status di donna separata di Laura, così come aveva assimilato l’idea che lei lavorasse come sarta. Anche per i due fratelli era terminato il periodo d’ostracismo che avevano subito durante i fatti di quell’intenso 1897, subito dopo l’incidente di Kain e tutto quello che ne era conseguito. Sembrava tutto un brutto ricordo a cui ormai si aggrappavano solo poche maligne persone che, tuttavia, restavano prudentemente nell’ombra, senza attacchi plateali alla famiglia Breda.
“… mi porterai qualcosa anche questa volta?” chiese Henry, distogliendolo da quei pensieri.
L’aria era tornata quella di un ragazzo sedicenne il cui unico desiderio era quello di godersi la sua età, i suoi amici, la scuola e tutto quello che la vita gli offriva. L’atteggiamento da uomo di casa era svanito con quella richiesta sotto un certo punto di vista infantile.
No, Henry non era ancora pronto per prendere in mano le redini della famiglia. L’ultima cosa che Heymans voleva era caricarlo di un peso non necessario, preferendo tenere tutto sulle sue robuste spalle, come del resto faceva da diversi anni.
Lasciare definitivamente il paese? No, nemmeno a pensarci.
“Certo che ti porterò un regalo – annuì con una strizzata d’occhio – Bene, direi che la mamma ha avuto il tempo di ricomporsi: possiamo scendere”.
 
Circa venti minuti dopo, un gruppetto di giovani si trovava davanti al locale di Madame Christmas, attendendo che due ritardatari arrivassero.
“Che si sbrighino – mormorò Roy, guardando al suo orologio da polso – rischiamo di perdere il treno”.
“Mi pare di sentire trambusto all’ingresso del paese – lo avvisò Riza, accennando con un sorriso alla strada principale – ed infatti eccoli”.
Tutto il gruppo si girò a guardare le due figure bionde che si avvicinavano sempre di più.
“Scusate, scusate! – ansimò Jean, chinandosi sulle ginocchia per riprendere fiato – ma non eravamo pronti e si è fatto più tardi del previsto”.
“Io ero prontissima – si offese Janet, lanciando un’occhiata cattiva al fratello maggiore – sei tu che ti sei mezzo appisolato nel divano dopo pranzo”.
“A prescindere dalla colpa direi che è il caso di avviarci – propose Vato – possiamo ancora mantenere un passo tranquillo senza correre il rischio di mancare il treno”.
“Possiamo andare, non sono per niente stanca – annuì vivacemente la ragazzina, ritrovando il buonumore e accostandosi subito ad Heymans – ti dispiace se cammino accanto a te?”
“Sei sempre una compagnia gradita, ragazzina” sorrise di rimando il rosso, spettinandole la frangetta e sistemandole meglio il cappello di paglia sulla chioma dorata.
Il gruppetto di amici si avviò lungo il sentiero di campagna che portava alla poco distante stazione ferroviaria. Automaticamente Riza e Roy vennero lasciati leggermente indietro, quasi gli altri volessero concedere loro quegli ultimi minuti in relativa intimità, del resto loro stessi non facevano nulla per raggiungere i compagni, anzi tenevano un passo deliberatamente più tranquillo.
In ogni caso le chiacchiere presero ben presto il sopravvento e Jean si trovò affiancato al suo miglior amico, con Janet corsa in avanti per accodarsi a Kain e Vato.
“E così ci lasci per un altro paio di mesi – commentò pacatamente il biondo, prendendo una margherita dal bordo della strada e mettendosela pigramente in bocca – un giorno dovrò venire a vedere com’è la città”.
“Lo dici da tempo – lo prese in giro Heymans – ma credo proprio che non lo farai mai, amico mio. Le tue radici sono troppo profonde anche solo per farti prendere il treno”.
“Mi sottovaluti?”
“Ti conosco bene, piuttosto: tu sei come la campagna, non hai bisogno di venire in città. E’ un mondo che non fa per te, non ti ci troveresti”.
“Tu ti ci trovi fin troppo bene a quanto pare…”
Jean quasi desiderò mordersi la lingua dopo aver pronunciato quella frase.
Si era ripromesso da diverso tempo di non far mai capire al suo miglior amico quanto sentisse la sua mancanza nei mesi in cui stava ad East City. Lo trovava un atteggiamento immaturo e irrispettoso nei confronti di Heymans che di certo non andava lì per divertirsi ma per studiare.
Eppure non poteva fare a meno di sentirsi a disagio senza quel sostegno solido nella sua quotidianità. Non aveva mai pensato, lo scorso anno, di provare un senso di vuoto simile, di ricercare una figura che improvvisamente non c’era più. Per quanto razionalmente la situazione era più che accettabile, emotivamente era molto più difficile. Heymans era stato per troppo tempo la sua quotidianità, la sua certezza, la persona da trovare al bivio ogni mattina per la maggior parte della sua vita scolastica. Avevano vissuto assieme le tappe più importanti della loro giovane vita e ora il biondo si sentiva in qualche modo lasciato indietro.
E lo sguardo penetrante degli occhi grigi del rosso gli fece capire che i suoi pensieri erano fin troppo chiari.
“Dai – cercò di sdrammatizzare Heymans – ti assicuro che nessuno dei miei colleghi di Università è fuori di testa come te”.
“Che discorsi patetici – si imbarazzò il biondo, passandosi una mano sugli arruffati capelli biondi – manco fossimo come i due fidanzatini dietro di noi”.
“Ecco, pensala in positivo: avrai molto più tempo da dedicare a Rebecca. Santa ragazza, ancora non so come fa a stare ancora con te dopo cinque anni”.
“Già già – Jean morsicò con forza lo stelo della margherita, rompendolo e trovandosi costretto a sputarlo al lato del sentiero – quest’anno non va più a scuola, è una bella rogna”.
“Dovresti esserne felice, no? O volevi che la situazione restasse sempre la stessa?”
“Con Reby qualsiasi cambiamento è pericoloso, lo sai bene”.
“Ah, i tormenti dell’amore! – Heymans sogghignò, sollevando ulteriormente la valigia e portandola con una torsione dietro le robuste spalle – Sono proprio curioso di vedere chi sarà il prossimo a cascarci”.
“Toccherebbe a te – ammise l’altro, guardandolo di sbieco – Kain è ancora un ragazzino e ho il sospetto che non abbia la minima idea di come funzionino certe cose. Tu invece…”
“Ho ben altro a che pensare, credimi”.
“Ehi, senti, se ad East City trovi qualche ragazza carina non vedo niente di male a farci due chiacchiere o ad uscire: fa parte della natura… ecco”.
“Perché adesso inizi a fare discorsi in stile tuo padre?” lo fissò di sbieco l’amico.
“E’ che… non mi dici molto riguardo i tuoi compagni d’Università – ammise Jean dopo qualche secondo di silenzio – e iniziavo a pensare che magari per certe cose io non…” arrossì, sentendosi veramente un idiota per tutti i giri mentali che si stava facendo. E ancora di più per esternarli in maniera simile al diretto interessato.
“Il fatto che io non sputtani le cose, e scusa la finezza, come invece fai tu, non vuol dire assolutamente che non ne parlerò con te se e quando ci sarà qualcosa di cui parlare – il rosso scosse il capo con esasperazione – Sei un testone, Jean: se non ti racconto molto è perché sto sempre a seguire le lezioni o a studiare al pensionato. Non credo che tu sia molto interessato nel sapere le varie dottrine del diritto, vero?”
“Proprio no! – inorridì lui – tredici anni sui banchi mi sono bastati”.
“Ecco, vedi? Al di fuori di quello non c’è molto altro nella mia vita cittadina”.
“E’ che Roy racconta ben altro quando rientra – ammise Jean, accennando con un gesto al moro che camminava ad una decina di metri dietro di loro – pare tutt’altro mondo”.
“Ma lui è Roy Mustang, mica me. Sai bene quanto questo posto gli sia sempre andato stretto: non aspettava altro che andare in città”.
“E tu che cosa aspetti dopo l’Università?” chiese ancora il biondo.
“Di proseguire la mia vita che ha buona parte delle sue radici qui – rispose Heymans dopo qualche minuto passato a riflettere – dove c’è la mia famiglia ed il mio miglior amico”.
“In paese non è che ci sia bisogno di un avvocato…”
“Dici? – sogghignò con malignità il rosso – cinque anni fa sarei stato più che felice di averne uno a portata di mano. Forse mi sarei risparmiato un po’ di rogne”.


~


In quei cinque anni alcune cose erano cambiate anche in quel piccolo angolo di mondo e ormai le comunicazioni ferroviarie erano più frequenti: adesso il treno con quattro vagoni, che si vantava anche di una locomotiva di nuovo modello, passava ogni due giorni e non più ogni tre. Sembrava ben poca cosa rispetto al traffico delle stazioni cittadine, ma per un posto come il paese erano degli avvenimenti quasi epocali. Più frequenza e anche meno ore di viaggio: la tecnologia avanzava e così, al posto delle oltre sei ore che ci si impiegava anni prima, adesso si poteva raggiungere East City in meno di cinque.
Tutte cose prevedibili ed inevitabili, se così si vogliono definire, ma che nella vita quotidiana aiutano a far sentire le persone meno distanti tra di loro. Ai giovani tutti quei traguardi moderni sembravano quasi delle ulteriori spinte per prendere in mano il loro destino, alla faccia di quello che era stato il passato.
Era quello che pensava una giovane donna, appena ventunenne, il giorno successivo la partenza dei due amici. Anche lei stava su un treno, ma il viaggio era in senso contrario dato che stava tornando in paese.
Stava seduta composta, perfettamente a suo agio nel fresco vestito grigio chiaro di taglio moderno.
Non passava inosservata con quel viso fresco e luminoso, incorniciato da mossi capelli castani tenuti da un fermaglio sulla nuca: in lei c’era la forza e la vitalità della giovinezza, la sicurezza di chi vuole prendere la propria vita in mano e proseguire per la strada scelta.
Tuttavia quello che avrebbe colpito maggiormente l’osservatore sarebbero stati i grandi occhi verdi, dalle lunga ciglia chiare, che continuavano a guardare dal finestrino: in essi c’era un forte sentimento di riconoscimento, nostalgia, amore nei confronti delle semplici campagne che passavano sotto i suoi occhi.
Era lo sguardo felice di chi stava tornando a casa dopo tanto tempo, riappropriandosi di quello che era il suo vero mondo.
Elisa Meril in quel momento si sentiva rinascere, come se i suoi polmoni stessero per la prima volta, dopo tanto tempo, respirando veramente. Sentiva il suo giovane corpo carico di una nuova energia, alla faccia di tutti gli stimoli che aveva avuto ad East City: niente per lei era paragonabile a quelle campagne.
Eppure, allo stesso tempo, si sentiva una pioniera carica di buona volontà ed entusiasmo, pronta a cambiare il mondo: solo poche ragazze si potevano fregiare del titolo di dottoressa. La preziosa pergamena che teneva dentro la sua valigia, custodita in modo da non venir schiacciata, era il suo vanto ed il suo orgoglio: testimoniava che aveva seguito con successo i corsi all’Università e prestato un duro tirocinio presso uno degli ospedali della città, guadagnandosi appieno quel titolo.
Certo, era strano pensare che fino ad una decina di anni prima l’idea di una donna medico fosse poco meno che assurda, ma una volta che le prime barriere erano state superate, con le prime ragazze entrate in quel corso di studi universitario, la strada si era rivelata più in discesa del previsto. All’Università Elisa aveva trovato delle compagne motivate, dei docenti disponibili con ben pochi pregiudizi a farla da padrone.
Ecco perché tornava in paese con tanto entusiasmo: il suo titolo le permetteva di esercitare ovunque volesse e niente le sorrideva di più di prendere il posto del medico del paese che, ormai, non era più giovanissimo. Poter svolgere il lavoro che amava a casa propria, con la sua famiglia vicino era un qualcosa a cui aveva aspirato da sempre.
Il suo sguardo acuto riconobbe l’ultima curva prima che il treno arrivasse alla piccola stazione ferroviaria e quello le fece emettere un’esclamazione di gioia mentre si alzava in piedi. Con eccitazione raccolse le sue due pesanti valige ed iniziò ad avviarsi verso l’uscita del vagone, rischiando addirittura di inciampare quando il treno iniziò a frenare.
A casa! A casa finalmente!
Non rimase per niente sorpresa quando, appena uscita dal vagone, vide Vato che le veniva incontro con un gran sorriso. Eppure la cosa le provocò al tempo stesso un tuffo al cuore: erano quasi tre mesi che non si vedevano, probabilmente la più lunga separazione che avessero mai sofferto. Avevano conseguito la laurea assieme ad inizio giugno, ma mentre lui era tornato subito a casa, Elisa era rimasta tutta l’estate in città per la sua formazione in ospedale.
E quei quasi tre mesi di separazione erano bastati per rendere il suo fidanzato ancora più bello ai suoi occhi.
Le sembrava più robusto, più forte, come se quell’estate in paese gli avesse giovato in una maniera del tutto speciale, a partire dalla pelle chiara leggermente scottata dal sole sulle braccia scoperte e sul viso. I suoi capelli bicolore le parevano così forti e vivi che impazzì dal desiderio di affondarvi la mano e stringerli, così come aveva fatto centinaia di volte durante tutti quegli anni di fidanzamento.
“Bentornata a casa, dottoressa Meril – la salutò il giovane, stringendola tra le braccia inaspettatamente forti – mi sei mancata, non ne hai idea”.
Forse avrebbe aggiunto altro e forse Elisa avrebbe risposto, ma le loro labbra si erano già incontrate in un bacio appassionato, così diverso rispetto a quelli timidi ed impacciati di quando erano poco più che adolescenti. Loro erano amici, compagni, amanti… senza averlo mai detto l’una all’altro si consideravano un’unione perfetta che niente e nessuno avrebbe mai potuto scalfire: si conoscevano centimetro dopo centimetro, pensiero dopo pensiero, senza che una simile prevedibilità minasse il loro rapporto.
Rimasero fermi in quella posizione per diverso tempo, incuranti del fischio del vecchio capostazione e del rumore del treno che ripartiva.
Alla fine si staccarono l’uno dall’altra, guardandosi intensamente, Vato che prendeva il viso della fidanzata tra le sue mani, e si sorrisero con complicità.
“Scommetto che hai detto ai miei genitori che saresti venuto tu a prendermi”.
“Non avrei potuto condividere il tuo ritorno a casa con nessun altro” confermò il giovane, dandole un bacio sulla fronte, un gesto tenero ed intimo, lo stesso che faceva ogni volta che terminavano di fare l’amore.
Terminato quel rituale, lui prese la più grande delle valigie e le offrì il braccio, incitandola ad avviarsi verso l’uscita del piccolo edificio.
Era una piacevolissima domenica di inizio settembre e sembrava che la campagna festeggiasse il ritorno della sua cara amica. Quel primo pomeriggio era inondato di sole ed i profumi dell’erba incolta lungo il sentiero erano talmente intensi da inebriare la giovane dottoressa.
“Non hai idea di quanto mi sia mancata l’estate qui! – ammise infatti Elisa ad un certo punto – c’erano giorni in cui volevo scappare via dall’ospedale e prendere il treno solo per trascorrere qualche giorno in campagna: la vita cittadina sarà anche bella, ma non fa per me. Oh, dai, perché ora mi guardi con quel rossore sulle guance?”
“Perché sei bellissima – rispose con semplicità Vato – ed io mi sento così fortunato ad averti accanto. Sono l’uomo più felice del mondo”.
Elisa arrossì a sua volta, profondamente compiaciuta da quel complimento: aveva voglia di correre, di danzare sui quei prati, baciare il suo fidanzato… esprimere in qualche modo la sua gioia.
“Allora, racconta – disse invece, cercando di contenere la sua esuberanza – come procede il tuo lavoro, signor storiografo: dalla tua ultima lettera si prospettano grandi cose”.
“A breve dovrò iniziare a scrivere diversi articoli per alcuni miei docenti – rispose lui con modestia – niente di particolare, lo ammetto. Però sono già un inizio e verrò pagato”.
“Sul serio? – Elisa lo fissò con ammirazione – Tesoro, è fantastico! E’ il tuo primo stipendio!”
“Non è proprio uno stipendio – la corresse il giovane, scuotendo il capo con lieve imbarazzo – in realtà non è un tipo di lavoro che ha un salario fisso: per quello dovrei tenere dei corsi all’Università, ma non so se avrò mai una simile possibilità”.
“Oh, fidati che arriverà! – lo consolò lei – Non credo che a tutti venga richiesto di collaborare a degli studi appena conseguita la laurea. Vedrai che ti arriveranno proposte su proposte”.
“Già, proposte…” lui si fermò nel mezzo del sentiero, fissando con intensità la terra battuta.
“Che succede? – Elisa si fermò con perplessità – Ho detto qualcosa che non va?”
Si accostò al fidanzato, posando la valigia a terra e notando come invece lui serrasse quella che teneva in mano con forza, tanto che le nocche tremavano visibilmente. Se prima il viso era arrossato adesso il colore vermiglio era ancora più evidente, tanto da essere visibile anche sul collo.
“Eli, senti! – esclamò all’improvviso lui, girandosi di scatto tanto da urtare la valigia posata a terra e farla cadere – Ti devo chiedere una cosa… estremamente importante!”
“Ma certo, amore – annuì la fanciulla con perplessità, osservandolo mollare letteralmente la sua valigia per iniziare a frugarsi nelle tasche, lanciando anche una lieve imprecazione nel non trovare quello che cercava – lo sai che puoi…”
La frase le si mozzò in gola come vide la piccola scatolina che finalmente veniva tirata fuori dalla tasca destra dei pantaloni. Solo uno sciocco non poteva capire cosa c’era dentro quel contenitore e dunque quello che stava per accadere.
Qui? Adesso? – il cuore della fanciulla prese a galoppare nel petto, mentre si guardava attorno con ansia, quasi a credere che tutto svanisse all’improvviso come in un sogno – Ci siamo appena laureati… ci siamo appena laureati…
C’era tempo! Tantissimo tempo! Lei doveva diventare medico a tutti gli effetti, lui aveva appena iniziato a lavorare, avrebbero dovuto prendere del tempo per adattarsi, rifletterci con attenzione… valutare i tempi che ci volevano…
Oh ti prego! – quei pensieri vennero spazzati via come da un uragano quando vide il suo fidanzato inginocchiarsi sul sentiero e mostrarle, con mano tremante, l’anello contenuto nella scatolina – Oh ti prego… non ci posso credere! Sei fantastico!
“Elisa – iniziò lui con voce leggermente acuta ed insicura – so… so che forse avrei dovuto aspettare un’occasione migliore e che… che il galateo non… non funziona proprio così, però…”
Elisa si mise le mani sulle guance, sentendole roventi.
“… insomma – continuò Vato, continuando a guardare a terra quasi a trovare il coraggio – è che io ti amo. Ti… ti amo tantissimo, con tutto me stesso: voglio stare con te per tutta la vita. E vorrei… sarei onorato…”
“… onorato…” sorrise lei, davanti a quella parola così cavalleresca.
“… ho messo un po’ di soldi da parte durante l’Università. Anche se non è tantissimo… è un inizio. Vorrei che tu accettassi di… di… di…”
“Sposarti?”
“Sì, sposarti… sposarmi!” lui annuì con forza, tendendo la scatolina verso di lei e alzando finalmente i suoi occhi dal taglio allungato su di lei. Sembrava tornato il ragazzo impacciato che ancora non si decideva a fare il primo passo per superare quel fatidico confine tra amici e fidanzati: ma era questo il bello di lui, quello che lo distingueva da tutto il resto del mondo.
“Sposarti – sospirò felice Elisa, mentre una lacrima le colava sulla guancia destra – certo… certo che lo voglio, Vato Falman”.
Tese la mano tremante e fu veramente difficile indossare quell’anello d’oro con la pietra verde al centro: erano così emozionati che ci vollero una decina di secondi prima di compiere quella piccola impresa.
Vato rimase in ginocchio, prendendo la mano della fidanzata e posandovi sopra il viso, come se fosse incredibilmente esausto dopo quello sforzo. Rimasero così fermi, per almeno un minuto buono, mentre Elisa cercava di diminuire i battiti del suo cuore e recuperare un minimo di calma per entrambi.
“Che ritorno a casa…” disse infine, facendosi aria con la mano libera.
“Scusami… scusami – mormorò Vato – ma… ma non riesco ancora ad alzarmi”.
Con un sospiro la fanciulla si inginocchiò accanto a lui, incurante della terra polverosa che le sporcava il bel vestito. Con il braccio libero cinse le spalle del fidanzato, baciandogli la chioma bicolore con amore.
“Va meglio?”
“Credo di sì” Vato riuscì finalmente a sciogliersi da quella posizione e restituire l’abbraccio.
“L’anello l’hai preso alla gioielleria di East City, quella che vedevamo sempre durante le nostre passeggiate – lei si fissò l’anulare con quel cerchio d’oro così brillante. Ma certo, l’aveva adocchiato subito e le era piaciuto tantissimo, ma non gli aveva mai detto nulla – sei meraviglioso, Vato Falman”.
“Non mi sembra vero di averlo fatto…” ammise lui, quasi con voce colpevole.
“Non potevi regalarmi un ritorno a casa migliore, parola mia”.
Quant’era bello quel sentiero di campagna con l’erba incolta e le cicale che frinivano. Com’era bella l’aria calda di inizio settembre e quel cielo così terso che mai e poi mai era visibile in città.
Com’era bella la vita in quel momento. 



_____________________
Eccomi tornata a pieno regime dopo il matrimonio di mio fratello e dopo i colpi di testa del sito.
Purtroppo ho ben quattro recensioni perdute, di cui tre per questa storia: spero che vengano recuperate, mi dispiacerebbe tantissimo che vadano nell'oblio. Speriamo bene: comunque sappiate che le avevo lette tutte e avevo anche risposto, sebbene non sappia se la risposta fosse arrivata o meno.

Ma veniamo a noi!
In questo capitolo ho inserito altri protagonisti: Jean ed Heymans, ma anche Elisa. Come avevo anticipato nei video di anteprima nella mia pagina fb, su di lei ho molte aspettative come autrice in quanto le ho scelto un percorso abbastanza particolare. A partire dal fatto che, tutto sommato, lei è una piccola pioniera con il suo mestiere di medico.
Ovviamente tenente conto che le tempistiche sono differenti rispetto ai giorni nostri e dunque non c'è niente di strano che Elisa così giovane abbia conseguito già il diritto ad esercitare.

A dire il vero non pensavo di fare questa proposta di matrimonio nell'immediato, ma ci sta, decisamente ci sta considerate anche le tempistiche che ho in mente per lo svolgimento dei fatti.

Alla prossima :)

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3. Nuova settimana ***


 

Capitolo 3. Nuova settimana

 


La nuova settimana iniziò con una giovane figura che scendeva dal sentiero proveniente dalla casa dei Fury.
Kain, com’era solito fare, assaporava ogni istante della passeggiata che l’avrebbe condotto a scuola: la natura era sempre sua grande amica ed i suoi vivaci occhi scuri non avevano perso l’abitudine di cogliere ogni singolo dettaglio, ogni foglia che faceva filtrare la luce del sole, ogni piccolo animale che si muoveva nel tranquillo sottobosco che costeggiava il sentiero.
A dire il vero era un po’ strano fare quella passeggiata da solo dopo che per cinque anni c’era stata Riza a tenergli compagnia. Tornare a fare quel percorso in silenzio, senza alcuna chiacchiera o risata, sembrava amplificare i rumori della natura in maniera del tutto nuova.
Tuttavia bastò la vista di uno scoiattolino che si arrampicava velocemente sul tronco di un albero per fargli tornare il buonumore. Se non fosse stato per la scuola si sarebbe fermato per vedere se la sua tana si trovava nelle vicinanze. Ma il giovane studente di seconda superiore – e si sentiva davvero importante per quel grande traguardo – non poteva permettersi di tardare dato che aveva un appuntamento.
Dopo qualche minuto, infatti, arrivò al bivio che collegava il sentiero alla strada principale che portava verso il paese e dovette attendere ben poco prima di vedere la figura snella di Janet che correva verso di lui.
“Buongiorno – la salutò con un sorriso – hai corso fino a qui?”
“Non riuscivo a decidere che vestito mettere – ammise lei col fiatone, chinandosi addirittura per recuperare il respiro – è l’ultimo anno delle elementari, non è mica una cosa da niente”.
“Un traguardo importante senza dubbio” convenne il ragazzo mentre la osservava riacquistare la posizione eretta e sistemarsi meglio le folte trecce bionde. Ora che stavano uno davanti all’altra si notava come, nonostante i cinque anni di differenza, Janet arrivasse già alle spalle dell’amico più grande: non c’era da sorprendersi considerate le famiglie da cui provenivano.
“Allora, che cosa ne pensi? – chiese lei facendo una rapida giravolta per mostrare in tutta la sua grazia il vestito verde chiaro – non è certo come quello che avrà Meg, però gliel’ha comprato sua madre al negozio, me l’ha confidato la scorsa settimana”.
“Trovo che ti stia benissimo – le rispose Kain, mentre si avviavano verso l’ultima parte di tragitto – ma non c’è niente che ti stia male, lo sai”.
“Ho chiesto a mamma se potevo farmi una sola treccia, come le ragazze di scuola media, ma ha detto che devo aspettare almeno i tredici anni. Trovo che sia una cosa davvero stupida!” protestò mettendo uno dei suoi adorabili bronci.
Kain si limitò a ridacchiare, trovando che la sua giovane amica fosse sempre la stessa. In tutti quegli anni che la conosceva aveva sempre dimostrato un pizzico di vanità, ma anche di voglia di dimostrarsi più grande di quanto in realtà non fosse. Probabilmente questo dipendeva dal fatto che, per buona parte del tempo, stava con un gruppo di ragazzi più grande di lei: in questo Kain in parte la capiva.
Ma quella fase ormai era passata e quello strano complesso non esisteva più: non sentiva più l’esigenza di compiacere gli altri per mostrarsi più adulto, per paura di venir estraniato. Ormai era sicuro di quello che era e del fatto che veniva accettato senza alcun compromesso; certo c’era voluto diverso tempo e tanta sofferenza per arrivare a quel momento, ma l’importante era esserci riusciti.
“Comunque fa strano – continuò Janet, prendendogli istintivamente la mano – adesso che anche Riza ha finito le scuole siamo rimasti io e te… e poi le finirai pure tu e io per gli ultimi anni dovrò fare tutta la strada da sola. Già è stato brutto quando Jean ed Heymans hanno terminato”.
“Inizio la seconda superiore, c’è ancora del tempo per pensare a questo – il ragazzo cercò di cambiare argomento – allora, che cosa hai portato per merenda? Sai, mia madre ha preparato anche la torta stamattina: ne ho portato una fetta anche per te”.
“Davvero? Splendido! Allora io ti darò una delle mie pastine alla marmellata”.
Stavano proseguendo nella loro allegra chiacchierata quando videro una giovane donna avanzare verso di loro a grandi passi. Non ci volle molto per riconoscere la figura sorridente e gaia di Rebecca.
“Buongiorno, ragazzi. Primo giorno di scuola, eh?”
“Stai andando da mio fratello? – chiese Janet, incuriosita – Non sei mai venuta all’emporio così presto”.
“Del resto è presto che si inizia a lavorare, no? – rispose Rebecca spavalda, mettendosi a braccia conserte e annuendo con aria di chi la sa lunga – Il mattino ha l’oro in bocca”.
“Ma tu sei quella che si lamentava sempre perché le lezioni iniziavano troppo presto impedendoti di dormire” osservò Kain, per il quale Rebecca restava sempre una creatura abbastanza incomprensibile.
“La scuola è una cosa, il lavoro è un’altra. Vi auguro un buon inizio di scuola, adesso devo proprio andare o farò tardi il mio primo giorno! Non sarebbe per niente bello. Ci si vede”.
Kain e Janet si scambiarono un’occhiata stranita mentre osservavano l’amica affrettarsi in direzione opposta alla loro.
“Ha detto lavoro?” chiese il ragazzo, sistemandosi meglio gli occhiali sul naso.
“Mh – annuì Janet – ma non so proprio di cosa stesse parlando”.
Kain per qualche secondo rifletté sul fatto che Riza, se fosse stata lì, sicuramente avrebbe dato una spiegazione logica sul comportamento della sua amica.
Tuttavia la campana della scuola poco distante lo fece desistere da simili pensieri e, scambiatosi un cenno d’intesa con Janet, iniziarono a correre verso la loro destinazione.
 
Poco lontano, a casa Fury, la cucina ferveva d’attività.
Come aveva detto Kain, Ellie quella mattina si era data davvero da fare per rendere la colazione speciale. A dire il vero era un rituale che veniva fatto ogni primo giorno di scuola, quasi fosse d’augurio per un buon anno scolastico: si svegliava la mattina presto e preparava le cose preferite dai ragazzi in modo che trovassero la tavola imbandita.
In quel momento era intenta a sistemare i resti di quel banchetto a cui aveva partecipato tutta la famiglia, rendendosi conto con orgoglio e piacere che ben pochi erano gli avanzi da conservare: come sempre si era superata nella preparazione dei dolci preferiti da Kain e Riza.
Sebbene quest’anno abbia dimenticato che lei non andava a scuola.
Posando i piatti sul lavabo si girò a guardare Riza che, dopo averla sbattuta in cortile, sistemava la tovaglia nel tavolo. Notò con una nota d’orgoglio la disinvoltura che aveva acquisito in quei meccanismi domestici: era così diversa da quella ragazzina che faceva tutto con esitazione quasi fosse timorosa di venire sgridata per una posata messa male.
Persino all’osservatore più disattento sarebbe saltato all’occhio che tra di loro non c’era alcun legame di parentela. Crescendo Riza era diventata alta e robusta e ora superava di diversi centimetri la madre adottiva; laddove il viso di Ellie era delicato ed infantile, quello della ragazza era più morbido e deciso e lo stesso si poteva dire del corpo molto più sviluppato.
Semplicemente erano due tipi di bellezze diverse: Ellie in quei cinque anni trascorsi non era cambiata di una virgola, mantenendo il suo viso da eterna ragazzina che, tutt’ora, la faceva considerare una delle donne più belle del paese. Riza era proprio sbocciata, ma proprio questo aveva accentuato le caratteristiche che le provenivano dai suoi veri genitori.
Tuttavia, sempre l’ipotetico osservatore, non avrebbe potuto fare a meno di notare la grande sintonia che intercorreva tra di loro, chiaro indice di un legame veramente forte.
“Ammetto che è stato strano non vederti uscire di casa assieme a Kain”.
“Almeno ti posso dare una mano a rimettere a posto questo disastro”.
“Bazzecole, non è niente in confronto a quello che sarà il disastro quando, la settimana prossima, ci sarà il suo compleanno”.
Riza ridacchiò e rimise a posto il vaso di fiori che fungeva da centrotavola. Sistemò con attenzione alcuni fiori, levando poi una foglia che rischiava di cadere e, nel farlo, il suo viso divenne pensieroso, tanto che si sedette e rimase a contemplare la decorazione della ceramica bianca.
Ellie non ebbe difficoltà a capire che la figlia si voleva confidare su qualcosa che la turbava da qualche giorno. Riza per lei era come un libro aperto, a dire il vero a volte le capitava di capire meglio lei rispetto a Kain. Per quanto fosse rimasta una ragazza molto riservata, inconsapevolmente faceva in modo di mandare chiari segnali in modo che qualcuno giungesse in suo aiuto… rimanere a fissare il paesaggio dalla finestra, stare per dieci minuti sulla stessa pagina di un libro, cercare la compagnia materna più spesso del solito, senza però dire niente. Era come se non volesse creare problemi e dunque aspettasse che gli altri prendessero l’iniziativa.
Nei primi tempi in cui era entrata a far parte della loro famiglia, Ellie, assieme al marito, si era domandata se fosse un atteggiamento dovuto alla timidezza e all’ambiente nuovo. Si erano chiesti se era il caso di spronarla a non aver paura, a confidarsi per qualsiasi problema, tuttavia poi avevano capito che era un atteggiamento naturale per quella ragazzina che aveva vissuto per tanto tempo una situazione difficile.
E così avevano lasciato che Riza si adattasse a loro in tutta naturalezza, senza imporle niente.
“Allora, che cosa ti preoccupa da qualche giorno a questa parte?” chiese Ellie, asciugandosi le mani con un canovaccio e andando a sedersi davanti a lei.
Come al solito Riza non rimase per niente sorpresa da quella domanda, anzi i suoi occhi la fissarono con gratitudine per qualche secondo prima di tornare sul vaso di fiori.
“A dire la verità sono un po’ confusa su di me e sul mio futuro…” ammise con voce sommessa e leggermente vergognosa. Abbassò ulteriormente la testa, tanto che ciocche bionde scesero ancora di più nascondendole gli occhi in maniera affascinante, ricordando tantissimo la foto della sua defunta madre.
“Quest’estate la questione non sembrava preoccuparti molto”.
“Forse ho sbagliato – scosse il capo la ragazza – ho pensato solo alla relazione tra me e Roy, rimandando tutto al momento in cui finirà l’Accademia e avvierà la sua carriera nell’esercito. Tuttavia non ho pensato a niente per me stessa… nessun progetto personale. E questo non va bene”.
“Intendi dire che vorresti trovarti un lavoro? - Ellie posò il mento sulla mano e fissò la figlia adottiva con attenzione. Quell’idea non le dispiaceva per niente: per quanto Riza fosse un aiuto prezioso a casa, sapeva bene che poteva fare ben altro nella sua vita, sebbene non avesse ancora ben chiaro cosa. Era pronta ad imparare, volenterosa, intelligente, le mancava solo quell’ambizione personale che le avrebbe fatto spiccare il volo - Sai che io volevo fare la maestra o diventare scrittrice, no? Però poi i miei progetti sono ben cambiati… evidentemente a te non è ancora arrivata l’ispirazione giusta”.
“E’ che mi fa strano. Sai, le mie amiche più care hanno trovato la loro strada… ieri Elisa non solo mi ha detto del fidanzamento con Vato, ma anche che proprio oggi aveva intenzione di andare dal dottor Lewis per chiedergli di poterlo affiancare alle sue visite”.
“E’ fantastico! – annuì Ellie, sinceramente fiera della carriera che aveva intrapreso quella caparbia fanciulla – mi riprometto già di rivolgermi a lei ogni volta che ci sarà bisogno. Avrà bisogno di sostegno in questi primi tempi, ho questo vago sospetto”.
“A guardare lei l’idea di stare ad aspettare il ritorno di Roy mi sembra così inutile”.
“Ehi, non è mai inutile pensare al grande amore – strizzò l’occhio la donna – non dovresti dire simili cose ad un’inguaribile romantica come me. Comunque ribadisco il concetto: il fatto che le tue amiche abbiano trovato la loro strada non ti deve preoccupare; a te serve maggior tempo, tutto qui. Questo non ti deve far sentire inutile, cara, non farti venire in testa strane idee. Guardati attorno, riflettici bene e se vedi qualcosa che desideri davvero fare non esitare a parlarne: io e tuo padre vedremo come aiutarti”.
Riza annuì con un sorriso rinfrancato, chiaramente felice di aver ricevuto simili rassicurazioni.
A dire il vero Ellie non sapeva ancora quale via avrebbe intrapreso la sua giovane protetta. Mentre per Kain era chiaro che il futuro sarebbe stato nell’elettronica e nelle radio, per quella ragazza bionda e discreta ancora non appariva chiaro cosa riservasse la vita.
“Vorrei solo che ti fosse chiara una cosa – sorrise, mentre si alzava per andare a terminare di lavare le stoviglie – quello che sono io, o Rosie non è roba da poco. Certo, forse non lavoreremo come Angela o come Laura, ma questo non vuol dire che non siamo felici e realizzate: portare avanti una famiglia non è uno scherzo”.
“Mai pensato questo – rispose prontamente Riza, alzandosi per abbracciarla – ti considero la donna più meravigliosa di tutto il mondo, mamma. Sei il mio esempio più importante”.
“Ehi, quanta considerazione – la prese in giro Ellie – a proposito… mi dicevi che le tue più care amiche hanno deciso cosa fare. Di Elisa lo so bene, ma Rebecca? Non sapevo avesse iniziato a lavorare pure lei…”
“Oh – sospirò la ragazza – beh, oramai non è più il caso di tenerlo segreto… è che… credo che all’emporio di Jean la situazione stamattina sia parecchio movimentata…”
 
“… ma sei seria?”
“Mai stata più seria in vita mia: da oggi lavoro all’emporio. Allora, che cosa posso fare?”
Jean si passò una mano tra i folti capelli biondi, osservando la fidanzata con aria stranita e preoccupata.
Tutto si era aspettato quella mattina, meno di vederla piombare all’emporio così presto e sentirla fare una simile proposta. Lavorare lì? Gli sembrava una cosa fuori dal mondo, a partire dal fatto che la conosceva fin troppo bene e non la vedeva proprio a destreggiarsi tra le merci del magazzino.
Forse al bancone se la poteva cavare meglio… ma non era questo il punto.
Jean in quegli anni di fidanzamento era arrivato alla conclusione che, fino all’eventuale matrimonio, una salutare separazione per buona parte della giornata fosse necessaria. Non che non gli piacesse passare del tempo con lei, tutt’altro, ma il carattere focoso di Rebecca tendeva ad esplodere fin troppo in fretta, specie in situazioni stressanti come potevano essere, per esempio, il riordino e l’archiviazione delle merci.
“… ecco io – Jean cercò di prendere tempo, non sapendo come fare per rifiutare quella richiesta con diplomazia – a dire il vero non so se…”
“Ah, ovviamente, dato che sono la tua fidanzata pretenderò solo un piccolo compenso piuttosto che uno stipendio vero e proprio. Sono romantica: per me l’importante è stare assieme a te, tesoruccio!”
“E non chiamarmi così! – arrossì il biondo, respingendo quel tentativo di abbraccio che aveva la chiara intenzione di metterlo in trappola – Senti, non sono io il capo dell’emporio… per le assunzioni devi chiedere a mio padre e non so se…”
“Quanta formalità! – sbuffò lei – Ma in fondo è giusto: non voglio che si parli di favoritismi… signor James! Signor James! Le devo assolutamente parlare, è importante!”
“No, Reby, aspetta! – cercò di bloccarla Jean, mentre lei superava il bancone e correva verso il magazzino – Ehi, dietro il bancone ci vanno solo i dipendenti”.
“Non essere scemo… conosco bene il magazzino – strizzò l’occhio lei – lo sai benissimo!”
Jean divenne paonazzo nel pensare alle diverse volte in cui avevano amoreggiato tra gli scaffali, anche durante i suoi turni di lavoro. Alla luce dei nuovi eventi quelle scappatelle passate gli sembravano un errore madornale.
“Ehilà, ciao Rebecca – salutò James, mentre sollevava con noncuranza cinque casse di conserve – è sempre un piacere vederti qui. Però fai attenzione che siamo in una fase un po’ caotica, forse conviene che aspetti in cucina… c’è Angela che sta finendo di… ehi, ma che fai?”
“Mi lasci aiutare – sorrise Rebecca, andandogli incontro e prendendo due cassette dalla pila che l’uomo teneva – sono sicura che…oddio!”
Il botto delle cassette e dei relativi barattoli di conserve venne prontamente salvato da Jean che, con una rapida manovra, riuscì a chinarsi giusto in tempo e prendere la cassetta in fondo prima che toccasse terra.
Con un grugnito seccato riguadagnò la posizione eretta, mentre i muscoli delle sue braccia si tendevano per lo sforzo.
“Ma sei scema a prendere delle cose così pesanti tutta da sola? – disse, lanciando un’occhiataccia alla fidanzata – Persino mia madre ne prende una alla volta!”
“Suvvia suvvia, non drammatizziamo – intervenne prontamente James, posando la sua parte di carico e battendo delle pacche affettuose sulle spalle di Rebecca – voleva solo essere gentile, non è il caso di prendersela tanto. Bene, cara, come ti dicevo Angela è in cucina: se aspetti un cinque minuti vi raggiungo e ci beviamo un caffè assieme, che ne dici?”
“Oh bene! – batté le mani la ragazza – effettivamente è meglio parlare della mia assunzione davanti a una buona tazza di caffè, trovo che sia molto più formale che stare in magazzino”.
“Assunzione?” sgranò gli occhi James, con espressione basita incredibilmente simile a quella che il figlio aveva assunto poco prima.
Proprio Jean gli lanciò un’occhiata disperata, ad indicargli che non sapeva proprio come fare davanti a quell’assurda proposta di Rebecca che continuava a sorridere deliziata, sicura di ottenere quanto voleva.
Dannazione – pensò il giovane – ma perché in seconda superiore mi sono lasciato fregare da questa qui?
 
Capitava raramente che la famiglia Havoc si riunisse in gran consiglio a proposito di qualche spinosa questione. In genere si risolveva tutto durante il lavoro, i pasti, normali chiacchierate: era successo pochissime volte che tre membri della famiglia si ritirassero in una stanza per discutere di qualcosa.
Ma a quanto pare quella mattina era necessario che il consiglio di guerra venisse convocato.
“Beh, tutto sommato anche io avevo iniziato a lavorare all’emporio prima di sposarmi…” stava dicendo in quel momento Angela.
“Ma perché la parola matrimonio deve saltare fuori così tante volte? – sbottò Jean, fulminando con lo sguardo la madre – Non è di questo che stiamo parlando!”
“Prima o poi te la vorrai sposare, no? Del resto lei vuole lavorare qui proprio per starti vicino: lo trovo un gesto molto carino. E poi mi piace lo spirito d’iniziativa di quella ragazza, l’ho sempre detto”.
“Ovvio che avresti patteggiato per lei, non avevo dubbi!”
“Ma che c’è di male? – proseguì Angela – e poi una mano in più fa sempre comodo: sappiamo bene che il lavoro non manca mai e dato che io e James non siamo più giovanissimi…”
“… ehi, sono nel pieno delle forze, ragazza!”
“… dico solo che è giusto lasciare spazio alle nuove generazioni”.
“Papà, ti prego, dì qualcosa anche tu – supplicò Jean – non puoi lasciarmi solo in quest’emergenza”.
“Beh,ecco… è vero che tua madre ha iniziato a lavorare qui quando eravamo ancora fidanzati… però è diverso, almeno credo”.
“E in che cosa sarebbe diverso?” intervenne Angela con esasperazione.
“Beh, tu ci sapevi fare, Rebecca non mi sembra molto ferrata per certe cose”.
“Oh che impara! Tutti all’inizio sono un po’ impacciati: che scuse sono ormai queste?”
“Mamma… Rebecca è un disastro! E poi a stretto contatto litigheremmo ogni giorno, me lo sento – sospirò Jean – il nostro rapporto ha avuto una grande distensione nell’ultimo anno, quando io non andavo più a scuola. Le nostre litigate hanno subito un grande calo, come possono confermare anche Heymans e Riza. Non puoi rovinare tutto così!”
“Ah bene! E quando vi sposate come la metterai? – chiese sarcastica Angela mettendosi a braccia conserte – lei starà a casa sua, tu qui e vi incontrerete a metà strada per procreare i figli giusto per non litigare? E poi dove li alleverete? Metà anno a casa di Rebecca e metà anno qui? Jean, sei rincitrullito o cosa?”
“Ancora col matrimonio!? Ci tieni tanto a diventare nonna? Mamma, così ammetti di essere vecchia!”
“Sono ancora abbastanza giovane per riempirti di sberle se non moderi i toni con me, ragazzino!”
“Se possiamo tornare al problema iniziale…” propose James.
“Non mi dire che tu difendi questo scellerato!” sibilò Angela.
“No, non è che… beh, per noi è stato diverso, cara. E non è che Rebecca non mi piaccia, tutt’altro, però…”
“Lo vedi che nemmeno tu hai valide argomentazioni? – sorrise amabilmente la donna – sono solo vostre paranoie mentali. Lo so bene che una donna che lavora vi spaventa. Allora è deciso?”
“No!” scosse il capo Jean con orrore.
“Un periodo di prova?” propose James.
“Per farsi le ossa… e comunque trovo giusto che venga pagata – annuì Angela – sono stata una scema a non chiederlo io a mio tempo”.
“Scheggia!” protestò l’uomo.
“Non potete farmi questo… pensate più a lei che a me!” supplicò Jean.
“Finiscila, sto pensando al fatto che devi imparare a gestire il tuo rapporto una volta per tutte – lo liquidò Angela – anzi, dato che ci siamo la aiuterai tu ad imparare il mestiere: sarà istruttivo per entrambi”.
“Papà, sei tu il capo dell’azienda… sei proprio sicuro di quello che ti sta biecamente e palesemente proponendo tua moglie? Ricorda che si chiama emporio Havoc, non Astor…”
James squadrò prima il figlio e poi la moglie, ma poi sospirò e si passò una mano tra i folti capelli biondi con qualche filo di grigio.
“Beh, effettivamente se prima o poi te la sposi… tanto vale che impari a gestire l’emporio. Ma tienila sotto controllo in questi primi giorni”.
“Io, eh…”
“Ottimo, allora andiamo? – batté le mani Angela – quella poverina è rimasta sola fin troppo tempo”.
 
Per una Rebecca che aveva ottenuto più o meno facilmente il lavoro, una trepidante Elisa si stava dirigendo verso la casa del dottor Lewis, cercando di ignorare le occhiate curiose che la gente le guardava. Non che si sentisse un’estranea, ma era come se tutti fossero estremamente incuriositi dal suo vestito sobrio ma elegante, dai suoi capelli tenuti dietro da un fermaglio, come se non riuscissero più a riconoscere la ragazza che qualche anno prima era partita per l’Università.
Tutto questo le procurava un lieve fastidio: non riusciva a capire perché dovessero vedere solo il suo lato cittadino. Era sempre Elisa Meril, la conoscevano tutti da quando era nata: una pettinatura più adulta rispetto ai capelli sciolti ed un abito diverso non dovevano sconvolgerli in un simile modo.
Ma forse è destino che le donne di famiglia diano sempre un po’ di scandalo.
Mentre si preparava aveva confidato a sua madre tutti i suoi timori circa quel colloquio.
Ammirava tantissimo il dottor Lewis e la sua esperienza, sotto un certo punto di vista lo considerava migliore di tutti i medici di East City. Un medico di campagna ai suoi occhi aveva un qualcosa in più, una saggezza popolare che ai luminari di città mancava. Proprio perché lo stimava così tanto aveva paura di un suo rifiuto: del resto era una donna medico, un qualcosa che in paese non si era mai visto… e il dottor Lewis aveva anche una certa età e dunque poteva avere preconcetti un po’ radicati circa il ruolo della donna. Anche se sua moglie era una bravissima levatrice, lei andava a proporsi come medico vero e proprio.
“…ricorda che la tua cara bisnonna era quasi vista come una strega solo perché faceva l’erborista come me…”
Le parole di sua madre le tornarono in mente e le venne da sorridere. Lei una strega? No, non poteva essere così, i tempi erano cambiati e certi pregiudizi non avevano più motivo di esistere.
Arrivò davanti alla casa del dottore, una graziosa villetta poco distante dalla via centrale del paese.
Fermandosi a pochi metri dalla veranda esterna, la ragazza non mancò di notare le deliziose tendine di mussola che si vedevano a tutte le finestre: erano molto simili a quelle di camera sua e questo le diede uno strano senso di sollievo.
Forza e coraggio, Elisa Meril – si disse, tormentandosi le mani dove, all’anulare sinistro, stava l’anello di fidanzamento che le aveva regalato Vato – è quello per cui hai sudato tutti questi anni.
Trasse un profondo respiro e salì i tre gradini che portavano nella veranda, quindi bussò alla porta, contando mentalmente il tempo che avrebbero impiegato ad aprire.
Ci vollero solo quindici secondi prima che ad accoglierla fosse una donna dai folti capelli castani raccolti in una morbida crocchia. Elisa non ci aveva scambiato che poche parole ogni tanto, ma sapeva che era una zia materna di Jean, la levatrice più brava di tutto il paese.
“Buongiorno, signora Lewis – salutò la ragazza, cercando di tenere un tono di voce tranquillo – sono Elisa Meril, io…”
“Quasi non ti riconoscevo! Come sei cambiata dall’ultima volta che ti ho visto al compleanno di Jean! – la donna la prese per mano e la fece accomodare – Pensavamo fossi ancora ad East City”.
“Sono tornata ieri”.
“Ieri? Ah, sembri fresca come una rosa nonostante il viaggio: beata gioventù. A proposito,trovo veramente fantastico che tu sia diventata medico, in paese non si parla d’altro”.
“Davvero?” Elisa si illuminò nello scoprire un simile sostegno morale: il fatto che la moglie del medico fosse dalla sua parte era già un passo in avanti. Ed inoltre quella donna le ricordava nei modi di fare spontanei la madre di Jean e questo contribuiva a farla sentire a suo agio.
“Sul serio, e non farti scoraggiare dalle malelingue, mi raccomando!”
“Piuttosto potrei parlare col dottore? – si fece coraggio Elisa – O è impegnato in visite?”
“Adesso è nel suo studio, vieni pure”.
Tenendola a braccetto la donna la condusse per le stanze di quel villino davvero delizioso, dove tutti i mobili erano eleganti e al tempo stesso semplici. A colpire la ragazza fu la presenza di tanti testi di medicina, disposti in bell’ordine su svariate librerie: le davano un senso di sicurezza che non avrebbe mai immaginato, riportandola ai bei tempi dello studio nella biblioteca universitaria.
“George, caro – la riportò alla realtà la donna, introducendola in uno studio arioso ed ordinato – c’è una visita per te: la signorina Elisa Meril. Accomodati pure, cara, io vado a preparare un caffè”.
Come la porta si chiuse, Elisa rimase ferma, senza farsi avanti per occupare una delle due sedie che stava davanti alla scrivania di legno massiccio. Osservò con attenzione quella superficie di legno lucido ed il suo spartano contenuto: un’agenda al centro, dove il dottore stava scrivendo, alcuni libri di lato, diligentemente impilati, un portapenne e una risma di fogli bianchi dall’altra parte. Essenziale e professionale, proprio come ci si doveva aspettare.
Quanto al dottor Lewis… beh, lo conosceva da sempre: era stato lui a visitarla tutte le volte che stava male. Ma ora era come vederlo per la prima volta e si accorse che le incuteva uno strano timore. Eppure, esperienza a parte, avevano il medesimo titolo.
Era ormai vicino alla sessantina ed il suo viso era segnato dal sole, retaggio di chi è abituato a lunghe passeggiate per la campagna, e da diverse rughe, specie attorno agli occhi. I capelli erano corti e grigi, come grigia era la barba… un grigio ferro appena intaccato da qualche parte più vicina al bianco. Il medico alzò gli occhi su di lei: occhi scuri e penetranti, quelli che l’avevano fissata diverse volte con attenzione mentre giaceva nel suo letto con la febbre o con qualche altra malattia. Occhi che cercavano il sintomo, la soluzione per guarire il paziente… occhi che sapevano ed avevano imparato nel corso degli anni.
“Dottor Lewis…” mormorò.
“Hai qualche problema, signorina? – le chiese lui, alzandosi dalla scrivania e portandosi davanti a lei – Mi pari in perfetta forma, forse solo poco abbronzata… ma è anche vero che eri in città”.
“Sto benissimo, la ringrazio. A dire il vero sono venuta a trovarla per un altro motivo”.
“Sentiamo pure” l’uomo si mise a braccia conserte, squadrandola con attenzione e sospetto, come se sapesse già il motivo per cui era venuta lì. E sembrava che non ne fosse molto entusiasta.
“Ecco, dovrebbe già sapere che ho conseguito la laurea in medicina – iniziò Elisa con timidezza, trovandosi in difficoltà come quando aveva dato il suo primo esame e non sapeva cosa aspettarsi – ho… ho fatto anche il tirocinio presso l’ospedale maggiore di East City e… e ora sono un medico”.
“Un medico… già…”
“Volevo chiederle… dato che avrei intenzione di esercitare qui una volta che lei si ritirerà, se… se posso affiancarla nelle sue visite… darle una mano…”
Dannazione, Elisa, perché hai questa vocina tremante?
Il dottor Lewis continuava a fissarla con attenzione, come se avesse i sintomi di una malattia del tutto nuova e comunque parecchio grave. Rimase così per una decina di secondi prima di tornare a sedersi alla scrivania.
“Questo è davvero il colmo – commentò con voce secca – per questi ultimi anni mi sono sempre preoccupato del fatto che non sembrava esserci nessuno disposto a prendere il mio posto. E ora che è successo scopro che si tratta di te… credevo che restassi in città dopo la laurea”.
“Oh, ma io ho sempre desiderato tornare in paese e lavorarci”.
“Certo, la mancanza di casa si fa sentire… ma forse avresti fatto un grande favore a te stessa”.
“Perché sono donna? Io…”
“Sì, perché sei una donna – disse senza mezzi termini l’uomo – potrai anche avere tutte le competenze del mondo, ma il novanta per cento del paese non vorrà avere a che fare con te in quanto medico. Come levatrice, magari, se ti va bene per problematiche femminili… ma anche in queste cose ci sono massaie e nonnine che ti superano alla grande in quanto a rimedi. Tua madre per esempio… credi che si rivolgeranno a te piuttosto che a lei di cui si fidano da anni?”
Elisa ingoiò il groppo amaro che aveva in bocca: certo si era aspettata una reazione simile, ma le faceva male ugualmente.
“E lei cosa ne pensa di me? Del fatto che sia medico…”
“Mia moglie è una grandiosa levatrice e mi dà un grande aiuto come infermiera quando occorre. Sono perfettamente consapevole delle sue possibilità e del fatto che sarebbe stata una brava dottoressa se ne avesse avuto occasione… ma non funziona proprio così”.
“Beh ormai da qualche anno funziona così – ritorse Elisa – le donne possono accedere agli studi di medicina proprio come gli uomini”.
“Ragazza mia, sei proprio come un medico novellino che arriva dalla città: carico di entusiasmo, ma privo d’esperienza. Non ti hanno insegnato che se il paziente non si fida di te c’è ben poco da fare?”
“Io…”
“Tu hai fatto pratica nelle corsie d’ospedale, in una realtà ben diversa dal paese. Lì sono persone che vedi una volta nella vita e poi passi a dei nuovi pazienti, ma qui non funziona così, assolutamente no. E loro diffidano di te, l’hai già notato pure tu ne sono certo…”
“Loro… loro non capiscono, ma è solo l’inizio…”
“A me ci sono voluti anni prima di guadagnare la loro fiducia, tu sei anche una ragazza… capisci perché sono così perplesso su di te?”
“Mi sta dunque dicendo che non intende accogliere la mia richiesta?” lo disse con voce strozzata, sentendosi veramente una sciocca con quel vestito cittadino e quella pettinatura. Avrebbe preferito di gran lunga avere un vestito di tutti i giorni, forse si sarebbe sentita meno idiota.
“Sarei tentato, ma non c’è nessun altro che possa prendere il mio posto tra qualche anno… e devi ringraziare anche mia moglie che ti ha fatto grande propaganda da quando ha saputo che stavi per tornare”.
“Allora…”
“Allora vedrò di che pasta sei fatta, Elisa Meril, tutto qui: per ora ti farò venire un paio di giorni alla settimana e mi aiuterai in ambulatorio, sperando che la gente non sia così diffidente”.
“Oh, la ringrazio tantissimo, dottore! – esclamò la giovane con gioia – Vedrà, non la deluderò!”
“Già già… inizia a moderare l’entusiasmo, ragazza, non sono io il tuo vero ostacolo”.
Ma Elisa non lo sentiva, presa com’era dalla felicità.






____________________
nda

E con Kain tutti i nostri eroi hanno fatto finalmente la loro comparsa e quindi la storia può iniziare a macinare (ovviamente state notando che anche i vari genitori stanno iniziando a comparire piano piano). Eccetto la scena iniziale, come avete notato è un capitolo quasi tutto al femminile con le tre ragazze che, ciascuna a modo suo, lavora per il proprio futuro.
Riza soprattutto mi piace molto in questo frangente: è un po' una sorta di alternativa what if...? del "se non avesse seguito Roy nell'esercito".
Ah, vi ricordate del dottor Lewis e di Allyson? Compaiono nello spin off degli Havoc, anche se a dire il vero il medico è sempre stato presente in quasi ogni storia... ha fatto nascere sia Heymans che Henry che Kain ^^
Ci vediamo alla prossima.
Ricordate sempre che gli aggiornamenti li pubblico anche sulla mia pagina fb (che trovate nel mio profilo) e dunque è un modo per restare aggiornati a prescindere dall'entrare giornalmente nel sito.  

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4. Vita cittadina ***


 

Capitolo 4. Vita cittadina

 


Come la porta si chiuse dietro il docente di diritto civile, la cinquantina di studenti dentro l’aula ad anfiteatro iniziò a parlare animatamente: la maggior parte di loro era scioccata e indispettita nel sapere che buona parte del libro sarebbe stata oggetto della verifica di metà semestre. Era un colpo basso che nessuno si era aspettato e che riusciva parecchio sgradito dato che, anche altri docenti, avevano deciso di infierire particolarmente sugli studenti del secondo anno.
Heymans ascoltò con attenzione le rimostranze del suo vicino di banco, un ragazzo che incontrava spesso, sebbene non seguissero tutti gli stessi corsi. Poteva capire il suo stato d’animo, tuttavia da parte sua non se la sentiva di sciorinare la sequela di maledizioni come invece stava facendo la maggior parte dei suoi compagni: si sarebbe trattato di studiare più a lungo del previsto, ma a ben pensarci se la verifica andava bene voleva dire che all’esame finale il programma sarebbe stato più leggero.
Ma era anche vero che lo studente universitario medio aveva bisogno di alcune valvole di sfogo per riuscire a gestire lo stress degli studi. E dunque molto spesso il tutto si riduceva a un noi contro loro, dove loro erano i docenti, colpevoli di caricarli troppo e di non avere alcuna pietà.
“Ma chi credono che siamo? – concluse il suo compagno – Delle persone con superpoteri? Che abbiamo la capacità di non dormire senza subirne conseguenze? Ci vogliono morti, te lo dico io!”
Prendendo con rabbia i libri, si alzò ed iniziò a scendere gli scalini dell’anfiteatro, unendosi al resto degli studenti che stava guadagnando la via d’uscita. Come quel gruppo rumoroso andò via, l’aula risultò stranamente silenziosa, tanto che il colpo di tosse di uno dei pochi ragazzi rimasti parve addirittura rimbombare, quasi a rendere onore all’acustica.
“Credi che al professore fischieranno le orecchie?” chiese ironicamente Heymans, rivolgendosi al compagno che stava nel banco dietro al suo.
“Per i prossimi giorni di sicuro, almeno fino a quando non passerà la mano a qualche altro docente che deciderà di darci qualche verifica a sorpresa – ribadì l’altro, con una scrollata di spalle – a volte penso che sia davvero un modo per decimarci ed avere meno studenti l’anno prossimo”.
“Da quanto ho sentito durante certi esami, il loro punto di vista è corretto, non si può negare”.
“Da parte tua invece ho sentito parlare di interrogazioni brillanti – sorrise il giovane, tendendo la mano – ci siamo visti sin dall’inizio anno, ma non ci siamo mai presentati: mi chiamo Arthur Doyle”.
“Heymans Breda” strinse la mano il rosso, studiando con attenzione il suo compagno.
A dire il vero lo conosceva di vista e di fama, dato che aveva iniziato a frequentare le lezioni quell’anno: i più beninformati dicevano che si era trasferito dalla capitale assieme alla sua famiglia e dunque attorno a lui c’era grande attenzione. Del resto era una persona che tendeva a spiccare anche fisicamente: alto, slanciato, con i lineamenti delicati ed una zazzera di capelli scuri non indifferente, arrivavano praticamente alle spalle, che avrebbe sicuramente fatto storcere il naso a qualche docente vecchio stile. Gli occhi chiari erano curiosi e attenti, si guardavano continuamente attorno, quasi avessero paura di perdere il minimo dettaglio dell’ambiente attorno a lui.
“Allora, sei di East City?” chiese Arthur, distogliendo Heymans dalla sua analisi ed incitandolo ad andare fuori dall’aula ormai vuota.
“No, sono di un paese così piccolo che manco è segnato nelle carte geografiche principali: devi prenderne una dettagliata del distretto est per vedere quel puntino che sembra quasi una sbavatura della penna. Un quattro ore di treno da qui”.
“Oh wow! Un campagnolo vero e proprio, non l’avrei mai detto”.
“Sappiamo confonderci con la gente comune, incredibile, vero?”
“Vi riesce molto bene, sul serio. Io invece sono un monotono cittadino”.
“Ognuno fa quel che può” commentò sarcasticamente Heymans, trovando piacevole quella conversazione.
“Almeno ogni tanto si incontrano persone interessanti. Ti va di pranzare assieme?”
“Si può fare”.
 
Da quando aveva iniziato a frequentare l’Università l’anno prima, Heymans non aveva stretto molte amicizie, anzi a dire il vero nessuna. Parlava volentieri con i suoi compagni di corso, qualche volta gli era capitato di preparare qualche esame assieme a loro, ma le sue interazioni, escludendo lo studio, non erano andate oltre qualche occasionale chiacchiera o qualche pranzo assieme. Erano cordiali e simpatici conoscenti, ma con nessuno aveva mai preso l’iniziativa per avere un rapporto più stretto. Ovviamente non si trattava di timidezza o paura di non venir accettato, al contrario era parecchio benvoluto tra i suoi coetanei, semplicemente non ne aveva sentito l’esigenza sentendosi già completo dal punto di vista delle amicizie.
Tuttavia quell’anno era differente, almeno nell’ambiente universitario: fino a maggio aveva avuto l’appoggio di Vato ed Elisa che, sebbene frequentassero corsi del tutto diversi, si trovavano all’interno dello stesso complesso universitario: con il primo aveva persino diviso la stanza al pensionato di studenti. Era dunque facile riuscire a vedersi durante gli orari dei pasti o in biblioteca, per non parlare poi delle uscite fuori assieme a Roy. Con quella parte di paese accanto a sé, il rosso non aveva sentito minimamente l’esigenza di interagire con gli altri suoi compagni più del necessario.
Adesso i suoi due amici non c’erano più e ovviamente con Roy non ci si poteva vedere così spesso dati gli impegni di entrambi. E dunque il selettivo Heymans Breda aveva sentito l’esigenza di trovare qualcuno con cui scambiare qualche chiacchiera durante le sue ore passate all’Università.
E Arthur Doyle si stava rivelando la persona giusta.
Al contrario degli altri parlava ben poco dell’Università in generale: gli piaceva concentrarsi maggiormente sui docenti e sui compagni, rivelandosi un ottimo osservatore delle varie personalità. Coglieva i minimi dettagli che gli facevano inquadrare una persona: dai gesti, agli sguardi, al modo di portare i libri: trovava tutti questi aspetti estremamente curiosi e li immagazzinava nella sua memoria che poco aveva da invidiare a quella di Vato. Nonostante fosse nuovo dell’ambiente universitario di East City si era già fatto un’idea più che corretta della maggior parte dei loro compagni di corso.
“A dire il vero trovo te estremamente interessante perché inganni la maggior parte delle persone – ammise Arthur mentre finivano di pranzare alla mensa – a prima vista sembri annoiato… scazzato per usare un termine in voga l’anno scorso nella capitale, invece sei tutt’altro”.
Heymans lo gratificò di un’occhiata penetrante, un po’ turbato dall’essere stato in qualche modo smascherato. Tuttavia non se la prese: era solo un’ulteriore conferma di quanto quel nuovo studente fosse interessante e dunque degno di essere frequentato.
“Tu invece non mi sembri scazzato, tutt’altro – ritorse – allora, come mai la tua famiglia si è trasferita dalla capitale ad East City?”
“Motivi di lavoro da parte del mio vecchio – rispose con semplicità Arthur, accavallando con eleganza le lunghe gambe – è un giudice ed è stato chiamato a seguire alcune cause importanti qui data la sua competenza”.
“Dunque stai seguendo le orme di famiglia”.
“Compiaccio semplicemente mio padre, una facoltà vale l’altra per me. Mi prenderò la laurea in giurisprudenza così sarà felice e non mi romperà le scatole. A casa tra lui autoritario e mia madre tendente a scenate isteriche per qualsiasi cosa mi riguardi è meglio cercare di mantenere il quieto vivere… così ho promesso che ad East City avrei messo la testa a posto”.
“In questo mi ricordi una persona – sogghignò Heymans – scommetto che non hai nessuna intenzione di mettere in atto questa tua promessa”.
Sì, proprio come Jean nella prima parte del suo percorso scolastico: nonostante le promesse di studiare con più impegno e seguire le lezioni, dopo una settimana ricascava sempre nel suo solito vizio, con sommo disappunto di maestra e genitori. Però, al contrario del suo miglior amico, Arthur non aveva nessuna difficoltà con lo studio, semplicemente non gli interessava davvero.
“Per quanto concerne dare gli esami e prendere la laurea ho intenzione di non dimostrarmi troppo capriccioso: in fondo qui i docenti non sembrano male”.
“Ci dobbiamo quindi aspettare qualche provvedimento disciplinare in grande stile?”
“Oh no – scosse il capo il moro con fare amabile – una delle mie ambizioni è fare sempre tutto quanto con la massima discrezione”.
“Non è molto furbo dire questo ad uno degli studenti più benvoluti dai docenti – sorrise sarcasticamente Heymans – non è un po’ mettersi in trappola da solo?”
“Ehi, se non ti va sei liberissimo di non frequentarmi”.
Heymans scosse il capo con soddisfazione: quel ragazzo lo attirava troppo per rinunciare così alla sua conoscenza. Nell’ambiente universitario gli mancava uno stimolo simile e doveva ammettere che, lontano da casa, ogni tanto desiderava un po’ di brio nella sua vita cittadina. Certo, lo studio e gli esami erano interessanti, ma proprio come gli faceva piacere uscire con Roy che, nonostante gli anni, era comunque rimasto una persona ardita, così non gli dispiaceva avere a che fare con un’altra persona che uscisse fuori dall’ordinario.
Vediamo se ne vali davvero la pena, Arthur Doyle.
 
Mentre Heymans faceva quella nuova e strana amicizia, Roy invece continuava nella sua vita d’Accademia, aspettando con ansia la fine di quel percorso di studi per poter finalmente fare un passo in avanti nella sua carriera militare.
Quel mondo gli piaceva, non c’era niente da fare: era il modo perfetto per colmare la sua ambizione e per soddisfare il suo egocentrismo. Non aveva avuto difficoltà a farsi riconoscere come leader già dai suoi compagni di camerata e con il suo fascino era entrato molto il fretta tra le grazie degli insegnanti. Alcuni di loro affermavano che il giovane Mustang aveva già le basi politiche per far carriera tra i ranghi nell’esercito. Mentre la maggior parte dei soldati si limita a seguire un normale iter fatto di promozioni quasi standardizzate nell’arco del tempo, lui invece aveva quella capacità d’iniziativa che l’avrebbe portato a scalare i ranghi con relativa facilità. 
E dunque circolava voce che qualche ufficiale avesse già messo gli occhi su di lui per portarlo nella propria squadra non appena avesse terminato l’Accademia.
In ogni caso quelle erano solo le classiche voci da corridoio a cui Roy dava retta solo per una piccola percentuale: aveva imparato subito che le notizie tendevano ad ampliarsi in maniera esponenziale man mano che passavano da persona a persona, e che un gatto diventava un leone nell’arco di poco tempo.
Sapeva bene di essere superiore alla media e che questo gli avrebbe potuto facilitare la carriera, ma non voleva fare passi falsi, non se lo poteva permettere ora che nemmeno era un soldato a tutti gli effetti.
“Ehi, Mustang! – lo chiamò un suo compagno, mentre camminava nel corridoio dell’Accademia per andare a riportare un libro alla biblioteca – sai che hanno proposto dei corsi supplementari?”
“Corsi supplementari? – si sorprese – ormai abbiamo finito gli esami: non c’è il tempo materiale per fare delle nuove lezioni. A meno che non vogliano fare dei corsi veramente ridotti per poterli finire entro la fine dell’anno”.
“Oh, sono ovviamente facoltativi – disse l’altro con aria cospiratoria – ho visto l’elenco poco fa in segreteria, quando sono andato a consegnare alcuni documenti. Le solite cose specialistiche: elettronica, meccanica e così via… sai, per quelli che faranno parte del genio militare”.
“No, non mi interessano – scrollò le spalle Roy – conosco una persona che sarebbe ben felice di fare un corso di elettronica, ma è un ragazzino di sedici anni e non ce lo vedo a diventare soldato”.
“Elettronica, chi se ne frega! – ridacchiò l’altro – ma ce n’è uno davvero notevole: hai mai pensato di guidare una moto?”
Il moro si fermò nel corridoio per fissare con interesse il suo compagno.
Le moto erano una delle grandi novità degli ultimi anni ed ormai l’esercito stava iniziando ad adottarle con regolarità accanto alle solite auto e ai furgoni. Certo, non erano ancora numerose come gli altri mezzi, ma era innegabile che avessero una loro praticità e soprattutto facevano una gran bella figura.
Roy era rimasto affascinato più volte nel vedere quei bolidi fare delle corse nelle strade militari riservate all’addestramento: quel rombo, quelle forme, quella potenza… non era il solo a ritenere che guidare una di quelle bellezze dovesse essere molto più appagante rispetto alle solite macchine che, ormai, non erano più questa grande novità.
La moto era giovane, era il futuro: era fatta apposta per lui.
“Corso per guidare la moto? – sorrise furbescamente – Questo non me lo voglio proprio perdere”.
“Andiamo a mettere una buona parola per noi in segreteria nel caso sia un corso a numero chiuso? – chiese l’altro, strizzando l’occhio – un patentino per un cavallo d’acciaio è tutto quello che chiedo dalla vita: pare che per i soldati ci siano riduzioni di prezzo per comprarne una”.
Una vera e propria musica per le orecchie di Roy Mustang.
 
“Motocicletta?” Heymans quasi sputò la sua acqua quella sera, durante la solita cena del giovedì, giorno in cui i cadetti dell’Accademia avevano l’uscita libera. A dire il vero quelli dell’ultimo anno potevano godere di questo privilegio ben due volte alla settimana, ma ormai era tradizione consolidata che la cena tra amici fosse di giovedì sera, nel solito ristorante che aveva suggerito loro il signor Fury anni prima, sin da quando Vato ed Elisa avevano inaugurato il loro percorso universitario.
Solito tavolo lasciato riservato per loro, i due amici si erano seduti ed avevano iniziato a discutere di quanto era accaduto loro in queste prime due settimane dal loro rientro in città. Certo era trapelato un iniziale imbarazzo nel constatare come la mancanza di Vato ed Elisa si facesse sentire, ma poi l’entusiasmo l’aveva fatta da padrone ed avevano preso a discorrere.
E l’argomento motocicletta prometteva di essere uno dei più interessanti.
“Mi sono già informato – annuì Roy con entusiasmo, perfettamente a suo agio con la divisa da cadetto – il corso dura fino a novembre e si ottiene un patentino speciale, ben diverso da quello per la macchina. Per chi ha un simile documento ci sono rivenditori che fanno un prezzo di favore: non è una cifra così proibitiva, ho controllato”.
“Aspetta, aspetta, fammi capire… tu vuoi comprarti una moto?”
“Esattamente”.
“Una moto tua personale, non una di quelle in dotazione dell’esercito?”
“Una di quelle mica la potrei portare in paese quando torno, no? Dovrei ottenere sconti anche sul trasporto merci in treno. Sarà…”
“… sarà una catastrofe non appena il capitano Falman saprà di questa tua decisione, credimi – sogghignò Heymans, riprendendosi finalmente dalla sorpresa – tu e una moto: non credo che ci possa essere incubo peggiore per lui”.
“Quell’uomo si dovrebbe dare una calmata: tra due settimane compio vent’anni e sono…”
“… sei il peggiore incubo che gli sia mai capitato, credi a me. Non pensare che per la tua età anagrafica in aumento lui diminuisca la guardia nei tuoi confronti. Anzi penso che appena saprà della moto la raddoppierà”.
“Certo, perché lui è ancora fermo ai cavalli e alle carrozze! Il progresso non sa nemmeno cosa sia”.
“Conflitto generazionale, l’ha detto proprio oggi un mio nuovo compagno di corso”.
“Nuovo?”
“Si è trasferito da Central quest’estate – alzò le spalle Heymans – per via del lavoro del padre. E’ un tipo particolare, secondo me prima o poi dovresti conoscerlo”.
“Una grande novità per te – ammise Roy, fissando l’amico con attenzione – è la prima volta che ti sento parlare in questo modo di qualcuno dei tuoi compagni di corso: iniziavo a pensare che non avessi stretto amicizia con nessuno in tutto questo tempo”.
“Credi pensassi esclusivamente solo a Jean?”
“Non ne sarei rimasto sorpreso”.
Heymans si mise a braccia conserte e si posò contro lo schienale della sedia, permettendosi di riflettere per un minuto buono davanti a quella dichiarazione che gli era stata fatta. Anche Roy aveva seguito la sua stessa linea di pensiero, segno che lo conosceva davvero bene e, soprattutto che quel ragionamento non era del tutto fuori dall’ordinario.
Certo, lui con la storia di Maes sa bene come funzionino queste dinamiche del miglior amico lontano. Cinque anni fa mi sembrava una cosa che non avrebbe mai riguardato me e Jean… però è diverso, completamente diverso.
L’aveva detto a Jean prima di partire: si trattava solo di quei pochi anni di studio e poi sarebbe tornato in paese. La città l’avrebbe rivista solo per alcuni periodi dell’anno, quindi non significava assolutamente una separazione così netta come invece era quella tra Roy ed il suo miglior amico.
“Proprio come tu dicesti che valeva la pena di stringere legame con me e gli altri, cinque anni prima, così ora lo dico io per il mio caso – disse cautamente alla fine, non volendo cadere in nessun trabocchetto – prima all’Università c’erano anche Vato ed Elisa e dunque era normale stare insieme: adesso che sono da solo è stato quasi scontato trovare qualche nuova conoscenza da approfondire, tutto qui”.
“Credi che quest’amicizia durerà solo per il tempo dei tuoi studi qui?”
“E chi lo può dire? E le tue all’Accademia?”
“Sono solo compagni – li liquidò lui con una scrollata di spalle – ci parlo, ci scherzo, faccio con loro le esercitazioni… se li ritroverò più avanti ne sarò felice, ma non sono amici. Per quelli ho già tutto: pochi ma buoni”.
“Stessa cosa per me. Per ora Arthur è solo una conoscenza che promette di essere maggiormente approfondita rispetto agli altri miei compagni di studi, tutto qui. Ma i miei veri legami sono in paese, non penso che ci sia nemmeno bisogno di dirlo”.
I due si guardarono di nuovo negli occhi, quasi si stessero soppesando a vicenda per capire quanto c’era di vero in quello che avevano detto. Sapevano di essere entrambi molto selettivi per quanto concerneva le frequentazioni e dunque ogni novità era da analizzare nelle singole sfaccettature. Il fatto che Heymans avesse tirato fuori dal cilindro questo fantomatico nuovo arrivo non era da prendere alla leggera… una cosa che qualsiasi ragazzo di città avrebbe considerato veramente stupida e priva di senso. Ma provenendo dal paese, da quella realtà chiusa e protetta, a loro sembrava di doversi muovere con i piedi di piombo nei sentieri delle conoscenze e delle amicizie, il tutto per non tradire chi non era lì in quel momento.
“Comunque – disse Roy alla fine – se ne varrà la pena dovrò conoscerlo”.
“Te lo saprò dire nelle prossime settimane – annuì il rosso – torniamo alla motocicletta, ora: non mi dire che hai intenzione di comprarla a breve…”
“Mi conosci troppo bene!” sghignazzò il moro, riprendendo a mangiare come se niente fosse.
Entrambi si lasciarono andare in quella discussione: il problema delle nuove amicizie era stato analizzato e superato. Entrambi sapevano che non era il caso di lasciarsi scappare l’occasione di una conoscenza interessante se ne valeva la pena.
 
Qualche giorno dopo Heymans passeggiava per i corridoi dell’Università assieme ad Arthur, aspettando che iniziasse la lezione successiva. Con curiosità scrutò il suo amico e notò che quella mattina non era del solito umore affabile, tutt’altro: era palese che qualcosa lo turbava.
“Qualcosa non va?” si decise a chiedere dopo qualche minuto.
“Notizie non proprio gradite, tutto qui – rispose laconicamente l’altro – le saprai pure tu nell’arco di qualche giorno, non ti preoccupare”.
“Wow, sembra qualcosa di…”
“Ah, Arthur, eccoti qua”.
Heymans fece in tempo a vedere il viso del moro farsi ancora più serio, prima di girarsi e di vedere uno dei loro responsabili di corso avanzare con accanto un perfetto sconosciuto. Tuttavia non ci voleva molto per capire che era imparentato con il giovane Doyle: stessa corporatura alta e snella, stesso viso affilato.
“Signore…” salutò Arthur con educazione.
“Giudice Doyle, questo giovanotto è Heymans Breda, uno dei più promettenti studenti del nostro corso – presentò nel frattempo il docente – tutti noi abbiamo grandi aspettative su di lui”.
“E’ un piacere conoscerla, signore”.
“Piacere mio, ragazzo – lo salutò sbrigativamente il giudice, gratificandolo tuttavia di un’occhiata penetrante. Poi rivolse l’attenzione al figlio – ero giusto passato a salutare alcuni vecchi amici”.
“O ad informarti di come andavo? – chiese Arthur, sfoggiando un sorriso amabile e allo stesso tempo strafottente – Sei preoccupato che combini qualche guaio?”
Pessima idea venire qui, giudice – pensò Heymans, capendo che il rapporto padre-figlio non doveva essere dei migliori, tutt’altro – non fai altro che indisporlo ulteriormente nei tuoi confronti.
Quell’uomo sulla cinquantina, ben vestito e dall’atteggiamento altero, era chiaramente una personalità ligia fin troppo al dovere: in qualche modo gli ricordava il capitano Falman. Ma mentre il padre di Vato molto spesso si dimostrava capace di dialogare, a prima vista sembrava che il giudice Doyle fosse molto intransigente nei confronti del figlio, ai limiti dell’ossessione.
Decisamente un figlio come Arthur non era quello che si aspettava: non è compassato e docile, tutt’altro.
“Vostro figlio si sta distinguendo negli studi, giudice – rassicurò il docente con aria un po’ imbarazzata – le assicuro che il suo inserimento nel corso non ha avuto nessun problema, al contrario. Heymans, vi trovate bene assieme a lui?”
“Certamente, signore – garantì il rosso – va tutto bene”.
… per adesso…
“Mi fa piacere – annuì l’uomo, sebbene fosse chiaro che non era del tutto convinto – ci vediamo a casa, Junior”.
“Agli ordini, signore…” salutò sarcasticamente Arthur, prendendo per il braccio Heymans ed incitandolo a proseguire.
Solo quando ebbero girato l’angolo quella stretta convulsa finì ed il giovane Doyle parve recuperare un poco di tranquillità, come se il non contatto visivo con il genitore fosse già una boccata d’aria.
“Rapporto pessimo, eh?” commentò Heymans con schiettezza.
“Uno che ti viene a mettere sotto torchio anche all’Università come lo definiresti?”
“Padre apprensivo, forse troppo”.
“Oppressivo, correggi il termine, amico. Sai qual è la fregatura di essere l'unico figlio maschio? Che tutte le sue aspettative sono su di te, a prescindere da quale sia il tuo parere e le tue aspirazioni. Mi controlla da quando ero piccolo, senza darmi tregua”.
“Mi sembrate due persone completamente diverse: se non fosse per la somiglianza fisica non direi mai che siete padre e figlio. Sei una bella rogna per lui, ma non me la sento nemmeno di rimproverarti”.
“Problemi col tuo vecchio?”
“Più gravi dei tuoi, fidati”.
“Non ne vuoi parlare e non ti chiederò altro – annuì Arthur con sensibilità – comunque, volevi le brutte notizie? Eccole… mio padre, a quanto pare, terrà un corso di diritto qui all’Università per questo semestre: un suo amico docente si è preso una pausa per motivi di salute e lui lo sostituisce”.
“Accidenti, tuo padre dev’essere davvero una bella testa per poter sostituire un nostro docente”.
“Prossimo semestre, esame di diritto penale…”
“… bello tosto…”
“… se vai a controllare i testi maggiormente usati per quella materia, vedrai che uno dei più gettonati ha come autore Arthur Doyle”.
“Una vera bomba tuo padre – adesso Heymans non poteva che far trasparire una certa ammirazione per quell’uomo. Per quanto non avesse un buon rapporto col figlio, sicuramente doveva essere un giudice più che valido e un grande conoscitore della materia – non immaginavo fosse così importante”.
“Ora passi dalla sua parte?” gli occhi chiari di Arthur lo squadrarono con diffidenza.
“Ma no, non volevo dire questo – scosse il capo il rosso – riconoscere le doti di una persona non significa per questo sminuirne un’altra”.
“A casa mia non funziona proprio così. Senti, ho proprio voglia di una boccata d’aria: ti va di fare una passeggiata in cortile prima dell’inizio della lezione?”
Heymans annuì con perplessità e seguì il suo amico.
Destino beffardo, eh? Devo sempre incontrare qualcuno che ha delle problematiche col proprio padre.

 
 
 




___________________
Eccoci qua con il nuovo capitolo e con l'introduzione di un nuovo personaggio.
Ovviamente tutti voi avete capito che il nome è ampiamente ispirato all'autore di Sherlock Holmes Arthur Conan Doyle e un motivo c'è, ma si scoprirà più avanti. Ammetto che mentre progettavo la storia non era previsto, è saltato fuori assieme a questo capitolo ma gli ho dato un ruolo non indifferente per una determinata vicenda. Ed inoltre mi piace l'idea di far incontrare ad Heymans qualcuno che vive una situazione conflittuale con il proprio padre, giusto per portarlo ad analizzare quella che è stata la sua vicenda anni prima.
Nel frattempo patpattiamo tutti virtualmente il povero Vincent che presto avrà a che fare con un Roy motorizzato... bontà divina!

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5. Il lavoro nobilita ***


 

Capitolo 5. Il lavoro nobilita

 


 
“Una motocicletta? Ma è diventato completamente pazzo?
Vincent Falman rimase completamente rigido davanti al tavolo, mentre le sue mani si stringevano in maniera convulsa sui fogli della lettera di Roy, tanto da stropicciarne leggermente i bordi. Una vena prese a pulsare pericolosamente sulla sua tempia sinistra e le labbra si strinsero fino a diventare una sottile linea sul viso impallidito.
“Suvvia, papà, calmati – si intromise Vato, mettendogli una mano sulla spalla – non mi pare il caso di avere una simile reazione”.
“Il tuo amico ha appena deciso di spendere una cifra sconsiderata in una diavoleria meccanica che nelle sue mani è praticamente letale e io dovrei calmarmi? – il capitano si scosse da quel torpore e squadrò il figlio con aria torva – Ti rendi conto che questa è una dichiarazione di guerra? Scrive spudoratamente che porterà quella cosa qui in paese!”
“Forse sa già che non la potrà tenere in caserma e qui è l’unico posto possibile”.
“Motocicletta…” Rosie alzò gli occhi al soffitto con aria pensosa.
“E’ come una bici parecchio grossa, ma con un motore, mamma – le spiegò il figlio – sono in circolazione da poco tempo, ma stanno avendo grande successo in città”.
“Beh, non ci vedo niente di male se…”
“Io ci vedo molto di male dato che se la sta comprando quel genio del male che nemmeno due anni fa ha avuto la brillante idea di rubare il carro degli Havoc per fare una scampagnata in piena notte! Dannazione a lui! Quando inizio a pensare che ha messo un minimo di giudizio, ecco che ne esce fuori con una trovata delle sue!”
“Suvvia, caro – protestò Rosie – cerca di avere un minimo di fiducia. Sono certa che la userà con responsabilità”.
“L’unica responsabilità sarà quella penale quando farà fuori qualcuno. Perché tanto so bene – e lanciò uno sguardo furente al figlio – che diverse persone di questo paese si faranno coinvolgere nelle sue folli idee. E solo il cielo sa con quali conseguenze”.
“Non capisco il perché di questo sguardo nei miei confronti – arrossì vistosamente Vato – comunque è ora che vada a lavoro. Ci vediamo a pranzo”.
“Buona mattinata, tesoro” salutò Rosie con un sorriso, mentre abbracciava il marito con tenerezza e si metteva in punta di piedi per dargli un bacio sul mento.
Vincent osservò per qualche secondo la porta chiusa e poi si concesse un sospiro un po’ stranito. Abbassò quindi lo sguardo su sua moglie che ancora lo abbracciava, fissandolo con i suoi grandi occhi scuri: c’era qualche piccola ruga attorno ad essi, ma questo non levava niente alla loro bellezza ed espressività.
“Andiamo, capitano – lo prese lievemente in giro lei – non sarà una motocicletta a farti perdere la tua infinita battaglia con il nostro Roy”.
“Facile parlare sapendo che il fegato amaro me lo farò soltanto io. Per te può anche tornare a casa e dire che è diventato capo di una banda di ladri che ne saresti fiera. Sei troppo indulgente con quel ragazzo, te l’ho sempre detto”.
“Tu sei il bastone ed io la carota – sorrise con aria furba Rosie, arricciando lievemente il naso – E comunque sì, sono fierissima di lui, così come di Vato”.
“Già, Vato… secondo te ha fatto la scelta giusta nel chiedere così presto la mano di Elisa?”
Fu una domanda che gli uscì involontariamente e subito se ne pentì. Ma era anche vero che quel quesito lo rodeva da quasi tre settimane, ossia da quando lui ed Elisa avevano fatto il loro grande annuncio di volersi sposare l’anno successivo. Non che Vincent avesse qualche dubbio nei confronti della sua futura nuora: la considerava la ragazza perfetta per Vato e provava un grande affetto nei suoi confronti.
“Che cosa ti preoccupa? – gli chiese Rosie – I ragazzi paiono avere le idee molto chiare e del resto hanno già iniziato entrambi a lavorare”.
“Proprio questo mi lascia un po’ perplesso – ammise il capitano, passandosi una mano tra i capelli scuri dove ormai il grigio era evidente in più punti – hanno appena iniziato a lavorare: non hanno ancora una grossa stabilità economica”.
“Se vogliono mettere su casa tra noi e la famiglia di Elisa possiamo dare una mano, ne sono certa”.
“Non è questo – continuò Vincent, cercando di dare voce ai suoi pensieri – Rosie… è che… quando ci siamo sposati noi ecco… ero io ad avere il lavoro più importante. Oh, immaginavo che avresti fatto un’espressione simile: non era un’offesa, sai bene che non lo farei mai!”
“Però eri profondamente offeso quando Max ha scelto di lasciare la polizia per lavorare alla pasticceria, vero? – Rosie si staccò da lui e si mise a braccia conserte. Il suo passato nella pasticceria di famiglia era uno dei suoi ricordi più cari e di certo quella strana e lieve critica l’aveva colpita nel profondo – Senti un po’, capitano Vincent Falman, ti ricordo che ho lasciato il mio lavoro solo perché ho preferito dedicarmi a mio figlio, altrimenti…”
“Altrimenti saresti rimasta una delle migliori pasticciere di New Optain, nessuno lo mette in dubbio. Avresti continuato a lavorare nell’azienda della tua famiglia… un lavoro che non fa strano veder fatto da una donna”.
“Da quando sei così maschilista?” Rosie lo squadrò con aria incredula
Dannazione – pensò Vincent, cercando di soppesare meglio le prossime parole – lo sapevo che avrei dovuto tenere tutti questi dubbi per me.
“Non è maschilismo, sono fiero di quello che è diventata Elisa e sono fiero di quello che eri e che sei – cercò di spiegare, iniziando a passeggiare nervosamente per il salotto – ma nostro figlio è diventato una specie di studioso…”
“Filologo e storiografo…”
“… quello che è. Ma ti sfido ad andare in qualsiasi negozio del paese a chiedere se danno più importanza al lavoro di medico o a quello del filologo. Probabilmente la maggior parte di loro non sa nemmeno di che cosa stai parlando”.
“Nostro figlio ha realizzato le sue ambizioni – lo bloccò Rosie, mettendosi in mezzo al salotto e posandogli una mano sul petto – in quanto genitori non potevamo chiedere altro. E’ felice, si vuole sposare con la donna che ama… questa questione del lavoro più importante è solo una paranoia. E se proprio parli di mestieri sconosciuti, ricorda che lui lavora anche nella libreria della famiglia di lei”.
“Piccolo fiore, non ce l’ho con nostro figlio – sospirò Vincent, prendendole una ciocca di capelli e arrotolandola tra le dita – so bene quanto sia stato sempre unico con la sua memoria ed i suoi libri. E’ che… non è quello che il paese si aspetta da una coppia che si sposa. Non importerà a me e a te, ma ad altri sì”.
“E allora? Non sono persone…”
“Sono le stesse persone che hanno creato tanti problemi a Laura e ai suoi figli. E’ una vigliaccata, è una cosa idiota e retrograda, lo so bene… ma quelle persone sono qui, abitano qui, sono una percentuale del paese considerevole se ben ci pensi. Vato ed Elisa finiranno inevitabilmente nelle loro malelingue: non è il modello di famiglia a cui sono abituati”.
Rosie lo guardò per qualche istante e poi serrò le labbra con una rabbia che non era da lei.
“Già, meglio che lo sappia da me prima che lo scopri da sola – annuì Vincent – ci sono già pettegolezzi non proprio felici su di loro. Sia per il fatto che un medico donna non si è mai visto qui e sia per… la questione del lavoro di entrambi”.
“Posso sapere nome e cognome di queste persone?”
“Nessuno che abbia incontrato in flagranza di reato… non fare quella faccia, era una battuta. Senti, la cosa peggiore che possiamo fare è partire ad un attacco contro ignoti”.
“Qui si critica mio figlio, se permetti”.
“E credo che sarebbe la cosa peggiore intervenire, almeno in questo primo stadio. Vato ed Elisa non ne sono ancora consapevoli, ma prima o poi se ne renderanno conto… per quanto come padre vorrei intervenire, sono del parere che se la dovranno gestire loro”.
“Ah sì?”
“Rischiamo di condizionarli troppo… avrei voluto che attendessero, maledizione. Che il paese si abituasse a quello che sono, ma non ci posso fare molto, non senza far fare la figura del bambino a nostro figlio”.
Rosie sospirò e si sedette sul divano, giocherellando distrattamente con la sua fede nuziale: sembrava quasi di vedere le rotelle del suo cervello muoversi per cercare le possibili soluzioni al grosso problema che si era presentato. All’improvviso Vincent fu certo che in qualche modo pure lei avesse preventivato una cosa simile, ma per chissà quale motivo aveva preferito non pensarci, sperando che fossero solo suoi timori.
“Come credi che reagirà Vato quando verrà a sapere di queste voci?” chiese infine.
Era una strana domanda ed i due coniugi Falman non sapevano trovare risposta: era una sfaccettatura di loro figlio che non riuscivano ad immaginare. Vato era sempre stato molto riservato nel suo rapporto con Elisa e raramente avevano sfiorato qualcosa che andasse oltre qualche occasionale litigio od incomprensione. Tuttavia questa novità in qualche modo poteva rovesciare l’equilibrio che sembrava così perfetto.
“Penso che…” iniziò Vincent, ma poi scosse il capo con aria perplessa.
“… beh, quello che abbiamo insegnato a nostro figlio è che il lavoro nobilita, a prescindere da quale sia – disse la donna con decisione – e adesso vado a preparare un dolce per pranzo. Buona giornata, tesoro”.
Il capitano accennò appena al saluto, limitandosi ad osservare la moglie che, a grandi passi, spariva in cucina.
Quasi quasi è meglio la moto di Roy.
 
Proprio in quel momento Vato svolgeva una piccola commissione di cui era ben felice.
Come era arrivato in libreria, il signor Meril gli aveva detto che erano appena arrivati alcuni volumi che il dottor Lewis aveva ordinato la settimana prima e gli aveva chiesto se poteva consegnarli. Davanti alla possibilità di andare a trovare Elisa sul suo posto di lavoro, il giovane non si era assolutamente tirato indietro: a dire il vero era estremamente curioso di vedere la sua fidanzata in veste professionale.
Arrivato all’abitazione del medico, girò di lato per andare all’ingresso del piccolo ambulatorio annesso al corpo principale della casa.
“Permesso?” chiamò, entrando dalla porta che veniva sempre lasciata aperta in orario visite. E gli fece uno strano effetto stare in quel piccolo corridoio che annetteva all’ambulatorio vero e proprio: raramente c’era stato e l’ultima volta era stato quando Kain si era ferito in maniera grave anni prima.
“Ehi, mi sembrava di aver riconosciuto la voce – salutò Elisa, affacciandosi dalla porta – che ci fai qui?”
“Sono venuto a portare i libri che il dottore aveva ordinato” spiegò, mostrando il pacchetto.
“Ottimo, entra pure, tanto non c’è nessuno – gli fece cenno lei – a dire il vero mi stavo limitando a riordinare i medicinali”.
“E il dottor Lewis?”
“Lui e sua moglie sono andati ad assistere ad un parto un po’ difficile: una delle famiglie che abitano nelle campagne oltre il fiume”.
“Oh capisco – annuì Vato, posando il pacco sul tavolo dove erano sparsi scatoline, flaconi e quanto altro – sei rimasta nel caso qualcuno venga qui?”
La ragazza fece una faccia un poco stranita e poi scosse il capo con noncuranza, lasciando affiorare un sorriso. Vato rifletté ancora una volta su quanto fosse bella con quella pettinatura un po’ meno sbarazzina rispetto ai capelli perennemente sciolti: non poteva che ammirare quanto fosse più maturo l’atteggiamento della sua fidanzata.
“Mi sarebbe piaciuto andare – ammise infine lei, prendendo un flaconcino e scuotendolo leggermente per osservare la densità del liquido – però… sai, è un parto difficile e la paziente ha bisogno di sentirsi a suo agio per non peggiorare troppo le cose. A me non conosce bene e quindi sarei potuta essere d’intralcio più che altro”.
“Te l’ha detto il dottor Lewis?”
“Sì, me l’ha detto lui ed in questo caso ha ragione. Non mi potrei mai perdonare di aver causato complicazioni solo per un mio stupido capriccio”.
Vato rimase in silenzio, non sapendo cosa rispondere. Quando si vedevano Elisa gli diceva sempre che tutto andava bene e che con il dottor Lewis imparava sempre qualcosa di nuovo; tuttavia, a ben pensarci, c’era sempre una nota di malinconia in quelle spiegazioni e pochissime volte si era parlato di qualche paziente.
“Scusate – fece una voce e subito una signora di mezz’età si affacciò alla porta – il dottor Lewis non c’è?”
“E’ andato ad assistere ad un parto – spiegò Elisa con un sorriso volenteroso, facendosi avanti – se vuole può chiedere a me, signora”.
“Che – la donna si guardò attorno con aria imbarazzata e preoccupata, per poi fissare a turno Vato ed Elisa – oh no, cara, niente di importante, solo i soliti fastidi della mia età. Niente che non mi impedisca di tornare domani…”
“Se le serve qualche farmaco posso…”
“Ma figurati! Ero più venuta per una chiacchierata col dottore che per vera necessità! Beh, allora buona giornata ad entrambi…”
Fu una vera e propria fuga, inutile negarlo. Vato rimase a fissare perplesso la soglia vuota per poi passarsi una mano tra i capelli bicolore.
“Forse sono stato io a creare imbarazzo” ipotizzò.
“Tu? – Elisa scosse il capo con rassegnata amarezza – no, ti assicuro che scene simili in queste tre settimane ne ho viste parecchie”.
“Non me ne avevi parlato…” il giovane si girò a guardarla con sorpresa.
“E’ solo una fase – lo tranquillizzò lei con un gesto noncurante – è più che normale che ci sia un po’ di diffidenza nei miei confronti. Però qualche volta sono stata presente alle visite fatte dal dottor Lewis, non fare così… forza, non dovresti tornare al negozio? Se non sbaglio oggi è giorno di rendicontazione”.
“Già… senti, vuoi che resti…?”
“Perché?”
“Non so… a farti compagnia?”
“Ehi, ho del lavoro da fare e anche tu – Elisa si mise le mani sui fianchi – credi che quelle medicine si mettano a posto da sole? E’ un lavoro di grande responsabilità anche se non sembra. Ci vediamo dopo cena? Potresti passare a casa per il dolce ed il caffè”.
“Va bene, allora a dopo” Vato capì di esser stato congedato, ma ancora di più capì che la sua fidanzata non voleva essere vista in momenti così imbarazzanti.  Uscendo, tuttavia, non poté fare a meno di provare un briciolo di amarezza per quella lieve omissione di fatti che gli era stata fatta: insomma, in quanto fidanzati sarebbe stato più che giusto sostenersi in momenti di difficoltà.
Oh dai, forse è in imbarazzo pure lei per questo inizio un po’ difficile e…
“Parola mia, mi è sceso un infarto all’idea che mi visitasse lei”.
“Ah, quindi il dottore non c’è?”
“No, ha detto che è ad assistere ad una partoriente”.
“Allora passerò domani pure io”.
“C’era il suo fidanzato in quel momento, sapete, il figlio del capitano Falman”.
“Ah sì? Ma è vero che lavora nella libreria della famiglia di lei?”
“Pare di sì, ormai è sempre lì… certo che c’è una bella differenza, eh? A stare dietro il bancone ce la può fare persino un ragazzino, ma non era andato all’università?”
“Santo cielo, vorrò proprio sapere con che coraggio porterà lei a casa il pane quando si sposeranno!”
“Tempi che cambiano, signore mie. Che ci vogliamo fare?”
“Sarà, ma se mio figlio facesse una cosa simile…”
“Chi? Andrea? Oh, figurati, cara! Quello ha già in mano la fattoria si vede”.
Vato dovette fare uno sforzo per proseguire e non fermarsi in mezzo alla strada come un ebete.
Avrebbe voluto andare da quel gruppetto di signore e dire che lui era laureato in materie umanistiche e che stava collaborando con un suo docente su uno studio riguardante alcuni vecchi manoscritti e soprattutto che sarebbe stato pagato per quel lavoro.
… sebbene una cifra irrisoria rispetto ad uno stipendio vero e proprio.
Quella piccola ammissione fu fastidiosa come una spina che penetrava nella pelle e, proprio come spesso succede in simili casi, era difficile riuscire a tirarla fuori. Effettivamente se il nonno di Elisa non gli avesse proposto di lavorare nella libreria le cose sarebbero state molto più difficili e di certo non si sarebbe potuto permettere di fare quella proposta di matrimonio.
Le vecchie ambizioni dell’infanzia si fecero sentire con malizia, quando tutto quello che voleva era assomigliare a suo padre e dunque diventare un poliziotto. Quello sì che era un mestiere e…
Scemo che vai a pensare? – si riscosse – Anche il tuo è un mestiere dove metti fatica e passione. E’ solo diverso, si inizia a piccoli passi…
“Del resto il ragazzo è sempre stato originale con quei capelli bicolore… ma alla fine si era capito perché li ha così?”
“Non è albinismo!” sibilò lui prima di girare l’angolo e portare l’udito fuori dalla portata di quelle stupide chiacchiere.
 
Mentre Vato scopriva che lui e la sua fidanzata stavano facendo più scalpore del previsto in paese, all’emporio degli Havoc si consumava una scena ben nota, almeno per i diretti interessati.
“Mi fa male la schiena! – protestò Rebecca – Jean! Sto premendo contro qualcosa!”
Forse avrebbe aggiunto anche altro, ma la bocca le venne tappata da un bacio focoso del ragazzo. Questo bastò per far dimenticare quel fastidio secondario e lasciarsi andare del tutto all’ebbrezza dell’amore. Ansimò con sorpresa quando le mani di lui alzarono la camicetta per andare a stringerle i seni. Sentendo il desiderio crescere lo strinse con forza a sé, sbattendo con decisione il proprio bacino contro il suo, in un chiaro invito.
“Se arrivano i miei sono cazzi…” mormorò lui con una strana foga, quasi invogliato a continuare per questo fattore di rischio che rendeva tutto più elettrizzante. La fece girare, schiacciandola quasi contro la parete con tutto il suo peso.
“E allora fai in fretta – ansimò Rebecca, chiudendo gli occhi nel sentirlo alzarle la gonna e calarle l’intimo appena alle ginocchia – se non lo facciamo impazzisco!”
Fu questione di pochi secondi e stavano tutti due gemendo di piacere in quella sveltina nell’angolo del magazzino dell’emporio. Qualcosa cadde a terra, urtata dai loro movimenti, forse un barattolo, ma non ci fecero assolutamente caso. Sentendo che per quelle spinte il punto più alto del piacere stava per arrivare, lei iniziò ad emettere dei piccoli gridolini, ma la mano del fidanzato si mise prontamente a coprirle la bocca.
“Piano, scema!” le raccomandò prima di affondare la sua bocca sulla sua spalla, mordendola con forza.
Fortunatamente nessuno venne a disturbare il loro amoreggiare che, dopo qualche minuto, li lasciò esausti e ansimanti in mezzo a quegli scaffali.
“Staserà avrò un bel livido – sospirò lei, massaggiandosi lievemente la spalla e cercando di darsi una sistemata ai capelli – ci devi andare piano…”
“Sei venuta poco dopo che ti ho morso, non essere ipocrita – sghignazzò Jean – ti piace, non negarlo”.
“Quello che mi piacerebbe adesso è un bel bagno”.
“Anche a me, ma sarebbe troppo sospetto, non credi? Figurati se quella ficcanaso di Janet non farebbe cento domande. Comunque è una posizione interessante questa contro il muro, non trovi?”
“Dov’è finito il romanticismo delle nostre prime volte?” sospirò con malinconia la ragazza, senza però rimpiangere la goffaggine che aveva accompagnato quelle prime esperienze. Preferiva di gran lunga quella versione molto più matura del suo amante.
“Comunque potevi anche evitare quest’idiozia del lavoro all’emporio – scrollò le spalle Jean – se proprio volevi farlo più volte bastava che venissi qui e…”
“Ehi, io lavoro seriamente, che cosa credi!”
“Ehm…” il giovane Havoc si passò significativamente una mano tra i folti capelli biondi. Certo non era un’affermazione molto credibile dopo che il lavoro era stato bellamente accantonato per cose molto meno professionali.
“Ti sfido a dire che in queste tre settimane non ho dato l’anima per imparare tutto quanto”.
“Non sto mettendo in dubbio le tue capacità”.
“A me pare di sì! – replicò lei con uno sbuffo stizzito, sistemandosi meglio la camicetta dentro la gonna – e comunque cerca di evitare di stropicciarmi così i vestiti”.
“Mamma mia, quanto sei brava a distruggere il piacere del dopo…”
“Ehilà, c’è nessuno? Reby?”
“Merda! – sibilò la mora – E’ la voce di mia sorella!”
“Polly?”
“Reggimi il gioco, ti prego!”
“Quale gioco?” chiese perplesso Jean, seguendola fuori dal magazzino.
“Ehilà, sorellona – sorrise amabilmente Rebecca, andando incontro alla ragazza mora che l’attendeva dietro il bancone – come mai qui?”
“Sono venuta a fare un po’ di spesa. Sai com’è fatta mamma: si accorge che le mancano cose all’ultimo secondo”.
“Nessun problema – annuì Rebecca, prendendo il foglietto che le veniva dato – Jean, puoi pensarci tu, per favore. Non ho la minima idea di dove sia tutta questa roba”.
“Sicuro, ci penso io – fece il biondo, lanciando un’occhiata interrogativa alla fidanzata. Sbirciando la lista si accorse che quanto aveva detto era una bugia bella e buona: sapeva benissimo dove stavano tutte quelle merci – ehm, allora va tutto bene, Polly?”
“Benone – annuì la giovane. Aveva vent’anni e un bel viso rubicondo, parecchio diverso da quello più affilato di Rebecca; tuttavia i capelli mossi e scuri erano gli stessi, così come il colore degli occhi – a casa le faccende da fare non mancano mai. Piuttosto come sta tua madre? Spero che si stia riprendendo”.
“Riprendendo?”
“Mh, la signora è ancora un po’ sofferente – si intromise Rebecca – quella brutta influenza ha avuto complicazioni e l’ha proprio stesa. Ma adesso ha iniziato a riprendersi… sai, un poco alla volta”.
“Poveretta, immagino. Mi auguro che tu stia aiutando bene in casa”.
“La mia cucina è rinomata e anche nelle pulizie mi do da fare. Sai, Janet la mattina è a scuola e gli uomini… si sa, con le faccende domestiche non vanno molto d’accordo. Jean e suo padre lavorano sempre e solo all’emporio, alla casa ci penso io!”
Jean rimase allibito a guardare la propria ragazza sciorinare una perfetta storiella per la quale sua madre stava male e lei si era offerta di aiutare in casa di sua spontanea volontà. Dalle risposte della sorella sembrava che la loro madre non era del tutto convinta di quella scelta, ma Rebecca si era imposta in maniera tale da ottenere il consenso.
Merda! Merda! – pensò, mentre si costringeva a fare uno smagliante sorriso mentre consegnava la busta con tutta la spesa – Qui ci sono guai grossi in vista.
Salutò Polly come il migliore dei gestori di emporio e rimase in piedi, accanto alla fidanzata, fissando la porta aperta e aspettando che fosse lei ad iniziare il dialogo. Tuttavia, dopo un minuto buono di silenzio si girò a guardarla e notò come la sua espressione fosse di profonda irritazione, come se la visita della sorella avesse scombinato i suoi piani.
“Fammi capire, a casa tua non sanno che lavori qui?”
“Sono maggiorenne e faccio quello che mi pare e piace” rispose laconicamente lei, rifiutandosi però di guardarlo negli occhi.
“E per quanto tempo avevi intenzione di prolungare la malattia di mia madre”.
“In qualche modo mi sarei arrangiata, non fare lo stupido! – gli occhi scuri lo gratificarono di un’occhiata ironica – di certo non l’avrei lasciata a letto per sempre. Pensavo di dire qualcosa tipo… dato che ho aiutato tanto mi hanno proposto di continuare e così via…”
“Credi che avrebbe funzionato?”
“No, è diverso: credo che funzionerà. La copertura mica è saltata”.
“Cioè me ne dovrei stare zitto?”
“Vuoi che finisca nei guai?”
“Stronza – sibilò Jean, girandosi con disgusto davanti a quell’occhiata che lo metteva davanti alle sue responsabilità di fidanzato – così nei guai ci finiamo entrambi. Prima o poi salterà fuori, me lo sento”.
“Oh senti, non potevi certo pretendere che me ne stessi con le mani in mano a casa mia come fa Polly in attesa che qualcuno se la sposi! – Rebecca si mise a braccia conserte – Io ce l’ho il fidanzato e trovo che lavorare qui sia più che giusto. Senza contare che finalmente non ho più mia madre tra le scatole”.
“Tua madre mi odia, lo sai”.
“Siamo entrambi maggiorenni: quello che facciamo non la riguarda”.
“Se sapesse quello che veramente facciamo sarebbe la fine per noi. Ti caccerebbe via di casa”.
“Benissimo, allora verrei a stare qui”.
Cosa?”
“Le cose che veramente facciamo le facciamo appunto in due: la colpa è anche tua, eh”.
“Reby, perché tutto questo discorso suona come un ricatto per farmi tenere la bocca chiusa?”
“Perché tu mi ami e non vuoi che io finisca nei guai – sorrise maliziosamente lei, tornando dietro il bancone e rimettendo in ordine alcuni fogli – Fidati, è tutto sotto controllo: entro la prossima settimana introduco il discorso a casa e vedrai che non ci saranno troppi problemi ad ufficializzare il fatto che qui lavoro e non aiuto. Penso che mia sorella mi darà il suo appoggio”.
“Tuo padre?”
“Ancora non lo so… l’ostacolo vero e mia madre, ma come ti ho detto mi tange ben poco la cosa. Preferirei che tutto finisse in cordialità, ma in casi estremi ci giochiamo la carta matrimonio”.
“Matrimonio? – Jean scosse il capo con aria preoccupata – Tu sei tutta scema, bella mia. Io non ti sposo!”
“Siamo fidanzati, scemo! Credi che questo status debba durare per sempre?”
“Sì… cioè no! Ma durerà ancora per anni ed anni, parola mia!”
“Senti ciccio, non è che puoi usufruire di me e del mio corpo a tempo indeterminato! Prendi esempio da Vato! Lui sì che ci sa fare con le donne!”
“Vato Falman? – Jean si sentì offeso per quel paragone – Sarà anche nostro amico, ma è una cosa completamente diversa, ma ti pare che io e lui ci possiamo mettere a confronto? Io ed il ragazzo di pensiero del gruppo… ma ti prego! Se poi è stato così scemo da farsi incastrare subito problemi suoi. Senza contare che sia lui che Elisa hanno ventuno anni, io ne devo compiere ancora diciannove e tu sei maggiorenne da pochi mesi”.
“Ci siamo messi assieme a pochi mesi di distanza, te lo devo ricordare?”
“E’ completamente diverso! – sbottò Jean – E comunque dimenticati di questa folle idea di anelli e matrimonio per i prossimi anni a venire, Reby. Non ne ho alcuna intenzione e…”
“Che sta succedendo?” chiese Angela, entrando dalla porta che annetteva l’emporio alla casa.
“Niente di particolare” rispose subito Rebecca.
“Dalla finestra ho visto una persona andare via”.
“Era mia sorella, è passata a fare un po’ di spesa”.
“Ah, peccato! Avrei voluto salutarla: le poche volte che ci siamo viste mi è sembrata molto simpatica”.
Non sei finita nei guai per il rotto della cuffia – pensò malignamente Jean, lanciando un’occhiata ironica alla fidanzata – sei completamente fuori di testa.
“Ci sarà occasione”.
“Piuttosto a casa tutto bene? – chiese ancora la donna, sistemando meglio alcuni barattoli sugli scaffali – Non mi hai ancora detto se con i tuoi c’è stato qualche problema per la tua scelta di lavorare qui. Mi ricordo di tua madre e non è che ha un carattere facile”.
“Va tutto a gonfie vele! – rassicurò prontamente Rebecca, dando una lieve gomitata a Jean per sfidarlo a dire qualcosa – Insomma, mamma ha storto un po’ il naso all’inizio, ma poi ha accettato la cosa. Del resto siamo ormai nel nuovo secolo, le donne sono più indipendenti…”
Ma sentila l’attrice – alzò gli occhi al soffitto Jean.
“Non fare quella faccia tu – lo rimproverò Angela – la tua fidanzata ha perfettamente ragione. Il lavoro nobilita, a prescindere che una persona sia maschio o femmina. Bene, io vado a vedere se James ha terminato di aggiustare quell’imposta che stava dando problemi: fate i bravi e non litigate”.
“Il nuovo secolo – sbottò il ragazzo, come rimasero soli – come no!”
“Tu non dirai niente” dichiarò Rebecca con semplicità.
“Dammi un solo motivo…”
“… il pacchetto di sigarette che ho trovato in camera tua l’altro giorno. Ancora non hai detto ai tuoi che da quest’estate hai iniziato a fumare, vero?” gli occhi scuri di lei lo fissarono con estrema malizia, consapevoli di averlo preso in trappola.
“Stronza!” sibilò
“Ti amo anche io, tesoro! Forza, andiamo: abbiamo un lavoro da finire in magazzino”.






______________________
Ecco il nuovo capitolo.
Siccome giovedì parto e sto via per una settimana il prossimo aggiornamento sarà un po' posticipato rispetto alle solite tempistiche.
Ps: per chi non se lo ricordasse, Max è il cognato di Rosie... ex componente della prima squadra di Vincent, quando ancora stavano a New Optain

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6. Ritratto di famiglia ***


 

Capitolo 6. Ritratto di famiglia

 


 
Qualche mattina dopo due vecchi amici stavano commentando gli avvenimenti delle ultime settimane, in particolare quelli riguardanti i due giovani che attualmente si trovavano in città.
“Kain è entusiasta della moto che Roy ha intenzione di comprare – spiegò Andrew – anche perché, a quanto pare, gli verrà regalata la bicicletta. Uno strano passaggio di consegne”.
“Ed Ellie è già con i capelli dritti, vero? – ridacchiò Laura, ripiegando la lettera di Heymans sul tavolo e servendosi una generosa fetta di torta – Santa donna, immagino che la sua testa sia già piena di scene apocalittiche di cadute o chissà che altro”.
“Ha già minacciato Kain di non salire mai e poi mai su quella diavoleria a motore, cito le sue testuali parole – confermò l’ingegnere, posandosi pigramente contro la sedia – sì, ammetto che ha fatto previsioni catastrofiche sul nuovo mezzo del nostro Roy”.
“E tu che ne dici?”
“Mi fido del suo buonsenso e ammetto che se Kain vorrà fare qualche giro non sarò così drastico nell’impedirglielo. Non ha più undici anni del resto”.
“Ellie ti ucciderebbe seduta stante nel sentirti dire simili cose – fece tanto di occhi Laura, imitandolo nella posa – stai diventando un pessimo marito, Andrew Fury, ti dovresti vergognare”.
L’uomo scrollò le spalle con noncuranza, ben sapendo che non era una vera critica. Sapeva che lui ed Ellie qualche volta avevano ancora dei punti di disaccordo per quanto concerneva Kain, ma non era niente che con un po’ di buonsenso si potesse superare. I colpi di testa di Roy, tutto sommato, non erano più pericolosi come una volta ed inoltre l’ingegnere sapeva bene che il giovane cadetto aveva una particolare predilezione per il piccolo del gruppo e dunque faceva ben attenzione a non metterlo nei guai.
In ogni caso quella era solo una piacevole chiacchierata tra migliori amici in una mattina in cui non c’era niente da fare se non godersi il caldo della cucina di casa Breda o, come preferiva chiamarla Andrew, casa di Laura.
Guardandosi attorno in quell’ambiente caldo e accogliente veniva strano pensare che fino a cinque anni prima c’era un clima di tensione quasi palpabile. Adesso tutto trasudava serenità, persino le stoviglie messe ad asciugare accanto al lavabo, la terrina con la frutta sopra il piano di lavoro, la tovaglia fresca di bucato.
Ma soprattutto quello che trasmetteva serenità ad Andrew era vedere la sua migliore amica tornata agli antichi splendori, come se l’esser stata sposata quasi quindici anni con un mostro e aver avuto due figli non facesse parte che di un remoto passato.
Era come se fosse sparito quel velo invisibile che impediva a Laura Hevans di splendere come aveva fatto in gioventù, quando non c’era ragazzo del paese che non si girasse a guardarla. Ormai vicina ai quarant’anni, il suo viso era fresco come quello di una ventenne, con i capelli rosso fuoco che non erano ancora intaccati da nessun filo grigio. Il corpo era sempre morbido e sensuale, sebbene magari leggermente più rotondo rispetto a quando era ragazza, ma questo contribuiva a renderla ancora più accattivante. E il grigio dei suoi occhi? Solo ai tempi gloriosi del liceo Andrew l’aveva visto così luminoso: certo era una gioia meno spensierata e più matura, ma non per questo priva di una sua bellezza.
Inaspettatamente si trovò a pensare che la sua migliore amica era davvero incantevole.
Ma mai quanto Ellie.
Fu un pensiero sciocco, quasi infantile, ma fu inevitabile andare in qualche modo a difendere la sua dolce metà, a prescindere da quale fosse il paragone… se mai ce n’era stato uno.
“Diamine, Ellie riesce sempre a fare dolci stupendi. Questa torta è fantastica!”
Il commento di Laura fece sorridere l’ingegnere.
“Mi dispiace deluderti, ma questa l’ha fatta Riza”.
“Riza? Santo cielo, Ellie le ha proprio insegnato bene… solo io continuo ad essere particolarmente negata per i dolci” il broncio che apparve sulle labbra rosate fu incredibilmente adorabile ed infantile.
“Tu ed i dolci… due realtà destinate a stare separate per sempre – ridacchiò Andrew – se penso a quando mi usavi come cavia per i tuoi tentativi… mi venivano i brividi quando mi annunciavi che per merenda avevi portato qualcosa preparato da te!”
“Dalla tua faccia si capiva lontano un miglio, fidati – lo prese in giro Laura – era come se ogni volta ingoiassi un rospo. Eh no, decisamente saresti stato un pessimo fidanzato: credo che sia stato quello il motivo per cui non ti ho mai considerato sotto quel punto di vista. Comunque come mai hai portato una torta di Riza?”
“In questo periodo si sta dando molto da fare in tutti i sensi – ammise l’uomo, passandosi una mano tra i folti capelli castani. Decisamente avrebbe dovuto tagliarli a breve per renderli più ordinati – esperimenti culinari, devo dire quasi sempre eccellenti, faccende domestiche, grandi pulizie… ieri ha ripulito tutto il mio studio, salendo persino nella scala per pulire bene il lampadario”.
“Oh wow… e tutta questa voglia di fare? – inarco le sopracciglia l’altra – Non che mi tiri indietro davanti alle faccende domestiche, però…”
“Credo che la mia bambina sia un po’ indecisa sul suo futuro – spiegò Andrew – vede che Rebecca ed Elisa lavorano e dunque si sente un po’ spiazzata. Per adesso credo che tutte queste faccende l’aiutino a non pensare troppo a questo dilemma, ma è solo un procrastinare”.
“Lavorare… beh, non ci vedo niente di male. Anzi, ricordami che dopo ti do il vestito che ho preparato per Ellie: l’ho finito ieri sera. Tanto tra poco inizieranno i folli ordini per la festa del primo dicembre e dunque mi sono voluta portare avanti più che potevo. Già tremo davanti alle richieste che mi verranno fatte”.
“Ehi, se sei una sarta eccezionale non ci puoi fare niente”.
“E me ne vanto – sorrise furbescamente Laura – ammetto che provo un pizzico di maligna soddisfazione nel vedere diverse donne che prima nemmeno mi parlavano supplicarmi di modificare i loro vestiti. La vanità piega anche l’orgoglio”.
“Suvvia, non essere maligna. Diciamo invece che, a distanza di cinque anni, finalmente la maggior parte delle persone si è resa conto che l’atteggiamento nei tuoi confronti era sbagliato”.
“Ecco il solito buon Andy Fury… quello che cerca sempre di vedere il meglio delle persone. Non cambierai mai, amico mio. Comunque visto che Riza è in cerca di un’occupazione, perché non la mandi da me almeno per queste settimane di fuoco che mi attendono?”
“Cosa?”
“Mi servirà una mano tra stoffe da comprare, consegne da fare e così via… e se sa cucire il minimo si può occupare del mio lavoro ordinario. Ovviamente dietro compenso”.
“Ecco – esitò Andrew – non so se è quello che vuole…”
“Tu parlagliene e ovviamente proponilo prima anche ad Ellie – scrollò le spalle Laura – non dico che deve essere la sua strada, ma almeno fa un po’ d’esperienza e mette da parte qualche soldo. Ti assicuro che dà grande soddisfazione… ma penso che anche tu ne sia ben consapevole”.
“Potrebbe non essere un’idea malvagia – ammise lui dopo qualche secondo passato a pensarci – come torno a casa ne parlo con Ellie e poi con Riza”.
“Nel caso sa dove trovarmi”.
Forse Andrew avrebbe aggiunto altro, ma si sentì la porta d’ingresso aprirsi e qualche secondo dopo la testa rossa di Henry fece il suo capolino in cucina.
“Ehi, come mai a casa così presto?” chiese Laura.
“Docente di matematica con l’influenza e nessun supplente – spiegò il ragazzo, prendendo un piattino e servendosi una generosa fetta di torta – fatta da sua moglie, signore? Direi che una simile perfezione non può essere opera di mamma…”
“Spiritoso!”protestò Laura con aria indignata, lanciando un canovaccio contro il figlio che fu rapido a schivarlo.
“Bene, io vado in camera – annunciò Henry, recuperando con disinvoltura una forchetta – a presto, signore”.
“Hai visto Kain?” chiese Andrew.
“Mi pare che sia rimasto in paese – scrollò le spalle il rosso – ma potrei sbagliarmi”.
I due adulti rimasero in silenzio fino a quando non sentirono i passi su per le scale concludersi ed il rumore di una porta che si chiudeva.
“Ti somiglia sempre di più – commentò l’ingegnere alla fine – però c’è anche qualcosina dello zio in lui, solo da poco me ne sto rendendo contro”.
“Da quando Heymans ha iniziato l’Università è molto maturato. Mi fa sorridere come i miei due ragazzi facciano a gara per essere gli uomini di casa, non ne vedo proprio il bisogno: sono perfettamente in grado di badare a me stessa”.
“Questi erano i discorsi che facevi da ragazzina. Non ci vedo niente di male se i tuoi figli si vogliono prendere cura di te, specie dopo quanto è successo. Sanno che li hai protetti per tanti anni e si sentono in dovere di fare altrettanto”.
“Non sto rifiutando il loro amore, Andy – scrollò le spalle Laura – ma ti assicuro che è un periodo in cui sto veramente bene con me stessa. Insomma mi sento realizzata, senza più catene… venuta a patti con me stessa e con le mie vecchie ambizioni. Non ho bisogno di essere protetta come è successo anni fa”.
“Lauretta, non è che ce n’è bisogno o meno – Andrew allungò il braccio per sfiorarle una ciocca di capelli – io, tuo fratello ed ora i tuoi figli stiamo solo facendo quello che ci sembra giusto. Forse non hai bisogno di essere protetta, certo, ma… oh, dai, è come chiedere ad Ellie di smettere di preoccuparsi per Kain. Semplicemente ti vogliamo bene”.
“Limitati a dire a Riza la mia proposta – sospirò Laura – è comunque riferiscile che la torta era ottima”.
 
Come dieci minuti dopo si congedò dalla sua amica, Andrew decise di fare un giro in paese nel caso il figlio avesse deciso di non tornare immediatamente a casa. Se capitava l’occasione gli sarebbe piaciuto passare un po’ di tempo da solo con lui dato che, tra lavoro suo ed impegni scolastici dell’altro, non ne aveva avuto più occasione da qualche settimana.
Si sentiva estremamente orgoglioso del ragazzo che era diventato Kain: dopo tutte quelle difficoltà che aveva avuto fino agli undici anni era quasi miracoloso vederlo così sicuro nelle sue relazioni interpersonali. Aveva perso da tempo quell’atteggiamento dimesso che spesso e volentieri aveva creato delle barriere con il genitore. Era come se a livello caratteriale fosse capitata la stessa evoluzione che aveva avuto sul piano fisico: da creatura fragile ed insicura ad una sana e forte.
“Ciao, papà!” lo salutò proprio Kain, uscendo da un negozio.
“Proprio te – rispose Andrew, arruffandogli i capelli – Henry mi ha detto che siete usciti prima e mi chiedevo se fossi rimasto in paese”.
“Sì, resto qui fino alla fine delle lezioni per le altre classi – spiegò il ragazzo – è stata un’uscita anticipata non prevista e dunque Janet non lo sa. Non mi va che esca e rimanga ad aspettarmi invano. Ne ho approfittato per comprare le ricariche per la penna”.
“Ottimo. Andiamo a fare due passi?”
“Possiamo passare alle poste. Mamma mi ha detto che oggi sarebbe dovuta arrivare una lettera dei nonni. Ho pensato di andare a prenderla io dato che mi ci trovo”.
“Ah sì? – chiese laconicamente Andrew, preferendo non aver troppo a che fare con il suo temuto suocero che, per grazia del cielo, ormai già da una decina di anni se ne stava nel suo paese natale a oltre ottanta salutari chilometri di distanza – Bene, passiamo pure”.
Iniziarono a camminare per la via principale del paese ed Andrew non mancò di notare come il figlio gli arrivasse alla spalla. Sebbene fosse chiaro che non sarebbe mai diventato altissimo, ormai era quasi del tutto sviluppato, sebbene il viso dolce ed infantile gli desse meno della sua età. Sicuramente sarebbe stato uno di quei ragazzi a cui la prima barba tende a comparire dopo i diciotto anni, più o meno come era stato per lui.
“Sai papà – disse il ragazzo – Roy mi ha scritto che posso prendere la sua bicicletta quando voglio. Basta che passo al locale e chiedo a sua zia o ad una delle ragazze: tanto sanno che l’ha regalata a me”.
“Davvero? Mh, tua madre non sarà troppo felice di vedertela portare a casa, lo sai bene”.
“Ormai la so usare alla perfezione da anni – protestò Kain, girando il capo per fissare il genitore con supplica, chiedendone chiaramente il sostegno – arrivo alla perfezione ai pedali e ho un ottimo equilibrio. Roy mi ha insegnato tutto quanto e non sono mai caduto”.
“Non è me che devi convincere”.
“Però pensavo che… se la bici la portassi tu a casa, magari la mamma la prenderebbe meno peggio del previsto”.
“Insomma dovrei andare io in avanscoperta? Non è molto bello mettere i genitori l’uno contro l’altro, ragazzo mio”.
“Ho pensato che potevo puntare sul fatto che ormai da tempo non porto più insetti ed animaletti a casa, però mi sembrava un ricatto emotivo – arrossì Kain, tormentandosi la tracolla – è che tu mi pari l’unico che può ottenere qualcosa dalla mamma. Oh, dai! Ti prego, papà!”
Andrew ci rifletté qualche secondo, ammettendo che il piano del figlio era il migliore. Era ovvio che prima o poi il discorso bicicletta si dovesse affrontare, ma non pensava così in fretta.
Del resto non è che Kain abbia mai avuto chissà quali pretese. Questa bicicletta in fondo se la merita.
Ed in fondo era Ellie ad essere troppo apprensiva.
“Passiamo prima al locale a prendere la bici, va bene? Poi andiamo alle poste e io torno a casa e cerco di preparare spiritualmente tua madre”.
“Oh grazie, papà! – esclamò deliziato il giovane, fermandosi per abbracciarlo – Sapevo che mi avresti dato una mano!”
Andrew rispose a quell’abbraccio con una nuova arruffata di capelli.
Sì, come erano cambiati i loro rapporti: adesso era lui ad avere maggiore confidenza con il figlio, ad accettare con più facilità il fatto che stesse crescendo. Da ragazzino Kain si era spesso rifugiato nel bozzolo materno fatto di protezione assoluta, non disdegnando affatto di essere trattato come un bambino. Ma adesso che le antiche paure erano sparite si dimostrava maggiormente indipendente e voglioso di manifestare questi suoi piccoli grandi desideri. Anche se si potevano scontrare contro il volere materno.
Forse Ellie si sarebbe imbronciata per la bicicletta portata a casa a tradimento, ma in parte sarebbe stato perché Kain aveva preferito parlarne con un genitore piuttosto che con l’altro.
Del resto i tempi cambiano.
 
“Cielo, Ellie, non gli può succedere niente di peggio che una caduta ed una sbucciatura. Secondo la tua linea di pensiero allora non dovrebbe manco correre”.
Andrew fissò la moglie con lieve esasperazione, sebbene fosse preparato ad una simile discussione sin da quando una sorridente signorina del locale di Madame Christmas, Lola, aveva consegnato a lui e Kain la bicicletta di Roy, aggiungendo come extra un bacio sulla guancia di ciascuno.
“Hai presente cosa vuol dire fare la discesa verso il paese a quelle velocità?”
“L’ha fatta già altre volte con Roy… e dai, Ellie, lascialo respirare: ha sedici anni”.
“Compiuti da poco – puntualizzò la donna, mettendosi a braccia conserte – costava così tanto parlarne seriamente prima di mettermi davanti al fatto compiuto?”
“Ne avevamo già parlato”.
“No, avevo semplicemente detto a nostro figlio che…”
“… che non volevi manco sentir parlare della cosa. Ed io ti avevo anche detto che forse avevi esagerato”.
“Bel modo di rispettare i miei pensieri, Andrew Fury, sul serio”.
“Meraviglia mia, non è che rispetti i tuoi pensieri – sospirò l’uomo, andandole accanto – ma, sul serio, stai creando un polverone sul niente. E’ una normale bicicletta e Kain la sa usare: non ha nessuna intenzione di andare in città e mettersi ad usarla in mezzo alle macchine. La userà qui in campagna dove non c’è pericolo… e se qualche volta cadrà non sarà diverso da quando è caduto mettendosi a correre”.
“Sulla sua coscia ti voglio ricordare che c’è una cicatrice lunga una decina di centimetri che non andrà mai via”.
“… e che si è fatto in un’occasione del tutto particolare, in un posto pericoloso a prescindere che ormai è sigillato da anni e all’età di undici anni. Cielo, Ellie, dai un minimo di fiducia a nostro figlio”.
“E’ furbo a mandare avanti te, lo ammetto”.
Lei mise il broncio e lo fissò con uno sguardo un po’ geloso, confermando che ancora non riusciva a capacitarsi di come fossero leggermente cambiati gli equilibri di confidenza tra i componenti della famiglia.
Prima sarebbe successo l’esatto contrario: Kain avrebbe chiesto aiuto alla madre per convincere il padre di qualcosa.
“Piuttosto, che ti pare dell’offerta di Laura? – chiese Andrew per cambiare argomento – Mi pare una buona occasione per Riza”.
“Sì, mi pare una buona idea – annuì Ellie, accettando quel cambio di direzione, quasi rassegnata all’idea di avere una bici parcheggiata in cortile – almeno avrà una valvola di sfogo e si potrà schiarire un po’ le idee. A stare in casa si trova in netta difficoltà”.
Andrew scrollò le spalle, nemmeno troppo sorpreso dalla situazione. Del resto non era così semplice trovare lavoro in paese: erano tutte botteghe o aziende familiari ed era raro che venisse preso qualche lavoratore esterno, almeno per quanto concerneva attività adatte ad una ragazza. A conti fatti se Elisa e Rebecca non avessero iniziato a lavorare Riza non avrebbe sentito la necessità di seguire il loro esempio: avrebbe atteso il rientro di Roy per decidere del loro futuro assieme. Ma per come si erano messe le cose e conoscendo il carattere delle sua protetta, era normale che gli eventi avessero preso quella direzione.
“Ancora non capisco perché non sia voluta andare all’Università una volta finita la scuola – si chiese – per me sarebbe stata un’ottima scelta”.
E ci credeva davvero: per quanto non fosse un prodigio come Kain, Riza aveva una bella mente e sicuramente il suo percorso accademico sarebbe stato carico di soddisfazioni, anche solo per ampliare la sua cultura, senza puntare ad un vero e proprio sbocco lavorativo.
“Non credo che fosse pronta a lasciare il paese – spiegò Ellie con comprensione – e poi per studiare cosa? Non lo sapeva nemmeno lei cosa fare, sarebbe stata una forzatura bella e buona. Sul serio conosci così poco nostra figlia?”
“Le ho fatto ripetizioni di trigonometria fino all’anno scorso. Ma forse la conosci meglio tu – ammise Andrew – passato il momentaccio, meraviglia?”
“Un po’ ti detesto quando piloti il discorso come vuoi tu – sorrise la donna, facendosi abbracciare – sei uno spietato manipolatore, Andrew Fury”.
“No, conosco solo bene mia moglie – la baciò in fronte – la mia splendida e perfetta moglie”.
“Dai, finiscila – ridacchiò lei, svincolandosi leggermente da quella presa – e fammi leggere la lettera che mi ha mandando la mamma”.
L’ingegnere la guardò recuperare la busta dalla tasca del grembiule e aprirla. Gli piaceva vedere l’espressione dolce e malinconica che assumeva il viso di Ellie quando leggeva le lettere dei suoi genitori. Erano passati più di dieci anni da quando Nicholas Lyod era tornato al suo paese d’origine per rimettere in sesto l’azienda della sua famiglia che rischiava di collassare per una pessima amministrazione, ma ancora Ellie aveva dei momenti in cui sentiva la loro mancanza in maniera prepotente. Questo gli fece pensare che tutto sommato l’idea di un viaggio per andare a trovarli non sarebbe stata male, magari per il prossimo natale e…
“Oh cielo! – ansimò Ellie, mettendosi una mano sul petto – oh cielo!
“E’ successo qualcosa?”
“Se è successo qualcosa? – la donna lo guardò con aria incredula – questa… questa è la più bella notizia del mondo! La mamma mi ha scritto che lei e papà tornano in paese per sempre! Tornano a casa, Andrew! I miei genitori! Oh, sono anni che aspettavo una notizia simile!”
Presa dall’euforia iniziò a saltellare per la cucina, battendo le mani con delizia come una bambina che ha appena ricevuto il balocco tanto desiderato.
“Tornano qui? – commentò Andrew per tutta risposta – Lui torna qui?”
“Sì! – esclamò Ellie, abbracciandolo con entusiasmo – il mio adorato papà! Oh, non vedo l’ora che torni Kain per dargli la splendida notizia. Riza! Riza, tesoro, vieni in cucina, presto! Ci sono grandi novità!”
Atroci novità – pensò amaramente Andrew, prendendo in mano quei fogli e leggendo della ferale notizia.
 
Andrew ed Ellie provenivano da due delle famiglie più importanti del paese: il primo aveva come padre il notaio, la seconda era l’unica figlia del più grande possidente terriero della zona. A guardarli impegnati nella loro tranquilla e laboriosa vita non si sarebbe mai pensato che sulle loro spalle gravasse un peso così importante a livello d’eredità. Con tutta probabilità dipendeva dal fatto che Andrew, seguendo la sua vocazione, aveva scelto un’attività completamente diversa da quella del padre e che quindi si era in qualche modo “affrancato” dai doveri di famiglia.
Quando era tornato in paese, dopo l’Università, ed era riuscito ad avviare la sua carriera, era stato sicuramente il partito più ambito di tutta la popolazione femminile, specie delle giovinette delle famiglie perbene: educato, di bell’aspetto, laureato e con una promettente carriera per il futuro. A conti fatti la famiglia di Ellie, che sin da giovanissima aveva messo una seria ipoteca sul suo futuro marito, sarebbe dovuta restar più che felice di questo fidanzamento, messe da parte le differenze d’età.
Peccato che Nicholas Lyod avesse odiato Andrew fin dal primo istante, ritenendolo colpevole di aver in qualche modo sedotto e traviato la sua unica e adorata figlia. In quei burrascosi anni le minacce e le offese non erano mai mancate da parte del futuro suocero e più di una volta Andrew si era ritrovato a sudare freddo, seduto nel divano di casa Lyod, sebbene con Ellie avesse sempre mantenuto un atteggiamento più che corretto. Con tutta probabilità l’apice si era raggiunto il giorno in cui i due fidanzati avevano annunciato la loro intenzione di sposarsi non appena lei fosse diventata maggiorenne l’anno successivo. In quell’occasione Nicholas Lyod aveva detto poco e niente, ma l’occhiata omicida che aveva lanciato ad Andrew era stata minacciosa come poche volte.
Ecco perché l’ingegner Fury, nonostante fosse legato da una strana forma di stima a suo suocero, che comunque era sempre stato presente in tutte le difficoltà, a partire dalla gravidanza difficile di Kain, preferiva saperlo lontano svariati chilometri e ridurre quindi insulti ed offese a poche e scelte visite.
 Ed invece si trovò, il giorno dopo quella catastrofica notizia, a seguire Ellie e Riza nella grande casa dei Lyod nella periferia del paese per prepararla in previsione del grande ritorno.
“Sono così estasiata – commentò la donna, andando ad aprire tutte le finestre delle stanze al piano di sotto – avevo sentore che ormai l’azienda della famiglia di papà si fosse del tutto ripresa, ma non osavo chiedere se avessero davvero intenzione di tornare. Sai, potevano aver cambiato idea”.
“Tuo padre che perde l’occasione di controllarmi più da vicino? – commentò sarcasticamente Andrew, aiutando Riza che litigava con un’imposta particolarmente ostinata – non mi pare proprio il caso”.
“Oh, suvvia, tesoro – lo prese in giro Ellie, raggiungendolo e baciandolo dolcemente sulle labbra – sai che papà ti vuole bene, sono sicura che ti ha sempre considerato come un figlio”.
Andrew le lanciò un’occhiata ironica, ma l’eventuale risposta venne bloccata dall’esclamazione entusiasta di Riza.
“Oh, ma questo salone è meraviglioso! – dichiarò deliziata mentre la stanza tornava finalmente a vedere la luce del sole, rivelando i mobili coperti da lenzuola per proteggerli dalla polvere – E’ enorme!
“Papà ha fatto ampliare la casa che ancora non ero nata – spiegò Ellie con orgoglio – le due ali laterali prima non esistevano. Oltre il salone c’è il suo studio privato: pensa che ha una porta finestra che dà su una veranda meravigliosa. C’è un panorama stupendo che supera il giardino per andare verso la campagna”.
“Non vedo l’ora di vederlo!”
“Andiamo pure: voglio aprire tutte le finestre ed iniziare a far arieggiare tutte le stanze. Poi iniziamo a vedere che lavoro c’è da fare: per la prossima settimana direi che sarò parecchio impegnata”.
“Posso chiedere alla signora Laura di andare da lei qualche giorno dopo rispetto a quanto preventivato, mamma – propose Riza – non mi costa nulla”.
“Ma no, tanto tuo padre in questo periodo ha una pausa dai vari cantieri: mi darà una mano lui”.
“Sarà una vera gioia…” annuì Andrew.
“Mamma, mi devi raccontare un sacco di cose sui nonni! Li ho visti così poche volte che sono tante i dettagli che ancora non so su di loro”.
Mentre osservava le due donne che si recavano nella stanza adiacente al salotto, Andrew si affacciò alla finestra per guardare il cortile che sicuramente aveva bisogno di una bella risistemata. Anche l’elegante staccionata di legno dipinto di bianco aveva bisogno di essere sistemata in più punti e la sua mente pratica prese nota dei vari lavori di manutenzione che c’erano da fare.
Una piccolissima parte di lui si sentì felice all’idea di vedere di nuovo quella casa piena di luce e di vita.
Sì, del ritorno della signora sono più che felice… ecco, mi devo concentrare su questo.
Era solo un contentino, lo sapeva bene.
Il ritorno di suo suocero in realtà era una catastrofe sempre più vicina.
 
Nonostante un componente non fosse proprio entusiasta per quel ritorno, il resto della famiglia Fury era più che elettrizzato per quella novità. Sia Kain che Ellie avevano un sacco di aneddoti da raccontare a Riza sulle figure di Nicholas Lyod e sua moglie Agnes, uno più bello dell’altro. Tutti e tre facevano progetti sui lavori, su tutte le novità del paese da mostrare, sugli amici nuovi da presentare… insomma sembrava che la lista non dovesse mai terminare.
Proprio qualche sera dopo Ellie entrò in camera di Kain portando una maglietta appena rammendata e rimase sorpresa nel trovare il figlio seduto nel letto con un vecchio pupazzo in mano.
“Ma dai – mormorò, sedendosi accanto a lui e prendendo in mano quel cavallino di stoffa – è il pupazzo di Blanco, il cavallo del nonno”.
“Sapevo di averlo ancora – ammise Kain, arrossendo lievemente – ho dovuto frugare un po’ dentro l’armadio, ma eccolo qua. Certo, me lo ricordavo più bianco e non sul grigio”.
“Posso provare a lavarlo domani”.
“Non mi ricordo nemmeno quando il nonno me l’ha regalato”.
“Oh, io si… era il giorno del mio ventiduesimo compleanno: siamo tutti andati a pranzo a casa dei nonni. Ma tu eri troppo piccolo per ricordare: non avevi ancora tre anni”.
Improvvisamente Ellie si rese conto di ricordarsi fin troppo bene di quel compleanno, a dire il vero uno dei più surreali della sua vita. Quella mattina stessa aveva avuto un aborto spontaneo e la debolezza unita allo sconforto le avevano fatto venire pessimi pensieri su Kain… su quel bambino appena uscito da una nuova ricaduta di febbre reumatica che appariva così bruttino e grottesco con le articolazioni ancora gonfie. All’epoca era così disperata all’idea che suo figlio non potesse avere una vita normale, al pensiero che morisse da un momento all’altro per una febbre troppo forte o chissà che altro.
Si girò a guardare il ragazzino seduto accanto a lei, così forte e sano… una perfetta sintesi fisica di lei ed Andrew, un capolavoro tale che non poteva essere replicato.
“Povera me, adesso mi viene la nostalgia a pensare a quanto eri piccolo allora, pulcino”.
“Oh dai, mi devi ancora chiamare così?” ridacchiò Kain, abbracciandola.
“Già, ora sei cresciuto… altro che pupazzo di Blanco, adesso vai in bici”.
“La uso da sette giorni e non sono caduto nemmeno una volta – la prese lievemente in giro lui – te l’avevo detto di stare tranquilla”.
“Sono sempre una madre troppo apprensiva, vero?”
“Sei sempre mia madre, tutto qui”.





_________________________________________
Con un po' di ritardo rispetto a quanto preventivato, ecco il nuovo capitolo.
Nicholas Lyod, il padre di Ellie, è un personaggio ben noto per chi ha letto lo spin off Walks of life. Tuttavia cercherò di trattare lui e le eventuali vicende che fanno riferimento a quella storia in modo che siano completamente comprensibili anche per chi non si è cimentato in quella lettura :)

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 7. Accelerazioni e sterzate ***


 

Capitolo 7. Accelerazioni e sterzate

 


 
La mano guantata premette sulla leva del manubrio e la moto accelerò improvvisamente, preparandosi ad affrontare l’ultimo tratto di terra battuta che si presentava davanti a lei. Al nuovo rombo del motore seguì una nuvola di polvere, ma questo non disturbò minimamente il pilota ben protetto da occhiali e casco di cuoio, anzi un sorriso audace apparve sulle labbra.
Come non poteva essere così? Andare in moto gli provocava una sferzata di libertà tale da lasciarlo estasiato ogni volta: sentiva ogni fibra del suo corpo incredibilmente viva, come se una strana scarica elettrica lo attraversasse. Niente gli regalava sensazioni simili.
Fu con rammarico che premette la leva dei freni per andare a fermarsi con un’abile sterzata a pochi metri dalle due persone che avevano osservato la sua performance sul campo d’addestramento riadattato a percorso ad ostacoli per il motociclo.
“Un ottimo risultato – annuì il meccanico, osservando il tempo sul cronometro che teneva in mano – decisamente il migliore che abbia mai fatto”.
“Questo dovrebbe convincere alcuni tradizionalisti sulle possibilità offerte da queste bellezze – rispose Roy, concedendosi un sorrisino trionfante mentre si levava casco, guanti e occhiali e li posava sopra la sella – è una grande moto”.
“Una delle migliori in circolazione: allora, ti sei trovato bene con i nuovi pneumatici?”
“Tengono molto di più la presa durante le curve. Non vedo che altre modifiche si potrebbero fare”.
“Direi che dopo questa corsa direi che la patente per la moto sarà presto nelle tue mani, Mustang – si intromise l’altra persona, uno degli istruttori dei corsi – non avevo dubbi che questa nuova diavoleria ti sarebbe piaciuta”.
“Spero che non sia uno dei detrattori della moto, signore – commentò Roy, mettendosi sull’attenti – ha ottime potenzialità di utilizzo”.
“Non sono giovanissimo e non ambisco a salire sopra una di queste cose, ma non nego che avrà ottimo uso nell’esercito. Se hai finito direi che possiamo tornare in caserma”.
Con un ultimo cenno di saluto al meccanico, una persona con la quale aveva stretto grande amicizia in quelle ultime settimane, Roy si sistemò meglio la divisa e seguì il suo superiore, ben consapevole che c’era qualcosa che voleva dirgli: non era mai un caso se andava ad assistere a qualche esercitazione.
Il tenente Conrad aveva superato la mezza età e sicuramente aveva vissuto parecchie esperienze sul campo di battaglia, come testimoniava la cicatrice sulla guancia destra, ricordo di una scheggia di granata al fronte. Nonostante ciò il viso manteneva un certo fascino arcigno, come se quella deturpazione ben si adattasse al naso aquilino, alle sopraciglia folte e volitive e ai corti capelli neri.
Era uno degli istruttori più temuti dell’Accademia e non era un mistero che il suo motto fosse “che piangano ora, piuttosto che morire dopo”. Era per colpa (o merito) suo che tra primo e secondo anno c’era una scrematura abbastanza ampia di cadetti, ma nessuno osava fiatare sulle sue decisioni. Era un’autorità così importante che nessun favoritismo poteva prevaricare il suo parere in merito a qualche allievo. Ma questa spietata severità portava a dei grandi risultati ed era innegabile che molti soldati da lui formati e poi chiamati al fronte si fossero salvati la vita in più occasioni grazie alle dure esercitazioni pratiche in Accademia.
Roy sapeva di essere uno dei favoriti di quell’istruttore così intransigente, anche se questo spesso aveva significato rimproveri più aspri per il minimo errore e quegli occhi da rapace perennemente puntati su ogni cosa che faceva. Sotto un certo punto di vista questo essere torchiato gli ricordava quello che a volte subiva in paese dal capitano Falman, ma se con il poliziotto era un battibecco continuo, qui Roy non avrebbe mai permesso alla sua lingua tagliente di dire qualcosa oltre il consentito.
“Bene, ora prenderai la patente e poi tra poco più di un mese sarai un soldato vero e proprio, Mustang. Non penso sia un mistero che svariati gradi alti abbiano messo gli occhi su di te”.
Roy non seppe come rispondere, non aspettandosi che quel discorso saltasse fuori in maniera così palese con un suo insegnante, soprattutto con quello che non vedeva assolutamente di buon occhio queste forme di favoritismo. Per quanto determinate cose fossero risapute, si tendeva a farle restare non ufficiali almeno fino al termine dell’Accademia. Lui non era modesto, sapeva bene di essere un ottimo elemento che faceva gola ai superiori: era di moda avere nel proprio seguito delle giovani promesse.
“Circolano voci in merito, signore” disse infine con studiata noncuranza.
“E tu che ne pensi?”
L’occhiata che gli lanciarono quegli occhi scuri e penetranti fece sentire Roy sotto interrogatorio. Ancora non ne capiva il motivo, ma sembrava che il tenente Conrad fosse particolarmente interessato al suo futuro al di fuori dell’Accademia.
“Non so chi sono questi alti gradi interessati a me – rispose dopo averci pensato qualche secondo e decidendo di essere sincero – ma se avrò occasione valuterò le scelte che mi verranno poste ed opterò per quella che ritengo maggiormente conveniente per la mia carriera”.
“Carriera? – sbuffò l’altro – La maggior parte di quelle persone ti terrà come una bambolina del loro seguito: magari avrai una promozione facile, ma non pensare di andare troppo avanti nella gerarchia militare. Seguito sarai e seguito resterai… tu meriti altro, ragazzo”.
“Ho intenzione di prendere il titolo di alchimista di stato appena possibile: questo mi dovrebbe già mettere in una situazione completamente diversa dagli altri soldati. Avrei il grado di maggiore”.
“Già, mi era arrivata questa voce. Indubbiamente sarebbe una bel passo in avanti: gli alchimisti sono sempre tenuti in grande considerazione. In ogni caso, giovanotto, il motivo per cui ti ho cercato è che devo farti una proposta interessante: vorrei che tu, l’anno prossimo, in primavera, venissi con me per qualche settimana a Central City”.
“A Central?” si meravigliò Roy.
“Già… il governo ogni tanto vuole vedere che tipo di reclute tiriamo su nei vari distretti e tu sei l’allievo migliore degli ultimi anni. Niente di speciale, solo formalità: a dire il vero detesto essere trascinato in simili cose, ma alla burocrazia piace fare mostra di veterani di guerra e giovani promesse”.
Ma Roy quell’ultima frase nemmeno l’aveva sentita: l’idea di andare nella capitale lo inebriava tantissimo. Quello che gli era stato offerto era un vero e proprio colpo di fortuna.
“L’accompagnerò volentieri, signore” disse infine.
“Molto bene – l’uomo lo guardò con esitazione per qualche secondo – vedrai che sarà istruttivo per te, cadetto. Adesso ti consiglio una doccia e un cambio: puzzi di benzina e sei sporco di tutta quella polvere. Se hai una fanciulla che ti aspetta stasera per la libera uscita è meglio che ti presenti come si deve”.
“Una semplice cena con amici – corresse Roy, mettendosi sull’attenti – ma credo che la doccia sia necessaria. La ringrazio ancora per la sua offerta, tenente”.
“Sarà un’ottima esperienza per te. Riposo, cadetto”.
 
“Central? Ti divertirai sicuramente un mondo – commentò Arthur, come quella sera Roy annunciò la grande novità – per quelli che vengono da realtà più piccole come la vostra è sempre una grande esperienza”.
“Ehi, io ci ho vissuto alcuni anni quando ero bambino” mise il broncio Roy.
“Ne parli come se per te fosse un posto come un altro – ribatté Heymans squadrando il suo collega di studi – che c’è? Non ti piaceva stare lì?”
“Sulla città in sé non ho molto da lamentarmi. Ma non è che avessi molte possibilità di godermela dato che ero costretto a frequentare una cerchia abbastanza ristretta ed esclusiva, merito del mio caro padre. E voi non avete idea di quanto possa essere noiosa l’alta società: credo di essere scappato via diverse volte da party con centinaia di invitati”.
“Con somma gioia dei tuoi genitori”.
“Quando mi presentavo per la colazione della mattina successiva c’era sempre qualche scena molto divertente” il giovane si passò una mano tra i folti capelli scuri e face poi cenno al cameriere di portare un’altra bottiglia di vino.
Heymans non ebbe dubbi sulla verità di quelle parole: la settimana prima aveva avuto l’onore di essere invitato formalmente a cena dal giudice Doyle in persona. Sicuramente si trattava di un espediente per conoscere meglio le frequentazioni del figlio e dunque sincerarsi che non ci fossero guai in vista, ma le conclusioni che ne aveva tratto il rosso erano di profonda instabilità familiare.
Il giudice era il classico esempio di pater familiare autoritario che guarda ai propri figli allo stesso modo con cui guarda gli imputati: sempre cercando qualche indizio di colpevolezza e pretendendo da loro la massima collaborazione. Questo era più che sufficiente a scatenare il carattere ribelle di Arthur che, a quella cena, si era comportato educatamente solo per evitare di mettere l’amico in imbarazzo.
Quanto alla signora Doyle era una donna alta, esile e nervosa che non mancava mai di tormentare un lembo del vestito non appena tra padre e figlio scattava qualche scintilla: Heymans si era trovato a paragonarla a sua madre, ma non vi aveva visto un briciolo della sua determinazione. Sybilla Doyle era terribilmente succube del marito e in qualche modo anche del figlio maggiore: con tutta probabilità i momenti in cui respirava di più era quando quei due erano fuori di casa. E questo faceva sì che la sua fragile bellezza slavata ne venisse in qualche modo incrinata.
“Ah, mia sorella ti manda i tuoi saluti” fece Arthur in quel momento, versando per se stesso e Roy un nuovo bicchiere di vino, ma evitando di fare altrettanto con Heymans.
Il giovane studente sorrise lievemente e si soffermò a pensare alla giovane Sofì Doyle, forse l’unica persona che riuscisse a portare un minimo di serenità in quella famiglia spesso al limite della crisi diplomatica. Aveva solo quattordici anni, ma era una di quelle creature solari e dolci, destinate ad essere amate da tutti: se non fosse stato per l’aspetto fisico la si sarebbe detta una completa estranea in quel posto dove la tensione si tagliava a fette meglio dell’arrosto servito come portata principale. Con tutta probabilità Sofì, che curiosamente aveva il medesimo nome di una vecchia compagna di scuola di Heymans, godeva di una posizione privilegiata: da lei il giudice si aspettava solo che fosse educata e carina, oltre che seguire gli studi della scuola femminile a cui era stata iscritta, delle cose in cui la ragazzina riusciva alla perfezione. Non era quindi stata caricata di tutte le aspettative come invece era successo per Arthur, ma per fortuna questi era abbastanza accorto da non prendersela con lei.
In questa differenza di trattamento tra figli da parte del giudice, Heymans un po’ aveva rivisto suo padre: per quanto la situazione fosse diversa, gli pareva che la preferenza marcata per Sofì fosse uno strano modo di punire Arthur per le sue carenze come degno erede.
“Tornando a noi sarà interessante andare a Central – disse Roy, riportando il discorso sull’argomento principale – ne approfitterò per andare a trovare Maes, questo è poco ma sicuro. Anzi, nella prossima lettera che gli scriverò gli inizierò ad anticipare la cosa”.
“Soldato pure lui?” chiese Arthur.
“Non proprio, da quanto so suo padre l’ha inserito nel suo ufficio del settore amministrativo del governo”.
“Non credo che per la sua occupazione avrà bisogno di una moto”.
“Proprio no – sogghignò Roy – comunque ho già messo gli occhi su quella che mi voglio comprare. A gennaio farò il mio grande investimento!”
Heymans osservò i suoi due amici che continuavano a parlare con entusiasmo e si disse che in un altro frangente sarebbero stati una coppia di combinaguai di alto livello. Fortunatamente Roy era ormai troppo accorto per lasciarsi andare a simili tentazioni, almeno non quando vestiva il ruolo di cadetto, e sembrava che anche Arthur avesse capito l’andazzo e non lo coinvolgesse nelle sue eventuali bravate.
Comunque era indiscutibile che quei due erano in qualche modo affini.
“Povero me – sospirò infine Arthur – tra qualche settimana mi abbandonerete per tornare nel vostro angolo di mondo. Come hai detto che si chiama la festa?”
“Niente di complicato: la festa del primo dicembre – rispose Heymans – ma non ti preoccupare: credo che staremo via nemmeno cinque giorni. Fortunatamente coincide con la settimana di assemblee di docenti all’Università, quindi nemmeno perderò lezioni o simili”.
“Già, si prevede calma piatta: spero che mio padre non voglia coinvolgermi in qualche cosa”.
“Nel caso eclissati – gli suggerì con semplicità Roy – non è la prima volta che lo fai”.
“Forse si tratterà di qualche noiosa festa di gala: se non sbaglio ancora non è stato organizzato nulla con le autorità militari della città. In genere una cena ufficiale con il generale in carica non manca mai”.
“Il generale in carica? Ah, Grumman!”
“Sì, mi pare si chiami proprio così. Corre voce che sia un personaggio interessante, forse con lui varrebbe la pena di presentarsi all’appuntamento ufficiale”.
Heymans lanciò un’occhiata a Roy per vedere se faceva qualche riferimento alla parentela tra Grumman e Riza, ma il moro non fece una piega. A dire il vero aveva fatto pochissimi riferimenti alla sua fidanzata, limitandosi a rifiutare con eleganza un invito per uscire con alcune fanciulle di uno degli istituti femminili della città. Ma non c’era da sorprendersi: Arthur Doyle era staccato dal paese e dunque determinate cose non rientravano negli argomenti da trattare con lui.
Un po’ come il fatto che io non gli ho parlato mai di Jean.
Per non parlare di Kain, Vato e tutti gli altri: era come se non esistessero. L’unica persona relativamente vicina alla loro età di cui Arthur era consapevole dell’esistenza era Henry, ma giusto perché alla cena Sofì gli aveva domandato se aveva fratelli o sorelle.
“Se ci vai davvero fai attenzione a non indisporre troppo tuo padre”.
Arthur si limitò a scrollare le spalle con noncuranza e la conversazione si spostò di nuovo.
 
Mentre Roy ed Heymans iniziavano ad entrare nell’ottica del rientro in occasione della festa del primo dicembre, il paese era già immerso nel clima d’eccitazione che accompagnava la preparazione dell’evento.
Il comitato organizzativo era in gran fermento e la lista delle cose da fare sembrava allungarsi di giorno in giorno, con nuove proposte o problematiche che dovevano venir risolte in tempi brevi. Chi pensava al capannone e al relativo arredo, chi alle pietanze, chi agli ordini da fare in città, dato che quest’anno oltre ai fuochi d’artificio si voleva proporre anche qualcosa di nuovo, sebbene su di questo ci fosse il più grande segreto.
Nel frattempo le donne del paese erano quasi del tutto impegnate alla ricerca del vestito da indossare, come da tradizione. La merceria era invasa ogni giorno da fanciulle che cercavano la stoffa giusta per il proprio abito o ancora quell’accessorio o quel dettaglio da aggiungere per essere perfetta. Le studentesse ormai non riuscivano più a concentrarsi sulle lezioni, eccitate da quell’evento sociale che in qualche modo le inseriva nel mondo degli adulti almeno per una notte. Era fatto risaputo: un ballo alla festa del primo dicembre era quasi un’ufficializzazione delle coppie.
“Sono felice di avere il vestito già pronto – dichiarò Riza, osservando dalla finestra di casa Breda il grande traffico di persone piene di pacchi e pacchetti – per fortuna che anche quest’anno ci ha pensato la mamma con uno dei suoi meravigliosi vestiti”.
“Ci avrai dovuto fare grosse modifiche dato che sei parecchio più prosperosa di lei – commentò Laura, tagliando con abilità una grossa porzione di una bella stoffa lillà – qual è? Forse ce l’ho presente”.
“Color panna, con nastrini gialli sulle maniche e sul colletto. Ci ho dovuto lavorare un po’ ma alla fine sono davvero contenta del risultato e anche mamma la pensa così”.
“E’ il primo anno che ci hai voluto pensare da sola: in genere toccava a me fare quelle modifiche… oh, non sono offesa! Anzi, sono lieta di avere del lavoro in meno da fare. Hai visto quante richieste impossibili? Ti prego di guardare il disegno che mi ha fatto l’ultima cliente che è venuta… cielo, come pensa di indossare una cosa simile?” Laura fece una smorfia incredula nel prendere in mano il foglio su cui era stato schizzato l’elaborato abito.
“E come si fa in questi casi?”
“Semplice: la sarta ha sempre l’ultima parola perché vede realmente le cose come stanno – disse con praticità la donna, facendo cenno alla sua aiutante di arrotolare e mettere via la stoffa avanzata – se facessi come vogliono loro apparirebbero ridicole. Invece cerco il giusto compromesso e alla fine sono più che soddisfatte. Per esempio il compromesso di questo disegno è giusto il colore della stoffa e la forma delle maniche, per il resto mi dovrò ingegnare io… anche perché una scollatura simile è davvero troppo audace, persino per il nuovo secolo”.
“Nel frattempo io continuo a sistemare le camicie per dopodomani”.
“Ottima idea: se me le smezzi entro oggi sarà un grande passo avanti”.
Riza prese il cesto con il lavoro da fare e si sedette sul grande letto: preferiva non occupare spazi troppo grandi e così, sin dal primo giorno, si era ritagliata un suo angolino, senza andare a mischiare i suoi rammendi con le stoffe dei vestiti.. La signora Laura preferiva lavorare in camera sua piuttosto che in soggiorno od in cucina. Era riuscita ad organizzare alla perfezione lo spazio e così, oltre al grande letto matrimoniale e all’armadio vi erano un tavolo rotondo con due sedie e un manichino per le prove. Ed in un angolo era stato aggiunto un piccolo ripiano dove stava la nuova macchina da cucire, un regalo fattole dai figli tre anni prima,
Tutto sommato si trovava bene a lavorare per la signora Laura.
Non che il cucito fosse la sua grande passione, ma l’idea di fare qualcosa di produttivo la faceva stare bene ed era infantilmente orgogliosa di poter mettere qualche soldo da parte in maniera totalmente autonoma. Finalmente si sentiva in parte uscita dalla situazione di pesante stallo che aveva vissuto per diverse settimane, dove si era sentita quasi inutile nel vedere Rebecca ed Elisa andare avanti con il loro lavoro. Ovviamente sapeva che questa era solo una parentesi di qualche settimana, giusto per aiutare nei giorni di fuoco precedenti la festa, ma era come un piccolo inizio che, forse, avrebbe aperto altre strade.
Inoltre si trovava molto bene con la signora Laura: le era sempre stata molto affezionata, sin da quando l’aveva conosciuta e le piaceva poter parlare con lei. Forse la considerava un briciolo più indipendente rispetto a quanto facesse sua madre.
“Allora, racconta – le chiese proprio la donna – come procedono i lavori a casa dei tuoi nonni?”
“Molto bene. In questo periodo papà è libero da cantieri e quindi si può dedicare alle riparazioni che ci sono da fare. E la mamma sta andando avanti alla grande nelle pulizie: di mattina la aiuto anche io. E’una casa meravigliosa, signora: c’è mai stata?”
“Qualche volta quando Ellie era ancora una ragazzina, ma non la ricordo molto bene dato che stavamo per la maggior parte del tempo in camera sua. Ma di sicuro è una delle case più belle di tutto il paese. Del resto il padre è un uomo molto ricco: credo che non ci sia un proprietario terriero suo pari nella nostra zona”.
“Mi chiedo come mai i miei genitori non si sono trasferiti lì quando i nonni sono partiti”.
“Oh dai, Riza, sul serio li conosci così poco? Sono Andrew ed Ellie, probabilmente la coppia più romantica che sia mai esistita in questo mondo… loro non sono fatti per regge o castelli, loro vogliono solo il piccolo e felice nido dove poter tubare come colombi. Non è questa l’idea che ti dà casa tua?”
“Effettivamente…” Riza sorrise a quell’immagine così tenera e fiabesca dei suoi genitori adottivi. Però a ben pensarci era proprio così: si erano completamente distaccati da quelle che erano le loro famiglie.
“Comunque se il signor Lyod riporta anche i suoi famosi cavalli di razza devi chiedergli di insegnarti a cavalcare. E’ una cosa che ho sempre invidiato ad Ellie”.
“A cavalcare…”
“Pensa che per un certo periodo anche Andrew aveva preso qualche lezione, ma non è mai stato molto affiatato con il suo destriero. Non penso che gli piacesse… Ellie invece, da quanto mi raccontava, era davvero brava”.
“Non ce la vedo la mamma a cavallo: ha persino paura quando Kain prende la bici per venire in paese”.
“Ah, ragazza mia – sorrise con indulgenza Laura, alzandosi dal tavolo e drappeggiando la stoffa sopra il manichino – ti assicuro che la prima infanzia di Kain ha cambiato molto Ellie Lyod. Era destino che per entrambe i figli significassero grossi cambiamenti”.
“Sa che proprio non riesco ad immaginare lei e mia madre diverse da come siete?”
“E’ più che naturale, mia cara: ma aspetta di avere un figlio e vedrai che non ti riconoscerai più nemmeno tu. Ehi, che cos’è tutto quel rossore: tu e Roy prima o poi vi sposerete, no?”
“Certo… almeno, questi sono i progetti – annuì Riza con imbarazzo – però è ancora presto!”
“Presto! – ridacchiò la donna – Ti assicuro che il tempo passa prima di quanto te lo aspetti. Credo che tu sia perfettamente consapevole che prima o poi dovrai abbandonare il nido del paese se vuoi stare assieme al tuo bel soldato. Al contrario di tutti gli altri il tuo amore ti porterà a volare lontano”.
La giovane a quelle parole rimase interdetta: era surreale che tutte le sue paure venissero tirate fuori in maniera così improvvisa e spensierata. Per qualche secondo rimase profondamente offesa con quella donna, ma poi intercettò l’occhiata penetrante che gli occhi grigi le stavano lanciando.
Mamma non mi ha mai guardato con simile comprensione.
“Prima o poi – ammise con voce flebile – ma non ancora…”
“Sai, alla tua età io non vedevo l’ora di andare via da questo posto. Me lo sentivo stretto ogni giorno che passava, specie dal momento che vedevo Andrew andare all’Università e lasciarmi sola. Volevo andare ad East City, aprire una sartoria: nei miei sogni mi vedevo piena di lavoro e ricercata da persone importanti per i loro vestiti. Un atelier tutto mio, ti immagini”.
“Beh, poi è successo quel… quel fatto…”
“No, non fraintendermi, non parlo del mio incontro con Gregor e di quello che ne è conseguito. Quello che volevo dire è che i miei sogni ad occhi aperti erano bellissimi, ma ammetto che c’erano anche delle catene che mi tenevano in questo posto. Capisci? Lo sentivo stretto, eppure una parte di me sapeva che non avrei mai e poi mai avuto il coraggio di spiccare il volo, non da sola almeno… quello che è successo dopo, oh beh, la realtà ci ha pensato bene a farmi sbattere la faccia contro di sé”.
Riza come sempre rimase ammirata da quella donna che aveva saputo rialzarsi nonostante tutte le difficoltà che la vita le aveva procurato. Non aveva paura di parlarne, non ne provava vergogna: era come se fosse estremamente fiera di quello che era diventata e dunque non rinnegasse nessuna delle esperienze che avevano portato a quel risultato. Spinta da quell’ammirazione si decise a parlare.
“Ammetto che se Roy mi avesse proposto di andare via prima che io incontrassi Kain e la sua famiglia non ci avrei pensato molto a seguirlo…”
“Ne sei sicura? – strizzò l’occhio Laura – ricorda le catene di cui ti ho parlato: non sono solo le persone, ma anche il posto dove ci si trova”.
“Ohibò – arrossì la bionda, posando l’ago sul comodino – a metterla così non saprei dire. In fondo questo posto era un po’ un rifugio tranquillo, specie nei boschetti e nelle radure isolate. Però, ripensando a quanto ero sola in quella vecchia casa, non sarebbe stato così difficile come lo è adesso”.
“L’idea di lasciare Ellie ed Andrew ti spaventa molto”.
“Tanto. Loro mi hanno dato una sicurezza che mai avevo provato in vita mia, un concetto di famiglia del tutto diverso rispetto a quello che avevo persino quando era viva la mia vera madre. Mi pare così destabilizzante andare lontano da loro e da Kain… e anche egoista dopo tutto quello che hanno fatto per me in questi anni”.
“Ragazza mia, se ci basiamo su questi sensi di colpa allora nessun figlio si dovrebbe mai sposare o partire per realizzare i suoi progetti – sospirò Laura – Se un giorno Heymans si trasferisse in città per lavorare ne sarei estremamente fiera e felice per quanto mi farebbe molto male non averlo più qui accanto a me. Ma in fondo è parte dell’essere genitori, no? Un figlio prima o poi deve volare da solo”.
“E’ solo che il mondo mi pare così grande fuori dal paese – ammise infine Riza – e io qui ci sto così bene. Desidererei davvero che Roy restasse qui per sempre, con tutti i nostri amici e le nostre famiglie… eppure, dall’altra, desidero che realizzi il suo sogno di diventare soldato ed alchimista”.
“In tutto questo, signorina, c’è ancora una grande incognita: tu che cosa vuoi diventare? E non dirmi sarta: sarai brava a rammendare, ma non è la tua vera passione”.
“Ancora non lo so. E’ questo quello che mi dà maggiormente fastidio… tutti gli altri sì, mentre io ancora brancolo nel buio”.
“Oh, aspetta e vedrai – la rassicurò la donna, guardando con aria critica il modo in cui il drappeggio scendeva dal manichino – quando meno te lo aspetti arriva l’ispirazione giusta. Non tutti nascono con il talento già definito come tuo fratello che a sei anni già riparava radio”.
 
Quella chiacchierata con la signora Laura aveva fatto riflettere Riza più del previsto.
Quando prese congedo da lei qualche ora dopo si ripromise che prima o poi doveva parlare di questi suoi dubbi con sua madre e suo padre e, appena possibile, anche con Roy, sebbene in termini completamente diversi.
Notando che si trovava nelle vicinanze di casa di Rebecca decise di andare a vedere se era rientrata dalla giornata di lavoro all’emporio Havoc. Negli ultimi tempi si erano viste davvero poco e se potevano concedersi una passeggiata di qualche minuto nelle strade del paese le avrebbe fatto estremo piacere: l’esuberanza dell’amica l’avrebbe certamente tirata su di morale.
Proprio nel momento in cui alzò lo sguardo per vedere se la finestra del primo piano dove stava la sua camera era aperta, la porta della casa si aprì con violenza per far uscire una furentissima Rebecca.
“Reby?” chiamò Riza, osservandola percorrere a grandi passi il piccolo giardino. Solo alla fine notò che sulle spalle aveva un fagotto fatto da una coperta.
“Dove credi di andare, disgraziata! – una voce tremendamente acuta fece sussultare Riza e nella soglia apparve la madre di Rebecca, il viso livido e contratto per la rabbia – Non abbiamo ancora finito di parlare!”
“Per me è tutto finito! – sbottò la mora, girandosi di scatto verso la sua antagonista e battendo il piede a terra – e se per te le cose non vanno bene, allora tanti saluti. Io in questa casa non ci metterò mai più piede!”
“Lo vedi? Lo vedi che facevo bene a volerti lontano da quel buono a nulla di Jean Havoc! Da brava ragazza ti ha trasformato in una bugiarda poco di buono!”
“Poco di buono? – Rebecca lasciò cadere il suo fagotto a terra e raggiunse la madre, piazzandosi davanti a lei e gonfiando il petto in segno di sfida – Per tua informazione, se in questa casa non c’è un briciolo di possibilità di dialogo è solo colpa tua! Sei una dannata retrograda che non fa altro che reprimere la libertà di una persona… la mia in questo caso! Se io voglio lavorare all’emporio…”
“Da signorina!? – la donna annaspò con orrore – cielo, ma ti senti? Che mi vuoi diventare, una scaricatrice di porto? A quando sentirti dire che ti vuoi arruolare e diventare un soldato? Ma dove ho sbagliato con te?”
“Mamma sei folle!”
“No, tu lo sei. Adesso riprendi la tua roba e torna in camera tua!” ordinò Penelope Catalina, indicando con fermezza la porta ancora aperta.
“Se torno a casa allora torno anche a lavorare all’emporio”.
“Scordatelo! Non permetterò ad una ragazza di buona famiglia di…”
“Allora ti auguro una buona serata – salutò Rebecca, girandosi con rabbia e andando a recuperare il suo fagotto. Non si preoccupò nemmeno di salutare Riza, facendole solo cenno di seguirla – e comunque lo stufato che stavi preparando faceva davvero schifo! La signora Havoc lo fa cento volte meglio di te!”
“Ma come osi!? Rebecca! Rebecca Catalina! Torna immediatamente qui, non farmi arrabbiare davvero o quando torna tuo padre…!”
“Ma finiscila…” sibilò.
“Ehm – Riza osò intromettersi – ma… ma quindi te ne vai di casa?”
“Non si capisce?” chiese sarcastica la mora mentre gli improperi della signora Catalina continuavano a farsi sentire, senza che però la donna accennasse a muoversi dal piccolo cortile della casa.
Riza quasi si fermò sul sentiero.
Era chiaro che la famosa copertura di Rebecca era saltata e che dunque la verità era venuta a galla. Del resto c’era d’aspettarsi che la commedia non sarebbe potuta durare per molto tempo.
Cielo, vuole andare a stare con Jean? A casa sua? – arrossì a quel pensiero. C’erano cose che andavano davvero troppo oltre il seminato.
“Non mi dire che vai da quella famiglia di gente malfamata!” strillò ancora la madre.
“Tanto per informarti – strillò Rebecca in tono ancora più alto – sto andando a stare da Riza, hai capito? E da domani io torno a lavoro lì, chiaro?”
“Da me?” annaspò Riza, impazzendo all’idea di tornare a casa con quell’ospite inatteso.
“E da chi altri?” mise il broncio Rebecca.
 
“Voi non permetterete che io torni in quella casa che soffoca il progresso e l’amore, vero signori Fury?”
Rebecca si mise a mani giunte in segno di preghiera, tanto che Riza si sentì in imbarazzo per lei e lanciò un’occhiata supplichevole ai suoi genitori, quasi a dire che lei non c’entrava niente in tutta quella storia.
Il concetto era più o meno quello del mi ha seguito fino a casa, possiamo tenerla?
Andrew ed Ellie si squadrarono con perplessità per qualche secondo, prima che lui parlasse.
“Vieni, cara, andiamo a parlarne qualche secondo nel mio studio. Riza, vieni anche tu… Kain, resta a fare compagnia a Rebecca”.
“Io? – arrossì il ragazzo – Va… va bene”.
Andrew si sentì un po’ dispiaciuto nel lasciare il figlio con Rebecca in versione tra l’infuriato e il disperato, ma urgeva un consulto con le altre due donne di casa.
“Oh, papà mamma… vi chiedo umilmente scusa! – sospirò Riza come la porta si chiuse alle loro spalle – ma non potevo lasciarla sola per la notte. Sarebbe stata capacissima di accamparsi da qualche parte in campagna, me lo sento… o ancora peggio di andare da Jean”.
“Gli Havoc ancora non sanno di quanto è accaduto, vero? – chiese Andrew – Ma presumo che tu sapessi della recita che la tua amica stava recitando, no?”
“Non nei dettagli – arrossì colpevolmente la ragazza – non ci vediamo da una decina di giorni e pensavo che ormai avesse risolto la questione. Mi dispiace di non avervelo detto”.
“Oh beh, del resto non sono più bambini – commentò Ellie – e da una parte capisco Rebecca, anche se tutte quelle bugie… avrebbe dovuto parlarne con i suoi genitori”.
“E’ che la madre di Rebecca è così… così… all’antica…”
… e di certo le manda a dire…
“E’ comunque sua madre. Da genitori la cosa migliore da fare sarebbe riaccompagnarla a casa – sospirò Andrew, passandosi una mano tra i capelli – però credo di capire che se facciamo una cosa simile lei scappa dalla finestra non appena si chiude la porta, vero?”
“Non è escluso – annuì Riza – ecco… almeno per stanotte? Può dormire con me e magari domani le acque si sono calmate”.
“O diciamo che saranno più agitate non appena anche gli Havoc verranno a sapere della cosa – propose Ellie – però, è anche vero che ormai l’ora è tarda e ad uscire fa davvero freddo”.
“Va bene – sospirò Andrew – vai pure a dire alla tua amica che può dormire con te stanotte. Ma solo stanotte”.
“Grazie, papà – Riza lo abbracciò con fervore – non sai quanto sono desolata per questo disastro. Adesso vado a salvare Kain prima che Rebecca abbia un’altra crisi di pianto e lo inondi di lacrime”.
Rimasti soli i due adulti si guardarono con rassegnazione e poi Ellie si lasciò andare ad una risatina e abbracciò con dolcezza il marito.
“Ah, l’amore! – disse – Mi ricordo che quando non avevo ancora quindici anni mentì per svariato tempo ai miei sul fatto che andavo a prenderti alla stazione ogni volta che tornavi dall’Università”.
“E ricordi anche che finisti in punizione e dovetti affrontare le ire di tuo padre?” Andrew mise il broncio al ricordo del suo primo approccio con Nicholas Lyod.
“Io ricordo solo che ero felicissima perché eri venuto a salvarmi, proprio come un principe azzurro”.
“E che ne dici della nostra nuova principessa dai capelli neri?”
“Direi che non ha per niente bisogno di essere salvata – ridacchiò Ellie – anzi, mi sa che sono gli altri a dover esser salvati da lei. Vado a controllare se nella stanza di Riza c’è bisogno di un cuscino in più”.









 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 8. Una ragazza scappata di casa ***


 

Capitolo 8. Una ragazza scappata di casa

 


 
Una ragazza scappata di casa.
Era un qualcosa che faceva davvero scalpore in quel piccolo paese dove gesti di sfida così temerari erano veramente rari. In questi casi si tendeva a seguire il saggio consiglio di lavare i panni sporchi in casa, ma sia Rebecca che la madre non avevano tra le loro doti delle tonalità di voce discrete e basse e così il loro litigio era stato sentito dalla maggior parte delle persone che abitavano lì vicino.
Di conseguenza già il giorno dopo tutto il paese mormorava della ragazza che era andata via di casa. E ovviamente più si mormorava più la storia si ingrandiva con dettagli che non avevano alcun fondamento: alcuni dicevano che stava dai Fury, altri dicevano dagli Havoc; c’era chi sosteneva che era stata cacciata e chi diceva che si era allontanata da sola; le motivazioni poi erano delle più disparate: dal fatto che fosse incinta, ad un matrimonio segreto, a questioni economiche o di vecchi rancori tra le due.
“Conoscendo quella gente immagino che staranno tessendo storie degne dei peggiori romanzi – sbottò Rebecca mentre faceva colazione a casa dei Fury – beh, tutto sommato non sono nemmeno troppo dispiaciuta che mia madre si trovi in mezzo a tanti pettegolezzi”.
“Non è molto bello parlare così, è pur sempre tua madre” le ricordò Ellie.
“Però ha seminato un sacco di zizzania con le sue chiacchiere – scrollò le spalle la mora – alle medie mi ha fatto una testa così quando le dissi che ero amica di Riza. Per non parlare poi di tutto quello che ha detto sulla signora Laura quando è successa quella brutta storia. Ci sono momenti in cui la detesto”.
Ellie lanciò un’occhiata in tralice ad Andrew e poi a Riza chiedendo il loro aiuto: la descrizione che aveva appena ricevuto di quella donna che conosceva praticamente solo di vista non le era piaciuta per niente. Tuttavia non le sembrava giusto che una figlia mancasse di rispetto in questo modo alla propria madre.
“Reby, dovresti pensare anche a tuo padre e a tua sorella – intervenne Riza – loro saranno sinceramente preoccupati per te. Perché non provi a parlare con loro prima di affrontare tua madre?”
“O me o lei in quella casa – scosse il capo con testardaggine – io non ci voglio più parlare”.
“Ma è anche vero che le hai mentito per tutti questi mesi: una minima ragione di essere arrabbiata ce l’ha. Secondo me se provate a spiegarvi…”
“Dico, Riza Hawkeye, hai totalmente rimosso i pochi incontri che hai avuto con lei? Ti pare una con cui si possa ragionare? No! Proprio no! Lei ritiene che una donna non debba lavorare ma aspettare che il fidanzato la sposi e non cambierà idea. Beh, c’è mia sorella Polly per questo. Io ho intenzione di andare a lavorare all’emporio anche oggi. Anzi, vi prego di scusarmi che si sta facendo tardi. Grazie per la colazione – disse, prendendo le sue stoviglie e portandole nel lavandino – era tutto molto buono. Vi posso chiedere la cortesia di tenere i miei bagagli in casa almeno per oggi?”
“Va bene – concesse Andrew – però promettimi che almeno ne parlerai con gli Havoc”.
“Beh, non ho dubbi che la notizia sarà arrivata sino a lì – questo pensiero fece fermare la giovane nel mezzo della cucina. Per qualche secondo la sua espressione decisa lasciò il posto ad un’aria triste e preoccupata - spero che questo non gli abbia causato troppi problemi”.
“Vuoi che ti accompagni?” chiese prontamente Riza, alzandosi in piedi.
“No, grazie. E’ la mia battaglia e la combatterò da sola. Arrivederci a tutti”.
Dopo che sentirono la porta chiudersi, i quattro componenti della famiglia si guardarono a turno per una decina di secondi, chiedendosi come si potesse commentare un fatto simile. Tutti avevano una grande simpatia per Rebecca, sebbene la trovassero spesso un po’ troppo esuberante, e capivano abbastanza bene il suo desiderio di lavorare. Tuttavia non era mai bello affrontare situazioni di rotture familiari simili.
“Credete che si risolverà?” chiese Kain, spezzando quel silenzio e grattando la testa di Hayate che si era messo a due zampe accanto a lui per ricevere attenzioni.
“Non ne ho la minima idea – rispose in tutta sincerità Andrew – è un rompicapo bello grosso e non so come gli Havoc prenderanno questa menzogna. Non è stato molto onesto il comportamento che Rebecca ha tenuto con loro per tutto questo tempo. Se dicessero di non volerla più non potrei biasimarli”.
“Oh no, non lo farebbero mai” supplicò Riza, sinceramente preoccupata per tutti i nodi che ora sarebbero irrimediabilmente venuti al pettine.
“Ringrazia solo che tu sei coinvolta solo marginalmente in questa storia – le ricordò il padre – hai tenuto il suo segreto nascosto anche a chi avrebbe avuto il diritto di saperlo. Hai diciotto anni e non più tredici”.
“Però se l’avesse detto agli Havoc Rebecca si sarebbe sentita tradita – disse subito Kain, proteggendo la sorella – e magari avrebbe rotto la loro amicizia. E poi prima o poi l’avrebbe detto ai signori Havoc, no?”
“Riza me ne ha parlato sin da principio della questione – intervenne Ellie – e pure io non ho dato troppo peso alla cosa, nemmeno le volte che ho incontrato Angela o James. Se non fosse stato per la fuga di ieri in questa famiglia non ci sarebbe niente da rimproverare a nessuno, caro”.
Andrew guardò prima il viso tranquillo della moglie e poi quello mortificato della figlia adottiva. Era vero: era da sciocchi prendersela con Riza che, tutto sommato, si era tenuta diligentemente fuori dalla faccenda, pur mantenendo fede al suo stretto legame con Rebecca.
E’ che di problemi tra madri e figlie ho pessimi ricordi.
Ed il bigottismo della madre di Rebecca in parte le ricordava quello della madre di Laura che, se non fosse stato per l’altro figlio, Henry, non ci avrebbe pensato due volte a cacciare la ragazza di casa quando era rimasta incinta. Per questo avrebbe tanto desiderato che quella storia non sfiorasse minimamente la sua famiglia: uno strano istinto di protezione si era impossessato di lui, quasi volesse tutelare Ellie ed i suoi figli da qualsiasi pericolo di questo tipo… se si poteva definirlo pericolo.
“Io vado a scuola – annunciò Kain – non voglio far aspettare Janet al bivio. Vedrete che si risolverà tutto”.
E quasi a voler rassicurare madre e sorella, andò ad abbracciarle a turno, baciandole sulle guance.
“Ma sì, ragazzo mio – annuì Andrew, stringendogli il braccio con affetto quando passò accanto a lui – sicuramente hai ragione tu”.
 
“Vedrai che si risolverà tutto? Dopo quello che mi hai appena detto? Reby tu sei tutta scema!”
Jean girò le spalle alla fidanzata e diede un irritato calcio contro il muro, facendo oscillare un ripiano che stava proprio sopra di loro. Si frugò nelle tasche con impazienza e tirò fuori un pacchetto di sigarette e quello dei fiammiferi, accendendosene una con nervosismo.
L’aveva sempre saputo che prima o poi quella folle commedia li avrebbe cacciati in guai seri, ma come uno stupido aveva continuato a fare il gioco di Rebecca. E adesso il loro castello era in fase di crollo e loro erano proprio sotto di esso, pronti ad essere travolti come due ebeti.
“E’ stata tutta colpa di una vicina che è venuta all’emporio e ha visto tua madre che stava benone. Accidenti a lei! Proprio quando avevo intenzione di passare alla seconda fase del piano e di dire che i tuoi mi avevano proposto di lavorare qui: sono stata preceduta di solo qualche giorno”.
Jean osservò la ragazza con fare incredulo, non riuscendo a credere che ancora in quel momento pensasse che tutto sommato il suo era un buon piano e che fosse andato in malora solo per un imprevisto.
“E ora che dirai ai miei? Non saranno per niente felici di sapere che hai mentito loro per tutto questo tempo. Diamine, Reby, si fidavano di te”.
“Ehi, io ho lavorato con sincera passione per tutto questo tempo. Non ho recato alcun danno all’emporio”.
“No? Aspetta solo che tua madre inizi a sbraitare all’intero paese quanto è successo… con la sua versione dei fatti, è ovvio! Credi che non sappia che darà tutta la colpa a me? Aspetta com’è che mi chiama? Il poco di buono!”
“Poco di buono? – chiese Angela entrando nel magazzino, ancora ignara del disastro che era successo – Chi è che ti chiama in questo modo?”
Fortunatamente la donna era impegnata a controllare alcuni fogli e non guardò direttamente il figlio maggiore che, con mossa rapida, gettò la sigaretta a terra e la pestò per poi calciarla rapidamente dietro un barile.
“La madre di Rebecca” rispose quindi Jean, accennando col mento alla fidanzata e mettendosi a braccia conserte con aria seccata. Fece un cenno col mento quasi ad incitarla a parlare, ma la ragazza lo gratificò con un’occhiata di supplica, quasi ad aiutarla.
Ah, e ora toccherebbe a me tirarti fuori dai guai?
“Che cosa hai combinato per meritarti un titolo simile? – adesso Angela gli aveva rivolto tutta la sua attenzione – non mi piace per nulla che mio figlio venga chiamato così da una donna come lei. Scusa, cara, con tutto il rispetto”.
“No no, faccia pure…” scrollò le spalle Rebecca, quasi felice che la discussione fosse andata a finire in altri lidi piuttosto che sull’argomento scottante. Come se quel procrastinare potesse durare per sempre.
“Io niente” rispose con aria significativa Jean.
“Smettila!” sibilò Rebecca
“Diglielo, scema!” le fece di rimando il fidanzato con lo stesso tono di voce.
“Vuoi stare zitto?”
“Ehi, ragazzi – li bloccò Angela – mi volete spiegare cosa sta succedendo oppure volete continuare a litigare come se io non fossi presente?”
“Ecco io…” iniziò Rebecca.
“Angela, Jean, Rebecca! – chiamò dall’emporio la voce di James – potete venire qui? C’è il capitano Falman che vorrebbe parlare a tutti noi!”
“Oh merda!” sbottò Jean.
“Il capitano Falman a quest’ora? – chiese Angela, avviandosi – che cosa potrà mai esser successo di così grave. Forza, ragazzi, i litigi a dopo”.
“Quella pazza di tua madre ha messo in mezzo anche la polizia!” gemette il giovane come rimasero soli.
“Non pensavo arrivasse a tanto” ammise Rebecca.
 
Il capitano Falman durante la sua carriera a New Optain aveva avuto a che fare con diversi personaggi particolari, non sempre criminali. Era arrivato alla convinzione che qualche volta l’onesto cittadino era più difficile da affrontare rispetto a un malintenzionato armato di pistola: non c’erano possibilità di ammanettarlo, di zittirlo o quanto altro… dovevi venire a patti  con lui, cercare di fargli capire come funzionavano le leggi e che tutto non ruotava attorno alla sua persona.
Da quando era arrivato in paese questa tipologia di guai non si era più presentata e le poche volte che era stato costretto ad agire contro dei cittadini tutto sommato onesti era stato quando per qualche motivo si era passati a toni un po’ troppo forti. In ogni caso era ormai giunto alla conclusione che gli abitanti del paese fossero portati per natura al buonsenso e dunque bastasse solo farli calmare per arrivare ben presto alla canonica stretta di mano.
Ma sembrava che ci fossero le non proprio lodevoli eccezioni anche in quel piccolo angolo di mondo e ne aveva avuto la prova quella mattina quando, appena uscito di casa, si era trovato davanti la madre di Rebecca.
Vincent non aveva un grande rapporto con il gentil sesso in generale. Amava profondamente sua moglie e considerava ottime amiche per entrambi alcune donne del paese come la signora Laura, la moglie di Andrew e quella di James. Voleva molto bene ad Elisa e la considerava la ragazza perfetta per Vato ed era sicuro che anche Riza, Rebecca e Janet fossero sulla strada per diventare splendide donne. Ed inoltre riteneva che Madame Christmas fosse una persona di cui fidarsi a prescindere dall’attività che svolgeva e cercava di tutelare come poteva lei e le sue ragazze del locale particolare del paese.
Ma quando si usciva fuori da questo piccolo seminato, Vincent Falman tornava ad essere quel poliziotto particolarmente rigido che non sapeva bene come gestire le oneste cittadine, specie quelle in chiara preda ad una crisi di nervi.
“Hanno traviato la mia bambina ed ora la stanno portando fuori dalla retta via! Me l’hanno praticamente rapita! Capitano, lei che rappresenta la legge deve fare qualcosa!”
Era questa la frase con cui la donna, al limite delle lacrime, l’aveva afferrato per un braccio. I successivi venti minuti, durante i quali era riuscito ad arrivare finalmente in ufficio e smettere di dare spettacolo in mezzo alla strada, erano stati un vero e proprio delirio durante il quale erano state formulate fumose e astruse accuse contro persone che conosceva bene.
“E quella Riza Hawkeye? Cielo è praticamente complice di rapimento dato che l’ha portata a stare a casa dei Fury… mio dio, ma perché delle persone così perbene ha preso con sé una ragazza di così dubbia famiglia, con quel padre che si ritrova?”
“Ma sua figlia non è andata via di casa di sua spont…”
“Oh! Crede che non conosca la mia bambina? Non avrebbe mai fatto una cosa del genere alla sua povera madre se non ci fosse stata indotta da cattive influenze!”
“Mi sembra che Rebecca sia maggiorenne…”
“Diciotto anni! E’ ancora una bambina!”
“Per la legg…”
“Deve andare a salvarla, capitano! Già tutto il paese ne parla, la sua vita e quella della mia famiglia sarà per sempre sconvolta se non si pone fine a tutto questo. La prego la salvi!”
Salvarla…
Vedendo Rebecca che compariva dal magazzino insieme a Jean e ad Angela, Vincent pensò che quella ragazza voleva voler esser tutto meno che salvata e riportata dalla madre. Del resto si era fatto un quadro abbastanza preciso della situazione ed era arrivato alla conclusione che tutto sommato Rebecca aveva la sua comprensione per essere andata via dalle grinfie di quella donna rumorosa, isterica e pettegola che, durante il suo resoconto, era riuscita a criticare praticamente tutte le persone che lui considerava suoi amici.
“Vuoi dirlo tu o lo dico io, signorina?” chiese comunque a Rebecca, intuendo che gli Havoc fossero in parte all’oscuro di quanto era successo.
“Mia madre?”
“Non ci voleva molto a capirlo. Mi ha fatto venire qui con strane accuse di rapimento, circonvenzione d’incapace o qualcosa di simile, almeno secondo lei… ha fatto un minestrone di codice penale che nemmeno ti immagini”
“Rapimento e circoche…?” chiese James, perplesso da quanto stava accadendo.
“Ha qualcosa a che vedere con quel poco di buono che ho sentito prima?” chiese Angela rivolgendosi ai due giovani con aria sospetta.
Rebecca a quel punto lanciò un’occhiata disperata al fidanzato e al capitano di polizia e poi svuotò il sacco.
“Ecco, diciamo che mia madre e la mia famiglia non erano consapevoli che io lavorassi qui – ammise – avevo detto solo che venivo ad aiutare perché lei, signora, non si sentiva molto bene”.
“Che cosa?”
“Oh, cazzo…” sbuffò James, passandosi una mano tra i corti capelli biondi.
“E’ perché quella bigotta non voleva che io lavorassi! – spiegò con frustrazione la mora – ritiene che una ragazza debba aspettare il matrimonio senza fare niente. Trova che il lavoro per una donna sia degradante”.
“Mi ha sempre fatto specie di come riuscisse a criticare le persone con semplici affermazioni generalistiche…” commentò Angela, sbuffando e sollevando in questo modo uno dei ciuffi castano chiari della sua frangetta.
“Quindi non sapeva che eri qui a lavorare?” chiese invece James.
“No… cioè sì… pensava che fossi qui per aiutare e non che mi pagaste – si impanicò Rebecca – le volevo spiegare la situazione in questi giorni, ma una vicina di casa è arrivata prima di me e ha raccontato tutto quanto. Così ieri abbiamo litigato e io sono andata via di casa: stanotte ho dormito da Riza”.
“Vorrei specificare che anche i Fury sono stati accusati come complici di questo fantomatico rapimento” commentò Vincent, sentendosi in parte umiliato come poliziotto per esser stato chiamato a risolvere quello che era un semplice litigio tra madre e figlia.
“Dannazione, ragazza – disse James – perché non ci hai detto subito come stavano le cose?”
“Perché ho diciotto anni e le mie scelte le faccio da sola!” si difese Rebecca, trovando un minimo della sua faccia tosta davanti a quell’accusa diretta.
“Sì, ma potevi anche pensarci che tua madre se la sarebbe presa un minimo nel momento in cui sarebbe venuta a scoprire tutto quanto!”
“Non la deve riguardare quello che faccio! Insomma, signori Havoc… io volevo solo lavorare per stare vicino a Jean e per sentirmi utile. Non mi andava assolutamente di stare a casa a rigirarmi i pollici come una stupida in attesa di un matrimonio”.
“Che di certo non sarà a breve” commentò Jean con enfasi.
“Zitto, tu, stupido! – lo bloccò Angela – Cara ragazza, ma perché non ci hai spiegato subito come stavano le cose? Avremmo potuto parlare con tua madre e convincerla che non c’era nulla di male nel fatto che lavorassi qui”.
“Convincere mia madre?”
“Mi pare impossibile” commentò sarcasticamente Vincent che ormai si era convinto che domare Roy Mustang con la sua moto fosse una missione molto più semplice.
“Hai preso tutto da lei…” disse Jean.
“Ehi, tu mi hai retto il gioco per tutto questo tempo!”
“Cosa? Jean Havoc, tra tutte le cose più idiote che potessi fare…” iniziò James.
“Ma che ti è saltato in mente di non dirci niente da principio?
“Aspettate due secondi! Com’è che con lei siete tutti comprensivi mentre con me, che a mio vedere sono più vittima che complice, trattare come il peggior criminale?”
Mentre scoppiava il putiferio nell’emporio, Vincent alzò gli occhi al cielo.
Sarà una mattinata molto lunga…
 
“Vedrete che si risolverà tutto”.
Kain l’aveva detto con un ottimismo tale che Andrew era stato indotto a credergli.
Tuttavia si era ampiamente riveduto quando, arrivato in paese per sbrigare alcune commissioni si era ritrovato faccia a faccia con la madre di Rebecca. Ora, lui era una persona educata e sapeva che con le donne andava mantenuta una particolare formalità, specie per quelle con le quali non si aveva confidenza. Ma Penelope Catalina apparteneva a quella categoria che lui preferiva non frequentare per paura di arrivare in fretta a disprezzare. Si conosceva abbastanza per sapere che tendeva a classificare le persone senza dare loro molta possibilità di redenzione: gli era successo con i genitori di Laura e con Gregor… pessimi li aveva ritenuti e non aveva cambiato mai idea, anche perché i fatti gli avevano dato completamente ragione.
Ora con la madre di Rebecca si stava presentando un caso simile: in primis sapeva benissimo che era una delle acerrime detrattrici di Laura e già questo bastava per rendergliela odiosa, ma c’era anche tutto il suo atteggiamento in generale a dargli fastidio. Quell’aria di supponenza, di superiorità… delle maniere per niente eleganti che invece pretendevano di essere tali. E soprattutto quella voce.
Irritante…
Per far arrivare a simili pensieri una persona calma ed educata come Andrew Fury ci voleva davvero molto.
“… e quella ragazza? Santo cielo, come ha potuto permettere che mia figlia dormisse da voi? Me la doveva riportare a casa invece di dar retta a quell’altra”.
“Quell’altra è mia figlia – specificò Andrew con calma – la prego di moderare i termini, signora Catalina. Quanto al fatto che Rebecca abbia dormito da noi, è stato solo perché ormai era tardi e non ci sembrava proprio il caso di farla tornare a casa da sola e al buio”.
“E non ha pensato alla mia angoscia?”
Più che altro all’angoscia di tutti quanti noi – pensò Andrew, non sapendo cosa rispondere a quelle accuse che non stavano né in cielo né in terra.
“Spero che il capitano Falman me la riporti sana e salva!”
“Il capitano Falman? – Andrew la guardò incredulo – Mi sta dicendo che ha messo in mezzo il capitano di polizia per questa storia assurda?”
Si pentì amaramente per quelle parole che gli erano uscite senza che se ne rendesse conto. Tuttavia la situazione era così surreale che non riuscì a mantenere il suo solito contegno. Ma la conseguenza immediata fu vedere quel viso, molto simile a quello della figlia, assumere un’espressione indignata ed ostile, mentre la mascella si irrigidiva pericolosamente e gli occhi lo fissavano con disprezzo.
“Il benessere di Rebecca le pare una cosa assurda? – chiese con voce gelida – Ma come si può definire padre, me lo spiega?”
“Signora, ascolti – cercò di rimediare Andrew – perché non ragiona un secondo? Ormai i tempi sono cambiati, non c’è nulla di male se le ragazze lavorano… e mi pare che Rebecca abbia scelto volontariamente di lavorare dagli Havoc”.
“Santo cielo, ma quindi lei è uno di quelli che approvano questa pratica oscena e degradante?”
“Cosa c’è di osceno e degradante, me lo spieghi?”
“Il mondo sta proprio impazzendo… ma del resto i segnali c’erano tutti. Ci sono sempre stati! A partire da chi sappiamo bene noi”.
“Signora, la prego di non andare avanti con questo discorso – scosse leggermente il capo Andrew, facendosi pericolosamente serio – lo sta facendo con la persona sbagliata”.
“Quella donna ha coperto di disonore la sua famiglia – continuò Penelope con stizza – e sa benissimo che quei poveri Hevans non hanno messo naso fuori casa dal fattaccio. Vede a che disastri può portare una ragazza che non sa stare sulla retta via?”
“Intanto c’è di sicuro qualcosa che non va nel rapporto con sua figlia se decide addirittura di andare via da casa – sibilò Andrew – quindi si ponga qualche domanda su se stessa, signora. Adesso mi scusi, ma ho delle commissioni da sbrigare”.
Girò sui tacchi e si avviò per le strade, senza nemmeno una meta precisa, mentre le fantomatiche commissioni erano completamente sparite dalla sua mente. Avrebbe voluto sputare molto più veleno su quella donna, ma poi si disse che non ne valeva la pena e che non era quello che Laura avrebbe voluto.
A conti fatti ora provava una maligna soddisfazione nel non aver riportato Rebecca a casa la sera prima.
“Signor Fury, va tutto bene?”
“Oh, ciao Elisa – salutò, riuscendo a sorridere alla ragazza – sì, va tutto bene”.
“Sul serio? Ha una faccia… come se avesse un tremendo mal di testa”.
“Mal di testa… sì, potrebbe essere quello. Negli ultimi tempi ho avuto a che fare con cose parecchio stressanti e forse ne risento”.
“Se vuole le do qualche pillola per dormire meglio la notte – si offrì prontamente lei – non ha idea di quanto un sonno rilassato possa aiutare a far sparire questi malesseri”.
Andrew fissò quel viso fiducioso per qualche secondo.
Gli piaceva Elisa nelle vesti di dottoressa: era spontanea, gentile, ispirava fiducia. Sapeva che c’era una generale diffidenza nei suoi confronti e immaginava che fossero ben poche le persone che accettassero di farsi visitare da lei.
Beh, tra mio suocero che deve tornare a breve e la storia di Rebecca…
“Se non è niente di pesante accetto volentieri”.
“Non si può nemmeno definire medicinale da quanto è leggero – garantì la giovane, incitandolo a seguirla verso lo studio del medico – però è miracoloso. Sa, sono tutte erbe di mia madre, quindi garantite”.
“Diversa gente qui avrebbe bisogno di un calmante – mormorò l’uomo, lanciando un’occhiataccia al punto dove prima stava la donna – diversa gente…”
 
Quella sera Andrew fu veramente lieto delle pillole che Elisa gli aveva procurato.
Si trovò infatti con un desolato capitano Falman a casa sua che teneva una mano sulla spalla di una seccata Rebecca, mentre accanto a loro stava un altrettanto seccato Jean.
“Lo so che quello che sto per chiederti è… – Vincent cercò le parole giuste – oneroso per tutta una serie di motivi che puoi ben immaginare. Ma… posso chiederti di ospitare la signorina da te fino a quando le acque non si calmano?”
“Cosa?”
“Cielo, è successo qualcosa di grave?” chiese Ellie.
“Se si riferisce al fatto che questa scema ha anche spifferato ai miei che fumo…” sbuffò Jean.
“Cretino!”
“Ecco – continuò il capitano, zittendoli entrambi con un’occhiataccia – lei è maggiorenne e ha tutto il diritto di stare dove ritiene giusto. Tuttavia… gli Havoc non si possono compromettere troppo ospitandola da loro dato che questi due non sono sposati. E almeno finché non si calmano le acque…”
“Acque parecchio agitate dato che la signora Catalina stamane me ne ha dette svariate” commentò pacatamente Andrew.
“Cosa? – sbiancò Rebecca – signore, le chiedo scusa…”
“…Riza tornerà tra poco, ma non credo che farà problemi a prestarti un cassetto per le tue cose”.
“Sul serio per lei va bene?”
“Per ora non vedo altra soluzione – sospirò l’ingegnere – per me e mia moglie non c’è problema”.
“Assolutamente no – sorrise Ellie, porgendo una mano a Rebecca per invitarla ad andare con lei di sopra – vieni, cara, andiamo a sistemare la tua roba. Ed intanto raccontami pure come sono andate le cose: dopo ci facciamo una bella cioccolata calda”.
“Grazie – biascicò Jean, mettendosi le mani in tasca e assumendo un broncio simile a quello del ragazzino strafottente che era stato fino a pochi anni prima – e scusate il disturbo”.
“E i tuoi?”
“I miei? Beh, pare che la cosa più grave a casa sia che io abbia retto il gioco a quella scema e che fumi!”
“E’ stata una giornata impegnativa” commentò Vincent.
“E non immagino i giorni a venire…”






 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 9. Echi del passato ***


 

Capitolo 9. Echi del passato

 


 
Dopo quella giornata che aveva scosso così tanto la tranquilla operosità del paese, la situazione parve cristallizzarsi. La madre di Rebecca si chiuse in casa in un ostinato e disperato ritiro, accogliendo tuttavia le vicine e chiunque volesse passare e commiserando la sua penosa situazione di madre a cui era stata traviata la povera figlia innocente. Questo fece sì che, con parecchia rapidità, buona parte del paese si schierasse con lei, o almeno solidarizzasse: per queste persone era Rebecca ad aver sbagliato, spinta da cattive compagnie, e tutti si auguravano che prima o poi la ragazza capisse il suo errore e tornasse a casa.
Un’altra parte del paese invece preferì non schierarsi apertamente con la signora Catalina: persone che conoscevano bene sia i Fury che gli Havoc e dunque sapevano che era impossibile considerarli come persone poco di buono, ma anche chi aveva sempre ritenuto la madre di Rebecca una donna troppo pettegola e maligna. Questi ultimi, ovviamente, pensavano ad una maliziosa legge del contrappasso per tutta la zizzania che era stata spesso seminata da quella donna, ma nonostante tutto niente veniva detto apertamente e si aspettava che la situazione si evolvesse in qualche modo.
Di conseguenza l’atmosfera di attesa per la festa del primo dicembre non era minimamente guastata e le vie del paese continuavano a brulicare di persone che si affaccendavano con vivacità per negozi.
I diretti interessati non se la passavano altrettanto bene.
Dopo qualche ripensamento si era deciso che almeno per qualche giorno Rebecca evitasse di andare a lavorare all’emporio, facendola restare a casa dei Fury. L’esplosione del dramma era troppo fresca e si temeva che qualcuno schierato con la signora Catalina potesse tentare qualche rappresaglia, andando così a disturbare la normale attività degli Havoc. E così la ragazza era costretta a quella strana prigionia, accontentandosi di aiutare in casa la signora Fury e concedendosi solo ogni tanto delle passeggiate nel vicino boschetto, una vera e propria tortura per una con la sua vitalità. Ma per una volta tanto aveva promesso di eseguire gli ordini.
Jean in tutto questo non se la passava molto bene. Anche lui come Rebecca aveva subito uno strano esilio in quanto i genitori gli avevano proibito di stare al bancone per evitare contatti pericolosi: poteva lavorare solo in magazzino ed era altrettanto saggio che non si facesse vedere in paese.
Il giovane Havoc aveva accolto di malagrazia questa decisione, borbottando qualcosa sul fatto di essere la vera vittima di tutta quella storia. In realtà era furente soprattutto con Rebecca e con se stesso per non essere stato capace di liberarsi da quella pericolosa ragnatela quando tutto era iniziato: l’aveva sempre saputo che sarebbe finito nei guai, eppure non aveva fatto niente. Si era fidato di lei, arrendendosi ancora una volta ai suoi capricci, pur sapendo che era tutto sbagliato.
“Un perfetto imbecille come al solito…” sbuffò due giorni dopo il fattaccio, finendo di sistemare alcuni sacchi di farina. Osservò il suo operato con un broncio insoddisfatto e poi si frugò nelle tasche per tirare fuori il pacchetto di sigarette. Quella era un’altra bella rogna: da quando i suoi avevano scoperto che fumava, sua madre non gli lasciava un attimo di tregua con i suoi rimproveri.
“Se la mamma ti vede sei di nuovo nei guai” disse Janet, entrando nel magazzino e mettendosi a frugare nello scaffale dove stavano i canditi.
“Allora vedi ti tenere la bocca chiusa. Che cerchi?”
“Le ciliegie sciroppate – spiegò la ragazzina, allungandosi in punta di piedi per prendere il vasetto in uno degli scaffali più alti. Ancora qualche anno e ci sarebbe arrivata senza alcun problema, segno di quanto in lei scorressero i geni degli Havoc – devo aiutare la mamma con il dolce che domani voglio portare a scuola. Ho promesso a Kain di farglielo assaggiare. Sai, ieri mi è sembrato un po’ preoccupato per quello che sta succedendo… anche a scuola se ne parla molto”.
“E che si dice?” chiese Jean con malcelata curiosità, memore delle grandi capacità di pettegolezzo della popolazione scolastica del paese.
“Le ragazze parlano di una fuga d’amore, trovano la cosa molto romantica. Quando ho spiegato loro che Rebecca mica sta da noi ci sono rimaste molto male”.
“Galline…”
“Perché non sei davvero fuggito con lei? – chiese la ragazzina, puntando sul fratello i suoi curiosi e penetranti occhi azzurri – In genere nelle storie dopo che si fugge si risolve sempre tutto e gli innamorati si sposano, no?”
“A undici anni credi ancora nelle favole?”
“No, perché nelle favole i due innamorati non fanno le cose che facevate voi in magazzino – sorrise maliziosa Janet – credo che sia quella cosa che le ragazzine più grandi chiamano sesso, vero? Di sicuro non erano solo i semplici baci che…”
Avrebbe certamente continuato, ma il fratello le fu addosso e le tappò la bocca con aria minacciosa e allo stesso tempo preoccupata. Non aveva la minima idea che quella piccola pettegola di sua sorella li avesse visti mentre si rotolavano tra i sacchi di farina.
“Da quando lo sai?” sibilò, liberandole appena la bocca.
“Dall’anno scorso – sibilò lei, col medesimo tono di voce, socchiudendo gli occhi con fare minaccioso – e non mi tappare mai più la bocca così, stupido fratellone!”
“Non l’avrai detto a qualcuno, vero?”
“No, non mi pare – rispose evasivamente Janet, guardandosi attorno con noncuranza – non a mamma e papà, questo è sicuro”.
“Allora continua su questa linea e andrà tutto bene”.
“E cosa ci guadagno? – gli occhi azzurri si accesero di malizia mentre un sorrisino illuminava il visino di anno in anno più simile a quello della madre – Il silenzio costa”.
“Questo è un ricatto! Piccola peste, sono tuo fratello!”
“Voglio la tua parte di dolce per tre mesi – continuò impietosa la ragazzina – e mi sento anche generosa!”
“Carogna! Affare fatto!”
“Grazie, fratellone – Janet lo abbracciò con entusiasmo, come se quella conquista fosse semplice frutto di amore fraterno e non di minaccia – comunque spero davvero che Rebecca torni a lavorare qui. Mi stava simpatica e poi anche se facevi finta di essere sempre seccato, credo che tu fossi felice quando stava assieme a te, no?”
“Felice! – borbottò Jean, liberandosi da quella stretta e facendo attenzione a non bruciare il braccio della sorella con la sigaretta – Come potevo essere felice di una continua fonte di noia e guai?”
“Mah, in fondo è la tua fidanzata, no? Beh, io ora vado, la mamma mi aspetta per il dolce!”
Dopo aver osservato la ragazzina uscire, Jean diede un altro lungo tiro alla sigaretta e si sedette su un barile, più contrariato che mai. Ci mancava solo quel ricatto da parte di Janet, unito alla consapevolezza che lei era al corrente delle sue evoluzioni amorose con Rebecca: era come se un altro bicchiere d’acqua fosse stato aggiunto ad un secchio fin troppo traboccante.
“… credo che tu fossi felice quando stava assieme a te, no?”
“No, non è affatto vero – mormorò, rispondendo ancora una volta alla domanda della sorella – era solo una seccatura”.
Ma come spesso accadeva, se la bocca di Jean Havoc diceva una cosa il cuore ne pensava un’altra e l’idea che Rebecca fosse nei guai gli dava parecchio fastidio. Certo, lavorare all’emporio senza di lei era molto più tranquillo e rilassante, ma in qualche modo anche più monotono. In fondo non era niente male quando gli strizzava l’occhio con malizia o quando voleva aiutarlo in qualsiasi cosa… oppure quando lo afferrava per il colletto e lo trascinava in un angolo per dargli un bacio appassionato.
“Problemi d’amore, figliolo?” chiese una voce e, alzando lo sguardo, Jean vide suo padre che si era avvicinato e lo fissava con aria comprensiva. Non fece nemmeno nessun commento sulla sigaretta ancora accesa.
Jean si sentiva profondamente in colpa nei confronti dei suoi genitori: per quanto avesse litigato, soprattutto con sua madre, gli dispiaceva di averli messi in quella situazione difficile. Sapeva che il lavoro all’emporio era tutto per loro, come lo era per lui, e l’idea di averlo in qualche modo messo in crisi gli creava estremo disagio. Ulteriore prova di quanto fosse stato irresponsabile ad accettare di coprire Rebecca con il suo gioco.
Ecco, vedi? Alla luce di questo forse è un bene che per ora non lavori qui.
Senza di lei si sarebbe tornati alla normalità comoda e sicura, come una vecchia scarpa a cui si è abituati. E che importava se avrebbe dovuto fare a meno di quei sorrisi e di quella presenza durante il lavoro? Si sarebbe potuto vedere con lei in altre occasioni e tutto sarebbe filato liscio.
“Ma no – rispose infine al genitore – va tutto bene”.
“Vedrai che si risolverà tutto e che Rebecca tornerà a lavorare qui”.
“Ne varrà davvero la pena? Insomma, finalmente si respira un po’ di tranquillità… cosa che non succedeva da mesi, non trovi?”
“La definirei la calma prima della tempesta dato che prima o poi la situazione si dovrà sbloccare e, conoscendo le contendenti succederà in maniera molto traumatica”.
Un brivido corse lungo la schiena di Jean, alla faccia del maglione pesante che indossava dato il freddo di fine novembre. L’idea che la madre di Rebecca si rimettesse in moto con le sue accuse non lo faceva certo stare bene… così come quella che sua madre aveva promesso di risponderle a tono non appena avesse osato dire qualcosa in più contro di loro. A contri fatti era come se della dinamite fosse pronta ad esplodere dentro una botte di polvere da sparo.
“Forse se parlo con Rebecca la convinco a ragionare…”
“E poi ti troverai sia lei che tua madre contro – scosse il capo James – ormai noi siamo fuori, ragazzo mio. E’ diventata una lotta tra quelle tre, per pure questioni di principio. Sono contento se Rebecca lavora qui, sicuro, ma se restasse a casa mi andrebbe bene lo stesso”.
“Se almeno la signora Catalina non mi considerasse un poco di buono… ma non c’è nulla da fare. Ce l’ha avuta con me da subito. A volte penso dipenda dal fatto che sono il miglior amico di Heymans, dato che lei è una di quelle arpie che vanno contro la signora Laura”.
Alzò ancora una volta lo sguardo sul padre quasi a ricevere conferma, ma si accorse che il genitore si passava una mano tra i capelli con fare imbarazzato. Le due paia di occhi azzurri si scrutarono attentamente prima che il maggiore degli Havoc si decidesse a parlare.
“Vedi, figliolo – iniziò James, arrossendo leggermente, una cosa davvero strana per lui – è probabile che tutto questo astio della signora contro di te abbia anche altre fonti oltre a quella di essere il miglior amico di Heymans….”
“Che…? Papà, sai qualcosa che io non so?” si sorprese Jean, scendendo dal barile e accostandosi al genitore. Ormai erano alti uguale dato che il giovane aveva praticamente completato quasi del tutto il suo sviluppo ed era diventato una copia del padre.
“… mh, vedi… è un po’ difficile da spiegare. E non mi verrebbe in mente una cosa simile se non avessi una vaga idea del carattere di Penelope River”.
“Penelope River?”
“Il suo nome da nubile… vedi, lei è un anno più grande di tua madre e…”
“Oh cavolo! Papà! Non mi vorrai dire che hai avuto una storia con quella donna!” Jean inorridì a quel pensiero. La signora Catalina le sembrava un mostro a prescindere e come tale inabile a qualsiasi relazione con l’altro sesso. Come si fosse sposata e avesse avuto due figlie restava uno dei grandi misteri dell’universo.
“Ehi, hai visto quanto somiglia alla figlia? E converrai con me che Rebecca è una gran bella figliola… innegabile dato che è la tua ragazza!”
“Papà, questa storia sta diventando sempre più raccapricciante ad ogni parola che dici!”
“Oh senti! – sbottò James – avevo sedici anni, tua madre ancora non la conoscevo… e alla fine è durata giusto una quindicina di giorni e non è che sia andata molto oltre. Ma effettivamente aveva un caratteraccio ed era una gran pettegola… mi veniva un gran mal di testa ad ascoltare tutte le sue chiacchiere maligne e così l’ho lasciata”.
“E presumo che lei non l’abbia presa molto bene”.
“Diamine, solo la sberla di tua madre al primo appuntamento è stata più forte… ma ti assicuro che quello che mi ha vomitato addosso lei non me l’hai mai detto nessun’altra”.
“Adesso capisco perché quella pazza ce l’ha così tanto con me – Jean era inorridito – e mamma sa?”
“Credo proprio di no – ammise James – Lei difende Rebecca per puro principio e non immagina quello che ci può essere dietro. Se lo scopre potrebbe scoppiare una vera e propria bomba. Figurati! Già detesta da sé quella donna… se viene a scoprire che siamo stati assieme seppur per poco tempo…”
“Con chi sei stato assieme?” chiese Angela, entrando in tempo per sentire l’ultima frase.
“Mi riferisco a quando sono andato a parlare con il capitano Falman, ieri, cara – mentì spudoratamente James – sai che il momento è delicato, no?”
“Oh certo! – il volto della donna si contrasse in una smorfia – quella pettegola avrebbe da ridire anche su quello. Dannazione a lei quanto è insopportabile!”
James lanciò un’occhiata al figlio come a dire “vedi che è meglio che non sappia i retroscena?” ed i due maschi Havoc furono costretti a far cadere il discorso.
 
La settimana successiva, quando mancavano ormai solo tre giorni alla festa del primo dicembre, Roy ed Heymans si trovavano in treno ormai a pochi minuti di viaggio prima dell’arrivo alla piccola stazione del paese. Avevano passato le ultime ore a parlare del paese e dell’atmosfera di festa che avrebbero trovato non appena arrivati. Nonostante fossero entrambi ormai abituati alla vita cittadina, in qualche modo erano brucianti d’aspettativa per quella che era una semplice festa di paese, ma almeno tra loro non si vergognavano di esternarlo. Man mano che si avvicinava la stazione Arthur Doyle, la moto, l’università e tutto il resto legato ad East City si facevano sempre più lontani, mentre tornavano più prepotenti pensieri come il vestito che avrebbe indossato Riza alla festa, il lavoro che la madre di Heymans stava sbrigando in questi giorni, le riunioni di gruppo che erano assolutamente da fare e così via.
Quando arrivarono finalmente alla stazione si chiesero chi fosse venuto a prenderli: in genere Riza era una certezza, ma gli altri variavano a seconda dei loro impegni lavorativi. Per cui non rimasero troppo sorpresi quando, accanto alla giovane, trovarono un sogghignante Jean.
Dopo aver scambiato i convenevoli di rito, i quattro si avviarono nel sentiero che li riportava in paese e fu più che naturale che, dopo qualche minuto, Riza e Roy restassero più indietro, sebbene niente nel loro atteggiamento facesse intendere che tra loro ci fosse una relazione.
“Dalla faccia che sta facendo Roy direi che Riza gli ha appena comunicato le grandi novità” commentò Jean, lanciando un’occhiata alla coppia.
“Quali novità?” chiese Heymans, incuriosito dal tono sarcastico dell’amico.
“Beh, alla fine la recita di Rebecca è stata scoperta dalla madre”.
“Prima o poi doveva succedere, no? E come l’ha presa la signora Catalina?”
“Ha denunciato la mia famiglia al capitano Falman e anche i Fury, colpevoli di aver dato asilo a Reby quando è andata via di casa. Prima che tu me lo chieda è accaduto tutto cinque giorni fa e la situazione non è cambiata di molto… tranne che, prudentemente, lei non ha ripreso a lavorare da noi”.
“Oh cavolo, e io che pensavo che fosse la vita cittadina quella ad essere movimentata – commentò Heymans, sgranando gli occhi con sorpresa – altri dettagli che non mi hai ancora detto?”
“Tra le altre cose sono anche venuto a sapere il motivo per cui a quella donna non sono mai andato a genio, anche se questo deve rimanere tra me e te, capisci cosa intendo?”
“Ovviamente”.
“Pare che ce l’abbia con gli Havoc in generale e non con me. Sembra che mio padre abbia avuto una piccola storia con lei prima di mettersi assieme a mia madre… e quando mio padre l’ha lasciata lei non l’ha presa bene e da lì nasce l’odio”.
“Tuo padre? – il rosso scosse il capo incredulo, non riuscendo a pensare al signor Havoc con qualcuno al di fuori di sua moglie – credevo che lui e tua madre si frequentassero sin da giovanissimi”.
“Avrà avuto sui sedici anni, che vuoi che ti dica”.
“Quella donna è matta se si tiene legata al dito una cosa simile…”
“Cosa vuoi che ti dica? Sta di fatto che Reby è praticamente confinata dai Fury… e posso dire che ce l’ha con me per non averla adeguatamente difesa, almeno così pare. Senza contare che all’emporio posso lavorare solo nel magazzino per evitare contatti con gente che magari patteggia per la signora Catalina”.
“Ah, si è creato un fronte a suo favore?”
“Lo sai che le streghe sono sempre pronte a far fronte comune, no? Anche ora che sono passato in paese per venire a prenderti ho ricevuto certe occhiatacce niente male”.
“Immagino che sono state da parte delle medesime persone che se la sono presa con mia madre a suo tempo… oh, non fare quella faccia, mica sono scemo”.
“Inutile negarlo. Tanto vale dirti subito che quelle pettegole hanno detto le solite cose riguardo tua madre, niente di nuovo per carità, ma sai come sono… da me e dai miei sono passati a Riza, quindi ai Fury e poi a tua madre. Posso darti un consiglio? Non dare peso a certe cose”.
“Non ho la minima intenzione di rovinarmi questi giorni di vacanza per colpa di certa gente – garantì Heymans facendosi serio – hai fatto bene ad avvisarmi. Sai anche di che umore è mia madre?”
“Questo lo sa Riza che lavora da lei in questi giorni. Ehi, bionda, la signora Laura non è seccata dalle megere del paese, vero?”
“La cosa non la tange minimamente – garantì la ragazza – dice che ne sa di cotte e di crude su tutte loro e ha dichiarato di esser pronta a render pan per focaccia”.
Lieto di quella risposta, Heymans riprese a guardare davanti a sé: ormai sentiva che sua madre era forte abbastanza per poter affrontare simili situazioni. Certo non era piacevole quanto stava accadendo, ma sapeva che proprio come le pettegole si coalizzavano, pure loro potevano fare gruppo per difendersi.
“Tornando a noi – disse per cambiare argomento – dato che sei caduto in disgrazia agli occhi della signora Catalina, hai intenzione di fare qualcosa in merito?”
“Senza sputtanare mio padre e far scoppiare la guerra civile in casa? No, direi proprio di no. Ma sono arrivato alla conclusione che Rebecca è maggiorenne e quindi se ne può fregare di quanto le dice la sua famiglia”.
“Però non è certo una situazione simpatica… se poi mi hai detto che sta dai Fury. Non può certo restare ospite fino a quando voi due non farete il fatidico passo, no?”
“Quello è il vero problema. Senza contare che devo risolvere tutto entro il primo dicembre. Proprio oggi mi ha fatto sapere, tramite Riza, che lei non ha alcuna intenzione di rinunciare alla festa nel capannone: capisci che sono nella merda sino al collo?”
“Perché non parli con il padre di Rebecca? Lui che ne pensa di tutta questa storia?”
“Non ne ho la minima idea, da quanto so ha fatto tutto quella psicopatica della moglie”.
“Magari con lui si può ragionare… e forse può a sua volta far ragionare la signora, no?”
“In mancanza di altro non vedo altra possibilità. Lo sapevo che mi avresti dato la dritta giusta – annuì felice Jean, battendo un’amichevole pacca sulle robuste spalle dell’amico – mi sei mancato, Heymans, non ne hai idea. Sono del parere che se fossi stato qui tutto questo non sarebbe successo. Scommetto che in città non vivi simili avventure”.
“Ecco… – iniziò Heymans, chiedendosi se era il caso di parlare di Arthur e delle sue beghe familiari, ma poi si disse che non interessavano minimamente Jean Havoc e la sua rocambolesca esigenza – hai proprio ragione… in città non ho occasione di fare da diplomatico come invece succede qui”.
Stava per aggiungere altro quando la sua attenzione venne attratta da un gruppetto di ragazzi che stavano ai confini del centro abitato. La sua esperienza da ex studente gli fece capire immediatamente che non erano in atteggiamenti amichevoli ed il suo occhio esperto individuò, dalle posizioni, che si trattava di un quattro contro due che prometteva male.
“Ehi ehi, ma quello e Kain!” fece Roy.
“E quello è Henry – gli fece eco Heymans, mollando la valigia – aria di guai…”
 
Kain non si era mai trovato in una situazione simile.
Le sue esperienze di antagonismo scolastico erano ferme agli scherzi che gli facevano anni prima i suoi compagni di classe o Jean. Ma appunto risalivano alla prima media e pensava che quel periodo della sua vita fosse finalmente finito.
Effettivamente non c’era stato alcun sentore quando, poco prima, aveva incontrato Henry e avevano deciso di andare incontro a Heymans e gli altri di ritorno dalla stazione. Tuttavia, proprio alla fine del paese, si erano imbattuti in un gruppo di quattro ragazzi, tutti di un anno più grandi di loro, che avevano iniziato a stuzzicarli in maniera lievemente fastidiosa. Sulle prime avevano cercato di ignorarli, persino Henry aveva fatto spallucce e l’aveva incitato a proseguire, ma poi era saltato fuori un commento pesante sulla signora Laura e la situazione era degenerata… per ora solo a parole.
“E tu, quattrocchi? – gli chiese in quel momento uno dei ragazzi – Tu e la tua presunta sorella? Lo sai cosa si dice su di lei?”
A quelle parole il ragazzo alzò lo sguardo sul suo avversario, sentendo il timore sparire tutto d’un tratto. Non avrebbe mai tollerato che qualcuno rivolgesse qualche commento cattivo su Riza.
“Lascia in pace mia sorella – disse con voce lievemente tremante – non so cosa volete da noi, ma…”
“Questi cercano di attaccare briga, Kain – lo bloccò Henry – e ci stanno riuscendo alla perfezione se non ritirano subito quello che hanno detto su mia madre”.
“Ricordiamo perfettamente quello che è successo anni fa, Breda – disse un altro ragazzo, andando vicino a lui e dandogli un lieve spintone – e noi…”
“… voi ricordate bene quanto eravamo bravi a pestare i rompiscatole come voi, vero?” fece Roy, arrivando vicino a loro e mettendosi a braccia conserte.
“Oh Roy! – esclamò Kain sollevato – sono così felice di vederti!”
“Problemi, ragazzi?” continuò Heymans, arrivando assieme a Jean, mentre Riza restava qualche passo indietro.
Bastò la vista dei tre a ridurre a più miti consigli i ragazzi che, borbottando qualcosa, si allontanarono con tutta la dignità di cui erano capaci.
“Ehi, gnomo, che problemi ci sono?” chiese Roy, arruffando i capelli di Kain.
“Volevano attaccare briga – rispose lui – credo che sia per tutte quelle voci che stanno circolando in questo periodo. Stavano per dire cose brutte su Riza… non l’avrei mai permesso”.
“Bravo, gnometto coraggioso – annuì con approvazione il cadetto – allora è meglio che in questi giorni ti insegni qualche mossa con cui difenderti”.
“No, niente del genere – si intromise Riza – sarebbe come buttare altra legna sul fuoco: quei ragazzi non aspettano altro”.
“Hanno detto qualcosa su mamma?” chiese Heymans ad Henry.
“Non hanno fatto in tempo – scosse il capo lui, leggermente seccato da quella figura poco dignitosa di esser stato salvato dal fratello maggiore – ma li avrei sistemati a dovere se fossero andati avanti”.
“Quattro contro due? – commentò Jean – di cui uno era Kain? Mh, la vedo dura”.
“Se lo dici tu – rispose Henry con un’occhiata offesa – comunque vi volevamo solo venire incontro. Dammi la valigia, Heymans, la porto io fino a casa”.
Non attese risposta e preso il bagaglio del fratello si avviò per la strada, lasciando gli altri cinque a guardarlo con preoccupata perplessità.
“Credo ci sia rimasto male…” ammise Kain.
“E’ meglio che lo raggiunga – mormorò Heymans – ci vediamo dopo, amici”.
“Questo mi fa capire che devo risolvere la faccenda il più in fretta possibile” disse Jean con aria cupa guardandolo allontanarsi nella direzione presa dal fratello minore.
 
Tutti pensavano che Henry somigliasse in tutto e per tutto alla madre e non sbagliavano: colori, corporatura, sfumature di carattere, erano una versione maschile di quelli di Laura. Tuttavia c’erano dei particolari dettagli, invisibili ai più, che ricordavano come fosse presente anche un’impronta paterna.
Uno di questi era quando il ragazzo era turbato e arrabbiato allo stesso tempo: allora il suo viso assumeva una strana espressione remota, come se i suoi occhi vedessero un modo totalmente estraneo agli altri, carico di rabbia e di furore che però non riusciva ad esternare. Una strana forma di prigione, come quella che il padre aveva sentito addosso per anni ed anni prima che esplodesse di colpo.
Henry ovviamente non si rendeva conto di tutto questo: quando suo padre era stato allontanato lui aveva da poco compiuto dodici anni ed il trauma aveva piano piano allontanato quella figura dai suoi ricordi. Del genitore gli restavano nella memoria un’idea generale, alcune scene, anche del periodo buono che aveva vissuto con lui, e altri pochi dettagli. Ma erano così nascosti dentro di lui che diventavano sempre più sbiaditi.
Di conseguenza quell’atteggiamento non lo ricollegava a suo padre: sentiva che era solo un suo sfogo personale e dunque non ci poneva la stessa attenzione di sua madre e suo fratello.
“Ehi, Hen – fece proprio Heymans, entrando in camera sua – va meglio?”
Henry alzò gli occhi sul fratello maggiore, notando come si fosse lavato e cambiato dopo il viaggio. Vederlo con i normali abiti di casa gli diede una strana impressione, come se in tutte quelle settimane non fosse stato via, ma solo in un’altra stanza.
“Sì, va meglio – rispose lui con apatia – dovresti stare con mamma: avrai un sacco di cose da raccontarle”.
“Ci sarà tempo a cena: ora sta lavorando a degli abiti e ha molto da fare. Tieni, ti ho portato un regalo da East City”.
“Grazie” prese il pacchetto e lo aprì, riuscendo anche a sorridere quando vide il modellino di macchinina.
In realtà mi sento come un bambinetto che viene consolato. Heymans… tu non c’eri in questi ultimi giorni. Tocca a me difendere la mamma da tutte le voci che hanno ripreso a circolare.
La cosa era iniziata così in fretta… ed era stato un trauma tornare a quel periodo di strano ostracismo da parte di diverse persone, compresi alcuni ragazzi della scuola. E lui era rimasto lì, ad ignorare… a cercare di ignorare, proprio come gli era stato consigliato, sentendo tuttavia una rabbia impotente che continuava a crescere dentro di lui. In cuor suo si diceva che era un vigliacco incapace di difendere sua madre, proprio come era successo anni prima: l’antica rivalità con il fratello si faceva risentire come un forte e doloroso morso.
“Che dicono su mamma?” chiese Heymans, sedendosi accanto a lui nel letto.
“La solita vecchia storia sul suo matrimonio con papà – fece un effetto strano dire quella parola a voce alta, come se Gregor Breda fosse nella stanza accanto e non chissà dove – sono solo degli stronzi”.
“Appunto, non è nemmeno il caso di dare loro retta. Sono dei vigliacchi, li conosci. Sfruttano qualsiasi cosa per attaccare briga… sentono i loro genitori sparlare di qualcuno ed il piatto è servito. Probabilmente se chiedi loro la vicenda nemmeno te la sanno spiegare: ripeterebbero a pappagallo solo quelle frasi che hanno sentito a casa e amen”.
“Intanto le dicono…”
“A mamma non gliene importa nulla, lo sai bene – Heymans lo afferrò per la spalla – ma gliene importerebbe se vedesse quanto la cosa ti sta turbando. E le farebbe male, capisci cosa intendo?”
“Credi che io ne sia felice? – Henry lo guardò quasi con rabbia, come se tra loro ci fosse l’antica barriera di incomprensione – tu sei in città, spetta a me difenderla. Stare zitto e farmi scivolare tutto addosso non è…”
“Ed invece è l’atteggiamento giusto, Henry! Non sono quelle le persone di cui ti deve fregare… ignorale. Ti deve fregare solo di mamma: se la vuoi difendere veramente non devi farla preoccupare per te”.
“Se lo dici tu…” mise il broncio il ragazzo.
“Dannata madre di Rebecca – sospirò Heymans, arruffando i capelli rossi del fratello – è tutta colpa sua”.

 
 


 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 10. Festa del 1 dicembre. Prima parte ***


 

Capitolo 10. Festa del 1 dicembre. Prima parte

 


 
Quell’anno, come preventivato, il comitato organizzativo si era davvero superato per fare della festa del primo dicembre un evento memorabile, degno di essere ricordato per molto tempo a venire. Mesi e mesi di preparazione ed i giusti contatti con la città, avevano infatti avuto come risultato l’arrivo di una grande giostra che, nell’arco di poche ore, era stata montata nello spiazzo al di fuori del capannone, sapientemente illuminato dalle torce.
Adulti e bambini rimanevano ad osservare quella meraviglia meccanica che continuava a muoversi in circolo, con i cavallini bianchi, dalle selle ed i finimenti gialli e rossi, che parevano pronti a staccarsi dai loro sostegni e spiccare il galoppo  nella campagna. Per quanto fosse una versione piccola rispetto alle grandi giostre cittadine, nessuno sembrava farci caso e tutti si mostravano tremendamente orgogliosi della cosa e sembrava che per quella festa il gesto più romantico che un fidanzato potesse fare fosse quello di accompagnare la propria dama a fare un giro su quel prodigio di meccanica e magia.
“Vato, ti ricordi? – disse Rosie, battendo le mani estasiata nel sentire l’allegra musica della giostra – anche a New Optain ce n’era una durante le feste di natale. Tuo zio Max ti ci portava sempre la domenica”.
“E’ vero, però i cavalli avevano i finimenti argento e blu, me lo ricordo bene. Comunque anche ad East City ne fanno una nella piazza principale, credo che sia quasi il doppio di questa… c’era anche la carrozza oltre i cavalli, vero Eli?”
“Già, però la musica era molto simile. Ah, sono davvero felice che quest’anno il comitato si sia dato tanto da fare: sarà una festa memorabile. Oh guardate! E’ salita la mia cuginetta! Ciao, Cecile!”
Facendosi avanti per andare a salutare la ragazzina, la dottoressa lasciò Vato e la sua famiglia a chiacchierare allegramente nell’attesa che arrivasse Roy.
“Il tuo amico poteva anche passare a casa – commentò Vincent, soffiandosi leggermente le mani guantate e provocando una nuvoletta di vapore – oppure sta volutamente evitando i contatti con me per paura che venga a scoprire qualche disastro che ha combinato?”
“Si riferisce per caso alla moto che presto arriverà qui, capitano? – chiese proprio Roy, arrivando in tempo per sentire le ultime parole – Non deve preoccuparsi, sono molto bravo a guidare a detta di tutti. Buonasera, signora Falman, lei è sempre incantevole: quest’anno vorrà accettare il mio invito a ballare?”
“Ma dai, caro, che sciocchezze – arrossì la donna, sistemandogli meglio il capotto che lasciava intravedere la sua divisa da cadetto – tu hai la tua Riza con cui ballare. Sarete tutti quanti splendidi, me lo sento”.
“Siamo in grande spolvero per questa festa, lo ammetto” sogghignò il moro.
“Ehi, spero che il tuo amico Jean e Rebecca non abbiano intenzione di combinare qualcosa…” mormorò a voce bassa Vincent, lanciando un’occhiata significativa al suo protetto.
“Non ho idea di cosa possa accadere – rispose con sincerità Roy – so che Rebecca deve venire con Riza e la famiglia, mentre Jean verrà con la sua. Ma non ho ricevuto alcuna notizia circa le iniziative che hanno intenzione di prendere in merito… ehi, quella è la madre di Rebecca, vero?”
“Sì – annuì Vato, guardando dall’altra parte dello spiazzo dove la donna camminava a braccetto del marito e seguita dalla figlia maggiore. Aveva l’espressione dura e disgustata, come se quello fosse l’ultimo posto della terra dove volesse stare – e non mi pare dell’umore giusto”.
“Senti, per me lei e Rebecca possono fare le scenatacce che vogliono. Ma che tengano fuori tutti gli altri… se partono commenti contro Riza, la signora Laura, Heymans o chissà chi altri giuro che gliene canto quattro”.
“Cerchiamo di evitare simili cose, Roy Mustang – lo ammonì Vincent, mettendogli una mano sulla spalla – faresti solo il suo gioco. E sarebbe solo un modo per distoglierla dal problema principale, ossia sua figlia. Se vuoi aiutare Jean e la sua fidanzata a venirne fuori, allora non intervenire se non in caso di estrema necessità… in tutti questi anni dovresti aver capito come funzionano le cose”.
“Come funziona cosa?”
“Signora Laura, buonasera – salutò Roy con galanteria, facendo contemporaneamente un cenno ad Heymans ed Henry – sempre felice di vederla”.
“Troppo galante, Roy – strizzò l’occhio Laura – guarda che poi Riza si ingelosisce. Ciao, Rosie, sei già entrata a vedere le pietanze? Ho fatto portare i miei piatti da Henry questo pomeriggio e non so come li hanno sistemati”.
“Andiamo a controllare – annuì l’altra, prendendola a braccetto – voglio dare un’occhiata anche ai miei pasticcini: l’altra volta li avevano tutti mischiati, un vero disastro”.
Mentre le due donne si allontanavano, sia Heymans che Roy lanciarono occhiate in giro e si accorsero che, tutto sommato, nessuno sembrava fare caso alla presenza di Laura. Questo poteva significare che, tutto sommato, quel tipo di chiacchiera non aveva messo radice come invece si era temuto.
Anche Henry sembrò accorgersi di questo particolare ed assunse immediatamente un’aria più rilassata.
“Bene – disse dopo qualche secondo – vado a cercare i miei amici. Se c’è bisogno di me…”
“Pare tutto tranquillo – scosse il capo Heymans – ti verrò a cercare quando mamma vorrà tornare a casa”.
Quando anche lui si fu allontanato, Vincent ne approfittò per squadrare a turno i tre giovani davanti a lui.
“Va bene, signori – disse infine – cerchiamo di divertirci e di non combinare guai, intesi?”
“Agli ordini, capitano!” esclamò Roy, mettendosi sull’attenti.
Tanto sapevano tutti che non era ancora il momento della patata bollente.
 
Nemmeno dieci minuti dopo la famiglia Fury arrivava al bivio dove Kain e Janet erano soliti incontrarsi per continuare assieme la loro camminata verso scuola. Infatti, quella mattina, la bambina aveva annunciato all’amico che la loro famiglia sarebbe scesa in paese col carro e che avrebbe volentieri dato un passaggio a tutti quanti loro.
A dire il vero era un’usanza ormai consolidata nel corso di quei cinque anni, ma probabilmente tutti loro avevano temuto che, data la situazione, fosse meglio andare ciascuno per conto proprio. Invece, all’ultimo momento, gli Havoc si erano decisi a prendere in mano le redini della situazione e a mandare al diavolo la prudenza. E se Jean e Rebecca fossero arrivati assieme alla festa sarebbero stati problemi di chi aveva voglia di spettegolare.
“Penso arriveranno a breve – commentò Andrew – siamo scesi un po’ in anticipo”.
Mentre lui, Ellie e Kain chiacchieravano allegramente sulla festa, Riza si accorse che Rebecca se ne stava leggermente in disparte, mentre il chiarore della luna illuminava il suo viso affilato dall’espressione imbronciata. Se ne stava rigida, accanto ad un piccolo cespuglio che costeggiava il sentiero, imbacuccata nel cappotto pesante e nella sciarpa, sebbene quella notte il clima fosse particolarmente mite.
“Che cosa succede?” le chiese, accostandosi.
“Ma guardati, sembri una principessa con quell’abito nuovo. Io invece mi sono dovuta accontentare dell’abito dell’anno scorso”.
“Il blu ti sta molto bene, lo sai pure tu”.
“Con questo dover stare chiusa a casa non ho potuto fare compere decenti”.
“Come puoi pensare a questo? – si sorprese la bionda – Insomma, tra poco sarai al capannone, con tutto il paese presente e con Jean: non dovrebbe bastarti?”
“Lo so… è solo che tutta questa storia mi ha davvero sfastidiata. Stasera la voglio finire e voglio liberare te e la tua famiglia dalla mia presenza: siete molto gentili, ma non può andare avanti così”.
“Sai che non costituisci un peso per noi, siamo felici di averti a casa”.
“No – scosse il capo con ostinazione l’altra – è ora che mia madre capisca che siamo nel nuovo secolo e le cose funzionano diversamente. Deve riprendermi a casa e lasciarmi lavorare”.
“Ma sei tu che sei andata via!”
“Perché lei non voleva che io lavorassi, insomma! Mi segui sì o no? In ogni caso oggi è tornato mio padre dal suo viaggio di lavoro: Jean gli vuole parlare… da solo! E non c’è cosa che mi preoccupi di più al mondo, chissà cosa potrà mai dire quel pasticcione”.
“Però tuo padre mi è sempre sembrato più ragionevole rispetto a tua madre…”
“Sì, ma spesso in casa le dà ragione per il quieto vivere, lo conosco. Ammetto che a questo giro non so a chi darebbe ragione ed il mio terrore è che la minima mossa sbagliata rovini tutto”.
“Reby, dimmi – chiese la bionda dopo qualche secondo di riflessione – non è che tu credi che Jean vada da tuo padre e gli chieda la tua mano, vero?”
“Pensi che lo farebbe?” Rebecca si girò dalla sua parte, gli occhi scuri brillanti di aspettativa. Come aveva ben immaginato Riza, si era cullata in progetti simili.
Però, conoscendo bene Jean non mi sembra che…
“Ehilà, famiglia Fury e ospite! – la voce allegra del signor Havoc, accompagnata dal tintinnare dei finimenti del cavallo che trainava il carro interruppe quei pensieri – Attendete da molto?”
“No, siamo arrivati ora” rispose Andrew, mentre il carro si fermava davanti a loro e una festosa Janet scendeva agilmente per salutarli.
In pochi minuti tutti salirono a bordo e mentre gli adulti ed i più giovani chiacchieravano tra di loro, Riza, Rebecca e Jean rimasero in silenzio, lanciandosi vaghe occhiate alla luce delle lampade attaccate al bordo del mezzo di trasporto.
Jean sembrava fin troppo calmo, come se sapesse esattamente cosa doveva fare. La cosa in parte tranquillizzava Riza, in parte la preoccupava: ormai si era convinta che i due fidanzati fossero arrivati a conclusioni totalmente differenti e questo avrebbe potuto complicare ulteriormente la situazione.
 
Quando arrivarono al capannone, una decina di minuti dopo, la festa era in pieno svolgimento: buona parte delle persone aveva abbandonato la giostra per trasferirsi all’interno dell’edificio ed abbandonarsi ai più tradizionali divertimenti come i balli, le chiacchiere ed il cibo, allettati anche dall’idea di un ambiente più caldo in quelle ore ormai più frizzanti.
“Vieni, Reby, andiamo a cercare i tuoi genitori – disse Jean, aiutando la ragazza a scendere dal carro – risolviamo immediatamente la faccenda”.
Era la prima volta che Jean Havoc si dimostrava così deciso: sembrava molto più adulto dei suoi quasi diciannove anni. Pareva un uomo che ha finalmente deciso di dare una svolta importante alla sua vita, entrando finalmente nel mondo della maturità.
“Figliolo, sei sicuro di voler fare tutto quanto da solo? – chiese James con preoccupazione, scendendo a sua volta dal carro – del resto sarebbe giusto che ci fossimo anche io e tua madre in quando… datori di lavoro di Rebecca. Non ti pare?”
“No, in fondo credo di essere io il problema principale, no?”
“Oh, tesoro! Come sei coraggioso – Rebecca lo abbracciò con fervore – Non immaginavo di vederti così risoluto nell’affrontare i miei genitori”.
Con un cenno del capo, Jean si sciolse da quell’abbraccio e, presa per mano la fidanzata, si avviò in mezzo alla gente, incurante delle occhiate che venivano loro lanciate.
“Ci dobbiamo preoccupare?” chiese Angela, mentre il marito legava il cavallo alla staccionata apposita.
“In parte, però ammetto che mi dispiacerebbe intervenire. Insomma, guardalo, cara: non l’ho mai visto così risoluto in vita sua. Forse in tutti questi giorni ha preso coscienza delle sue responsabilità”.
“Nostro figlio?” la donna inarcò il sopracciglio con aria dubbiosa.
“Non ti fidi di lui?”
“Io non lo farei…” si intromise Janet.
“Signorina, tu vai con Kain e la sua famiglia, da brava – le consigliò James – sono cose da grandi queste. Per tornare a noi, Angela, stiamo in disparte e vediamo come si mettono le cose e se il ragazzo ha bisogno di una mano interverremo in maniera pacifica e serena”.
“Con quell’arpia di donna? – sbuffò la signora Havoc – La tua fiducia nell’umanità è malriposta, caro mio. Ma ti avviso che se quella osa dire una parola di troppo su mio figlio… beh, questa festa del primo dicembre verrà ricordata negli annali per molto tempo, dai retta a me!”
“Spero proprio di riuscire ad evitare tutto questo…” borbottò James.
 
Avendo individuato i genitori di Rebecca dall’altra parte del capannone, seduti in una delle panche posate contro le pareti, Jean iniziò ad avanzare a passo di marcia, trascinandosi dietro Rebecca. Si erano fermati giusto il tempo di levarsi i cappotti, lasciandoli a un’ammutolita Riza e poi avevano cominciato la loro ricerca. Più di una volta il biondo aveva mormorato maledizioni mentre la gente attorno a lui non faceva altro che lanciare dei commenti esterrefatti nel vederlo mano nella mano con la ragazza scappata di casa, ma questo non l’aveva fermato. Anzi, da un certo punto di vista si era sentito estremamente orgoglioso di sfidare tutti in maniera così aperta, come se questo costituisse una nuova linfa vitale.
“Jean… Jean! – Heymans gli si parò davanti così all’improvviso che si dovette bloccare con il concreto risultato che Rebecca gli andò a sbattere contro la spalla – che cosa sta succedendo?”
“Sto andando a parlare con i genitori di Rebecca, è chiaro – rispose l’altro con convinzione – il signor Catalina è rientrato solo questo pomeriggio da un viaggio di lavoro e non mi sembrava il caso di rimandare oltre, no?”
“Già, capisco – il rosso sembrava imbarazzato sul da farsi – ma sei sicuro che convenga davvero parlare nel bel mezzo della festa del primo dicembre? Insomma, siamo in mezzo al capannone, con tutto il paese che osserva e…”
“E a loro cosa importa? Riguarda me, Rebecca e i suoi genitori”.
“Oh, tesoro! – la ragazza era estasiata – non ci credo che dici delle cose simili… sei così romantico!”
“Dico semplicemente le cose come stanno: questa storia è durata per troppo tempo quando invece andava chiarita da subito, no? La cosa più stupida che abbiamo fatto è stata quella di non essere andati subito a parlare con i tuoi… ma è anche vero che tuo padre non c’era”.
“Heymans, ma lo senti? – adesso lei quasi saltava per l’eccitazione – non è la dichiarazione d’amore più bella del mondo? Insomma, non pensavo che volesse farlo così presto… del resto Vato ed Elis…”
“Senti, se hai finito vorrei andare dai tuoi – la bloccò Jean – ci vediamo dopo, Heymans. Preparami qualcosa di forte da bere perché dopo quanto avrò da dire loro ne avrò davvero bisogno”.
 
Heymans rimase basito a fissare il miglior amico che procedeva la sua marcia verso i genitori di Rebecca che, ad onor del vero, stavano ostinatamente seduti in quella panca con la signora che aveva volto lo sguardo verso l’alto soffitto di legno e si rifiutava di guardare davanti a lei. Il signor Catalina, un uomo abbastanza robusto appariva invece abbastanza imbarazzato come se non avesse idea di quello che sarebbe successo nei prossimi minuti.
“Allora, che vuole fare?” chiese trafelata Riza, raggiungendo il rosso assieme a Roy, Vato ed Elisa.
“Ti giuro che non l’ho mai sentito parlare in maniera così strana – scosse il capo Heymans – sembra una pazzia, ma ti giuro che per qualche secondo ho pensato che abbia intenzione di… no, dai, non può essere vero, mi rifiuto di crederlo per Jean Havoc”.
“Intenzione di cosa?”
“Beh, è anche vero che Rebecca era molto eccitata….”
“Chiedere la mano di Rebecca? – Riza scosse il capo – sul serio Heymans Breda… lo credi sul serio?”
“Lei ne sembrava convinta, però… oh, hai ragione, biondina. Quello zuccone non si vuole impegnare seriamente per diverso tempo a questa parte, sono stato uno sciocco a pensarlo”.
“Però Rebecca lo pensa?” chiese Elisa.
“Non me ne sorprenderei – sbuffò Roy – lo sappiamo che molto spesso corre con la fantasia. Senza offesa, dato che si tratta della tua miglior amica”.
“Ma ne sono perfettamente consapevole – scrollò le spalle Riza – diamine, ora sono davvero preoccupata. Se lei si aspetta una cosa simile e Jean ha in mente tutt’altro ci resterà molto male”.
“Bene, direi che è il caso che vada davvero a preparare qualcosa di forte da bere per il mio miglior amico pasticcione… se le cose si mettono male teniamoci pronti a separare i contendenti prima che scoppi il finimondo”.
 
“Oh, papà! Bentornato dal viaggio!”
Rebecca prevenne tutti gli altri e si buttò addosso al genitore, abbracciandolo con fervore. In parte era un modo per rompere il ghiaccio, ma fu anche vero che Donald Catalina si trovò a rispondere a quel gesto d’affetto con sincerità, chiaro segnale di come fosse più accondiscendente nei confronti della figlia minore.
“Bambina cara – iniziò l’uomo, alzandosi in piedi – si può sapere che cosa sta succedendo? Tua madre mi ha raccontato certe cose che mi paiono inverosimili e…”
“Inverosimili? – Penelope scattò in piedi rivolgendo al marito un’occhiata rovente – Io ti dico che nostra figlia è stata rovinata da questo poco di buono e tu lo trovi inverosimile? Santo cielo, Donald, ma mi hai ascoltato questo pomeriggio quando ti ho raccontato della disgrazia che si è abbattuta sulla nostra famiglia? Mi aspettavo che tu andassi subito a recuperare questa figlia ingrata e…”
“Papà, non darle retta! – si intromise Rebecca – E’ la mamma che tende a buttare tutto in tragedia: in realtà non è successo niente di male… sono io che ho sbagliato a non dire subito come stavano le cose, è vero, però non c’è niente che non vada”.
“Mia figlia nubile lavora e non c’è niente di male? Santo cielo, ma la senti?”
“Beh ecco, forse non è il caso di parlarne qui…” propose l’uomo, notando come l’attenzione di molti fosse rivolta verso il loro gruppetto.
“No! Non è giusto rimandare oltre – disse Jean, facendosi avanti a braccia conserte – adesso che lei è rientrato in paese, signore, è arrivato il momento che tutto si risolva. Vorrei sinceramente che Rebecca venga a lavorare all’emporio senza doversi nascondere… non ci vedo niente di male in una ragazza che lavora: dimostra anzi iniziativa e buona volontà, bisognerebbe esser fieri di lei”.
“Il lavoro di una donna è sposarsi e badare alla casa, giovanotto!” sbottò Penelope.
“La mia famiglia è felicissima di averla con noi all’emporio ed è trattata con tutto il rispetto possibile. Capisco che questo possa andare contro quello che pensa lei, signora, ma sono pronto a dimostrarle che si può fidare di me”.
“Oh Jean…” Rebecca si fece rossa in viso.
“Che vorresti dire?”
“Bel discorso, giovanotto, continua” lo incitò Donald, chiaramente felice di vedere qualcuno pronto a prendere in mano tutto quanto e liberarlo da quella spinosa questione.
“Dato che quello che sembra disturbarvi è l’indipendenza economica di Rebecca, allora vi propongo di prendere voi la sua paga e di tenerla da parte”.
“Cosa?” esclamò Rebecca guardandolo con sorpresa e staccandosi da lui.
“Ma sì, così i tuoi genitori non la vedranno più come cosa così scandalosa, no? E tu potrai tornare tranquillamente a casa da loro”.
“Era questa la tua grande idea?”
“Beh, cerchiamo di venirci incontro – annuì Jean con fierezza – così tu puoi lavorare, ma i soldi restano in famiglia”.
“Non ci vedo niente di male nell’idea…” iniziò Donald.
“Forse non hai capito, giovanotto! – lo bloccò Penelope – a me non va che passate tanto tempo assieme come se foste sposati. Lei è ancora nubile e vi dovreste vedere solo qualche volta, non così tanto al giorno”.
“Dannazione, signora, mi crede un poco di buono solo perché è stata mollata da mio padre anni prima? Guardi che noi Havoc non siamo delle brutte persone!”
“Ma come osi!” la signora Catalina diventò rossa in volto.
“James, che cosa sta dicendo tuo figlio?” la voce di Angela risuonò poco lontano.
“Dannazione ad averglielo raccontato… non è stato niente di importante, cara!”
“Allora non volevi fare la proposta di matrimonio – Rebecca strattono Jean per un braccio – volevi solo levarmi ciò che mi guadagno onestamente e con tanta fatica. Ma come ti è potuta venire in mente una cosa simile?”
“Ma di che ti lamenti? – si indispettì Jean – sono stato ore ed ore a pensare un modo per accomodare la cosa per poterti far tornare sia a casa tua che a lavorare… e ora ti offendi? E quando mai ho parlato di matrimonio?”
“Cielo, ma lo vedi che è un poco di buono? – strillò Penelope – la parola matrimonio nemmeno gli salta per la testa!”
“Se queste sono le tue condizioni, allora il lavoro all’emporio può anche andare al diavolo! – sbottò Rebecca, dando un ceffone al fidanzato – non osare mai più rivolgermi la parola, uomo d’affari. Mi sento profondamente offesa come donna e lavoratrice… tu… tu… mi hai illuso come poche volte! Ti odio! Ti odio con tutta me stessa!”
E senza attendere oltre girò sui tacchi e si fece largo tra la folla, immediatamente seguita dalla madre e dalla sorella che, per tutto quel tempo, era rimasta in silenzio. Almeno una cosa Jean Havoc l’aveva ottenuta: madre e figlia si erano riappacificate ed era chiaro che ora stavano tornando a casa assieme.
“Dannate femmine…” sibilò Jean, massaggiandosi la guancia colpita.
“Beh, quando te le sposi ormai sai come sono fatte. Le femmine col sangue River hanno quasi sempre un carattere difficile… è un miracolo che Polly sia più tranquilla – disse Donald, mettendogli una mano sulla spalla – comunque non ci vedo niente di male se Rebecca lavora con voi all’emporio… bisognerà aspettare solo che i tempi siano più maturi, conosco le mie donne, fidati di me”.
“Tanto ora sua figlia mi odia… forse il problema non si presenterà mai più – sbuffò Jean – tanto piacere di averla rivista, signor Catalina”.
Se ne andò irritato lontano da quel posto, ignorando bellamente i suoi genitori che discutevano su quella breve relazione avuta da James in gioventù.
Perché? Perché cinque anni fa sono stato così idiota da farmi abbindolare da lei?
 
“Dare lo stipendio ai genitori… tra tutte le cazzate che potevi inventarti questa è la migliore – Heymans batté una mano sulla spalla dell’amico e gli passò la bottiglia – perché non sei venuto a parlarmene? Ti avrei potuto dire io stesso che ti saresti solo attirato addosso l’ira di Rebecca”.
“Se devi continuare a sfottermi allora puoi anche tornartene dentro – sbottò Jean, bevendo un lungo sorso dalla bottiglia di liquore – adesso c’è anche la rottura di palle dei miei che litigano… e vedrai che la cosa andrà avanti per almeno una settimana buona. Dannate femmine, non riuscirò mai a capirle”.
“Femmina o meno, Rebecca aveva perfettamente ragione ad incavolarsi se tu le levavi i soldi che guadagnava: è maggiorenne e con spirito indipendente… peggio di quello non potevi dirle. A volte mi chiedo se ti ci impegni per rendere le cose così complicate”.
“Ti vanti solo perché sei uno studente universitario”.
“Ho sempre avuto più buon senso di te, non negarlo”.
“Come quando hai provocato tuo padre tutto da solo? Ah, scusa… sono davvero di pessimo umore. Grazie per essere rimasto qui, ma forse dovresti tornare dentro con gli altri, almeno ti diverti”.
“Nah, è tradizione che quando uno sta giù per la festa del primo dicembre l’altro stia accanto a lui a sostenerlo. Passami la bottiglia, coraggio”.
“Sul serio Reby pensava che chiedessi ai suoi il permesso di sposarla? – Jean fissò incredulo la giostra che continuava a muoversi – Non le ho mai fatto intendere niente di simile”.
“Parola mia, eri così risoluto che per qualche secondo pure io ho pensato una cosa simile. Però poi mi sono ricordato che tu sei Jean Havoc e dunque mi sono tranquillizzato… e fidati, nell’arco di massimo una settimana o poco più tu e Rebecca farete pace”.
“Arpia… sia lei che sua madre. Non la voglio più… è una benedizione che non venga più a lavorare”.
“La solita storia ogni volta – sogghignò Heymans, alzandosi in piedi e stiracchiandosi – e sappiamo bene come andrà a finire. Coraggio, almeno adesso il paese ha smesso di parlare di voi in termini così scandalosi”.
“Lo vedi che il mio piano non era così male?” sogghignò Jean, ritrovando il sorriso.






_________________________
Capitolo più breve del solito, ma vi giuro che mi ha fatto penare perché non riuscivo a far venire in mente a Jean nessuna idea geniale con il quale risolvere la situazione. Alla fine la sua idea tanto geniale non è stata, ma almeno ha ottenuto che Rebecca si riappacificasse con sua madre... del resto si fa fronte contro il nemico comune, no?
Come avete notato dal titolo è prevista anche una seconda parte dato che questa prima l'ho voluta dedicare alla questione di Jean e Rebecca. Nell'altra ho intenzione di dedicarmi a tutti gli altri protagonisti che sappiamo aver parecchio da dire. Penso che sarà l'ultimo capitolo prima delle vacanze di natale.
A presto :)

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo 11. Festa del 1 dicembre. Seconda parte. ***


 

Capitolo 11. Festa del 1 dicembre. Seconda parte

 


 
“Reby! Dai, andiamo, Reby! Apri quella finestra!”
Riza rimase a fissare per dieci secondi la finestra illuminata della camera di Rebecca, ma le imposte rimasero impietosamente chiuse. Non aveva dubbi che la sua amica fosse in quella stanza e che l’avesse sentita, l’aveva chiamata in quel modo così tante volte in tutti quegli anni che sapeva bene che i vetri facevano passare la sua voce. Semplicemente la ragazza non aveva nessuna voglia di aprire e di parlare con lei. E, d’altra parte, Riza non aveva alcuna intenzione di bussare alla porta e di trovarsi davanti la signora Catalina.
“E’ da un quarto d’ora buono che sei davanti alla finestra della sua camera – disse Roy, raggiungendola e mettendole il suo cappotto sulle spalle – non ne vuole parlare adesso, mi pare chiaro. Se la conosci bene saprai che è nella fase in cui sta vomitando tutte le maledizioni di questo mondo contro Jean… e credo che sua madre sia la compagna ideale in un simile frangente”.
“Ma è la mia miglior amica – sospirò lei, stringendosi con piacere a quella stoffa calda: nella fretta di seguire Rebecca aveva lasciato il suo soprabito al capannone – insomma, per tutti questi giorni non ha avuto che me come confidente”.
Lo disse con un briciolo d’amarezza e come poteva essere altrimenti? Proprio adesso che la crisi con Jean era esplosa con tutta la sua forza, cosa che in fondo aveva previsto, lei veniva messa in disparte a favore della donna che l’aveva trattata malissimo. Una piccola forma di tradimento che non riusciva a capire: se doveva paragonare le loro esperienze, mai e poi mai si sarebbe sognata di tornare da suo padre dopo averci litigato.
Oh, ma dai, come puoi fare dei confronti simili?
“Senti, è chiaro che Rebecca starà in casa fino a domattina e anche oltre – la riscosse ancora Roy – non mi pare il caso di rovinarci la festa del capannone per lei. Quando vorrà parlarne sa bene dove trovarti”.
“Ma sì, hai ragione – si convinse la ragazza, facendosi condurre via dalla strada laterale dove si affacciava la stanza dell’amica – anzi, mi dispiace di averti coinvolto in questa storia. Tu ed Heymans siete tornati dalla città apposta per la festa”.
“Un ritorno in paese non è tale senza qualche guaio od imprevisto ad attenderci – strizzò l’occhio Roy – Almeno ci ho guadagnato una passeggiata notturna con te, non capita molto spesso”.
Riza ridacchiò e convenne che quella piccola camminata per tornare al capannone era un fuori programma che tutto sommato non le dispiaceva. Ovviamente i suoi non le permettevano di fare passeggiate quando faceva già buio e quella era un’occasione speciale. Le strade del paese erano buie, eccetto qualche finestra illuminata, ma un percorso di fiaccole indicava la via per arrivare alla festa. Tuttavia la coppia non sembrava aver nessuna fretta di ricongiungersi agli amici: camminavano con tranquillità, il braccio di Roy che circondava con fare protettivo le spalle della fidanzata.
Poche volte lei lo vedeva in divisa: in genere quando stava in paese la indossava solo in poche e scelte occasioni. Doveva ammettere che faceva tutto un altro effetto e che aveva un’aria decisamente più matura e affascinante. Una piccola parte di lei si disse che la festa del primo dicembre era un evento troppo ghiotto per non sfoggiare la sua versione militare davanti alla gente che per tanti anni l’aveva ritenuto un ragazzo fuori dal seminato.
“Mi chiedo se la divisa da soldato vero e proprio farà un effetto diverso – disse ad un certo punto – mi ricordo di quella di mio nonno ed ha colori molto differenti”.
“A gennaio avrai occasione di vederla. Anzi, mi piacerebbe che tu venissi alla cerimonia di fine corso”.
Riza arrossì a quelle parole: raramente Roy le proponeva di andare in città, anzi a dire il vero quelle idee erano scemate sempre più da quando aveva iniziato a frequentare l’Accademia. Quando ancora stava in paese, attendendo la sua grande partenza, molto spesso l'aveva voluta coinvolgere nei suoi progetti, ma col concretizzarsi di questi ultimi le cose erano cambiate. Con un misto di sollievo e rammarico da parte di lei che, se da una parte era felice di stare nel tranquillo angolo di mondo, dall’altra un po’ si sentiva esclusa dalla vita del suo fidanzato.
“Dubito che mamma e papà mi diano il permesso”.
“Hai diciotto anni. Se Rebecca può lavorare per quale motivo tu non potresti venire qualche giorno ad East City? Potresti stare da tuo nonno: sarebbe felice della tua visita, ne sono certo”.
“Non lo so, proverò a parlarne con loro: non credo che mi mandino da sola…”
“Portati Kain dietro come paggetto – ridacchiò Roy – comunque non ti voglio forzare: solo, mi farebbe piacere se ci pensassi almeno un poco. Non capita tutti i giorni di diventare soldato e mi piacerebbe che ci fosse almeno una persona importante ad applaudirmi… oltre ad Heymans, è chiaro”.
“La metti sui sensi di colpa? Oh dai, non ti sto prendendo in giro… cercherò di convincere i miei, promesso. E poi con il lavoro fatto dalla signora Laura penso di potermi pagare i biglietti del treno da sola”.
“Ottimo! E poi ti porto a fare delle passeggiate per la città: vedrai che ti piacerà, ci sono dei posti che vale la pena di vedere e che sono sconosciuti ai più. E ci facciamo anche un giro in moto: a fine mese la potrò finalmente comprare! Ho già preso gli accordi con il rivenditore” il suo viso, alla luce delle torce, si illuminò d’entusiasmo.
“Non credo che il capitano Falman permetterà una cosa simile”.
“Ma lui non sarà in città. Comunque so guidare molto bene, non devi preoccuparti”.
“Vedremo. E’ che il traffico cittadino proprio non mi piace: è così rumoroso e frastornante…”
“Vuoi continuare a stare qui, dove il rumore peggiore che potrai sentire per molti anni ancora è il campanello della bicicletta di Kain?”
“Non è questo che intendevo – si difese Riza, temendo che il discorso si spingesse troppo oltre, verso quell’argomento che aveva paura di affrontare. Ma del resto l’Accademia era quasi finita: lui sarebbe presto diventato un soldato vero e proprio, con uno stipendio regolare… e se volevano iniziare una vita assieme sarebbe arrivato il momento di lasciare il nido e di volare più lontano del previsto – esprimevo solo dei miei pensieri sulla città. Comunque sul giro in moto vedremo: se poi è tua intenzione portarla qui in paese le occasioni non mancheranno”.
“Bene, è già qualcosa – annuì Roy con praticità, chiaramente felice di aver ottenuto quelle concessioni dalla sua, a volte troppo chiusa, fidanzata – ah, a proposito: non ho avuto occasione di scrivertelo, ma a primavera con molta probabilità andrò per qualche giorno a Central City con un mio insegnante d’Accademia. Pare si voglia fare sfoggio della mia perfezione come cadetto”.
“Perfezione! Santo cielo, Roy, la città non fa altro che aumentare la tua vanità”.
“Ehi, non sono io a dirlo”.
Riza sorrise nel vederlo arricciare il naso, colto in fallo da quella piccola provocazione: per quanto avesse affinato il suo carattere, ogni tanto tendeva ancora a cadere ingenuamente nel suo smisurato ego.
“A Central potrai rivedere Maes – riprese dopo qualche secondo – sarà un bell’incontro di sicuro”.
“Già, ormai sono anni che non ci vediamo. E l’ultima volta che è venuto in paese io ero in Accademia, una vera sfortuna. Ma a questo giro non possiamo mancarci”.
“Sta ancora con la sua fidanzata storica?”
“Glacier? Ovvio che sì, anzi sono sicuro che non mancherà molto al loro matrimonio: ancora un annetto o due per sistemarsi meglio con il lavoro in ufficio. O forse sbaglio tempistiche e sarà prima di quanto credo”.
“Beh, del resto Vato ed Elisa si sposeranno l’anno prossimo. Sai che sarò una delle damigelle d’onore?”
“Davvero? Beh, non ne sono sorpreso: sei una delle sue amiche più strette. Insomma, a parte Jean e Rebecca che costituiscono un caso a sé stante, un po’ tutti i nostri amici si sistemano”.
Riza dovette fare uno sforzo per non irrigidirsi e proseguire a camminare. Che cosa volevano dire quelle parole? Aveva intenzione di chiederle di sposarla a breve?
“Ciascuno ha i suoi tempi del resto…” mormorò arrossendo.
“Già, i suoi tempi. Mi ci vorrà almeno un anno e passa per iniziare a farmi spazio nell’esercito, senza contare che tuo padre ancora non si decide a farmi dare una svolta decisiva ai miei studi d’alchimia. Come posso dare l’esame di stato se non si decide a darmi degli insegnamenti più specifici?”
E fu incredibile, ma per una volta tanto Riza fu felice delle scelte di suo padre.
“Sai com’è fatto – scrollò le spalle – non è un mistero che è una persona particolare. Ma vedrai che prima o poi si deciderà. Sei il suo unico allievo del resto”.
“Ma sì, hai ragione. Bene, eccoci arrivati al capannone… ti posso invitare a ballare? Non te l’ho ancora detto, ma hai un vestito fantastico e sono sicuro che saremo la coppia più bella nella pista da ballo. Non mi sono messo in divisa per niente”.
“Sei un gran vanitoso, Roy Mustang – lo prese in giro Riza, ridandogli il cappotto e alzando la voce per farsi sentire in mezzo a tutta quella gente – ma accetto più che volentieri il tuo invito a ballare”.
Del resto, anche se non era così spudorata da dirlo, pure lei aveva pensato con cura all’abito per poter fare una splendida figura.
 
“Ah, eccoli tornati – mormorò Ellie con sollievo, vedendo Roy e Riza che si avviavano verso la pista da ballo – a quanto pare il tentativo di parlare con Rebecca non è andato bene”.
“Però Riza mi pare tranquilla – constatò Andrew – direi che la situazione ha avuto una svolta. Credo che la nostra cara ospite sia tornata a casa sua”.
“Credete che Rebecca e Jean faranno pace? – chiese Kain, tornando con un piatto pieno di assaggi che offrì prontamente ai genitori – Lei si è arrabbiata moltissimo e c’era tanta gente che guardava la scena. E anche Jean è furioso: l’ho incontrato poco fa, mentre stava fuori con Heymans. Ha detto che non la vuole più rivedere”.
“Vedrai che faranno pace – lo rassicurò Andrew – li conosci bene e sai come sono fatti. Però adesso direi che è il caso che anche tu vada a divertirti, ragazzo mio: non mi pare il caso che tu stia qui con i tuoi vecchi mentre la festa è in pieno svolgimento”.
Kain annuì e consegnò il piatto alla madre, avviandosi poi in mezzo a tutta quella gente. Se doveva essere sincero aveva obbedito a quella richiesta con troppa passività e adesso non sapeva cosa fare. Vato ed Elisa, così come Roy e Riza, erano impegnati nelle danze e di certo Heymans e Jean non avevano voglia di chiacchierare con lui: aveva capito chiaramente che in quel momento di crisi preferivano fare comunella da soli, senza bisogno di lui.
Comunque non si perse d’animo e decise di andare fuori a vedere da vicino la giostra. Sperava con tutto il cuore che non la smontassero già il giorno successivo alla festa: voleva chiedere al macchinista di fargli vedere da vicino il funzionamento del motore. Certo non si trattava di elettronica quanto di meccanica, ma la sua giovane mente restava sempre affascinata da tutte queste novità.
Facendosi gentilmente largo tra le persone che stavano attorno alla piattaforma musicale, dove i cavallini continuavano a girare allegramente con in groppa persone festanti, il ragazzo rifletté persino sulla possibilità di farci un giro. I suoi amici gli avevano raccontato delle giostre di East City ed aveva sempre pensato che andarci doveva essere un’esperienza bellissima.
Si stava guardando attorno per cercare l’inizio della fila, quando intravide Janet che si allontanava a grandi passi da un gruppetto di coetanee. Teneva i pugni stretti ed il viso era contratto da una smorfia indispettita, segno che doveva aver litigato con qualche sua amica. Gli passò accanto senza nemmeno accorgersi di lui, ma la vista acuta del ragazzo intravide il luccichio di alcune lacrime sui suoi grandi occhi azzurri.
“Janet – mormorò, dimenticandosi della giostra e andandole dietro – ehi, che succede?”
Si accostò a lei, ma la fanciulla non parve nemmeno accorgersi della sua presenza: continuò la sua furiosa camminata superando tutte le persone e allontanandosi dal capannone.
“No, dai – la bloccò Kain, prendendola per un braccio – non ti devi allontanare troppo. Se poi i tuoi ti cercano si potrebbero preoccupare”.
“Oh, lasciali stare – borbottò lei, fermandosi in mezzo alla strada – sono talmente impegnati a litigare su una vecchia storia di papà che non si accorgono certo di me”.
“Va bene – annuì lui, conducendola gentilmente indietro e cercando una panca un po’ isolata rispetto a tutte le persone: fortunatamente per via della giostra ne erano state messe diverse fuori dal grande edificio – però non mi pare il caso di allontanarsi lo stesso. Perché sei arrabbiata? E’ successo qualcosa?”
“Niente” scosse il capo Janet, facendo muovere le sue trecce bionde che, alla luce delle torce, traevano sfumature dorate davvero particolari. Kain si accorse che quella sera aveva messo anche un nastro bianco sulla chioma, in tono con i colori chiari del suo abito. Di profilo il suo viso infantile appariva singolarmente affilato per via dell’espressione indispettita che aveva assunto: le labbra serrate sembravano enfatizzare la linea del naso e la fronte spaziosa, in parte libera dai ciuffi di capelli.
Sembrava improvvisamente più grande dei suoi undici anni e questo turbò non poco il giovane Fury.
Tuttavia decise di non dire nulla: si limitò a stare seduto accanto a lei, aspettando che quel momento di crisi passasse, certo che la sua amica avrebbe recuperato la sua parlantina sciolta. I suoi occhi scuri tornarono a fissare la giostra che continuava a girare con l’allegra melodia di sottofondo.
Chissà, magari un giro nella giostra le farebbe piacere…
“Ho litigato con alcune mie compagne di scuola – disse Janet, distogliendolo da quei pensieri. Adesso si era girata verso di lui, di colpo tornata bambina, con un broncio del tutto normale per la sua età. Come se quell’increspatura fosse stata spazzata via e la Janet del futuro fosse tornata nel suo tempo – sono solo delle stupide e non capiscono nulla di me!”
“Sì? Strano, con loro vai molto d’accordo – Kain si passò una mano tra i dritti capelli scuri – vedrai che già da domani avrete risolto tutto quanto”.
“Non so se voglio fare pace questa volta. Insomma, non è bello prendere in giro una persona sull’amore. E loro sono solo delle stupide gelose, sono sicura che lo sono state per tutti questi anni che io vantavo un fidanzatino, mentre loro non ne avevano uno”.
“Oh, Heymans, ma certo. E scusa che cosa…”
“Kain – Janet lo fissò con tristi occhi azzurri – è che… non credo che Heymans sia il mio fidanzatino. A pensarci bene non lo è mai stato, me ne accorgo solo ora”.
Ovviamente Kain sapeva che tutto era stato un gioco che Heymans aveva retto per l’affetto che provava nei confronti della bambina. Ma quello che era chiaro per tutti loro, per Janet aveva significato molto in tutti quegli anni: il rosso amico di suo fratello era stato una figura importantissima per quella bambina che, abituata a vederlo tutti i giorni, aveva stretto con lui un legame forte quasi come quello che aveva con lo stesso Jean.
E dato che Heymans non era suo fratello e quel legame doveva trovare un nome, lo sfogo più ovvio era stato quello del fantomatico fidanzatino.
“E come mai pensi questo?” Kain si guardò attorno con disagio, sperando che l’oggetto del discorso comparisse miracolosamente a salvarlo. Insomma, sapeva bene che quella di Janet era stata solo una cotta infantile, ma non riteneva di essere in grado di assistere alla fine in prima persona.
Le questioni di cuore, per quanto non serie, erano al di fuori della sua portata. Mentre buona parte dei suoi compagni iniziava a pensare seriamente all’altro sesso, lui continuava a crogiolarsi tra le sue radio, la sua famiglia ed il suo gruppo di amici, non sentendo assolutamente la necessità di ampliare i suoi orizzonti in tal senso.
“Prima, quando veniva a scuola era diverso – ammise la ragazzina sconsolata, facendo dondolare le gambe dalla panca – parlavamo sempre e mi piaceva tanto tenerlo per mano. Però adesso… sai, anche quando viene ci vediamo poco ed è cambiato…”
“Ma dai, sono sicuro che ti vuole sempre bene. E’ che non è la stessa cosa come vedersi tutti i giorni, però non credo che i suoi sentimenti siano cambiati”.
“Non dico che non mi vuole bene – Janet gli lanciò un’occhiata di rimprovero, come ad invitarlo a non dire stupidaggini – sono io che mi accorgo che non è più come prima. Heymans universitario non va bene per Janet che sta finendo le elementari”.
“Ne hai parlato con lui?”
“No, non ancora… mi sento un po’ stupida a farlo. E forse lui si offenderebbe”.
“Ma no, non credo che si potrebbe mai offendere con te”.
Lo disse in tono incoraggiante, lieto di aver dato una svolta positiva alla conversazione. Bastava che Janet si chiarisse con Heymans e tutto sarebbe tornato nella norma, era chiaro. E quanto al litigio con le compagnette, era fiducioso che si sarebbe risolto nell’arco di pochi giorni.
“Credo che aspetterò ancora un poco – dichiarò Janet, alzandosi in piedi – chissà, forse quando inizierò le medie le cose cambieranno. Insomma, magari quando avrò una sola treccia invece che due sarò abbastanza grande e allora l’Heymans universitario mi andrà bene. Sarebbe stupido correre troppo e rischiare di rovinare le cose, vero?”
“Se lo dici tu non posso che darti ragione – annuì Kain, alzandosi a sua volta – allora, momentaccio passato? Mi pare proprio di sì”.
“Beh, mamma e papà hanno litigato, Jean e Rebecca pure: bisogna che una in famiglia sia positiva, no?” esibì un sorriso sfacciato, mettendo in evidenza la finestrella di uno dei denti da latte da poco caduti.
“Prima volevo andare a fare un giro nella giostra, ti va di venire?”
“Oh sì! Tra mio fratello, i miei, e le mie compagne non ne ho avuto il tempo! Ci andiamo assieme?”
“Credo che ci faranno salire in due su un cavallino: siano piccoli e ci stiamo”.
 
Mentre i due giovani del gruppo si dirigevano verso la giostra, Vato ed Elisa si allontanavano dalla pista da ballo col fiatone. Nell’ultima mezz’ora avevano dato il meglio di loro nelle danze, ma con tutti i loro sforzi non potevano competere con la fluidità e la scioltezza di altre coppie, come per esempio Roy e Riza.
“Perdonami, è tutta colpa mia – ansimò Vato, conducendola ad una delle tavole per servire ad entrambi un bicchiere d’acqua – nonostante le lezioni che mi hai dato proprio non sono bravo a muovermi”.
“Sei molto migliorato invece – fece Elisa, pure lei ansimante, raccogliendosi i folti capelli castani in un’alta coda che provvide a fermare con un nastro – e odio il caldo che fanno questi capelli. Non capisco come li ho potuti tenere sciolti sino alla fine delle scuole”.
“E’ questa sala piena di gente e tutto il movimento che ci fanno sentire accaldati. Se ti va andiamo a fare due passi fuori: mi è passata completamente la voglia di ballare”.
“Affare fatto”.
Finito di dissetarsi, andarono a recuperare i loro soprabiti e guadagnarono l’uscita dal capannone. Mano nella mano decisero di concedersi una passeggiata distante dai rumori della festa e così si avviarono verso la campagna, restando tuttavia in vista delle luci che provenivano dalle torce.
“Non siamo per niente prudenti ad andare in giro con questo fresco e con i capelli così sudati – fece Elisa in tono professionale – però se non respiravo aria frizzante impazzivo”.
Si sedettero su un muretto a secco, rabbrividendo leggermente al contatto con le fredde pietre. Poi la giovane alzò gli occhi al cielo e sorrise nel vedere le stelle.
“In città la visione notturna non è così limpida”.
“Con tutte le luci dei palazzi e dei lampioni la vedo difficile. Chissà, forse tra qualche anno l’illuminazione stradale arriverà anche in paese – propose Vato – il progresso non si ferma”.
“Ammetto che preferirei che tutto restasse così. E poi il paese è così piccolo che non vedo tutta la necessità dei lampioni. Bastano le luci delle finestre”.
Vato non trovò niente da ridire a quell’affermazione e rimase per qualche secondo a fissare la sua fidanzata alla tiepida luce delle ultime torce poco distanti. Notò con piacere che l’anello di fidanzamento brillava al suo anulare e questo gli fece ricordare che aveva importanti novità da darle.
“Mi hanno pagato per l’ultimo articolo che ho inviato all’Università – dichiarò con orgoglio – a dire il vero non è una gran cifra, ma ho ricevuto anche i complimenti da parte dei docenti”.
“Davvero? Complimenti, sapevo che sarebbe piaciuto a tutti quanti”.
“E a te come va? Il lavoro intendo”.
“Beh, ho prescritto alcune pastiglie per il mal di testa al padre di Kain, medicato una sbucciatura a mio cugino di otto anni, suggerito una tisana rilassante di mia madre a tua madre, e scusa il gioco di parole… e poi ho continuato a sistemare medicine e a leggere i libri del dottor Lewis. Sono davvero interessanti, sai: alcuni non penso si possano trovare in circolazione”.
Lo disse in tono gaio, ma la forzatura fu fin troppo palese.
“… mi dispiace…” mormorò Vato, prendendole la mano e sentendo il freddo contatto con l’anello.
“Però noto che alcune signore non si spaventano più di tanto nel vedermi nello studio del dottore – continuò lei con finta allegria – credo che abbiano capito che non sono obbligate a farsi visitare da me, che hanno sempre la via di fuga a portata di mano. Tutto sommato è un passo in avanti nel conquistare la loro fiducia, no?”
“… Eli…”
“… no, aspetta, lasciami finire. Quando la settimana scorsa un contadino è venuto a farsi mettere la sutura ad un taglio sulla gamba, mi è stato concesso di assistere e di passare gli strumenti al dottor Lewis. Non pensi che sia… meravigliosamente schifosa come situazione?” si accasciò pesantemente contro la spalla del fidanzato, concedendosi finalmente quel crollo emotivo che aveva tenuto dentro di sé per tutte quelle settimane.
Sentì il braccio di lui stringerla con forza e allo stesso tempo dolcezza e si pentì di non aver cercato subito quel conforto così fondamentale. Certo, ne sapeva bene il motivo: si vergognava ad ammettere che le cose non andavano come aveva sperato. Da subito aveva saputo che non sarebbe stato semplice conquistarsi la fiducia nella gente, ma nel suo ottimismo aveva sperato che con il passare delle settimane la situazione migliorasse sensibilmente.
Ma così non è stato, proprio no. Anzi, sembra che sia in una sorta di stasi dove il paese mi prende solo come accessorio del dottor Lewis.
“Mi sento incredibilmente scoraggiata e sminuita – sospirò – e pensare che il mio mentore dell’Università diceva che ero davvero promettente come medico… che avevo una mano delicata con le ferite, eppure sicura. Ma pare che qui non importi niente di tutto questo. Eppure quel taglio l’avrei cucito in pochi minuti: non hai idea di quanto mi prudessero le mani per prendere ago e filo e mostrare cosa so fare”.
“Vedrai che la situazione migliorerà”.
“Dici? E’ che… da altre donne accettano cure: dalla moglie del dottore si fanno sistemare bende o dare medicinali. Da mia madre si fanno dare tisane o pomate. Sono io che non vado bene, capisci? E’ come se il mio titolo di medico fosse sinonimo di pericolo. E pensare che mi è anche arrivata l’autorizzazione ufficiale ad esercitare: da gennaio riceverò uno stipendio dallo stato… mi vergogno profondamente per questi soldi che non sto guadagnando veramente”.
“Intanto tu sei sempre in ambulatorio, nel caso qualcuno avesse bisogno di te – cercò di scrollarla lui – il tuo lavoro lo fai in ogni caso e hai studiato tanto per arrivare a questi risultati. Se poi viviamo in un paese particolarmente sano, beh c’è da esserne contenti, no?”
Elisa alzò lo sguardo interdetta e poi scoppiò a ridere.
“Vato Falman, da quando riesci a fare battute simili?”
“Non lo so – scrollò le spalle lui – forse ironizzare aiuta a non far caso a certe voci che circolano in paese”.
“Quelle su di noi, vero? Diamine, che massa di pettegoli che sono… sembra quasi che aspettino che qualcuno vada all’Università per poter parlare di lui. Almeno lo facessero in termini lusinghieri”.
“La settimana scorsa ne parlavo col signor Fury e mi ha detto che pure lui, all’inizio, aveva difficoltà notevoli: sembrava proprio che la gente non avesse bisogno di un ingegnere”.
“Se le cose andassero bene anche per noi sarebbe un sogno – sospirò la giovane dottoressa, giochicchiando con l’anello – ora come ora mi pare che siamo tornati indietro rispetto all’Università. Dovremmo fare dei passi avanti invece”.
“Beh, abbiamo deciso di sposarci, no? Non è un passo avanti?”
“Ci vuole una casa, tanti soldi per comprarla, tutto il necessario per la cerimonia, l’abito… mh, mi pare un po’ distante come obbiettivo, ora come ora”.
Non ebbe il coraggio di dirgli che aveva anche pensato di chiedergli di rimandare tutto a quando i tempi fossero stati più propizi.
“Abbiamo detto che ci sposiamo entro l’anno prossimo e a questo mi attengo – dichiarò lui, felice che la luce delle torce non fosse sufficiente a far vedere il rossore sulle sue guance – se vuoi già stabilire una data per me non ci sono problemi”.
“Razionalizza, Vato, ti prego. Che fine ha fatto la tua preziosa mente?”
“Iniziamo a stilare un elenco vero e proprio di quello che ci serve – propose lui dopo qualche secondo di silenzio. In realtà il suo cervello gli stava gridando che era un perfetto imbecille a correre così e che questo non rientrava nel modus operandi corretto. Ma si trattava di Elisa e questo bastava a mandare al diavolo la razionalità, proprio come era successo la prima volta che avevano fatto l’amore assieme in una camera d’albergo che avevano preso per la notte… la loro prima folle notte d’amore, quando erano studenti del secondo anno – poniamo come data provvisoria la prima metà di giugno. Vediamo se le cose vanno bene, altrimenti rimandiamo a fine anno. Un po’ come gli appelli all’Università”.
“Inizio giugno? Non lo so, vediamo… non voglio chiedere ai miei per la casa nuova… però… cielo, Vato, ma come puoi uscirne fuori con idee simili?”
“Se il resto del mondo non si dà da fare per noi, allora tanto vale muoverci da soli. Comunque per non mettere in allarme le nostre famiglie inizieremo a lavorarci da soli. Facciamo la lista, iniziamo a mettere i soldi da parte, capire quali sono le spese davvero necessarie e così via. Verso fine marzo facciamo un primo bilancio e vediamo se il matrimonio è fattibile”.
Elisa scosse il capo con gentilezza. Era così strano vedere il suo fidanzato così pragmatico: proprio lui che di solito tendeva a valutare sin troppo i pro ed i contro di ogni scelta, persino della più banale. Eppure per certe cose agiva improvvisamente e d’istinto, come se dentro di lui ci fosse un altro Vato pronto a scatenarsi quando meno gli altri se l’aspettavano.
“Tre mesi, eh? Beh, possono cambiare molte cose in tre mesi…”
“Bene, mi piaci di più quando sei ottimista. Non mi andava di vederti col broncio proprio il giorno del nostro anniversario. Ti ricordi? Ci siamo dati il primo bacio la festa del primo dicembre di cinque anni fa”.
“Cielo, non ricordarmi quella festa…”
Era stato tutto così strano, con quel litigio per gelosia e tutta quella difficoltà iniziale ad ammettere che non potevano più restare solo amici. E poi quei primi baci nella pace di casa Falman, così facili e belli dopo essersi scambiati il primo. Come sembravano semplici quelle difficoltà adolescenziali alla luce delle nuove sfide che la vita presentava loro.
“Però è stata una festa divertente sotto molti punti di vista”.
“Rebecca aveva imprigionato Jean per tantissimi balli, me lo ricordo bene. E lui se ne stava rigido, stretto nella sua presa… mentre Janet aveva intrappolato Kain”.
“Prima, come siamo usciti, li ho visti nella giostra. Beh, almeno per una Havoc la festa non sta andando così male. E, eccetto Jean e Rebecca, anche per il resto del gruppo procede bene”.
“Speriamo che sia un buon auspicio per il nuovo anno”.
“Speriamo davvero”.
 
Qualche ora dopo, come consuetudine, ci fu lo spettacolo di fuochi artificiali.
Tutto il paese si radunò fuori dal capannone per vedere le luci che, ancora una volta, erano state fatte venire dalla città. E, proprio come era successo cinque anni prima, ciascuno dei ragazzi le osservò in punti diversi o non le osservò affatto.
Vato ed Elisa se li godettero da lontano, ritenendo che senza la luce troppo insistente delle fiaccole fossero ancora più belli. Tenevano le mani strette e i loro cuori erano carichi di speranza per il nuovo anno, mentre tutte le difficoltà ed i pettegolezzi sembravano poca cosa davanti al loro amore.
Riza e Roy erano in mezzo alla gente, lei avvolta nell’abbraccio protettivo del fidanzato. Per loro invece era tutto ancora sospeso, un po’ con rammarico un po’ con sollievo. Ancora delle tappe, ancora del tempo per trovare il coraggio di spiccare il volo. Un procrastinare che tutto sommato faceva ancora comodo e che sembrava non scalfire il loro legame.
Kain e Janet si erano riuniti ai genitori del primo e osservavano estasiati i fuochi. La ragazzina aveva ormai superato il momento di tristezza e tutto quello che le importava erano i bei giochi di colori che si creavano nel cielo. La sua mente infantile voleva solo ricordare il divertimento di essere andata nella giostra e quei bei momenti… e al diavolo la sua famiglia che sceglieva proprio la festa per litigare. Sapeva bene che i suoi genitori erano da qualche parte col broncio, ma non si sarebbe fatta rovinare il divertimento.
Kain, dal canto suo, era felicissimo di essere riuscito nell’impresa di consolare la sua amica. Da quando gli altri avevano terminato le scuole si sentiva maggiormente responsabile nei suoi confronti e vederla serena era quello che più le importava. La sua mente ottimista era sicura che tutti i guai si sarebbero risolti e che persino Jean e Rebecca avrebbero fatto pace.
Jean in quel momento proprio non riusciva a pensare a pensieri ottimisti. Stava ancora seduto in quella panca, furente con la sua fidanzata e la sua famiglia: veder buttate all’aria tutte le sue buone intenzioni era stato un duro colpo. E quanto all’assurda idea del matrimonio… proprio non capiva perché il mondo avesse sempre così tanta fretta di unire le coppie in quel vincolo che per lui era ancora una prigione.
E, solida spalla, Heymans era accanto a lui e fissava i fuochi con tranquillità, sicuro che il suo miglior amico avrebbe esaurito l’arrabbiatura nei prossimi giorni. Una parte di lui era persino divertita da quello che era riuscito a combinare Jean: solo lui poteva arrivare a tanto. Solo in paese potevano succedere determinate cose… Arthur Doyle non poteva nemmeno immaginare che una festa nel capannone potesse avere tanti risvolti.
Cinque anni fa nemmeno guardavo i fuochi – si ricordò – fissavo il terreno e iniziavo a capire il vero abisso che stava dietro la mia famiglia. I tuoi drammi amorosi si risolveranno, Jean, sono solo sciocchezze in confronto a quanto ho passato io… non sai quanto ne sono felice.
Felice, ecco come doveva essere il mondo quella sera.

 




___________________________
Eccoci al termine della festa del primo dicembre, con tutte le coppie (più o meno) che vengono trattate. 
Come vi ho anticipato questo è l'ultimo capitolo che posto prima delle vacanze di natale, quindi ci aspetta una luuuunga pausa che arriverà sino a dopo l'epifania. Comunque avrò tempo per rispondere alle recensioni dato che non sarò più a casa da lunedì prossimo.
Ne approfitto per augurarvi, un po' in anticipo, buone vacanze.
A presto






 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo 12. Quel che resta lo zoccolo duro ***


 

Capitolo 12. Quel che resta lo zoccolo duro

 


 
Considerato quanto era successo alla festa, il giorno successivo il paese aveva molto di cui spettegolare: la scenata che aveva visto coinvolti gli Havoc ed i Catalina era sulla bocca di tutti e ci si domandava se tra quei due fidanzati quasi storici si potesse risanare quella grande crepa che si era creata. A fare da succulento contorno all’argomento principale c’era inoltre la vicenda dei genitori dei ragazzi, in particolare di quella vecchissima relazione che James avrebbe avuto con l’allora giovane Penelope River: un’occasione simile era troppo ghiotta per non ritirare fuori tutte le vecchie relazioni dell’aitante proprietario dell’emporio che, prima di fidanzarsi con Angela, era famoso per attrarre le ragazze come il miele fa con le api. Soprattutto le signore non mancavano di riunirsi tra loro e ricordare chi tra le vecchie compagne di scuola avesse avuto occasione di scambiare effusioni con quello all’epoca era indubbiamente il giovane più bello del paese.
Ovviamente, sebbene l’emporio si trovasse a circa mezz’ora di camminata dal centro abitato, le voci non avevano tardato ad arrivare e questo non aveva fatto altro che rendere ancora più teso il clima che regnava in famiglia, per un motivo o per un altro.
“Dannazione, me le immagino quelle pettegole – sbuffò Angela, rigirando con impazienza il latte che stava scaldando su un pentolino – tutte a vantarsi di essere state con te. Certo, perché tu non sapevi tenere le mani ferme. Jean! Forza, scendi! Tua sorella ha fatto colazione da un pezzo ed è già andata a scuola!”
“Parli come se la cosa ti giungesse nuova – ribatté James, col medesimo tono, sedendosi a tavola e prendendo con aria cupa una fetta di pane caldo – sapevi benissimo chi ero e quanto successo avevo tra le ragazze, non capisco come la cosa ti possa irritare così. Quello che conta è che da quando ci siamo messi assieme ti sono sempre stato fedele, e tu lo sai”.
“Penelope River! Come sei potuto cadere così in basso?” replicò Angela, girandosi verso di lui e fissandolo con occhi che mandavano scintille.
“Merda, moglie! Avevo sì e no sedici anni e ci sarò stato massimo una quindicina di giorni: era una bella ragazza, tutto qui. Come mi sono accorto che non mi andava a genio è finita… amen, punto, basta. Vogliamo parlare dei commenti che quell’idiota  di Toby Mood faceva sul tuo sedere quando eravamo già fidanzati?”
“Non sviare il discorso in cose che non c’entrano niente, James Havoc! – il cucchiaio girò così forte che degli schizzi di latte caddero sul fornello – non mi pare di aver mai amoreggiato con lui. Avevo ben presente che razza di individuo fosse”.
“Però non hai fatto niente per mettere a tacere la sua bocca: ci ho dovuto pensare io!”
“Oh certo, con la tua solita smania di fare a pugni, me lo ricordo bene. Proprio un comportamento maturo… come matura è stata la tua grande idea di chiedermi di sposarmi il giorno dopo quasi a tutelarti che non ci fossero commenti sul mio sedere”.
“Sì, e tu mi hai dato il benservito per almeno un mese, dannazione a te. Sembrava che ti avessi fatto chissà quale torto… come in questo caso! Sul serio, ragazza, a volte sei davvero impossibile: non so proprio da che parte prenderti”.
“Penelope Catalina, dannata pettegola, maligna… santo cielo, quanto la detesto! Sin dalla scuola non la sopportavo”.
I due non dissero altro, mentre una strana forma di gelosia del passato si frapponeva tra loro. Alla fine non si trattava di niente di grave, solo di uno dei tanti litigi che, ad intervalli irregolari, erano destinati a scoppiare tra i due coniugi. Implicitamente entrambi sapevano che nell’arco di qualche giorno ci avrebbero fatto una bella risata sopra; tuttavia in quel momento non erano proprio dell’umore giusto per tentare la via della riappacificazione, ciascuno preso dalle sue ragioni.
“Se Penelope non ti piace così tanto come mai hai permesso a nostro figlio di frequentare Rebecca?”
Angela rimase in colpevole silenzio davanti a quella provocazione, ma poi tirò su col naso e scosse il capo. Non era da lei discriminare dei ragazzi a causa dei loro genitori: non l’aveva fatto con Heymans e lo stesso valeva per Rebecca. Per quanto la giovane assomigliasse molto alla madre non meritava di venir guardata con sospetto; senza contare che si era dimostrata di indole molto più buona rispetto a quella maligna della genitrice: il sangue Catalina aveva avuto la meglio su quello River per le cose che contavano.
“Quel broccolo è riuscito a rovinare tutto quello che poteva rovinare – rispose cambiando argomento – non ho mai sentito una proposta più idiota. Certo che, conoscendolo, potevi anche sondare le sue idee prima di lasciargli fare una figuraccia simile. Se Rebecca non lo vorrà più vedere la posso capire”.
“Sono ragazzi, vedrai che dopo un periodo in cui si terranno il muso a vicenda si riappacificheranno”.
Forse avrebbe aggiunto anche altro, ma la conversazione venne interrotta dall’arrivo del diretto interessato che, senza salutare, si sedette al suo posto. Aveva l’aria stanca, cupa ed i capelli arruffati, segno che quella notte non aveva chiuso occhio. Attese che la madre gli versasse il latte nella tazza e poi iniziò a mangiare in assoluto silenzio e senza particolare interesse per il cibo.
“Oggi non c’è molto da fare in emporio – gli disse James con lieve imbarazzo – hai la giornata libera”.
Non ricevendo che un mugugno in risposta, i due adulti si fissarono con attenzione, come a stabilire a chi toccasse provare a scrollare il loro primogenito.
“Senti, Jean – disse Angela alla fine, sedendosi accanto a lui – perché non vediamo come stanno le cose? Hai fatto una grossissima cavolata ieri sera con tutta quella storia e…”
“Cavolata? – finalmente il giovane uscì dal suo stato d’apatia e la fissò con rabbia – sono stato giorni a pensare ad un modo per venire incontro a quella fuori di testa di sua madre. Ma a quanto pare a tutti piace dimenticare che la colpa prima è stata di Rebecca e che lei non ha mosso dito per accomodare le cose: ha lasciato tutte le grane a me”.
“Per quanto buona parte della colpa sia sua – intervenne James – la tua idea non è stata delle migliori. Come se non conoscessi la tua fidanzata, ragazzo. Credevi sul serio che avrebbe applaudito alla tua soluzione e ti avrebbe ringraziato con un bacio? Non ti facevo così scemo”.
“James, e dai!”
“L’idea è stata scema, non neghiamolo”.
“Come la tua proposta di matrimonio dopo i commenti di Toby Mood sul mio sedere – sibilò Angela – non rimproverare tuo figlio dato che, palesemente, ha preso tutto da te”.
“Comunque ho risolto il problema – li bloccò Jean con fastidio – dato che quella sciocca non ha avuto di meglio da fare che insultarmi e andare via con sua madre, allora è tutto finito tra noi. Non voglio essere messo in mezzo a liti familiari, mi bastano quelle che avvengono fin troppo spesso in questa casa”.
Con aria stizzita spinse in avanti la sua tazza di latte e, frugandosi nelle tasche, tirò fuori un pacchetto di sigarette ed uno di fiammiferi. Se ne accese una in silenzio e fissò con aria vacua la piccola nuvola di fumo che saliva verso il soffitto.
“E’ una decisione drastica e presa d’impulso – lo rimproverò con gentilezza Angela, prendendogli la sigaretta di mano e spegnendola su un piattino vuoto – non sai quello che dici. Dai, caro, smettila di fare così: non mi piace vederti con un simile broncio, non è da te”.
“Vado in paese da Heymans – disse per tutta risposta il giovane, alzandosi – l’unica nota positiva è che sia tornato proprio in questi giorni. Non so se torno per pranzo, nel caso ci vediamo direttamente a cena”.
 
Non era da Jean comportarsi in questo modo e scombinare così la sua routine a casa.
In genere le sue pene amorose venivano sfogate con rabbia, scenate degne degli Havoc, qualcosa di comunque rumoroso od originale. Quella versione apatica e rassegnata gli era praticamente sconosciuta, ma era arrivata in maniera improvvisa e profonda e non aveva nessuna intenzione di mollarlo. Proprio l’intensità di quel malessere l’aveva spinto a quella decisione drastica di terminare il suo rapporto con Rebecca. Oggettivamente, se si andavano ad escludere gli amoreggiamenti ed altri rari momenti, negli ultimi tempi le cose non erano andate bene con lei. E questo voleva significare che una convivenza stretta non era proprio immaginabile: con una simile mancanza di prospettiva che senso aveva continuare?
Cinque anni buttati al vento… e ci si aspettava anche il matrimonio – pensò con amarezza arrivando in paese – no, proprio no, Rebecca. Non funziona tra di noi e sono stanco di sopportare tutte le tue angherie.
Lanciò un’occhiata distratta alla via laterale che portava alla casa della ragazza, ma poi proseguì dritto per andare verso l’abitazione di Heymans.
Non rimase sorpreso di trovare il suo amico già fuori dalla porta, seduto sui gradini. Per quel legame che li univa sin da quando erano alle scuole medie, era come se ciascuno sapesse alla perfezione quando l’altro aveva bisogno di aiuto.
“Quando avrai bisogno di me, io ci sarò sempre e so che anche per te sarà così”.
Era questa la promessa che si erano scambiati a quattordici anni, con un patto di sangue e fratellanza e nel corso del tempo mai una volta uno di loro era venuto meno.
“La tua faccia dice tutto – commentò Heymans, sistemandosi meglio la sciarpa attorno al collo – non hai dormito per niente e sei rimasto a rimuginare nei tuoi cupi pensieri”.
“La lascio, troppi problemi – dichiarò secco Jean, capendo che non c’era bisogno di spiegare altro – che rimanga nel suo brodo e distrugga la vita di un’altra persona. Sono stanco di lottare per lei e venir trattato a pesci in faccia. Sembra che non ne faccia una giusta”.
Heymans stava per replicare, ma poi scosse il capo e gli batté qualche pacca solidale sulla spalla protetta da un caldo cappotto scuro. C’erano momenti per prendere in giro e far capire i propri errori, ma in altri l’unica cosa da fare era capire lo stato d’animo e comportarsi di conseguenza.
“Rebecca non ha un carattere di facile gestione” si limitò a dire.
“Mi sono rotto le scatole di lei e della sua famiglia. Voglio solo esser lasciato in pace, chiedo tanto?”
“No, non chiedi tanto – ammise Heymans – ti conosco bene e dalla tua faccia capisco che hai decisamente bisogno di una pausa”.
Lo disse con sincerità, ritenendo che forse non sarebbe stato così male se i due giovani non si fossero frequentati per qualche periodo. Avrebbero sbollito entrambi e sarebbe servito loro a capire determinati limiti che non andavano oltrepassati.
“Ventaccio schifoso – commentò Jean, soffiandosi le mani e socchiudendo gli occhi come arrivarono nella strada principale – strano che non abbia nevicato”.
“E’ che non ci sono nuvole – disse l’amico, notando come non ci fosse praticamente nessuno in giro – non fa in tempo a nevicare. Comunque è meglio che andiamo da qualche parte se non vogliamo congelare: torniamo a casa mia?”
“Ehi, ragazzi, che ci fate in giro con questo tempo?”
“Ciao, Roy” salutò Heymans, mentre il moro si avvicinava a loro.
“Ci si schiariva le idee – mormorò Jean – e tu?”
“Rapida commissione prima di tornare a casa – spiegò lui, mostrando una busta di cartone – venite con me? Ieri le ragazze hanno fatto il sidro caldo e vi assicuro che merita davvero tanto. E niente è meglio del sidro caldo in queste giornate fredde piene di tormenti d’amore”.
“Questa frecciatina te la puoi anche ficcare dove dico io, Roy” bofonchiò Jean.
Tuttavia entrambi gli amici accettarono la risposta e nell’arco di dieci minuti si trovarono seduti ad un tavolo del locale di Madame Christmas con una caraffa di sidro caldo e delle frittelle con miele preparate da una delle ragazze.
“Non sapevo che cucinassero così bene” commentò Heymans.
“Oh, diverse di loro hanno l’animo delle casalinghe perfette – spiegò Roy, posandosi con soddisfazione allo schienale della sedia e stiracchiandosi come un gatto – sarebbero degli ottimi partiti in una società meno bigotta, credi a me”.
“Ma come? – una delle ragazze arrivò dalla cucina e portò una torta ancora calda. Era avvolta in un caldo vestito verde ed indossava un grembiule con qualche macchia di cioccolato. Aveva il viso tondo e vivace, con folti capelli castani raccolti in una treccia che cadeva morbida sulla schiena. In qualche modo ricordava la madre di Kain, specie nell’aspetto da ragazzina. Nessuno in quel momento poteva pensare che di sera si concedesse ai clienti, si sarebbe pensato solo ad una dolce fanciulla della porta accanto – credevo che ci fosse anche Kain con voi. Mi avrebbe fatto piacere rivederlo”.
“No, Lola – sorrise il cadetto – gnometto a quest’ora è a scuola, ma uno di questi pomeriggi posso rompere la radio e farlo venire per aggiustarla. Anche a lui farà piacere rivederti”.
“Oh, quel vecchio catorcio: ormai sarebbe ora di comprarne una nuova. Credo che nemmeno zuccherino ci possa fare qualcosa – sbuffò lei, lanciando un’occhiata malinconica all’apparecchio ormai datato che stava sopra il bancone – Spero che Madame prima o poi si decida. Veniamo a noi, giovanotti… allora, state trattando bene le vostre fidanzate?”
“La mia la sto trattando benissimo… Heymans non è fidanzato e Jean ha appena deciso di troncare”.
“Fanculo, Roy”.
“Spero che tu non le abbia fatto nulla di male” lo guardò male Lola.
“Veramente la sberla me la sono presa io… sua madre mi odia e ora pure lei. Le ho fatto anche un favore con questa decisione, credimi” sbottò Jean, per niente imbarazzato nel dare del tu a quella donna.
“Comunque fammi il favore di non farti vedere in questo locale durante gli orari di lavoro – Lola si sedette sulla sedia libera del tavolo – sei un amico di Roy e non mi piacerebbe che iniziassi a frequentare qualcuna di noi solo per ripicca come succede a volte”.
“Non è il tipo, credimi – la rassicurò il moro, mettendosi a braccia conserte – e poi tu e le altre non siete affatto male, Lola, l’ho sempre detto”.
“Faccia tosta – sbuffò lei – è che ti conosco da quando eri piccolo, altrimenti non ti permetterei di scherzare così sulle nostre condizioni. Chissà, forse un giorno arriverà davvero quello giusto per me… anche zuccherino me l’aveva detto anni fa. Ma allora credo proprio non sapesse che tipo di lavoro facevo, forse oggi avrebbe qualche dubbio in merito anche lui”.
Roy ridacchiò nel ricordare quando aveva portato un undicenne Kain a riparare la radio del locale. Era stato davvero buffo vederlo attorniato da tutte le ragazze con le guance rosse per l’imbarazzo, completamente ignaro del fatto che fossero prostitute. In particolare aveva stretto amicizia con Lola ed era stato molto gentile ed educato nel parlare con lei… un tipo di persona che difficilmente si incontra in posti come quello, specie come clienti.
A dire il vero il locale di Madame si trovava in una situazione davvero particolare, probabilmente possibile solo in quel piccolo angolo di mondo. Com’era stato prevedibile, con gli anni non c’era stato ricambio di ragazze e dunque vi erano sempre le stesse ormai donne oltre che trentenni, alcune addirittura più vicine ai cinquanta che ai quaranta. Alcune, negli ultimi tempi, avevano deciso di tornare nei loro luoghi d’origine, forti del piccolo gruzzolo che si erano guadagnate nel corso degli anni. In una grande città questo avrebbe provocato la chiusura del locale, ma in paese restava uno zoccolo duro di clienti, ormai felici di andare in quel posto particolare anche solo per mangiare e fare quattro chiacchiere con quelle donne più smaliziate delle loro mogli.
“Mai smettere di sperare – dichiarò Roy, servendosi una fetta di torta – e comunque per come cucini i dolci diverse persone ti sposerebbero all’istante”.
“E vedrai cosa ti cucino per pranzo – strizzò l’occhio lei, forse la più fedele a Madame Christmas – dato che il cuoco è malato mi posso sbizzarrire ai fornelli. Che dite, ragazzi, restate anche voi? Ovviamente tutto offerto dalla casa”.
 
A volte basta la compagnia degli amici per rendere una giornata iniziata male più serena.
Nell’arco di qualche ora Jean riuscì a recuperare parte del suo buonumore, tanto da riuscire a ridere alle battute di Roy, ad interessarsi ai racconti di Heymans e a rimpiangere di non essersi goduto la festa del giorno prima come si doveva. Era arrivato alla conclusione che, almeno per quei giorni in cui c’erano i suoi due amici, non valeva la pena struggersi troppo per la rottura con Rebecca.
“Comunque non appena porti la moto qui mi devi insegnare ad usarla – stava dicendo in quel momento, mentre terminavano di mangiare l’arrosto che Lola aveva cucinato in maniera più che egregia – dev’essere un’esperienza fantastica”.
“Non è semplicissimo – spiegò Roy – paradossalmente potrebbe farcela con maggior facilità Kain che ha già qualche allenamento con la bici. Molto dipende dall’equilibrio, e dal saper gestire il peso, specie nelle curve. Però te la faccio provare di sicuro: male che vada ci facciamo un giro assieme… anche se il primo sarà con Riza, me lo sono ripromesso”.
“Io invece sarò curioso di vedere come la prenderà il capitano Falman – ridacchiò Heymans, bevendo un sorso d’acqua – attendo con ansia il momento in cui ti urlerà le peggio minacce mentre tu scorrazzi con la moto per le vie del paese”.
“Lo mantengo giovane, che volete che vi dica”.
“Secondo me lo invecchi prematuramente e…”
Il discorso si interruppe quando si sentì il campanello della porta suonare.
Roy aprì bocca per dire che il locale era chiuso, ma la frase non venne pronunciata quando vide di chi si trattava. Anche Heymans si girò verso la porta e sgranò gli occhi con sorpresa.
“Ehilà, signori – salutò Arthur Doyle con un sorriso, liberandosi il viso dalla pesante sciarpa che portava – non vi fate mancare il vento in questo paese, vero?”
 
“Oh, è solo bastata un po’ di deduzione – commentò il giovane Doyle, seduto nel posto vuoto che era stato apparecchiato per lui, servendosi una generosa dose di arrosto– sono andato alla stazione dei treni e ho controllato quali sono quelli che partono ogni due giorni verso questa direzione. La fortuna mi è stata amica perché ce n’era uno solo con queste caratteristiche. Per quanto non mi ricordassi il nome del paese sapevo però che il viaggio durava circa cinque ore e mezza e con qualche domanda di conferma in biglietteria ho preso il treno che partiva stamane presto. Se proprio mi andava male avrei dormito nella locanda di qualche paese sconosciuto”.
“Sarai sprecato come giudice – sogghignò Roy – dovresti fare il poliziotto”.
“Piuttosto cosa ti porta qui? – chiese Heymans leggermente preoccupato – non mi pare che fossimo rimasti d’accordo su una tua visita. Anzi, se non ricordo male avevi parlato di qualche festa importante in società”.
“Effettivamente è proprio quella festa il motivo per cui sono qui – scrollò le spalle l’altro con noncuranza, mentre una ciocca di capelli scuri gli cadeva sulla fronte spaziosa – ho avuto uno dei soliti litigi con mio padre proprio nel mezzo del ricevimento e questo, il giorno dopo, ha portato ad una colazione che resterà negli annali di famiglia, con tanto di crisi isterica di mia madre”.
“Morale della favola?”
“Vengo a stare al pensionato dove stai tu, amico mio – sorrise maliziosamente Arthur, bevendo un sorso dal suo bicchiere – ho già preso accordi con la signora”.
“Sei fuori di testa”.
“E lasci la tua famiglia così?” chiese Jean che per tutto quel tempo aveva squadrato quel giovane elegante con un misto di sospetto e ammirazione.
“Credimi, non hai idea di quanto la mia assenza possa giovare a tutti quanti. La situazione a casa era diventata abbastanza insostenibile”.
“Puoi restare a dormire qui per questi giorni prima del nostro ritorno in città – si offrì immediatamente Roy – sopra ci sono diverse stanze per gli ospiti. Sarà più riservato rispetto alla locanda”.
“Grazie mille, Roy. Bene, passiamo a voi: come è andata la vostra famosa festa del primo dicembre?”
“Non sono mancate le occasioni di pettegolezzo – disse evasivamente Jean, invitando con un’occhiata i suoi amici a tacere – per il resto presumo che sia stata banale rispetto al ricevimento di cui hai parlato prima”.
“Partecipa ad uno di quei ricevimenti e rivedrai il tuo concetto di banalità – sorrise lievemente Arthur – allora, tu che fai di bello nella vita?”
“Lavoro nell’emporio dei miei genitori, fuori dal paese” senza rendersene conto Jean raddrizzò le spalle, quasi a sfidarlo a prendere in giro la sua professione.
“Spero che almeno tu sarai felice di seguire le orme di tuo padre quando l’attività passerà a te”.
“Certamente…”
“Comunque in questi giorni che starai qui organizzeremo qualcosa, tempo permettendo – si intromise Roy – ti presenterò al resto della combriccola, vedrai sarà divertente”.
“Più che giusto – annuì Heymans, alzandosi in piedi – comunque ora è meglio che torni a casa: ho promesso a mia madre che l’avrei aiutata a sistemare un’imposta della finestra che sta dando problemi. Ed è meglio che provveda subito dato che questo vento proprio non aiuta”.
“Vengo pure io” lo imitò Jean.
Dopo dei rapidi saluti Roy ed Arthur rimasero soli nel locale.
“Fammi indovinare, il miglior amico di Heymans?”
“Non si era capito? – rispose il cadetto con aria di chi la sa lunga – E anche se ti sembrano una coppia mal assortita ti assicuro che raramente ho visto un legame così forte. Benvenuto in questo piccolo angolo di mondo, Arthur Doyle, dove niente è così scontato come sembra”.
 
“E così è un tuo collega di Università – commentò Jean – più che collega direi amico”.
“Ma non migliore amico, prima che la tua testa inizi a farsi strane idee – lo bloccò Heymans con calma – è un bel personaggio e ci parlo volentieri, tutto qui. Ma non essere così stupido da comportarti come ha fatto Vato quando era venuto Maes in paese, ti ricordi? Noi siamo al di sopra di tutto questo, Jean Havoc, la gelosia sull’amicizia non ha motivo di esistere”.
“E’ un damerino…”
“No, questo no – scosse il capo il rosso, mentre giravano nella strada laterale che conduceva a casa sua – è intelligente, furbo, con un sacco di doti. Il suo più grande difetto è quello di aver poca diplomazia in famiglia e con il padre i rapporti non sono un granché”.
“E’ per questo che ti attira tanto?”
I due amici si fermarono in mezzo alla strada, ignorando il vento che sferzava sui loro visi.
Raramente il discorso di Gregor Breda veniva tirato fuori in maniera così brusca ed improvvisa. Jean, anzi, faceva ben attenzione a non pronunciare il nome di quella persona che aveva torturato per quindici anni la sua famiglia e che era stata allontanata dal paese con un decreto di espulsione che gli impediva di tornare.
Di colpo nella testa del biondo tornarono frammenti di quella mattina assurda di cinque anni prima, quando era corso a chiamare suo padre per evitare una tragedia a casa Breda. Immagini di quell’uomo così grosso, così somigliante al suo amico ora che era cresciuto, con quello sguardo feroce e malato rivolto verso il figlio; di Heymans rannicchiato contro la parete, il viso sofferente per un colpo ricevuto… quella tensione che sembrava sommergere chiunque si trovasse in quell’ambiente. Ricordò di essersi sentito nauseato e spaventato, di aver temuto per suo padre quando si era scagliato contro quel mostro. Perché era questo che Gregor Breda era nei ricordi di Jean: un mostro che non era degno di esser chiamato padre.
“Non c’è paragone – disse Heymans con voce piatta – ti assicuro che il giudice Doyle è una brava persona. Forse molto intransigente, specie col figlio, ma non è… non è come lui”.
Lui…
Era raro che Heymans arrivasse a riferirsi al padre in maniera così diretta, persino usando un pronome.
“Scusami, sono un coglione – disse prontamente Jean – è che questa storia di Rebecca mi ha davvero stressato e poi l’arrivo di quello là è stata la ciliegina sulla torta”.
“Fa niente – lo consolò il rosso – ti conosco, amico mio, e so di che pasta sei fatto. Ehi, ti ricordi il nostro patto d’amicizia? Jean Havoc, sei il mio miglior amico, il mio fratello di sangue acquisito. Quando avrai bisogno di me, io ci sarò sempre e so che anche per te sarà così”.
“Ci pensavo giusto stamattina” sorrise Jean.
“Vedi che la sintonia funziona sempre? – sogghignò Heymans – All’epoca eravamo preoccupati che avvicinarci a Roy Mustang potesse mettere in crisi il nostro rapporto, ma quanto è durato questo dubbio? Due minuti, massimo tre? E se non c’è riuscito Roy Mustang non lo potrà fare nessuno”.
“Ma sì, hai ragione: ormai i rapporti del gruppo sono troppo consolidati per essere scalfiti. Cercherò di essere gentile con Arthur”.
“Mi farebbe piacere, anzi sono sicuro che lo troverai divertente. Ehilà, mamma! – chiamò mentre entravano in casa – Siamo io e Jean. Adesso controlliamo quell’imposta, va bene?”
“Ciao, ragazzi! – salutò Laura, affacciandosi dalle scale assieme a Riza – se serve qualcosa noi siamo in camera a terminare dei rammendi, va bene?”
“Ciao, biondina – salutò di rimando Heymans – tutto bene?”
“Sono arrivata circa mezz’ora fa – annuì la ragazza – eri da Roy?”
“Sì, va tutto bene. C’è un nostro amico di città che è venuto a trovarci e starà da lui. Ma ne parliamo dopo”.
“Ah sì, dopo ti devo parlare anche io di una cosa” aggiunse Jean con fare noncurante.
“Va bene… è successo qualcosa?”
“Niente di particolare… come ti ho detto, ne parliamo quando finisci”.
 
Jean Havoc era una persona onesta e testarda per certe cose.
Anche se era furente con Rebecca e aveva deciso che con lei era finito, riteneva corretto annunciarle la cosa. Meglio mettere le cose in chiaro per evitare futuri problemi.
Tuttavia per addentrarsi in quel territorio ostile che era casa Catalina, era necessario avere una preziosa alleata e nessuno era meglio di Riza. Avrebbe fatto da ambasciatrice, ed avrebbe evitato che scoppiasse la tragedia.
“Dubito che ci ascolterà – disse la bionda scuotendo il capo, mentre con Jean si avviava a casa dell’amica, circa un’ora dopo – non mi ha aperto nemmeno stamane quando sono passata a vedere come stava”.
“E’ proprio una stronza se si comporta così anche con te che sei la sua miglior amica”.
Riza non rispose, evidentemente offesa per quel trattamento ingiusto che stava ricevendo. Effettivamente si era dimostrata un po’ titubante nell’accompagnarlo in quella strana ambasciata e di questo Jean si era leggermente pentito.
Ma a conti fatti era meglio chiudere del tutto la faccenda.
Bussò alla porta e rimase in attesa, stringendo con affetto un braccio dell’amica, quasi a farle coraggio.
Ad aprire, dopo un minuto, fu la sorella maggiore di Rebecca.
“Ciao, Polly…” salutò Riza.
“Non ne vuole sapere – sospirò la ragazza, più grande di loro di circa due anni – anche prima sono andata a chiamarla ma non è voluta scendere in cucina nemmeno per una tazza di the e della torta: le ho dovuto portare la merenda in camera”.
“Chi è, Polly?” chiamò la voce della madre
“Riza, mamma! – rispose la ragazza, intercettando il segnale di diniego di Jean – Ci penso io, tranquilla”.
“Dille di lasciare in pace mia figlia… lei e la sua banda di poco di buono!”
“Stronza…” sibilò Jean, mentre Riza abbassava la testa e Polly arrossiva con imbarazzo.
“Scusatela. E’ che proprio non le passa ed è preoccupata per Reby”.
“No, no… è proprio stronza. Mi sa che tu sei l’unica normale in famiglia”.
“Sentite, forse è meglio che andate”.
“Mi fai il favore di dare un messaggio a tua sorella? – Jean mise una mano sulla spalla di Riza, quasi a proteggerla da quella brutta situazione – Dille che tra noi è finita. Non vale la pena portare avanti questa storia”.
“Cosa?” gli occhi scuri della giovane si sgranarono con sorpresa.
“Se vorrà chiedermi ulteriori spiegazioni, insultarmi, dirmi quello che vuole… beh, sa dove trovarmi – disse con calma Jean, non vedendo l’ora di andare via da quella soglia – Dille solo che sono stanco di determinati atteggiamenti e che, a pensarci bene, è meglio per entrambi”.
“Oh, non credo che la prenderà bene”.
“Pensa come l’ho presa bene io ieri sera, quando mi ha trattato a pesci in faccia” replicò cupamente.
“Riferirò…”
“Grazie, Polly. Vieni, Riza, andiamo”.
Senza attendere risposta incitò l’amica a muoversi.
Camminarono in silenzio fino a quando tornarono sulla strada principale.
“In fondo è stato un errore chiamarti in causa – dichiarò cupo – mi dispiace”.
“Sei proprio sicuro della tua decisione? Insomma, cinque anni assieme… ne avete passate tante, Jean, è solo più brutta delle altre volte, tutto qui. Se non fosse stato per sua madre non credo che…”
“Sai quando sei stanco di qualcosa e non ne puoi più?” la interruppe lui.
“Però…”
“Sul serio, Riza, per una volta tanto tu ed Heymans non potete fare niente in merito. Voglio solo un po’ di maledettissima pace, con i miei amici: è chiedere tanto?”
“Ma no – scosse il capo lei con tristezza – è che mi dispiace”.
“Dispiace a me per come vieni trattata da lei. Senti, domani sia Vato che Elisa sono liberi: organizziamo una merenda in grande stile? Tutto il gruppo! Così quell’amico di Heymans e Roy si divertirà un poco in questo mortorio di paese”.
Riza lo fissò perplessa per qualche secondo, ma poi capì la sua vera intenzione.
Jean voleva dimenticare e voleva far dimenticare pure a lei quella brutta situazione. Per quanto fosse triste per la fine della sua relazione con Rebecca, non si dimenticava nemmeno per un secondo degli amici, una dote che Riza aveva sempre apprezzato in lui. Forte, solido, sincero… come la campagna che li circondava, come il sole estivo che tanto ricordava il dorato dei suoi capelli.
“Passo da Roy e gli chiedo se per lui va bene. Posso chiedere a mio nonno se possiamo andare a casa sua. Il salone è molto spazioso e ci staremo tutti comodamente. E poi credo che sarebbe davvero curioso di conoscere il figlio di un giudice”.
“Giudice e notaio… bella coppia. Vuoi vedere che succede come per tuo padre? Da figlio di notaio è diventato ingegnere”.
“Chissà”.
Si salutarono e ciascuno corse via per stare il meno possibile sotto quel vento freddo.






____________________
Eccomi rientrata dalle vacanze.
Come era successo in un anno per crescere, il capitolo dopo la festa del primo dicembre è dedicato alle conseguenze di quanto successo nel capannone. Curiosamente anche in quel caso Jean aveva riflettuto sul suo rapporto con Rebecca, ma ancora non immaginava cosa sarebbe successo: all'epoca aveva solo quattordici anni e le sue idee sull'amore erano molto confuse.
Lo so che molti di voi penseranno che questa sia la classica decisione impulsiva di Havoc, ma da parte mia un minimo di solidarietà ce l'ha, come dimostrano anche le reazioni di Heymans e Riza. Jean è testone, impulsivo, gli si possono elencare decine di difetti, ma nemmeno Rebecca scherza. E credo che sia normale che dopo un po' subentri una forma di malessere e stanchezza che ti faccia chiedere "ma chi me lo fa fare?" Tra gli alti e bassi di questa relazione ci può stare anche una crisi simile.
Venendo al resto... vi ricordate di Lola? ^_^
Alla prossima
Laylath




 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Capitolo 13. Il momento di decidere ***


 

Capitolo 13. Il momento di decidere

 


 
Una cosa si poteva dire con certezza di Arthur Doyle: quando voleva sapeva essere un giovane davvero affascinante. A casa del notaio Fury, per la merenda organizzata da Riza, si stava comportando come il più garbato degli ospiti: aveva parlato con tutti quanti, trovando sempre l’argomento giusto, si era prodigato di complimenti con tutte le donne presenti, comprese Ellie e sua suocera, senza però risultare melenso ed infine aveva intavolato col notaio ed Heymans una discussione su alcune materie di giurisprudenza che dimostrava come fosse davvero ferrato in quella materia. A vederlo si sarebbe detto più che ovvio che seguisse le orme paterne, era palese che la dottrina forense catturava il suo interesse più del previsto.
“Non capisco come uno a modo come lui sia andato via di casa – commentò Riza, guardandolo parlare con suo nonno adottivo, comodamente seduto su una poltrona – eppure sembra così tranquillo”.
“Credimi, è pieno di sorprese – la corresse Roy, passandole il piatto per farsi mettere una nuova fetta di torta – il vero problema non è la giurisprudenza quanto suo padre. Arthur è molto indipendente mentre il giudice Doyle, a quanto si dice, è molto severo e pressante: ottima dote per un rappresentante della giustizia, ma non per il padre di uno come il nostro amico”.
“Insofferente alla disciplina? Mi ricorda un po’ le tue continue liti col capitano Falman”.
Il cadetto le lanciò un’occhiata indispettita per quella frecciatina, ma poi scosse il capo con un sorriso di scusa. All’inizio pure lui aveva fatto un simile parallelismo, ma aveva ben presto capito che si trattava di due cose molto differenti: il capitano Falman non l’aveva mai pressato a fare qualcosa che lui non voleva. L’aveva, più che altro, tenuto dentro il seminato quando ancora lui non capiva bene quali fossero i giusti confini della strada da seguire. Roy era abbastanza onesto da rendere merito al grande lavoro che l’uomo aveva fatto con lui e si rendeva conto che ad Arthur era mancata una guida simile, capace di incanalare un carattere difficile in un percorso produttivo.
“A proposito del capitano, mi dispiace che non sia venuto. Stasera passo a trovarlo: voglio chiedergli se lui e la signora vogliono venire alla cerimonia di fine Accademia”.
“Davvero? – Riza lo fissò con meraviglia – Saranno contenti di ricevere questo invito, ne sono sicura”.
“Ci ho pensato a lungo e alla fine sono arrivato alla conclusione che mi farebbe piacere se ci fossero. In fondo devo qualcosa al buon vecchio capitano Falman, no?” l’ultima frase fu detta in tono canzonatorio, quasi a nascondere l’estremo affetto dimostrato in precedenza.
“Lui è estremamente fiero di te: sono certa che si prenderà qualche giorno di ferie per assistere a questo grande evento – annuì la fidanzata con gioia – con tutta probabilità verrà pure Vato”.
“E tu?”
“Io? – Riza esitò, colta in flagrante, tanto che non poté fare a meno di sentirsi come un animale appena caduto nella trappola – Non ho ancora avuto occasione di parlarne con i miei genitori. Con tutta la storia di Rebecca ho avuto altro a cui pensare”.
“Capisco – commentò Roy, fissandola di sbieco. Poi un sorriso furbo gli comparve sulle labbra e gli occhi si accesero di malizia – allora approfittiamo della situazione: i tuoi sono entrambi qui e ci sono pure io con la mia grande persuasione. Guarda, proprio adesso non stanno parlando con nessuno: è il momento ideale”.
E presa per mano la ragazza si diresse dall’altra parte del grande salone, dove Ellie ed Andrew stavano chiacchierando tranquillamente tra di loro.
“No, Roy…” mormorò Riza, trovandosi con le spalle al muro. E’ vero che la situazione con Rebecca aveva occupato molto del suo tempo, ma aveva evitato di proposito di iniziare quel discorso con i suoi genitori. La solita paura di fare qualcosa di nuovo che la spingesse fuori dal paese l’aveva fatta da padrone e così aveva deciso di rimandare il più possibile.
Non si era minimamente immaginata che il suo fidanzato prendesse questo tipo d’iniziativa.
“Tutto bene, ragazzi?” chiese Andrew come si accostarono a loro.
“Certamente, signore – rispose prontamente Roy – siamo qui perché dobbiamo chiedervi un enorme favore e Riza mi ha chiesto di parlare perché si sentiva un po’ in imbarazzo”.
“Cielo, cara, ma quando mai ti devi sentire in imbarazzo con noi? – chiese Ellie, prendendo a braccetto la figlia adottiva – Non devi mai esitare a chiedere. Di che si tratta?”
“Ecco, io…” arrossì, Riza.
“A gennaio ci sarà la cerimonia di fine Accademia – proseguì il cadetto con disinvoltura – e ho invitato Riza a essere presente. Lei ovviamente voleva chiedervi prima il permesso, ma aveva timore che per voi fosse un problema”.
A quella richiesta ci fu qualche breve secondo di silenzio, durante il quale i due coniugi Fury si fissarono l’un l’altro con qualche perplessità. Poi lo sguardo di entrambi corse a Riza, la quale abbassò gli occhi con aria colpevole, arrossendo vistosamente.
“Non ce ne aveva accennato…” iniziò Ellie.
“Beh, gliene ho parlato solo alla festa nel capannone – annuì Roy – però sono delle cose che richiedono un certo preavviso, me ne rendo conto. Ho pensato che magari Riza potrebbe stare da suo nonno, del resto è parecchio tempo che non si vedono. Si tratterebbe solo di qualche giorno e a me farebbe molto piacere se la mia fidanzata fosse presente ad un traguardo così importante”.
Ci sapeva fare con la persuasione Roy Mustang, su questo non c’erano dubbi. Per quanto fosse sicuro di sé, a volte fino alla strafottenza, era capace di assumere le espressioni più miti e devote quando era l’occasione giusta. E non si trattava di finzione, per quanto certi atteggiamenti fossero strani da vedere in una personalità forte come la sua.
Tuttavia un conto era ammaliare i suoi docenti d’Accademia, un altro era aver a che fare con gli adulti che l’avevano seguito fin da quando era un adolescente scatenato che ancora non sapeva dominare questo suo modo di fare.
“E’ una proposta tutto sommato ragionevole – disse Andrew con tranquillità, accennando a Riza di andargli accanto – ma prima di dare il permesso, io e mia moglie vorremmo scambiare un paio di parole con la diretta interessata. Tu ci scuserai, vero Roy?”
Un lieve broncio apparve sul bel viso del bruno, ma sparì nell’arco di un secondo.
“Assolutamente – annuì – io torno a parlare con gli altri, fate pure con comodo. Ah, ovviamente vorrei precisare che l’invito è esteso anche a Kain: sono sicuro che gli farebbe davvero piacere farsi un viaggetto ad East City”.
“Ne terremo conto. Vieni, cara, andiamo nello studio di mio padre”.
 
L’animo di Riza era un misto di sollievo e di ansia mentre si allontanava da Roy assieme ai suoi genitori. Da una parte si sentiva grata per quella strana forma di salvataggio dalla troppa intraprendenza del suo fidanzato, dall’altra era in enorme imbarazzo perché quegli strani e scomodi altarini erano stati scoperti. E questo voleva dire tirar fuori con Andrew ed Ellie buona parte delle sue preoccupazioni.
Era stata poche volte nello studio del suo nonno adottivo, ma l’aveva sempre trovato imponente e affascinante. Sebbene in quegli anni fosse stata qualche volta ad East City e avesse visto i bellissimi ambienti della villa del generale Grumman, niente le aveva mai regalato lo stesso senso di conoscenza e giustizia che emanavano quelle pareti colme di pesanti libri di giurisprudenza. Le piaceva tantissimo la grande scrivania di legno di noce con le sedie che l’accompagnavano, così come le due poltrone di velluto rosso che stavano davanti al camino in pietra.
Era l’ambiente che rispecchiava appieno il vecchio notaio Fury, così solido e sicuro con la sua sola presenza. Proprio come lo studio di Andrew riusciva a rendere la sua personalità attenta e allo stesso tempo tranquilla.
Il suo studio invece riflette il caos che c’è dentro la sua anima…
Quel fastidioso rimando a Berthold fece rabbrividire leggermente la giovane. D’istinto il braccio che Andrew teneva attorno alle sue spalle la cinse con maggior dolcezza, quasi a volerla rassicurare.
“Accidenti, un invito ad East City – fece Ellie, iniziando l’argomento e distogliendola da quei pensieri – non è proprio come un invito ad andare a fare una passeggiata per le campagne”.
“Ve ne avrei parlato a tempo debito”.
“Non ne ho dubbi – la donna si accostò al camino acceso e si mise con le mani dietro la schiena. Il viso era illuminato da un sorriso particolarmente malizioso, come se fosse perfettamente consapevole del turbamento che quella proposta aveva provocato nella diretta interessata – però, come ha detto Roy, per organizzare certe cose ci vuole un certo preavviso. E la cosa che adesso mi importa è sapere che cosa ne pensi tu”.
“Veramente vorrei sapere cosa ne pensate voi – Riza sgranò gli occhi davanti a quella piega inattesa che aveva preso la discussione: aveva creduto che i suoi genitori le esponessero tutte le loro ragioni per farla o non farla andare. Non si aspettava di essere chiamata in causa – per andare ho chiaramente bisogno del vostro permesso”.
“Staresti da tuo nonno, persona di cui ci fidiamo dato che sei stata da lui più volte – continuò Ellie – e sono sicura che Roy ti tratterebbe nel modo dovuto quando starete assieme. Senza contare che ci sarà anche Heymans ad East City e questo ci tranquillizza non poco”.
“Suvvia, Ellie – sorrise con indulgenza Andrew – non mi pare il caso di proseguire”.
“Va bene, va bene – ridacchiò Ellie – è solo che mi fai ridere, tesoro: sembrava che ci dovessi dare chissà quale notizia a vedere la tua faccia. Come ti è venuto in mente che non ti dessimo il permesso per una cosa simile? Tu non hai idea di quanto sarei voluta andare alla laurea di Andrew, anni fa”.
“Basterà che tu scriva a tuo nonno, sono sicura che sarà davvero felice di ospitarti qualche giorno: è da quasi un anno che non vi vedete, ormai”.
Come sembrava tutto semplice e ovvio messo in quel modo: a vederla così anche tutto il tumulto che aveva nel suo cuore sembrava solo frutto di feroci paranoie. Però non poteva negare che c’era.
“Allora, dove sta il problema?” le chiese con gentilezza la madre adottiva.
“So che sembra sciocco – si convinse a confidare Riza – ma in qualche modo non mi sento pronta a venir presentata come fidanzata di Roy. Almeno non in un’occasione ufficiale come può essere la fine dell’Accademia… mi sembra un passo così ufficiale e così prematuro. Come se dovessi trasferirmi in città la mattina successiva”.
Terminò la frase e si fece silenzio. Aveva tenuto lo sguardo basso mentre esponeva i suoi timori, ma si arrischiò a sollevare gli occhi sui suoi genitori e notò come si fissassero con perplessità.
“Te l’ha detto Roy che dovrai trasferirti in città?” chiese Andrew.
“No, non ha accennato a niente di simile. Però è stupido negare che prima o poi dovrà succedere se un giorno ci sposeremo… e potrebbe essere addirittura Central City, ancora più lontana da qui. Ed io non mi sento assolutamente pronta ad andare via da casa, da questo posto – cercò di controllare il tremito della voce – in tutti questi anni mi sono sempre detta che tanto c’era ancora tempo, ma ora che sta terminando l’Accademia è come se tutto fosse diventato incredibilmente reale e vicino. Mentre io non sono maturata abbastanza per accettare la cosa”.
“Riza, nessuno ti obbliga ad andare in città se non lo vuoi”.
“Sono la sua fidanzata e lo amo – scosse il capo la ragazza – certo che prima o poi dovrò sposarlo, lo voglio sinceramente. E’ solo che… dannazione, non sapete quanto invidio Vato ed Elisa che sono tornati entrambi in paese e non hanno un simile problema. Io… io non voglio lasciarvi, non è come sposarmi ed andare ad abitare a nemmeno venti minuti di camminata. La città mi pare troppo grande e troppo caotica per me: un conto è andarci in gita per una settimana, ma viverci… santo cielo, mi sento così ingrata nei confronti di Roy”.
“Ehi, ragazzina – Andrew la abbracciò – guarda che il salto da paese a città non è mica uno scherzo. Sono stato ad East City per tre anni e ti assicuro che specie i primi tempi è stata dura. Non è assolutamente sciocco avere simili paure”.
“Però è sciocco pensare che un invito come quello ricevuto sia quasi un obbligo a trasferiti il giorno dopo – specificò Ellie – Tesoro, hai compiuto diciotto anni quest’estate e il tuo fidanzato sta terminando l’Accademia. Non credo che il matrimonio sia qualcosa che avverrà a breve, a meno che entrambi non lo vogliate come abbiamo fatto io e tuo padre anni fa. Ma la situazione mi pare estremamente diversa”.
“Dite quindi che dovrei accettare?”
“Dico che per noi non c’è nessun problema a far andare te e tuo fratello per qualche giorno ad East City – corresse Andrew – e sono sicuro che a Roy farà veramente piacere avervi lì in un momento così importante come la fine dell’Accademia. Oltre a voi ed Heymans ci sarà qualcun altro?”
“Roy vuole chiederlo anche al capitano Falman e a sua moglie, e penso che verrà anche Vato”.
“Con tutti loro ti sembra davvero un’occasione da evitare?”
Riza arrossì con imbarazzo, sentendosi davvero sciocca per aver proiettato tutte le sue paure in quell’avvenimento. Certo sarebbe stato un passo in avanti verso il loro futuro assieme e lontano dal paese, ma non quello definitivo. Forse, anzi, l’avrebbe aiutata a schiarirsi un po’ le idee.
“Sono così stupida…”
“Ma no – la consolò Ellie, prendendola per mano – adesso torniamo da Roy e gli diremo che, dopo tanto riflettere, abbiamo convenuto che possiamo darti il permesso per andare ad East City”.
 
“E così la tua fidanzata è la nipote del generale Grumman? Accidenti, una bella spinta in avanti per la tua carriera militare”.
Gli occhi chiari di Arthur si accesero di malizia mentre sollevava il bicchiere a mo’ di brindisi.
“Non ho intenzione di accettare favoritismi – scosse il capo Roy – sarebbe troppo semplice, ma comporterebbe anche una mancanza di rispetto da parte di tutto il resto dell’esercito: chi va avanti con queste spinte non ha mai una buona nomea”.
“Ma arriva più in fretta a Central City – scrollò le spalle l’altro – tutti gli altri gradi che ho conosciuto ai ricevimenti di mio padre avevano sempre cognomi conosciuti o mentori di una certa importanza. Semplice politica, amico mio, funziona così: se non accetti queste regole del gioco avrai difficoltà ad arrivare in cima… e tu mi sembri uno parecchio ambizioso”.
“Lo sono, infatti – il sorriso del cadetto si fece affascinante – ma voglio che la mia carriera si fondi su solide basi. Se non mi fondo sulle mie capacità sarò sempre in balia di chi mi ha portato in alto e questo, a lungo andare, si rivolterebbe contro di me. No, io voglio libertà di movimento: non voglio rendere conto a nessuno per mera riconoscenza. Finché si tratta di ordini da superiore a subordinato, ecco, quelle sono le regole del gioco che accetto, ma per il resto no”.
“Vuoi fare la mosca bianca nel mondo cupo delle raccomandazioni e del nepotismo – un altro brindisi, questa volta più lento – sta certo che seguirò i tuoi movimenti con grande interesse. Mi piacciono queste sfide contro il sistema”.
“Ti piacciono così tanto che tu stesso le fai – lo provocò Roy – immagino che tuo padre sarà livido di rabbia per quanto hai combinato. Chissà perché ho la netta impressione che tu non voglia diventare giudice”.
“Arthur Doyle junior, giudice degno erede di suo padre, Arthur Doyle senior… no, suona troppo banale e semplice, non penso faccia per me – c’era parecchia irriverenza in quell’affermazione, come se l’idea di provocare un simile scandalo non lo preoccupasse per niente – del resto siamo nel nuovo secolo ed i cambiamenti sono all’ordine del giorno. Persino quelli che spezzano una tradizione di cinque generazioni”.
“E cosa vuoi fare nella vita? Non mi sembri il tipo che farà qualcosa di sgradito solo per il gusto di dare un dispiacere al proprio vecchio”.
“Ho ancora un paio di anni all’Università per scegliere, non ho nessuna fretta. Oh, ma ecco che torna la nostra deliziosa signorina – salutò con galanteria, mentre Riza si faceva avanti – la lascio subito con il suo fidanzato, miss Riza, non vorrei mai essere di troppo”.
“Avrebbe un ottimo futuro come attore – sogghignò Roy, mentre osservava Arthur tornare verso il gruppo di altre persone – se lui seguirà il mio avvenire, anche io osserverò con interesse il suo. Allora, colombina, torniamo a noi: i tuoi ti hanno dato il permesso?”
“A me e a Kain – annuì Riza, stranamente con un sorriso più tranquillo rispetto a qualche minuto prima – anzi, è il caso di dargli la bella notizia. Kain! Vieni qui, ti devo dire una cosa”.
“Ne sono felice – Roy la guardò di sbieco, quasi a chiedersi cosa ci fosse dietro questo strano cambio d’umore – va tutto bene?”
“Certamente. Kain, ti devo dare una grande notizia: mamma e papà ci hanno dato il permesso per andare ad East City ad assistere alla cerimonia di fine Accademia di Roy”.
“Sul serio? – il ragazzino si illuminò in volto – Davvero possiamo andare? Oh, ma è una notizia meravigliosa! Non sapevo che ci avessi invitato, Roy! Grazie, grazie mille!”
“Volevo prima essere sicuro che i vostri genitori vi dessero il permesso, gnometto – sogghignò il moro, arruffando i capelli dritti del più piccolo – sei contento? Ti farò fare anche un giro in Accademia, ci sono un sacco di cose interessanti da vedere: sono certo che il reparto comunicazioni ti interesserà parecchio”.
“Le radio? – l’espressione di Kain era estasiata – Ma questo è un sogno che si realizza! Ho sempre desiderato vedere le apparecchiature dell’esercito: sono qualcosa di stupendo! E quando partiamo?”
“Ci vorrà più di un mesetto, quindi calma i tuoi bollenti spiriti – spiegò Riza – sarà verso il dieci gennaio. Noi andremo a stare da mio nonno”.
“Sarò felice di rivederlo! La sua villa mi piace un sacco: è piena di cose interessanti. E poi lui è davvero simpatico… credi che ci farà fare dei giri in macchina come l’altra volta? Mi ero davvero divertito tanto: l’autista mi aveva anche fatto sedere al suo posto quando eravamo fermi”.
“Quanto entusiasmo! Pensa a quando porterò la moto qui” sogghignò Roy.
 
La merenda si concluse in modo veramente piacevole ed i ragazzi si ritrovarono in strada, ciascuno diretto a casa propria. Roy decise di andare assieme a Vato per invitare ufficialmente il capitano Falman e sua moglie alla cerimonia di fine Accademia; Ellie ed Andrew decisero di accompagnare Heymans in modo da poter salutare Laura e portarle parte della torta che era avanzata dal rinfresco. Alla fine, dato che anche Elisa era tornata a casa sua ed Arthur era rientrato nel locale della zia di Roy, rimasero soltanto Jean, Riza e Kain.
Avendo un pezzo di strada da fare assieme si avviarono con tutta tranquillità verso l’uscita del paese, godendosi quegli ultimi sprazzi di luce prima che il buio iniziasse a diventare troppo pesto.
“Ho portato la torcia per sicurezza – disse Kain, tirando fuori dalla sua onnipresente tracolla il piccolo apparecchio – è quella che mi ha regalato Roy per il mio compleanno”.
“Me ne devo procurare una pure io – annuì Jean – tornano sempre utili”.
“E’ stata proprio una bella merenda – sorrise Riza, decisamente più serena rispetto agli ultimi giorni – e Arthur non mi dispiace come persona. Sebbene sotto certi punti di vista sia un vero e proprio mistero”.
“A me sta simpatico – commentò Kain – un po’ mi ricorda Roy”.
“Ah, l’hai notato pure tu – Jean si soffiò sulle mani infreddolite prima di cercare i guanti nella tasca del cappotto – comunque proprio non ce lo vedo a stare in campagna. Quello è fatto per la vita cittadina, non ci sono dubbi”.
“L’ho pensato pure io, in questo è molto diverso da noi”.
“Beh, del resto Roy è sempre voluto andare via da questo posto, sin da quando era ragazzo: è più che normale che abbiano dei punti in comune e…
“Eccoti qua, con tutta la tua faccia tosta!”
Il terzetto si fermò e si girò di lato.
Rebecca se ne stava ferma all’ingresso della via laterale che portava a casa sua. Doveva essere uscita di casa di corsa perché non indossava il cappotto ed il suo abito chiaro di certo non la proteggeva dal vento pungente di quella sera dicembrina. Ma sembrava che quello fosse un dettaglio del tutto secondario: se ne stava a gambe larghe e con le braccia conserte, anche se quello che spaventava di più era l’espressione.
Sicuramente aveva pianto parecchio in quei giorni, come dimostravano gli occhi gonfi e arrossati, però tutto quello che traspariva dai lineamenti era furente rabbia.
“Non mi sono mai nascosto – disse Jean con tutta la calma di cui era capace – se tua sorella ti ha riferito il messaggio, sai benissimo che sono più che disposto a parlare quando vuoi”.
“E di cosa vuoi parlare? Di come mi hai scaricata? – lei si fece avanti, i capelli scuri che venivano agitato dal vento – Di come ti sei presentato a casa mia e hai incaricato mia sorella di darmi una notizia simile?”
“Perché tu eri chiusa in camera tua e non volevi parlare con nessuno, nemmeno con la tua migliore amica che è venuta più volte a chiedere come stavi”.
“Non cambiare argomento, bestione! – adesso erano faccia a faccia, uno più irato dell’altro – Tu non hai idea di come mi hai umiliata in questi giorni. Prima con quella proposta assurda e insultate e poi con questo. Come ti permetti di lasciarmi? Sarei stata io a doverlo fare!”
“Sei arrabbiata perché ho preso io l’iniziativa? – Jean sogghignò con sarcasmo – Proprio bello da sentirselo dire. Sono stanco di venir trattato a pesci in faccia da te e dalla tua famiglia”.
“Mia madre aveva proprio ragione su di te!”
“Ma sentiti! Fino a qualche giorno fa non facevi altro che prendertela con lei, rivolgendole i peggio insulti. Ma adesso, siccome è cambiato il vento, fai come una banderuola e segui la nuova direzione… sei proprio pessima, degna figlia di tua madre”.
“Come osi? Sfrontato che non sei altro!”
“Dai, non fate così – intervenne Riza – Reby, sono sicura che tutto si possa risolvere. Jean avrà fatto anche degli errori, ma è stato in buona fede che ha cercato una soluzione…”
“Ah, adesso stai dalla sua parte e non dalla mia?” gli occhi furenti di Rebecca si rivolsero verso di lei.
“Io sto dalla parte di entrambi – corresse Riza – e riconosco che se Jean ha sbagliato l’hai fatto pure tu. Non è stato bello come ti sei comportata: ci hai impedito di parlarti in questi giorni, eravamo preoccupati per te, non capisci?”
“Eri preoccupata solo di riportarmi le mie cose! Adesso hai casa libera, sei felice?”
A quella frase, chiaramente detta sull’impeto della rabbia, fu come se il vento avesse deciso di fermarsi, lasciando i ragazzi in uno strano occhio del ciclone.
“Vai al diavolo, Rebecca – sbottò Jean, prendendo Riza per un braccio e tirandola indietro – sei veramente stronza a prendertela con lei, dopo tutto quello che ha fatto per te”.
Forse la mora si era anche pentita di quello che aveva detto, ma se ci fu indecisione nel suo sguardo durò solo per un millesimo di secondo. Scosse il capo con decisione e serrò le labbra con stizza.
“Attendo le tue scuse – mormorò Riza con voce piatta, profondamente offesa dopo tutto il disturbo che aveva provocato alla sua famiglia – me le devi dopo una frase simile”.
“Finché stai dalla sua parte non avrai nessuna scusa” disse con lo stesso tono Rebecca, accennando alla mano che Jean teneva ancora stretta sul braccio della bionda.
“Sei proprio una pessima amica – intervenne Kain con irritazione, guardando con rabbia la mora – Riza ha fatto tantissimo per te in questi giorni e anche la mia famiglia. L’abbiamo fatto con piacere, ma dopo una frase simile me ne sto pentendo”.
“Kain…” iniziò Riza.
“No – la bloccò Jean – ha detto delle cose sacrosante. Comunque la situazione è questa, Rebecca: ho deciso che, dati i nostri continui litigi e la scenata alla festa, non vale la pena di continuare la nostra relazione. Stai male tu e sto male io… e a quanto pare anche altra gente. Vuoi darmi uno schiaffo per sentirti meglio? Vuoi insultarmi? Fai pure… ma cerca di tenere a freno la bocca con le altre persone, specie dopo che hanno fatto molto per te”.
“Mi fai pure la paternale adesso?”
“Su certi argomenti penso di potermelo permettere – rispose piatto il ragazzo – non mi piace chi tratta gli amici in un simile modo. Venite, andiamo, si sta facendo buio e dobbiamo tornare a casa”.
Senza aspettare una replica da parte della sua antagonista, sospinse Riza verso l’uscita del paese e con la mano libera diede una lieve arruffata di capelli a Kain, in un gesto orgoglioso.
 
Fu solo quando furono ormai usciti dal centro abitato che Riza osò parlare.
“La detesto…” sibilò.
“Lasciala bollire nel suo brodo – le consigliò Jean – non ti merita”.
“Non me l’aspettavo da lei, sul serio. Capisco che fosse arrabbiata e che non si controllasse, ma certe frasi proprio se le poteva risparmiare”.
“Non pensarci, Riza – la consolò Kain – pensa che andremo ad East City a gennaio. Sarà grandioso, vedrai”.
“Sì, infatti – annuì il biondo – pensa alle cose positive. Quella ha il sangue di sua madre e sappiamo bene di che pasta è fatta. Dopo stasera non ho alcun dubbio di aver fatto la scelta giusta”.
Riza non rispose, troppo delusa dall’atteggiamento di Rebecca. Forse, come aveva detto Kain, era meglio pensare al viaggio ad East City: tutto sommato cambiare aria per qualche giorno le avrebbe fatto bene.
Per superare un’amarezza simile non c’era niente di meglio di un viaggio.
 
E così, circa una decina di giorni dopo, assieme ad un grosso pacco dove c’erano dei regali di natale per lei e per Kain, Riza ricevette la lettera con la risposta del generale Grumman.
 
Mia cara nipotina,
ho ricevuto con vero piacere la tua lettera e non c’è bisogno di dire che sarò lieto di ospitare te ed il giovane Kain nella mia villa.
East City è davvero splendida in questo periodo e sono sicuro che per te sarà davvero piacevole vederla nelle sue vesti invernali. Cercherò di organizzare le vostre giornate in modo da farvi divertire il più possibile e se c’è qualcosa che vorreste fare in particolare non c’è che da chiedere.
Purtroppo non potrò venir meno a determinati impegni lavorativi, ma sono sicuro che vi divertirete tantissimo.
Quanto all’evento che ti porta qui, sono lieto di sapere che il tuo giovane fidanzato sta terminando l’Accademia con tanto onore. L’ho già detto altre volte: quel ragazzo ha un grande futuro nell’esercito e sono certo che ci farà delle belle sorprese.
Non vedo l’ora di scambiare qualche parola con lui alla cerimonia.
Nel frattempo godetevi i regali che vi ho inviato, spero che vi piacciano.
Un abbraccio
Tuo nonno.





 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Capitolo 14. Gli avvenimenti di East City. Prima parte. ***


 

Capitolo 14. Gli avvenimenti di East City. Prima parte.

 


 
“Riza! – chiamò Kain, bussando vivacemente alla porta della sua stanza – sbrigati a prepararti. La colazione è pronta e oggi dobbiamo andare a visitare il museo!”
“Sono quasi pronta – lo rassicurò lei, finendo di abbottonarsi il vestito – inizia a scendere. Ti raggiungo in un paio di minuti”.
“Va bene!”
Trattenendo un risatina nel sentire la nota d’entusiasmo nella voce del ragazzo, Riza si girò di nuovo verso il grande specchio incastonato nell’anta dell’armadio e si rimirò con aria compiaciuta. Anche questo vestito che le aveva regalato suo nonno era bellissimo, raramente in paese ne indossava di così raffinati, nemmeno per la festa del primo dicembre. Eppure, a quanto sembrava, questo era un abito da tutti i giorni, senza alcuna pretesa di essere usato in occasioni speciali.
In genere la ragazza non era particolarmente interessata a questi dettagli, essendo abituata ad una vita molto più pratica e tranquilla, ma non poteva fare a meno di sentire un briciolo di civettuola emozione nel vedersi così bella. Il generale di East City ci teneva che la sua unica nipote avesse il meglio quando stava da lui e così la viziava con tutti questi doni.
Prendendo una spazzola e iniziando a pettinarsi i lunghi capelli biondi, Riza rifletté sul fatto che questa permanenza in città, ormai già da tre giorni, le stava facendo più che bene. Dopo il brutto litigio con Rebecca aveva passato il resto di dicembre con un grosso senso di amarezza dentro l’anima ed era stato solo mentre il treno si allontanava dal paese che si era sentita sempre più leggera. Come le aveva detto suo padre, a volte cambiare aria per un po’ costituisce un vero e proprio toccasana.
Stava per prendere il suo fermaglio, ma poi decise di lasciare la chioma sciolta: le stava innegabilmente bene e non era necessario avere i capelli legati per andare in visita ad un museo.
 
Il generale Grumman aveva una settantina d’anni ed ormai si era imposto come personalità militare di spicco del distretto Est da quasi un lustro. All’apparenza sembrava tutto meno che un uomo di potere data la sua aria arzilla e scherzosa che non lo abbandonava quasi mai, ma dietro di essa si nascondeva l’astuzia e l’autorità di una persona che sa bene quello che vuole e sa come ottenerlo.
Una piccola parte di Riza intuiva tutte queste cose mentre stava seduta davanti a lui nella grande sala di una prestigioso ristorante della città. Lo si capiva dalle movenze, dal modo di parlare, da come aveva congedato un soldato che era venuto poco prima a consegnargli dei documenti importanti che richiedevano la massima attenzione ed urgenza. Eppure quella busta sigillata giaceva nel tavolo, accanto al piatto con la fetta di torta, come se a quell’uomo di stato importasse ben poco dell’urgenza. Come se la scritta che ne indicava la provenienza direttamente dalla capitale non esistesse.
“Sto passando qualche ora con mia nipote, il resto può attendere. Non crollerà di certo il mondo”.
“Allora, ti è piaciuta la visita al museo? – chiese proprio l’uomo – Tuo fratello ne era particolarmente entusiasta dato che ha monopolizzato il pranzo con la sua parlantina. E’ strano pensare che in genere sia molto più riservato ed arrossisca non appena gli si rivolge la parola”.
“Oh, davanti ai prodigi della scienza e della natura Kain perde qualsiasi forma di timidezza – sorrise Riza, pensando al ragazzo che poco prima si era accodato all’autista che doveva svolgere alcune commissioni: andare in macchina era un evento che lo deliziava ogni volta. Il soldato che guidava lo trovava particolarmente simpatico e così si era creato uno strano connubio, tanto che Kain stava sempre davanti piuttosto che nei sedili di dietro con lei ed il generale – comunque anche io mi sono divertita molto questa mattina. Ho visto cose davvero interessanti, non immaginavo che un museo potesse riservare tante sorprese, sul serio. E’ un vero peccato che tu ci abbia raggiunto solo per pranzo”.
“Oh, i noiosi doveri di gestione di un quartier generale – scrollò le spalle lui – non fosse stato per quel rappresentante di Central che dovevo incontrare, mi sarei allegramente imboscato e mi sarei unito a voi”.
“Non puoi mancare ai tuoi doveri, nonno”.
“Tu dici? Ah, cara signorina, dovresti imparare meglio il concetto di flessibilità”.
Riza scosse il capo con un sorriso indulgente, riflettendo sul fatto che, sotto questo punto di vista, lei e suo nonno erano agli opposti. A lei piaceva la precisione, la puntualità: scappare davanti alle proprie responsabilità non rientrava nel suo modo di agire. Tuttavia doveva ammettere che un poco si sentiva lusingata dal fatto che il generale si preoccupasse di passare del tempo con lei.
Da quando si erano incontrati la prima volta, cinque anni prima, la ragazza si era particolarmente affezionata al nonno materno, l’unico legame con la sua vera famiglia di cui era davvero felice. A dire il vero Grumman non le ricordava per niente sua madre, né come aspetto fisico né come carattere, né tantomeno si rivedeva in lui. Eppure c’era uno stranissimo feeling tra loro due, come se le loro indoli così diverse fossero un ovvio legame di parentela.
Di una cosa Riza era certa: voleva profondamente bene a quel nonno così eccentrico e, anche se non si vedevano spesso, sapeva di poter sempre contare su di lui. Era come una sorta di nume tutelare, non tangibile e quotidiano come la sua famiglia adottiva, ma comunque una sicurezza su cui poteva sempre fare affidamento.
“Allora, domani ci sarà la cerimonia di fine Accademia. Sicura di non voler venire a premiare i migliori cadetti? Sarebbero ben felici di ricevere la medaglia da una bella signorina come te”.
“Oh no, nonno, ti prego – arrossì lei – sarà già abbastanza imbarazzante stare nel palco delle personalità. Sei sicuro che sia proprio necessario? Potrei stare con Kain ed i miei amici tra il pubblico normale, non ci sarebbe nessun problema”.
“E io dovrei rinunciare alla prospettiva di sfoggiare la mia splendida nipote davanti a tutte quelle mummie? Suvvia, cara, non privarmi di questi divertimenti”.
Riza avrebbe tanto voluto rifiutare: avere tutti quegli occhi puntati addosso non le piaceva per niente. Purtroppo era uno sgradito effetto collaterale di tutte le volte che veniva in città: sembrava che tutta la crema della società fosse estremamente curiosa di vedere la nipote del generale Grumman che, non si capiva ancora per quale motivo, invece di vivere in città col nonno se ne stava in uno sperduto paesino di campagna.
“Non capisco perché dopo cinque anni ancora mi guardino come se fossi un animale raro” confessò con amarezza.
“Perché il pettegolezzo è la linfa vitale per la maggior parte di queste persone – le spiegò il nonno con una risatina divertita, riprendendo a mangiare la sua torta – e tu sei un pettegolezzo più che succulento, credimi. Ma rimani solo quello, per il resto non permetto a niente e nessuno di sfiorarti: vogliono fare ipotesi su ipotesi sulla tua vita? Che le facciano pure, tanto non cambia niente né per me né per te”.
Era un ragionamento più che logico, ma Riza non poteva fare a meno di provare un senso di fastidio per tutti quegli occhi che stavano dietro a lei, per quei sussurri che era sicura di percepire anche se non ne aveva le prove. Non potevano farle niente, ovvio: iniziavano e finivano nei suoi brevi soggiorni in città. Ma lei ne aveva subito troppi di pettegolezzi: in paese l’avevano condizionata profondamente per tanti anni, rendendola quasi un’emarginata.
“Comunque ti assicuro che non sarà niente di traumatico – continuò Grumman – la cerimonia durerà al massimo una quarantina di minuti e poi i ranghi si scioglieranno. A proposito di questo, non vedo l’ora di scambiare quattro chiacchiere col tuo fidanzato: ho sentito parecchie cose interessanti su di lui in questi due anni”.
“Ti prego, nonno, niente favoritismi. Sono sicura che lui non vorrebbe”.
“Favoritismi? Quando mai! Semplicemente voglio conoscere meglio il fidanzato della mia unica nipote, mi sarà permesso, no?” lo disse con aria offesa e allo stesso tempo divertita, come se l’ironia non riuscisse ad abbandonarlo del tutto in nessun frangente.
Riza si chiese per l’ennesima volta se quel vecchio si fosse mai permesso di fare del sarcasmo anche davanti al Comandante Supremo in persona.
“Sono sicura che a Roy farà piacere venire a cena con noi dopodomani – ribatté con dignità – in un’occasione informale come una cena a quattro, ossia noi e Kain, potrai conoscerlo meglio rispetto ad una festa vera e propria con tutte le persone che ci interrompono”.
“Io…” iniziò Grumman.
“Tanto i pettegolezzi arriveranno sempre e comunque a chi di dovere, no? – continuò lei impassibile – se veniamo a cena in un ristorante come questo, sono certa che i muri avranno gli occhi e le orecchie più che vigili”.
Il generale la fissò perplesso per qualche secondo con i suoi occhi tra l’azzurro ed il violetto, poi scoppiò in una fragorosa risata, tanto che dovette bere un sorso d’acqua per riprendersi.
“Ah, mia cara, dici sempre che noi due ci somigliamo ben poco. Eppure lo vedi che qualche sprazzo del tuo vecchio nonno ce l’hai?”
E Riza non poté fare a meno di sorridere e di sollevare il bicchiere di succo di frutta a mo’ di brindisi.
 
Nel frattempo Kain si stava divertendo un mondo nella sua gita per la città con l’autista.
Ottavio gli aveva promesso che quella sera, tornati a casa, l’avrebbe fatto andare con lui nell’autorimessa e avrebbe aperto il cofano della macchina, permettendogli di vedere da vicino il motore. Per quanto non si trattasse proprio di elettronica, era più che eccitato ad una simile prospettiva: chissà che segreti della meccanica avrebbe scoperto.
Inoltre era un vero piacere sentirgli raccontare le sue storie. Prima di diventare l’autista del generale Grumman, era stato un tenente dell’esercito ed era stato più volte al fronte prima di subire una ferita che l’aveva costretto ad un congedo prematuro. Gli aveva fatto anche vedere la cicatrice, sul braccio destro: gli aveva in parte compromesso la sensibilità della mano e per un tiratore come lui era stata praticamente la fine della carriera. Aveva pensato al ritiro vero e proprio quando il generale l’aveva preso come autista e assistente non ufficiale, come amava definirlo.
“Nel senso che sono sempre un tenente dell’esercito, ma con l’esercito ho ben poco a che fare, eccetto indossare la divisa ed accompagnare il generale nelle sue commissioni”.
Kain non aveva ben capito cosa intendesse con quella frase, ma non essendo pratico del mondo militare aveva deciso di non indagare oltre, riservandosi di chiedere spiegazioni a Roy.
Proprio il pensiero di rivederlo domani alla cerimonia lo riempiva di gioia. In quegli ultimi giorni lui e Riza non avevano avuto occasione di stare con i loro amici: Heymans ed Arthur erano impegnati con un esame all’Università proprio quella mattina e Vato con i suoi genitori non sarebbe arrivato che col treno di metà pomeriggio. Quanto a Roy era forse il più impegnato di tutti vista la cerimonia di domani.
“Bene, eccoci arrivati – fece Ottavio, fermando la macchina – devo andare alle poste, lì davanti. Purtroppo ci impiegherò diverso tempo, ma questa volta non posso portarti con me”.
“Posso fare una passeggiata nel parco lì vicino – propose Kain, indicando l’ingresso di quell’oasi verde – e tra una mezz’oretta torno nei pressi della macchina, va bene?”
“Alla perfezione, signorino”.
Così Kain si separò dal suo amico, ridacchiando per il signorino che a quanto sembrava era d’obbligo tra i servitori del generale Grumman. Tuttavia se il signorina usato per Riza era più facile da sentire, la versione maschile usata per lui gli faceva davvero strano, specie se si considerava che era un termine che usava suo padre quando lo voleva apostrofare per qualche cosa, ma ovviamente non veniva usato più da anni.
Entrò nel parco ed iniziò la sua esplorazione, incoraggiato dal fatto che non ci fossero molte persone in giro: solo qualche signora seduta sulle panchine intenta a leggere o ricamare, oppure qualche signore distinto che passeggiava per i viali alberati.
Al giovane piacevano quei posti, gli ricordavano un po’ la campagna e questo serviva a fargli sentire meno la nostalgia di casa: sembrava che lì dentro la gente si lasciasse alle spalle il caos dei marciapiedi affollati e si dedicasse solo al riposo e alla tranquillità. Avrebbe tanto voluto portarci pure Riza, certo che le avrebbe fatto piacere: era felice che sua sorella si stesse finalmente godendo dei giorni sereni senza più pensare a Rebecca e a quello che la rendeva triste, ma era sicurissimo che un piccolo angolo di natura come quello l’avrebbe fatta sentire a casa.
Magari ci sarà occasione nei prossimi giorni.
Con somma delizia arrivò ad un ponticello che stava sopra un piccolo laghetto: c’erano alcune papere che sguazzavano allegramente, tuffando la loro testolina nell’acqua alla ricerca di cibo. Fortunatamente in città l’inverno non era mai troppo rigido e dunque quegli animali non pativano troppo i disagi del freddo.
Frugandosi nelle tasche tirò fuori un fagotto fatto con un fazzoletto contenente del pane tostato che aveva preso dal tavolo della colazione: un’abitudine vecchia a morire quella di portarsi sempre qualcosa da mangiare dietro, sebbene il vagabondare in città fosse molto diverso da quello in campagna.
“Scommetto che avete fame” sorrise, iniziando a sbriciolare il pane e a lanciarlo alle papere. Com’era prevedibile i volatili nuotarono immediatamente sotto il ponte, pronti ad approfittare di quell’inaspettato banchetto.
Kain iniziò a contarle e a cercare di capire se fossero tutte imparentate tra loro. Sicuramente due lo erano, perché avevano la medesima macchia scura sul collo. Un’altra sembrava essere la più giovane e…
“Anche io voglio dare il pane alle paperette!”
Lo strillo entusiasta fece quasi sobbalzare Kain e girandosi di scatto si accorse che a pochi passi da lui c’era una bimbetta sui quattro anni che saltellava impaziente, aggrappandosi al parapetto del basso ponticello per vedere meglio.
“Tieni – si offrì subito Kain, dandole alcuni pezzi già tagliati – non lanciarli tutti in una volta, lascia loro il tempo di mangiare”.
“Va bene – annuì la bambina, concentrandosi nel lanciare i pezzi vicino alle papere – ecco, paperette, arriva la pappa! Buona, vero?”
Aveva un grazioso cappotto rosa ed il berrettino bianco che lasciava intravedere i boccoli scuri. Sicuramente doveva essere di una famiglia agiata, come testimoniavano anche gli stivaletti di buona fattura. Questo fece domandare al ragazzo se magari si fosse persa o si fosse allontanata dai genitori.
“Come ti chiami?” iniziò ad indagare.
“Eleanor – rispose lei, senza nemmeno girarsi a guardarlo – ne hai ancora?”
“Tieni pure, mi raccomando, uno alla volta. E dimmi, Eleanor, sei qui da sola?”
“No, con mio fratello e la mia tata”.
“Sì? E la tua tata…”
“Eleanor! Grazie al cielo – una voce fece sospirare di sollievo il ragazzo – non ti devi allontanare così di corsa! E non devi disturbare le persone!”
Una giovane con un pesante mantello scuro ed i capelli rossicci raccolti a crocchia dietro la nuca e coronati da una crestina bianca, arrivò con tutta la velocità che le permetteva il tenere tra le braccia un bambino ancora più piccolo di Eleanor.
“Ma no, non mi ha disturbato – si affrettò a dire Kain – voleva dare il cibo alle papere, tutto qui”.
“Pape!” esclamò il bambino, scalciando per venir messo a terra.
“Vieni, Eric, prova pure tu – invitò la bambina, porgendo al fratello un pezzo di pane – lo devi tirare così!”
Davanti a quella scena Kain prese anche la seconda fetta di pane ed iniziò a spezzettarla per offrirla ai bambini che, a quanto pare, si stavano divertendo un mondo.
“Mi scusi ancora tanto – sospirò la giovane governante, sistemando meglio il berretto di Eleanor – è davvero rapidissima a fuggire. E’ bastato che facessi sedere Eric su una panchina per sistemargli la scarpina ed è sgusciata via”.
Kain sorrise come a dire che non era successo niente e poi si fermò ad osservare meglio quella ragazza. Sicuramente non doveva essere molto più grande di lui e quella pettinatura tirata indietro non valorizzava del tutto il viso regolare: con tutta probabilità doveva tenere i capelli raccolti per motivi di lavoro, come indicava anche la crestina.
“Comunque io mi chiamo Kain – si presentò – sono qui in vacanza con mia sorella”.
“Io sono Erin – rispose lei – e sono la tata di questi due adorabili demonietti. Solo il cielo sa quanto mi fanno penare, ma mi occupo di loro con vero piacere”.
“Tata Erin è brava a raccontare storie – spiegò Eleanor con aria importante – sa fare bene le voci. Però non sa cantare, è stonata. La mamma è brava a cantare”.
“Grazie per la presentazione, Eleanor – sbuffò Erin, mostrando di avere parecchia confidenza con la bambina – non è bello spiattellare i difetti di una persona al primo venuto”.
“Nemmeno io sono un granché nel cantare – confidò Kain, facendo l’occhiolino alla bambina – ma mia madre lo è. Evidentemente sono le mamme ad essere brave in questo, altrimenti come canterebbero le ninne nanne?”
“Hai ragione – annuì con decisione la bambina, tirando l’ultimo pezzetto di pane alle papere – ne hai ancora di pane per le papere?”
“No, mi dispiace”.
Eleanor la prese con filosofia ed iniziò ad indicare al fratello le varie papere, dando loro dei nomi assurdi.
“Mi ricorderò di portare sempre del pane ogni volta che veniamo qui – disse Erin – a quanto pare è un’attività che piace parecchio ad entrambi i bambini”.
“Ottima idea – annuì Kain – però ora devo proprio andare, mi aspettano”.
“Davvero? Che peccato! Allora le auguro una buona giornata, signorino”.
“Oh no, niente signorino – arrossì lui, sentendosi a disagio dal venir chiamato così da una ragazza di poco più grande di lui – Kain e basta”.
“Va bene, Kain – salutò lei, mentre gli occhi grigi si illuminavano di malizia – buona giornata e divertiti in questi giorni in città”.
“Lo farò. Ciao bambini, fate i bravi!”
“Ciao, Kain!” salutò Eleanor.
“Ao!” le fece eco Eric.
 
Quella sera i due fratelli si ritrovarono nella grande stanza di Riza a parlare di quella bella giornata appena passata e ad immaginare come sarebbe stata quella successiva.
“Non vedo l’ora di vedere Roy con la divisa dell’esercito piuttosto che con quella dell’Accademia – disse Kain con entusiasmo, sedendosi nel letto della sorella con le gambe incrociate – scommetto che gli starà benissimo”.
“Ne andrà estremamente fiero, vanesio com’è – sorrise maliziosamente Riza – e sono sicura che il capitano Falman dovrà rimetterlo in riga già da quando verranno sciolti i ranghi”.
“Spero che poi riesca a farmi visitare l’Accademia: vorrei tanto vedere il reparto di comunicazione”.
“Non so se sarà possibile, ma forse potremmo chiedere a mio nonno se ti concede di fare una gita fuori programma, magari nel Quartier Generale. Penso che lì abbiano apparecchiature molto più avanzate”.
“Sul serio! – il ragazzo alzò gli occhi al soffitto con aria sognante – sai, ammetto che certe volte vorrei entrare nell’esercito per poter lavorare con simili meraviglie. Non penso che avrei simili occasioni senza la divisa militare”.
A quella dichiarazione Riza, che era seduta ad un tavolino, intenta a scrivere sul diario del suo soggiorno in città, fermò la penna a mezz’aria e si girò a guardare il fratello minore con aria stranita. Era la prima volta che sentiva Kain paventare una simile possibilità e per qualche secondo si disse che era soltanto uno scherzo. Pensare al suo fratellino, così giovane e mingherlino rispetto agli altri, con indosso la divisa era un’idea assolutamente fuori luogo.
“Parli sul serio?” chiese, posando la penna ed alzandosi per andare a raggiungerlo sul letto.
“Ma no – scosse il capo lui con un sorriso, ma poi esitò prima di continuare – è che… insomma anche se diventassi un bravo tecnico, certi apparecchi da civile me li sognerei e basta”.
“Non ti facevo così ambizioso… ti ho sempre considerato una persona piuttosto umile”.
“Ma io non sono ambizioso – corresse Kain – è solo che quando hai una passione… beh, almeno io vorrei fare di tutto per portarla avanti ed avere sempre nuove possibilità. Da bambino ho iniziato usando le forchette ed i cucchiai che prendevo in cucina… poi sono arrivati i veri attrezzi, la prima radio costruita da sola, e… cavolo! Riza, ogni passo avanti è una grande emozione, te lo posso assicurare”.
Riza annuì, anche se in cuor suo si rammaricava di non provare una cosa simile. Lei non aveva una passione che la coinvolgesse in questo modo, forse era per questo che spesso si sentiva spaesata davanti ai suoi amici che invece avevano ben deciso le loro strade.
“E poi… insomma, adesso c’è Roy nell’esercito – continuò Kain – a ben pensarci non sarei proprio solo solo. Se una volta finiti gli studi entrassi in Accademia, lui nel frattempo sarebbe già salito di grado. E magari una volta diventato soldato potrei lavorare assieme a lui, sarebbe fantastico”.
“Bene – annuì Riza, cercando di fermare quel volo troppo vicino al sole – e come pensi di dirlo a mamma e papà? E se poi, una volta soldato, ti mandano al fronte?”
“Dici che succede anche ai soldati che lavorano con le radio?” chiese lui con preoccupata perplessità.
“Non lo so, ma credo che servano anche al fronte gli esperti di comunicazione”.
“Mh, probabilmente hai ragione – le punte dei suoi dritti capelli neri parvero afflosciarsi davanti a quella rivelazione – in questo caso non credo che sia una buona idea. Mamma si preoccuperebbe davvero tanto”.
“Così come tutti noi”.
“… e poi, a ben pensarci, non sarebbe molto felice se io lasciassi il paese. Come mi potrò prendere cura di lei e di papà se vado via? Insomma, un giorno tu verrai in città per sposare Roy, è meglio che uno di noi resti a casa”.
“Già tornato coi piedi per terra?”
“A quanto pare – arrossì lui con un sorriso colpevole – oh, sono stato uno sciocco. Insomma, i soldati sono i tipi come Roy, non quelli come me. Probabilmente se entrassi in Accademia ripartirebbe tutto dall’inizio, come quando ancora non avevamo fatto amicizia… nuovi dispetti, nuovi aguzzini… e non sarebbero gli scherzi che si fanno alle scuole medie, no?”
“Questo non è detto: sei molto cambiato da allora”.
“Oh, dai, non pensiamoci più – scosse il capo con forza, prendendo uno dei cuscini e stringendolo – anche a casa posso avere tante soddisfazioni. Insomma, la tecnologia avanza e io sarò lì pronto ad accoglierla e a farla conoscere a tutti gli altri. A modo mio sarò un pioniere, me lo sento: un po’ come Elisa che è il primo medico donna del paese”.
“Kain Fury il pioniere… beh, mi suona molto meglio rispetto a qualcosa come sergente maggiore Kain Fury”.
Entrambi scoppiarono a ridere davanti a quella che sembrava ora un’idea più che assurda.
“Non dire niente a mamma di questo discorso – riprese il giovane – non vale la pena di farla preoccupare per qualcosa che non accadrà mai. Tanto meno papà… a dire il vero sarei stato tremendamente egoista, insomma, lui ha perso il suo miglior amico in guerra: gli darei una tremenda delusione se gli dicessi di voler diventare soldato”.
“Lui sarà sempre fiero di te, non devi mai farti dei dubbi in merito. Comunque starò zitta, di oggi racconterò solo della visita al museo e del tuo incontro con quella giovane governante”.
“Erin? – Kain sorrise con piacere – lei e i suoi bambini erano davvero simpatici. Mi ha fatto davvero una bella impressione: mi dispiace di non esser potuto stare più tempo con loro”.
“Magari la rincontri” disse con malizia Riza, tornando al tavolo.
“La città è grande, ha un sacco di abitanti, la vedo davvero difficile”.
“Diamine, Kain, ha fatto davvero colpo su di te!”
“Come? – il ragazzo arrossì con incredulità – ma che dici? E’ più grande di me! No, fare colpo no… è solo che…” socchiuse gli occhi, come se stesse cercando di definire quello che provava.
“Solo che…?”
“Non lo so, ma forse non conta dato che, come ho detto, non la rivedrò più. Bene, mi pare il caso di andare a dormire: domani è il gran giorno! Buonanotte, Riza”.
“Buonanotte”.






_______________
Eccomi qua.
Come avete dedotto dal titolo del capitolo, questo segmento della storia viene diviso in più parti perché è parecchio lungo.
Spero che abbiate gradito il ritorno di Grumman e la new entry Erin.
Alla prossima :)

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Capitolo 15. Gli avvenimenti di East City. Seconda parte. ***


 

Capitolo 15. Gli avvenimenti di East City. Seconda parte.

 


 
La mattina successiva un Roy Mustang più emozionato del previsto passeggiava per il grande cortile dove si sarebbe tenuta la cerimonia di fine corso e dove si stava finendo di sistemare il palco delle autorità e le sedie per il pubblico atteso. Non era la cerimonia in sé a procurargli quelle sensazioni, tanto il fatto che ad assistervi ci sarebbero state alcune delle persone a cui era estremamente legato: voleva che tutto fosse perfetto, dalla sua divisa, ai posti che avrebbero occupato, come se quello fosse il giorno più importante della sua vita e non solo il primo scalino della sua ambiziosa carriera militare.
Sei solo uno stupido – si disse, sistemandosi per l’ennesima volta il colletto della divisa nuova, da soldato, e non riuscendo a capire come mai non fosse perfetto come quando l’aveva provata il giorno prima – sembri un bambino emozionato per la recita scolastica.
Forse avrebbe dovuto essere meno sentimentale ed evitare di invitare così tante persone, persino Riza. In fondo Heymans sarebbe bastato e il tutto sarebbe stato ridimensionato alle giuste proporzioni.
Ma proprio in quel momento l’idea delle giuste proporzioni svanì quando, dal cancello, vide arrivare un terzetto a lui ben noto. Trattenendo un sorriso troppo felice e rifugiandosi nel solito sicuro e sfacciato, andò ad accogliere i suoi ospiti.
“Signora – salutò con un perfetto baciamano – non l’ho mai vista così bella. Sono onorato che abbia scelto quest’occasione per essere così splendente”.
“Ma dai, Roy – arrossì Rosie – non mi pare proprio il caso”.
“Risparmia la tua faccia tosta per altre occasioni – disse Vincent, in una strana versione borghese a cui il giovane era ben poco abituato – almeno per oggi comportati bene”.
“Come vedi siamo in splendida forma” commentò Vato con un sorriso, stringendo la mano all’amico.
“Proprio come speravo: ero preoccupato che il viaggio in treno vi stancasse troppo. Allora, se volete vi accompagno ai vostri posti e… oh no, signora. Non si commuova”.
“Accidenti – mormorò Rosie, recuperando un fazzoletto dalla borsetta con leggera difficoltà – lo so, lo so, sono una sciocca. Mi ero ripromessa di non piangere ma proprio non ci riesco. E’ che sei così bello con questa divisa, non sai che … santo cielo, se ripenso che qualche anno fa ti preparavo la merenda quando venivi a giocare a Risiko con Vato e gli altri ragazzi!”
“Mamma, dai – la consolò Vato – hai fatto così anche alla mia laurea”.
“Non ci posso fare niente se vedere i miei ragazzi crescere mi commuove! Ti abbraccerei, caro, ma rovinerei la tua divisa nuova… aspetta, hai il colletto messo male”.
Roy sospirò con tenerezza mente la donna gli sistemava con abili mosse la stoffa inamidata della divisa. Si sentiva estremamente grato per tutta quella commozione che stava provando per lui, come se fosse un secondo figlio. A ben pensarci sarebbe stato da stupidi non averla lì per quel giorno così speciale. Lei era diversa da sua zia, un rapporto più profondo, più materno: vedere il suo orgoglio negli occhi neri lucidi per le lacrime gli faceva impazzire il cuore di gioia.
“Ecco, qui ci sono i vostri posti – disse infine, per riprendersi da quel momento di debolezza emotiva, tirando fuori dei bigliettini – le sedie sono numerate e sono riuscito a farvi avere una posizione ottima per vedere la cerimonia. Sono cinque: tre per voi e due per Heymans e Kain che arriveranno a breve”.
“E Riza?” chiese Vato.
“Lei starà nel palco delle autorità con suo nonno”.
“Bene – fece Vincent – Vato, vai con tua madre ad accomodarti mentre io scambio due parole con questo furfante dalla divisa militare”.
Roy fece un sorrisetto rassegnato davanti a quella dichiarazione: aveva previsto che il capitano avrebbe trovato il modo di fargli una nuova predica su ciò che significava la divisa e tutte le responsabilità ad essa legata. Non che non fosse d’accordo sulla maggior parte delle cose, ma riteneva che il suo mentore si fosse in parte dimenticato che essere militare poteva anche significare un’ambiziosa carriera professionale.
“Dopo vuole venire a vedere la mia moto? – chiese con un sorriso sfacciato – E’ pronta per essere portata in paese alla prima occasione”.
“Ed io sono pronto a sequestrartela alla prima occasione, farabutto” sbottò Vincent con aria cupa. Ma poi scosse il capo e si mise a braccia conserte a squadrare il suo protetto.
Inconsapevolmente Roy raddrizzò le spalle, come se fosse davanti all’ispezione più importante della vita.
“Dannazione, so che faccio male a dirtelo – iniziò il capitano – alimentare il tuo ego fin troppo spropositato sarebbe l’ultima cosa da fare. Ma sono incredibilmente fiero di vederti con questa divisa, figliolo, non ne hai idea”.
“Preferisco di gran lunga i suoi rimbrotti, sono meno imbarazzanti…” mormorò Roy, restando piacevolmente sorpreso quando Vincent gli mise una mano dietro il collo, per avvicinarlo a lui, e gli posò la fronte contro la sua.  Era da anni ormai che non veniva più abbracciato da quell’uomo, quando il difficile periodo dell’adolescenza lo portava ad essere turbato più del previsto. Abbracci forti, quasi rudi, che sembravano voler trattenere la sua rabbia e la sua impotenza più che confortarlo, eppure non mancavano mai di essere in qualche modo rassicuranti, quasi a dirgli che c’era quel petto contro cui sbattere la testa e sfogare quei malesseri che non riusciva a capire e gestire.
Quel contatto fronte contro fronte era diverso. Meno fisico, certo, ma parlava di una tempesta ormai passata, di una nave arrivata finalmente alla sicurezza del porto… con sommo orgoglio di chi l’aveva in parte guidata.
“Scontato dire che puoi sempre fare affidamento su di me, furfante” continuò Vincent, smettendo quel contatto e rivolgendogli un sogghigno soddisfatto.
“Non avevo dubbi, signore – rispose Roy con la medesima espressione – la aiuto a tenersi giovane”.
 
Nell’arco di una mezz’ora, quando tutte le sedie si furono riempite ed anche il palco delle autorità accolse i partecipanti, la cerimonia ebbe inizio. Da programma Roy e gli altri soldati erano rientrati dentro l’edificio e fu solo quando si udì la banda suonare la marcia che si misero in formazione ed iniziarono a sfilare nel campo da parata.
Portando la fascia di capo plotone e marciando per primo, sentiva tutta l’attenzione focalizzata su di lui e dovette trattenersi per tenere lo sguardo fisso davanti a sé invece che girarsi a guardare i suoi cari. In particolare era curiosissimo di vedere Riza: non c’era stata nessuna occasione d’incontro da quando lei e Kain erano arrivati in città e questo gli era dispiaciuto tantissimo. Aveva voglia di vederla nelle vesti di nipote del generale, ossia con quel briciolo di aria cittadina che le stava divinamente: gli sembrava che in simili occasioni Riza osasse essere un po’ più se stessa, come se permettesse al suo lato più femminile di mostrarsi al mondo.
I suoi stivali si bloccarono esattamente sul punto stabilito durante le esercitazioni e con voce salda e squillante iniziò a dare gli ordini ai suoi compagni per far loro assumere le posizioni previste durante il cerimoniale.
Finalmente la sua parte finì, nonostante avesse provato un certo compiacimento nel compiere tutti quei gesti con la sua sciabola: non aveva avuto la minima esitazione nemmeno nella rotazione più complessa.
A prendere la parola furono i rettori dell’Accademia e dunque l’attenzione si focalizzò su chi mano a mano si alternava a parlare dal palco. Questo permise a Roy di sbirciare con discrezione tra i presenti nel palco delle autorità e nelle sedie del pubblico.
Individuò immediatamente Vato e la sua famiglia, ai quali si erano aggiunti anche Heymans e Kain. Tuttavia la curiosità maggiore era vedere Riza e dunque spostò lo sguardo sul palco, lieto che il berretto avesse la visiera che in parte mascherava queste sue indagini visive.
Ma dai, stai proprio bene in verde, colombina.
Ed era vero: seduta con quell’abito verde chiaro che la fasciava in maniera seducente, eppure delicata, Riza faceva una splendida figura. I morbidi capelli biondi erano stati lasciati sciolti e sembravano attirare i raggi del tiepido sole invernale. In qualche modo sembrava una ragazza diversa da quella che era abituato a conoscere, come se fosse una strana statuina di porcellana messa in vetrina accanto ad altri pezzi non facenti parte del suo corredo.
Al soldato venne l’irrefrenabile impulso di farle qualche cenno, intercettare in qualche modo il suo sguardo e poi sorriderle nella solita maniera sfacciata. Peccato davvero dover stare fermo ad ascoltare quegli inutili discorsi.
 
Effettivamente Riza non era proprio a suo agio nel stare nel palco delle autorità.
Invidiava tantissimo Kain che, seduto tra Vato ed Heymans, si stava godendo la cerimonia dal giusto punto di vista. Lei invece non osava fare nessun gesto, nemmeno guardare troppo il suo fidanzato per evitare di attirare sospetti. Si sentiva come l’acrobata che aveva visto qualche giorno prima per strada: camminava su un filo, rischiando di cadere ad ogni passo. Ecco adesso si sentiva come sopra un filo invisibile, con tutti quegli sguardi sottili e taglienti che rischiavano di farle perdere l’equilibrio.
Eppure non doveva andare così la cerimonia: lei era venuta per stare vicino a Roy, non per far fronte alla curiosità di quella gente.
Vedendola così, accanto a suo nonno, alcuni mormoravano che non c’era alcuna somiglianza fisica, ma venivano subito messi a tacere da chi aveva conosciuto la madre della giovane, la defunta Elizabeth.
“Se non è la nipote… è tutta sua madre, due gocce d’acqua! Possono esserci mille storie su di lei, ma dire che non c’è il sangue di famiglia proprio no. E’ la copia di Elizabeth ed in misura minore della nonna”.
“Ancora non riesco a capire che gioco stia facendo il generale con lei. Perché la fa comparire solo in poche e determinate occasioni? Credo che abbia sui diciotto anni, è l’età giusta per entrare in società”.
“Ci vorrà cogliere di sorpresa con qualche mossa delle sue… avrà qualche matrimonio in mente?”
“Però che giochi bene le sue carte… non tutte le famiglie accettano una contadinella, per quanto di buona famiglia. Insomma, guardatela, si vede che non ha frequentato le migliori scuole. Ha un portamento naturale, ma le manca quello che si impara solo con l’educazione giusta”.
“Oh, per una buona scalata sociale si passa sopra anche questi dettagli”.
“Non per tutti e…”
Riza aveva tanta voglia di girarsi e dire a tutti loro che non era una grande educazione bisbigliare in questo modo alle spalle della diretta interessata, soprattutto durante una cerimonia importante come quella. Aveva tanta voglia di vedere i loro volti arrossire colpevolmente, i loro sguardi abbassarsi, metterli a tacere per almeno una decina di secondi.
Tuttavia era perfettamente consapevole che anche suo nonno sentiva tutte quelle cose e se ne stava facendo grandi risate, sebbene perfettamente nascoste dall’aria benevola che stava rivolgendo al plotone di nuovi soldati disposti di fronte al palco.
Istintivamente il suo sguardo andò di nuovo al primo soldato a partire da sinistra, quello con la fascia di migliore del corso. Alto, moro, in qualche modo splendente: anche su di lui si erano sprecati svariati commenti, con qualche rimando ad un cognome che una volta era noto anche in città.
“… il padre, tenente dell’esercito, assistente di un importante generale… mai fatta grande carriera…”
“… la madre era una donna di grande gusto. Organizzava sempre splendide feste. Peccato che siano morti entrambi: una famiglia estinta, ormai. Mi ero persino dimenticata che avessero un figlio”.
“Oh, avevano così tanto da fare, figurati se ci stavano dietro”.          
Ancora commenti sul loro passato e ancora una volta Riza strinse leggermente i pugni, permettendo alle unghie di conficcarsi nella pelle il tanto necessario per darle un lieve fastidio.
Sì, pensate quello che volete. E cosa direte quando verrete a sapere che io e lui siamo fidanzati? Penserete che sarà solo uno dei giochi di potere di mio nonno? Voi non sapete nulla di noi due!
Roy sorrise impercettibilmente, un sorriso che solo lei fu in grado di vedere. Quasi un invito a vedere le cose nella giusta prospettiva, a ricordarle ancora una volta che loro contavano come individui e non come parte delle loro famiglie d’origine.
“Bene, mia cara – disse Grumman alzandosi in piedi – vado a premiare il primo del corso. Questa cerimonia è quasi finita, sei contenta?”
“Sono sicura che nessuno se la sta godendo come te”.
“Molto probabile”.
 
Vedendo che il generale Grumman si alzava in piedi, Roy capì che era arrivato il momento della sua premiazione come primo del corso. Per un attimo si aspettò che anche Riza lo seguisse, come spesso succedeva in queste occasioni dove c’era una madrina d’eccezione. Tuttavia scrollò mentalmente le spalle come vide che la sua fidanzata rimaneva seduta: non era da lei prestarsi a simili cose e forse era meglio così. Troppi pettegolezzi prematuri potevano dar fastidio.
“Bene bene, ragazzo mio – commentò a bassa voce, Grumman, mettendogli la medaglia al petto – ne abbiamo fatta di strada da quando organizzasti il rapimento di mia nipote cinque anni fa, eh?”
Roy avrebbe voluto sogghignare a quella provocazione ma, come etichetta voleva, rimase immobile ad accettare quell’onorificenza.
“… sono proprio curioso di sapere cosa combinerai ora che sei soldato. Ho idea che sarai capace di sorprendermi ancora di più e me ne compiaccio. Sai, adoro divertirmi!”
Fece un perfetto saluto militare, al quale Roy rispose in maniera altrettanto impeccabile.
Nessuno avrebbe mai detto che ci fosse stato uno scambio di frasi simile.
Si sentì solo uno scrosciante applauso da parte del pubblico.
Mentre le righe finalmente si rompevano e ciascuno dei neo soldati andava a ricevere le congratulazioni dei propri cari, Roy fissò con lieve rammarico il palco delle autorità, capendo che forse Riza non avrebbe avuto occasione di scendere a salutarlo. E che andasse lui era assolutamente fuori discussione.
Così, dopo una lieve esitazione, non riuscendo nemmeno ad intercettare lo sguardo di lei che si era alzata per parlare col generale e venir presentata ad altre personalità, si girò verso il pubblico e si diresse verso quelle persone che poteva salutare senza alcuna remore.
“Roy! – immediatamente Kain gli corse incontro e gli strinse le braccia attorno alla vita – Sei stato fantastico! Sono fierissimo di te!”
“Fantastico? – sogghignò il soldato, arruffando i capelli scuri del ragazzo – Sono rimasto fermo sull’attenti per tutto il tempo, che cosa c’è di fantastico?”
“Ma no – gli occhi di Kain brillavano d’ammirazione – hai marciato per primo, guidando tutti gli altri. Oh! Posso vedere la medaglia? Che bella!”
“E così ora sei ufficialmente un soldato – sogghignò Heymans, arrivando assieme agli altri e stringendo la mano dell’amico – Amestris è ufficialmente un posto più pericoloso”.
“O più interessante, a seconda del punto di vista”.
“Roy caro – sorrise Rosie – sei stato meraviglioso quando sei andato a ricevere la medaglia. Ho ancora il cuore che mi batte forte, te lo assicuro”.
“Spero che almeno non ci siano state altre lacrime, signora”.
“No no, basta con le lacrime, promesso – garantì lei – il fazzoletto è dentro la borsa”.
“Perfetto. Allora, posso avere il piacere di portarvi a pranzo fuori? Al nostro solito ristorante ho avvisato che oggi sarei potuto venire con degli ospiti importanti”.
“Ovviamente sì! – annuì Kain per tutti – Vado a chiamare anche Riza, aspettatemi”.
“Sicuro? – lo bloccò il soldato – forse suo nonno ha altri progetti per oggi”.
“Ehi, siamo venuti qui per te – il ragazzino scosse il capo con aria stranita – che senso ha se poi Riza non viene a festeggiarti? Sono sicuro che al generale non dispiacerà…”
 
Totalmente ignaro di tutte le paranoie di etichetta che si erano posti Roy e Riza sino a quel momento, Kain scivolò abilmente in mezzo alle persone che ancora si affollavano vicino al palco.
“Ehi, Riza! – chiamò, facendosi largo per raggiungere le scalette e superando uno stupefatto soldato che non sapeva se bloccarlo o meno – Roy ci ha invitato a pranzo fuori, andiamo?”
La ragazza si guardò attorno con imbarazzo, sperando che la gente non facesse troppo caso al loro dialogo.
Ovviamente avrebbe voluto tantissimo scendere dal palco assieme a lui e andare via da quel posto per godersi un pranzo tranquillo con le persone che conosceva. Fu anche sul punto di avvisare suo nonno della sua decisione e lasciarsi alle spalle tutte quelle persone.
Ma già sentiva su di lei tutti gli sguardi curiosi di capire cosa stesse succedendo.
Lanciò un’occhiata e vide che suo nonno stava parlando con alcuni soldati, lasciandola libera di prendere qualsiasi decisione in merito. Eppure era sicura che anche lui fosse ben attento a qualsiasi sua mossa.
Troppo palese questa fuga con Roy – calcolò con freddezza – si scatenerebbero i pettegolezzi della peggior specie e non è proprio il caso.
“Ho promesso al nonno che pranzerò assieme a lui – mentì con un sorriso dispiaciuto – Con Roy è già prevista una cena per domani, non ti preoccupare. Tu vai pure, penserò io ad avvisare il nonno che tornerai stasera, va bene?”
“Ne sei sicura?” chiese il ragazzo, ovviamente deluso da quella risposta.
“Sicurissima, e sta tranquillo: Roy non resterà deluso”.
“Se lo dici tu… allora io vado, sicura?”
“Vai e divertiti” sorrise ancora, dandogli una lieve spinta per farlo scendere dal palco.
 
Ovviamente Kain c’era rimasto male per questo rifiuto.
Totalmente al di fuori delle dinamiche sociali della sorella adottiva, non riusciva a capire perché non si potesse festeggiare tutti quanti assieme. Ma come sempre la sua natura ottimista gli fece superare la delusione nell’arco di pochi minuti, convincendolo che ci sarebbero state altri occasioni per fare dei pranzi di gruppo, magari una volta tornati in paese.
Così, mentre gli altri ancora si attardavano nel cortile, mentre Roy prendeva congedo da alcuni suoi compagni d’arme, il ragazzo corse fuori per avvisare Ottavio che lui non sarebbe tornato in macchina assieme a Riza e suo nonno.
Finita quella piccola commissione stava per rientrare dentro, quando i suoi occhi acuti colsero un bagliore rosso proprio all’angolo dei grandi cancelli di ferro battuto dell’ingresso dell’Accademia.
Rimase senza fiato per due secondi, ma poi si dovette arrendere all’evidenza che si trattava proprio di Erin.
Certo sembrava una persona totalmente diversa ora che non indossava la sua divisa da governante.
Aveva un bel vestito grigio chiaro che si intravedeva dal cappotto di panno verde scuro. I capelli rossicci erano sciolti in una mossa cascata che cadeva libera sulla schiena e questo contribuiva a rendere più piacevole e giovane il viso dai lineamenti regolari.
Di nuovo quella sensazione piacevole ed inspiegabile si presentò e Kain con un sorriso si avvicinò alla giovane donna.
“Signorina Erin?” salutò quando fu a pochi metri da lei.
La ragazza si girò con sorpresa, ma subito un bel sorriso le rischiarò il viso, illuminandole anche i begli occhi grigi.
“Kain! – rispose, venendo fuori da quel piccolo angolino dove si era rifugiata – che sorpresa, non avrei mai immaginato di trovarti qui”.
“Nemmeno io, a dire il vero – si passò una mano tra i capelli scuri con aria imbarazzata – sono qui perché un mio amico è stato appena nominato soldato. Adesso dobbiamo tutti andare a pranzo fuori per festeggiarlo”.
“Davvero? Congratulazioni a lui, allora”.
“Anche lei è qui per un suo amico?”
“No, non proprio” rispose evasivamente lei.
“Un suo parente, allora?”
“No, ma è una storia complicata e sciocca, degna delle favolette che racconto ad Eleanor ed Eric. Comunque non mi piace che mi si dia del lei, è strana come cosa. Mi danno tutti del tu, compresi i bambini”.
“Però sei più grande di me, non sarebbe educato” arrossì Kain, scivolando con difficoltà ne tu.
“Tanto più grande? Quanti anni hai?”
“Sedici”.
“Io diciotto… non mi sembra tutta questa grande differenza. Scommetto che hai amiche della mia età a cui dai tranquillamente del tu, vero? E non arrossire così, altrimenti dovrò dare ragione a mia madre quando mi dice che sono destinata a far imbarazzare la gente con il mio comportamento. Erin, ragazza, chissà perché molto spesso le guance delle persone con cui parli diventano rosse come i tuoi capelli”.
A quella buffa imitazione di una voce severa i due giovani si guardarono e poi scoppiarono a ridere all’unisono.
“Come stanno i bambini?” chiese poi Kain.
“Benone, il tuo incontro al parco è stato l’argomento principale di tutta la cena – rispose Erin con aria estremamente seria – Oggi stanno assieme alla mamma, è il mio giorno libero”.
I due si guardarono di nuovo, quasi da quella frase ne dovesse scaturire l’invito a passare qualche ora assieme. Effettivamente nella mente di Kain stava ronzando l’idea di chiederle se le andava di rivedersi quel pomeriggio dopo pranzo, magari al parco dell’altra volta. Ma qualsiasi sua iniziativa venne interrotta da una voce.
“Ehi, ragazzo – fece Heymans – guarda che ti stavamo aspettando dentro. Non…”
Avrebbe aggiunto anche altro, ma le parole gli morirono in gola quando spostò lo sguardo su Erin.
“Scusami – rispose Kain – è che ho incontrato questa mia amica che…”
“Scusatemi voi – sorrise imbarazzata Erin, facendo un cenno con entrambe le mani guantate – è quasi ora di pranzo e sicuramente dovrete andare. E’ stato un piacere rivederti, Kain, domani racconterò ai bambini che ti ho rivisito. Buon festeggiamento!”
“Oh, Erin, aspetta!” esclamò Kain, facendo un passo verso quella figura esile.
Ma con uno scatto invidiabile, la ragazza aveva già guadagnato il marciapiede e aveva iniziato a correre.
“Accidenti – sospirò Kain – non ho fatto in tempo a chiederle se le andava di rivederci”.
“Chi è?” chiese il rosso con voce stranamente stentata.
“E’ una ragazza che ho incontrato ieri al parco – spiegò l’altro, mentre anche gli altri li raggiungevano – mi ha fatto subito una bella impressione, quindi immagina la mia sorpresa quando pochi minuti fa l’ho vista qui. La conosci? Hai fatto una faccia strana come l’hai vista”.
“No, no – si ricosse Heymans – è stata solo una strana sensazione del tutto inaspettata”.
“Davvero? Lo sai che anche a me Erin suscita una strana sensazione? – Kain si girò a guardarlo con sorpresa – Non riesco ancora a definirla, ma è certamente qualcosa di positivo. Anche per te?”
“Positivo…? Sì, dai, mettiamola in questo modo”.
“Peccato, con tutta probabilità non la rivedrò più – sospirò il moro – tra tre giorni torniamo in paese…”
 
Quella sera, Roy si attardò con il capitano Falman nella hall dell’albergo dove quest’ultimo alloggiava con la sua famiglia. Se ne stavano seduti ad uno dei bassi tavolini, sorseggiando del liquore invecchiato che il neo soldato aveva ordinato nonostante le proteste del suo mentore.
“Bere un alcolico assieme a lei è una grande vittoria, signore”.
“E’ una grande vittoria che lo stai bevendo come un civile e non come hai fatto anni fa quando assieme a Vato e Jean ti sei scolato mezza bottiglia di whiskey in una stupida gara che vi ha ridotto come larve”.
“Povero me – scosse il capo Roy con finta esasperazione – lei non riuscirà mai a vedermi come un adulto. Sarò sempre un ragazzino che le dà troppo filo da torcere: pare una maledizione”.
“Non essere sciocco, ti tratto da ragazzino solo quando ti comporti come tale”.
“In questo momento vediamo di parlare da uomini, allora. Anzi, se devo essere sincero il parere di un navigato capitano di polizia non mi dispiacerebbe”.
“Ricordati che polizia ed esercito sono due cose differenti – spiegò Vincent, sistemandosi meglio nel divanetto e bevendo un sorso del liquido denso – ma vedrò di darti il parere che chiedi”.
“E’ mai stato ambizioso, signore?”
Pose quella domanda con sincera curiosità, senza alcuna provocazione nella voce. Vincent Falman gli era sempre parso l’emblema del poliziotto integerrimo, il cui unico scopo era fare il proprio dovere a prescindere dal grado e della missione. Non era stupido: sapeva benissimo che essere capitano di polizia in un piccolo paese come il loro significava la fine di qualsiasi possibile carriera.
“Sono stato giovane pure io, Roy: la mia buona dose di ambizione l’ho avuta, ma poi ho dovuto rivedere i miei progetti e ho capito che mi andava bene quello che ero diventato”.
Roy fece una piccola smorfia di disappunto, come se la sorsata di liquore appena bevuta gli fosse andata di traverso. Tuttavia Vincent si limitò a sorridere furbescamente.
“Oh, so cosa provi, credimi. Quando ho visto dei traguardi alla mia portata so bene quale scarica di adrenalina ho provato e quanto mi ci sono applicato per raggiungerli. La vocazione non esclude l’ambizione, ragazzo mio… in nessuno di noi”.
“Un mio insegnante d’Accademia in primavera mi porterà a Central – spiegò il ragazzo – essendo stato il migliore del corso pare che vogliano sfoggiarmi nei piani alti”.
“Credi che qualcuno ti noterà a ti prenderà con se?”
“Quanto può costare un rifiuto a proposte simili?”
“Bella domanda – annuì Vincent – a seconda della persona che trovi ti costa tutta la tua carriera futura. Perché credi che io sia finito in paese? Ho offeso una persona più forte di me, tutto qui. Altrimenti io e la mia famiglia saremo ancora a New Optain e forse sarei qualcosa di più rispetto ad un capitano… anzi, con molta sicurezza lo sarei: ero parecchio promettente. Quindi ecco la risposta di quanto può costare un rifiuto alla persona sbagliata”.
“Ti giochi la carriera, insomma”.
“Carriera ed integrità morale sono due pesi che saranno sempre nella tua bilancia, ragazzo mio – scosse il capo il poliziotto – sono fuori dall’ambiente da tempo, ma so che nell’esercito è molto peggio rispetto che nella polizia. Tu sei un novellino che farà gola a parecchi, credimi. L’unico suggerimento che posso darti e di ponderare bene la tua scelta”.
“A costo di annullare sul nascere la mia carriera”.
“Non essere modesto, Roy – sogghignò Vincent – tu hai un qualcosa in più rispetto al poliziotto che ero io: hai una capacità di adattamento invidiabile. Sono sicuro che riuscirai a rimanere a galla e a seguire i tuoi principi anche quando il mondo sembrerà remarti contro. Sei troppo furbo per farti fregare, ragazzo mio”.
“Non è proprio l’immagine di soldato che vorrebbe di me, vero?”
“Credevi che volessi un altro me stesso? No, figliolo – sorrise il capitano, facendo un lieve brindisi – ho imparato anni fa che una cosa simile non la potevo pretendere nemmeno da Vato. Siamo tutti delle personalità diverse e bisogna saper riconoscere le doti di ciascuno”.
“Insomma secondo lei questo neo soldato ha grandi possibilità”.
“Mi aspetto di vederti presto con qualche grado in più sulle spalline, mettiamola così”.
“Voglio chiedere al tenente Conrad di prendermi come collaboratore”.
“Ti piace come persona?”
“Mi ha messo in guardia contro quello che potrei trovare a Central City – scrollò le spalle Roy – mi pare un buon inizio, no?”
“Anche a me. Bene, direi che si è fatta ora di andare a dormire. Domani ci aspettano diverse ore in treno”.
“Ovviamente vi accompagnerò alla stazione – annuì il soldato alzandosi  e stringendo la mano all’uomo – ancora grazie per essere venuti, signore”.
“Non sarei mancato per niente al mondo, soldato semplice Mustang”.





 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Capitolo 16. Gli avvenimenti di East City. Terza parte. ***


 

Capitolo 16. Gli avvenimenti di East City. Terza parte.

 


 
Heymans aveva dormito male quella notte: aveva passato diverse ore a rigirarsi nel letto e anche quando il sonno era arrivato era stato tormentato e ben poco riposante. Aveva accolto con piacere il momento della sveglia e aveva immediatamente aperto le imposte per permettere alla luce del mattino di allontanare gli ultimi residui di quella notte da dimenticare.
Se qualcuno gli avesse chiesto cosa aveva sognato non sarebbe stato in grado di rispondere: erano immagini confuse, così come le voci. L’unica cosa che gli era rimasta impressa era una sgradevole sensazione di incompiuto. Come se avesse cercato di risolvere un rompicapo senza però arrivare alla soluzione nel tempo a disposizione.
“Che faccia – commentò Arthur, quando lo vide scendere nella sala della colazione – dormito male?”
“Poco e niente e quel poco male” ammise il rosso, sedendosi al suo posto e versandosi un’abbondante tazza di caffè.
“Problemi con il pranzo per festeggiare Roy? – gli chiese l’altro, spalmando il burro sul suo pane tostato – a volte è quella la causa di un sonno agitato”.
“Ma no, lì è andato tutto bene e quel ristorante è ormai collaudato” Heymans allontanò quell’opzione con un gesto della mano.
No, ieri quello che l’aveva turbato tanto non era il pranzo con i suoi amici che, anzi, era andato più che splendidamente. Ciò che gli aveva procurato quella strana sensazione era quella ragazza con cui stava parlando Kain all’uscita della cerimonia. Non la conosceva, di questo era sicuro, eppure era stato come avere uno strano dejà-vu: come se quegli occhi grigi avessero avuto il potere di risvegliare in lui qualcosa.
Si era trattenuto dal parlarne con Kain durante il pranzo, del resto che cosa gli avrebbe potuto dire? Non aveva senso improntare un discorso su delle semplici sensazioni.
“… ti ho chiesto quali sono i tuoi impegni per oggi…” lo riscosse Arthur.
“Impegni? Ah già… beh, stamane ho intenzione di andare in biblioteca a studiare. Di pomeriggio riaccompagno Vato e la sua famiglia a prendere il treno e penso che mi farò un giretto assieme a Kain, più o meno siamo rimasti d’accordo così”.
“Ottimo, allora possiamo andare assieme in biblioteca”.
 
Fortunatamente Arthur aveva dalla sua anche una spiccata sensibilità, almeno quando voleva. Quindi, per quanto la maggior parte delle volte fosse sfacciato e poco propenso alla riservatezza, fu abbastanza accorto nel non indagare oltre sull’umore strano del suo amico.
Heymans fu profondamente grato di questa delicatezza: se c’era una cosa che detestava era quando qualcuno si intrometteva nelle sue riflessioni personali. In questi casi solo Jean poteva permettersi di intervenire, ma solo con determinate e collaudate dinamiche.
Dunque le ore della mattina passarono tranquille, con una parte della sua mente che studiava per l’esame del mese successivo e l’altra che continuava ad analizzare tutti i pezzi del rompicapo Erin, così Kain aveva chiamato quella ragazza. Proprio non riusciva a capire cosa potesse significare per lui: aveva anche ipotizzato che quello strano interesse poteva esser dettato dal fatto che era una novità vedere Kain intrattenere rapporti con degli estranei; tuttavia quest’ipotesi era stata ben presto scartata. No, Erin gli avrebbe procurato la medesima sensazione anche se l’avesse incontrata in un altro contesto, di questo era sicuro.
Colpo di fulmine? No, non mi pare proprio.
Non era tipo da innamorarsi in questo modo, anzi era più che mai deciso ad evitare una simile esperienza. Le cose rapide non gli piacevano per niente, specie nel complicato mondo dei sentimenti: gli era bastata l’esperienza che aveva portato alla sua nascita per farlo andare con i piedi di piombo nei confronti dell’amore.
Cercò di riportare alla mente il viso di quella fanciulla che aveva visto per nemmeno un minuto. Era carina, su questo non c’erano dubbi, anzi bella. Doveva avere più o meno la sua età e, a ben pensarci, era la prima volta che gli capitava di vedere qualcuno che avesse i colori della sua famiglia: il rosso di capelli non era molto comune in quella parte di Amestris. Sua madre gli aveva spiegato che gli Hevans, la sua famiglia d’origine, erano in realtà originari del distretto Nord, ma si erano poi trasferiti in quello Est circa due generazioni prima che lei nascesse.
Forse era stato questo che l’aveva impressionato in quella maniera, ma nel caso era davvero uno sciocco.
Non era stata certo prerogativa degli Hevans di trasferirsi da un posto all’altro.
Annuendo si disse che era proprio così e si dedicò totalmente al libro di giurisprudenza.
 
Quel pomeriggio, tuttavia, il rompicapo che credeva di aver risolto gli tornò improvvisamente tra le mani.
Dopo aver riaccompagnato Vato e la sua famiglia a prendere il treno, si concesse una passeggiata con Kain che, felice di quell’occasione, lo condusse in un particolare parco della città.
“Forse è un po’ tardi come orario – ammise il ragazzo, camminando verso un ponticello – speravo di trovarci Erin con i bambini, ma con tutta probabilità vengono solo di mattina”.
“L’hai incontrata qui?”
“Sì, ci porta i bambini di cui si prende cura: Eleanor avrà sui quattro anni, Eric è ancora più piccolo, infatti non parla ancora bene. Ci siamo conosciuti perché Eleanor mi ha visto dare da mangiare alle papere del lago e voleva farlo anche lei”.
“Capisco” mentalmente il rosso prese nota del fatto che quel parco poteva essere un buon punto di partenza per eventuali indagini.
“Sai, Heymans, ci ho ben riflettuto e credo di aver capito perché Erin mi ha colpito molto – continuò Kain, posandosi tranquillamente sul parapetto e fissando le papere – non trovi che assomigli a tua madre?”
Fu una frase detta con noncuranza, quell’ingenuità tipica di Kain di cui nessuno poteva dubitare. Eppure Heymans ebbe una scossa lungo tutta la spina dorsale mentre tutti i ragionamenti che aveva fatto quella mattina gli crollavano addosso come una valanga.
“Dici?” si sforzò di chiedere con voce calma.
“Sì – annuì il ragazzo con un sorriso – ha gli stessi colori di tua madre e tuo fratello, anche le efelidi sono simili. Forse tu non hai avuto tempo di notarlo perché l’hai vista per poco tempo, ma sono proprio le stesse lentiggini: sul naso e sulle guance”.
“E secondo te perché le somiglia tanto?”
“Non lo so, a volte succede – ridacchiò Kain, come se fosse una risposta ovvia – hai presente la signorina Lola? La ragazza del locale di Roy? Anche se ha colori diversi assomiglia molto alla mia mamma. Penso sia normale che a volte le persone si somiglino molto, penso che Vato abbia qualche libro in proposito. Come torno in paese glielo chiedo”.
“Beh, se pensi ad un albero genealogico capisci che puoi avere parenti sparsi in giro per il mondo – convenne Heymans, senza però esserne troppo convinto – chissà quante altre persone col sangue Fury ci sono ad Amestris di cui ignori l’esistenza. Discendenti di tuoi prozii e così via…”
“Già, è affascinate, vero? – Kain alzò gli occhi al cielo con aria sognante – è una bella idea pensare che in fondo ho più parenti di quanti io creda”.
“Affascinante, proprio così”.
 
Mentre Heymans rifletteva su tutti quei discorsi, arrivando a strane e curiose conclusioni, qualche ora dopo Roy e Riza si poterono finalmente concedere qualche ora assieme.
Come era previsto, il neo soldato era stato invitato a cena dalla fidanzata e da suo nonno e dunque si era presentato alla villa del Generale Grumman all’ora convenuta.
Con sua somma sorpresa fu proprio Riza ad aprirgli e non qualche cameriere.
“Benvenuto – lo salutò lei con un gran sorriso – finalmente riusciamo a parlare un po’ in tranquillità”.
“Conosco quest’abito – Roy la squadrò con curiosità, notando come indossasse uno dei suoi abiti di campagna, sebbene tra i più eleganti – lo usi nelle occasioni speciali”.
“Però non è come quello che indossavo ieri alla cerimonia, vero? – lei gli prese il cappotto e lo appese all’ingresso – Sei perplesso?”
“Ammetto di sì. Che mi devo aspettare?”
“Beh, semplicemente ho deciso un cambio di programma – Riza lo condusse attraverso gli eleganti corridoi – al posto del ristorante previsto, ho chiesto a mio nonno di cenare qui a casa. Ho persino cucinato io, sai? C’era il cuoco che ha quasi avuto un infarto quando gli ho chiesto di lasciarmi in mano la cucina, ma credo che si sia ripreso”.
“Cambi le regole del gioco, colombina? – ridacchiò Roy, notando come i capelli fossero di nuovo tenuti dal solito fermaglio – Mi sorprendi”.
“Semplicemente ero stanca di dover far attenzione a qualsiasi mia mossa, tanto da dover rinunciare a congratularmi con il mio fidanzato dopo la fine della cerimonia – lo prese per mano con disinvoltura – quindi ho deciso di mandare allegramente alla malora tutta quella gente e di festeggiare come si conviene. Noi, Kain e mio nonno… ah, e ovviamente come tornerai in paese devi venire a pranzo a casa dai miei”.
“Ovviamente – Roy la bloccò nel corridoio e avvicinò il viso al suo – mi è dispiaciuto per ieri, sul serio. Eri splendida con quel vestito, ma non ha avuto molto senso se poi non ci siamo nemmeno potuti parlare. Quando ti ho invitato non mi sono reso conto di quante implicazioni potesse avere la tua presenza”.
“Appunto, è proprio di questo che voglio parlare – disse lei – voglio che tu possa realizzarti, sul serio. Ma mi da fastidio di venir vista dai più come una pedina, non appena la nostra relazione verrà fuori… tanto è solo questione di tempo”.
“Non devi preoccuparti, per i primi tempi ho intenzione di stare con una persona al di sopra di ogni sospetto di favoritismo – la rassicurò il soldato – e una volta preso il titolo di alchimista di stato ben pochi avranno dei dubbi sulle mie reali capacità”.
“Credo che mio nonno abbia grandi aspettative su di te”.
“Vedrò di non deluderlo, ma a modo mio – garantì Roy – per stasera preferisco incontrarlo solo come tuo parente piuttosto che come generale di East City”.
“È proprio questa la mia intenzione per questa sera e ho anche avvisato mio nonno in merito. Possiamo parlare del paese, di me, di te, ma non della tua carriera militare. Adesso giochiamo secondo le nostre personali regole, Roy Mustang, quelle della bella società sono finite per questa volta. Dopodomani riparto in paese con Kain ed in tutti questi giorni non abbiamo avuto una sola occasione per stare assieme nelle nostre vere versioni”.
“Una grossa mancanza – convenne lui – e hai tutto il diritto di imporre il tuo volere, colombina. Ehilà, gnomo!”
“Ciao, Roy! – salutò Kain, scendendo dalle scale – Sai che ho convinto Riza a fare la torta al cioccolato come dolce?”
“Non avevo dubbi in merito – sghignazzò il soldato, arruffando i capelli del suo giovane amico – allora, sei contento di questa cena assieme?”
“Certo! Il pranzo di ieri mancava di qualcosa senza Riza – annuì con serietà il ragazzo – e poi oggi ha cucinato lei, quindi sarà come essere a casa”.
“Per farti sentire a casa, domani ti porto a vedere la moto, sei contento?”
“Fantastico!”
“Niente giri – li bloccò subito Riza – non voglio raccontare alla mamma di esperienze pericolose o ancora peggio di incidenti”.
“Ma quando mai – la guardò Roy con finta innocenza – saremo dei bravi bambini, vero Kain?”
“Verissimo. Vieni, dai, la sala è qui: il generale ci sta aspettando”.
Fu una piacevole cena e non poteva essere altrimenti.
Riza aveva preso in mano la situazione, dimostrandosi una perfetta padrona di casa: aveva preparato i suoi piatti migliori, sistemandoli poi nel grande carrello in modo da poter essere lei stessa a servire. Quello che poteva sembrare solo il capriccio di una ragazza benestante in realtà era la ferma decisione di una donna di giocare secondo le proprie regole: se doveva venir accettata doveva essere per quello che era veramente, questo valeva soprattutto per suo nonno. Per quanto le piacesse venir in qualche modo viziata durante i suoi soggiorni in città, era meglio mettere i puntini sulle “i” su quella che era la sua vera natura.
Kain e Roy sapevano bene che era quella la vera versione della ragazza e dunque non costò loro nessuna difficoltà essere spontanei davanti a quella Riza casalinga, sebbene elegante. Grumman invece ne era abbastanza sorpreso, seppure divertito, come se trovasse incredibile che la sua unica nipote si sapesse destreggiare così bene in faccende in genere relegate al personale.
“Arrosto ottimo, mia cara” commentò durante la cena.
“Grazie, nonno”.
“Ormai lo fa uguale a quello della mamma – spiegò Kain con orgoglio, quasi fosse merito suo – non sento la minima differenza”.
“Non credo che al ristorante avremmo mangiato qualcosa di meglio” annuì l’uomo, sollevando il bicchiere in direzione della nipote.
“Volevo festeggiare come si doveva il grande traguardo di Roy – disse Riza con disinvoltura, prendendo il piatto del fidanzato e servendogli una nuova porzione – e ho riflettuto che in ristorante non avremmo avuto le medesime possibilità. Il gioco dei pettegolezzi va bene, ma non mi deve impedire di vivere la mia vita”.
“Stessa determinazione di tua madre, mia cara – sospirò Grumman – ma tu sei molto più solida rispetto a lei, ne sono compiaciuto. Sarai molto fortunato a maritarti con lei, giovanotto”.
“A tempo debito, signore – sorrise Roy – non ho nessuna intenzione di accelerare i tempi e forzare le cose, non sarebbe nemmeno giusto nei confronti di Riza. Lei ha appena terminato le scuole e io sono appena diventato soldato: meglio avere prima una stabilità su cui fare affidamento”.
“Mi piace un simile discorso – annuì Grumman, mentre anche la ragazza sorrideva compiaciuta – posso sapere quali sono i tuoi prossimi progetti?”
“Ho preso un impegno con un mio insegnante d’Accademia per questa primavera, poi mi concentrerò sugli studi per il titolo di alchimista di stato. Se l’esercito non mi reclamerà, tornerò in paese per poter velocizzare il mio apprendimento con il maestro”.
“Già, quell’uomo – Grumman socchiuse lievemente gli occhi e la sua espressione rilassata si indurì leggermente – presumo che la situazione non sia cambiata di una virgola per lui”.
“È cambiata per me – corresse Riza – e va bene così. Sul serio, nonno, non ti devi preoccupare per lui, va tutto bene”.
“Ma sì, va tutto bene. Non mi pare il caso di rovinare questa simpatica cena con il pensiero di quell’uomo. Bene, giovanotto, allora mi stavi raccontando del tuo progetto primaverile. Continua pure”.
 
Circa un’ora dopo i due fidanzati si godevano il cielo notturno nel grande balcone della villa mentre nel salotto Grumman e Kain erano impegnati in una partita a scacchi. La villa si trovava in una posizione davvero privilegiata, nella periferia della città, e offriva una visione di East City incantevole: i palazzi, i ponti sul fiume che veniva illuminato dalla luce dei lampioni, tutto sembrava immobile come in un quadro.
Riza adorava quella visuale, era forse uno degli aspetti della città che le piaceva maggiormente.
In campagna la visuale notturna era ben poca, se si escludevano le notti in cui il cielo era limpido e la luna piena e di certo non si poteva vedere così lontano. East City nella sua veste notturna aveva un non so che di magico, come se fosse carica di promesse per il futuro: le luci sul fiume sembravano tracciare un nuovo sentiero che l’avrebbe condotta in posti meravigliosi.
“Un brindisi a questa serata perfetta – dichiarò Roy, toccando il bicchiere di champagne della fidanzata con il proprio – il festeggiamento migliore che potessi mai desiderare”.
“Ancora auguri, soldato – sorrise Riza ricambiando il gesto – sono felice di averti festeggiato come si conveniva. La mia gita ad East City si conclude nel modo giusto”.
“Sono sorpreso di te, colombina: questo tuo prendere l’iniziativa non me l’aspettavo proprio, ma non sai quanto mi ha reso felice”.
“Come hai detto tu si deve procedere un passo alla volta e tutto sommato, a questo giro, abbiamo fatto parecchi passi assieme: tu che diventi soldato e io che ti presento ufficialmente a casa di mio nonno”.
“Non sembri minimamente spaventata: quando a dicembre ti avevo proposto di venire qui a vedere la cerimonia sembrava che dovessi buttarti da un burrone”.
“È stata una reazione esagerata, lo ammetto. Cielo, è passato poco più di un mese, eppure quella Riza mi appare così infantile e piena di paure”.
“Lo sei ancora?”
“Non così tanto – rispose lei, dopo averci pensato attentamente – mi sono resa conto che il nostro matrimonio non è dietro l’angolo e che dunque ho tutto il tempo per maturare ancora. Per abituarmi all’idea di andare via dal paese”.
“Pensa al lato positivo – strizzò l’occhio il soldato – se tutto va bene dopo primavera torno in pianta stabile per diverso tempo, così potrò studiare per il titolo d’alchimista”.
“Speriamo davvero che sia possibile. Ammetto che mi manca vederti tutti i giorni”.
“Sono una presenza importante, è chiaro”.
“Ma no! – lo prese in giro lei, dandogli un piccolo pugno sulla spalla – è che… sai, vedere gli altri assieme un po’ mi fa venire nostalgia, tutto qui. Assieme… oddio, adesso che rientro in paese presumo che ci saranno gli strascichi della questione di Jean e Rebecca”.
“La perdonerai?”
“Per quello che mi ha detto? Sono ancora arrabbiata con lei… è stata davvero ingrata. Dovrà essere davvero convincente per riprendere i rapporti con me. Quello che importa sarà stare vicino a Jean, lui è un caro amico e non ci sono dubbi su questo”.
“Altro che pettegolezzi di città – sogghignò Roy – se quella gente venisse in paese ne uscirebbe con i capelli dritti”.
 
La settimana passò, con Riza e Kain che ripresero il treno per tornare in paese.
Ad East City rimasero soltanto Roy ed Heymans, ciascuno impegnato nelle proprie attività. Il neo soldato era stato chiamato al Quartier Generale assieme ai suoi compagni per formare un plotone ufficiale che potesse venir riformato quando l’occasione l’avesse richiesto. Era un atto formale di ben poca utilità: si sapeva che buona parte di quei nuovi soldati sarebbe stata smistata a seconda delle proprie capacità. Tuttavia era necessario ufficializzare l’ingresso nell’esercito delle reclute appena uscite dall’Accademia.
Heymans, assieme ad Arthur e ai suoi compagni, aveva ripreso a studiare per gli esami sempre più vicini: passava le sue giornate nella biblioteca dell’Università, chino sui libri, prendendosi delle pause solo per seguire le nuove lezioni. In particolare quelle di diritto penale, tenute dal giudice Doyle, si stavano rivelando particolarmente toste e facevano presagire un esame ai limiti dell’impossibilità, con somma disperazione della maggior parte degli studenti.
Una cosa interessante che il rosso aveva imparato a notare era quando i suoi docenti avevano avuto dell’esperienza pratica della materia che insegnavano. Quelli meramente teorici si limitavano a seguire quasi sistematicamente i libri di testo, ma quelli come il padre di Arthur, che la materia l’avevano applicata di persona, avevano un approccio completamente diverso.
Le leggi erano quelle, certo, ma quell’uomo dallo sguardo di un rapace si aggirava per l’aula durante le lezioni, sorprendendo i suoi studenti con domande circa l’applicazione di questa o quest’altra norma, ponendo esempi e casi veramente complicati dove non si capiva dov’era il limite da buonsenso e mera legge. Davvero la giustizia doveva funzionare imparziale per tutti? Una stessa legge poteva avere applicazioni diverse? Quell’uomo li faceva ragionare come mai era successo, rendendoli consapevoli che spesso e volentieri nelle loro mani poteva capitare il destino di molte persone.

C’erano tuttavia dei momenti in cui Heymans si prendeva delle pause e allora i suoi passi lo portavano inevitabilmente a quel parco dove Kain gli aveva detto di aver incontrato la giovane Erin. Non gli era capitato di vedere la giovane, eppure ci aveva sperato: ormai si era convinto che c’era qualcosa di strano in quella ragazza ed era deciso a scoprire che cosa. A volte si sentiva uno stupido mentre guardava il ponticello sul laghetto delle papere: che cosa le poteva dire nel caso l’avesse incontrata? Magari nemmeno si ricordava di lui e l’avrebbe preso per un malintenzionato.
Un giorno, finalmente, la vide passeggiare con un bambinetto di pochi anni tenuto per mano. Per un attimo non la riconobbe dato che aveva i capelli raccolti nell’acconciatura severa delle bambinaie, ma il suo occhio attento fu rapido a capire il cambio di pettinatura. La osservò da lontano mentre gli faceva fare qualche giro attorno alle aiuole prima di sedersi con lui su una panchina. Dai gesti che faceva e dalla faccia meravigliata del piccolo si capiva che stava raccontando qualche storiella tanto che il rosso decise di attendere la fine di quel momento prima di avvicinarsi.
Probabilmente stai facendo la più grossa sciocchezza della tua vita, Heymans Breda – si disse, mentre si passava una mano tra i capelli e si faceva avanti – perché non sei rimasto in biblioteca a studiare?
“Mi scusi…” iniziò con voce flebile, accostandosi alla panchina.
Subito lei alzò lo sguardo con stupore, mentre il suo braccio si stringeva istintivamente sul bambino che, dopo tutto quel movimento, si stava addormentando contro il fianco della sua tata.
I due paia di occhi grigi si scrutarono con attenzione prima che Heymans si decidesse a continuare.
“Erin, vero? Non so se si ricorda di me, ci siamo visti alla cerimonia di fine Accademia”.
“Oh aspetti! – l’espressione di lei si rasserenò – Ma certo! Era assieme a Kain”.
“Esatto, però non abbiamo avuto occasione di presentarci: mi chiamo Heymans Breda”.
“Erin Hidden – sorrise lei, tendendo la mano e stringendo quella del rosso con calore – mi fa piacere rivederla. Ha notizie di Kain?”
“È tornato in paese a inizio settimana: era venuto qui solo per la cerimonia”.
“Che peccato – sospirò lei – mi stava davvero simpatico, l’avrei rivisto volentieri e anche i bambini l’avrebbero voluto, ci scommetto. Spero che si sia trovato bene qui in città”.
“Si è divertito come un matto, ma è stato altrettanto felice di tornare in paese”.
“Anche lei viene dallo stesso paese? – la ragazza si spostò leggermente per permettergli di sedersi – Oppure è un cittadino?”
“Vengo anche io dal paese, sono qui perché studio all’Università”.
“Davvero? Oh che bello! Anche a me sarebbe piaciuto studiare, ma dopo la scuola ho dovuto cercare un lavoro per aiutare mia madre con le spese di casa. Vivere in città non è certo economico. Cosa studia?”
“Giurisprudenza”.
“Un futuro giudice allora… oppure avvocato?”
“Devo ancora decidere, sono solo al secondo anno e devo ancora affrontare diverse materie”.
“Al secondo anno? – gli occhi di lei si sgranarono – allora non è molto più grande di me!”
“Ho diciannove anni” arrossì lui, preso alla sprovvista da quella spontaneità.
“La facevo più maturo… però, oh scusa… possiamo darci del tu? Siamo praticamente coetanei: io li compio ad aprile diciannove anni! E’ che con questi vestiti eleganti mi sei sembrato più grande. Ah, ovviamente se le va bene… ecco, sto facendo di nuovo una delle mie solite figuracce!”
Arrossì violentemente, quasi la stessa tonalità dei suoi capelli.
Heymans non seppe che dire, frastornato dal fiume in piena che era stata l’ultima parte del discorso di lei. Di sicuro era una ragazza particolare e capiva perché Kain l’aveva trovata simpatica. Si sentì felice della sua ostinazione, di essere tornato più volte in quel parco nella speranza di poterla incontrare.
Forse era solo perché mi avevi fatto una bella impressione.
“Il tu va benissimo – la rassicurò – allora, io studio giurisprudenza, tu invece fai la governante?”
“La tata, prego – disse lei con serietà – ai bambini non piace il termine governante, lo trovano troppo serio: le governanti sgridano i bambini, le tate no, almeno questo è quello che sostiene Eleanor”.
“La sorellina?”
“Già, a letto con l’influenza e molto interdetta dal non poter venire al parco con me ed Eric. Adoro venire al parco, mi piace molto il verde: il tuo paese è in campagna?”
“Il mio paese è praticamente campagna – corresse Heymans – un gruppo di case a fare il centro abitato e poi le altre sparse in giro per i campi. Per arrivare a casa del mio miglior amico devo farmi una passeggiata di mezz’ora”.
“Che meraviglia – sospirò lei – a volte a stare in una città come questa ti senti un po’ imprigionata. Dev’essere bello avere così tanti spazi aperti”.
“Forse lo troveresti noioso alla lunga”.
“Questione di abitudine, presumo. Ma è vero che io sono nata e cresciuta qui”.
“Allora – proseguì Heymans dopo qualche secondo di silenzio – come mai eri alla cerimonia? Qualche parente o qualche amico?”
“Oh no – scosse il capo lei – come stavo dicendo a Kain quella volta, è una storia davvero stupida e un po’ me ne vergogno”.
“Va bene, se non ne vuoi parlare non fa nulla – la tranquillizzò subito il giovane – era solo per fare conversazione, tutto qui. Io ero lì per un mio caro amico, è stato il migliore del corso”.
“Accidenti – gli occhi grigi di lei si illuminarono a sentire quelle parole – dev’esser stato davvero bravo: non è uno scherzo riuscire ad essere i primi dell’Accademia. Mia madre mi dice sempre che è una delle più dure di tutta Amestris: i soldati del distretto est sono i migliori, al pari di quelli del distretto nord”.
“Dicono così? Beh, allora posso vantarmi di aver avuto anche uno zio che è stato primo del suo corso in Accademia, anche se in questo caso si tratta di una storia vecchia più di vent’anni”.
“Sei proprio legato all’esercito, allora: mi chiedo come mai non sei diventato soldato pure tu”.
“Oh no, non potrei mai – scosse il capo Heymans con decisione, senza nemmeno rendersi conto che con quella giovane quasi sconosciuta stava parlando con maggior confidenza rispetto a quanto avrebbe fatto con lo stesso Arthur – in primis non è nelle mie corde e poi non potrei mai fare una cosa simile a mia madre. Lo zio di cui ti dicevo era suo fratello ed è morto in guerra. Non potrei mai arrecarle un simile dolore, capisci?”
“Ti capisco meglio del previsto – disse Erin con voce sommessa, accarezzando i capelli scuri di Eric – sai io… oh, e va bene. Tanto vale che ti dica perché ero alla cerimonia, ma promettimi di non ridere”.
“Promesso”.
“Mamma dice che sono una sciocca, ma lo faccio ogni anno, sin da quando ne avevo dieci. Devi sapere che mio padre era un soldato, ma è morto prima che io nascessi. Mamma mi parlava spesso di lui, però non ho nemmeno una sua foto… ma una delle cose che mi è sempre rimasta impressa è che è stato il primo del suo corso in Accademia, mi fa sentire enormemente fiera perché vuol dire che era veramente eccezionale. Così, quando avevo dieci anni, il giorno della cerimonia di fine Accademia ho saltato la scuola e sono andata a sbirciare dal cancello d’ingresso. E vedere quei soldati in divisa mi ha dato una bella sensazione, così ci torno ogni volta… mi piace immaginarmi di nuovo bambina con mio padre che mi prende in braccio e mi mette il berretto della sua uniforme in testa. Oh, ecco vedi, sorridi… sono una sciocca”.
“Ma no, non sei sciocca – corresse Heymans – sorrido perché è una bella storia. È bello che tu sia molto legata a tuo padre anche se non l’hai mai conosciuto”.
“Sai, lui non aveva nemmeno idea che io fossi in arrivo: mia madre gli scrisse che era incinta, ma la lettera tornò indietro intatta con scritto nella busta che il mittente era deceduto in guerra”.
“Immagino tutte le difficoltà che avrà dovuto affrontare – annuì seriamente il giovane – anche con il sussidio dell’esercito essere vedova e con un figlio in arrivo non sarà stato semplice”.
“Vedova? – Erin arrossì e lo fissò con imbarazzo – no… no, forse è meglio che te lo dica subito prima che lo scopra da solo. Ecco… i miei non erano sposati. Mamma dice che forse prima o poi sarebbe successo dato che si frequentavano da diverso tempo, sebbene nei mesi precedenti la partenza di mio padre al fronte non si fossero praticamente visti. Si incontrarono solo due giorni che lui era ad East City per partire col suo plotone: una vera e propria follia che io sia stata concepita proprio in quel piccolo arco di tempo! Diamine, sto raccontando più cose a te che al mio diario segreto!”
“Semplicemente ti piace parlare di tuo padre – cercò di consolarla Heymans – scommetto che non lo fai spesso”.
“Con mamma non più. Insomma, capisco che per lei possa essere un dolore, ma per me è una figura troppo bella per dimenticarla! Sai che ho preso tutto da lui? Mia madre ha occhi e capelli castani, mentre io sono rossa e con gli occhi grigi come mio padre… beh, non proprio, a quanto pare, secondo mia madre, lui li aveva più sull’arancione i capelli. Credo come i tuoi”.
A quelle parole il brivido sulla schiena di Heymans tornò prepotente, tutta la spensieratezza che spariva di colpo. Improvvisamente tutti i suoi pensieri su chi fosse quella ragazza, i discorsi fatti con Kain tornarono a travolgerlo e a far ricomparire quel senso di incompiuto che l’aveva tormentato per diversi giorni.
Parenti? No, non era possibile.
Primo del corso… morto nel fronte… capelli come i miei… – scosse con violenza la testa davanti a queste coincidenze che andavano a creare nuovi pezzi del suo rompicapo.
“Sai, Heymans, ci ho ben riflettuto e credo di aver capito perché Erin mi ha colpito molto: non trovi che assomigli a tua madre? ... gli stessi colori di tua madre e tuo fratello, anche le efelidi sono simili. Forse tu non hai avuto tempo di notarlo perché l’hai vista per poco tempo, ma sono proprio le stesse lentiggini: sul naso e sulle guance”
La voce ingenua di Kain tornò alla memoria con quella frase che sembrava offrire la soluzione perfetta eppure assurda a tutta quella storia. Perché se era così quella storia era assurda e surreale, degna della trama di un romanzo. E significava anche riaprire vecchie ferite, specie per sua madre.
Ma no, adesso mi levo il dubbio e mi dirò da solo che sono uno scemo.
“Un mio amico direbbe che il sangue della famiglia Hidden è dominante: ecco perché gli occhi ed i capelli li hai presi da tuo padre”.
“Sì? Beh allora è meglio correggere la frase: è la famiglia Hevans ad avere il sangue dominante – sorrise lei con orgoglio – Hidden è il cognome di mia madre. Ti ho detto che non si erano sposati, no?”
“… merda…” sibilò Heymans, mentre il mondo gli crollava addosso e finalmente il velo che avvolgeva la figura di Erin veniva alzato. Perché sì, eccetto qualche ovvia variante lei era la copia di Laura da giovane, bastava pensare alle vecchie foto che aveva visto tante volte.
“Sai, mi chiamo Erin proprio perché fa assonanza col nome di mio padre – continuò la giovane – è quasi il suo anagramma. E – r – i – n… Henry. Henry Hevans. Sai lui era un sergente”.
“Era mio zio…” mormorò Heymans.
“Cosa?” lei lo guardò stordita.
“Credo… io credo – balbettò incredulo a quanto stava per dire – che noi siamo cugini”.

 




_______________________
nda.
eheheh, sorpresi? Molti di voi si stavano arrovellando la testa per capire chi fosse Erin, mentre io avevo paura che lo capiste subito grazie ai suoi capelli e ai suoi occhi. Meno male che ho tenuto la suspance per un paio di capitoli! E così la famiglia Hevans torna alla ribalta con i suoi segreti che paiono non finire mai!
Alla prossima :)

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Capitolo 17. Gli avvenimenti di East City. Quarta parte ***


 

Capitolo 17. Gli avvenimenti di East City. Quarta parte.

 


 
Era la prima volta che Laura prendeva il treno.
Da ragazza aveva sognato tante volte di poter salire su un vagone e scappare via da quella realtà troppo piccola che, giorno dopo giorno, sembrava soffocarla sempre di più. All’epoca aveva invidiato profondamente suo fratello e Andrew, liberi di andare lontano da quel posto, di crearsi un futuro nella città carica di promesse e di possibilità. Avrebbe dato di tutto pur di essere un maschio e potersi affrancare così dai suoi genitori, comprare un biglietto di sola andata e non tornare mai più. Si era immaginata decine di volte osservare il panorama dal finestrino, East City che si avvicinava, mentre la campagna cedeva il posto alla vitalità della realtà urbana: in quelle occasioni riusciva persino a sentire un brivido d’eccitazione lungo la spina dorsale, come se tutto fosse vero e non l’ennesimo sogno di una ragazza di campagna scontenta della propria vita.
Adesso, anni dopo, East City iniziava a vedersi oltre la curva del fiume, segno che il loro viaggio stava per terminare. Ma in quelle ore di treno non aveva provato niente della vecchia e sognata eccitazione: guardare i paesaggi familiari sparire dal finestrino non le aveva fatto nessun effetto, così come l’idea di vedere finalmente quel posto che tanto aveva idealizzato. E tutto questo le faceva rabbia perché sapeva che, in un’altra occasione, la ragazzina che era stata sarebbe in parte tornata per godersi quelle emozioni a lungo sognate.
“Signore, davvero ci sono edifici enormi?” chiese Henry con voce eccitata, distogliendo lo sguardo dal finestrino e volgendolo verso Andrew, seduto davanti a loro.
“Credo resterai sorpreso – annuì l’uomo con un sorriso – è l’effetto che fa la prima volta a chiunque venga da posti come il paese. Sono certo che ti piacerà”.
“Meraviglioso! – annuì estasiato il ragazzo, alzandosi in piedi: gli occhi grigi erano brillanti tanto era eccitato da tutta quella novità – Vado alla passerella del vagone. Torno tra poco!”
Senza aspettare risposta guadagnò il corridoio e iniziò a correre verso la fine del vagone, lasciando i due adulti soli a guardarsi negli occhi. Andrew non poté fare a meno di sorridere per l’esuberanza del secondogenito di Laura, almeno lui si stava godendo il viaggio. Con tutta probabilità era il membro della famiglia Breda a cui la notizia di Erin Hidden disturbava di meno: per lui lo zio Henry era una figura con la quale aveva ben pochi legami, viva solo grazie ai racconti della madre. Scoprire che aveva avuto una figlia non lo turbava più di tanto.
Oh, ma quanto ha turbato te, Lauretta.
Lo poteva leggere chiaramente nel viso e negli atteggiamenti della sua migliore amica: era in qualche modo chiusa in se stessa, come se non fosse sicura di quali sentimenti provare per quella destabilizzante novità che era stata loro comunicata due giorni prima. Era stato un puro caso che lui, Ellie e Riza fossero a casa della donna quando era arrivato il capitano Falman: li aveva avvisati di una telefonata ricevuta in ufficio da parte di Heymans che pregava di venir richiamato al più presto al numero che aveva dato.
Ricordava ancora di come l’espressione di Laura, mentre parlava al telefono, fosse passata dal preoccupato, all’incredulo, fino ad una strana sfumatura di… strana e profonda delusione.
“Ne vogliamo parlare?” chiese dolcemente, allungando la mano per prendere quella dell’amica.
“Di cosa?” chiese lei, cercando di apparire il più noncurante possibile.
“Di quello che ti frulla per la testa, follettino”.
“Non usare quel nomignolo per favore, ho appena scoperto che mi dà enorme fastidio”.
“Perché lo usava Henry? – Andrew si alzò e si sedette accanto a lei, nel posto precedentemente occupato dal ragazzo che ora si godeva il panorama fuori dal vagone – Sei per caso arrabbiata con tuo fratello?”
Lei rimase in profondo silenzio per qualche minuto, ma si intuiva dal suo sguardo che era in qualche modo così. Andrew in fondo poteva capire quello che provava: al contrario di lui, al quale il soldato aveva qualche volta confidato delle sue relazioni, Laura era sempre stata tenuta all’oscuro di tutto. Non per chissà quale discriminazione, ma perché Henry non ne vedeva il motivo per cui parlarne con la sua piccola sorellina.
Di conseguenza Laura aveva sempre circondato il fratello di un’aura da intoccabile, quasi fosse lei l’unica donna della sua vita, quasi fosse una sua unica esclusiva. Un ragionamento un po’ infantile ed egoista a pensarci in quel momento, ma era anche vero che, più di vent’anni prima, Laura Hevans era in una situazione tale per cui aveva bisogno di credere in un simile ideale.
“Potrebbe essere una bugiarda – considerò la donna – dopotutto non sappiamo niente di lei”.
“Mi pare strano che conosca così tanti particolari della vita di tuo fratello e soprattutto che ci sia una somiglianza così grande – scosse il capo Andrew – Heymans non mi pare il tipo da farsi ingannare in questo modo, non credi? E poi che motivo avrebbe?”
“Non lo so! Dannazione, ti detesto quando fai il razionale… lasciami in pace con le mie paturnie mentali, Andrew Fury, ti costa così tanto?” sbottò lei, dandogli un pugno sul braccio e tornando a fissare con aria imbronciata il paesaggio che scorreva dal finestrino.
“Mi costa tanto dato che tra nemmeno mezz’ora arriveremo e dovrai incontrare tua nipote – la riscosse con gentilezza lui – vorrei che fossi gentile e che non la guardassi con astio. Lei non…”
“Una figlia concepita fuori da matrimonio! Capisci? – lei si girò di nuovo a guardarlo con occhi furenti – Tutto sommato io e mio fratello non siamo così diversi come immaginavo… lui… lui è stato… un dannato ipocrita! Ha messo una ragazza in difficoltà senza nemmeno…”
Andrew la interruppe mettendole l’indice davanti alla bocca.
“Lo paragoni a Gregor? – le chiese seriamente – davvero arrivi a questo Laura Hevans? Mi dispiace contraddirti, follettino, ma non c’erano due persone più diverse di loro. Aspettiamo di conoscere bene i dettagli della storia prima di giudicare”.
“Tu lo stai… perdonando?”
“Di cosa? – sospirò Andrew – Laura, forse quello che sto per dirti ti sembrerà crudele… ma Henry non era una tua proprietà personale: aveva tutto il diritto di costruirsi una vita, una relazione. Sono sicuro che se fosse andata avanti ti avrebbe detto qualcosa. Ma tieni conto che era un momento difficile… tu appena sposata e con Heymans in arrivo, tutto quello che ne conseguiva… ti ricordi che mesi di fuoco sono stati? Che senso avrebbe avuto se Henry ti avesse detto di avere una relazione ad East City?”
“Avrebbe avuto il senso di non tenere nascoste le cose a sua sorella”.
“E farti sentire ancora più in colpa? – l’uomo sorrise dolcemente – Laura, lui è rimasto in paese per te, non dimenticarlo. In quei mesi si è dannato l’anima per aiutarti e lo sappiamo bene. Non ci vedo niente da rimproverargli”.
“Dannazione… che me ne faccio di una nipote? – sospirò lei – sul serio, Andy, ero sicura che ormai la mia vita fosse tranquilla e serena, con nulla che potesse turbarla. E adesso questa doccia gelata dal passato… mi pare quasi una maledizione”.
“La devi solo conoscere, tutto qui. E non vederla come una doccia gelata, vedila piuttosto come una parte di tuo fratello che ci è stata in qualche modo restituita”.
“Tu ne sei felice, vero? – lo squadrò lei con rassegnazione – Ti conosco bene…”
“Sono sempre stato del parere che la nascita di un bambino sia un evento felice e non triste. Credimi, Laura, mi è bastato vedere storpiato questo ideale per la nascita di Heymans. Non caricherò di un simile peso, sebbene a posteriori, una ragazza che non ha mai avuto la gioia di conoscere il proprio padre. Sono sicuro che non vuoi farlo nemmeno tu”.
“La punti sempre sul senso di colpa, eh?”
“Cerco solo di farti vedere le cose nel modo giusto”.
“Ehi! – chiamò Henry, arrivando di corsa – stiamo per entrare in città! Non vedo l’ora di rivedere Heymans!”
 
Mentre attendeva che il treno arrivasse, Heymans si sentiva particolarmente teso.
In cuor suo iniziava a pensare che forse aveva agito d’impulso e aveva fatto precipitare le cose, specie per sua madre. Eppure non aveva molti dubbi sul fatto che Erin fosse sua cugina, anzi ne era più che sicuro. E questo gli aveva infuso un senso d’urgenza che non era riuscito a spiegare: come se fosse importante cercare di colmare al più presto quella grossa lacuna all’interno della sua famiglia.
Tuttavia, man mano che passavano i minuti e l’arrivo si avvicinava, continuava a pensare alla voce di sua madre al telefono, di come avesse tremato, di come fosse quasi arrivato ad immaginarsi la mano che teneva la cornetta stringersi convulsamente attorno ad essa.
Forse dovevo parlarne prima col signor Fury – si disse, dandosi mentalmente dello sciocco e non riuscendo a riconoscersi in quell’atteggiamento impulsivo maggiormente tipico di suo fratello che di lui.
Tuttavia ormai era tardi per pensare a simili dettagli: il latte era stato versato e non restava che definire i confini di questa strana e complicata storia di famiglia.
E tu cosa ne pensi? – si chiese, mentre osservava l’orologio appeso alla parete.
Ripensò al sorriso di Erin, alla sua gioia ed incredulità nel fare quella scoperta: si vedeva che era entusiasta di aver ritrovato una parte di quella famiglia paterna che le era stata negata. Era una brava ragazza, un po’ nel suo entusiasmo ci rivedeva Henry e forse, chissà, una versione giovane di sua madre, quando ancora la vita non si era rivelata crudele con lei. In fondo non gli dispiaceva affatto aver scoperto di avere quella cugina.
Non ebbe tempo di pensare ad altro perché il fischio della locomotiva lo avvisò che il treno stava arrivando e si preparò per accogliere i suoi ospiti.
Ovviamente il primo a scendere dal vagone fu Henry. Con un abile balzo fu nella banchina, guardandosi attorno estasiato da quella stazione che gli sembrava infinita rispetto a quella piccola costruzione in mezzo alla campagna. Poi si girò verso di lui e gli corse incontro con un sorriso entusiasta.
“Cavolo, Heymans! È un posto enorme! E questa è solo la stazione… non ci posso credere!”
Ecco, c’era molto in comune tra il ragazzo ed Erin: stesso brio, stessa vitalità. Sembrava che il sangue della famiglia Hevans facesse di tutto per farsi notare.
“Vedrai il resto della città, allora – sogghignò, arruffandogli i capelli e voltandosi per accogliere sua madre ed Andrew Fury – ehi, mamma, benvenuta”.
“Ciao, caro – lo abbracciò lei con calore – tutto bene?”
“Splendidamente – sorrise, dando poi la mano all’ingegnere – allora, avete fatto buon viaggio? Vi accompagno subito in albergo, così potrete riposare”.
“Riposare? – Henry arricciò il naso – Ma io voglio vedere la città! Staremo qui solo un paio di giorni, non posso perdere quest’occasione! E non dobbiamo conoscere nostra cugina?”
“Più che giusto – convenne Heymans, dopo essersi scambiato un’occhiata con i due adulti – direi che noi due possiamo farci un giretto prima che faccia buio. Quanto a nostra cugina, abbiamo deciso di incontrarci domani a pranzo, che te ne sembra?”
“Splendida idea. Bene, possiamo andare”.
 
Dopo che Andrew e Laura si furono sistemati in albergo, i due fratelli Breda iniziarono la loro passeggiata nelle vicinanze. Le giornate erano ancora corte e il buio arrivava presto, il freddo li obbligava a stringersi bene nei loro cappotti e a proteggere il viso con le sciarpe.
“Cavolo! Che spettacolo!” mormorò estasiato Henry quando vide i lampioni della strada accendersi tutti contemporaneamente. Si fermò nel marciapiede, rischiando di intralciare il viavai di persone, tanto che il fratello lo dovette prendere per la spalla ed indurlo a camminare.
“Ti va una cioccolata calda?” gli chiese, indicando una pasticceria poco più avanti.
“Più che volentieri: ammetto che fa davvero freddo ora che sta calando il buio".
Come si sedettero e ordinarono, Henry parve ritrovare la calma, come se tutto l’entusiasmo avesse deciso di prendersi una pausa. Heymans lo osservò attentamente mentre sorseggiava la sua cioccolata, non mancando di guardare la gente che passava dalla vetrina del locale. Stava diventando sempre più alto, di certo l’avrebbe superato tra qualche anno. I folti capelli rossicci, spettinati anche dal berretto da poco levato, gli cadevano in ciocche pesanti sulla fronte. Somigliava molto alla madre, in maniera quasi imbarazzante, eppure c’era pure in lui qualcosa dello zio di cui portava il nome. L’unica sua peculiarità, rispetto al resto della famiglia, era la maggiore snellezza: sia la loro madre che lo zio erano abbastanza robusti, per non parlare di lui, mentre Henry aveva una corporatura più snella.
“Mamma non l’ha presa molto bene – confidò il sedicenne dopo qualche minuto di silenzio – ma penso che l’abbia notato pure tu”.
“Credi sia stato un errore dirglielo?”
“Non lo so – scrollò le spalle l’altro, tagliando con la forchettina un pezzo della sua fetta di torta – prima o poi sarebbe saltato fuori, non glielo potevi tenere nascosto. Credo che la reazione sarebbe stata la stessa, quindi forse è stato meglio cavare il dente subito”.
“Mi sento un po’ in colpa per tutto questo”.
Henry si mise a braccia conserte, come se stesse riflettendo profondamente sul problema.
“Non abbiamo conosciuto nostro zio, ma da come ne parla mamma sembra fosse una persona fantastica – commentò infine – credo che la cosa che le dia maggiormente fastidio sia scoprire che non era la persona che immaginava. Forse anche per quanto concerne la storia di lei e nostro padre e la tua nascita”.
“Uno strano ripetersi dei fatti?”
“Più o meno, però sono quello con meno indizi per poter giudicare la questione. L’unica cosa che mi viene da dire è che noi cerchiamo sempre di proteggerla, eppure ogni tanto si presenta sempre qualcosa che la sconvolge… come quelle storie su di lei che a intervalli irregolari ritornano”.
“Questa volta siamo noi a procurarle problemi”.
“Non è proprio… oh cavolo!
Heymans si girò verso la vetrina, vedendo lo sguardo sconvolto del fratello. Gli venne spontaneo sorridere come vide Erin che li guardava sorpresa e poi alzava la mano guantata per salutarlo.
“Ti presento nostra cugina – sogghignò, facendo un cenno alla ragazza di entrare e raggiungerli – adesso capisci perché non ho molti dubbi in merito alla parentela?”
“È mamma da giovane…” mormorò il più giovane, mentre la ragazza li raggiungeva e si allentava la sciarpa dal collo.
“Ciao! – salutò con occhi brillanti – che sorpresa vederti qui! Ci dovevamo incontrare domani, ma…”
“Immagino riconosci la parentela – fece Heymans, indicando con un cenno il fratello – lui è Henry”.
I due cugini appena presentati si guardarono con aria stranita per qualche secondo: sembravano fratelli da quanto si somigliavano. Di certo era una vera sorpresa trovarsi davanti ad una persona sconosciuta eppure talmente identica.
“Diamine – dichiarò Heymans, mentre i due si davano la mano – eccetto qualche dettaglio potreste esser presi per gemelli”.
“Henry… – Erin mormorò con dolcezza quel nome, quasi non le sembrasse vero – oh, sul serio! Tu non sai quanto sia felice di conoscerti! Heymans mi ha parlato tanto di te, ma ti giuro che conoscerti di persona è incredibile… santo cielo, abbiamo le stesse lentiggini! Insomma, uno non pensa mai troppo alle proprie lentiggini, ma vederle su un’altra persona… non prendermi per pazza, ma è davvero una cosa troppo strana e al tempo stesso fantastica!”
“Ciao…” si limitò a dire il giovane, arrossendo vistosamente.
“Siediti, Erin – le fece posto Heymans – così ne approfittiamo per farvi fare conoscenza”.
“Volentieri, tanto stavo tornando da lavoro e non ho impegni – annuì lei, levandosi il cappotto – avete mai preso la torta di noci? In questo posto la fanno davvero buona”.
Mentre la ragazza faceva un cenno alla cameriera, Heymans scambiò un’occhiata con Henry. Il sedicenne sembrava ancora stordito, eppure un’ombra di sorriso iniziava ad aleggiargli sulle labbra. Prometteva di essere un’interessante merenda tra cugini.
 
Con sommo sollievo di Heymans, quella merenda tra cugini era andata più che bene e anche Henry si era dimostrato entusiasta di Erin. Dopo qualche minuto di lieve imbarazzo si era fatto contagiare dalla parlantina della giovane ed era stato come se si conoscessero da sempre e quella fosse solo un’occasione per raccontarsi le ultime novità dopo un periodo d’assenza.
Per il giovane universitario era stata una vera sorpresa vedere Henry dare tanta confidenza ad una persona appena conosciuta: provenendo da una realtà chiusa come quella del paese c’era d’aspettarsi che, a primo impatto, stesse leggermente sulle sue. Ma sembrava che Erin avesse il potere di piacere immediatamente, forse per via del suo carattere espansivo del quale, a volte, sembrava vergognarsi.
A ben pensarci era una strana ragazza: alla sua età, che fossero di paese o di città, le femmine avevano ormai acquisito una forma di riservatezza o di eleganza che le distingueva rispetto alle adolescenti che ancora litigavano con la crescita. Non si trattava di mero cambiamento fisico, ma anche d’atteggiamento: bastava vedere Riza, ma anche Rebecca che, nonostante il suo carattere focoso, aveva in qualche modo abbandonato determinati modi di fare.
Erin invece sembrava aver mantenuto quella spensieratezza tipica dell’adolescenza, durante la quale ancora non si percepiscono del tutto le differenze tra maschi e femmine e non c’è ancora quella forma di maturità che indica l’avvenuta crescita. Sembrava di aver a che fare con una studentessa che non vede l’ora di condividere i suoi sogni e le sue idee con qualcuno degno di fiducia, lieta di poter coinvolgere i propri compagni nei suoi giochi di fantasia. Con tutta probabilità era per quello che ai bambini piaceva tanto.
Spero che faccia una bella impressione anche a te, mamma – pensò con ansia il rosso mentre, la mattina dopo, si recavano al luogo dell’appuntamento, nel parco dove la giovane era solita andare.
Laura camminava accanto ad Andrew, lo sguardo fisso davanti a sé. Sembrava che niente della grande città attraesse la sua attenzione, come se si trattasse di una normale passeggiata in paese. La sua espressione era indecifrabile, una cosa davvero strana per lei che aveva sempre mostrato in qualche modo i suoi stati d’animo.
Il signor Fury, al contrario, sembrava tranquillo, come se fosse sicuro dell’esito positivo di quell’incontro.
Teneva l’amica a braccetto, come se si trattasse solo di un piacevole giro.
“Credi che andrà tutto bene? – mormorò Henry che camminava accanto a lui – Mi dispiacerebbe che andasse tutto a rotoli: Erin ci resterebbe male e così la mamma, ne sono certo”.
“Allora cerchiamo di far andare tutto bene, intesi? – propose di rimando l’altro, mantenendo il medesimo tono di voce – Se la gestiamo nel modo giusto sono certo che si risolverà tutto nel modo migliore. Eccola, la vedo”.
La giovane era seduta sulla panchina dove era solita sistemarsi con i suoi piccoli protetti e nel vederla Heymans capì che aveva messo particolare cura per presentarsi al meglio. Indossava un cappotto blu scuro, di fattura migliore rispetto a quello verde che era solita mettere: sicuramente si trattava di quanto di meglio il suo guardaroba aveva da offrire. I capelli erano sciolti sulla schiena, un dettaglio che non faceva altro che accentuare la sua somiglianza con la zia.
A quel pensiero Heymans lanciò un’occhiata a Laura e notò come i suoi occhi si dilatassero leggermente per la sorpresa: sicuramente non si era aspettata una somiglianza simile. Ed erano ancora a diversi metri di distanza. Vide il braccio della donna stringersi maggiormente a quello dell’ingegnere, quasi a farsi forza.
Avrebbe voluto cogliere altri dettagli, ma ormai erano abbastanza vicini e la ragazza si era alzata in piedi.
“Buongiorno” salutò con voce emozionata, tormentando la piccola borsetta a sacchetto che teneva tra le mani. Il suo sguardo era chiaramente rivolto verso Laura, riconoscendone la somiglianza, consapevole che si trattava della sorella di suo padre.
“Ciao, Erin – salutò subito Heymans, per evitare silenzi imbarazzanti – scusa il piccolo ritardo”.
“Ciao, Erin” seguì immediatamente Henry.
“Oh, figuratevi, sono qui solo da pochi minuti” arrossì lei.
Con tutta probabilità stava mentendo e doveva essere in quella panchina da tempo, ma Heymans decise di non darvi peso. Aveva imparato abbastanza di sua cugina per capire che quel giorno doveva essere il più importante di tutta la sua giovane vita.
“Ti posso presentare mia madre? – disse, prendendola per il braccio e avvicinandola a Laura – mentre lui è l’ingegner Andrew Fury, un caro amico di famiglia”.
“Mol… molto felice, signora – mormorò Erin, indecisa o meno se tendere la mano – mi chiamo Erin Hidden”.
Laura non rispose subito a quel saluto: continuava a fissare la nipote con sguardo indecifrabile, la prima sensazione di sorpresa ormai sparita. Per fortuna, a compensare quel silenzio da parte della donna, ci pensò Andrew.
“È un vero piacere conoscerti, signorina – la salutò, tendendo la mano e stringendo con affetto quella di Erin – tuo padre è stato, anzi è ancora il mio miglior amico. Spero che non ti dispiaccia che mi sia unito pure io a questa piccola riunione di famiglia”.
“Il suo miglior amico? – gli occhi di Erin fissarono Andrew con ammirazione, mentre si rifiutava di lasciar andare quella mano – Oh, signore, è… è un vero onore conoscerla! Io… io… santo cielo, avrei milioni di cose da chiedere su mio padre”.
“Anche noi vorremmo sapere diverse cose – disse Laura con voce piatta, parlando per la prima volta – è stata una vera sorpresa scoprire della tua esistenza”.
Erin con tutta probabilità avvertì la diffidenza da parte della zia e questo smorzò in parte il suo entusiasmo. Lasciò la mano di Andrew e tornò a tormentare la sua borsetta di tela, abbassando lo sguardo mentre un forte rossore le colorava le guance.
Heymans stava per fissare con rimprovero la madre, ma poi si rese conto di quanto fosse incredibilmente in difficoltà davanti a quella copia di se stessa da giovane. Forse avrebbe voluto essere più cortese, ma chiaramente un dolore vecchio di oltre vent’anni era tornato a presentarsi con violenza.
“Immagino che un incontro simile susciti molte emozioni – commentò Andrew, prendendo in mano la situazione – specie perché riguarda una cara persona che purtroppo non c’è più. Ma si tratta solo di rompere il ghiaccio, no?”
“Dici?” commentò Laura, caustica.
“No, capisco – Erin bloccò la risposta di Andrew – ammetto che pure mia madre non è molto entusiasta di quanto sta accadendo. È stato come riaprire una vecchia ferita e mi sono sentita in colpa per questo. Quindi, zi… signora, posso comprendere che non sia impazzita di gioia nel scoprire della mia esistenza. Forse per me, Heymans ed Henry è stato più semplice”.
Faceva davvero pena in quel momento: non era molto dissimile da una bambina appena respinta. Tutto l’entusiasmo mostrato il giorno prima era bruscamente sparito davanti a quella fredda accoglienza che le era stata riservata.
Heymans scosse il capo sconsolato, non sapendo come comportarsi. Non voleva spingere sua madre ad iniziative poco gradite, ma allo stesso tempo gli dispiaceva enormemente per Erin. Sperò che Andrew Fury intervenisse di nuovo, ma l’uomo si limitava a fissare con gentilezza la sua amica, come a farle forza davanti a quella nuova prova.
Forse spinta da quello sguardo, o forse in colpa per le parole dure di poco prima, Laura parve recuperare un minimo del suo carattere e sospirò con rassegnazione. Non era da lei prendersela con una persona che non aveva nessuna colpa, specie se si trattava di una ragazza giovane come Erin.
“Scusami – mormorò in fine – è che ho sofferto davvero tanto per la morte di mio fratello”.
“Non deve, signora…” iniziò Erin.
“… e credimi – continuò Laura – è… sconcertante vederti perché mi assomigli davvero tanto. Mi pare di rivedermi giovane e tu non hai idea di quanto abbia passato alla tua età. In qualche modo fa doppiamente male. Però – si affrettò ad aggiungere – non hai colpa di niente: sono solo miei pensieri, tu non hai alcuna responsabilità”.
“Mi scusi, non avevo idea che il nostro incontro le avrebbe suscitato tante emozioni, signora. A ben pensarci io ed Heymans siamo stati troppo impulsivi nell’organizzare tutto”.
“Adesso o tra un mese non penso che avrebbe fatto differenza – obiettò Andrew con voce pacata – e sono certo che dopo questo primo impatto traumatizzante le cose miglioreranno. Insomma, sei la figlia di Henry: è un motivo di gioia averti trovata”.
“Povera me, quanto sei manipolatore – sospirò Laura facendo un primo sorriso – lo so… diamine, lo so bene che è la figlia di mio fratello. Non ci sono dubbi, basta guardarla. Anzi, pare più figlia mia che di Henry”.
“Il sangue Hevans non smetterà mai di sorprendermi – ridacchiò Andrew – avete persino le stesse lentiggini, è incredibile”.
“Efelidi – corresse Laura, tendendo la mano verso Erin – scusami se prima non mi sono fatta avanti. Possiamo stringerci la mano?”
“Ma certo – la voce di Erin era rotta per l’emozione – sono… sono felice, zia”.
“Zia – la donna scosse il capo con aria sorpresa – cielo, giuro che non avrei mai pensato di venir chiamata in un simile modo”.
“E che devo dire io che mi scopro non solo nipote ma anche cugina? – Erin parve recuperare di colpo il suo brio – Insomma, durante il capodanno ho chiesto che il nuovo anno mi regalasse delle belle sorprese, ma non pensavo di averci messo così tanto impegno nell’esprimere un simile desiderio”.
In fondo quel primo incontro non stava andando così male.






___________________
nda
In teoria pensavo già in questo capitolo di presentarvi la madre di Erin e di fare quelle famose rivelazioni sul passato di Henry, come avevo anticipato in alcune risposte alle mie recensioni. Tuttavia mentre scrivevo mi sono resa conto che era giusto dare spazio alle emozioni di Laura, piuttosto che mischiarle in un capitolo dove sarà il racconto su Henry a prevalere. 
Così, per evitare di fare un pasticcio, ho preferito creare due momenti differenti in modo da non comprimere troppo un momento così importante.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Capitolo 18. Gli avvenimenti di East City. Quinta parte ***


 

Capitolo 18. Gli avvenimenti di East City. Quinta parte.

 


 
Una volta rotto il ghiaccio non fu un problema prendere in simpatia Erin: perso il primo timido timore, la giovane aveva manifestato il suo carattere gioioso riuscendo a conquistare persino la titubante zia. Andrew si era immaginato un’evoluzione simile: conosceva abbastanza bene i sentimenti della sua miglior amica per sapere che non era la nipote il vero problema. Con tutta probabilità Laura si stava anche convincendo che era stata una vera benedizione che il fratello avesse lasciato una discendenza, in questo modo lo poteva considerare tornato da lei, seppur in una strana maniera. Erin, del resto, aveva praticamente tutto della famiglia Hevans: capelli, occhi, persino l’ovale del viso. Sembrava davvero di aver a che fare con una Laura uscita dal passato, una Laura che ancora non aveva conosciuto le difficoltà della vita e riteneva che il mondo fosse pieno di sorprese a portata di mano.
No, è questo secondo incontro la parte più difficile – pensò l’ingegnere, mentre con Laura ed i figli osservava la donna che si era alzata dal tavolo del ristorante e ora parlava sommessamente con Erin che li aveva preceduti nell’entrare.
A dire il vero si era chiesto più volte che tipologia di ragazza potesse piacere ad Henry, ma non era mai riuscito a trovare una risposta che lo convincesse del tutto: in paese non aveva mai avuto nessuna relazione sentimentale, sebbene più di una ragazza si sarebbe fatta volentieri avanti.
Più di una volta aveva pensato a come il suo amico vivesse in realtà una doppia vita: quella in paese e quella del soldato in città, quest’ultima quasi del tutto sconosciuta a lui e Laura. Aveva sempre parlato loro di come era grande e bella East City, degli scherzi tra commilitoni, di qualche evento speciale a cui aveva partecipato, ma mai e poi mai della sua vita privata. Solo qualche volta gli aveva detto che aveva avuto relazioni amorose e in quelle occasioni ne aveva sempre parlato con estrema praticità, come se fossero delle semplici esperienze di vita che andavano fatte.
“…uno come te a letto andrà solo con sua moglie, la prima notte di nozze. Ma non prenderlo come un insulto: ad essere soldati spesso si finisce per essere molto più pragmatici… sarà la consapevolezza che prima o poi la guerra ti può portare via”.
Ricordava bene quella frase detta mentre stavano sdraiati in un prato, quando ancora non avevano idea di quello che la vita avrebbe riservato loro tra qualche anno. All’epoca Ellie era ancora una ragazzina e Andrew non poteva immaginare che sarebbe diventata sua moglie.
Ed è lei la persona che sarebbe diventata la tua di moglie?
Era una donna incredibilmente comune, senza nessuna bellezza esagerata che, scioccamente, aveva attribuito alle relazioni del suo miglior amico. Abito scuro e modesto, sebbene elegante, corpo minuto leggermente appesantito dall’età, viso regolare con già qualche ruga attorno agli occhi. I capelli castani erano raccolti in una morbida crocchia e qualche forcina rendeva un poco più elegante quella pettinatura di tutti i giorni. A guardarla bene dava l’idea di una donna abituata a stare ogni giorno dietro il bancone del proprio negozio, senza concedersi un minimo di tregua. Effettivamente la parola sacrificio sembrava leggersi in quella figura che poco tendeva ad attirare l’attenzione, ed Andrew si trovò a chiedersi come poteva essere circa vent’anni prima.
Si arrischiò a dare un’occhiata a Laura e vide che gli occhi grigi erano profondamente perplessi da quanto stavano vedendo: sicuramente anche lei si era immaginata una persona completamente diversa. La madre di Erin non corrispondeva minimamente ai canoni di bellezza che avevano provato ad attribuire ad Henry.
“Non sembra nemmeno sua madre…” mormorò la rossa.
“Vero, ma il sangue della tua famiglia l’ha fatta da padrone – obiettò lui – forza e coraggio, Lauretta, andiamo a conoscerla”.
Si fecero avanti, con Henry ed Heymans che li seguivano qualche passo dietro.
La donna per qualche secondo tormentò un lembo della sua gonna scura, ma poi lanciò un’occhiata alla figlia e si avvicinò a sua volta.
“Mamma – presentò Erin – vorrei presentarti la signora Laura… la sorella di mio padre. Zia, questa è mia madre: Teresa Hidden. Questo signore invece è l’ingegner Andrew Fury, il miglior amico di papà, mentre loro sono i miei cugini, Heymans ed Henry”.
La donna strinse la mano di Laura con aria confusa, mormorando appena piacere: le sue guance arrossirono lievemente e per qualche istante sembrò vergognarsi profondamente nel notare la differenza tra il suo vestito modesto e quello più elegante che si intravedeva dal cappotto della rossa. Tuttavia dopo quest’iniziale esitazione alzò gli occhi castani con aria fiera e guardò in faccia quella che, in fondo, era la sua antagonista in tutta quella vicenda, se di antagonismo si poteva parlare.
“Ci conosciamo, finalmente – disse con voce calma – Henry parlava spesso della sua sorella minore”.
“Di lei invece non ha mai detto niente – ribatté col medesimo tono Laura, recuperando il parte la freddezza che aveva caratterizzato i primissimi momenti dell’incontro con Erin – nemmeno una volta”.
Ci fu quasi una scossa elettrica tra quelle strani rivali, come se ciascuna stesse cercando di ribadire il suo ruolo predominante nella vita di Henry: da una parte la sorella, dall’altra la madre di sua figlia.
Fu Erin a spezzare quella sfida, invitando tutti quanti a sedersi al tavolo e assicurando che in quel posto si mangiava davvero bene. Quasi fosse stato evocato, proprio in quel momento arrivò il proprietario del piccolo ristorante e con un sorriso invitò gli ospiti a sedersi in modo che potesse esporre il menù del giorno.
“Naturalmente siete ospiti miei e di Heymans – si affrettò a dire Erin, mentre si sedeva tra il cugino e la madre – l’idea di questo incontro è stata nostra”.
 
Tutto sommato fu un pranzo tranquillo, sebbene fosse chiaro un certo imbarazzo tra alcuni dei convitati.
A farla da padrone erano Erin ed Andrew: la prima non faceva altro che chiedere del proprio genitore ed il secondo era fin troppo contento di parlarle di lui. Heymans ed Henry ascoltavano con curiosità, intervenendo ogni tanto con qualche domanda, ma preferendo tenere una parte più discreta. Quanto a Laura e a Teresa, parlavano solo se strettamente necessario, specie se tirate in ballo da Andrew o da Erin: si costringevano a sorridere, ma era chiaro che nessuna era entusiasta di stare allo stesso tavolo dell’altra.
“Quando ho detto a mamma che avevo trovato un lavoro non ci voleva credere – stava dicendo Erin, rispondendo a una domanda di Andrew – pensava che avrei lavorato con lei alla merceria, come avevo fatto fino a quando andavo a scuola. Ma quel posto da governante sembrava fatto apposta per me e così mi sono presentata al colloquio e sono stata assunta: credo di essere riuscita subito simpatica alla signora”.
“Benedetta la tua faccia tosta, ragazza – commentò Teresa – andare a un colloquio con una famiglia così benestante appena finite le scuole, senza nemmeno un briciolo d’esperienza”.
“Non sono certo una che si pone molti problemi – ridacchiò lei – e i fatti mi hanno dato ragione”.
“E lei, signora? – intervenne Andrew – Ha sempre lavorato in merceria?”
“Quasi sempre – rispose lei laconica – era dei miei genitori e l’ho rilevata completamente dopo la loro morte. Non è una grande cosa, ma permette di vivere più che dignitosamente”.
“Oh, con il mio stipendio in aggiunta…”
“Quello lo devi tenere da parte, mia cara: non sai mai cosa ti riserva il futuro”.
Andrew riprese a discorrere con Erin che, cambiato di nuovo argomento, chiedeva di suo padre quando ancora andava a scuola. Tuttavia non mancò di riflettere sulle implicazioni delle ultime frasi sentite: era chiaro che Teresa Hidden aveva avuto varie difficoltà economiche dovendo allevare una figlia senza l’aiuto di un marito e questo non fece che aumentare la forma di rispetto che iniziava a nutrire per quella donna piccola ma stranamente forte.
Il pranzo terminò e sembrava che quell’incontro di famiglia fosse andato relativamente bene, nonostante la fredda cortesia di due delle componenti. I tre cugini promisero di rivedersi quello stesso pomeriggio, approfittando del giorno libero di Erin, mentre i tre adulti presero congedo.
Almeno era quello che pensava di fare Andrew, ma le sue gambe si mossero da sole verso la signora Hidden che aveva già fatto un pezzo di strada inversa alla loro.
“Signora…” la chiamò.
“Mi dica, ingegnere – disse lei, fermandosi e girandosi ad attenderlo. Adesso gli occhi castani erano stanchi, ma anche più gentili, come se fosse finalmente serena dopo aver terminato quella prova – posso esserle utile?”
“Mi chiedevo se – Andrew si sentì uno sciocco per quanto stava dicendo, ma qualcosa gli disse che doveva farlo, altrimenti non si sarebbe mai dato pace – ecco, le andrebbe di vederci questo pomeriggio?”
“Prego?” lo fissò lei con aria stranita.
“Mi rendo conto che questo pranzo è stato difficile per lei – continuò, sentendosi imbarazzato come non succedeva da anni – e sono sicuro che l’ha fatto soprattutto per amore di sua figlia. Però… ecco, Henry era il mio miglior amico e…”
“… e lei era il miglior amico che lui potesse desiderare, era solito dirlo – concluse la donna, parlando per la prima volta del soldato defunto – per quanto fosse legato ai suo commilitoni, Henry ha sempre attribuito un posto privilegiato a lei”.
Andrew si trovò ad arrossire a quelle parole, proprio come quando Henry gli faceva un complimento che non si aspettava.
“Sì, in fondo anche io vorrei parlare con lei – continuò Teresa sorridendo – credo che mi farebbe piacere. Con i ragazzi, durante il pranzo, sarebbe stato impossibile: ci sono cose che non voglio che Erin sappia, non ancora. Come per esempio le vicende di sua zia… oh, non faccia quell’espressione: Henry è stato poco esaustivo nelle sue lettere che giustificavano la sua permanenza in paese, ma non sono nata ieri, signore”.
“Quando le va di vederci?” si limitò a chiedere Andrew.
“Lavoro fino alle cinque, posso chiudere un po’ prima – rispose lei prendendo dalla borsa un bigliettino ed una penna – ecco, questo è l’indirizzo, non è molto lontano da qui. Crede… crede che vorrà venire anche lei?
“Solo se lo desidera, signora. In fondo è la sorella di Henry, forse merita pure lei di conoscere tutta la storia, non crede?”
“Ma sì, in fondo ha ragione. Allora vi aspetto per le cinque”.
 
La casa di Teresa e di Erin si trovava in un basso caseggiato che al piano di sotto vedeva l’unico grande ambiente della merceria e, a quello di sopra, l’abitazione delle due donne. A questa si accedeva tramite delle scale che si trovavano dietro il bancone, celate da una porta, e l’ospite veniva accolto da un piccolo ma accogliente salotto che, sicuramente, fungeva anche da sala da pranzo.
Il tavolo era solo per quattro persone e quando Andrew e Laura arrivarono, trovarono già disposto un servizio da the di semplice ma buona fattura. Anche il resto del mobilio denotava una certa dignità, come dimostrava la credenza di legno scuro dove si vedevano, dagli scomparti con ante di vetro, dei bei piatti da portata smaltati. Sopra la mensola del caminetto vi erano alcuni ninnoli di delicata fattura e una foto incorniciata di Erin che mostrava orgogliosa il suo diploma scolastico.
Teresa si era cambiata e ora indossava un vestito azzurro spento: sembrava molto più a suo agio ora che si trovava nella propria casa e sembrava anche più disposta nei confronti di Laura che, a sua volta, aveva concesso di dare una seconda possibilità a quella strana rivale, in nome dell’amore che nutriva per il fratello.
“Credo che la presenza dei ragazzi abbia impedito di dire molte cose – iniziò la padrona di casa, dopo che ebbe terminato di servire il the assieme a dei pasticcini fatti in casa – anzi, praticamente di dire tutto”.
Lanciò un’occhiata stranita a Laura che, inaspettatamente stava sorridendo.
“La prego di scusarmi – si affrettò a dire la rossa – è che tutto questo mi ricorda una situazione difficile che ho vissuto con Heymans diversi anni fa. So cosa vuol dire rivelare un passato difficile da ricordare, specie se lo si è tenuto gelosamente nascosto per anni per proteggere i propri figli”.
“Immagino la sua storia, signora – annuì l’altra – come ho già detto all’ingegnere, per quanto Henry non abbia mai spiegato nei dettagli il motivo della sua permanenza in paese, avevo tutti gli elementi per capire quanto era successo. Sapevo bene di che pasta erano fatti i suoi genitori: Henry mi aveva raccontato più volte di quanto fossero all’antica e di difficile gestione. Non credo che mi avrebbero accolto bene a casa vostra se mai la nostra relazione fosse andata avanti”.
“Parlavate già di sposarvi?” gli occhi grigi di Laura si puntarono su di lei, mentre la mano che reggeva la tazza si irrigidiva leggermente.
“Sposarci, no – corresse lei – ma sono stata la relazione più seria che Henry Hevans abbia mai avuto nella sua vita. E credo che se il destino avesse deciso diversamente in quelle trincee, presto o tardi si sarebbe arrivati a quel momento”.
“Perché dice che i genitori di Henry non l’avrebbero accolta molto bene? – chiese Andrew incuriosito – in fondo, a parte la nascita di Erin, non mi sembra che…”
“Già, non sembra adesso – annuì lei, alzandosi e andando alla credenza dove era posata una scatola di cartone. La portò al tavolo e la aprì, tirando fuori delle lettere e diverse foto – vorrei che questo restasse tra di noi: Erin non sa molti dettagli sul mio passato e vorrei restasse così”.
Andrew e Laura si guardarono perplessi, non riuscendo a credere che quella signora potesse avere un passato in qualche bordello. E anche l’idea di Henry in un simile posto era inverosimile.
“Mi dica, signora – sorrise Teresa, allungando una foto – crede che i suoi retrogradi genitori, quelli che le impedivano persino di diventare una sarta, avrebbero accettato l’idea che io lavorassi nell’esercito?”
 
Laura prese con incredulità quella vecchia foto dai bordi un po’ rovinati.
Doveva esser stata scattata in qualche ufficio militare, come denotavano la scrivania piena di documenti, lo stemma dell’esercito alla parete e gli archivi alle pareti. Nonostante l’ambiente di lavoro l’atteggiamento dei due soggetti fotografati non era formale, come se fossero stati colti di sorpresa in un momento di svago. Un giovane sergente Henry Hevans, seduto in una delle sedie davanti alla scrivania, sorrideva sfacciatamente all’obbiettivo mentre una giovane soldatessa dai corti capelli castani, in piedi accanto a lui, aveva l’aria più imbarazzata, eppure indiscutibilmente felice per il momento che stava vivendo. Sull’angolo destro della foto c’era a penna una data: settembre 1881. Un anno dopo quel sergente sarebbe morto al fronte.
La rossa alzò lo sguardo su Teresa, cercando la somiglianza tra quella donna e la giovane soldatessa dall’aria sbarazzina della foto. A guardarla bene, scavando dietro gli anni, il lavoro, la fatica di crescere una figlia da sola… tagliando quei capelli castani e rendendoli più lucenti.
“Nel 1881 avevo ventuno anni ed ero appuntato dell’esercito – spiegò Teresa con un sorriso – non ero un vero e proprio soldato, facevo piuttosto parte del reparto amministrativo. Come potete vedere la  mia divisa prevedeva la gonna al ginocchio piuttosto che i pantaloni, come invece succede per le soldatesse vere e proprie. Anche il nostro corso in Accademia era molto più breve: durava solo un anno invece che due e l’insegnamento dell’uso delle armi era ridotto al minimo”.
“Credo che Erin sarebbe molto fiera di sapere che sua madre è stata una soldatessa – constatò Andrew, prendendo in mano la foto e guardandola con attenzione – perché non dirglielo?”
“Per via di quello che la divisa ha comportato – rispose la donna, posandosi allo schienale – dovete sapere che nell’esercito esistono le regole anti fraternizzazione. Le relazioni tra soldati sono proibite, specie per evitare favoritismi tra i differenti gradi. Certo, è una regola che spesso viene aggirata, specie tra i ranghi più bassi, ma è comunque un rischio e la relazione dev’essere sempre tenuta nascosta e di certo non può diventare ufficiale”.
“A meno di non lasciare l’esercito” capì Andrew.
“Alcune soldatesse fanno questa scelta – scrollò le spalle l’altra – e probabilmente anche io avrei seguito il loro esempio se le cose con Henry fossero andate avanti”.
“Come vi siete conosciuti?” chiese Laura.
“Era marzo dell’anno della foto… mi sembra passata una vita intera. Dovete sapere che Henry era abbastanza famoso tra le ragazze e non disdegnava di fare lo splendido con loro. Piaceva un sacco, aveva quel non so che di diverso rispetto ai ragazzi di città ed era facile volergli bene. Ci conoscevamo di vista e avevamo scambiato qualche parola quando lui passava in amministrazione per lavoro, ma niente di più. Per quanto lo trovassi bello e simpatico non mi passava nemmeno per la testa l’idea di una relazione con lui. Poi un giorno… così per caso, non mi ricordo nemmeno il motivo, ci trovammo a fare una pausa caffè assieme: una chiacchierata come tante, eppure è nato qualcosa… sembra strano a dirlo. Non dico fosse colpo di fulmine, ma prendemmo a parlare più spesso e da lì ad uscire assieme il passo fu breve”.
“Quindi iniziaste una relazione clandestina…”
“Oh, i nostri colleghi lo sapevano – ridacchiò lei – come vi ho detto tra i ranghi più bassi il controllo non era così alto. E poi noi del reparto amministrativo non eravamo dei veri e propri soldati, almeno non secondo i canoni classici. Era un qualcosa di più lecito, se proprio vogliamo usare il termine. La sorprende questa storia, signora?”
Laura scosse il capo con espressione di disappunto.
“È solo che… non mi aspettavo minimamente che mio fratello fosse così donnaiolo”.
“Prima di me le sue erano relazioni all’acqua di rose – scosse il capo Teresa – aveva fama di ottimo baciatore, ma tutto si concludeva sempre con qualche uscita. Non credo si fosse mai innamorato davvero: semplicemente gli piaceva divertirsi, ma da quanto so ha sempre mantenuto un atteggiamento più che corretto con tutte quante. Del resto noi dell’esercito a volte siamo strani: credo che fossimo più propensi ad accettare questa tipologia di relazioni piuttosto che quelle stabili. Henry, come altri, sosteneva che fosse per via della consapevolezza di poter morire da un momento all’altro”.
“Quasi se avesse avuto sentore di quello che gli sarebbe successo…” Laura serrò gli occhi con tristezza.
“Erano anni difficili, la guerra era sempre dietro l’angolo – inaspettatamente Teresa allungò una mano e strinse quella della rossa, quasi a consolarla – i fronti non si chiudevano mai e le tregue erano di pochi mesi. Era da sciocchi non pensarci… la gente comune magari non ci faceva caso, la guerra tanto era al fronte e non in città e non era così tremenda da provocare razionamenti. Le notizie si leggevano nei giornali, alla radio, ma a volte erano relegate come notizie secondarie tanto era scontata come cosa. Ma per un soldato è ben diverso, credimi: sai bene che prima o poi potrà essere richiamato il tuo plotone”.
“E poi che successe?” chiese Andrew.
“La nostra relazione proseguì serenamente fino all’inizio del 1882. Ogni tanto Henry tornava in paese per licenza e allora ci tenevamo in contatto tramite lettera. Mi parlava spesso di sua sorella e del suo miglior amico: per quanto capissi che la realtà placida della campagna non faceva per lui, era chiaro che era molto legato a quel posto e a voi due… ammetto che all’epoca avrei voluto davvero conoscervi. Ripensando a quel periodo mi sembra davvero assurdo l’atteggiamento che ho mantenuto durante il pranzo”.
“Poteva comunque trovarci dopo la morte di Henry – obiettò l’ingegnere – anche perché, con una bambina in arrivo…”
“No, non l’avrei mai fatto – scosse il capo Teresa – ammetto che dopo la morte di Henry l’ho odiata tantissimo, signora: le ho dato la colpa di avermi portato via il mio compagno per gli ultimi mesi che avremmo potuto trascorrere assieme. Se penso… se penso che ci siamo visti appena due giorni prima che lui partisse per il fronte…” la frase si interruppe con voce spezzata, mentre un dolore vecchio di anni tornava a farla da padrone.
Andrew guardò Laura e la vide arrossire quasi colpevolmente.
Certo, quelle parole non erano del tutto prive di un fondamento, anche se la responsabilità non era veramente di nessuno. Ma era ovvio che Teresa si fosse sentita derubata di quegli ultimi preziosi mesi che avrebbe voluto passare assieme ad Henry.
“Se pensa che io mi sia divertita a restare incinta e ad essere praticamente ripudiata dai miei genitori… e poi sposare un uomo che mi ha fatto passare quindici anni d’inferno!” disse Laura dopo qualche secondo di silenzio imbarazzante. Adesso il rossore sulle sue guance era dovuto anche alla rabbia.
“Suvvia – intervenne Andrew – sono sicuro che Henry non vi vorrebbe vedere litigare in questo modo”.
“Facile fare leva su di lui, Andy – lo rimproverò Laura – non voglio aggiungere un nuovo senso di colpa a quanto ho già subito in passato”.
“Nessuno ti sta dicendo di farlo”.
“A me pare invece che sia appena successo? Lo neghi?” si rivolse direttamente a Teresa, tralasciando la forma di cortesia in quel momento di astio.
“Che ti accuso di esser stata una sconsiderata? E che per colpa tua abbiano pagato le conseguenze anche altri? Non lo nego proprio!” ribatté lei a tono.
“Beh, nemmeno tu sei stata brava a tenere le gambe chiuse, Teresa Hidden!”
“Buone…” mormorò Andrew, non sapendo come gestirle.
“Osi paragonare tuo fratello con un uomo che ti ha fatto passare quindici anni d’inferno? Io con Henry avevo una relazione seria! Se ci siamo lasciati andare era perché lui era disperato… e anche io! Tu… tu non hai idea di… di cosa voglia dire passare la notte con la persona che ami… e poi piangere disperatamente per la paura di non vederlo mai più. Non è così… non è così che dovrebbe andare la prima volta!” adesso calde lacrime colavano sul viso pallido di Teresa, mentre le sue mani si stringevano convulsamente al bordo della scatola di cartone.
Laura rimase in silenzio davanti a quella sfuriata, ma anche sul suo viso colava qualche lacrima di rabbia
Andrew da parte sua non sapeva cosa dire: trovarsi davanti a due forme di dolore così diverso lo destabilizzava. Ciascuna di loro aveva le sue ragioni e se il suo cuore lo portava ad empatizzare maggiormente con Laura, dall’altra non poteva fare a meno di solidarizzare anche con Teresa.
Forse da un certo punto di vista capiva maggiormente cosa aveva passato quest’ultima la tremenda notte in cui si era concessa ad Henry. Perché anche lui aveva provato cosa voleva dire abbracciare la propria compagna senza sapere se sarebbe stata l’ultima volta o meno. Le immagini della gravidanza e del parto di Kain tornarono come fulmini a ciel sereno nella sua mente, così come il ricordo della paura attanagliante che aveva provato quando sembrava che Ellie dovesse morire assieme al bambino.
“Se volete – mormorò dopo qualche minuto – terminiamo qui questo incontro…”
Laura si girò verso di lui, come se si rendesse conto della sua presenza solo in quel momento. I suoi occhi grigi tradivano l’esigenza di andare via da quel posto, ma poi tornarono a fissare la foto che mostrava quei due soldati sorridenti.
“Ecco – mormorò con difficoltà dopo qualche secondo – anche se è difficile… forse è giusto andare sino alla fine di questa storia”.
“Sì, lo credo anche io…” annuì Teresa, asciugandosi le lacrime con la manica del vestito.

 




_______________________
Eccomi, 
scusate il ritardo, ma sono stata parecchio impegnata in questi giorni.
Allora, finalmente conosciamo la famosa compagna di Henry, Teresa. Com'era da prevedere non è un incontro rose e fiori, tant'è vero che ho preferito "allontanare" i ragazzi per permettere un chiarimento più profondo di quello che si sarebbe fatto con la loro presenza.
Non sono situazioni facili come potete immaginare e di certo il dolore per la morte di Henry torna ad essere più vivo che mai. 
Ho preferito dividere il capitolo in due parti, altrimenti veniva troppo lungo.
A presto :)

 

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Capitolo 19. Gli avvenimenti di East City. Sesta parte ***


 

Capitolo 19. Gli avvenimenti di East City. Sesta parte.

 


 
Teresa rimase in silenzio per qualche minuto, come se stesse riordinando le idee per continuare il suo racconto. Anche Laura sembrava approfittare di quella pausa per recuperare un minimo di compostezza: aveva preso un fazzoletto e si era asciugata le lacrime e ora attendeva, guardando quietamente la sua tazza di the ormai vuota e cercando di far tornare il suo respiro normale.
Andrew sulle prime si limitò ad attendere, ma trovando irritante stare su quella sedia in un momento di simile tensione, si alzò in piedi e andò verso il caminetto, prendendo in mano la foto di Erin. Studiò con attenzione il viso della fanciulla, cercando i punti in comune con il suo amico: forse c’era qualcosa nel sorriso e nella linea del naso, ma per il resto la somiglianza era tutta con Laura. Provò a cercare anche qualcosa di Teresa, ora che aveva una minima idea di come fosse vent’anni prima, e tutto sommato vide che l’espressione sbarazzina aveva un non so che della soldatessa di quella vecchia foto.
“Henry avrebbe adorato Erin – si trovò a dire con un lieve sorriso – ne avrebbe apprezzato tantissimo la gioia di vivere e lo spirito d’iniziativa. Non ho mai avuto occasione di immaginarlo nelle vesti di padre, ma non ho dubbi che si sarebbe rivelato fantastico”.
Si girò verso il tavolo e vide che Teresa lo stava guardando, come se si chiedesse il motivo di una simile affermazione. Ma poi, probabilmente spinta da quei complimenti nei confronti della figlia, sorrise e decise di continuare il suo racconto.
“Questa è la lettera che gli avevo spedito per dirgli del mio stato di gravidanza – disse con voce sommessa, tirando fuori una busta ancora sigillata dove, accanto al nero sbiadito dell’inchiostro, risaltava il rosso di un timbro quadrato dell’esercito: riconsegnare al mittente. Destinatario deceduto – Come si è ben capito, non avevamo preso nessuna precauzione e l’idea di restare incinta nemmeno mi era passata per la testa in un simile frangente. Quando lo venni a scoprire, ad inizio settembre, se da una parte mi crollò il mondo addosso, dall’altra mi sentii… stupidamente felice. Mi dicevo che, con un bambino in arrivo, Henry sarebbe dovuto tornare per forza vivo. Come se in quelle trincee si potesse trovare una spiegazione logica per chi vive e chi muore… come se ci fosse una giustizia che l’avrebbe risparmiato. Un ragionamento davvero poco militare”.
“Ma dettato dall’amore – corresse Andrew, tornando a sedersi – del resto tutti noi abbiamo chiuso gli occhi davanti all’eventualità della sua morte. Abbiamo continuato a dirci che non sarebbe capitato proprio a lui, che sarebbe tornato… c’è voluta una lettera di condoglianze dell’esercito per farci capire quanto fosse orribile la realtà della guerra”.
“Lui aveva paura – disse inaspettatamente Laura, attirando su di sé gli sguardi degli altri – nelle sue lettere… ogni volta si sentiva la paura sempre più forte che provava. Per quanto non scrivesse mai apertamente di tutto questo, era come se potessi leggere tra le righe. Erano lettere così diverse da quelle che mi mandava quando era in città: quella carta giallastra e sporca, quell’inchiostro che faceva sempre più difficoltà – si guardò le mani, come se si stesse ricordando la sensazione che aveva provato ogni volta che aveva toccato quella carta – ogni volta mi veniva un brivido, era come se un briciolo di incubo fosse racchiuso in quella corrispondenza. Non era quello l’Henry che conoscevo, non era il mio fratellone che non aveva mai paura di niente e che mi proteggeva contro il resto del mondo. Non… per la prima volta mi sono resa conto di quanto in realtà potesse essere vulnerabile”.
“Ci sono determinate situazioni in cui è impossibile nascondere la propria paura – sospirò Teresa, passando una mano sulla busta davanti a lei – Henry era giovane, non aveva mai visto un campo di battaglia, così come la maggior parte dei suoi compagni. Andare in guerra è un’esperienza che sconvolge anche quelli meglio preparati, specie se si tratta delle trincee. Purtroppo il destino ha voluto che lui non ritornasse… spero solo che sia stato fortunato e sia morto subito, senza soffrire”.
“Non hanno mai restituito il corpo – disse Laura – scrissero che era impossibile date le condizioni”.
“Sono le pratiche formali dell’esercito – spiegò l’ex soldatessa – sarebbe impossibile riportare i corpi nei propri luoghi d’origine, specie quando ci sono tante perdite e la guerra è continua”.
“Credevo che il suo corpo fosse stato fatto a pezzi dalle granate…” Andrew la guardò incredulo.
“Non è detto. Le granate sono tra le armi più bastarde che esistano… scusate il termine, ma è così che le definiamo nell’esercito. Possono distruggere il corpo di una persona, ma a volte le schegge colpiscono arti, o altre parti del corpo, senza però togliere la vita immediatamente. Qualcuno sopravvive se si interviene in tempo e si estraggono i materiali nocivi, ma altre volte l’infezione è troppo forte e nemmeno l’amputazione può… scusate, non è un discorso felice…”
“E… e cosa sarebbe successo al corpo di mio fratello se… se non è stato distrutto?” chiese Laura, visibilmente impallidita davanti a quella descrizione.
“Fosse comuni – sospirò Teresa – il fronte contro Aerugo ne è pieno”.
“Merda… merda! – sibilò Andrew, alzandosi in piedi e sentendo una nausea vecchia di anni tornare con prepotenza – Ad averlo saputo…”
“E cosa avreste fatto? – gli chiese Teresa con comprensione – Non penserà che avrebbero riaperto una fossa comune per farle cercare quel che restava di Henry. So che sembro spietata, ma è semplice procedura dell’esercito. Anche a me dispiace di non avere una tomba qui dove poter portare dei fiori… dove poter dire a mia figlia, ecco, qui è sepolto tuo padre”.
“Non sarebbe possibile andarci?” chiese Laura con voce tremante.
“A quelle fosse? No… sono in zone ancora sensibili, non sarebbe possibile. Senza contare che bisognerebbe chiedere all’esercito e non sono informazioni che vengono date quando quei fronti sono ancora caldi”.
“Però tu lo sai dove si trova, vero? – continuò la rossa – Insomma, eri nell’esercito: una simile informazione non te la puoi esser lasciata sfuggire, non se riguardava Henry”.
“Ho le indicazioni esatte – annuì l’altra con tranquillità – e se mai sarà possibile ci andrò e porterò anche Erin con me. Se volete ve le posso dare, ma per come stanno le cose passeranno ancora degli anni, come se venti non fossero fin troppi”.
“Sarà una cosa da fare a tempo debito – annuì Andrew – adesso l’unica cosa che possiamo fare è continuare a mettere insieme le nostre storie”.
“A luglio di quell’anno avevo partorito Heymans – disse Laura, quasi a voler incoraggiare Teresa – nemmeno un mese e mezza dopo arrivò la lettera che annunciava la morte di Henry. Da quanto seppi, dato che avevo troncato i rapporti con loro, i miei genitori quasi impazzirono di dolore e nell’arco di due settimane si trasferirono a New Optain. Sono entrambi morti circa cinque anni fa, ma io non li ho rivisti dalla nascita di mio figlio. Quando avevano scoperto che ero rimasta incinta e di chi, praticamente mi ripudiarono e fu solo l’intervento di Henry che impedì loro di spedirmi in un bordello”.
“In questo sono stata più fortunata di te, lo ammetto – commentò Teresa – Quando mi arrivò la notizia della morte di Henry caddi nella disperazione più totale. Oltre al dolore c’era la preoccupazione per il bambino in arrivo: sapevo bene che, appena la gravidanza sarebbe diventata visibile, sarei stata costretta a lasciare l’esercito. Alcune mie colleghe, intuendo quanto fosse successo, mi suggerirono di abortire… tra soldatesse si ha sempre il contatto con qualche signora che aiuta in simili situazioni con la dovuta discrezione. Sembrava la cosa più ovvia da fare: il padre del bambino era morto e perdere il posto nell’esercito mi avrebbe messo in netta difficoltà economica. Ammetto che rimasi diverse notti a guardare e riguardare il bigliettino con l’indirizzo che mi avevano dato… ma alla fine non ce la feci. In fondo quel figlio era tutto quello che mi restava di Henry”.
“Aborto – Laura scosse il capo con aria cupa – quando i miei genitori proposero una simile soluzione, Henry andò su tutte le furie: disse che si potevano dimenticare di avere un figlio se mi imponevano una soluzione così orrenda”.
“Uno dei motivi per cui tenni il bambino fu proprio perché immaginai che Henry avesse voluto così. Ma era chiaro che, con una simile decisione, la mia carriera nell’esercito era finita”.
“E non essendo sposata non c’era nemmeno un sussidio economico in quanto vedova”.
“No – ammise con tristezza Teresa – non mi restava molta scelta: era inizio ottobre e io stavo entrando nel terzo mese di gravidanza: essendo di costituzione minuta non sarebbe passato molto tempo prima che diventasse chiaro che ero incinta. Così mi armai di coraggio e presi congedo dall’esercito… l’unica fortuna fu che per noi del reparto amministrativo simili procedure erano relativamente semplici. E feci l’unica cosa possibile: chiesi aiuto ai miei genitori”.
“Come presero la notizia?” chiese Andrew.
“Ne rimasero sorpresi, ovviamente. Insomma, sapevano che stavo frequentando un ragazzo ed avevo promesso loro che l’avrei portato a casa appena possibile. Ovviamente Henry era d’accordo, ma poi gli eventi avevano gettato all’aria questo progetto. Però sapevano che era un soldato e credo che fossero felici dell’idea che un giorno avrei lasciato l’esercito per mettere su famiglia con lui… tipico dei genitori. Anche se devo ammettere che non hanno mai fatto obiezioni alle mie scelte di lavorare”.
“Donna fortunata” commentò secca Laura.
“Quando spiegai loro la situazione ero così distrutta che non ebbero nemmeno la forza di rimproverarmi, di dire che ero stato una sconsiderata. In fondo non era proprio la classica storia del sedotta e abbandonata: anche se non conoscevano di persona Henry, sapevano che era un ragazzo serio e che era stata solo una disgrazia a creare quella situazione. Mio padre mi garantì che il bambino che portavo in grembo avrebbe preso il nostro cognome e che dunque non ci sarebbero stati problemi in merito… furono davvero gentili e premurosi in quei primi tempi: provvidero a chiamare una nostra vicina levatrice e a farmi visitare. Erano preoccupati che data la situazione stressante che avevo vissuto ne potessi risentire”.
“Sono stati degni d’ammirazione – annuì Andrew, ricordando invece il comportamento pessimo dei genitori di Laura – sei stata davvero fortunata ad averli accanto”.
“Sì, lo fui davvero – sorrise Teresa – non smetterò mai di ringraziarli per quel sostegno fondamentale. Dopo circa una decina di giorni che tornai a casa, presi ad aiutare nella merceria. A quelli che ci conoscevano, che restavano sorpresi della mia gravidanza, mio padre rispondeva sempre che Henry era morto in guerra e che dunque non c’era stata occasione di sposarci. Credo di aver ricevuto parecchia solidarietà dal quartiere in quel periodo: la gente simpatizza molto con chi perde qualcuno di amato in guerra… alla fine mi vedevano come una giovane vedova, anche se non ero sposata. Ad aprile dell’anno successivo, il tredici, misi al mondo Erin alle tre del pomeriggio… ricordo che scoppiai a piangere quando vidi i ciuffetti rossi sulla testa: avevo pregato tanto che prendesse qualcosa dal padre”.
“Insomma tutto procedeva per il meglio…”
“Sì, tutto procedeva per il meglio. La nascita della bambina aveva dato un nuovo senso alla mia vita e anche i miei genitori erano molto felici di essere diventati nonni. Mi convinsi che ormai la situazione si fosse rimessa nella giusta via, ma purtroppo le cose non andarono come sperato”.
“Che cosa è successo?” chiese Laura.
“Un anno dopo la nascita di Erin ci fu un inverno particolarmente rigido e diversi raccolti andarono perduti, rendendo problematico l’approvvigionamento in città. Come se non bastasse anche la guerra era in una fase particolarmente dura e così ci furono dei razionamenti… era un momento difficile e date le condizioni precarie basto un niente per scatenare un’epidemia. Iniziò come influenza, ma poi i sintomi peggiorarono e si spargeva a macchia d’olio per la città… data la malnutrizione le classi più deboli furono quelle con il maggior numero di perdite, specie tra i bambini. Ma tutti si ammalavano… compresi Erin ed i miei genitori. La bambina la prese in forma lieve e questo la salvò, ma mio padre e mia madre spirarono a pochi giorni di distanza l’uno dall’altra”.
Fece un sospiro tremante a quel ricordo e, istintivamente, Laura allungò una mano per stringere la sua. Questa volta il gesto fu contraccambiato e le due donne rimasero in quella posizione per qualche secondo prima che Teresa continuasse.
“D’improvviso mi ritrovai completamente sola, con una bambina di poco più di un anno da crescere. Avevo la merceria, ma per quanto avessi sempre aiutato non avevo la minima idea di come gestirla… e la crisi di quel periodo non era per niente d’aiuto: fui costretta a chiuderla. Non nego che per diverso tempo io e la bambina patimmo la fame e spesso era qualche vicino di buon cuore a darci qualcosa per il pranzo o per la cena. Ma era tremendo ed umiliante… e non c’era niente di peggio di sentire i crampi della fame, la debolezza. Soprattutto vedere tua figlia che alza gli occhi su di te sperando che ci sia qualcosa da mangiare. Non poter provvedere alla tua creatura è la cosa peggiore del mondo”.
A quelle parole Andrew si sentì desolato. Henry aveva dato disposizioni perché il sussidio in caso di morte andasse a Laura. Se solo avesse saputo della gravidanza di Teresa avrebbe potuto sistemare le cose diversamente e si sarebbero evitati un sacco di problemi. E si sentiva anche in colpa perché loro, nella realtà protetta e autosufficiente del paese, non avevano patito una simile disgrazia, anzi non ne avevano avuto quasi notizia.
“Erin fortunatamente non si ricorda di quel periodo tremendo – sospirò Teresa con rassegnazione – ma io ho ben presente di quanto fosse magra e di come i vestitini le cadessero addosso. Era debole, apatica, restava nel suo lettino tutto il giorno senza aver la forza di muoversi. Per via della malnutrizione era anche soggetta a sfoghi nella pelle che la tormentavano giorno e notte, ma non ci si poteva fare nulla”.
Andrew e Laura si scambiarono un’occhiata triste: da genitori non potevano immaginare dolore più grosso di vedere il proprio figlio soffrire senza poter intervenire. Ancora una volta Andrew si trovava ad empatizzare maggiormente con quella tragedia: anche lui aveva visto Kain soffrire, sebbene per motivi diversi, e conosceva bene che tipo d’impotenza avesse vissuto Teresa.
“Sul serio, signora – mormorò – si sarebbe dovuta mettere in contatto con noi: l’avremmo aiutata in tutti i modi possibili”.
“Come potevo pensarci allora? – si chiese Teresa – Ormai, di fronte a quelle emergenze, mi ero dimenticata persino della vostra esistenza. La mia vita si riduceva a campare giorno per giorno. Anche se la merceria era chiusa e c’erano da pagare i debiti con alcuni fornitori: ero sull’orlo della disperazione. Vendetti i preziosi di mia madre e impegnai altri oggetti della casa… dopo qualche settimana, grazie al cielo, trovai un impiego come dattilografa in un piccolo ufficio: si trattava solo di qualche ora, per sostituire un impiegato che era malato. Data la situazione la paga era misera, ma era giornaliera e almeno potevo portare il pane a casa quotidianamente”.
Il suo respiro si fece più facile, come se finire quella parte della storia le provocasse un sollievo non indifferente, quasi la stesse rivivendo di nuovo.
“L’epidemia finalmente mollò la presa sulla città e anche i razionamenti finirono, riportando i prezzi dei beni alla normalità. A questo punto il salario mi consentiva di mettere anche qualcosa da parte e così, quando l’impiegato che sostituivo tornò a lavoro, avevo comunque qualche risparmio su cui poter far affidamento. Mi feci forza e decisi di riaprire la merceria, imparando a gestirla da sola… non fu semplice, ma dopo qualche mese andò relativamente meglio e più o meno mi potevo dire sistemata. Erin, nel frattempo, si era completamente ristabilita: la portavo giù a lavoro con me, era una specie d’attrazione per i clienti – adesso sorrideva – era curiosa e spigliata, si dava arie da padrona di casa ogni volta che entrava qualcuno. Si arrampicava nel bancone e voleva servire lei tutte le persone che conosceva: era un vero demonio, ma faceva morire dal ridere”.
“Mi sarebbe piaciuto vederla da bambina” commentò Laura.
“A me sarebbe piaciuto che avesse conosciuto i suoi cugini quando era piccola: vedo che hanno trovato un grande affiatamento tra di loro e questo mi fa pensare che da bambini si sarebbero divertiti molto assieme. Quello che più mi dispiace è che oltre me non abbia avuto una famiglia durante la sua infanzia. Non che non abbia stretto amicizie con altri bambini, però credo che le sia mancato qualcosa”.
Con quella frase si concluse la sua storia e rimasero in silenzio, come ad assimilare quanto era successo.
 
“Chissà che si staranno dicendo – sospirò Erin, fissando con aria desolata il suo bicchiere di succo di frutta ormai vuoto – avrei voluto tanto essere presente”.
“Con tutta probabilità tua madre dirà cose riguardanti il passato che non vuole che tu sappia”.
“Mi sembra di essere abbastanza grande per conoscerle. E non vedo che cosa ci sia da nascondere”.
“Secondo me non te la devi prendere troppo – la consolò Henry – con tutta probabilità è un incontro per far sentir più a loro agio sia mia madre che la tua. Hai visto anche tu che al ristorante hanno detto poco e niente”.
“E questo mi fa riflettere ancora di più se sia stata una buona idea o meno quest’incontro. Insomma, se mio padre ha tenuto all’oscuro la sua famiglia di mia madre e viceversa un motivo ci sarà stato. Adesso mi sento una figlia davvero insensibile”.
“Credimi che a volte agli adulti fa bene parlare di un passato che hanno preferito tener nascosto – obbiettò Heymans – sono sicuro che quest’incontro farà bene a tutti quanti loro. Sono partiti col piede sbagliato, al ristorante, ma conoscendo il signor Fury sono sicuro che riuscirà a far da paciere”.
“Speriamo – la fanciulla cercò di riprendere un po’ del suo buonumore – comunque lui mi è davvero piaciuto tanto. Insomma, per anni ho immaginato il miglior amico di mio padre come un soldato grosso e rumoroso, quello che si definisce un compagnone. Mi sbagliavo completamente: non potrebbe esserci persona più diversa… eppure è davvero simpatico: si vede che vi vuole un gran bene. Avesse sposato vostra madre sarebbe stato perfetto, non credete?”
A quell’innocente affermazione, i due fratelli si guardarono con imbarazzo, ricordando bene quale tragedia si fosse scatenata per la gelosia di Gregor nei confronti Andrew Fury. Heymans, inoltre, ricordava altrettanto bene di come gli avessero detto che lo stesso Henry avrebbe voluto un matrimonio tra i due amici.
“Ma no – si affrettò a dire – il signor Fury ha sempre e solo amato sua moglie, sin da quando lei era molto giovane. E lei è la miglior amica di mia madre… so che sembra strano, ma in una realtà piccola come il paese ci si conosce praticamente tutti. Pensa che tutte le scuole sono in un unico edificio e c’è una sola classe per ogni anno. Praticamente, nel novantanove percento dei casi, incontri la tua futura metà già quando sei ragazzino e giochi a pallone in cortile”.
“Diamine, questo fa davvero strano – ammise Erin – comunque ho deciso che prima o poi devo venire in paese. Mi piacerebbe tanto vedere il posto dove mio padre è cresciuto”.
“Potresti organizzarti – annuì subito Henry – nel caso saremmo davvero felici di ospitarti a casa. Così conosci anche il nostro gatto: manco a farlo apposta ha il pelo rosso, è proprio di famiglia”.
“Vedremo…” fu più cauto Heymans, rendendosi conto che portare Erin in paese voleva dire mettere in moto tutto il vespaio di pettegolezzi che non aspettava che una nuova occasione per scatenarsi.
Figuriamoci… la figlia di Henry Hevans. Sarebbe riaprire il vaso di Pandora.
Però poi sentì un moto di fastidio crescere dentro di lui: perché la loro vita doveva essere condizionata dagli altri? Era già bastato quello che era successo a causa di persone fin troppo vicine.
 
“Credo che Erin sia molto felice di aver ritrovato la sua famiglia per parte paterna – disse Teresa – non posso che essere contenta per lei. E credo che anche Henry avrebbe voluto così”.
Laura sospirò e si mise a braccia conserte sul tavolo, guardando distrattamente quelle vecchie foto sparse tra le tazze del the ed il vassoio coi pasticcini. Foto di soldati, per lo più di gruppo, solo in una c’era la singola coppia di suo fratello e Teresa. Pensò che fosse davvero triste che Erin non avesse mai visto nemmeno una foto del suo genitore.
“In paese ho qualche foto di Henry con la divisa da soldato – si trovò a dire – potrei spedirla in modo che Erin la possa tenere. Non starebbe male accanto a quella che sta sul caminetto”.
Notò che Andrew le stava sorridendo compiaciuto, ma si limitò ad arricciare il naso con fastidio: detestava quando il suo compito di manipolatore aveva successo. Era venuta in quella casa odiando profondamente Teresa Hidden, mentre ora se non simpatica la trovava comunque una donna degna di stima. Da madre che aveva fatto di tutto per proteggere i propri figli, non poteva che apprezzare i sacrifici fatti dall’altra.
È sempre così – si disse, prendendo in mano la foto di Henry e Teresa – nelle vecchie foto sembriamo delle persone totalmente diverse. Quando ancora la vita non ci aveva mostrato il suo lato peggiore e pensavamo che il mondo fosse a portata di mano.
Solo per Henry non c’era questo cambiamento: lui restava sempre quel soldato dallo sguardo spigliato e sicuro di sé. Non aveva fatto in tempo ad affrontare il passaggio alla maturità o, se l’aveva fatto, era successo troppo in fretta in quelle trincee e non era servito a salvargli la vita.
“Sarebbe un bel gesto – annuì Teresa, riportandola alla realtà – Erin lo apprezzerà davvero tanto. Pensavo… se… se Heymans vorrà venire qualche volta a casa non ci sono problemi”.
“Credo ne sarà felice – annuì con sorpresa. E poi, sentendosi in dovere di contraccambiare, aggiunse – e se Erin vuole venire in paese, prima o poi, la ospiterò più che volentieri a casa”.
“Oh, conoscendola vorrà farlo – sorrise l’altra – e spero che questo non causi problemi”.
“Non può causarne più di quanti ne abbiamo passato anni fa – scrollò le spalle Laura – e se le malelingue vorranno insinuare che i fratelli Hevans erano proprio della stessa pasta, sono problemi loro. Ammetto che sono venuta qui credendo di aver per sempre perso l’immagine meravigliosa che avevo di mio fratello, ma, come mi ha fatto notare qualcuno sin da principio, erano solo mie paturnie mentali”.
“Siamo state in due a cascarci allora – sospirò Teresa con un sorriso – se non ripartirete subito mi farebbe piacere un secondo incontro tutti assieme. Questa volta senza la tensione che si tagliava a fette di qualche ora fa”.
“Direi che lo dobbiamo ai ragazzi – approvò Andrew – Piuttosto, prima o poi racconterà tutta la storia a sua figlia, signora? Non ci vedo nulla di male in quanto è successo e non credo che sapere i dettagli potrà sminuire la stima che Erin ha per lei e per suo padre. Al contrario, da quel poco che l’ho conosciuta, credo resterà piacevolmente sorpresa”.
“Prima o poi – annuì Teresa, iniziando a rimettere a posto le lettere e le foto – ma non ancora”.
 
Tre giorni dopo Heymans ed Erin osservavano il treno che si allontanava dalla stazione ferroviaria, il fumo della locomotiva che in parte si attardava nel soffitto ad arco della galleria che terminava l’edificio prima che le rotaie iniziassero il loro percorso all’aperto.
Quando non ci fu niente da vedere, la banchina ormai vuota, i due cugini si scambiarono un’occhiata compiaciuta e si diressero verso l’uscita.
“Sul serio conti di venire in paese già in estate? – chiese Heymans, mentre scendevano gli scalini e si avvolgevano meglio nei loro cappotti pesanti – Ti puoi prendere tutto il tempo che vuoi, non devi vederlo come un obbligo solo perché mia madre ti ha invitato”.
“Non è un obbligo, proprio no! – esclamò Erin, guardandolo con sorpresa – Anzi, fosse per me sarei partita con loro. Non vedo l’ora di vedere quel posto… credi che riuscirò simpatica ai tuoi amici?”
“Credo proprio di sì – annuì il rosso, chiedendosi che effetto avrebbe fatto la spigliata Erin a Jean e agli altri – beh, con Kain sfondi una porta aperta. Quando saprà che siamo cugini salterà come un grillo per la felicità, fidati di me”.
“Che destino contorto – rifletté Erin, alzando lo sguardo verso il cielo leggermente nuvoloso di quella tarda mattinata di gennaio – Kain e mio cugino sono compagni di scuola. Non credo che sia stato un caso che l’abbia incontrato nel parco qualche settimana fa”.
“Non chiedermi come funzionano queste cose – ridacchiò Heymans – se dovessi iniziare a pensare a tutte le dinamiche che mi hanno portato qui starei impazzendo. Come dice il mio miglior amico, non conviene complicare le cose che sono semplici, non ne vale proprio la pena”.
“Ha perfettamente ragione! – annuì la giovane, stiracchiandosi felice e rischiando di colpire una persona che passava loro accanto – Oh, cielo! Scusi tanto, signore! Piuttosto non vedo l’ora che tua madre mi spedisca le foto di mio padre!”
“Già, a proposito di quelle – Heymans si fece leggermente più serio, frugandosi in tasca e tirando poi fuori una piccola scatolina – ci ho riflettuto a lungo ed è giusto che lo abbia tu. Da quando ce l’ho lo considero una sorta di portafortuna e spero che possa essere così anche per te”.
La ragazza si fermò nel marciapiede, apprendo il pacchettino e rimase perplessa quando tirò fuori uno strano braccialetto di metallo ormai opaco.
Henry Hevans – G2946” lesse nella targhetta attaccata agli anellini di metallo.
“È il braccialetto identificativo di tuo padre – spiegò Heymans – l’esercito lo fece avere ai miei nonni assieme ai suoi effetti personali e poi, quando loro sono morti, è passato al signor Fury che ha deciso di darlo a me. Però io sono solo suo nipote, mentre tu sei sua figlia”.
“Grazie – sorrise lei con le lacrime agli occhi, stringendo quel braccialetto tra le mani come se fosse il più prezioso dei tesori – è un regalo di infinito valore, non ne hai idea”.
“Credimi, ne ho idea” la contraddisse Heymans.
Ripresero a camminare per le strade di East City, facendo piccoli progetti sul quando rivedersi qualche giorno dopo, parlando dei rispettivi impegni di studio e di lavoro. Sembrava si conoscessero da una vita intera e che fosse stata solo una piacevole coincidenza a farli incontrare quel giorno.
Andava benissimo così.

 




_______________
E finalmente siamo arrivati al termine di questa parte della storia relativa alla figlia di Henry.
Ci tengo a precisare che, sin da principio, sapevo che la parte più tosta sarebbe stata la reazione di Laura a tutto questo. 
Come ben sapete la figura del fratello è sempre stata avvolta da un'aura di intoccabilità (sebbene Henry non fosse privo di difetti, tutt'altro), specie in confronto a quelle dei genitori invece detestati e odiati, ed era ovvio che scoprire di Teresa ed Erin l'avrebbe sconvolta. 
Spero di aver reso bene il suo iter emotivo in questa vicenda :)
Dal prossimo capitolo torniamo in paese :D

 

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Capitolo 20. Meccanismi collaudati ***


 

Capitolo 20. Meccanismi collaudati.

 


 
Il ritorno di Andrew, Laura ed Henry in paese aveva ovviamente scatenato una serie di quesiti a cui la maggior parte della gente non sapeva dare risposta. Tutti si chiedevano il motivo di quel viaggio così improvviso e le ipotesi si sprecavano, fino a sfiorare l’idea dello scandalo, almeno secondo le malelingue più ardite, tuttavia nessuno riusciva a trovare una risposta che soddisfacesse completamente. Nonostante tutte le indagini i diretti interessati ed i pochi intimi a conoscenza della vicenda non si sbottonavano con nessuno e questo non faceva altro che aumentare la curiosità della gente a cui una questione così fuori dall’ordinario faceva gola.
Elisa era una delle poche privilegiate a conoscenza dell’esistenza di Erin e questo le aveva dato occasione di scoprire un lato dei suoi compaesani davvero curioso. Se prima non aveva avuto che pochi pazienti, tutti suoi parenti o amici, adesso sembrava che buona parte delle signore fosse ansiosa di farsi visitare da lei. E, caso ancora più curioso, sembrava che i loro mali non fossero nulla di grave: tutte cose che qualsiasi persona sa curarsi da sola a casa, senza bisogno di presentarsi dal medico; o ancora malesseri praticamente inesistenti al punto che la giovane dottoressa, per amor delle apparenze, guariva consigliando qualche semplice tisana che altro effetto non aveva se non quello di una piacevole bevanda calda per quei giorni freddi. Le occhiate diffidenti si erano trasformate in sguardi affabili, come se tutte si fossero improvvisamente ricordate di quella cara ragazza che avevano visto crescere e che sicuramente sapeva bene come trattare le sue pazienti.
Mi dispiace, ma per il mal di pettegolezzo non c’è alcuna medicina – pensò la giovane, mentre salutava con un sorriso la moglie del droghiere che usciva dallo studio con il broncio e un sacchetto con le erbe per la tisana.
Come la porta si fu chiusa e rimase sola nell’ambulatorio, il suo bel viso assunse un’espressione di disappunto. La faccenda poteva essere divertente da un lato, certo, ma dall’altro si sentiva estremamente sminuita come medico: quelle donne non venivano da lei per reale necessità, ma solo perché speravano di estorcerle qualcosa sulla signora Laura e su quel viaggio ad East City. Se avessero avuto bisogno di un vero consulto medico si sarebbero certamente rivolte al dottor Lewis e non a lei.
Quasi evocato il medico entrò dalla porta che collegava l’ambulatorio al suo studio.
“Dalla tua faccia deduco che la moglie del droghiere non abbia nulla che le giuste chiacchiere non possano guarire, vero? Eh sì, ogni tanto il paese ha queste epidemie di pettegolezzo sfrenato, ma la medicina ci può fare ben poco”.
“Dubito che nei casi precedenti venissero da lei per farsi controllare. Mi sento una sciocca a prescrivere dei placebo quando sappiamo tutti che non c’è niente che non vada. In un ambulatorio di città simili perdite di tempo non sarebbero ammesse: si toglierebbe assistenza a chi ne ha realmente bisogno”.
“Ah, ragazza mia – scrollò le spalle l’uomo, andando ad una vetrinetta e recuperando alcuni flaconcini – ma come ti ho detto più volte la realtà di paese è completamente diversa. Sai che devi giocare una partita ben ragionata se vuoi che alla fine ti accettino come medico”.
“E questo vuol dire assecondarli in queste loro stupidaggini?”
“In questo primo momento sì, non puoi permetterti di allontanarli da te. Mi prenderesti anche alcune garze? Noto che stanno finendo”.
Obbediente Elisa andò a recuperare il materiale richiesto ed osservò con invidia il suo mentore finire di preparare la valigetta di cuoio ormai consunto per il suo quotidiano giro di visite. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poterlo accompagnare, per poter visitare veri pazienti, ma sembrava che quel momento fosse ancora lontano.
“Comunque quegli studi che mi hai fatto arrivare dalla città sono davvero interessanti – commentò il dottore, chiudendo la valigetta e andando a prendere la giacca che stava su un attaccapanni all’angolo dell’ambulatorio – hai lavorato con gente in gamba, si vede”.
“Mi sembra tanto un contentino – sospirò Elisa – una pillola per addolcire una medicina amara”.
“Non esiste un medicinale per quello che stai passando, Elisa Meril – le sorrise, andandole davanti e dandole un buffetto affettuoso sulla guancia – come hai detto tu è solo un placebo per un male che non c’è veramente. Ma se ti può aiutare, sappi che apprezzo davvero tanto il lavoro che fai qui in ambulatorio…”
“… tengo il registro e sistemo i medicinali…”
“… è anche da queste cose che si vede la bravura di un dottore, credimi. Allora, io vado a fare il solito giro di visite; mia moglie tornerà tra poco. Lascio a te il comando della nave, ragazza”.
Con un mesto sorriso Elisa salutò il medico e rimase sola nell’ambulatorio. Si guardò intorno con rassegnazione e poi si mise a rimettere a posto gli strumenti usati per la sua rapida visita alla moglie del droghiere: a parte quella breve attività e l’aggiornare il registro non le restava molto da fare e dunque, a meno di non ricevere altre malate immaginarie, si sarebbe ridotta a leggere un libro come ormai accadeva quotidianamente. Almeno in questo era fortunata: Vato non la lasciava mai sprovvista di letture e sembrava cercare sempre qualcosa di nuovo per stuzzicare il suo interesse.
Almeno per lui le cose sembrano andare bene, lavorativamente parlando – si consolò, andando alla scrivania e recuperando il romanzo che aveva iniziato due giorni prima. Il suo sguardo andò all’anello di fidanzamento, la cui pietra verde approfittò di un raggio di sole per brillare vivacemente: l’idea del matrimonio le sembrava estremamente lontana per come stavano andando le cose. Certo, i loro stipendi si stavano accumulando e, sebbene lentamente, un piccolo gruzzolo stava vendendo messo da parte per l’evento: a vederla in questo modo l’idea di sposarsi ad inizio estate sembrava fattibile, sebbene con qualche difficoltà e sacrificio.
Ma sono io che non voglio sposarmi in simili condizioni – sospirò, giochicchiando col nastrino del segnalibro.
Non era l’amore che mancava, tutt’altro, ma non voleva che il paese l’additasse solo come moglie di Vato Falman. Per quanto potesse passare solo per una paranoia, non le andava di fare quel passo se prima non avesse avuto una stabilità lavorativa vera e propria. Non poteva trovare un equilibrio tra essere moglie ed essere medico se prima non capiva la vera entità del suo lavoro: durante il tirocinio aveva imparato bene cosa volevano dire giornate piene ed emergenze da affrontare e, anche se in paese non si arrivava certo a livelli simili, non poteva permettersi di fare errori di valutazione in questa prima fase. Proprio come diceva il dottor Lewis, era la protagonista di una strana partita a scacchi con la popolazione: il matrimonio con Vato poteva essere un fattore parecchio incisivo in quella strana contesa, sia in positivo che in negativo.
Le sue deprimenti riflessioni vennero interrotte dal campanello che segnalava l’apertura della porta dell’ambulatorio.
“Avanti!” esclamò, in modo che il paziente la sentisse anche dalla piccola sala d’aspetto.
Tirò fuori il suo sorriso di benvenuto, preparandosi ad affrontare l’ennesima paziente immaginaria che veniva a fare due chiacchiere che, inevitabilmente, sarebbero andate a parare sulla signora Laura. Tuttavia abbandonò quell’espressione di facciata quando vide che si trattava di Rebecca.
Era dalla festa del primo dicembre che non la vedeva, sebbene sapesse che da qualche settimana aveva ripreso ad uscire per le vie del paese. Conosceva bene gli eventi che avevano portato alla rottura con Jean e sapeva altrettanto bene quello che era successo con Riza dato che quest’ultima si era sfogata con lei.
Aveva sperato che Rebecca mettesse da parte il suo orgoglio e cercasse di sistemare le cose con la sua migliore amica, ma sembrava che la mora si ostinasse a tenere quell’atteggiamento davvero immaturo nei confronti di chi non lo meritava.
Tuttavia questi sentimenti furono repressi quando vide l’aria sconsolata e preoccupata della ragazza: c’era ben poco della giovane vivace e arguta che era abituata a frequentare. Era come se qualcosa si fosse spento in lei: dal viso pallido, ai capelli che non avevano la solita vitalità, all’atteggiamento remissivo che si evinceva dal modo in cui si stringeva il cappotto addosso.
“Ciao – salutò la giovane, fissandola con sospetto – disturbo?”
“No, vieni pure – le fece cenno Elisa, venendole incontro e chiudendo la porta dell’ambulatorio – non c’è nessuno adesso”.
Questa volta tirò fuori un sorriso incoraggiante, invitandola a sedersi nella sedia davanti alla scrivania: il suo istinto di medico le diceva che doveva esserci qualcosa che non andava e che Rebecca era molto timorosa al pensiero di parlarne.
“Allora, che succede? – chiese con fare tranquillizzante – non hai un bell’aspetto”.
“Si vede così tanto?”
“Non saresti così preoccupata se si trattasse di un banale malanno di stagione, vero?”
Rebecca la fissò per qualche secondo, prima di accasciarsi pesantemente contro lo schienale della sedia. Sospirò con sollievo, come se si fosse finalmente liberata di un grosso peso.
“Ho… ho le nausee…” mormorò sollevando lo sguardo sul lampadario.
“Mh” annuì Elisa, tastandole il polso.
“Sono sempre stanca – continuò Rebecca – spesso mi gira la testa… e…”
“E…?”
“E sono più di due mesi che non ho il ciclo… mi si è anche ingrossato il seno…”
Elisa smise la sua aria professionale per guardare l’amica con aria incredula.
Oh mio dio! – sussultò interiormente mentre cercava di recuperare il controllo e non pensare a tutti i risvolti che poteva avere una simile rivelazione. Adesso doveva pensare a Rebecca in quanto paziente e non in quanto amica ed… ex fidanzata del padre del bambino che portava in grembo.
“Senti, perché non ti sdrai nel lettino così ti posso visitare meglio? – propose – Potresti anche levarti il cappotto così posso…”
“Non posso continuare a nascondere per molto una cosa simile – si disperò la mora – adesso con i vestiti invernali si può andare avanti, ma la pancia diventerà più evidente e… dannazione, quando mia madre scoprirà che sono incinta sarà la fine del mondo”.
“Va bene, calmiamoci – Elisa la incitò ad alzarsi – dici che sono due mesi che non hai il ciclo? Pensi di poter risalire al concepimento? Sarebbe già un inizio…”
L’inizio della fine… cielo! Cielo! Cielo!
“… metà novembre o poco più – scosse il capo Rebecca – non vedo che differenza possa fare! Elisa, ascolta, non ci sono delle erbe per abortire?”
“Che? Rebecca Catalina, ma che discorsi fai? – la rimproverò la dottoressa – Non è così che risolverai i tuoi problemi! Forza, sdraiati adesso: le uniche erbe che ti darò saranno quelle per farti stare meglio, ma senza danneggiare il bambino… se solo Jean ti sentisse dire certe cose…”
“Fammi il favore di non nominarlo in mia presenza – sbuffò l’altra – è stato lui a mettermi nei guai!”
“Queste cose si fanno in due, non essere sciocca!” avrebbe aggiunto anche altro, ma vide le prime lacrime colare sulle guance pallide dell’amica e questo la indusse a trarre dei profondi respiri e calmarsi. Non era così che si comportava una vera dottoressa: doveva tranquillizzare la paziente e non rimproverarla.
“Ehilà, sono tornata!” esclamò la voce della signora Lewis dall’interno della casa.
“Meglio che vada…” mormorò Rebecca, asciugandosi le lacrime e guadagnando rapidamente l’uscita.
“No! No…no! Reby, aspetta!” la chiamò Elisa, ben sapendo che non sarebbe servito a niente.
Rimase a guardare la porta ormai chiusa, mentre la sua testa impazziva all’idea dell’uragano che stava per abbattersi su di loro.
Non possiamo lasciarla sola – si disse, mentre si sforzava di sorridere alla signora Lewis che compariva nell’ambulatorio, ignara che fosse appena andata via la madre del suo pronipote.
Una cosa era certa: che lei fosse medico, che fossero ormai cresciute, erano comunque amiche e compagne e non sarebbero venute meno l’una all’altra.
E se non era Rebecca a fare il primo passo, sarebbe stata un’altra.
 
Il pomeriggio dopo Riza sedeva tranquillamente nel salottino della casa di Elisa, totalmente ignara di quanto si stava preparando. Aveva accettato con gioia quell’invito per il the, desiderosa di potersi concedere un pomeriggio di piacevoli chiacchiere. Adesso che le sue paure per il futuro si erano attenuate riusciva a godersi con maggior tranquillità il presente in paese, in attesa di nuovi eventi.
Si guardò attorno, restando ancora una volta incantata da quell’ambiente: le donne di casa Meril avevano ritagliato per loro quel piccolo e delizioso spazio che godeva di una finestra affacciata sul cortile dove venivano coltivate le erbe medicinali. Tutto, dal tavolino al divano, alla delicata libreria, alla tappezzeria bianca con fiorellini gialli dava un senso di intimità e calore: un angolo perfetto per scambiare confidenze.
“Roy tornerà in paese tra dieci giorni – disse, mentre l’amica le versava del profumato the alla menta, una delle tante delizie che produceva la signora Meril – e porterà la moto con sé. Si prospetta un periodo davvero impegnativo per il capitano Falman”.
“Dimmi la verità, muori dalla voglia di farci un giro” ridacchiò Elisa, sedendosi accanto a lei nel divanetto.
“Senza correre troppo – puntualizzò la bionda, con aria matura – del resto quando mi portava a fare i giri in bici era divertente. Basta non esagerare, come in tutte le cose. E spero che anche gli altri ragazzi saranno dello stesso avviso”.
“Alla gente sembrerà l’opera del demonio, ne sono certa. Figuriamoci: un mostro rumoroso come la moto non può che fare scalpore. Già le poche volte che si vede una macchina pare che sia un sortilegio. Ah, una volta che vai in città ti accorgi fin troppo di quanto sia chiusa la mentalità del paese”.
“Sono sicura che, mentalità chiusa o meno, si abitueranno a un dottore donna – sorrise Riza – se il dottor Lewis nutre tanta fiducia in te vuol dire che sei davvero brava”.
“Brava a tenere in ordine l’ambulatorio, ma pare che anche questo sia importante per un medico. Peccato che per le mie pazienti non sia molto brava… la medicina del pettegolezzo ancora non esiste”.
“Per la questione del viaggio ad East City? – la bionda ridacchiò – La signora Laura è estremamente divertita della cosa: dice che non c’è niente di meglio del vedere certa gente bollire nel proprio brodo. Quando sua nipote verrà in visita qui sarà davvero sconvolgente”.
“Non vedo l’ora di conoscerla”.
“Pure io. Kain e papà sono entusiasti di lei e anche la signora Laura ne parla molto bene”.
Rimasero ancora qualche minuto a parlare del più e del meno, mentre Elisa cercava il modo giusto di iniziare il discorso. Aveva riflettuto se doveva far appello al famoso segreto professionale e tenere la bocca chiusa, ma poi era arrivata alla conclusione che per aiutare Rebecca era necessario un aiuto esterno alla sua famiglia.
“Stamane è venuta Rebecca in ambulatorio” disse all’improvviso, decidendo che non era il caso di rimandare oltre.
“Sì? – Riza si irrigidì fin troppo visibilmente – avevo sentito che ormai esce di casa già da qualche giorno”.
“Sei ancora arrabbiata con lei?”
“Sì – annuì laconicamente l’altra, posando la sua tazza di the sul tavolo. Poi parve ripensarci e aggiunse – insomma, la conosco da anni e sono abituata ai suoi colpi di testa. Però certe cattiverie gratuite che ha detto su di me e sulla mia famiglia non gliele perdono con facilità. Abbiamo fatto tanto per lei… e poi si è comportata così. E non mi ha mai chiesto scusa, nonostante siano passati più di due mesi. Ammetto che l’avrei perdonata se fosse venuta da me il giorno dopo, ero pronta ad attribuire tutto alla sua solita irruenza, come sempre… però…”
“A casa sua la situazione dev’essere pesante”.
“Proprio per questo non devi voltare la schiena ai tuoi amici, non credi? Così ti privi di tutti i sostegni che hai. Posso anche capire che tra lei e Jean le cose non siano andate bene, ma che senso aveva tagliare i ponti con me? Ha fatto un cambiamento di fronte totalmente improvviso”.
C’era molto disappunto nella voce di Riza, proprio come c’era d’aspettarsi. Del resto che le si poteva rimproverare? Era stata vicino all’amica in ogni occasione e poi si era vista rifiutata senza motivo venendo infine coinvolta in un circolo di offese chiaramente rivolte a Jean.
Appunto, proprio perché siamo amiche anche di Jean dobbiamo agire. In fondo il bimbo è suo.
“È venuta in ambulatorio perché non si sentiva bene”
“Davvero? – adesso Riza si girò a guardarla, chiedendosi come mai le venisse detta una cosa simile. Negli occhi castani si intravide un primo barlume di preoccupazione e questo fece ben sperare la giovane dottoressa – Niente di grave, spero… cioè, presumo…”
“Riza – Elisa le prese entrambe le mani – con molta probabilità Reby è incinta”.
Gli occhi castani di Riza fissarono quelli verdi dell’amica con incredulità, quasi le chiedesse se si trattasse solo di una presa in giro. Il suo viso assunse un’espressione indecifrabile, tra sgomento e preoccupazione, come se stesse improvvisamente capendo tutto quello che comportava la confidenza appena ricevuta.
“Accidenti – riuscì a dire alla fine con il fiato leggermente corto, quasi avesse corso per un lungo tratto di strada – questa proprio non me l’aspettavo… insomma, sapevo che lei e Jean erano andati ben oltre i baci, però non… credevo che prendessero precauzioni!”
“Dubito che siano stati attenti in queste cose – sbuffò Elisa – insomma li conosciamo bene entrambi. Sono così impulsivi che certi accorgimenti non li avranno manco presi in considerazione. Insomma noi due sappiamo bene che…” si bloccò vedendo il profondo rossore apparso sulle guance dell’amica.
“Ecco – ammise Riza – non… non è che ne sappia molto in merito…”
“Pensavo che tu e Roy…”
“No, non ancora almeno. Non c’è mai stata occasione”.
Elisa sorrise con gentilezza e abbracciò l’amica, come a rassicurarla che tutto andava bene e non si doveva certo sentire in difetto ad essere l’unica a non aver ancora avuto esperienze sessuali col proprio fidanzato.
“Incinta – disse infine la bionda, staccandosi da quell’abbraccio – e Jean è il padre. Santo cielo, quei due sono tutto meno che pronti ad avere un figlio”.
“Io credo che Rebecca non possa esser lasciata sola in un simile momento”.
“No, hai ragione”.
 
Una volta uno di loro, probabilmente Heymans, aveva detto che erano un gruppo così collaudato da essere in grado di rinsaldare i legami anche in situazioni di emergenza. Come un meccanismo saltato a cui viene improvvisamente messa una nuova rondella che aiuta a far girare tutto per il verso giusto.
Sicuramente c’erano le giunture più affidabili e quelle più capricciose e tendenti a saltare ed era chiaro che Riza apparteneva alla prima categoria, specie se si andava a confrontarla con la sua miglior amica.
L’emergenza aveva spazzato via l’offesa nell’arco di pochi minuti: adesso la bionda già si preoccupava di come poter agire in una situazione così delicata. L’idea che Rebecca e Jean si sposassero dopo quella burrascosa rottura era surreale, ma era vero che un bimbo in arrivo cambiava completamente le cose. In simili casi bisognava mettere da parte l’orgoglio e maturare in fretta.
Vediamo i lati positivi: sicuramente i signori Havoc accetteranno il nipote meglio del previsto. Sono persone molto buone e non chiuderanno le porte in faccia ad un neonato.
Jean in veste di padre le sembrava molto improbabile, ma questo non la scoraggiava: in fondo era un ragazzo di buoni principi e buoni sentimenti e si sarebbe comportato di conseguenza. In casa Havoc quel bambino sarebbe cresciuto serenamente, non c’erano dubbi.
Tutto sommato non è la parte paterna a preoccuparmi – sospirò, mentre arrivava davanti a casa dei Catalina e bussava alla porta.
Sperava che ad aprirle fosse Polly o il signor Catalina o, meglio ancora, la stessa Rebecca, ma non fu così fortunata e si trovò davanti la signora che, ovviamente, la gratificò di uno sguardo sfastidiato ed indignato, quasi a chiederle come osasse presentarsi a casa loro.
“Cosa vuoi in questa casa, Riza Hawkeye?” chiese con voce stizzita, mettendo particolare enfasi sul suo cognome, a sottolineare il legame con lo strambo del paese.
“Vorrei vedere Rebecca, se è possibile” rispose in tono educato la ragazza, cercando di mantenere la calma per non vomitare addosso tutto quello che pensava di questa sua storica antagonista.
“Per cosa? – la donna mise una mano sullo stipite della porta, come ad impedire qualsiasi possibilità d’accesso – Per metterle in testa nuove strane idee? Hai già fatto abbastanza in tutti questi anni, signorina: sono stato una sciocca ad accettare che mia figlia ti frequentasse ed i risultati si sono visti!”
Riza serrò la mascella, indecisa se risponderle a tono o scostarle il braccio ed entrare di forza, ma qualsiasi suo gesto fu anticipato da Rebecca che compariva dalle scale che si vedevano appena oltre l’ingresso.
Elisa le aveva detto delle sue condizioni, ma vederla dal vivo era tutt’altra cosa: indossava un abito di lana decisamente troppo sformato per lei e si teneva le braccia strette attorno alla pancia, come se fosse in preda ad un terribile dolore… o come se volesse nascondere un qualcosa alla vista altrui. Il viso era pallido, con occhiaie fin troppo evidenti, ed i bei capelli scuri erano tenuti legati in una stretta coda che rendeva ancora più affilati i suoi lineamenti.
“È venuta a trovare me, mamma, non te – disse la mora con voce stanca ma decisa, facendosi avanti e levando il braccio della donna dallo stipite – cerca di essere un minimo ospitale”.
“Non sei in condizioni di poter uscire di casa. Guardati, stai chiaramente male e…”
“E allora sarà Riza a venire in camera mia – Rebecca prese la mano dell’amica e la fece entrare, conducendola verso le scale e dando le spalle alla madre – non disturbarci, fammi questo santo favore!”
“Rebecca Catalina!” protestò la signora, ma ormai era tardi.
Con una velocità che smentiva le sue condizioni fisiche, la giovane aveva trascinato Riza su per le scale e attraverso il corridoio, fino alla sua camera. La fece entrare con foga e poi chiuse la porta alle sue spalle, mettendo particolare enfasi nel dare un giro di chiave.
“Che cosa ci fai qui?” bisbigliò, andandole accanto e facendole cenno di tenere basso il tono di voce.
“Perché dobbiamo parlare piano?”
“Se scopre che cosa sta succedendo mi ammazza, non è chiaro? Credo che inizi a sospettare qualcosa, ma per ora il gioco regge: pensa ancora che si tratti di un malessere di stagione”.
“Reby, dannazione, non puoi tenerlo nascosto per sempre: non è da te indossare vestiti simili, persino tua madre se renderà conto presto o tardi! – Riza si staccò da lei e si sedette sul letto fissandola con aria di rimprovero – Possibile che ogni volta ti devi cacciare nei guai?”
“Questo lo chiami guaio? – la mora si sedette accanto a lei e si toccò la pancia – Questa è una catastrofe! E… dannazione a te, potevi venire prima!”
“Potevi venire tu da me e iniziare a chiedermi scusa – sbottò Riza, mettendosi a braccia conserte e guardandola con aria indignata: era proprio da lei cercare di rigirare la frittata – invece no, niente da fare con te! Ti professi tanto matura da voler lavorare con gli Havoc, ma a conti fatti non sei molto cambiata da quando andavi a scuola”.
“Non le pensavo davvero quelle cose su di te e la tua famiglia, lo sai bene – Rebecca arricciò il naso con fastidio, come se non credesse possibile che la sua amica si fosse messa in testa certe idee assurde – ma mi ha fatto enorme rabbia vedere che tu patteggiavi con Jean”.
“Ero dalla parte di entrambi, stupida: non potevi chiedermi di darti ragione a prescindere perché non ce l’avevi… anzi sei passata ad avere torto marcio ed è inutile che lo neghi”.
Si fissarono con astio, occhi scuri contro quelli castani, mentre una strana corrente elettrica passava tra di loro. Quello di dicembre era il primo grosso litigio che avevano avuto da quando si conoscevano: prima si trattava di semplici bronci e di arie offese che passavano non appena una delle due strizzava l’occhio o sospirava con rassegnazione, ma questa volta non aveva funzionato così e di conseguenza non avevano avuto idea di come gestirlo.
“Davvero non sono molto cambiata da quando andavo a scuola? – chiese infine Rebecca, abbassando lo sguardo e giocando colpevolmente con una delle larghe maniche del suo vestito – Ti sbagli, sai? All’epoca sarei corsa fuori casa non appena tu mi avessi chiamato, anche se durante l’intervallo avevamo litigato”.
“Sono venuta a casa tua ogni giorno dopo la festa del primo dicembre, ma non ti sei mai degnata di uscire da camera tua. Ed ero preoccupata per te, lo sai benissimo”.
“Scusami… in quei momenti ero davvero furente: non hai idea dell’umiliazione che provavo dopo quello che aveva detto Jean. Come se non bastasse c’era mia madre che continuava a ripetermi che lei l’aveva sempre detto e per una volta tanto mi sembrava avesse ragione”.
Forse avrebbe aggiunto altro, ma il suo sguardo si puntò sulla gonna di Riza ed immediatamente si portò una mano alla bocca. Ebbe uno strano singulto e poi si alzò di scatto, aprendo con frenesia la porta per poi correre disperatamente nel corridoio.
La bionda si alzò e corse di vedetta al corridoio pregando che la signora Catalina non scegliesse proprio quel momento per salire al piano di sopra. Passarono interminabili minuti, ma alla fine Rebecca ricomparve dal bagno, passandosi la manica destra sulle labbra screpolate.
“Arrivano all’improvviso e dopo venti secondi non posso fare a meno di rigettare – sospirò mentre tornavano in camera e richiudevano la porta. Si sedette sul letto e abbracciò il cuscino – credo di essere dimagrita di un paio di chili nelle ultime due settimane”.
“Dovevi farti visitare da Elisa – scosse il capo Riza, sistemandole una ciocca di capelli neri che erano sfuggiti al fermacapelli – sicuramente qualche rimedio per queste nausee esiste”.
“Riza, forse non capisci – Rebecca la guardò con aria disperata – l’unico rimedio per tutto questo è sbarazzarmi del bambino finché sono ancora in tempo. Credo sia possibile con le erbe giuste e sicuramente Elisa sa come fare, del resto sua madre non è un’erborista?”
“Non puoi dire questo! Insomma, è il tuo bambino… tuo e di Jean!”
La mora scosse il capo e poi scoppiò a piangere, aggrappandosi all’amica. Mai era sembrata così fragile, tanto che si aveva paura a tenerla stretta: pareva che ogni singhiozzo dovesse frantumarla del tutto. Riza non aveva nessuna esperienza di donne in stato di gravidanza, ma per qualche sinistro motivo le venne in mente la foto dove lei stava con sua madre, Elizabeth: le aveva sempre dato l’idea di una donna a cui fossero state risucchiate tutte le forze per poi darle alla figlia.
No, non essere sciocca – si rimproverò, mentre accarezzava i capelli dell’amica – tua madre era già fragile di suo, non è nemmeno da paragonarsi ad una ragazza sana come Rebecca.
“Suvvia, non ne vuoi parlare?” mormorò dolcemente, cercando di scuoterla un minimo.
“E di cosa? – sospirò Rebecca, scostandosi il tanto che bastava per guardarla in faccia – Con Jean è finita, ci vuole tanto a capirlo? Lui non vuole avere minimamente a che fare con me”.
“Però credo che debba sapere del bambino, è anche suo”.
“Per cosa? Per tornare insieme a forza? No, non sarebbe giusto – scosse il capo con rabbia e delusione, un dettaglio che fece capire a Riza come si fosse in parte pentita di come aveva gestito la cosa – e non voglio piegarmi ad un matrimonio riparatore”.
“Secondo me se vi chiarite potreste tornare assieme – propose Riza con serietà – insomma, cinque anni di relazione non si buttano in questo modo. Forse questo periodo da separati vi ha fatto bene”.
“Anche se fosse non voglio che succeda per un figlio in arrivo – la mora la guardò con determinazione – adesso… so che quanto sto per dire sembra orribile ed innaturale, ma io non sono assolutamente pronta per avere un figlio. So che ho sempre parlato di voler sposare Jean, di stare con lui.. ma l’idea di avere dei bambini mi terrorizza perché non sono pronta per un simile impegno”.
“Parlavi di matrimonio escludendo l’idea di avere figli? Reby, sei più immatura di quanto pensassi!”
“Avrei preso degli accorgimenti!”
“E perché non li hai presi subito, accidenti a te!”
“Perché… oh, ma che ne vuoi sapere tu, casta e pura! Non sono cose calcolate quelle che succedono tra me e Jean. Capita che siamo lì, magari a parlare, e poi due secondi dopo succede. Ma guardati, arrossisci come una scolaretta che scopre come funziona tra maschie e femmine: tu e Roy dovreste proprio darvi una svegliata!”
“Intanto nei guai ci sei tu e non io – si difese Riza – quindi non cambiare discorso!”
“Giusto, il discorso – Rebecca tirò fuori un fazzoletto da una tasca del vestito e si soffiò il naso arrossato – non posso avere questo bambino, tutto qui. Non sono pronta e sicuramente non lo è Jean… e non voglio forzature tra di noi, non voglio una storia simile a quella della signora Laura”.
“Jean non è come quell’uomo”.
“Ma il matrimonio è stato forzato per via di un bimbo in arrivo. Capisci che devo abortire?”
“No, non capisco. Sono sicura che a pensarci bene ci saranno delle soluzioni alternative. E prima di tutto dovresti farti vedere da Elisa perché non stai per nulla bene”.
“Andrò da lei solo se mi prometterà di aiutarmi a perdere il bambino – dichiarò Rebecca con testardaggine – diglielo che mi faccio visitare solo a queste condizioni. Altrimenti farò tutto da sola: sicuramente si trova qualche signora che sa come fare”.
“E metterti in pericolo? Sei scema? Sei già debole di tuo, se le cose non vengono fatte per il meglio potresti anche peggiorare le tue condizioni, se non morirne!”
“Credi ancora a quelle vecchie storie?”
“Credo che sia una cosa che vada fatta sotto controllo medico, altrimenti non sei poi così moderna come ti professi – la ricattò Riza – ricorreresti ancora a vecchi metodi che spesso e volentieri non portano a buoni risultati”.
“Se non ho altra scelta vi ricorrerò”.
Rebecca troncò il discorso con quell’ultima frase e di nuovo le due amiche rimasero a fissarsi con determinazione, non essendo disposte a cedere sulle proprie posizioni. Alla fine fu la mora a cedere a quella piccola sfida: con un sospiro tremante si posò contro la spalla di Riza e chiuse gli occhi, sentendosi terribilmente stanca.
La bionda non disse niente, capendo che non era il caso di insistere. Ma dentro di sé aveva già deciso che bisognava impedire a Rebecca di fare qualcosa di cui poi si sarebbe pentita amaramente per il resto della sua vita.
C’è solo una persona che può convincerla a non fare questa follia.

                           


 

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Capitolo 21. Frammenti da ricomporre ***


 

Capitolo 21. Frammenti da ricomporre.

 


 
Spesso Riza paragonava Jean alla campagna dove vivevano: solido, forte, solare, capace di emanare quel senso di sicurezza difficilmente riscontrabile nelle persone di città. Le sue mani erano grandi, indurite dal lavoro, eppure la loro presa riusciva ad essere estremamente gentile: sarebbero state capaci di tenere stretto un uccellino appena caduto dal nido con la delicatezza di una madre.
Ci si poteva fidare istintivamente della sua buona indole e si aveva sempre la certezza che sarebbe accorso in aiuto di chiunque l’avrebbe chiesto, proprio come suo padre.
Tuttavia, la mattina successiva la visita a Rebecca, Riza si sentiva leggermente a disagio mentre entrava nell’emporio Havoc. Quello che stava per succedere era tutto sommato una forzatura bella e buona, specie se si pensava a come Jean si fosse in buona parte ripreso dalla sua rottura con la fidanzata. Aveva da diverse settimane smesso quell’aria perennemente assente o imbronciata, tornando a sorridere e recuperando la serenità che gli era tipica.
Mi dispiacerebbe davvero rovinare tutto questo – pensò, mentre salutava il signor Havoc e gli chiedeva del figlio. Si vedeva che tutta la famiglia aveva tratto giovamento dalla ripresa del primogenito: gli occhi azzurri dell’uomo parlavano di un nuovo equilibrio ritrovato all’interno della casa e questo era fondamentale per un nucleo unito come il loro.
“Ciao, biondina – la salutò Jean, comparendo dal magazzino – cosa ti porta da queste parti?”
“Ciao, Jean – rispose lei, torcendosi le dita e cercando di tenere un’espressione tranquilla – mi chiedevo se potessimo scambiare due parole. Ti dispiace?”
Sicuramente era una pessima attrice perché l’occhiata che le lanciò l’amico fu molto eloquente: aveva già capito che qualcosa non andava e doveva esser anche parecchio grave.
Del resto non si viene all’emporio in pieno orario di lavoro senza nulla da comprare – si rimproverò, mentre Jean la conduceva fuori dall’edificio fino ad un grosso albero sotto il quale era stata messa una panca di legno. Con una mano il ragazzo scostò alcune foglie secche dalla superficie e le fece cenno di sedersi.
“Non hai freddo? – chiese la bionda, notando come non si fosse nemmeno preoccupato di prendere il cappotto e fosse in semplice camicia – Potresti raffreddarti”.
“Ma no, è una temperatura perfettamente gestibile – scrollò le spalle lui, frugandosi nelle tasche e tirando fuori il pacchetto di sigarette – ti dispiace se ne fumo una? A casa e all’emporio mi devo limitare, come da ordini, ma almeno mia madre sta iniziando ad accettare l’idea che fumi. Era anche ora… se penso che mio nonno materno fuma la pipa a tutte le ore!”
“Un conto è il padre, un altro è il figlio – commentò Riza con un lieve sorriso – però è un compromesso”.
“Per adesso sì. Allora, che cosa ti porta da queste parti?”
“Non mi crederesti mai se ti dicessi che volevo solo fare una semplice chiacchierata tra amici, vero?”
“Proprio no – ridacchiò Jean, mentre l’odore dolciastro della nicotina iniziava a diffondersi – non che dubiti del nostro rapporto, ma mi pare esagerato. È successo qualcosa?”
La ragazza esitò ancora per qualche secondo, cercando il modo migliore di dargli la notizia: a dire il vero ci aveva pensato tutta la sera precedente, ma non c’era nessuna maniera per attenuare la gravità della situazione.
“Ieri sono andata a trovare Rebecca” disse infine, osservando attentamente la reazione dell’amico. Si aspettava di coglierlo di sorpresa, invece lo vide annuire con tutta la tranquillità di cui era capace.
“Oh dai – esclamò lui, accorgendosi di quell’occhiata indagatoria – pensavi davvero che avreste tenuto il broncio per sempre? Sapevo benissimo che prima o poi avreste fatto pace, era solo questione di tempo. Sono felice per te, ragazzina: vuol dire che Rebecca ha finalmente chiesto scusa per quelle pessime cose dette nei tuoi confronti. E, prima che me lo chieda, per me non ci sono problemi se la vostra amicizia riprende… anzi ne sono felice perché so che ci tieni molto”.
“Oh, Jean!” sospirò Riza, posandosi contro la sua spalla e sentendosi così confortata da quelle parole. Le sembravano una ventata d’aria pulita dopo tutti gli atteggiamenti scontrosi che aveva trovato a casa di Rebecca. E lui invece, quello che in teoria avrebbe dovuto creare maggiori problemi, le dava il suo completo appoggio, anzi si dichiarava felice della ritrovata unione.
Saresti davvero un buon padre – si sorprese a pensare.
“E dai! – ridacchiò il giovane, leggermente imbarazzato da quella reazione – che c’è? Avevi paura che non ti dessi il permesso? Lo sai bene che non sono tipo da simili sciocchezze e che, anzi, le trovo imposizioni che non stanno né in cielo né in terra”.
“Magari fosse solo questo – la bionda si staccò da lui in modo da poterlo guardare bene in faccia – Jean, ascolta, Rebecca non sta per niente bene… e ci sono concrete possibilità che sia incinta”.
Ovviamente questa volta la reazione non fu così placida come alla prima affermazione. Il bel volto del primogenito degli Havoc assunse un’espressione incredula mentre gli occhi azzurri si sgranavano; le guance, arrossate per il freddo, persero qualsiasi colore per qualche secondo. Poi tutto il viso diventò paonazzo, fino alla radice dei capelli.
“Incinta? – esclamò, scuotendo il capo con decisione – Questo è il peggior scherzo che potessi mai farmi, Riza Hawkeye!”
“Quanto vorrei che fosse uno scherzo. Ma i sintomi ci sono tutti e del resto le tempistiche tornano, no?”
“Questi sono i vostri misteri femminili! Non ci capisco molto di simili questioni – arrossì ancora di più – incinta… dannazione, ma ne sei sicura?”
“Di sicuro non è un raffreddore quello che ha. È andata da Elisa, ma alla fine non si è fatta visitare. Tuttavia lei ritiene che sia molto probabile che sia incinta ed è parecchio preoccupata: vorrebbe controllarla con cura, ma lei si rifiuta”.
“La solita sciocca – sbuffò il biondo – ha paura e si rifiuta. Sul serio sta così male?”
“Quando sono andata a trovarla era in condizioni pietose, non credo di averla mai vista in un simile stato. Ammetto di essere preoccupata pure io: insomma… so che è normale non stare benissimo nei primi mesi di gravidanza, ma lei era proprio sofferente”.
“Sua madre lo sa? Come mai non è venuta qui a pretendere la mia testa, quella stronza?”
“Ancora no, ma è questione di tempo prima che lo scopra”.
“Bene… ed in tutto questo io che dovrei fare?”
Riza rimase interdetta a quella domanda: era l’ultima che si sarebbe aspettata da Jean. Credeva che sarebbe corso immediatamente da Rebecca per farle coraggio, per starle comunque vicino in quello che era un problema di entrambi. Ed invece ora se ne stava lì, a fissarla con l’espressione offesa e ostinata che assumeva quando era alle scuole superiori: di colpo tutta la sua maturità sembrava svanita, tanto che Riza rimpianse di non avere Heymans a farle da supporto.
“Che cosa dovresti fare? – iniziò – Beh…”
“Perché non è venuta da me a dirmi come stavano le cose? – Jean si alzò in piedi e andò verso l’albero, dando un calcio al tronco – Perché sei dovuta venire tu? Ti manda sempre avanti, proprio quando eravamo a scuola… è una dannata vigliacca! Eppure non mi pare che si tratti di una cosa di poco conto!”
“È spaventata – la giustificò Riza – non sa che sono venuta qui: è stata una mia iniziativa. Se proprio lo vuoi sapere lei non voleva nemmeno che venissi a sapere di tutta questa storia”.
Jean cercò di calmare il respiro ed i battiti del cuore, mentre sentiva il mondo attorno a lui che vorticava paurosamente, sconvolgendo tutte le sue certezze ed i suoi solidi confini. Sentiva un rombo nelle orecchie e aveva l’impressione che il sangue scorresse nelle sue vene molto più veloce del consentito.
Rebecca incinta di lui!
Perché doveva succedere proprio questo?
Aveva pensato di aver trovato l’inizio di un nuovo dannato equilibrio dopo tutte quelle settimane. Stava finalmente iniziando a lasciarsi indietro quella storia di oltre cinque anni, razionalizzando che, tutto sommato, loro due non erano fatti per stare assieme. Per lui ci voleva una ragazza più tranquilla, una che somigliasse più a Riza od Elisa: capace di fargli tenere i piedi per terra, senza coinvolgerlo nelle follie più assurde come quella a cui era stato costretto a partecipare nei mesi precedenti.
Ma sembrava che questo suo progetto, costruito con tanta buona volontà e pazienza, fosse destinato a crollare come un misero castello di carte colpito dalla mano irruenta di un bambino. Del bambino che lei portava in grembo!
Perché ovviamente non poteva lasciarla sola in un simile frangente.
Tutti gli altri pensieri svanirono dalla sua testa mentre iniziava a capire che cosa dovesse fare: il ricordo di quanto era successo ad Heymans e alla sua famiglia si fece prepotentemente avanti. Le circostanze non erano certo simili, ma comunque si trattava di un bambino concepito prima del matrimonio.
Matrimonio.
Quanti brividi gli provocava quella parola: per lui era ancora sinonimo di trappola, di fine della libertà di cui godeva. Per quanto fino a qualche mese prima avesse dato per scontato che prima o poi – a dire il vero più la seconda opzione – lui e Rebecca sarebbero convolati a nozze, l’idea gli era sempre apparsa come appartenente ad un futuro molto lontano. Si era sempre crogiolato nella certezza che ci fosse ancora tanto tempo a disposizione e che anche lui, in qualche modo, sarebbe cresciuto e maturato fino ad essere pronto.
Oh, ma ora non lo sono proprio – di nuovo il panico si impossessò della sua persona.
Ma poi il suo sguardo tornò su Riza che lo fissava con preoccupazione.
“Presumo che dovrò parlarci – le disse, cercando di mantenere un tono calmo – insomma… bisognerà fare qualcosa prima che sua madre lo scopra e la situazione a casa sua diventi insostenibile. E soprattutto la convinco a farsi visitare, dannata scema che non è altra! Per farmi un dispetto metterebbe a repentaglio anche la sua salute!”
“La situazione è più complicata di quanto tu creda – la ragazza gli prese un braccio con quella che si poteva definire urgenza – Reby ha detto che si farà visitare solo se Elisa le darà qualcosa per abortire”.
“Abortire… abortire?! – Jean prese Riza per le spalle – Ma è rincoglionita o cosa?”
“Io non…”
“Forza, andiamo! – sbottò lui, prendendola per mano ed incitandola verso il sentiero – non c’è tempo da perdere. Ma tu guarda che idee le devono venire in testa! Parlarne con me no? Perché deve fare sempre tutto di testa sua?”
“Jean… ed il cappotto?”
“E chi ne ha bisogno!”
 
Man mano che si avvicinava al paese, mentre Riza faticava a tenere il passo, Jean sentiva la rabbia crescere in maniera esponenziale. Ma come poteva venire in mente a Rebecca di fare una cosa simile? Un bambino non era un capriccio di cui ci si poteva liberare a comando. Nella sua mentalità di ragazzo di campagna considerava la vita come qualcosa di sacro: che si trattasse di animali, piante, persone… a maggior ragione di una creatura indifesa come un bambino ancora nel grembo materno. L’idea che, piuttosto che affrontare il problema, si ricorresse a espedienti orribili come l’aborto gli era inconcepibile.
“Riza! – chiamò, come arrivò alle prime case. Si girò, aspettando che l’amica lo raggiungesse col fiatone – Fammi il favore, vai da Elisa: avvisala che tra un po’ io e Rebecca arriviamo per farla visitare”.
“Sei sicuro che non vuoi che venga con te? In fondo la signora Catalina potrebbe…”
“Ti assicuro che in questo frangente quell’arpia mi fa un baffo. E se prova ad ostacolarmi giuro che non risponderò più di me!”
Non le diede nemmeno il tempo di replicare: si diresse con decisione verso la via laterale dove stava la casa dei Catalina. Bussò alla porta con una foga tale che era impossibile non sentirlo, deciso a tirare fuori Rebecca da quella trappola che era diventata la sua famiglia, quella che stava avvelenando la sua sanità mentale.
Tu? – Penelope socchiuse la porta e fece per chiuderla, ma Jean fu più rapido di lei e con una mano la fece ulteriormente aprire – Che ci fai qui, dannato? Fuori da casa mia o chiamo la polizia!”
“Non sono qui per lei, signora – sbuffò Jean, entrando nell’ingresso e guardandosi attorno – Rebecca, andiamo, scendi! Non ho tempo da perdere!”
“Ma come osi, Jean Havoc! – la signora Catalina, lo afferrò per un braccio, cercando di trascinarlo via – Non sei il benvenuto in questa casa, non lo sei mai stato! Non ti permetterò di fare di nuovo del male a mia figlia!”
“Farle del male? Certo come no, la conosce proprio bene quella stupida di sua figlia. Rebecca Catalina, o scendi o salgo io, a te la scelta!”
Quella minaccia parve funzionare perché dopo una decina di secondi la sua ex fidanzata comparve in cima alle scale. Le sue condizioni rispecchiavano chiaramente quanto aveva detto Riza e fu innegabile che il cuore di Jean sussultò nel vederla così. Ma questo non lo fermò nei suoi intenti, anzi gli diede la carica per agire con maggior urgenza.
“Che cosa ci fai qui?” chiese Rebecca con stizza, scendendo le scale con evidente difficoltà, come se fosse in preda ai capogiri.
“Secondo te? – le chiese, raggiungendola e prendendola per un braccio per sostenerla – Possibile che non riesca a capirlo? Forza, prendi il cappotto che andiamo da Elisa”.
“Ma che stai dicendo? – si intromise Penelope – Tu non porti mia figlia da nessuna parte, non vedi che sta male? Adesso mi fai il santo piacere di andartene via, sto seriamente perdendo la pazienza!”
“Anche io! Lo vedi che a stento ti reggi in piedi? Andiamo, Reby – la sua voce si fece più calma, mentre la presa sul braccio si consolidava – non continuare con questa follia…”
“Ma tu che ne vorrai sapere?” gli occhi scuri di lei si riempirono di lacrime.
“Quello che basta. Coraggio, ho mandato Riza ad avvisare Elisa del nostro arrivo: prendi il cappotto che fa freddo fuori”.
 
Riza si torceva le mani con impazienza, sperando con tutta se stessa che Jean riuscisse nella grande impresa di convincere Rebecca. Per distrarsi diede un’ennesima occhiata a quell’ambulatorio pulito e ordinato, agli strumenti che Elisa aveva già disposto in ordine in un piccolo carrello accanto al lettino.
“Nessuno di questi è per abortire, vero?” chiese, accostandosi alla dottoressa che attendeva in piedi vicino alla scrivania.
“No – scosse il capo – non farei mai una cosa simile: nello stato mentale in cui si trova, Rebecca è tutto meno che in grado di prendere una decisione così importante. Quello che ora mi preme è visitarla, solo poi se ne potrà discutere con calma… e coinvolgendo anche Jean”.
Riza annuì, sollevata dalla determinazione dell’amica: le sembrava che Rebecca stesse venendo accerchiata in modo da farla tornare sulla retta via. Forse la rottura tra loro si sarebbe potuta sanare.
“Reby ha detto che non vuole sposare Jean per via del bambino – dichiarò – mi è sembrata molto decisa su questo punto”.
“Da una parte ha ragione – commentò Elisa – insomma, un matrimonio per costrizione non è certo quello che ogni ragazza vuole. Anche perché ben sappiamo quanto Jean sia restio a questo tipo di legame almeno per adesso. Però in determinate circostanze ci sono delle priorità da stabilire, non credi?”
“Tu e Vato avete mai parlato di avere figli? Intendo… subito dopo il matrimonio”.
“No – un lieve rossore apparve sulle guance della dottoressa – insomma, adesso ci sono altre cose a cui pensare e…”
“Eccoci qua!” la voce di Jean interruppe quel discorso.
Il biondo entrò tenendo un braccio attorno alle spalle di Rebecca, quasi a proteggerla. Sembrava decisamente più calmo rispetto a prima, ma la sua espressione era ancora risoluta: era chiaro che non se ne sarebbe andato da lì fino a quando l’ex fidanzata non fosse stata visitata. Rebecca, da parte sua, aveva un aspetto tremendo e si capiva come quella breve passeggiata fino all’ambulatorio l’avesse provata molto.
“Reby, come ti senti? – chiese immediatamente Elisa, andandole incontro e osservandole con attenzione gli occhi arrossati – hai avuto un rigetto da poco, vero?”
“Dieci minuti fa – annuì la mora, mentre Jean le levava il cappotto – vorrei sapere cosa vi è saltato in mente di coinvolgere pure lui… pensavo di essere stata chiara”.
“E noi pensavamo fosse chiaro che in certe situazioni bisogna dimostrarsi maturi – la rimproverò Riza, accostandosi al lettino per aiutare l’amica a salire – Ce la fai? Aspetta ti…”
“Faccio io” intervenne Jean, facendosi avanti e sollevando la fidanzata come un fuscello.
“Se dicevi a mia madre cosa stava succedendo ti ammazzavo – commentò Rebecca, chiudendo gli occhi con sollievo per la posizione sdraiata – Eli… Elisa, ascolta, devi aiutarmi, non ce la faccio più. Stamane mi è uscito dello strano liquido dal seno…” scoppiò a piangere, coprendosi il viso con le mani.
Riza stava per abbracciarla, ma venne preceduta da Jean che praticamente la avvolse tra le sue braccia.
“Non fare la stupida, vedrai che andrà tutto bene – mormorò, accarezzandole i capelli – e non voglio sentire cavolate come aborto o simili, sia chiaro. Puoi venire a stare a casa mia, al diavolo matrimonio riparatore e cose simili: con i miei arrangiamo qualcosa… ciò che importa è che tu stia bene. Ed è chiaro che a casa tua non puoi riceve l’assistenza necessaria”.
“Non funziona così una gravidanza! – singhiozzò lei – Questo… questo bambino è strano!”
“Calma, Reby, adesso controlliamo come vanno le cose – Elisa le sbottonò la camicia di flanella che indossava, in modo da scoprirle il ventre – potrebbe essere anche lo stress a farti vivere così male la situazione”.
Si fece silenzio mentre la dottoressa tastava la pancia della sua paziente con aria concentrata. Le sue mani si posarono con gentilezza nella parte alta del ventre, e poi di lato, ma la sua espressione non lasciava intuire niente di quanto stava percependo. Dopo un minuto prese l’auscultatore suscitando un sussulto di Rebecca quando il freddo metallo entrò in contatto con la pelle calda della pancia.
“Qualcosa non va, vero?” mormorò la mora, guardando con apatia il soffitto bianco.
Né Jean né Riza protestarono a questa dichiarazione: si limitarono a fissare la dottoressa, quasi a chiederle conferma di quello che ormai sembrava un timore più che fondato.
Elisa li fissò con aria preoccupata e poi rimise l’auscultatore in un altro punto della pancia di Rebecca, ripetendo la medesima operazione diverse volte.
“Che succede?” chiese Jean con calma.
“Non sento il battito” dichiarò cupamente Elisa, tastando di nuovo la parte alta del ventre di Rebecca, questa volta con maggior forza.
“Il battito? – Riza scosse il capo – Oh no, vuoi dire che il bambino…?”
“Però è strano – mormorò Elisa, più rivolta a se stessa che agli altri – non è così che si dovrebbe presentare: dovrei essere in grado di percepire qualcosa”.
“Merda! Merda! – Rebecca iniziò a lacrimare – L’ho ucciso io… ho desiderato tanto perderlo che alla fine l’ho ucciso io!”
“Ma no, non dire così!” si affrettò a dire Riza, prendendole la mano.
“Posso chiamare la signora Lewis? – chiese Elisa, rivolgendosi a Jean e Rebecca – Sul serio, vorrei avere il suo parere di levatrice esperta”.
“Mia zia? – fece Jean – Va bene… ma… sul serio il bimbo è morto?”
“Ecco – Elisa giochicchiò nervosamente con lo stetoscopio – in realtà pare che non ci sia alcun bambino”.
 
Allyson Lewis alzò la testa dal ventre di Rebecca e lo tastò di nuovo con fare esperto. Il suo volto segnato dolcemente dall’età, esprimeva solo una serenità acquisita con l’esperienza e gli anni, quella tesa a tranquillizzare la futura madre a prescindere dalla diagnosi.
“Confermo quanto ha proposto Elisa – disse infine, rivolgendosi a Rebecca e Jean – non c’è alcun bambino. Cara, la tua era una gravidanza isterica”.
“Gravidanza isterica?” la mora la fissò con incredulità.
“O falsa gravidanza – annuì Elisa – il tuo corpo crede davvero di attendere un bambino e quindi si manifestano dei reali sintomi come le nausee o il gonfiore del seno. A volte succede, anche se le cause sono ancora molto dibattute: sicuramente una situazione di stress come quella che stavi vivendo non ha giovato. Ti prescrivo alcune erbe per rilassarti, questo dovrebbe aiutarti a far sparire i sintomi e far tornare le tue condizioni normali”.
“Fantastico…” mormorò Rebecca, mettendosi in posizione seduta e tastandosi il ventre ancora scoperto.
Un sorriso le apparve nel viso tirato: in teoria voleva essere di sollievo, ma era evidente una grande delusione.
“Ragazza mia – la consolò Allyson, prendendole la mano – guarda che questo non incide affatto sulla tua possibilità di avere bambini. Sei giovane e forte e sono sicura che non ci vorrà molto prima che abbia dei figli. Comunque… vado a preparare un the caldo per tutti quanti, ne abbiamo proprio bisogno”.
 
Circa un’ora dopo Jean e Rebecca passeggiavano per le vie del paese.
Non stavano tornando direttamente a casa di lei: appena usciti dall’ambulatorio la ragazza aveva preso la direzione opposta e si era messa a camminare lentamente, quanto lo consentivano le sue condizioni, senza una meta precisa. Si stringeva nel pesante cappotto, ma non più a nascondere qualcosa, ma con l’evidente intento di proteggersi; i suoi occhi scuri, arrossati e circondati da pesanti occhiaie, erano puntati sul terreno leggermente fangoso per le piogge degli ultimi giorni. Non diceva parola e sembrava totalmente inconsapevole degli sguardi straniti che le lanciavano i paesani che la vedevano.
Jean le camminava accanto, le mani nelle tasche dei pantaloni ed una sigaretta tra le labbra, totalmente incurante della temperatura sempre più fredda e della sola camicia pesante che indossava. Il suo viso sembrava sereno, ma in realtà gli occhi azzurri avevano una strana forma di apatia, non dissimile a quella della sua compagna di passeggiata.
L’ennesima vasca attorno al paese li fece arrivare alle ultime case, fino alla strada sterrata che si snodava nella campagna. Come ad un silenzioso segnale si fermarono, rimanendo in silenzio per alcuni minuti, come se non riuscissero ad iniziare il discorso.
Ed era così: per tutto quel tempo, da quando avevano scoperto che era stata solo una gravidanza isterica, avevano detto poco e niente, rispondendo più che altro ad Elisa, Riza e alla zia di Jean. Ma era come se un profondo senso di pesantezza si fosse impossessato di loro. L’aver scoperto che non c’era nessun bambino in arrivo era stato comunque uno strano e duro colpo.
“Dovresti andare – disse Rebecca infine – inizia a fare davvero freddo e tu sei solo in camicia”.
“Già, dovrei andare…” annuì Jean laconico, senza muovere un passo.
Ancora minuti di silenzio, senza che uno dei due cambiasse posizione: sembrava che la loro unica ragione di vita fosse guardare quel sentiero sterrato che già si tingeva dei colori del freddo tramonto di fine gennaio.
“Che stupida che sono – sorrise amaramente Rebecca, decidendosi a spezzare quella situazione di stallo – per settimane mi sono illusa di portare un bambino in grembo ed il mio unico pensiero era tirarmi fuori dai guai. E adesso che tutto si è risolto nella maniera tutto sommato migliore non posso fare a meno di esserne delusa”.
Jean non seppe cosa rispondere.  Buttò la cicca della sigaretta ormai finita e si frugò nella tasca per prenderne un’altra, ma sospirò di disappunto quando notò che il pacchetto era vuoto.
“Hai sentito quello che hanno detto Elisa e mia zia – disse laconicamente – potrai tranquillamente avere tutti i figli che vuoi quando sarà il momento”.
Disse potrai e non potremo, non volendosi lanciare in discorsi troppo compromettenti. Una cosa era certa: era sinceramente dispiaciuto che non ci fosse alcun bambino in arrivo. E questo lo faceva sentire un idiota perché in realtà avrebbe dovuto fare salti di gioia per quella strana forma di liberazione.
Ed invece era lì, accanto alla sua ex fidanzata, non riuscendo a trovare un modo per consolare se stesso e lei. Perché c’era qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui erano andati i fatti: se fosse successo che erano ancora assieme forse avrebbero reagito meglio ed il sollievo sarebbe stato maggiore.
“Già – mormorò Rebecca – quando sarà il momento…”
“Comunque sei una sciocca – continuò Jean, cercando di recuperare il controllo della situazione – come potevi pensare di andare avanti senza farti visitare?”
“Lascia stare, non potresti capire… non hai idea di come mi sono sentita in queste settimane che stavo da sola a sopportare tutto questo”.
“Potevi mettere da parte il tuo dannato orgoglio e parlare con Riza: hai visto bene come lei ci tenga alla tua amicizia”.
“E fare l’amica pessima che chiede scusa solo nel momento del bisogno?”
“Il momento del bisogno è quello in cui si vedono i veri amici, no?”
E noi che siamo?
La domanda aleggiò pesante in quell’aria fredda, un quesito a cui nessuno dei due sapeva rispondere. Ora che erano passate diverse settimane dalla brusca rottura, era come se fosse rimasto solo uno strano vuoto che non si sapeva come riempire. Perché entrambi avevano intuito che se Jean era accorso e Rebecca aveva accettato di andare da Elisa non era per puro caso.
Ma sembrava così difficile iniziare quel discorso.
“Sul… sul serio mi avresti portato a casa tua se la gravidanza fosse stata vera?” chiese timidamente Rebecca, alzando per la prima volta lo sguardo sul ragazzo.
“Sul serio credi che ti avrei lasciato con tua madre in quelle condizioni?” chiese lui per tutta risposta.
“È che… da quando abbiamo rotto la mia vita è un vero schifo” confessò lei.
Jean annuì, capendo che era arrivato il momento della verità. La domanda era semplice: amava ancora Rebecca nonostante quello che era successo? Nonostante gli insulti, i litigi, il senso di impotenza che aveva sentito troppe volte nell’ultimo periodo della loro relazione.
Guardò quel viso pallido e stanco, quel corpo nascosto dai vestiti troppo larghi: cercò la brillante e vivace ragazza che era capace di farlo impazzire con la sua sensualità, le sue provocazioni, i suoi modi di fare.
Sapeva che era lì, dietro quella fragilità… quella fragilità che era un lato di lei che ben poco conosceva.
“Credo che la domanda sia… vogliamo ritentarci?” chiese infine.
“Cosa?”
“Questa volta non ci sono Heymans o Riza a fare da diplomatici e forse è giusto così – continuò Jean, passandosi una mano tra i capelli con aria imbarazzata – è una decisione che dobbiamo prendere noi due da soli. Vogliamo tornare assieme e vedere se va bene?”
“Me lo chiedi per pietà dopo quello che è successo?” chiese lei, ma senza alcun intento provocatorio.
“Te lo chiedo perché mi sono accorto che ci tengo ancora a te – rispose il ragazzo con sincerità – a prescindere da quanto è successo. Sei stata una stronza con me e con gli altri… ma mi ha fatto male vederti in queste condizioni. Non voglio vederti ridotta così, ci soffro”.
Rebecca rimase in silenzio e fu strano. La ragazza che conosceva avrebbe risposto prima ancora che lui terminasse di parlare; tuttavia questa volta rimase a fissarlo con attenzione, come se stesse valutando quella proposta.
“Mia madre farebbe il diavolo a quattro per una cosa simile…”
“… probabilmente stava negando a se stessa che eri incinta: mi pare strano che non l’abbia capito”.
“L’ho pensato anche io. Ma… per tornare a noi due… ecco, non so: ti va se iniziamo piano? Tipo che vengo a trovarti all’emporio di tanto in tanto? E vediamo come va…”
“Come preferisci”.
“È che… questa storia mi ha distrutto…”
“Avrei dovuto esserti accanto da subito”.
“Avrei dovuto dirtelo… avrei dovuto…” scosse il capo e rimase in silenzio.
“Ti riaccompagno a casa, va bene?” propose Jean, mettendole un braccio attorno alle spalle.
Lei si appoggiò contro di lui con tutto il suo peso e passarono solo due secondi che erano stretti l’uno all’altra, lei che piangeva sommessamente, concedendosi finalmente uno sfogo per quel bambino che non era mai esistito.
E le braccia di Jean Havoc erano incredibilmente calde e rassicuranti.








 

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Capitolo 22. Le regole del gioco ***


 

Capitolo 22. Le regole del gioco.

 


 
 
“Oh, santo cielo, ma che cosa sarebbe quella cosa!?”
“Una diavoleria della città!”
“Senti che rumore! E che odore schifoso! Benzina!”
“Ma sta scherzando a volerla portare qui?”
Quei richiami, uniti ad un insolito e forte rombo di motore, fecero immediatamente serrare le labbra del capitano Falman in una linea sottile. Sentendo una familiare vena che iniziava a pulsare proprio sulla tempia, posò la penna con mosse esageratamente lente sulla relazione che stava compilando e si preparò ad affrontare la battaglia che lo attendeva.
“E così alla fine hai portato qui la tua moto – mormorò, alzandosi in piedi – ma non pensare di poter fare i comodi tuoi, Roy Mustang. Questo è un paese tranquillo e deve continuare ad esserlo”.
“Signore! – uno dei suoi uomini aprì la porta dell’ufficio e lo fissò con aria imbarazzata – credo che lei dovrebbe venire a vedere. È arrivato…”
“So benissimo di chi si tratta – annuì Vincent, sistemandosi meglio la giacca – e ti assicuro che adesso vado a spiegargli bene le regole del gioco, dannazione a lui!”
 
Roy aveva parcheggiato la moto davanti al locale di sua zia, ovvero nella strada principale del paese.
Era stato un gesto accuratamente studiato, in modo che tutti quanti potessero vedere il suo potente mezzo. E adesso se ne stava lì, con gli occhiali calati al collo, godendosi ogni singola occhiata stranita che gli veniva lanciata: gli sembrava di essere un dio sceso in terra con lo scopo di insegnare la modernità al suo popolo ancora imprigionato nell’era primitiva.
“Accidenti come sta bene con la divisa… non mi dispiacerebbe fare un giro su quella cosa”.
“Su una motocicletta? Se i tuoi ti sentissero dire una cosa simile ti butterebbero fuori di casa. Però, hai proprio ragione: sta divinamente con la divisa! Ma è sempre stato bello”.
“Peccato per quella sua zia, altrimenti non ci avrei pensato due volte a mettere gli occhi su di lui sin dalle scuole”.
“Con l’indipendente Roy Mustang? Ma per favore, non ne avresti mai avuto il coraggio. E poi sai benissimo che è sempre stato impegnato con la protetta dei Fury: avresti perso in partenza”.
Sentendo quei commenti da parte di due ragazze dall’altra parte della strada, il soldato dovette trattenere un sorrisino di soddisfazione. Sapeva di esercitare un particolare fascino sul gentil sesso e questo gli procurava un particolare e piacevole brivido. Essere cresciuto in un locale dove l’arte della seduzione la faceva da padrone gli aveva fatto acquisire determinati modi di fare e a questo si aggiungeva il suo aspetto decisamente avvenente. A volte si trovava a pensare che non gli sarebbe dispiaciuto fare un po’ il dongiovanni, almeno in città, dove l’ambiente era decisamente più favorevole, ma ormai era un uomo impegnato ed era giusto mantenere un atteggiamento rispettoso nei confronti della sua fidanzata.
“E così alla fine l’hai portata – esclamò Vato, raggiungendolo con un sorriso – ti aspettavamo dopodomani”.
“Ho deciso di fare una sorpresa – sogghignò Roy, stringendo la mano all’amico – ecco qua la mia meraviglia, con tanto di due taniche di benzina messe già al sicuro nel magazzino di mia zia. Pronta a correre per queste polverose strade di campagna”.
“Pronta a sfidare le ire di mio padre, vorrai dire – commentò caustico il giovane studioso, accennando con la testa ad una ben nota figura che si avvicinava – ma scommetto che eri pronto a questo scontro, vero?”
“Ovviamente – strizzò l’occhio Roy – ammirami. Capitano Falman! Sono commosso che abbia lasciato il suo estenuante lavoro per venire a salutarmi”.
“Ti sbagli, è parte del mio lavoro essere qui in questo momento – sbuffò Vincent, posando una mano sul manubrio della motocicletta e squadrando con aria torva il giovane soldato – mi voglio assicurare che tu capisca bene entro quali limiti ti puoi muovere con questa diavoleria”.
“Suvvia, spaventa solo perché è più rumorosa rispetto alla bici”.
“E anche dieci volte più pericolosa dato che se investi qualcuno con questa lo mandi all’altro mondo. Qui non sei in città, ragazzino, sei in paese… il mio paese. Combina qualche guaio e questo aggeggio ti viene sequestrato seduta stante, senza possibilità di reclamo”.
“Lo userò solo per muovermi e non per fare crimini – promise Roy con un sorriso spavaldo, facendosi una croce sul cuore – glielo assicuro. Vato, vuoi fare un giro?”
“Proprio di questo bisogna parlare – lo bloccò Vincent, lanciando un’occhiataccia al figlio, quasi a sfidarlo a fare un’imprudenza simile – gradirei che viaggiassi da solo con questa motocicletta, senza coinvolgere i tuoi amici in gare e simili, va bene? Non so per quale miracolo per tutti gli anni in cui ti ho visto in bici non è successo niente di grave e vorrei che si continuasse su questa strada”.
“Guardi che guiderei sempre io – questa volta Roy fece un broncio contrariato – si può andare benissimo in due: non vede che il sellino è abbastanza grande per…”
Non mi interessa! – sbottò il capitano, battendo una mano sulla parte interessata – Tu con questo arnese ci vai da solo, hai capito bene? E di certo non lo usi in orari poco consoni come il dopo pranzo o la sera, quando la gente riposa. E ricorda bene, Roy Mustang, ti tengo d’occhio!”
“Certo, certo… come no. Vato, sai se Riza è in paese o a casa?”
“Non mi ignorare così!”
“Stamane dovrebbe essere a casa – spiegò Vato – penso che scenda in paese solo questo pomeriggio. Ci sono alcune novità di cui dovrai essere messo al corrente circa Jean e Rebecca”.
“La situazione si è smossa? – Roy salì sulla motocicletta con mossa disinvolta – Beh, prima o poi doveva succedere. Sai che faccio? Vado a trovarla e a farle vedere la moto”.
“Ragazzino! – Vincent gli levò le mani dal manubrio – non fare l’arrogante con me, non puoi permettertelo! Altrimenti, divisa da soldato o meno, te la faccio pagare! Stavamo facendo un discorso sull’uso di questo aggeggio o sbaglio?”
“Certo – sorrise Roy – e lei è stato chiarissimo come sempre, signore. Stasera, se volete, vengo a cena da voi: ho portato una bottiglia di vino davvero pregiato dalla città”.
“Tentativo di corruzione?” sbuffò Vincent mollando la presa e mettendosi a braccia conserte. Faceva davvero impressione vederlo accanto al figlio, il quale aveva la medesima posa, sebbene il viso fosse rilassato in un sorriso.
“Con lei non funzionerebbe mai, signore. Vato, ci vediamo questo pomeriggio?”
“Finisco di lavorare alle cinque e mezza, ma poi mi vedo con Elisa”.
“Ah, l’amore! Allora ci vediamo direttamente a cena – con un abile colpo al pedale accese la moto che subito emise un rumoroso rombo che fece girare tutti i passanti – buona giornata!”
 
Per fortuna di Roy, Ellie non era in casa quando si presentò dai Fury e dunque vennero evitate nuove raccomandazioni su quello da non fare con quella diavoleria cittadina. Al contrario il signor Fury si dimostrò parecchio interessato alla nuova tecnologia ed il giovane fu ben lieto di spiegargli il funzionamento e fargli vedere il piccolo ma potente motore, mentre un curioso Hayate gironzolava attorno a quella novità, odorandone con aria perplessa le ruote.
Dopo un po’ il soldato si ritrovò in cucina con la fidanzata, seduto a bere una tazza di the caldo e mangiare dei biscotti fatti quella stessa mattina. Venne messo al corrente degli ultimi fatti del paese, in particolare delle vicende che avevano portato al riavvicinamento di Rebecca e Jean.
“Se lei fosse stata davvero incinta ne avremmo visto delle belle – commentò infine, scuotendo il capo con leggero disappunto – quei due proprio non si sanno regolare. A dire il vero mi ero chiesto diverse volte come mai non ci fossero ancora cascati”.
“Sapevi che lo facevano?” chiese Riza sorpresa.
“Da quando lei aveva sedici anni e lui diciassette? Beh, mi è sempre sembrato palese… e poi è sempre stato chiaro che quei due l’avrebbero fatto prima di tutti, anche di Vato ed Elisa”.
“… e di noi…” Riza quasi bisbigliò quella frase e subito arrossì, quasi si fosse pentita di averla detta.
Roy stava per ribattere, ma si trovò ad arrossire a sua volta. Sentire Riza che tirava fuori un argomento così delicato che riguardava loro due era quasi inverosimile. In tutti quegli anni non aveva fatto nessuna mossa in quel senso, rendendosi conto che la sua fidanzata aveva delle tempistiche molto particolari. Da un lato la cosa avrebbe dovuto dargli fastidio, del resto aveva pure lui passato i classici momenti di impazienza maschile, in cui il desiderio si faceva sentire, ma poi si era trovato a trasportare tutto in una sorta di piedistallo. L’amore con Riza non era banale e scontato come quello delle altre coppie e dunque aveva bisogno di tempo per poter maturare e arrivare all’atto fisico. Insomma, quella fantomatica verginità che per molti sarebbe stata una vergogna, per lui era diventata una sorta di sfida la cui difficoltà non faceva che rendere il premio ancora più bello.
Certo Riza era bella e aveva delle forme molto morbide che invitavano a fare l’amore. Abbracciandola Roy era spesso tentato ad osare più del consentito con le mani e solo con grande forza di volontà non era scivolato nelle zone proibite.
Che c’è, ragazzina? Qualcosa si è smosso? – se lo chiese con interesse mentre la osservava contorcersi nella sedia, tormentandosi le mani.
“Ciascuno ha i suoi tempi” osservò infine, quasi a darle un incoraggiamento a continuare.
“Già, i suoi tempi – annuì lei, alzandosi in piedi e andando verso la porta che dava sul cortile laterale. La aprì e rimase a prendere aria, le ciocche di capelli biondi che venivano mossi dal vento di inizio febbraio – del resto ogni coppia è differente”.
“Vogliamo parlare di noi?” Roy la raggiunse, le mani in tasca, poggiando la schiena contro l’altro stipite della porta.
Riza lo guardò negli occhi, risultando estremamente adorabile con quell’espressione imbarazzata. Rimase qualche secondo a cercare le parole giuste e poi alla fine si decise a parlare.
“Mi stavo chiedendo se ti desse fastidio il fatto che noi due non l’abbiamo ancora…uhm… fatto”.
“Non è che ti voglia imporre una cosa che tu non vuoi” la rassicurò subito Roy.
“È che non me l’hai mai chiesto – spiegò Riza – e mi stavo domandando se ti stessi ponendo problemi per me… e che a lungo andare la cosa ti desse noia”.
Roy si passò le mani tra i corti capelli scuri, non sapendo se scoppiare a ridere o abbracciare la sua fidanzata per la tenerezza che gli stava facendo in quel momento. Adorava Riza: così forte e decisa e allo stesso tempo così timida ed insicura, in parte ancora una fanciulla inesperta del mondo.
“Darmi noia! – disse alla fine, con aria leggermente offesa – Rispettare la mia fidanzata non mi dà nessuna noia, che paranoie ti fai? Se tu non vuoi ancora farlo si aspetta”.
“Ma tu vorresti farlo?”
“Beh – questa volta Roy si trovò ad arrossire con violenza – non dico che mi dispiacerebbe”.
“Mh…” Riza abbassò lo sguardo a terra, come se stesse riflettendo bene sulla questione.
Dannazione – pensò il soldato – non pensavo che per fare l’amore ci volesse tutta questa strana trafila burocratica. Va bene che è Riza, ma qui si sta un po’ esagerando…
“Insomma, se va bene anche a te si può fare – disse d’impulso – ma non ti devi porre dei problemi. È una cosa che deve venire spontanea, non è che ti devi forzare per compiacermi”.
“Quanto resti in paese?” chiese Riza d’impulso.
“Una decina di giorni… ma… ehi, Riza Hawkeye! Non metterti strani grilli per la testa – cercò di fermarla – torna ad essere la razionale e cara ragazza che conosco. Non c’è una scadenza per fare l’amore, va bene? Per me una settimana o dei mesi non fanno la differenza, va bene?”
“Mi sento una sciocca…” mormorò lei. E sicuramente avrebbe voluto aggiungere altro, ma chiaramente non riusciva ad esprimere tutto quello che stava provando. Roy intuì che, in un simile frangente, se avesse voluto, avrebbe fatto l’amore con lei nei successivi cinque minuti.
Certo, con suo padre qualche stanza più in là e lei più confusa che mai… non mi pare proprio il caso.
“Il capitano Falman mi ha espressamente proibito di portare gente in moto… ma penso che questa regola valga solo per quando sono nelle strade di paese – disse – Se chiediamo a tuo padre, credi che otterremo il permesso per andare a trovare Jean all’emporio? E poi ti riporto a casa per pranzo”.
La solita Riza Hawkeye avrebbe mosso diecimila obiezioni, prima tra tutte quella del disobbedire alle regole del capitano Falman. Tuttavia quella nuova e strana versione della ragazza non vedeva l’ora di tirarsi fuori dalla discussione imbarazzante che era stata intavolata sino a poco prima.
“Credo che se prometti di andare piano non ci saranno problemi – sorrise con entusiasmo – andiamo a chiederglielo!”
 
Con tutta probabilità Roy aveva indovinato che qualcosa si era smosso in Riza.
La vicenda di Rebecca aveva infatti fatto riflettere profondamente le ragazze del gruppo, come se si fossero rese conto che alla loro età dovevano iniziare a pensare all’amore fisico in una maniera più matura. Come se all’improvviso la possibilità di restare incinta fosse diventata incredibilmente reale. Certo era un ragionamento oltremodo sciocco, ma il fatto che una di loro avesse rischiato di scottarsi davvero, aveva reso quest’eventualità molto più vicina del previsto.
E così se per Riza tutto questo si era concretizzato in una strana e nuova consapevolezza che, tutto sommato, era il caso di iniziare a pensare seriamente a crescere anche in quel senso, sebbene non avesse la minima idea di come iniziare, dall’altra anche Elisa aveva iniziato a rivedere il suo rapporto con Vato.
Ovviamente il giovane studioso non aveva avuto modo di notare la cosa, considerato anche il poco tempo passato, e così quel pomeriggio andò a prendere la fidanzata come se tutto fosse nella norma. Anzi, a dire il vero era particolarmente lieto perché aveva ricevuto una lettera dall’Università in cui veniva pagato per la relazione che aveva spedito due settimane prima: a dire il vero non si trattava di una grossa somma, tutt’altro, ma era andata ad ingrossare la piccola fortuna che stava mettendo da parte per il suo matrimonio.
In quel periodo aveva iniziato a guardarsi attorno per risolvere uno dei problemi fondamentali: la casa. In genere era una questione che veniva risolta abbastanza facilmente in un paese come quello: una delle famiglie quasi sempre aveva una casa in più, magari di qualche parente defunto, da donare ai futuri sposi. Tuttavia né lui né Elisa avevano questa fortuna: la famiglia di lei aveva già dato una vecchia casa di proprietà al fratello maggiore e alla sua sposa tre anni prima, mentre i Falman, provenendo da New Optain, non avevano altra dimora se non quella dove stavano.
Una spesa notevole – pensò, mentre attendeva che lei uscisse dall’ambulatorio – e una bella rogna dato che non ci sono molte case disponibili in paese.
Avrebbe potuto chiedere a suo padre se sapeva di qualche casa che faceva al caso loro, ma per una strana forma d’orgoglio aveva deciso di risolvere la questione da solo. Senza contare che il ritorno di Roy con la moto aveva leggermente indisposto il capitano di polizia e non era il caso di preoccuparlo con altre vicende.
Ed inoltre non mi sembra nemmeno troppo entusiasta del matrimonio…
Questa era un’intuizione a cui era arrivato da parecchio tempo, ma ancora non aveva affrontato l’argomento con il diretto interessato. Forse per i canoni di suo padre stava correndo troppo, però non riusciva a capire il motivo di tanta preoccupazione. Infatti, sebbene diverse volte non parlassero direttamente dei problemi, Vato e suo padre erano diventati molto empatici l’uno nei confronti dell’altro. Intuivano quando qualcosa turbava l’altro e si adoperavano per risolvere quella crepa nel meccanismo rodato del loro rapporto.
Tuttavia in questo caso c’era una nuova forma di imbarazzo: come se Vincent non volesse turbare i progetti del figlio con le sue preoccupazioni. Ma d’altra parte era chiaro che Vato si era reso conto che qualcosa non andava e che dunque ne risentisse.
A conti fatti per il giovane era diventata una questione d’onore riuscire ad organizzare il matrimonio con Elisa con le sue sole forze, in modo da dimostrare al genitore che era in grado di affrontare queste situazioni del mondo adulto.
“Ehilà, studioso – lo salutò Elisa, uscendo dall’ambulatorio – ti ho fatto attendere molto?”
“Solo pochi minuti – rispose lui, rimandando ad un altro momento quei pensieri – è andata bene la giornata?”
“Tranquilla come al solito – sorrise la giovane – è passata Rebecca e pare che le tisane che le ho dato stiano facendo effetto. La vedo già meno pallida della settimana scorsa: sono sicura che nell’arco di una quindicina di giorni si sarà ripresa del tutto”.
“Ieri l’ho vista in giro con Riza. Pare che la crisi sia totalmente risolta”.
“È tornata tra quelli che ben pensano, direi che era ora. Oh, ma basta parlare di loro… parliamo di noi, suvvia. Mi hai detto che c’erano delle questioni di cui volevi discutere” Elisa sorrise nel prenderlo a braccetto, segno che la giornata lavorativa non era andata così male. Evidentemente il dottor Lewis le aveva assegnato qualche compito particolare che l’aveva fatta uscire dalla monotonia; o semplicemente era la risoluzione della questione di Rebecca che l’aveva resa d’umore lieto.
“Sì, delle questioni – annuì Vato, mentre iniziavano a passeggiare per le vie del paese – sai che oggi mi hanno pagato per la relazione che ho scritto in questo mese? E nella lettera c’erano anche i complimenti del docente”.
“Accidenti, Vato Falman, sei sempre al centro delle attenzioni all’Università – lo prese bonariamente in giro lei, facendolo arrossire – e sei incredibilmente affascinante quando arrossisci. Lo sai bene che sono fierissima di te, sebbene non ci capisca niente di quello che studi”.
“Eppure hai fatto chimica nel tuo corso di studi… la nomenclatura non è dissimile a…”
“No, fermati: so benissimo che il discorso degenererebbe e finirei col sentirti parlare di termini assurdi e di lemmi antichi. Mentre questo pomeriggio voglio solo godermi la compagnia del mio fidanzato Vato Falman e non del filologo, grazie!”
Vato arrossì ancora di più come sentì la stretta sul suo braccio farsi ancora più accentuata e si accorse che effettivamente pure lui aveva voglia di godersi la compagnia della sua fidanzata. Negli ultimi tempi non avevano avuto molte occasioni per stare assieme in senso stretto: con l’inverno non si poteva certo godere dei campi isolati e della discreta erba alta. E la bella stagione era ancora lontana. Con un sospiro di rammarico pensò ai begli anni dell’Università, quando avevano maggiore libertà e bastava la cameretta di una piccola pensione per fornire loro l’intimità necessaria.
“Allora, di che volevi parlare?” chiese Elisa.
“Della casa – rispose lui – nel senso… direi che dobbiamo iniziare a pensare a una casa da comprare per andare a viverci dopo il matrimonio. Pensavo di andare dal sindaco, domani, e chiedergli se ci sono delle case in vendita in paese”.
“Una casa, eh? – la dottoressa arricciò il naso con aria pensosa, cercando di far mente locale – sai che non me ne viene in mente nessuna? C’era una vecchia casa verso l’uscita del paese, ma l’hanno demolita quest’estate perché era troppo pericolante e buona parte del tetto era crollata”.
“Sì, mi ricordo. Perché pensavo… costruirla da zero sarebbe troppo costoso, vero?”
“Bisognerebbe avere il terreno in primis e poi bisognerebbe chiedere all’ingegner Fury… anche se lui ci farebbe un prezzo di favore se si pensa agli operai e ai materiali… no, decisamente troppo dispendioso”.
“Allora speriamo che il sindaco, domani, mi dia buone notizie” sospirò Vato.
“A meno che – Elisa lo fermò in mezzo alla strada – vieni, forse mi è venuta in mente una casa che potrebbe essere in vendita. Da anni l’ho vista con le imposte chiuse: non si vede molto perché ci sono state costruite attorno altre case”.
Con entusiasmo lo fece tornare indietro per poi farlo deviare in una delle vie laterali. Era una zona che Vato conosceva poco dato che non ci abitava nessuno dei loro amici. Sicuramente qualche volta c’era passato, ma non aveva mai fatto caso alle case e men che meno a quella con le imposte chiuse.
“Eccola – disse Elisa, quando arrivarono a destinazione, cinque minuti dopo – guarda le assi che chiudono le finestre: si vede che sono qui da anni ed anni. Sicuramente i proprietari sono morti e nessun erede è venuto a reclamare la casa… chissà, magari sono andati a vivere in città e non sono tornati in paese”.
“Caspita – Vato guardò l’edificio che, effettivamente, risultava in parte nascosto dalle case che erano state costruite attorno, quasi a nasconderlo – mi pare una bella casa. Penso sia ad un solo piano: questi scalini indicano solo una specie di soppalco. Evidentemente sotto c’è una specie di scantinato”.
“Probabile… che te ne pare? Potrebbe essere la casa ideale per noi? Se effettivamente nessuno la reclama ed è passata sotto la giurisdizione del sindaco potremmo averla ad un prezzo buono”.
“Magari! Domani andrò a chiedere al sindaco”.
Elisa batté le mani guantate con entusiasmo e Vato sorrise, trovandola incredibilmente bella e scoprendo di avere una voglia matta di fare l’amore con lei.
Papà e a lavoro e mamma doveva andare a trovare la signora Laura – rifletté, facendo un rapido calcolo dell’ora.
“Questione risolta! – annunciò, prendendo per mano la fidanzata – non mi pare il caso di stare qui. Forza, andiamo!”
“Vato! – esclamò Elisa, sorpresa da quella reazione – Ma dai! Non dovevamo parlare di altro?”
Ma il giovane scosse il capo con un sorriso e con tutta la velocità di cui era capace la condusse a casa sua.
Aprì la porta con entusiasmo e immediatamente si rese conto che il campo era libero. Fece entrare Elisa e chiuse l’uscio alle sue spalle, imprigionandola tra il legno della porta e la sua persona.
“Vato!” mormorò lei, quando le venne baciato il collo.
“I miei non ci sono – spiegò il giovane, sciogliendole il nodo della sciarpa e poi abbracciandola – che ne dici? Dai… sono mesi che non abbiamo possibilità di farlo…”
Elisa ridacchiò mentre le veniva levato il capotto, ma poi scosse il capo.
“No, amore, oggi no – cercò di placarlo, prendendo il soprabito e sistemandolo nell’attaccapanni – è un giorno fertile e potrei restare incinta”.
Quella frase ebbe il potere di far allontanare Vato di qualche passo. Ecco che una tremenda barriera si era messa tra loro e la possibilità di fare l’amore. Ovviamente Elisa era una ragazza molto cauta e con le sue competenze mediche era riuscita fino ad adesso ad evitare gravidanze indesiderate. Senza mezzi termini aveva spiegato al fidanzato che cercava di basarsi sul riconoscimento del periodo fertile del suo corpo e sembrava che il sistema funzionasse.
“Come non detto…” sospirò Vato, andando a sedersi nel divano.
“Un bambino adesso non sarebbe proprio il caso” Elisa lo raggiunse e posò la testa sulla sua spalla, facendosi abbracciare.
“Proprio no – scosse il capo il ragazzo – senza contare che dopo quanto è successo a Jean e Rebecca sarebbe proprio il colmo. Va bene che ci dobbiamo sposare a breve, ma questo vorrebbe dire correre davvero troppo”.
“Lo vuoi subito dopo il matrimonio un figlio?” Elisa fece questa domanda a bruciapelo.
Vato arrossì, non sapendo cosa rispondere. Lui aveva sempre pensato che una volta sposati le cose sarebbero proseguite in maniera naturale: se il bambino doveva arrivare subito non ci vedeva nessun problema. Ma quella domanda di Elisa gli fece drizzare le orecchie in maniera quasi allarmante.
È una cosa che va programmata?
“In che senso?” chiese con aria stranita.
“Non è che io non voglia figli – si affrettò a dire Elisa – al contrario! Però… sarà il caso di averli subito appena sposati? Se ben ci pensi io sono in un momento difficile della mia carriera e potrei aver bisogno di tempo per farmi accettare dal paese… più passano i mesi e più mi rendo conto che l’iter non sarà così breve come pensavo”.
“Dici che una gravidanza ti bloccherebbe?” Vato si sentì strano nel fare una domanda simile: gli sembrava quasi di sovvertire uno strano ordine naturale delle cose.
“Forse manderebbe a monte tutto il lavoro fatto in questo tempo – ammise la dottoressa con un sospiro, passandosi una mano tra i bei capelli castani – dovrei fermarmi e il paese mi vedrebbe solo come tua moglie e non più come medico”.
“La cosa ti darebbe tanto fastidio? Essere considerata mia moglie, dico…”
I due fidanzati si guardarono in faccia, accorgendosi per la prima volta di quell’enorme barriera che si era creata tra di loro in quei mesi. Ancora non l’avevano percepito, ma l’ambiente del paese aveva influito sulle loro giovani vite più di quanto credessero possibile. Quello che ad East City era sembrato un progetto perfetto, adesso presentava delle crepe che rischiavano di far cedere tutto quello che avevano intenzione di costruire.
E se Elisa aveva in qualche modo accettato queste difficoltà, sin da quando si era confrontata per la prima volta con il dottor Lewis, Vato non aveva avuto modo di fare la medesima esperienza. Certo aveva sentito che attorno a lui e la fidanzata ronzavano dei pettegolezzi, ma non aveva dato loro alcuna importanza. Ma adesso capiva che costituivano una strana componente fondamentale.
“Darmi fastidio? Certo che no – rispose Elisa, giocando con l’anello di fidanzamento – sai benissimo che ti voglio sposare sin da quando eravamo ragazzi. Ma sono una dottoressa, Vato, non voglio veder sminuito quello per cui sto lavorando tanto… non voglio che una cosa vada a discapito dell’altro”.
“Carriera contro amore?” chiese con acidità.
“Cosa? Santo cielo, come ti possono venire in mente delle idee simili… ehi, che fine ha fatto tutto l’incoraggiamento che mi hai dato fino a ieri?”
“Scusa… scusa – mormorò Vato, posando la testa contro la spalliera del divano – è che… non pensavo che l’avere figli rientrasse nel discorso di farti accettare o meno dal paese. Pensavo che fosse una cosa che riguardasse solo noi due”.
“Riguarda solo noi due, infatti!”
“Dici? – fece una smorfia – Pare che dobbiamo chiedere il permesso anche per questo”.
Elisa fece un verso di disappunto e fece per alzarsi dal divano. Tuttavia Vato la afferrò per un braccio e la guardò con desolazione.
“Vuoi ancora che domani passi dal sindaco?”
“Non lo so – sospirò lei, liberandosi da quella presa ed andando all’ingresso per prendere il cappotto – come preferisci”.
 
Quella discussione fece aprire gli occhi a Vato sulla strana realtà che stava vivendo in paese.
Solo adesso si rendeva conto di quanto quella piccola e chiusa società fosse realmente in grado di condizionare il suo rapporto con Elisa. Da ingenuo che era, aveva sempre pensato che tutto dipendesse da lui e dalla fidanzata, ma a quanto sembrava aveva fatto i conti senza l’oste.
D’improvviso capì per quale motivo suo padre si era sempre mostrato restio a quel matrimonio così frettoloso. Con tutta probabilità aveva già intuito le difficoltà che avrebbe creato a livello sociale. Del resto non si stava parlando della stessa gente che aveva messo alla gogna Heymans e la sua famiglia per una vicenda in cui loro era stati le vittime e non i colpevoli?
Certo non mi aspettavo che io ed Elisa entrassimo a far parte di questo strano processo antropologico.
Perché di processo antropologico si trattava: era un esempio fin troppo palese di condizionamento della società. Un pessimo condizionamento se doveva esser sincero, specie se si andava a confrontare con la maggior libertà di cui si godeva ad East City, dove lavorare ed essere sposati non erano fattori che entravano in contrasto tra loro.
“Ehi, ragazzo di pensiero, guarda che ti escono i fumi dalla testa…”
Vato si riscosse e si girò a guardare Roy.
Come c’era d’aspettarsi la maggior parte della cena era stata un battibecco continuo tra lui e suo padre per via della moto. In un’altra occasione Vato si sarebbe goduto un simile scontro, salvo poi cercare di rabbonire gli animi fin troppo bollenti,ma il ricordo di quella strana lite con Elisa l’aveva tenuto distratto per la maggior parte del tempo. E ovviamente la cosa non doveva essere sfuggita al soldato.
Adesso, mentre passeggiavano per la via principale del paese, per riaccompagnare Roy a casa, si rese conto che il suo miglior amico gli era mancato parecchio in questi mesi. Nonostante le differenze caratteriali Roy rimaneva la persona che spesso lo aiutava maggiormente ad uscire dai suoi circoli viziosi di pensiero, proprio come quando erano ragazzi.
“Si nota così tanto?”
“Da quando ci siamo seduti a tavola. Che è successo? Stamane eri di tutt’altro umore… non mi dire che hai litigato con Elisa, mi pare impossibile”.
“Litigato… insomma. Diciamo che abbiamo scoperto di avere delle divergenze di pensiero su alcuni argomenti – cercò di spiegarsi – e la cosa ci ha colti un po’ di sorpresa”.
“Oh poveri noi, se la coppia perfetta litiga il mondo davvero si rovescia!” sogghignò Roy, battendogli tuttavia alcune pacche sulle spalle sottili in un gesto d’amicizia che invitava a confidarsi.
“Con Riza tutto bene invece?”
“Sì,tutto bene. L’ho trovata un po’ cambiata, è come se la storia di Rebecca un po’ abbia smosso qualcosa”.
“Anche ad Elisa – si sorprese Vato – forse è proprio questo il problema. Però mi sono trovato a pensare che tutto questo in città non sarebbe successo e che io ed Elisa non ci staremmo facendo così tanti problemi. È tutta colpa di questo paese che ci tiene gli occhi addosso!”
“Per la solita storia del lavoro di lei?”
“Per il fatto che pare che debba scegliere tra matrimonio o carriera… ma ti pare?”
Roy si fermò per fissarlo con attenzione.
Erano arrivati davanti al locale di Madame Christmas e le luci provenienti dalle finestre e dalla porta a vetri illuminavano il volto magro di Vato. Era teso e triste, come non si vedeva da tempo: era come se le sue certezze fossero tutte crollate all’improvviso.
“Che discorso drastico – mormorò Roy, scuotendo il capo – sono certo che non è davvero così”.
“Elisa è una dottoressa fantastica – rispose Vato con voce mesta – e io sarei il primo ad affidarmi alle sue cure se ne avessi bisogno. Se fossimo in città non ci sarebbe alcun problema, ma…”
“Ma…?”
“Roy, devo dire che mi sento uno stupido, non diverso da questi nostri compaesani. Per diverso tempo, dopo che abbiamo discusso, mi sono chiesto che male ci sarebbe nell’essere vista solo come mia moglie e non come dottoressa”.
E si sentiva davvero un mostro retrogrado, come se tutto quello che gli avevano insegnato i suoi genitori e quello che aveva vissuto nella sua giovane vita non fosse servito a niente. Un mostro retrogrado ed egoista.





__________________________________
Eccomi qua, 
scusate il grande ritardo, ma dopo il Romics sono tornata e mi sono beccata le placche alla gola, un fatto che ha annullato totalmente la mia voglia di scrivere dato che deglutire era una sofferenza. Ma finalmente questo capitolo è riuscito a venire alla luce.
Per la gioia di Vincent arriva la moto in paese: ovviamente questo è solo l'inizio di una lotta senza quartiere tra il nostro rigido capitano ed il nostro irruento soldato Mustang. La sfida stile spaghetti western (tanto per citare Mary) è iniziata.
E poi andiamo a questioni più serie. Come avevo già detto ad alcuni di voi nelle recensioni, mi sono voluta dedicare un po' a Vato dato che era rimasto in disparte: sono riuscita ad introdurre una tematica che stava in sottofondo da tempo, ossia come il clima non proprio facile del paese stia in qualche modo influendo nella relazione consolidata tra lui ed Elisa.
Spero che il prossimo capitolo, proseguo di questo filone, non abbia tempi di attesa così lunghi xD
A presto :)

 

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Capitolo 23. Le persone giuste con cui confrontarsi ***


 

Capitolo 23. Le persone giuste con cui confrontarsi.

 


 
 
Per molto tempo uno dei grandi limiti di Vato Falman era stato quello di avere una certa rigidità di pensiero: le cose per lui erano nere o bianche, dai confini ben definiti, senza alcuna sfumatura che lo facesse uscire fuori dal sentiero che vedeva davanti a sé. In parte per carattere, in parte per influenza paterna, questa sua peculiarità non gli aveva creato problemi fino a quando non si era trovato a fare i conti con l’amicizia con Roy che, al contrario, di queste famose sfumature ci viveva. A onor del vero era stato un trauma che aveva fatto più che bene alla sua personalità troppo compassata, e le successive relazioni con il resto del gruppo l’avevano aiutato ad aprirsi sempre di più e a completare il suo processo di crescita.
Di conseguenza il giovane che si era laureato ad East City, con somma lode dei suoi docenti, si riteneva ormai libero da determinate ristrettezze mentali, se così si potevano definire. Così come molti suoi coetanei, tra cui la stessa Elisa, Vato si riteneva uno dei giovani del nuovo secolo, pronti alle novità e alle rivoluzioni sociali che si stavano piano piano facendo spazio ad Amestris.
Invece non sono troppo diverso dalle persone di questo paese che io stesso ritenevo per la maggior parte bigotte e chiuse.
Vato lo pensò con amarezza la mattina successiva, quando si svegliò e rimase diversi minuti a fissare il lieve fascio di luce che penetrava dalle tende tirate. Aveva fatto fatica ad addormentarsi e anche il suo sonno era stato tormentato e per nulla riposante: come succedeva in simili casi, la sua mente era rimasta a rimuginare per diverso tempo, lasciandolo carico di cupi pensieri e di dubbi su se stesso. La sua propensione all’autocritica si era presentata puntuale, pronta a punzecchiarlo nell’intimo della sua persona, ed il fatto che l’argomento fosse il suo rapporto con Elisa non faceva che rendere più velenosa ogni singola puntura di quello strano insetto che albergava dentro di lui e non lo lasciava mai del tutto.
“Vato, tesoro, la colazione è pronta!”
La voce di sua madre gli fece capire che non poteva più restare a letto. Per quanto quel giorno avesse la mattinata libera non era il caso di passarla sdraiato come se fosse malato. Tuttavia aveva anche una certa apprensione nell’affrontare i suoi genitori: dalla sua faccia avrebbero intuito che qualcosa non andava, sempre che non l’avessero già capito ieri sera, nonostante la presenza di Roy a distrarli.
Ma non era più un ragazzino e non poteva evitare simili confronti.
Dopo essersi preparato si recò in cucina e cercò di dimostrarsi il più disinvolto possibile. In apparenza anche i suoi genitori si comportavano normalmente: sua madre stava finendo di riscaldare il caffè, mentre suo padre era seduto al suo posto di capotavola, spalmando una fetta di pane con il burro.
“Buongiorno a tutti, scusate il ritardo”.
“Nessun problema, caro – sorrise Rosie – stamane, se non sbaglio, non devi andare in libreria. Devi lavorare a qualcosa qui a casa?”
“No, non ho nessuna scadenza per questa settimana. Ho la mattinata libera, penso che andrò…”
Dal sindaco a chiedere della casa – almeno questo è quello che avrebbe voluto dire.
“… a trovare Roy e a fare quattro chiacchiere con lui”.
Tuttavia l’esitazione fu recepita e subito venne gratificato di uno sguardo penetrante da parte di suo padre. Sua madre non disse niente, ma per rapida intuizione Vato capì che la sua mano aveva esitato un secondo a sollevare il coperchio della caffettiera per controllare a che punto fosse il caffè.
Eccoti qua, Vato, siamo alle solite. Non riesci proprio a nascondere nulla, nemmeno per una giornata.
A dire il vero un confronto con i suoi non gli sarebbe dispiaciuto. A ben pensarci era tramite loro che aveva recepito determinati valori, gli stessi che in parte erano stati messi in dubbio il giorno prima: forse parlare con loro gli avrebbe schiarito le idee.
Però no! – si disse, trattenendosi dal scuotere la testa – papà penserebbe che non sono assolutamente pronto per il matrimonio e anche mamma si farebbe un sacco di problemi. Non voglio farla entrare in paranoia… e non voglio nemmeno che pensino male di Elisa.
Quel pensiero lo fece confondere ancora di più: davvero i suoi avrebbero pensato male di Elisa? Gli sembrava inverosimile eppure buona parte del paese provava diffidenza nei confronti della sua fidanzata. Cosa avrebbero pensato i suoi alla notizia che lei, per il momento, non voleva figli e che non voleva esser vista solo come sua moglie?
Troppe emozioni in una volta sola – rifletté, mangiando un biscotto e ringraziando sua madre che gli versava il caffè – già per papà è difficile accettare la modernità della moto di Roy, figuriamoci dei pensieri così… progressisti.
Preferì dunque terminare la colazione in relativo silenzio, congedandosi il più in fretta che poteva per poter uscire da casa e riflettere sul da farsi. Tuttavia, proprio quando stava andando a prendere il cappotto, suo padre lo bloccò.
“Aspetta, figliolo, usciamo assieme”.
A quelle parole Vato si irrigidì, ma cercò di apparire il più neutrale possibile mentre aspettava che Vincent lo raggiungesse. Uscirono assieme e si misero a camminare verso la via principale: sicuramente il capitano si aspettava che il figlio dicesse qualcosa a proposito della sua visita a Roy, ma il locale dove abitava il giovane soldato venne superato senza che se ne rendesse conto.
“Non dovevi andare dal tuo amico?” chiese infine l’uomo, mentre si avvicinavano al piccolo commissariato.
Vato sussultò, rendendosi conto del suo errore.
“A dire il vero era un’idea nata così per caso – cercò di giustificarsi – non ci siamo dati un vero appuntamento e mi è passato di mente. Vado a vedere se c’è, ci vediamo a pranzo…”
“Capisco che a volte si preferisca parlare con un amico piuttosto che col proprio genitore – Vincent gli mise una mano sulla spalla, quasi a bloccarlo – ma è da ieri sera che qualcosa non va, sia io che tua madre ce ne siamo accorti. So che hai ventidue anni e che oramai sei un uomo, ma vorrei che ti fosse chiaro che noi ci siamo sempre, qualunque sia il problema… non è una vergogna confidarsi coi propri genitori, a prescindere dall’età”.
A quelle parole Vato annuì in maniera quasi impercettibile e fu seriamente tentato di dire qualcosa per iniziare in qualche modo il discorso. Ma proprio in quel momento, con la coda dell’occhio, vide Elisa che si dirigeva verso l’ambulatorio, lottando per sistemarsi meglio la sciarpa.
No, non posso dire quanto è successo…
Suo padre seguì la direzione del suo sguardo.
“Ehi, ragazzo – gli disse – capita a tutti di litigare con la propria fidanzata. È successo anche a me e tua madre, non è niente di grave”.
“Non è proprio un litigio…” ammise Vato.
È mettere in discussione tutto quello che si è sempre ritenuto giusto… che poi è quello che mi hai insegnato tu con il tuo esempio.
“No? A maggior ragione non è niente di grave – continuò il capitano con un lieve sorriso – Intuisco che non ne vuoi ancora parlare ed io non voglio forzarti. Ma sappi che quando deciderai di farlo io e tua madre siamo sempre disponibili, intesi?”
“Intesi, papà”.
I due Falman si scambiarono un cenno d’intesa e si congedarono. Tuttavia, guardando il padre dirigersi verso il commissariato, Vato prese la decisione di continuare nel suo silenzio: era una questione che doveva risolvere da solo con Elisa.
Adesso ho solo voglia di camminare e riflettere – si disse, avviandosi verso l’uscita del paese.
 
Probabilmente Vato avrebbe cambiato idea se avesse saputo quello che stava per accadere. Volendo risolvere la cosa di persona non rientrava nei suoi piani che Roy si mettesse in mezzo, decidendo di andare a parlare con Elisa.
Sebbene con gli anni il moro avesse in parte smussato la parte più irruenta del suo carattere, il suo proverbiale spirito d’iniziativa non era venuto meno. A maggior ragione se si trattava di problemi dei suoi amici non esitava ad intervenire, specie se si trattava di Vato. Nonostante lo ritenesse molto maturato da quando l’aveva conosciuto, aveva ancora la convinzione che in determinati casi ci fosse bisogno del classico sprone esterno per aiutarlo a risolvere i suoi guai. E così, se più di cinque anni prima, alla festa del primo dicembre, non aveva esitato ad invitare Elisa a ballare pur di far ingelosire l’indeciso figlio del capitano, adesso non ci aveva pensato due volte nell’andare a parlare con la diretta interessata.
Come minimo Vato ha esagerato come al solito – si disse, mentre entrava nell’ambulatorio che ormai era quasi metà mattina – o comunque non ha visto le cose nella giusta prospettiva. Scegliere tra carriera e matrimonio mi pare un’estremizzazione davvero grossa e mi pare strano che Elisa l’abbia messo davanti ad una simile scelta.
“Buongiorno, stimati medici del paese – salutò con il suo più affabile sorriso, quando vide che nella stanza c’erano sia Elisa che il dottor Lewis – oggi nessun caso grave?”
“Ciao, Roy – si sorprese la giovane, accogliendolo comunque con un sorriso – come mai da queste parti? Non mi dire che stai male”.
“Lui? – sbuffò con aria bonaria il dottore – Questo ha la pellaccia più dura persino di quello scalmanato di mio nipote Jean. L’ho sempre visto in giro con il suo sorriso sfacciato alla faccia di occhi neri o altri residui di risse, me lo sono trovato qui con il braccio rotto per una caduta dall’albero, ma si rimette sempre in piedi. Stare male non rientra nelle sue prerogative”.
“Lo prendo come un complimento alla mia resistenza fisica – annuì il soldato, stringendo con calore la mano all’uomo: aveva una grande stima di lui sin da quando aveva curato Kain dopo il disastroso incidente alla vecchia miniera – ed infatti sto benissimo. Passavo di qua e mi sono detto che non avevo ancora salutato la mia giovane amica dottoressa. Anzi, dato che non vi vedo impegnati, le volevo anche proporre di fare un giretto”.
Elisa lo guardò stranita, chiedendosi che cosa ci fosse dietro quella particolare richiesta. Ma prima che potesse obiettare, dato che era in pieno orario di lavoro, il dottor Lewis le diede una lieve pacca sul braccio.
“Mi pare una buona idea, signorina – annuì – stamane non devo fare il giro di visite e posso badare tranquillamente all’ambulatorio per un’oretta. Mi pare che sia uscito il sole e una passeggiata non può che essere piacevole”.
Roy non perse tempo e con fare galante prese il cappotto di Elisa dall’attaccapanni che stava in un angolo e glielo porse con un gran sorriso. Alla giovane non restò che accettare quello strano invito e seguirlo fuori.
“Allora, si può sapere che succede?” gli chiese quando furono in strada.
“Come? Non posso godere della compagnia di una mia cara amica che non vedo da più di un mese?” commentò Roy con aria rammaricata, offrendole il braccio.
“Andiamo, Roy – ridacchiò lei – simili recite non funzionano con me, lo sai. Se vieni in ambulatorio in pieno orario di lavoro e mi chiedi di fare una passeggiata vuol dire che mi devi parlare di qualcosa. In tutti questi anni che ci conosciamo ti avrò visto decine di volte ricorrere a simili sotterfugi”.
“Sono diventato così prevedibile?”
“Diciamo che le dinamiche del gruppo sono abbastanza collaudate” sorrise la ragazza, passandosi una mano tra i capelli castani, spettinandoseli leggermente e apparendo subito molto simile alla giovane studentessa delle scuole superiori che era stata.
“Se sono così collaudate potrai immaginare di cosa ti voglio parlare. E prima che tu me lo chieda, non ha la minima idea che io abbia preso quest’iniziativa”.
A quelle dichiarazioni il bel viso di Elisa si fece serio: le sue labbra si serrarono in una linea sottile e per qualche secondo parve che fosse intenzionata a sbottare, non si sapeva se contro il fidanzato, contro Roy o entrambi.
“Mi pare chiaro che lui non sappia niente delle tue iniziative, anche se doveva prevederlo nel momento in cui ti ha parlato del nostro disguido – disse infine con voce seria – Certo speravo che restasse solo tra me e lui, ma immagino che non abbia resistito all’idea di confidarsi con te. Posso sapere quanto è entrato nei dettagli?”
“Ha detto solo un qualcosa come pare che debba scegliere tra matrimonio e carriera – dopo quell’affermazione anche lui si fece particolarmente serio – so che Vato spesso tende ad esagerare, ma so anche che spesso queste sue affermazioni hanno un buon fondo di verità. E collegando questa frase alle difficoltà che stai incontrando con i tuoi pazienti…”
Lasciò quella frase in sospeso, ma Elisa non rispose. Guardando il suo viso, tuttavia, il soldato ebbe molte più risposte di quanto gliene potesse dare qualsiasi cosa detta.
C’è più di un fondo di verità allora… dannazione.
Si trovò sinceramente dispiaciuto: Vato ed Elisa gli erano sempre parsi come la coppia stabile, quella da guardare con sincera ammirazione per l’affiatamento che erano riusciti ad ottenere. Si rendeva perfettamente conto che nemmeno lui e Riza potevano vantare di essere così complementari. Scoprire che c’erano crepe anche in questa testata d’angolo del gruppo era in qualche modo destabilizzante.
“Lui è il fidanzato più dolce del mondo – sospirò infine Elisa, mentre arrivavano alla fine del paese e iniziava il breve sentiero che portava verso l’edificio scolastico – ed è sempre stato un sostegno fantastico in questi difficili mesi. E mi sento così fiera di lui ogni volta che deve fare qualche nuovo studio per l’Università: l’ho sempre saputo che il suo futuro era nei libri…”
“… ma?” la incitò Roy dopo qualche secondo di silenzio.
“Non è lui il problema, sono io: in questo momento non mi sento ancora pronta per il matrimonio. Non fraintendermi, non è l’amore che manca… solo che non credo di avere ancora la stabilità giusta per poter fare un passo così importante. E mi sento un mostro, perché invece lui si sta prodigando tanto per riuscire a sposarci entro l’anno”.
“Stabilità lavorativa dici?”
“Tu chiederesti a Riza di sposarti in questo momento? Quando sei ancora fresco d’Accademia e ancora non ti sei affermato nell’esercito? – gli occhi verdi di lei lo scrutarono con attenzione – Sono sicura che riesci a capire di che tipo di stabilità sto parlando e sai bene che non è di tipo economico”.
Roy si passò una mano tra i capelli scuri, scoprendo di capire fin troppo bene cosa volesse dire la giovane dottoressa. Tuttavia non riusciva a concepire che quei due fossero arrivati ad una scelta drastica come quella tra matrimonio e carriera.
“Essere la moglie di Vato Falman – Elisa proseguì, allungando la mano dove portava l’anello di fidanzamento – certo che lo voglio, l’ho sempre desiderato. Ma vorrei anche essere la dottoressa Elisa Meril, quella di cui il paese sa che si può fidare… ma se mi sposo e magari arriva subito un figlio, tutto questo rischia di andare a rotoli. E questo mi fa sentire la persona peggiore sulla faccia della terra, una fidanzata tremendamente egoista che…”
“Ossignore, lo sai che tu e Vato avete usato i medesimi termini per definirvi? Mostro, egoista… non c’è dubbio che siete fatti l’uno per l’altra”.
“E qual è il tuo suggerimento in merito, soldato Mustang? – lo interrogò Elisa con un lieve sorriso – Sono sicura che tu…”
Interruppe la frase perché dal cortile della scuola era arrivato uno strillo che aveva superato tutto l’allegro vociare dei ragazzi che facevano ricreazione.
Fu un gesto istintivo, ma i due giovani accorsero per vedere cosa stava accadendo e oltre il basso muretto che delimitava il cortile, notarono subito un gruppetto di bambini delle elementari che si era stretto a cerchio attorno ad un compagnetto e alla maestra inginocchiata accanto a lui.
“Dammi una mano!” ordinò Elisa a Roy, iniziando a sollevarsi la gonna per poter superare il muretto.
Immediatamente il soldato scavalcò agilmente l’ostacolo e poi sollevò per la vita la dottoressa che non perse tempo per correre verso il piccolo e la maestra.
“Che è successo? – chiese, mentre anche altri ragazzi e altri insegnanti si avvicinavano – Fai vedere, caro”.
Il bambino doveva avere sugli otto anni ed era seduto a terra, sostenuto dalla maestra. Indossava il cappotto, ma questo non bastava a nascondere come il braccio destro avesse preso una strana angolazione all’altezza della spalla.
“È caduto – spiegò la maestra, una giovane più o meno dell’età di Elisa – forse ha il braccio fratturato: dobbiamo portarlo all’ambulatorio”.
“Non è frattura, è lussato – disse Elisa, toccando con delicatezza il braccio del bambino che subito strillò – aiutami a levargli il cappotto, devo rimettere l’omero in sede”.
“Sei in grado di farlo, Elisa? – le chiese la ragazza – Non so se…”
“È una manovra che ci insegnano al corso base di pronto soccorso, Clara, fidati di me. Forza, aiutami a levargli il cappotto… cercando di non dare scossoni al braccio”.
La giovane, una vecchia compagna di scuola della dottoressa, annuì e iniziò a sbottonare il cappotto del bambino che continuava a strillare. Elisa iniziò a parlargli con dolcezza, chiedendogli il nome, accarezzandogli i capelli arruffati, facendolo infine sdraiare a terra con la testa posata sul cappotto piegato.
“Posso fare qualcosa?” chiese Roy che nel frattempo era rimasto a guardare.
“No, va tutto bene… allora, Robert, adesso devi stare tranquillo. Durerà solo un paio di secondi e poi…”
“Non farmi male! – supplicò il bimbo tra le lacrime – Non voglio, ti prego!”
“Ti faccio passare il dolore, fidati – sorrise Elisa, rassicurante, prendendo il braccio – puoi contare fino a dieci con me? Uno… due…”
“Tre… q…quattro…” continuò balbettando il bambino.
Al cinque Elisa spinse con decisione il braccino verso la spalla del bambino: fu una manovra rapida e precisa che provocò un grido spaventato del piccolo paziente. Ma come era iniziato quel grido finì quasi subito, per essere sostituito da un balbettio sorpreso.
“Non… non fa più male…”
“Emergenza finita, Robert – sorrise Elisa, massaggiandogli la spalla e facendolo sedere – tutto sistemato e dolore finito, vero? E non sei dovuto arrivare nemmeno a dieci!”
“Meno male – sospirò di sollievo la maestra – temevo chissà che disastro!”
“La lussazione si risolve in fretta – spiegò la dottoressa – dato che sono intervenuta subito non dovrebbe nemmeno sentire indolenzimento. Ma comunque è meglio portarlo in ambulatorio, così posso controllare”.
“Ma certo – sorrise la donna, mentre si rialzava in piedi insieme ad Elisa – grazie mille, davvero!”
“Visto? – esclamava intanto Robert, mentre i compagnetti si attorniavano a lui con meraviglia – è il medico delle braccia! Ora lo muovo di nuovo!”
“Che brava!”
Mentre Elisa sembrava rifiorire di fronte a tutti quei complimenti, Roy non poté fare a meno di sorridere.
Gli venne spontaneo pensare che la dottoressa avesse tutto il diritto di potersi realizzare professionalmente: curare le persone era quello per cui era chiaramente nata e non poteva negare a se stessa questa sua vocazione. Alla luce di questo tutti i suoi timori sul futuro più prossimo erano fondati, sebbene ci stesse andando di mezzo il suo matrimonio con Vato.
Però non è giusto che ci debba essere questa scelta – pensò con cocciutaggine – stupida gente bigotta. Non capiscono la fortuna che hanno nel ritrovarsi Elisa come medico.
 
Ignaro di quanto era successo, Vato si era fatto una lunga passeggiata per i campi, superando persino la stazione ferroviaria. Alla fine, quando era arrivato in un posto a lui sconosciuto, si era fermato per qualche minuto a riordinare le idee e aveva preso la via del ritorno.
Quella passeggiata gli aveva fatto schiarire le idee e ora si sentiva più deciso che mai a risolvere la questione da solo, senza l’aiuto di suo padre o di altri. Amava Elisa e l’avrebbe sposata, anche se questo voleva dire andare contro tutte le dicerie che c’erano in paese. E per quanto concerneva quella famosa scelta tra matrimonio e famiglia era sicuro che non avesse motivo d’esistere: i paesani pettegoli non meritavano tanta considerazione, né tantomeno che un matrimonio venisse rimandato per causa loro. A ben pensarci non era per niente giusto che Elisa dovesse sottostare ai loro vezzi: dovevano apprezzarla per la sua bravura medica, non per il marito o chissà che altra sciocchezza.
E quella è la casa perfetta per noi – si disse deciso, mentre tornava in paese e si dirigeva verso il piccolo municipio – non ce la faremo fregare da nessuno.
Fortunatamente venne subito ammesso nell’ufficio del sindaco ed espose la sua richiesta. Mentre lo osservava frugare tra gli archivi, aiutato da un vecchio segretario, Vato sperò di non incontrare troppi problemi per quanto concerneva il prezzo e gli eventuali proprietari.
“Ah ecco, mi sembrava di non sbagliarmi – annuì il sindaco, tornando alla scrivania con una piccola cartelletta – avevo già capito di che casa stavi parlando. A quanto pare i vecchi proprietari si trasferirono una ventina d’anni fa e diedero il compito al mio predecessore di venderla. Tuttavia le persone che la presero, andarono solo in affitto… e una volta che sono morte e la casa…”
“… è di nuovo sotto la giurisdizione dell’amministrazione cittadina?”
“No, non proprio. Adesso, a quanto pare è tornata ai primi proprietari o ai loro eredi… e, ironicamente, penso che la persona in questione non ne sia nemmeno consapevole. Non essendo stata effettivamente venduta è stata lasciata aperta la questione del ritorno di proprietà, specie perché non c’è nessuno che potrebbe reclamare l’usucapione. Quindi direi che dovresti rivolgerti alla persona interessata e chiedere a lei se va di vendertela”.
“Beh, del resto è una casa chiusa da anni – mormorò Vato con sollievo – non dovrebbero esserci problemi. Posso sapere chi è il proprietario”.
“Certo, tu eri troppo piccolo per ricordare, anzi forse non ti eri ancora trasferito qui a ben pensarci. La proprietaria la conosci bene dato che è la madre di uno dei tuoi grandi amici: quella è la vecchia casa dei genitori di Laura Hevans”.
 
Quella rivelazione colse totalmente impreparato il giovane Falman.
La questione si complicava perché, in teoria, quella casa era eredità di Heymans ed Henry e, con molta probabilità, una volta venuta a conoscenza di questa proprietà, la signora Laura avrebbe preferito tenerla per i suoi figli. Tuttavia decise di fare comunque un tentativo, sentendosi comunque in dovere di avvisare la donna di questa situazione a lei probabilmente sconosciuta.
Venne accolto da Laura con cortesia e si ritrovò seduto nella cucina mentre gli veniva servita una tazza di caffè caldo. La donna sembrava serena e sorridente, parlò persino della lettera che aveva ricevuto da Erin, la quale la ringraziava per averle spedito le foto di suo padre.
“Non vedo l’ora che venga qui quest’estate, ci sarà davvero da divertirsi. Sono sicura che voi ragazzi sarete entusiasti di lei”.
“Immagino di sì”.
“Ma veniamo a noi, Vato – Laura si sedette accanto a lui e lo fissò con aria maliziosa – non mi dire che devo già prenderti le misure per l’abito da sposo. O forse sì? Con la tua altezza bisogna lavorarci attentamente”.
“Abito da sposo? – il ragazzo arrossì violentemente – no no no! Non sono qui per questo… o per lo meno, non per questo particolare dettaglio!”
“E per che cosa può servire una sarta se non per gli abiti da cerimonia?” lo prese in giro Laura.
“A… a dire il vero – spiegò Vato, cercando le parole giuste per toccare quel punto delicato di una storia che lui conosceva a sommi capi – sono venuto qui per parlarle di una casa…”
“Casa?”
“A qualche isolato da qui, ecco… il sindaco mi ha detto che è sua, anche se forse lei non ne è a conoscenza. Era dei suoi genitori ed a quanto pare è di sua proprietà”.
Vato non aveva mai visto Laura in versione gelida e quindi rimase sorpreso nel vedere il rapido cambiamento nel suo viso morbido e sereno: fu come se un’altra persona si impossessasse di lei, stravolgendo in qualche modo i lineamenti, rendendoli più duri, la mascella irrigidita, mentre gli occhi grigi si facevano inespressivi.
“Non avevo idea…”
“A quanto pare i suoi genitori diedero disposizioni di venderla, ma venne data solo in affitto. E dato che anche gli affittuari sono deceduti da tempo, adesso è tornata a lei”.
Laura annuì a quella spiegazione e si mise a braccia conserte: il suo viso aveva recuperato un minimo d’espressività e si era fatto più pacato, come se si fosse resa conto che ambasciator non porta pena e dunque non era il caso di prendersela con Vato.
“Come mai sei venuto a parlarmi di quella casa?” gli chiese con curiosità.
“A dire il vero avrei voluto chiederle se le andava di venderla… per me ed Elisa una volta che ci saremo sposati. Però mi rendo conto che, ora che sa di possederla, vorrà tenerla per Heymans ed Henry”.
“I miei figli in quella casa? – la donna scosse il capo con decisione – No, proprio no: non potrei metterci piede dopo quello che ho vissuto lì anni prima”.
“Però loro avrebbero il diritto se decidere o meno, non crede?”
“In altre circostanze direi di sì – annuì Laura – ma… ti giuro, Vato, in quella casa ho sofferto troppo e non voglio che abbia a che fare ancora con la mia famiglia. Sono sicura che i ragazzi capiranno questa mia scelta se e quando deciderò di dirglielo”.
“Come… non vuole parlarne con loro?”
“Del resto fino a qualche minuto fa nemmeno io sapevo di esserne la proprietaria. E se quella casa può costituire un nuovo inizio per te ed Elisa sarò più che felice di vendervela: sono sicuro che sarete una splendida famiglia, al contrario di quello che è stata la mia”.
“Voglio che Elisa si affermi come medico – disse Vato con decisione – voglio che sia soddisfatta della sua carriera, voglio che sia fiera di essere mia moglie. E non voglio che la gente di questo paese possa condizionare la nostra vita”.
“Ehi, che dichiarazioni di guerra – si sorprese Laura – ancora problemi coi pazienti di Elisa?”
“Qualcosa che non ci deve obbligare a scegliere tra matrimonio e carriera”.
“Ti va di raccontarmi?”
Vato esitò per qualche secondo, ma poi il ricordo di quanto aveva passato quella donna, di tutti i pregiudizi che aveva dovuto sopportare, gli fece capire che era la persona giusta con cui confrontarsi. E così iniziò a parlare.
 
“Beh, Robert, mi pare tutto in ordine – sorrise Elisa, mentre faceva fare delle rotazioni al braccio del suo piccolo paziente, comodamente seduto nel lettino dell’ambulatorio – non senti nemmeno un po’ di dolore, vero? Possiamo rimettere il maglione”.
“Proprio no! – rispose il bambino con orgoglio – Nessun dolore!”
“Bene, allora possiamo aspettare che tua madre arrivi a prenderti: la maestra Clara dovrebbe averla già avvisata. Nel frattempo la vuoi una caramella?”
“Certamente!” esclamò il piccolo, saltando giù dal lettino con agilità.
“Roy, ne prendi una dal barattolo? – chiese la dottoressa, mentre sistemava meglio la copertura del lettino messa a dura prova da Robert – è quello giallo sopra la mensola, lì in alto”.
Robert si stava gustando il suo premio, quando entrò sua madre con fare trafelato.
“Cielo, Robert! Piccolo mio, come ti senti? – chiese affannosamente, accostandosi al bambino ed abbracciandolo – La tua maestra mi ha detto della caduta!”
“Sto benone, mamma – rispose il bimbo con un sorriso, muovendo il braccio – la dottoressa Elisa l’ha sistemato… e non ho dovuto contare nemmeno fino a dieci!”
“Va tutto bene, signora – si affrettò ad intervenire Elisa – la lussazione è stata sistemata subito. Magari nei prossimi giorni è meglio che il bambino non faccia giochi troppo esuberanti, ma per il resto…”
“… e il dottor Lewis l’ha visto?” chiese la donna, prendendo in braccio il figlio.
A quell’affermazione un lieve rossore apparve sulle guance di Elisa.
“Beh no, ma ci ho pensato io e le assicuro che…”
“Vorrei che lo vedesse lui, se non le dispiace” la interruppe con fare deciso.
“Eh? – si sorprese il bambino – Ma io sto bene, mamma”.
“Non lo sappiamo ancora, tesoro”.
“La dottoressa Meril è stata veramente professionale – intervenne Roy con voce pacata – e suo figlio ha ricevuto le migliori cure che potesse avere, signora”.
“Ritengo sia mio diritto voler chiedere l’opinione del dottor Lewis – ribatté piccata la donna – del resto è il medico di Robert si da quando è nato. E la signorina è…”
“… è un eccellente dottoressa per quanto ne so – intervenne il dottor Lewis, entrando dalla porta che collegava l’ambulatorio alla casa – allora, dove sta il problema?”
“Dottore! – sospirò di sollievo la donna – potrebbe controllare il bambino?”
“L’ha già fatto la dottoressa – scrollò le spalle l’uomo – mi ha raccontato la dinamica dei fatti e ha eseguito la stessa manovra che avrei fatto io e che insegnano al corso base di pronto soccorso. Dimmi, Robert, ti fa male il braccio?”
“Proprio no!”
“Se non sente dolore vuol dire che la manovra per rimettere in sede l’osso è stata eseguita nel modo corretto. Non c’è prova migliore del fatto che il bimbo non senta alcun male”.
“Però la fiducia che ripongo in lei…”
“Se ripone fiducia in me, allora si fidi del mio parere: la dottoressa Meril ha fatto un lavoro egregio ed io stesso non avrei saputo fare di meglio. Adesso direi che dovrebbe ringraziarla e poi tornare a casa: è quasi ora di pranzo e Robert avrà di certo fame”.
“… ma… ma certo – la donna arrossì colpevolmente, sebbene fosse chiara la sua insoddisfazione per non aver ottenuto quanto voleva – grazie per aver soccorso il mio bambino, dottoressa. Auguro a tutti una buona giornata”.
“Grazie ancora, dottoressa Elisa!” salutò con un sorriso Robert, mentre usciva assieme alla madre.
“Ipocrita…” sibilò Roy non appena la porta si chiuse.
“Benvenuto nella mia quotidianità. Almeno questa volta c’era un bambino più che soddisfatto” commentò Elisa con un sospiro.
Era chiara la sua delusione: era intervenuta in maniera egregia solo per vedere il suo lavoro sminuito dai pregiudizi di una donna che avrebbe dovuto solo ringraziarla. A Roy fece male vederla in un simile stato d’animo, non se lo meritava: ancora di più capì perché si poneva tutti quei problemi per il suo matrimonio con Vato.
Sul serio devono essere condizionati in una simile maniera? Dannazione, non è giusto che affronti un simile trattamento ogni giorno!





________________________
La questione della casa dei genitori di Laura se la ricorderanno (forse) quelli che hanno letto Walks of life, ma in ogni caso qui è spiegata nei dettagli (anzi, molto più dettagliatamente rispetto allo spin off).
Oggettivamente stava venendo davvero un capitolo lungo e così ho deciso di spezzate ^^'




 

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Capitolo 24. Lato oscuro ***


 

Capitolo 24. Lato oscuro.

 


 
 
“Santo cielo! Certo che capisco bene quello che sta passando la tua fidanzata! Credimi, Vato Falman, ti assicuro che solo poche cose sono maligne quanto i pettegolezzi di cui sono capaci diverse persone di questo paese. Sembra un posto idilliaco, ma ti assicuro che ci sono più lati oscuri di quanto tu possa immaginare. Elisa sta combattendo una battaglia contro grossi pregiudizi, ne so qualcosa!”
Le parole della signora Laura continuavano a risuonare nella testa di Vato mentre camminava per le strade del paese, incerto se tornare a casa o proseguire nel suo vagabondare. Era stato davvero strano passare quella mezz’ora assieme a lei: per quanto la conoscesse da anni non aveva mai avuto con lei nessuna conversazione che andasse oltre normali argomenti. Non poteva immaginare quanto quella signora dall’aria così tranquilla potesse rivelarsi decisa e fin troppo velenosa nei confronti delle altre persone. Era incredibile come la sua voce, i suoi occhi e la sua espressione fossero in grado di cambiare quando qualcosa la contrariava nel profondo.
Beh, certo che lei ha lottato per anni contro i pregiudizi… e anche in maniera molto più profonda rispetto a quello che sta vivendo Elisa.
In ogni caso la conversazione con la signora Laura era servita a schiarire del tutto le idee al ragazzo.
Era arrivato alla convinzione che Elisa stesse sbagliando nel voler organizzare la sua vita in funzione di quelle persone. Matrimonio ed eventuali figli non dovevano trovare interferenze da parte di un paese che aveva difficoltà ad accettare un dottore femmina: fare il contrario sarebbe equivalso a dare ragione a tutta quella gente bigotta.
Va bene compromessi come quelli che fa in ambulatorio, ma annullare la sua vita personale proprio no.
In qualche modo avrebbe dovuto far ragionare la sua fidanzata su questi particolari punti: bisognava trovare l’approccio giusto, in modo da non indispettirla troppo, era chiaro. Era necessaria parecchia diplomazia.
“Vato Falman, proprio tu! – la voce di Roy lo riscosse – Ti stavo cercando da almeno dieci minuti!”
“Sì? – si perplesse il giovane, mentre il soldato lo raggiungeva – Ero dalla signora Laura per alcune questioni da chiarire, sono uscito ora. Come mai mi stavi…”
“Ovviamente è imperativo risolvere questa questione di Elisa” disse senza mezzi termini il moro.
“Questione di Elisa? – Vato sentì i peli nella nuca rizzarsi pericolosamente, mentre un brivido gli attraversava la schiena nonostante il pesante cappotto. Subito si ricordò delle brevi ma compromettenti confessioni che aveva fatto la sera prima e capì con terrore che il suo miglior amico aveva deciso di intervenire per sistemare le cose – No, aspetta, non mi pare il caso… in fondo credo che la cosa riguardi esclusivamente me ed Elisa, non ti pare?”
“Certamente la sistemerete voi due – annuì Roy con una lieve smorfia di disappunto, come se non riuscisse a credere che, dopo così tanti anni, ancora il suo amico non capisse come funzionava il suo modo di agire – per chi mi hai preso, per un ficcanaso? Parlavo della questione Elisa in quanto medico: è ora che questo arretrato paese si accorga di quanto è fortunato ad averla”.
“Su questo, in linea di principio, sono d’accordo. Però è una cosa che richiede tempo, non ci si può fare molto. Insomma, non si può forzare la gente a farsi curare da lei se non si fida: sarebbe una mossa controproducente, a prescindere dalla sua bravura. Il dottor Lewis ha detto…”
“Oh, andiamo! Eppure tu sei stato ad East City per ben tre anni! Sai che i ritmi cittadini sono ben diversi e non ci vedo nulla di male nel portare un minimo di velocità moderna in questa campagna: sono certo che tutti ne trarranno giovamento. E tu, amico mio, dovresti fidarti di me: sai bene che ottengo sempre quello che voglio!”
“Già…” sospirò Vato, evitando accuratamente di dire che molto spesso il risultato veniva ottenuto dopo svariati disastri e non come previsto dal piano originario.
“Senti la mia idea e dimmi se non ho ragione. Allora, stamane sono andato a parlare con Elisa e…”
Hai fatto cosa?! Ma Roy!”
“… lasciami parlare! E poi sappi che è dispiaciuta per quanto è successo: ti ritiene il fidanzato migliore del mondo e si sente molto in colpa per quella piccola discussione. Avreste fatto pace comunque, siete troppo piccioncini per restare a lungo col broncio!”
“Piccioncini! Ma dai!” il giovane studioso arrossì vistosamente a quell’epiteto, sebbene una parte di lui fosse felice e lusingata per quei complimenti che Elisa, sebbene in maniera indiretta, gli aveva rivolto.
“Come dicevo, il vero problema è l’atteggiamento di diffidenza che la gente ha nei suoi confronti. Stamane mentre passeggiavamo ha soccorso un bambino che si era lussato la spalla mentre giocava durante la ricreazione: è stata fantastica, te lo giuro, e ha trattato il bambino in maniera dolce e tranquillizzante. Qualunque madre cittadina sarebbe stata felicissima di sapere il proprio figlio nelle mani di una dottoressa così brava…”
“… e invece?”
“… invece quella chioccia della madre è venuta tutta trafelata in ambulatorio pretendendo che il dottor Lewis visitasse di nuovo il figlio. Meno male che il nostro vecchio medico l’ha messa in riga e le ha fatto anche ringraziare Elisa, ma se non ci fosse stato lui… e fa rabbia: il bambino non provava più nessun dolore, era come nuovo!”
“È la prima volta che Elisa ha occasione di curare una cosa un po’ più grave di un mal di testa o di una sbucciatura. Almeno un minimo di soddisfazione l’avrà avuto” cercò di conciliare Vato.
“Però ho notato una cosa molto interessante – lo bloccò Roy, mettendogli una mano sulla spalla e guardandolo con aria furba – quando la tua fidanzata ha curato il bimbo nel cortile della scuola, diverse maestre le hanno fatto i complimenti, per non parlare dei bimbi!”
“Vedi? – Vato si aggrappò con sollievo a quel passo in avanti – Le cose cambiano piano piano: oggi sono le maestre delle elementari, domani chissà. Devono solo vederla all’opera per capire quanto è brava”.
“Hai proprio colto nel segno! – esclamò il soldato con entusiasmo – Cinque anni di amicizia ti hanno fatto recepire il mio modo di pensare, Vato Falman!”
“Ma io…” annaspò l’altro senza capire, ma intuendo che il fatidico piano geniale era già stato deciso.
“Basterà semplicemente che qualcuno si faccia male davanti a mezzo paese e che Elisa intervenga. Davanti ad una simile evidenza anche i più scettici dovranno arrendersi, no?”
 
In tutti quegli anni che aveva avuto a che fare con i Falman, Roy non si era mai trovato davanti a padre e figlio coalizzati assieme contro di lui. Al massimo Vato aveva espresso qualche perplessità, lasciandosi poi coinvolgere nelle sue iniziative, ma mai una volta si era opposto in maniera veramente palese e decisa.
Di conseguenza era stato totalmente impreparato quando il suo amico l’aveva afferrato per un braccio, senza dire una parola, e l’aveva trascinato fino alla stazione di polizia, nell’ufficio del capitano. Una volta lì, davanti alla scrivania del poliziotto che li fissava perplesso, si era limitato a dire un impassibile “Avanti, ripeti quello che hai detto a me” .
E ovviamente Vincent Falman non era stato molto felice di sentire del piano ideato.
“E mi chiedi perché ti faccio questo? – proprio Vato lo fissò incredulo, ridestandolo dai suoi pensieri circa quello strano tradimento – Roy, non possiamo provocare un incidente solo per permettere ad Elisa di mostrare quanto è brava come medico!”
“Tra tutte le idee malsane che hai avuto, questa è la peggiore – sbottò Vincent, cercando di mantenere una calma che chiaramente non provava, come testimoniava la vena sulla tempia che pulsava ferocemente – giuro che ti arresterei seduta stante! Ti avviso, ragazzino, non giocare col fuoco, non giocare con me! Sono tollerante perché ti conosco bene, ma a tutto c’è un limite. Provocare il deliberato ferimento di una persona è reato, cosa non ti è chiaro in questo concetto? All’Accademia militare un minimo di legislazione non ve la inculcano?”
“Ma sarà solo un incidente leggero, non ci saranno feriti gravi! – spiegò Roy con esasperazione – magari urterò accidentalmente una persona facendola cadere o qualcosa di simile. Mi assicurerò che non si tratti di anziani o altre persone con difficoltà e…”
“Intendi scegliere anche la vittima? Dannazione, la tua mente criminale non ha limiti! – il capitano sbatté con forza la mano sulla scrivania e poi si portò davanti al suo protetto, arrivando a prenderlo per il colletto – Ascoltami bene, moccioso, questo è il mio dannato paese, chiaro? Finché sono in carica io, ma anche finché sono vivo, tu non commetterai nessun’azione che abbia ripercussioni fisiche su terzi, mi sono spiegato bene?”
“Ma capitano, lei non capisce che…”
“Io capisco benissimo, invece! E proprio perché capisco ti proibisco di portare avanti il tuo insano proposito! A volte mi chiedo come tu stesso non capisca la follia delle tue idee!”
“E nel frattempo lasciamo Elisa in mano a quel branco di ingrati? – sbottò Roy, liberandosi da quella presa con aria sfastidiata – Lasciamo che lei e Vato abbiano problemi col loro matrimonio solo perché la gente pensa male di un dottore femmina? Signore, lei dovrebbe avere più a cuore la felicità di suo figlio!”
“Grazie per la discrezione!” arrossì violentemente Vato.
Vincent rimase qualche secondo in silenzio, lanciando una rapida occhiata al figlio, prima di puntare di nuovo lo sguardo sul soldato. Fece un profondo sospiro, quasi a prendere tempo, e poi risposte con voce calma.
“Dopo tutti questi anni hai ancora qualche dubbio su quanto tenga alla felicità delle persone presenti in questa stanza? Mi deludi, Roy. Credi che non mi sia accorto che qualcosa non va? Semplicemente credo che sia giusto lasciare a Vato il suo spazio, il diritto di risolvere i suoi problemi da solo… e lui sa benissimo che nel caso abbia bisogno di me e sua madre non ha che da chiedere. E la medesima cosa vale per te”.
“Però…”
“Però niente – scosse il capo Vincent, con sguardo più sereno – so benissimo che tu stai agendo come un fratello e niente mi rende più felice di questo legame tra voi. Ma ci sono modi e modi, ragazzino, e fare del male ad una persona non è qualcosa di accettabile. Se solo Elisa venisse a saperlo non te lo perdonerebbe mai, te ne rendi conto?”
Roy fece un’espressione tra l’esasperato ed il rassegnato, segno che stava finalmente cedendo al buon senso.
“Secondo me aspettare le tempistiche del paese non è giusto…” mormorò infine.
“Giusto o meno che sia, non spetta a te deciderlo – chiuse il discorso Vincent, dandogli un lieve buffetto sulla guancia – adesso sparite, ragazzi, ho parecchie cose da fare”.
Roy annuì e con un cenno del capo uscì dall’ufficio del capitano. Vato invece, dopo un’iniziale intenzione di seguire l’amico, decise di fermarsi ancora qualche minuto e si accostò al padre.
“Senti…” iniziò con imbarazzo.
“Solo se ne vuoi parlare, figliolo – lo rassicurò l’uomo – non ti devi sentire obbligato”.
“Non vorrei che ci restassi male”.
“Di certo non metto il broncio come il nostro scalmanato soldato. Sono questioni personali ed il mio aiuto o consiglio verrà elargito solo se richiesto: è anche una questione di rispetto nei tuoi confronti”.
“Ammetto che sapere una tua opinione non mi dispiacerebbe – confidò Vato con aria di scusa – a sentire diverse campane ci si può confondere. Ma quello che pensa mio padre è ben differente”.
A quella dimostrazione d’affetto filiale, Vincent sorrise e posò una mano sulla spalla del figlio.
“Sulle prime pensavo che l’idea di sposarvi entro l’anno fosse troppo prematura e ammetto che lo penso ancora, specie quando vedo quanto sia stagnante la situazione di Elisa. Ma vedo anche quanto tu e lei siate maturati in questi mesi e ciò mi convince che la vostra decisone è giusta, a prescindere da quanto possono dire gli alti. È la vostra vita e avete il diritto di viverla come ritenete giusto… e no,non credo che le voci del paese debbano interferire con la vostra relazione”.
“Mi fa piacere sentirtelo dire – sorrise compiaciuto Vato, mentre un lieve rossore compariva sul viso pallido – sono le stesse conclusioni a cui sono arrivato pure io”.
“E pure tua madre la pensa come me, fidati. Qualche altro dubbio?”
Vato stava per fare un cenno di diniego, ma poi si ricordò dei discorsi fatti dalla signora Laura a proposito della casa dei suoi genitori e del non dire nulla ad Heymans ed Henry.
“A dire il vero un altro consiglio mi farebbe comodo…” cominciò.
 
Quel pomeriggio Roy non uscì, ma rimase in camera sua a riflettere sugli avvenimenti di quella mattina.
Il suo viso avvenente aveva assunto un’espressione contrariata, non dissimile da quella del ragazzino adolescente che spesso si era trovato in netto contrasto col paese dove era costretto a vivere. E ancora una volta accadeva la stessa cosa, sebbene non fosse più impossibile prendere un treno ed andare via. Ma non era da lui fuggire davanti a degli ostacoli, specie se i problemi riguardavano qualcuno dei suoi amici.
In cuor suo infatti era convinto che Vato e suo padre si sbagliassero e che fosse necessario qualche gesto eclatante per dare una smossa al torpore della gente nei confronti di Elisa.
A mente fredda l’idea di ferire volontariamente una persona gli appariva stupida ed in qualche modo orribile.
Da quando sei diventato così freddo e calcolatore, Roy? – si chiese, guardando il soffitto – Va bene che non vuoi ferire in maniera grave, ma comunque si tratta di un’innocente.
Spietatezza, era questa la parola che aleggiava fastidiosamente nella sua mente. E per quanto facesse di tutto per dirsi che non era vero, non veramente, non poteva fare a meno di considerare che c’era un fondo di concretezza. Era una parte di lui decisamente oscura, ma era da sciocchi pensare che le persone fossero esclusivamente bianche o nere: le sfumature di quei colori erano molteplici in positivo e in negativo.
Sì, tu sei disposto a tutto per ottenere i tuoi obbiettivi, anche ad andare fuori dal seminato. Ma devi dare una regolata alle tue ambizioni, Roy. Anche se…
Anche se quello che gli dava fastidio era che il presunto innocente ad essere ferito era una delle persone che tanto criticavano Elisa e dunque, in qualche modo, un avversario.
Calma, ragazzo, non sei in Accademia né in guerra: questo è solo il tuo angolo di mondo in cui devi accettare che ci siano modi di pensare che non vanno bene con te.
I suoi pensieri furono interrotti dal bussare alla porta e dalla conseguente comparsa di Riza.
“Ciao, colombina – la salutò, rizzandosi a sedere – non sapevo saresti passata a trovarmi. In genere vengo io a casa tua”.
“Mi sono liberata prima del previsto da alcune commissioni e ho pensato di passare – sorrise lei, levandosi il cappotto e posandolo su una sedia e andando poi a sedersi accanto a lui – del resto mi pare giusto approfittare di ogni momento libero a disposizione: la settimana prossima riparti e chissà quando rientri. Ehi, ma questa faccia?”
Roy fece una smorfia con le labbra: si era dimenticato di assumere un’espressione più rilassata ed era stato facile per Riza indovinare che qualcosa turbava i suoi pensieri. In genere non si preoccupava di nascondere il suo stato d’animo davanti alla fidanzata: lui e Riza erano stati schietti sin da quando, da ragazzi, si incontravano in quella piccola radura che fungeva da loro rifugio segreto. Nessuno dei due si preoccupava di nascondere se era turbato o meno,certo che avrebbe trovato nell’altro la giusta comprensione o discrezione, a seconda dei casi. Le cose non erano cambiate nemmeno quando si erano fidanzati e, se doveva essere sincero, a Roy piaceva avere una persona a cui mostrare i suoi momenti di debolezza, un sostegno su cui fare affidamento.
Ma in questo caso i miei pensieri non erano proprio belli.
“Niente – si trovò a dire – semplicemente mi arrovellavo per aiutare Elisa ad ottenere la stima della gente”.
“Ah sì. Ho sentito parlare dell’episodio di stamattina: Kain mi ha raccontato che ha aiutato un bambino che si era fatto male durante l’intervallo. Non ti preoccupare, grande eroe, sono sicura che Elisa sa bene il fatto suo e riuscirà ad ottenere grandi risultati”.
“Tutti a farmi la predica sul fatto che non devo intervenire – sbuffò Roy, mettendosi a braccia conserte e lasciandosi ricadere indietro nel letto, le sue ciocche nere che andavano a sfiorare la parete – la fiducia nei miei confronti è sempre la stessa a prescindere dagli anni che passano”.
“Che vorresti dire?”
“Niente, ho avuto una piccola discussione con il capitano Falman”.
“Certe cose sono davvero eterne – ridacchiò la bionda passandogli una mano tra i capelli sottili – non te la prendere, soldato, il mondo non potrà mai fare a meno di te, anche se il nostro capitano ti limita nell’agire”.
Le dita di lei erano incredibilmente delicate mentre continuavano ad accarezzargli la chioma: provocavano piacevoli brividi di piacere, specie come tornavano all’attaccatura sulla fronte. Roy si trovò a chiudere gli occhi e crogiolarsi in quel momento intimo con la fidanzata: tutti i suoi pensieri negativi sparirono come neve al sole.
“Dannazione, Riza, con che coraggio riparto tra una settimana?” chiese, allungando il braccio e trovando la vita della fanciulla. Con dolcezza la costrinse ad adagiarsi sul letto, in parte sopra il suo petto.
“Dipendesse da me ti direi di restare – la voce di lei era morbida e sensuale, ben lontana da quella che spesso gli faceva le prediche o lo riportava alla ragione. Ben distante anche da quella timida ed insicura della ragazza spaventata davanti al futuro che l’attendeva – mi sei mancato in queste settimane”.
Era davvero strana quella situazione: sebbene fossero stati spesso abbracciati l’uno all’altra, magari nei campi abbandonati, mai e poi mai era accaduto sul letto di uno dei due. Questo provocò in Roy un nuovo brivido d’aspettativa: di colpo gli tornarono in mente le parole che si erano detti il giorno prima, il nuovo spirito d’iniziativa di Riza.
Sarebbe davvero approfittarne? – si chiese, mentre la cingeva con maggiore forza e le loro labbra si incontravano – Del resto prima o poi deve succedere.
Lei non sembrava dispiaciuta di quell’iniziativa: le sue labbra ricambiarono il bacio con intensità e il suo corpo non oppose nessuna resistenza a quel nuovo abbraccio che la spingeva ulteriormente contro il corpo del soldato. La morbidezza del suo seno era incredibilmente tangibile e non importava se la pressione esercitata gli stava premendo la chiusura di una medaglietta della camicia militare contro il petto: a ben pensarci era una piccola forma di dolore che in quel momento non faceva che elettrizzarlo maggiormente.
La cinse anche con il secondo braccio e la costrinse ad andare ulteriormente sopra di lui. Le accarezzò i fianchi con estrema precisione, restando in quel preciso confine tra seni e vita: senza salire troppo, senza scendere troppo… una sfida, un gioco di attesa, un qualcosa che non aveva mai fatto con la vecchia Riza.
Ma la nuova Riza non si ritrae davanti a queste iniziative…
Fu un pensiero fugace, ma era chiaro che lei in quel momento ci stava. Non si era ritratta e se si era irrigidita per quelle carezze era stato solo per un secondo. Le sue labbra non avevano smesso il contatto, le sue dita non avevano smesso di giocherellare in maniera sensuale con la sua chioma scura.
Il suo collo… che sapore ha il suo collo?
Con un sospiro Roy si staccò dalle labbra della fidanzata. Aprì gli occhi e la guardò, chiedendosi quanto fosse consapevole della carica sessuale di quel momento. E lei era incredibilmente bella con la capigliatura raccolta dalla quale erano sfuggite alcune ciocche ribelli che ora ciondolavano davanti a lui, sfiorandogli il naso e provocando un lieve solletico. Gli occhi castani erano socchiusi, languidi, deliziati dalle sensazioni che sicuramente stava provando. Le labbra ancora socchiuse erano arrossate, così come le guance.
Il collo… il suo collo… devo sapere che sapore ha! – si disse Roy, cercando di riscuotersi da quella strana ipnosi reciproca. Chiuse gli occhi, a spezzare l’incantesimo, e sollevò leggermente il viso per riprendere a baciarla. Ma questa volta puntò al mento, per poi scendere su quel collo che improvvisamente aveva assunto un’importanza fondamentale.
La pelle era setosa, morbida, eppure c’era qualcosa di strano nel movimento della carotide. Era come se gli trasmettesse tutta la vita che pulsava dentro la sua fidanzata. Una minuscola parte della sua mente si ricordò di una vecchia storia di vampiri che aveva letto da ragazzo: quelle creature della notte mordevano le loro vittime sul collo e adesso capiva il motivo.
Ma lui non ebbe la forza di affondare i denti in quella pelle perfetta. Preferiva gustarla con le labbra, sentendone il sapore dolce, assaporando quella novità che si erano concessi.
L’ansito di lei provocò una nuova scarica di energia e un’involontaria, sebbene prevedibile, reazione che lo portò a sollevare il bacino.
“Ehi – sospirò, tornando a fissarla – sul serio, Riza, dimmi se vuoi farlo adesso. Perché o mi fermo subito o non sarò in grado di farlo dopo…”
Sei un coglione! – si disse, ben consapevole di aver spezzato un incantesimo che avrebbe portato ad una giusta conclusione.  Ma una parte di lui gli diceva che Riza non era del tutto pronta ad andare in fondo. E quando vide una piccola, ma fondamentale, componente di sollievo nei suoi occhi castani ne ebbe la conferma.
“Io… io…” balbettò la fanciulla con l’accenno di una lacrima nell’angolo dell’occhio destro.
“Va bene così, sul serio – sorrise lui, sollevandosi in posizione semi seduta. Questo provocò un contatto tra il suo bacino e la parte intima di lei che ancora stava a cavalcioni sopra il suo corpo. Certo c’erano i vestiti ad ostacolare,ma Roy fu sicuro di sentire l’ondata di calore che pervadeva entrambi – Forse è meglio che scendi. E non ti preoccupare… come ti ho detto non devi forzare nulla”.
Riza scese e immediatamente recuperò una posizione più casta al bordo del letto, le gambe serrate con forza quasi a volersi proteggere. Tuttavia non poteva nascondere il rossore eccitato che ancora le pervadeva le guance, così come le ciocche che cadevano disordinate sul viso. E soprattutto c’era quel lieve segno sul collo, proprio sopra il maglioncino.
“Mi sento una stupida – sospirò con voce tremante lei, girandosi verso la porta per non far vedere l’espressione delusa – non so proprio cosa mi è preso”.
“Ardore giovanile?” propose Roy, ritrovando un pizzico del suo solito sarcasmo.
“A te non dispiace?”
“Che abbiamo interrotto? Beh, piacere non mi ha fatto – scrollò le spalle, recuperando la compostezza e passandosi una mano tra i capelli arruffati – ma credimi, preferisco un’interruzione piuttosto che un tuo rimpianto per aver bruciato le tappe. Specie perché dovendo partire sarebbe un bel guaio non esserti accanto se ti trovi in difficoltà”.
“Già… come se la storia di Rebecca non mi avesse insegnato nulla – Riza si alzò e fissò il pavimento con stizza – sono proprio una sciocca!”
“Non sei una sciocca – sorrise Roy – mi hai risollevato un pomeriggio che si prospettava davvero deprimente. Ti va di fare un giro? Adesso non ho proprio voglia di stare qui a crogiolarmi nei miei cupi pensieri”.
“Volentieri – sorrise lei, ritrovando il buonumore – piuttosto, di che cupi pensieri si trattava? Mi hai parlato di una discussione col capitano Falman, però non hai specificato altro”.
“Niente, solo di quanto il mio carattere sia troppo impulsivo e stupido. Ma per fortuna ci sono persone come il nostro buon capitano a ricordarmelo”.
 
Il giorno dopo, la mattina, Vato uscì dall’ufficio postale con aria soddisfatta.
Aveva spedito una lettera ad Heymans dove gli spiegava le vicende relative alla casa dei suoi nonni. Alla fine era arrivato alla conclusione che era giusto che almeno il maggiore dei Breda sapesse di quella proprietà ed era convinto che il suo amico avrebbe avuto la giusta discrezione nel non parlarne con la madre. Una volta avuta la sua risposta avrebbe agito di conseguenza.
“Ehilà, Vato! – una ben nota voce lo fece fermare – Aspettami!”
“Ciao, Elisa – sorrise timidamente, mentre la fidanzata lo raggiungeva. Fu tentato di darle un bacio, ma si trattenne: non aveva idea se lei avesse già voglia di fare pace – non sei a lavoro?”
“Sono andata a consegnare un medicinale ad una signora – spiegò lei, mentre riprendevano a camminare – è malata e non è indicato farla uscire con questo freddo. Tu invece?”
“Mattinata libera e ne ho approfittato per spedire una lettera”.
“All’Università? Qualche tuo docente?”
“No, non proprio – scosse il capo lui, decidendo di non dirle nulla a proposito della casa: non ne valeva la pena fino a quando non riceveva la risposta di Heymans – niente di importante. Ti posso riaccompagnare all’ambulatorio?”
“Volentieri” sorrise lei, infilando con disinvoltura il braccio sotto il suo.
Fu un contatto spontaneo, ma ebbe il potere di irrigidire Vato che, per qualche secondo, ebbe difficoltà a coordinare i suoi passi con quelli della fidanzata. Tuttavia quel gesto poteva voler dire solo una cosa.
“Allora… tutto bene?” si azzardò a dire.
“Nel senso che mi sento una sciocca per quel litigio che abbiamo avuto? – sorrise lei, guardandolo negli occhi – Sì, tutto bene. Mi perdoni per essere stata così scontrosa?”
“Oh Eli, non c’è niente da perdonare” d’istinto la stretta sul braccio di lei si fece più stretta, quasi sentisse l’esigenza di un contatto fisico maggiore dopo quella giornata di separazione.
Si scambiarono uno sguardo complice e fu come se quella piccola nube che aveva oscurato il loro rapporto venisse scacciata via da una brezza pulita. Sorrisero all’unisono e forse uno dei due avrebbe iniziato un discorso.
Ma il rombo di una moto insolitamente forte, unito ad alcune grida li fece girare di scatto.
Non può essere stato così stolto da farlo davvero! – inorridì Vato, mentre il cuore gli balzava in gola.
“Santo cielo! – Elisa strillo, staccandosi immediatamente da lui e correndo verso il posto dell’incidente a poche centinaia di metri da loro – Roy! Roy! Presto qualcuno mi aiuti a sollevare quella moto! Dobbiamo portarlo subito in ambulatorio!”
 
La prima cosa che Roy percepì fu un forte cerchio alla testa a cui si unì immediatamente un senso di amaro in bocca. Provò ad aprire le labbra, ma le sentì fastidiosamente gonfie e poco propense a collaborare.
Poi, col passare dei minuti, il dolore in tutto il resto del corpo iniziò a fare la sua comparsa. Cercò di cambiare posizione, ma scoprì di essere estremamente debole e soprattutto immobilizzato.
L’unica parte che sembrava collaborare era la testa, sebbene gli occhi non volessero saperne di aprirsi: riuscì a muoverla leggermente da entrambi i lati, sebbene questo gli provocò un forte senso di nausea.
“Forse si sta svegliando! Che sollievo!” sospirò una voce accanto a lui.
“Sì? Meno male! Dannazione a lui, deve solo ringraziare di essere ridotto così male, altrimenti gli farei passare la peggior mezz’ora della sua vita!”
“Vincent, smettila. Guarda com’è ridotto!”
“Lui e quella sua moto infernale! Sono felice che sia ridotta in modo tale da non poter più essere usata. Sapevo da principio che rischiava di lasciarci le penne questo idiota!”
“Tieni un tono di voce basso, deve avere un forte mal di testa”.
“Con un simile bernoccolo ci credo… e meno male che non c’è trauma cranico. Gli è andata di lusso considerato che la moto gli è finita addosso dopo la caduta”.
A quel punto gli occhi di Roy parvero collaborare e finalmente riuscì ad alzare le palpebre. La luce era soffusa, non gli dava fastidio, ma ebbe qualche difficoltà a mettere a fuoco il posto dove si trovava.
“Roy! – subito la signora Falman gli fu accanto – Caro, riesci a sentirmi?”
“S… signora…” mormorò con voce roca.
“Hai avuto un brutto incidente con la moto – spiegò la donna, tamponandogli le labbra e le guance con un fazzoletto umido – sei stato privo di sensi per ore! Tu non sai che paura quando ti ho visto in quelle condizioni, in strada… con tutto quel sangue!”
“Ci hai fatto perdere anni di vita – lo rimproverò il capitano Falman, facendosi avanti a braccia conserte: dal visto tirato si capiva che aveva passato delle ore tremende pure lui – mi dici che cosa ti è saltato in mente?”
“Si… si è fatto male… qualcuno?”
“Solo tu – lo rassicurò Rosie, prendendogli la mano destra – non preoccuparti. Ma ti sei ferito in modo davvero grave: hai un osso della gamba fratturato, il polso slogato, e così tante escoriazioni… per non parlare del bernoccolo in testa”.
“Acqua…” mormorò il soldato, chiudendo gli occhi con stanchezza.
“Certo, vado a prendertela”.
Sentendo i passi che si allontanavano, Roy cercò di ricollegare i pezzi di quanto era successo.
Ricordava che in Accademia gli avevano spiegato come attutire al meglio una caduta dalla moto, ma quanto era successo poche ore prima non aveva avuto niente a che vedere con le simulazioni che aveva fatto. Osso della gamba fratturato? Di certo il sinistro: adesso capiva cos’era quel senso di pesantezza. Gli dovevano aver ingessato parte dell’arto.
“Ehi, furfante…” lo richiamo con gentilezza il capitano.
“Sono a casa vostra?” chiese Roy, finalmente riconoscendo la camera degli ospiti di casa Falman.
“Portarti al piano di sopra del locale di tua zia era complicato date le tue condizioni. Sarai nostro gradito ospite per le prossime settimane, almeno fino a quando avrai il gesso alla gamba”.
“Scusi per il disturbo”.
“Più che le scuse per il disturbo mi piacerebbe sapere cosa è frullato nella tua testa – lo sguardo dell’uomo si fece cupo – il giorno prima avevamo fatto un discorso a proposito di un incidente provocato deliberatamente e non mi sembra una coincidenza”.
“Mi è passato davanti qualche animale, forse un gatto – mormorò Roy con voce stanca, guardando con aria stranita il soffitto – ho sterzato per evitarlo, ma l’ho fatto malamente e ho perso l’equilibrio…”
“Dovrei crederti?”
“Non ho ferito nessuno” gli occhi scuri di Roy, sebbene pesti, si puntarono con lucidità sul capitano.
“Hai ferito te stesso, sciocco. Sul serio,Roy Mustang, giuramelo: questo incidente non ha niente a che vedere con il tuo discorso di ieri, vero?”
“Sono andato a trovare Riza e poi sono tornato in paese… in mezzo alla strada è passata una specie di ombra scura – mormorò ancora il soldato, come se fosse un qualcosa di imparato a memoria – ho sterzato per evitarla e sono caduto. Giuro che è la verità”.
Il capitano Falman lo scrutò con attenzione per qualche secondo e poi annuì lievemente. La sua mano si accosto alla testa di Roy e gli accarezzò dolcemente i capelli sporchi. Fu un gesto spontaneo, ma ebbe un potere lenitivo sul giovane che immediatamente si rilassò, chiudendo gli occhi.
“Elisa mi ha curato?” chiese.
“Sì, è stata lei a soccorrerti… adesso starà dormendo esausta in salotto dato che si è rifiutata di andare a casa sua. L’abbiamo costretta a sdraiarsi solo due ore fa, è notte fonda se non te ne sei reso conto”.
“Vato?”
“In camera sua sfinito… sicuramente si starà chiedendo se il suo miglior amico si è bevuto completamente il cervello per avere un incidente simile. E credi che la tua fidanzata non se ne sia andata in lacrime da qui poco prima di cena? O che tua zia non sia preoccupatissima nonostante mantenga la solita facciata di sarcasmo? O che mia moglie non…”
“… e lei?” lo interruppe Roy.
“Sei uno sciocco anche solo a chiederlo, ragazzo”.
Il moro annuì lievemente e proprio in quel momento rientrò la signora Falman con dell’acqua.
Fu questione di poco prima che sprofondasse nell’oblio.
 






_________________
Ciao, rieccomi qui a quasi, ahimè, un mese di distanza dall'ultimo aggiornamento.
Scusate davvero tanto, ma sono parecchio incasinata in questo periodo. Temo che non riuscirò a tornare al solito ritmo di un capitolo alla settimana. Insomma, ci proverò, ma dipenderà da diversi fattori.
Nel frattempo vi lascio con questo capitolo parecchio Roycentrico. Alla fine che sarà successo? Roy si sarà ferito di proposito o sarà stato solo un incidente? Beh, non lo sapremo mai, rimarrà un segreto del nostro soldato e un'intuizione di Vincent Falman.
A presto (si spera)



 

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Capitolo 25. Luna storta ***


 

Capitolo 25. Luna storta.

 


 
 
Nessuno dei coinvolti seppe mai se l’incidente di Roy fosse appunto tale o se fosse invece frutto di quell’assurdo piano di cui aveva parlato a Vato e al capitano Falman.
Sta di fatto che una delle conseguenze fu che Elisa iniziò ad essere vista con occhio maggiormente benevolo da buona parte del paese. Per diversi giorni l’argomento di cui si parlava nei vari negozi e nelle case fu di come fosse stata brava a soccorrere Roy Mustang ,il ragazzo di quel locale particolare che per giunta aveva portato in paese una diavoleria infernale come la moto, con conseguenze più che prevedibili.
Roy in tutto questo gongolava, come se tutto stesse andando come voleva lui. Cosa importava se era disteso a letto con la coscia sinistra ingessata ed il polso destro bloccato da una stretta fasciatura? Sembrava che quegli ingombri, così come il viso pesto e i diversi lividi su tutto il resto del corpo fossero delle cose di secondaria importanza.
A una decina di giorni dall’incidente, dopo che il dolore maggiore era scemato, si godeva la sua convalescenza in casa Falman, amorevolmente accudito dalla signora. Elisa, in accordo col dottor Lewis, aveva decretato che l’ingessatura andava tenuta per almeno altri quindici giorni prima di essere sostituita da una fasciatura più leggera. Di conseguenza la permanenza del soldato in paese sarebbe durata almeno per tutto il mese di febbraio.
L’unica nota dolente era che la moto fosse andata completamente andata: per quanto non fosse proprio un mucchio di rottami, giaceva miseramente nel terreno dietro il commissariato di polizia e l’ingegner Fury aveva dichiarato che ci si poteva fare ben poco. Forse un meccanico di città avrebbe saputo rimetterla in piedi, ma il prezzo sarebbe stato davvero troppo elevato.
Insomma il pericolo moto era stato debellato, con sommo sollievo della maggior parte del paese, Vincent Falman in primis. Gli unici che forse rimpiangevano la fine ingloriosa di quella meraviglia moderna erano i giovani che, ovviamente, erano rimasti incantanti alla visione di quel nuovo mezzo di città.
 “Il mio primo grande acquisto in fumo – sospirò proprio Roy, mentre chiacchierava con Vato – e non posso chiedere un risarcimento a nessuno”.
“Dovresti invece pagare Elisa per lo spavento che le hai fatto prendere”.
“Le cure mediche in questo paese sono gratuite… a meno che uno scemo di mia conoscenza non sia stato appunto così scemo da parlarle di quella discussione che abbiamo avuto e che, ci tengo a precisare, era stata accantonata”.
“Non una parola, ma se permetti la mia fidanzata non è una scema, tanto per riprendere i tuoi termini”.
“Spavento o meno, vedo che è sempre molto soddisfatta di venire a vedere come procedono le mie ferite: finalmente il suo estro di medico sta venendo fuori. Scommetto che mi riprenderò prima del previsto”.
“Ti ha detto che non devi forzare i tempi, lo sai bene. E dubito che mamma ti farà scendere da questo letto prima del consentito”.
“Mi ero dimenticato di quanto potesse esser estremamente premurosa per certe cose”.
“Col suo figliol prodigo ancora di più. Comunque Heymans scende in paese la prossima settimana”.
“Sì? Ottimo! Che ti ha detto a proposito della casa?”
“Dice che per lui non c’è nessun problema se la prendiamo io ed Elisa, ma è indeciso se parlarne o meno con sua madre”.
“Credo che a volte il silenzio sia meglio. Se alla fine quella casa passerà a voi che senso ha discuterne e magari indisporre la signora Laura? Certe volte la discrezione è la carta migliore. Ma conoscendo Heymans sono certo che arriverà alle mie stesse conclusioni”.
“Penso che andrà proprio così” annuì Vato, guardando distrattamente fuori dalla finestra.
“Ehi, ragazzo di pensiero – lo richiamò Roy dopo qualche secondo – ridendo e scherzando questi intoppi sul tuo matrimonio si superano, hai visto?”
Vato non rispose, si limitò a restituire il sogghigno che l’amico aveva appena fatto.
Era davvero difficile resistere a Roy Mustang.
 
Sicuramente la persona più felice del fatto che Roy fosse bloccato in paese era Riza.
Dopo l’iniziale spavento e l’ovvia dose di rabbia nei confronti dell’imprudenza del fidanzato, si era scoperta intimamente grata di poter godere della sua presenza. Certo non potevano passeggiare o uscire, ma era bello per una volta tanto non avere un conto alla rovescia così ravvicinato per la prossima partenza.
Essendo una ragazza particolarmente metodica trovava piacevole avere quelle visite perfettamente inserite nello schema della sua quotidianità: una visita a metà mattina, quando scendeva in paese per fare commissioni e poi una il pomeriggio, in modo da essere a casa in tempo per aiutare per la cena.
E, oggettivamente, avere un Roy Mustang per una volta tanto fermo e dunque senza possibilità di disastri era un vero e proprio sollievo.
“Comunque è un vero peccato – sospirò Kain una domenica mattina, mentre osservava la sorella sistemare in un cestino il dolce che aveva fatto per il fidanzato – avrei tanto voluto salire sulla moto almeno una volta”.
“Non farti scappare queste cose davanti alla mamma – lo avvisò Riza – quando ha saputo dell’incidente credo le sia venuto un mezzo infarto all’idea che ci poteva essere uno di noi due sopra la moto”.
“Già – sospirò il ragazzo, prendendo alcune briciole che erano rimaste sul piatto dove la torta era stata tagliata e mettendosele in bocca – comunque è un vero peccato. Starò ben attento a non distruggere la bici in un modo così brutto”.
“E soprattutto distruggere te stesso. Comunque avvisa la mamma che poi passo anche da mio padre, oggi è giorno di spesa e pulizia: torno più tardi del previsto”.
“Va bene”.
Come rimase solo in quella cucina, Kain sospirò con malinconia.
In genere era un ragazzino positivo e poco incline a momenti di sconforto tipici dell’adolescenza. Eppure sembrava che quella mattina si fosse svegliato con il piede sbagliato: si sentiva stranamente annoiato, con una strana aura di elettricità negativa attorno alla sua giovane persona. Per lui era insolito avere giornate simili e dunque non sapeva proprio come gestirla.
Aveva pensato di fare una bella pedalata per sfogare quella strana e sgradevole energia, ma l’incidente di Roy l’aveva in qualche modo traumatizzato circa l’uso di qualsiasi mezzo che non fossero le sue gambe, almeno per qualche settimana. Senza contare che il tempo non era dei migliori e di certo non invitava ad una passeggiata: se non si avevano reali motivi per uscire era meglio stare in casa a godersi il caldo.
Con passo svogliato andò in salone e si sedette davanti al camino, lasciandosi ben presto ipnotizzare dal movimento delle fiamme, dalle scintille che ogni tanto salivano verso la cappa per poi spegnersi durante il loro tragitto.
“Luna storta, pulcino, vero?”
L’indice di Ellie premette con dolcezza sulla guancia del giovane, inducendolo a girarsi. La donna si sedette accanto a lui con disinvoltura, posando un braccio contro uno dei cuscini che stavano sullo schienale e adagiandovi sopra la testa in una posa fanciullesca.
Kain rispose al sorriso che gli veniva rivolto e si soffermò a pensare su quanto fosse bella sua madre. Crescendo si era reso conto del suo particolare fascino da eterna ragazzina e ora, a guardarli seduti vicini, sembravano fratelli più che madre e figlio.
“Sei bella, mamma – mormorò – lo sei sempre, ma in questi giorni di più”.
Lo disse con sincerità, accorgendosi solo adesso di quella strana sensazione che lo aveva accompagnato in quell’ultima settimana ogni volta che aveva visto sua madre. In lei c’era una nuova e strana aura di vitalità, una bellezza del tutto particolare che non le aveva mai conosciuto. Si chiese se Riza e suo padre se ne fossero resi conto, ma poi si disse che forse era l’unico ad essere così sensibile ad un tale cambiamento.
“I complimenti di un così bel cavaliere sono sempre graditi – ridacchiò Ellie, giocando con la sua folta treccia scura – specie se sono così inaspettati. Spero solo che non siano un modo per nascondere il motivo della tua luna storta”.
“Dici che ho la luna storta?”
“Un quarto d’ora buono a fissare le fiamme del camino mi pare un buon indizio. E deduco che è semplice luna storta e non qualche turbamento grosso, altrimenti ti saresti messo a lavorare con i tuoi pezzetti elettronici con quella foga che ho imparato a conoscere e che sono contenta di non vedere da molto tempo ormai”.
Kain sorrise di nuovo e si adagiò meglio sul divano,sentendosi improvvisamente rilassato. Era come se la voce di sua madre fosse in grado di rimettere per il verso giusto quella strana luna storta che l’aveva accompagnato in quei giorni.
“Forse è solo crescita” propose con lieve imbarazzo.
“Oh ti prego – Ellie si accostò a lui fino a posare la testa contro la sua spalla, i loro capelli scuri che si incontravano, mischiandosi alla perfezione in un nero di cui era impossibile capire inizio e fine – dimmi che non c’è una fanciullina che ti fa battere il cuore. Non sono ancora pronta a perdere il mio pulcino”.
“Sai bene che non c’è – rispose candidamente Kain – te ne avrei parlato”.
“Non esserne così sicuro, Kain Fury: quando ci si innamora spesso si perde la loquacità. Però se mi dici che non c’è ancora questa fantomatica ragazza allora ti credo. Depenniamo questo motivo dalle cause della tua luna storta”.
“Pare quasi un gioco degli indovinelli… a te non sono mai capitate giornate simili?”
“A sedici anni? Forse, ma è anche vero che ero tutta presa nel mio mondo fatato per avere simili momenti. Più che altro c’è l’impazienza di crescere: è il tuo caso? Ti posso garantire che stai diventando uno splendido ometto… oh, non arrossire! Una madre ha tutto il diritto di fare simili complimenti al proprio unico figlio maschio”.
“Forse ci vorrebbe un nuovo bambino in casa – propose Kain – Riza è ormai grande, io sto crescendo e tu…”
“Diciotto e sedici anni non cambiano il fatto che voi siate i miei piccoli – sbuffò con aria bonaria Ellie, alzandosi in piedi – mi dispiace per voi ma le cose non cambiano. Comunque, dato che sei in ozio e con la luna storta, ti posso affidare una commissione? Volevo passare a riportare una terrina ad Angela, ma mi sono resa conto che se voglio preparare il pranzo i tempi mi vengono davvero stretti”.
“Farò volentieri questa commissione per te – annuì volenteroso il giovane, alzandosi a sua volta, lieto di avere una commissione a distrarlo – certo se per dolce ci fosse una torta al cioccolato…”
“Calcolatore – lo prese in giro la madre – per il cioccolato non crescerai mai!”
 
Una volta che fu rimasta sola, Ellie Fury sospirò  profondamente e sembrò che tutta la sua persona perdesse parte di quella vitalità che il figlio aveva tanto decantato pochi minuti prima.
Un nuovo figlio… certo!
Questi pensieri non comparivano da ormai anni, ma come sempre erano pungenti come delle spine di rosa. Si sentiva completamente realizzata come moglie e come madre, specie da quando Riza era entrata a far parte della sua vita, tuttavia il dolore per non poter avere altri figli al di fuori di Kain ancora non la lasciava, alla veneranda età di trentacinque anni.
Ovviamente Kain aveva parlato in totale innocenza: non poteva e non doveva sapere delle tragiche conseguenze che la sua nascita aveva avuto sul corpo materno.
“… forse sarà ancora in grado di concepire, ma il suo grembo non riuscirebbe a tenere un piccolo. Abortirebbe nell’arco dei primi due mesi.”
Parole vecchie di ormai sedici anni, sentite mentre tutti credevano che lei dormisse, tornarono impietose nella sua testa, prendendola ancora una volta in giro,ricordandole che il suo corpo, nonostante le apparenze, era tutto meno che sano.
“Ciao, meraviglia, che succede?”
L’entrata in cucina di Andrew le fece perdere immediatamente il broncio e subito il suo viso si illuminò in quel modo speciale che Kain aveva notato. Quel modo speciale per cui, a trentacinque anni, sarebbe stata in grado di far perdere la testa alla maggior parte dei giovani del paese se solo avesse voluto.
“Pensavo che presto o tardi nostro figlio noterà qualche ragazzina e si innamorerà. I soliti pensieri di una madre che non sarà mai pronta a perdere il proprio bambino”.
“L’età è quella, non ci potrai fare niente – la prese in giro Andrew, abbracciandola e baciandola sulla punta del naso – però ti prometto che io non potrei mai innamorarmi di nessun’altra al di fuori di te. Stai certa che il mio cuore sarà sempre tuo, Ellie Lyod”.
“Già, a proposito di Lyod… nell’ultima lettera la mamma mi avvisava che il loro ritorno sarà rimandato di più di un mese. Che peccato, speravo che quest’attesa fosse ormai agli sgoccioli”.
“Finirà prima di quanto credi. Piuttosto hai visto nostro figlio? Volevo chiedergli se può dare un’occhiata alla lampada del mio tavolo da disegno”.
“L’ho appena mandato a fare una commissione dagli Havoc. Ci sarei potuta andare io, ma sarei rimasta stretta coi tempi del pranzo. Io e Angela finiamo sempre col chiacchierare troppo”.
E poi non è che abbia molta voglia di incontrare Rebecca nel caso fosse lì.
Si rimproverò di nuovo mentalmente per quei pensieri poco da lei: doveva smetterla di evitare di proposito l’amica di Riza. Quello che le era successo era stato parecchio difficile e certo non meritava la sua… non sapeva nemmeno lei cosa.
Basta! Basta! Possibile che la questione del restare incinta ti debba tormentare così tanto?
“Ellie?”
“Come ti dicevo, sarei rimasta stretta con il pranzo – si riscosse – anzi, se vuoi lasciarmi campo libero: tuo figlio mi ha richiesto la torta al cioccolato”.
 
In realtà c’era un motivo ben valido per cui il pensiero di restare incinta tormentava Ellie: erano passati già due mesi buoni e non aveva ancora avuto le sue regole.
Le prime settimane di ritardo non l’avevano minimamente preoccupata: non era mai stata veramente puntuale, specie dopo il parto di Kain, e saltare un mese poteva rientrare nella norma. Ma le settimane erano continuate a passare e il suo corpo non si decideva a collaborare.
Piano piano si stava rassegnando all’idea di essere rimasta di nuovo incinta e la cosa di certo non le faceva piacere. Nel corso degli anni le era successo almeno quattro volte, ma aveva abortito nell’arco dei primi due mesi, proprio come era stato pronosticato dal dottore. Tutte le volte era successo in maniera veloce e poco traumatica: dei crampi particolarmente forti e poi, dopo un paio di minuti, tutto era terminato. Persino il suo corpo non ne risentiva, tanto che dopo una buona notte di sonno era perfettamente in forze. Ma se fisicamente tutto era sempre scivolato liscio, mentalmente ed emotivamente era sempre una prova estenuante: per una donna che aveva sempre desiderato tantissimi figli,avere ulteriori riprove di non poterne tenere in grembo altri era una beffa crudele del destino. Certo, aveva sempre la consolazione di Kain, e ora anche di Riza che considerava figlia sua a tutti gli effetti, ma quella negazione dell’essere donna così intima e profonda che le era toccata era impossibile da superare in maniera definitiva.
A questo giro le cose promettevano di essere ancora più difficili: aveva già superato i due mesi e ancora niente. E c’era un fondo di verità nella bellezza particolare che Kain aveva notato in lei: si ricordava benissimo di com’era radiosa durante i primi mesi della gravidanza di suo figlio, quando ancora sembrava filare tutto liscio.
E così non le restava che continuare a recitare il ruolo di moglie e madre perfetta, pregando che tutto finisse in fretta e la sua vita riprendesse il corso normale. Una settimana di cupi pensieri e poi di nuovo libera di godersi la sua vita serena con le persone che amava. Per lei quell’aborto era una questione estremamente privata, proprio come lo erano stati i precedenti. Solo la prima volta era stata scoperta da suo padre, a causa di un crollo emotivo dettato anche dalle condizioni di salute critiche di un piccolo Kain, ma poi era sempre stata abile a nascondere questi incidenti di percorso. Mai e poi mai voleva che Andrew sapesse: le sarebbe parso di perdere qualcosa davanti agli occhi di suo marito. Sebbene fosse perfettamente consapevole della sua situazione non voleva dargli prove tangibili di questa sua strana forma di non fertilità.
 
Tuttavia, nonostante le sue speranze, passarono altre due settimane senza che niente accadesse.
Anzi, iniziava addirittura a sentire un primo lieve rigonfiamento del ventre.
“Cielo, ma perché?” singhiozzò, una mattina, mentre si guardava allo specchio e notava quella lieve curvatura.
Si sedette nel letto e trasse profondi respiri, cercando di far passare quel malessere emotivo che sembrava distruggerla giorno dopo giorno. Che cosa le stava succedendo? Perché non stava andando come le altre volte?
Improvvisamente venne colta da un conato di vomito e si alzò di scatto per correre in bagno. Tuttavia, come uscì nel corridoio quasi cadde davanti a Riza ed Elisa che stavano salendo le scale.
“Signora, che succede?” la sostenne Elisa.
“Mamma, che hai?” subito Riza la prese per la vita.
Ellie si limitò a scuotere il capo e a fare un cenno verso il bagno. Si sentiva le gambe molli e brividi freddi le percorrevano la schiena: non si ricordava di quanto potessero essere tremende le nausee. Encomiabilmente riuscì a farsi portare in bagno e a resistere fino al momento in cui rimase sola prima di rigettare nel gabinetto.
Poi rimase alcuni minuti con l’acqua del rubinetto aperta, mentre si guardava il viso pallido allo specchio.
Non si aspettava che le ragazze venissero a casa, non era previsto. L’avevano colta in quel momento difficile ed ora sicuramente si sarebbero preoccupate e le avrebbero chiesto cosa non andava.
Ed Elisa è medico… o santo cielo.
No,non voleva. Per quanto non diffidasse nei medici, anzi fosse profondamente grata al dottor Lewis per tutto quello che aveva fatto per lei e soprattutto per Kain, la sua mente impazziva all’idea di farsi curare per qualcosa che concerneva una gravidanza o un aborto. Tanto sapeva che tutto era destinato a finire in un disastro, proprio come era successo anni prima.
“Mamma, tutto bene?” Riza bussò discretamente alla porta ed Ellie capì che non era il caso di stare chiusa ancora in quel posto. Si lavò la faccia, tamponandosi attentamente con l’asciugamano, e poi si raddrizzò, sistemandosi una delle ribelli ciocche di capelli scuri che le cadevano sulla fronte.
“Arrivo, cara, tutto bene” disse, aprendo la porta ed elargendo il migliore dei suoi sorrisi.
“Sicura? – fece subito la bionda, accostandosi a lei e prendendole la mano – sei pallidissima. Hai avuto un malore?”
“Signora, forse è meglio che vada a letto e si stenda – suggerì Elisa – vado subito giù a preparale una tazza di the, che ne dice?”
“Ma no – scosse il capo Ellie – sto già meglio. Si è trattato solo di un lieve malessere”.
“Dai, mamma, sdraiarti per qualche minuto non ti costa niente. Non farmi preoccupare, te ne prego”.
Fu il tono d’urgenza di Riza a far desistere la donna da altre proteste: di certo per lei era strano vederla stare male e questo le doveva aver provocato tristi ricordi legati alla sua defunta madre. Con un sorriso si costrinse ad annuire e si fece accompagnare a letto.
Dopo qualche minuto sedeva con la schiena posata sui cuscini, mentre Elisa le tastava il polso.
“Battito regolare e anche dalla faccia più colorita si vede che è tutto passato” annuì infine la dottoressa.
“Visto, cara? – Ellie si affrettò a girarsi verso Riza – Tutto a posto: è stato solo un malessere passeggero”.
“Potrebbero essercene altri – Elisa posò una mano sul ventre di Ellie, lisciando con dolcezza le pieghe sul vestito – signora, lei è al terzo mese buono! Non se ne era resa conto?”
“Cosa? – Riza sgranò gli occhi, ma poi un lieto sorriso le apparve nel viso – oh, mamma! Ma è meraviglioso! Te ne rendi conto?”
“Oh no – sospirò Ellie, cercando le parole giuste – tesoro, no, non… non sono in grado di portare avanti una gravidanza, lascia perdere”.
“Non dica così, signora – intervenne Elisa con entusiasmo – è comunque giovane e forte e non importa se è passato così tanto tempo dalla nascita di Kain. La seguirò passo dopo passo e vedrà che andrà tutto bene”.
“E io che pensavo fosse impossibile! – commentò Riza – Pensa quando lo sapranno papà e Kain! Al terzo mese buono: sei già avanti! Ancora non capisco come ho fatto a non rendermene conto!”
“No! Loro non lo devono sapere! Lasciate stare, ragazze, è complicato. Senza offesa, Elisa, ma voglio vedere il dottor Lewis: lui conosce bene la mia situazione e sa che non posso portare avanti una gravidanza. In genere abortisco entro il secondo mese, ma questa volta c’è qualche ritardo”.
“Oh – Elisa si rabbuiò qualche secondo e poi disse – se mi permette vorrei seguirla pure io, signora.  C’è comunque la possibilità che questa volta la gravidanza vada a buon fine: le capacità di ripresa del corpo umano sono infinite. Ne è riprova il fatto che è già arrivata al terzo mese”.
“Non lo so – Ellie aveva le lacrime agli occhi – però, vi prego, non ditelo ad Andrew. Mi sento così spaventata… c’è qualcosa di sbagliato in tutto questo”.
Come venne abbracciata da Riza scoppiò a piangere. Certo che c’era qualcosa di tremendamente sbagliato in quella gravidanza, a partire dal fatto che non riusciva ad essere felice. Le rassicurazioni di Elisa avrebbero dovuto avere qualche effetto, ma lei sapeva già che le cose sarebbero andate male. E questa volta sarebbe stata anche peggio perché, volente o nolente, lei iniziava già a sentire il piccolo bambino che cresceva dentro il suo grembo ferito. Un grembo che non sarebbe stato in grado di sostenere quella minuscola vita ancora per molto.
 
“Papà, la mamma non ti è sembrata un po’ strana negli ultimi tempi?” chiese Kain in quel medesimo momento, mentre col padre passeggiava lungo il nuovo cantiere dove l’uomo stava lavorando.
“L’hai notato pure tu? – fece Andrew, guardandolo con attenzione – sì, mi è parsa preoccupata per qualcosa, ma non ha voluto dire niente. In questi casi trovo opportuno non insistere: sa benissimo che quando vuole noi ci siamo sempre e dunque non si deve sentire forzata”.
“Certi giorni ha un viso davvero bello ed illuminato – commentò il ragazzo – non credo di averla mai vista così in tutti questi anni. C’è qualcosa di magico in lei, l’ho sempre sostenuto”.
“Ragazzo mio, ti auguro con tutto il cuore di trovarne una come lei quando sarà il momento” ridacchiò l’uomo arruffandogli i capelli con la mano guantata.
“Trovarne una come mamma è difficile”.
“A scuola non c’è nessuna che ti piace?”
“Ragazze carine ce ne sono – arrossì lui – ma non credo di essere il tipo che piace. E poi non mi sento decisamente pronto per queste cose. Credo che anche per quest’anno non inviterò nessuna a ballare per il primo dicembre. Male che vada farò qualche ballo con Janet come tutti gli anni o magari con Riza”.
“Ti sottovaluti, Kain, secondo me tu sei il tipo che può piacere molto”.
“Io credo che abbiano più successo quelli come Jean o come Roy. Comunque non credo che la mamma sia ancora pronta a lasciarmi andare in quel senso – ridacchiò – forse se non fossi l’unico figlio maschio non sarebbe così difficile per lei”.
“Già, l’unico figlio… ovviamente senza nulla togliere a Riza. Sei stata la nostra più grande gioia, sai? Mi pare incredibile di poter camminare qui con te, sano e ormai grande: quindici anni fa mi sembrava un miracolo che tu arrivassi a compiere un anno”.
“Brutte storie – Kain ebbe uno strano brivido – sono felice di averle rimosse in buona parte. Cambiamo argomento? Spero davvero che i nonni tornino presto!”
“Già, vedrai che non manca molto”.







_________________________
Eccomi qua,
contrariamente alle aspettative tra ieri e oggi sono riuscita a ritagliarmi il tempo necessario per finire questo capitolo. 
L'attenzione adesso si sposta sulla famiglia Fury: per chi ha letto lo spin off sa bene che la nascita di Kain è stata tutto meno che facile e che Ellie ha sempre avuto molti problemi ad accettare la sua condizione di donna non in grado di tenere un bimbo in grembo. 
Ovviamente il fulcro si avrà nel capitolo successivo :)
Come ho anticipato nella mia pagina fb, è un periodo parecchio difficile e dunque i tempi per scrivere ci sono e non ci sono, dipende proprio dalle giornate.
Mi scuso anticipatamente per questi ritardi rispetto alle mie solite tempistiche.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Capitolo 26. Crepe ***


 

Capitolo 26. Crepe.

 


 
 
“Giuramelo, Riza, non una parola con Andrew o Kain. E anche tu, Elisa: tutto questo deve restare tra noi e il dottor Lewis”.
Il tono di voce di Ellie era leggermente acuto e denotava un chiaro nervosismo. A dire il vero era tutta la sua persona che emanava tale stato d’animo: stava seduta davanti alla scrivania del dottor Lewis con le mani strette in grembo che non la finivano di torcersi tra di loro. Dava l’impressione di un animale preso in trappola, non smettendo di lanciare occhiate alla porta dell’ambulatorio, quasi stesse cercando una via d’uscita, e alle due ragazze, come se si trattasse delle sue carceriere.
Effettivamente non era andata dal medico di sua iniziativa: c’era voluta tutta la persuasione di Riza per convincerla a farsi visitare e questo risultato si era ottenuto dopo un’altra settimana dalla scoperta della gravidanza. Per tutti quei giorni Ellie aveva sperato nell’aborto, ma non aveva ottenuto altro che il proseguo delle nausee, spesso in forma molto violenta.
Era stato per l’evidente preoccupazione di Riza e per la consapevolezza di non poter nascondere a lungo la cosa ad Andrew e Kain che si era lasciata convincere a scendere in paese e parlare col dottor Lewis.
“Nessuno dirà nulla, signora – la tranquillizzò Elisa – però è anche vero che tra poco sarà la sua pancia a parlare in maniera eloquente”.
Ellie sospirò e abbassò lo sguardo sul suo vestito che non riusciva ad occultare del tutto il primo rigonfiamento. Ad essere sinceri sembrava un vero e proprio miracolo che i maschi di casa ancora non avessero capito niente. Con tutta probabilità Andrew non riteneva possibile un inizio di gravidanza e Kain non poteva certo immaginare che sua madre a trentacinque anni fosse incinta.
“Mamma, sul serio non pensi che questa volta possa andare bene? – chiese Riza, posandole una mano sulla spalla – Come ha detto più volte Elisa le possibilità del corpo umano sono infinite”.
La donna sorrise debolmente, quasi accondiscendendo a quelle parole, ma era chiaro che non era del medesimo parere. Lo sentiva, conosceva troppo bene il suo corpo per capire che le stava giocando l’ennesimo brutto tiro, questa volta in maniera davvero pesante. Avrebbe abortito, non c’erano dubbi, restava solo da capire quando: era come se sentisse che quella piccola creatura dentro di lei non aveva il sostegno necessario per arrivare alla fine, a quella minima possibilità di sopravvivenza che le avrebbe offerto un parto prematuro ma dopo una gestazione decente.
“Signora Fury – salutò il dottor Lewis, entrando dalla porta che collegava l’ambulatorio alla casa – sono abbastanza sorpreso di quanto mi è stato raccontato dalla dottoressa Meril”.
“Dottore, che cosa succede? – chiese Ellie con un sussurro – mi ricordo benissimo cosa disse dopo la nascita di Kain ed è sempre andata così: gli aborti che ho avuto sono stati tutti entro il secondo mese. Perché questa volta è diverso?”
Il medico scosse il capo e con un gesto invitò la donna a seguirlo verso il lettino. Una volta distesa le tastò il ventre e auscultò con attenzione per qualche minuto. Rimase quindi in silenzio, accarezzandosi il mento con aria pensosa, mentre sia Riza che Elisa si accostavano a lui.
“Ho letto di casi di donne che, dopo diversi aborti spontanei, hanno avuto delle gravidanze portate a termine – disse Elisa per spezzare il silenzio – non sono cose impossibili”.
“Ma la signora ha già portato a termine una gravidanza – la corresse il dottor Lewis, scuotendo di nuovo la testa – ed è stato lì che si è creato il problema che le impedisce di portare a termine una gestazione. Probabilmente il suo corpo in parte si è ripreso, signora, ma non mi va di crearle false speranze: questa volta semplicemente sta andando più avanti del previsto”.
“E che devo fare, dottore?” chiese Ellie mentre si risedeva. Si sentiva malissimo, sebbene non fosse il solito attacco di nausea: un rivolo di sudore freddo le colava dal collo lungo la schiena, provocandole spiacevoli brividi. Sentiva una forte pressione proprio tra gli occhi e un sapore amaro le aveva invaso la bocca: avrebbe dato qualsiasi cosa per smettere di somatizzare in una simile maniera la sua preoccupazione sempre più forte.
“Non voglio fare niente di invasivo data la sua condizione: sarebbe rischiare davvero grosso. La cosa migliore da fare è lasciare che la natura segua il suo corso. Se andrà come prevedo, dovrebbe perdere il feto entro le prossime settimane: ovviamente questo le provocherà una perdita di sangue maggiore rispetto ad un aborto al secondo mese, ma non dovrebbero esserci troppi rischi. Signorina – si rivolse quindi a Riza – voglio che tu prenda qualche lezione dalla dottoressa Meril per intervenire in caso di emorragia, va bene? Tua madre va assistita giorno e notte perché non si sa mai quando potrebbe succedere, va bene?”
“Certamente dottore” annuì Riza.
“Dottoressa Meril, posso contare su di te perché visiti la signora Fury ogni due giorni? Controlli di routine, niente di più, ma è necessario monitorare la cosa e vedere come si evolve”.
“Assolutamente, dottore” rispose Elisa con voce leggermente cupa.
“Quindi può andare avanti per qualche tempo ancora…” sospirò Ellie.
“Non posso quantificare il tempo, signora: sarà il suo corpo a decidere”.
La donna si alzò dal lettino, prontamente sostenuta da Riza.
Dirlo ad Andrew? Forse dovrei – rifletté – sarebbe peggio che se lo scoprisse a breve senza che io gli abbia accennato la cosa. A questo giro non sono in grado di nascondere il mio stato.
 
Come rimase sola col dottor Lewis, Elisa smise di nascondere il broncio.
Non voleva credere che tutto si riducesse ad un semplice attendere l’aborto. A parer suo bisognava tentare con ogni mezzo disponibile di portare avanti quella gravidanza: con delle precauzioni si sarebbe potuti arrivare ad una fase della gestazione in cui il bambino sarebbe potuto nascere.
“Ci sono dei farmaci che aiutano ad evitare le contrazioni” disse, mentre sistemava il lettino dove poco prima era sdraiata la signora Fury.
“Non avrebbero effetto, credimi – le rispose il dottore, mentre recuperava una cartelletta dalla libreria e prendeva alcuni fogli – il grembo di quella donna è in condizioni pietose. Questa gravidanza è una piccola anomalia, ma finirà come gli altri aborti avuti”.
“E quindi dobbiamo restare a guardare mentre perde l’ennesimo bambino? – Elisa non ci voleva credere. Le sembrava assurdo che il miracolo della vita dovesse venir ostacolato invece che aiutato – Ha già avuto almeno quattro aborti, non sarebbe giusto darle almeno questa possibilità? È una donna nata per essere madre, io non…”
“Ed è madre, grazie al cielo – la interruppe il dottore con sguardo cupo, porgendole i fogli che aveva guardato sino a poco prima – leggi se vuoi, è la relazione sulla nascita del tuo amico Kain. Come ne siano usciti vivi entrambi è ancora un miracolo che non riesco a spiegarmi. La gestazione era appena al settimo mese ed il bambino non si era girato… ho dovuto tirarlo per il piede dopo un travaglio assurdo, con lei che si spegneva davanti ai miei occhi. Oltre alla placenta ha perso tantissimo sangue ed era chiaro che l’utero aveva subito dei danni tremendi. E da simili danni è impossibile che si sia ripreso tanto da poter portare a termine una gravidanza”.
“Però si è trattato di quindici anni fa – propose Elisa – con la medicina attuale, magari in un ospedale di città le cose andrebbero diversamente”.
“Elisa – sospirò il dottor Lewis, passandosi una mano tra i capelli con aria stanca – sei giovane e stai cadendo nell’errore più comune dei dottori che hanno appena iniziato la loro carriera. Credi che la medicina possa tutto, specie rispetto al passato. Ma ti posso assicurare, figliola, che non è sempre così: certo c’è il progresso e chissà che un domani i casi come quello della signora Fury non si possano risolvere. Ma ora come ora, no… non si tratta di evitare contrazioni, di tenerla a riposo: il suo corpo non è in grado di tenere un bambino. E lei è la prima a rendersene conto ed è anche il giudice più valido in questa storia”.
“In che senso?”
“Perché è in grado di capire quando una battaglia è destinata ad essere vinta o ad essere persa – nel viso del dottor Lewis era apparso uno strano sorriso – Perché Kain doveva morire dopo poche ore dalla nascita, mentre invece lei l’ha tenuto in vita: il suo istinto le diceva che ce la poteva fare, in barba a quanto poteva dire la scienza medica su un bimbo nato appena settimino. Si è aggrappata ferocemente ad ogni respiro di quella creatura, ora dopo ora, giorno dopo giorno… in tutti quei primi anni in cui sembrava dovesse morire per il minimo soffio di vento. Se il suo istinto le dice che perderà il bambino io le credo e dalla sua faccia si vedeva che ha capito da subito come andrà a finire”.
“Credere all’istinto di una donna più che alla medicina?”
“È tutta questione di esperienza, signorina mia: specie qui in campagna imparerai dove è meglio cedere alla natura e dove invece si bisogna intervenire. Ellie Fury ha solo bisogno di sostegno per superare questo momento difficile, è tutto quello che ci chiede, e noi da medici glielo dobbiamo fornire”.
Elisa annuì, ma per la prima volta non era per niente convinta delle parole del dottor Lewis. Secondo lei la signora Fury stava semplicemente risentendo della chiusura mentale del paese e del pessimismo dovuto ai precedenti aborti: non si era resa conto delle reali possibilità della medicina, dei passi da gigante che erano stati fatti negli ultimi quindici anni.
Perché non voler nemmeno provare? – si chiese indispettita – Se volessi un bambino con tutte le mie forze tenterei il tutto per tutto e mi aggrapperei ad ogni possibilità offerta. Dichiarare sconfitta in partenza non è per niente giusto.
 
Per un’anima giovane ed inesperta come Elisa era facile e anche giusto lanciarsi a simili pensieri: si era appena affacciata alla vita e ancora non sapeva quali pesanti batoste potesse dare alle persone, senza guardare in faccia nessuno.
Ellie invece lo sapeva bene, sebbene non si fosse aspettata di questo nuovo colpo di coda da parte della sua personale antagonista. La visita del dottor Lewis in parte l’aveva tranquillizzata, tuttavia le aveva aperto del tutto gli occhi su una questione su cui ormai stava riflettendo da qualche giorno. Infatti, sebbene avesse supplicato Riza e l’amica di non farne parola con alcuno, era chiaro che non poteva nascondere per molto la cosa ad Andrew. Secondo il medico la gravidanza sarebbe potuta proseguire ancora per alcune settimane e dunque il suo ventre diventare sufficientemente gonfio per essere notato anche da suo marito.
Per ora aveva nascosto la cosa con vestiti abbastanza larghi, ma il gioco non poteva durare ancora per molto tempo.
Dirglielo, certo… sembra così semplice – sospirò quella notte stessa, mentre osservava Andrew che finiva di abbottonarsi la casacca del pigiama – dirgli che porto in grembo suo figlio e che lo perderò entro le prossime settimane. Fargli vivere di nuovo quell’incubo.
Guardò quel viso sempre più simile a quello del figlio. Adesso suo marito gli sembrava più giovane che mai: il ragazzo appena uscito dall’Università che lottava con determinazione per farsi spazio nel mondo e costruire una vita con lei. Il suo dolce e meraviglioso Andrew, a cui non mancava mai quel senso di pudore e anche timidezza che lo rendeva speciale rispetto a tutti gli altri uomini.
“Pronta per andare a letto, meraviglia?” chiese proprio lui, raggiungendola nel letto e sedendosi accanto a lei. Le accarezzò con amore la guancia prima di deporvi un bacio come faceva sempre per augurarle la buonanotte.
Ellie avrebbe tanto voluto dire di sì, rimandare ancora quel discorso: spegnere la luce, avvolgersi nelle coperte e dimenticare quella storia almeno per un’altra notte, rifugiandosi ancora una volta nell’illusorio procrastinare. E chissà, magari durante il sonno le sarebbero venute le tanto attese contrazioni, avrebbe fatto in tempo a correre in bagno e finire tutta quella dannata storia senza che la sua famiglia ne venisse investita in pieno. Con Riza sarebbe stato facile mantenere il silenzio, poi sarebbe bastata qualche visita di controllo per finire tutto e…
Ma chi vuoi prendere in giro, Ellie Lyod? – sospirò, toccandosi distrattamente il ventre, sentendo in maniera quasi dolorosa la piccola vita che cercava di crescere – Sai bene che non andrà così. Stai solo fuggendo. E forse Andrew non lo merita.
Meritava invece il dolore per la perdita di un figlio?
Questi dilemmi la stavano facendo impazzire e sicuramente dal suo volto trasparve questa lotta interiore.
“Ellie, va tutto bene?” le chiese Andrew guardandola con attenzione.
“Io? Sì, certo… cioè no… non proprio, insomma”.
Si mise a giocare disperatamente con un lembo del lenzuolo, non riuscendo a trovare il coraggio di alzare lo sguardo su di lui. Dal calore sulle guance capiva di essere arrossita in maniera vistosa e sentiva uno strano groppo alla gola che però ricacciò indietro a forza: piangere era l’ultima cosa da fare.
Dannato corpo, perché mi stai facendo questo? Perché mi hai fatto arrivare ad un simile momento?
Aveva paura di affrontare suo marito, una cosa che non le era mai successa in sedici anni di matrimonio: una nuova esperienza così surreale da dover affrontare a quasi trentacinque anni.
Andrew la abbracciò, baciandola dolcemente sui capelli: non le disse niente, si limitò a tenerla stretta, aspettando che fosse lei a decidere come e quando parlare. Un atteggiamento così delicato e rispettoso da spezzare il cuore. Il suo braccio destro era posato contro il ventre di lei ed Ellie serrò gli occhi.
Ti prego, dimmi che senti il rigonfiamento… inizia tu questo dannato discorso.
Ma niente, ancora niente: quel silenzio e quel contatto nelle intenzioni rassicuranti ma che servivano solo a straziare ancora di più l’anima di Ellie.
“Andrew – sospirò infine, mentre una singola lacrima le colava sulla guancia destra – sono… sono incinta”.
L’abbraccio si irrigidì per qualche secondo e poi le braccia di lui si scostarono. Tranne la mano destra che andò a toccarle il ventre in un gesto istintivo che riportò ad Ellie una marea di ricordi sulla gravidanza di Kain, quando ancora sembrava andare tutto bene… quando quel gesto così bello e paterno non le sembrava un pericolo per il bimbo che portava in grembo.
“Incinta?” la voce di Andrew era incredula e questo spinse la donna a guardarlo finalmente in viso.
Sì, incredulità, era questo il sentimento che traspariva dai suoi lineamenti come se, in fondo, comprendesse pure lui che c’era qualcosa che non andava. Perché l’incredulità non si trasformava in gioia come era successo con Kain: c’era un macigno troppo grosso a fare da ostacolo.
“Io… io credevo che non… insomma, dopo Kain credevo che…” iniziò l’uomo, arrossendo leggermente.
“Sono al terzo mese avanzato – confessò Ellie, sentendo il bisogno di far uscire quelle dannate parole come si fa uscire il veleno da una ferita – in… in realtà il dottor Lewis ha detto che, se tutto va bene, dovrei abortire nelle prossime settimane”.
Se tutto va bene… se tutto va bene! Cielo, che cosa orribile da dire!
“Sei andata dal dottor Lewis? – adesso Andrew era preoccupato: le prese la mano e la strinse con amore – Ti sei sentita male? Dovevi parlarmene prima, ti avrei accompagnato io e…”
“Ci ha pensato Riza, tranquillo – spiegò lei, sentendosi enormemente dispiaciuta per aver creato questa situazione in cui lui si sentiva in colpa e anche escluso – è che… non è normale che la gravidanza vada così per le lunghe”.
Andrew continuava a fissarla, scuotendo leggermente il capo come se cercasse di capire sino in fondo la situazione. Era come se un uragano gli fosse appena passato accanto, lasciando illeso ma stordito, incapace di credere a quanto gli era accaduto.
“Incinta… Ellie… io… io…”
“Avrei voluto evitare di dirtelo – Ellie gli prese il viso tra le mani – se fosse andato tutto come previsto avrei abortito entro il secondo mese e le cose sarebbero tornate subito normali. Andrew, ascolta, non devi fare niente, sul serio… è solo una cosa che ha bisogno di tempo per finire”.
“Non devo fare niente? – lui si riprese a quelle parole – Ma… Ellie, come puoi pretendere che io non faccia nulla? Insomma, sei in queste condizioni, tu non…”
“Andrew, questo bambino non nascerà mai, lo capisci? Sarà come le altre volte!”
“Altre volte?”
Ellie a quella domanda si morse il labbro con rabbia. Nella foga di tranquillizzarlo, di finire quell’orribile discorso, si era lasciata sfuggire anche quel dettaglio assolutamente inutile, anzi dannoso.
“Ho avuto altri aborti in questi anni – ammise – tutti entro il secondo mese, prima che la gravidanza diventasse visibile. Proprio come aveva detto il dottore: il mio corpo è in grado di concepire, ma non di tenere il bambino”.
Andrew aprì bocca per parlare: si vedeva che aveva in mente un mucchio di domande, ma anche di accuse per avergli taciuto tutte queste cose. Ma l’espressione sconvolta di Ellie lo bloccò: in quel momento era lei che stava subendo la pressione peggiore e non era il caso d’insistere.
“Va bene, adesso mi pare troppo tardi per parlarne – disse con voce apparentemente calma, accarezzandole un braccio – e tu sei molto agitata e non ti fa bene. Credo che la cosa migliore sia metterci a dormire e rimandare a domani ulteriori discorsi: del resto il dottore ti avrà detto di stare tranquilla, no?”
In condizioni normali Ellie si sarebbe rifiutata, avrebbe preferito andare sino alla fine di quel discorso; ma la via d’uscita che le aveva inaspettatamente offerto il marito era troppo ghiotta per non sfruttarla. Così si limitò ad annuire e ad accucciarsi sotto le coperte, accogliendo con sollievo la luce che veniva spenta.
Rimase sveglia, sentendo i movimenti di lui sul letto: dopo un lieve rigirarsi si era fermato in una posizione poco distante da lei, quasi ad essere pronto ad intervenire al minimo bisogno senza però disturbarla.
Perché mi stai facendo questo? – chiese la donna toccandosi la pancia – Perché mi hai messo in una simile situazione con mio marito?
Voleva odiare quel feto, voleva desiderare che sparisse al più presto dalla sua vita. Voleva impedire a quell’impellente senso materno di diventare ancora più forte di quanto non fosse già. Ma era impossibile: la sua mano prese ad accarezzare quel ventre quasi a cullare il bimbo.
 
Il giorno dopo Andrew si svegliò che era appena albeggiato.
Aveva dormito malissimo, tormentato dai ricordi del parto di Kain e della paura attanagliante che aveva provato in quei momenti, quando perdere Ellie era una possibilità talmente concreta da attanagliargli le viscere e farlo sudare freddo.
Passandosi una mano sugli occhi si girò a guardare quella figura avvolta nelle coperte, appena visibile alla lieve luce che penetrava dalle tende tirate. Allungò una mano per toccarla, ma si fermò a metà percorso: era come se una strana barriera si fosse creata tra lui ed Ellie.
Perché mi ha tenuto nascosti tutti quegli aborti?
Sapeva benissimo delle condizioni di sua moglie, si era rassegnato all’idea di non avere altri figli al di fuori di Kain. Non riusciva a capire come Ellie non l’avesse reso partecipe di quelle esperienze che per lei dovevano essere state tremende. Lei ancora si portava dietro la delusione di non poter essere madre: ogni aborto doveva essere stato una pugnalata al cuore.
E non mi ha mai permesso di starle accanto.
Forse il suo conforto sarebbe servito a ben poco, però si sentiva privato del diritto di sostenere sua moglie in quelli che erano dei momenti difficili. E poi, a ben pensarci, quei bambini in parte li aveva persi pure lui… e non aveva avuto modo di esserne dispiaciuto come invece avrebbe voluto. Per tutti quegli anni aveva ignorato di aver perso dei bambini e questo lo faceva sentire un padre snaturato.
D’improvviso stare nella stessa stanza di Ellie con quel figlio condannato in grembo lo fece stare male.
Si alzò, recuperò in fretta dei vestiti e andò in bagno a cambiarsi.
Sentiva l’esigenza di uscire da quella casa e di sentire il freddo del mattino sulla sua persona.
 
Il suo peregrinare lo portò in paese, dove già le prime persone animavano le strade aprendo i negozi con sguardo assonnato e fare infreddolito. Ma lui non fece caso a quei rapidi saluti, a quel primo segnale di vita che dava inizio alla giornata: continuò la sua passeggiata solitaria fino al cimitero che stava appena fuori dal paese.
Non sapeva nemmeno perché i suoi passi l’avevano condotto lì.
Non sarebbero nemmeno stati sepolti… troppo piccoli.
Era assurdo: il pensiero di quei bambini mai nati lo tormentava più del previsto. Continuava a chiedersi se sarebbero stati maschi o femmine, a chi sarebbero somigliati, cosa avrebbero fatto da grandi. Gli sembrava così ingiusto che loro non avessero avuto le medesime possibilità di Kain, che il miracolo non si fosse ripetuto almeno un’altra volta.
E tu dov’eri mentre succedeva tutto questo? Andavi avanti con la tua vita senza nemmeno accorgerti delle esperienze dolorose che stava passando tua moglie. Che razza di uomo sei?
Ellie l’aveva ingannato, gli aveva tenuto nascosto tutto questo per anni. Si sentiva tradito, sentiva che gli era stato fatto un torto che non meritava, una mancanza di fiducia che non credeva possibile nel rapporto perfetto tra lui e sua moglie.
Scemo, con tutta probabilità lei soffriva e ti ha voluto preservare da tutto questo.
E, paradossalmente, questo lo faceva sentire doppiamente mostro.
 
Proprio in quel momento Ellie si svegliava in preda ad un forte senso di nausea.
Senza nemmeno fare caso al fatto di essere sola nel letto, si alzò e corse verso il bagno, portandosi addirittura una mano alla bocca per trattenere il conato sempre più insistente.
“Mamma?” la chiamò Kain che, proprio in quel momento, stava per entrare in bagno, la mano già nella maniglia.
Una piccola parte della mente di Ellie impazzì letteralmente all’idea che suo figlio la vedesse in simili condizioni. Ma tutto quello che riuscì a fare fu di infilarsi in bagno e rigettare violentemente nel gabinetto, senza nemmeno curarsi di chiudere la porta.
“Mamma – Kain le si inginocchiò accanto, tirandole indietro i capelli sulla fronte – che ti succede? Aspetta, non parlare… stai ancora china: ti bagno un asciugamano per passartelo in faccia”.
La sua voce sembrava lontanissima mentre il mondo vorticava attorno alla testa di Ellie: quell’alzata dal letto troppo brusca era stata un gesto davvero imprudente. Fu obbligata a seguire le indicazioni di quella voce così matura, venendo sostenuta da quelle braccia che improvvisamente erano diventate forti.
“Ehi – finalmente la presenza del figlio divenne reale e riuscì a vedere il suo viso preoccupato. Si accorse che indossava ancora il pigiama – mamma, va meglio?”
“Devi andare a scuola – sospirò Ellie – adesso scendo a preparare la colazione”.
“No, rimettiti a letto: non sei più così pallida, ma credevo che svenissi sino a qualche secondo fa. Stai ancora seduta, io vado a chiamare papà e Riza”.
“Riza, chiama Riza” lo supplicò Ellie.
Kain annuì con lieve esitazione e poi corse fino alla camera della sorella adottiva. Senza nemmeno bussare entrò, trovandola che stava tirando le tende per permettere alla luce mattutina di entrare.
“Ehi, che succede?”
“Mamma si è sentita male – spiegò con fare trafelato – ha rigettato. Vieni, è in bagno: è tremendamente pallida, credo che sia necessario aiutarla a tornare a letto!”
“Cosa?” Riza sgranò gli occhi e subito corse a soccorrere Ellie, trovandola ancora seduta sul pavimento del bagno che si detergeva la fronte con l’asciugamano bagnato.
“È stato solo un attacco di nausea – spiegò la donna – adesso va meglio”.
“Ti preparo una delle tisane che ha consigliato Elisa – annuì Riza, aiutandola a sollevarsi assieme a Kain – è meglio che ti sdrai”.
“La colazione per tuo fratello”.
“Oh, mamma, non pensare a queste cose!” supplicò Kain.
“Papà?” chiese Riza.
“Dev’essere ancora a letto – rifletté il giovane – adesso lo svegliamo e…”
Ma come entrarono nella stanza matrimoniale trovarono il letto vuoto.
Dopo aver sistemato la donna, Kain si offrì di andare a cercare il padre, ma le sue ricerche in casa si rivelarono infruttuose.
Strano – pensò il ragazzino, uscendo dallo studio paterno che aveva trovato vuoto – non mi risulta che dovesse uscire questa mattina.
“Papà non c’è – disse a Riza che proprio in quel momento scendeva le scale e andava verso la cucina – dev’essere uscito, ma mi pare strano così presto. Come sta la mamma? Credi che dovrei andare a chiamare Elisa o il dottor Lewis? Ci impiego due secondi a cambiarmi e…”
“No, lascia stare, l’emergenza è finita. Dammi una mano a preparare la colazione, così poi porto la tisana alla mamma”.
“Dici che è stato un malessere passeggero? – chiese, mentre iniziava a prendere le stoviglie, indeciso per quante persone apparecchiare – Però è stato davvero brutto, per diversi minuti non riusciva a sollevarsi dal gabinetto. Forse è l’influenza che circola”.
Riza in quel momento gli dava le spalle, impegnata a prendere da una mensola la scatola con le bustine di tisana preparate da Elisa. Fu un bene perché il suo viso assunse un’espressione decisamente turbata.
Come bisognava comportarsi con Kain?
Dirgli tutto? – si chiese, mentre si ricomponeva e posava le tisane sul tavolo – O solo l’attuale condizione. Devo dirgli che la mamma abortirà nelle prossime settimane? Ma così ne chiederà il motivo.
Pensò ad Ellie che in quel momento stava distesa nel letto, ancora stordita da quel brutto attacco ed in preda anche ad un’estrema preoccupazione per essere stata vista dal figlio. Le aveva confidato di aver detto tutto ad Andrew e già questo l’aveva sconvolta non poco.
Guardando il ragazzino che continuava a preparare la tavola con attenzione, come se quello potesse esser di estremo aiuto in quel frangente, Riza sentì il cuore stringersi. Uno dei motivi per cui era estremamente protettiva nei confronti di Kain era il sapere che era destinato ad essere l’unico figlio naturale dei Fury.
“Senti, io vado a cambiarmi e chiamare il medico – disse proprio lui, finendo di apparecchiare – anzi, chiamo Elisa: verrà di sicuro. Così ci tranquillizziamo tutti quanti”.
“La mamma è incinta” lo bloccò Riza, trattenendo immediatamente il respiro per essersi lasciata sfuggire quella confidenza. Aveva fatto bene? La mamma si sarebbe arrabbiata? Magari l’avrebbe voluto dire lei a Kain nei modi che riteneva opportuni.
“Cosa? Incinta?” gli occhi di Kain praticamente raddoppiarono nel sentire quella parola. Per un secondo la sua espressione rimase incredula, ma poi la felicità prese possesso di lui.
Ohi, ohi, ohi! Che frittata che hai fatto Riza! – pensò la giovane, mentre veniva abbracciata con entusiasmo dal fratello che iniziava a parlare ininterrottamente di quanto fosse splendida quella notizia. Del fatto che aveva notato che la madre era un po’ strana in quei giorni ma non era riuscito a capire di cosa si trattasse.
“Devo andare assolutamente a congratularmi con lei e…”
“No!” Riza lo afferrò per il colletto del pigiama.
“No? Ah, credi che si sia riaddormentata?”
“Sì, con tutta probabilità è così – annuì Riza, cercando di guadagnare tempo – facciamo così, vai a cambiarti che io finisco con la colazione. Vai a scuola e ne parliamo come torni, va bene?”
“Come preferisci. Aspetta che lo dica a Janet, vedrai sarà felicissima! Così non sarà più la piccola del gruppo, credo che la cosa le dia leggermente fastidio ormai e…”
“Già, proprio a questo proposito: non dire niente a nessuno, nemmeno a Janet”.
“Come no? – si perplesse lui – è una notizia fantastica”.
“È una fase ancora delicata e mamma non vuole che ancora si sappia, capisci? È… è un po’ una sorpresa per tutti e vuole fare le cose con calma. Posso contare che manterrai la notizia per te? Senza dire niente nemmeno a Janet”.
Kain fece un sospiro malinconico, probabilmente perplesso davanti a quella strana richiesta. Ma poi un lieto sorriso comparve sulle sue labbra e annuì solennemente.
Una volta rimasta sola nella cucina, Riza si passò una mano sui capelli ancora sciolti e arruffati. Si sentiva impazzire, era come se tutto le stesse sfuggendo di mano: non aveva dubbi che suo padre fosse uscito troppo sconvolto per la notizia del prossimo aborto.
No no, proprio non va bene – si disse – questa è la mia perfetta famiglia, non si può distruggere tutto in un simile modo.
 
 





 

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Capitolo 27. Per un figlio ***


 

Capitolo 27. Per un figlio.

 


 
 
“È solo una tisana che aiuta a rilassare e a prevenire le contrazioni, non è un vero e proprio medicinale” spiegò Elisa mostrando ad Ellie la scatolina con alcune bustine.
Guardò la sua paziente con aspettativa, cercando di trovare un minimo spiraglio a cui aggrapparsi.
Ci aveva riflettuto tutta la notte ed era arrivata alla conclusione di non poter accettare una resa totale senza nemmeno aver provato a combattere. E se fossero bastate le dovute precauzioni per far andare tutto bene? Sarebbe stato tremendo avere rimpianti simili, specie per una cosa così delicata come la gravidanza.
Ed effettivamente negli occhi della signora Fury c’era una piccola scintilla di dubbio, una parte di lei che voleva provare a seguire i suoi consigli e lottare per il bimbo che portava in grembo. Tuttavia fu una crepa che durò solo qualche secondo prima che la donna scuotesse la testa con un mesto sorriso.
“Ti ringrazio, cara, ma non me la sento. Preferisco che la natura segua il suo corso, sperando che lo faccia presto”.
C’era tanta pena e sofferenza in quell’ultima affermazione che la dottoressa si sentì stringere il cuore. Com’era possibile che quella donna, da lei sempre considerato positiva e forte, fosse caduta in uno stato di depressione simile? Certo la sua storia clinica non era facile, ma alla luce della speranza che le era stata offerta un cambiamento d’atteggiamento sarebbe stato normale.
Perché si vuole fasciare la testa prima di essersela rotta? – si chiese, lasciando le bustine sul comodino nel caso la gravida avesse cambiato idea. Era un gesto calcolato, certo, ma durante il tirocinio le avevano insegnato anche queste piccole strategie per far fronte a pazienti difficili con i quali ci si trovava a gestire uno strano gioco psicologico.
“Per il resto come è andata la mattinata? – chiese per cambiare argomento – Spero sia riuscita a riposare”.
“In parte sì – annuì Ellie, spostando poi lo sguardo su Riza – è tornato Andrew?”
“Non ancora – ammise la fanciulla, osservando l’orologio appeso alla parete e constatando come ormai fossero passate alcune ore – ma sono sicura che non tarderà molto”.
“È stata una follia dirglielo – sospirò la donna – e tremo all’idea di dover dire tutto a Kain”.
“Perché dirgli tutto? – obbiettò Elisa con calma – a Kain basta sapere che lei è incinta, non tutto il resto della storia. Quello che succederà potrà essere spiegato come una cosa che può accadere, senza dover entrare nei dettagli”.
“Mi pare una buona idea – si sollevò Riza – così almeno lui non verrà caricato di un peso eccessivo. Che te ne pare, mamma?”
“Potrebbe essere la soluzione migliore – pure Ellie sembrava rincuorata da quella scappatoia – sì, direi che per adesso faremo proprio così”.
 
Dopo una decina di minuti, tranquillizzata anche da quanto deciso, Ellie si addormentò.
Riza, approfittando della presenza di Elisa che si offrì di vegliarla, decise di andare in paese a fare alcune commissioni: era il giorno in cui doveva portare un po’ di spesa a suo padre e non poteva venire meno a questa responsabilità che si era presa nei suoi confronti.
Non era mai piacevole svolgere quella mansione: ogni volta che apriva la porta di quella vecchia villetta era come se sentisse un vecchio magone salirgli alla gola. Come se invisibili e polverosi artigli cercassero di gremirla per portarla di nuovo alla sua vecchia esistenza. La lusingavano con l’idea della sua vecchia camera, della cucina dove aveva passato tanto tempo in solitudine, con quel concetto di bozzolo protettivo che da ragazzina era riuscita a ritagliarsi in quell’ambiente stranamente ostile.
Questa volta gli artigli erano più lusinghieri che mai: dopo quanto era accaduto a casa l’idea di stare tranquilla in quella vecchia cucina le appariva allettante. Senza nemmeno preoccuparsi di avvisare suo padre del suo arrivo, si mise a lavare i piatti e a sistemare la spesa, cercando di ricreare quel piccolo angolo di tranquillità di cui aveva estremo bisogno. Aprendo meglio le imposte vide il minuscolo boschetto di salici che stava nel cortile… nascondeva quella parte della casa al resto del mondo: le dava l’illusione che tutti i suo problemi potessero esser lasciati fuori.
Sì, era spaventata, inutile negarlo: aveva paura che la sua famiglia crollasse da un momento all’altro sotto il peso di quella gravidanza inattesa. Era come se all’improvviso le fosse arrivata la spiacevole consapevolezza che nemmeno i Fury erano perfetti come aveva immaginato. Tra Ellie ed Andrew c’erano dei segreti che avevano fatto perdere quel senso d’unione che sempre li aveva caratterizzati. E anche a Kain stavano venendo taciuti i dettagli che riguardava la sua nascita: se da una parte serviva a proteggere almeno lui, adesso che ci pensava bene Riza non poteva fare a meno di sentirsene turbata.
Non doveva essere come la villetta degli Hawkeye, nascosta al resto del mondo con stanze piene di polvere e cose misteriose e segrete. La famiglia Fury doveva essere come la casa dove abitava: luminosa, aperta, piena di cose deliziose e visibili, senza nessuna oscurità a turbarla.
“Ah, sei qui”.
La voce sottile eppure cavernosa fece sobbalzare Riza, tanto che il piatto che aveva in mano le cadde e si ruppe sul pavimento. Alzando lo sguardo vide che suo padre era sulla soglia della cucina, una mano posata sullo stipite. Indossava una pesante vestaglia di flanella sotto la quale si vedeva uno stropicciato e sporco pigiama. Sicuramente aveva passato gli ultimi giorni immerso nei suoi studi e solo da poco aveva ceduto all’esigenza di riposo: il viso era più affilato del solito con profonde occhiaie a testimoniare la mancanza di sonno. Gli occhi, in genere attenti e brucianti di sete di sapere, erano come appannati dalla stanchezza e sembrava che facessero un grosso sforzo per mettere a fuoco la figura di Riza.
“Ciao, papà – salutò proprio lei, cercando di mantenere un tono di voce saldo nonostante lo spavento provocato da quell’improvvisa apparizione – sono… sono venuta a sistemare un po’ la cucina”.
“Certo”.
I suoi occhi azzurri la fissarono per qualche secondo e a Riza sembrò di essere letteralmente spogliata. Come se con un solo sguardo quell’uomo fosse stato capace di capire cosa stava succedendo, cogliendo ogni sua minima paura e senso di disagio. Per un secondo fu certa di veder apparire un sorriso sarcastico su quelle labbra secche e screpolate. Quasi un “ti aspettavi che la tua vita ormai fosse come un e vissero felici e contenti?”. Fu solo un secondo, ma bastò per destabilizzare Riza più di quanto non lo fosse già: sentiva il suo cuore battere all’impazzata, era come se fosse paralizzata davanti a quella figura che, nonostante lei fosse cresciuta, continuava a sembrarle enorme.
Non ha nessun controllo su di me – si ripeté, quasi a convincersi – non ha nessun controllo…
Distolse lo sguardo da lui e si chinò per iniziare a raccogliere i cocci del piatto rotto. Uno di quei frammenti le tagliò il dito, ma lei non ci fece caso: rimase china sul pavimento fino a quando non sentì quell’ingombrante presenza allontanarsi silenziosamente dalla cucina.
Improvvisamente quella casa le sembrò più ostile che mai.
 
Dieci minuti dopo Andrew stava percorrendo il paese per tornare a casa.
Aveva vagato a lungo per le campagne cercando di recuperare un minimo di controllo: man mano che la mattinata si era fatta avanti era come se uno strano incantesimo avesse mollato la presa su di lui, facendogli capire che era stato uno sciocco a scappare di casa in quel modo, lasciando la sua famiglia a preoccuparsi. Non si era nemmeno premurato di lasciare un biglietto, un comportamento davvero irresponsabile.
Davvero bravo a lasciare tua moglie in una simile condizione.
Se lo disse con rimprovero, per quanto non rinnegasse del tutto quello su cui aveva rimuginato nelle ultime ore. Era ancora profondamente ferito dal fatto che Ellie non gli avesse mai detto nulla a riguardo: capiva che, con molta probabilità, l’aveva fatto anche per evitargli un dolore, ma non era così che funzionava.
Questa strana tensione tra loro gli aveva fatto tornare alla memoria un brutto episodio risalente alla nascita di Kain. Il giorno dopo quel tragico parto lui si era svegliato e toccando il neonato gli era parso che non respirasse affatto.
“Andrew… che succede?”
“Mi dispiace, non… non respira… non… Ellie, mi dispiace tanto…”
“Che fai? No… Andrew, no! Dammelo!”
“Ellie, non…”
“Lascia stare mio figlio!”

Al ricordo di come avesse cercato di portare via il bambino ad Ellie serrò gli occhi. Anche quella volta aveva sbagliato, non si era dimostrato all’altezza: non aveva dato la minima fiducia a Kain, non aveva capito come stavano davvero le cose, ossia che stava solo respirando estremamente piano.
“Va bene… va bene, Andrew Fury, smettila! – si disse, scuotendo il capo e fermandosi in mezzo alla strada – Rischi di andare fuori di testa se continui così ed è l’ultima cosa che serve alla tua famiglia”.
In quel momento avrebbe voluto bere qualcosa di veramente forte, come uno dei liquori che aveva suo padre: aveva bisogno di sentire quel liquido rovente bruciargli la gola e restituirgli la lucidità che gli serviva per affrontare la situazione. Per qualche secondo fu tentato davvero di andare a casa dei suoi genitori, ma farsi vedere in quelle condizioni equivaleva a venir sottoposto ad una serie di domande alle quali non aveva nessuna voglia di rispondere.
Inutile anche andare da Vincent, non l’avrebbe potuto aiutare: la questione riguardava la sua famiglia ed era giusto, anche per rispetto ad Ellie, che rimanesse entro i confini delle quattro mura. E nemmeno Laura doveva venirne coinvolta, per quanto avesse una gran voglia di sfogarsi con qualcuno.
Del resto i panni sporchi si lavano in casa, no?
Affrettò il passo, temendo che l’impulso di andare da qualcuno dei suoi amici più fidati si facesse troppo pressante. Si accorse solo all’ultimo di star passando vicino alla villetta degli Hawkeye e praticamente sbatté contro Riza che era uscita di corsa dal cancelletto.
“Mi scusi – balbettò la ragazza, tenendo lo sguardo basso e non riconoscendolo subito – io… papà?”
“Ehi, che faccia – commentò Andrew, notando il viso sconvolto della figlia. Fu anche sicuro di vedere un lieve accenno di lacrime – che ti è successo? Ti ha detto o fatto qualcosa?” d’impulso la prese per le spalle e la strinse a sé. Proteggere Riza da quell’uomo, questa che era una parte della sua vita di cui era estremamente sicuro: era come se un tassello fosse tornato finalmente al suo posto. Sentire il corpo della ragazza che da teso si rilassava contro il suo lo fece sentire incredibilmente meglio.
“Lui? – chiese Riza con voce soffocata, mentre si premeva in maniera quasi spasmodica contro il suo petto – non ha detto praticamente niente. Eppure… eppure… è come se capisse tutto, come se fosse lì pronto a cogliermi nei momenti in cui sono triste. Mi sento come trascinata verso il suo baratro!”
“Devi smetterla di andare in quella casa da sola – scosse il capo Andrew – non mi piace per niente. Quanto all’essere triste, presumo di esserne in parte il responsabile, vero?”
Riza alzò il viso verso di lui e fu doloroso vedere quegli occhi castani che si abbandonavano alle lacrime.
“Sono una stupida egoista – pianse – con la mamma in quelle condizioni non ho potuto fare a meno di pensare che la mia felicità stesse andando a rotoli. Invece di fare qualcosa mi sono fatta travolgere dall’idea che tutto quello che avevo sognato si stia distruggendo”.
“Non è così – la consolò Andrew, accarezzandole i capelli – non si sta distruggendo proprio niente. Se hai avuto questa impressione perché sono uscito di casa senza dire niente, ti chiedo scusa. Non è stato un bel gesto”.
“Mamma l’ha immaginato che potessi essere sconvolto”.
“Sono semplicemente umano, bimba mia, come tutti noi. E capisco che in confronto a tuo padre ti siamo sembrati la famiglia perfetta… ma non lo siamo. Come vedi i problemi ci sono per tutti quanti e anche le crisi possono succedere. E… e se questa volta non sono stato il padre che volevi ti chiedo scusa: ti ho lasciato da sola ad affrontare un’emergenza”.
Lo disse con sincero rimorso: aveva passato ore a pensare a tutti quei bambini che non aveva mai visto, dimenticandosi che ne aveva due vivi a cui pensare. Perché in quel momento, ai suoi occhi, Riza appariva come una bambina sperduta nel bosco che chiama disperatamente aiuto.
“Promettimi che non ci lascerai più soli. Lo so… lo so che sembra una richiesta idiota, ma… ma ti giuro, vedere lui che sembrava quasi gongolare mi ha fatta sentire malissimo! E anche se non siamo una famiglia perfetta non importa. L’importante è che affrontiamo le cose assieme, è tutto quello che ti chiedo! Sono stata troppo sola…”
“Dannazione, certo che sei stata troppo sola – Andrew la strinse con forza – e questo non deve più accadere. Coraggio, adesso asciugati le lacrime e torniamo a casa: tua madre ha bisogno di stare serena, a dire il vero è un’esigenza che abbiamo tutti”.
“C’è Elisa con lei – spiegò Riza, scostandosi da lui per recuperare un fazzoletto e asciugarsi le lacrime – adesso sta meglio dopo un malessere avuto stamattina. Abbiamo pensato di non dire molto a Kain… insomma, lui ha saputo della gravidanza ma non sa degli aborti”.
“Questo è già qualcosa – sospirò Andrew, passandosi una mano tra i capelli, mentre iniziavano a camminare – sono fatti che non dovrebbe mai sapere”.
“Papà…” Riza si bloccò e lo prese per mano.
“Dimmi”.
“Elisa dice che forse, dato che questa volta la gravidanza è già al terzo mese avanzato, le cose potrebbero andare diversamente e che la mamma potrebbe avere il bambino. Credi che sia possibile?”
Andrew strinse con forte quella mano morbida e calda. Era una possibilità davvero meravigliosa e per qualche secondo fu pervaso da una strana sensazione di redenzione. Se questa volta le cose fossero andate in maniera differente?
“Tua madre ha detto che è destinata ad abortire”.
“Lo so – ammise la giovane – però… non lo so, Elisa ha detto che è sbagliato partire così negativi. Sostiene che dovremmo fare tutto il possibile e devo dire che mi trovo d’accordo con lei. Però se ripenso a tutto quello che ha passato la mamma quando ancora non la conoscevo… se poi andasse male ne uscirebbe distrutta”.
Andrew esitò.
Non sapeva cosa rispondere perché non poteva mettersi nei panni di Ellie. Non poteva obbligarla ad insistere per un qualcosa che la stava torturando. Certo da una parte era meraviglioso pensare che ci fosse quella possibilità e una parte della sua mente stava già galoppando verso scenari dove il bambino cresceva mese dopo mese nel grembo materno fino a nascere.
E cancellare finalmente tutti questi anni in cui le è sempre mancato qualcosa. Scacciare quel senso di colpa che l’ha torturata nel profondo della sua anima… sarebbe davvero desiderare troppo?
“Adesso torniamo a casa – si limitò a dire – così Elisa può tornare in ambulatorio”.
 
Ellie con un sospiro allungò dal mano e dal comodino prese la scatolina di carta che conteneva le bustine della tisana. Approfittando di quel momento di solitudine, mentre la dottoressa era scesa per prendere congedo da Riza, aveva compiuto quel gesto che in qualche modo perverso aveva bramato per tutte quelle ore.
Erano innocue bustine di carta velina, si intravedevano le erbe triturate finissime e si sentiva anche un profumo piacevole, simile a quello del ribes. A guardarle bene non erano differenti dalle semplici tisane rilassanti che la madre di Elisa faceva da una vita.
“È sono una tisana che aiuta a rilassare e a prevenire le contrazioni, non è un vero e proprio medicinale”
Le parole di Elisa sembravano incredibilmente rassicuranti: niente medicine, solo una piacevole tisana da bere. Proprio come quelle che avevano il potere di calmare il mal di stomaco o il mal di testa.
Prevenire le contrazioni…
La mano libera andò a toccare il ventre. Il bambino era lì, presumibilmente tranquillo, che ancora non aveva subito nessun particolare trauma. In quel momento non riusciva a provare odio per lui, era come se l’essersi finalmente rilassata le facesse vedere le cose in maniera più positiva.
No no! Grosso errore, Ellie! Non cullarti nell’illusione di qualcosa che non potrai mai avere.
Posò la scatolina sul comodino e si sistemò meglio, posando la schiena contro i cuscini. Vigliaccamente preferì non fare caso alla mano che era rimasta sul grembo.
“Ciao, meraviglia”.
La voce di Andrew la fece sobbalzare e arrossire: si era fatta cogliere in flagrante?
Lo osservò, fermo sulla soglia, quasi aspettasse il suo permesso per entrare. Aveva un aspetto tremendo, sebbene avesse cercato di darsi una sistemata almeno ai capelli; tuttavia non riusciva a nascondere il fatto che fosse uscito prestissimo senza nemmeno preoccuparsi troppo delle sue condizioni. Quella visione le fece un’incredibile tenerezza: le ricordò di quando lui era giovane ed in qualche modo tremendamente vulnerabile, di quando cercava di fare di tutto per aiutare Laura nelle difficili condizioni di ragazza incinta e non ancora sposata. E adesso era di nuovo così: pronto ad affrontare un problema più grosso di lui con tutta la forza di volontà di cui disponeva.
“Non pensavo fossi tornato”
“Ho incontrato Riza mentre rientrava a casa e abbiamo fatto la strada assieme”.
Non disse dov’era stato e cosa aveva fatto, né lei glielo chiese, non era necessario.
“Povera cara – sospirò Ellie – oggi le ho affidato tutto quanto mentre io sto qui ad oziare”.
“Dovresti riposare – scosse il capo lui, andando a sedersi nel letto e prendendole la mano – ho saputo del malessere che hai avuto. Non ha senso affaticarti e a Riza non pesa pensare alla casa. Ti senti bene?”
“Sì, adesso sì… senti, mi dispiace, ti giuro che non volevo mentirti – iniziò lei, sentendo l’esigenza di mettere a posto almeno quell’importante questione – ma in tutti questi anni quelle gravidanze cominciavano e finivano senza che nemmeno io ne avessi piena consapevolezza. E ogni volta mi sentivo così… così umiliata – dovette fare uno sforzo per dire quella parola – e scioccamente pensavo che se l’avessi saputo mi avresti considerata diversa. Sapevo benissimo che eri al corrente della mia situazione, ma mi sentivo più sicura al tenerti all’oscuro di tutti quegli episodi”.
“Ti sarei stato accanto, Ellie, come potevi pensare che ti avrei considerata diversa?”
“Non lo so… ma credimi, la prima esperienza fu tremenda e Kain era così piccolo e stava ancora molto male. Non volevo aggiungere problemi dove ce n’erano già tanti. E poi le altre volte è stato quasi automatico non dirti niente: volevo solo proteggere te e Kain, tutto qui”.
Andrew stava per ribattere, ma poi scosse il capo e le rivolse un dolce sorriso, come a dirle che non valeva la pena di rinvangare quel passato così doloroso.
“Abbiamo i nostri ragazzi a cui pensare – disse infine – ho saputo dell’idea di non dire niente a Kain circa le tue reali condizioni”.
“Non voglio assolutamente che viva con qualche senso di colpa – annuì Ellie con risolutezza – lui ne deve uscire indenne da tutta questa storia. Giuramelo, Andrew: già soffro all’idea che ci stia passando Riza, ma Kain no! Sono disposta a tutto per lui”.
“Anche ad andare avanti serenamente fino a quando il tuo corpo deciderà?” le chiese Andrew a bruciapelo.
Ellie lanciò una rapida occhiata alla scatolina di carta e così fece anche Andrew. Di colpo le loro mani si cercarono e si strinsero convulsamente.
Offrire una possibilità seppure labile?
È solo una tisana, non un vero e proprio medicinale…
“Ti sosterrò qualunque sia la tua scelta, Ellie Lyod – le disse Andrew – dovesse accadere oggi, domani, tra una settimana… tra un mese… dovesse anche andare dannatamente a buon fine”.
“No… no – ad Ellie venne da piangere – Andrew, ci stiamo imbarcando in un discorso troppo illusorio, me lo sento. Sarebbe una follia, una follia troppo dolorosa per entrambi”.
“Già, dolorosa… ma è anche doloroso vedere come lanci occhiate alle tisane che ti ha lasciato Elisa”.
“Cielo… cielo…” singhiozzò lei, posandosi pesantemente contro i cuscini. L’ondata di ottimismo era finita, adesso si sentiva nuovamente schiacciata dal peso di quella gravidanza inattesa. Non si era mai sentita così lacerata in vita sua; per Kain mai e poi mai aveva avuto dubbi simili: sapeva che doveva nascere e vivere a prescindere da quanto dicevano gli altri. Ma qui non capiva più dove finiva l’illusione e iniziava la realtà, dove i deliri causati dall’istinto materno lasciavano spazio ad una lucida analisi della situazione.
“Ellie, ascoltami – mormorò il marito, baciandola in fronte – faremo quello che vuoi tu. Se vuoi provare a prendere quelle tisane ti sosterrò, idem se deciderai di non fare niente. Ti sono stato accanto quando è nato Kain, non ti ho lasciato nemmeno quando rischiavi di morire: non importa come andrà a finire, mi hai già dato un figlio meraviglioso, non ti potrei chiedere altro. Voglio solo che tu stia bene, che faccia quello che ti senti”.
“Non lo so! Non so nemmeno io cosa sento!”
“Andiamo per gradi allora – cercò di calmarla lui, prendendo un fazzoletto e asciugandole le lacrime – per adesso pare tutto in ordine, non ha bisogno di quella tisana a prescindere. Adesso pensiamo bene a quello da raccontare a Kain come rientra da scuola e poi deciderai tu domani o dopodomani, quando vorrai”.
“È solo una fuga”.
“No, è il tempo che ti serve per decidere”.
 
“Buon pranzo, ci vediamo domani!” salutò Janet con entusiasmo, iniziando a correre nel sentiero che la conduceva verso casa.
“Buon pranzo!” rispose Kain, salutando con il braccio.
Attese che la ragazzina si voltasse del tutto e poi iniziò a correre pure lui verso casa. Non vedeva l’ora di vedere sua madre e congratularsi con lei per la bella notizia che aveva ricevuto quella mattina. Un fratellino in arrivo, ancora non ci poteva credere! Aveva faticato tantissimo per stare attento alle lezioni, per non lasciarsi sfuggire niente con Janet: in realtà aveva voglia di raccontarlo a tutti quanti. Sarebbe voluto andare in paese a dirlo a Roy, Heymans e Vato: sicuramente sarebbero rimasti di stucco.
Fratello maggiore! Diamine, divento fratello maggiore!
Gli sembrava incredibile e meraviglioso allo stesso tempo avere quel ruolo. Aveva sempre ammirato Jean ed Heymans per il loro essere fratelli maggiori: era come se avessero un’aura di importanza in più rispetto al resto di loro. E ora sarebbe toccato pure a lui.
“Sono a casa! – esclamò, entrando di corsa dall’ingresso principale. Poi, colpevolmente, si ricordò che sua madre poteva riposare e così abbassò il tono della voce, preferendo andare in cucina – Ehi, eccomi tornato!”
“Ciao, ragazzo – lo salutò Andrew. Stava finendo di apparecchiare la tavola, mentre Riza si destreggiava ai fornelli – tutto bene a scuola?”
“Certamente. Ma dov’eri stamattina?”
“Avevo delle commissioni importanti da fare… potresti venire con me nello studio? Ti voglio parlare e non voglio disturbare tua sorella”.
“Certo” annuì perplesso Kain, seguendolo nel salotto e poi nel suo studio. Non si era nemmeno curato di levarsi la tracolla con i libri di scuola. Gli sembrava che suo padre fosse strano, ma non riusciva a capirne il motivo. C’era qualcosa di sbagliato in quella casa: non stava emanando il senso di gioia e aspettativa che si confaceva ad un bimbo in arrivo
Il padre rimase a guardarlo per qualche secondo, le mani giunte davanti alla bocca, come se stesse raccogliendo le idee prima di parlare.
“Tua madre aspetta un bambino” disse infine.
“Lo so – annuì lui, con un sorriso felice – me l’ha detto Riza stamane. Oh, ma forse era un segreto? Nel caso farò finta di essere sorpreso quando me lo dirà la mamma”.
“No no, non è un segreto, diciamo che ha voluto esserne sicura prima di dircelo. Senti, Kain, è un po’ difficile da spiegare, ma tua madre non si aspettava di restare incinta. Non dopo più di quindici anni dalla tua nascita”.
“Beh, anche io ormai ci avevo messo una pietra sopra, però…”
“Il fatto è che non è una gravidanza semplice”.
Fu una frase detta con estrema pacatezza, ma per Kain fu come se un macigno gli fosse stato lanciato addosso.
“Sta molto male?” chiese con esitazione.
“No no, per ora sta bene… ma è un po’ come era successo per te. Ti ricordi cosa ti raccontava, no? Che ha rischiato di perderti più volte mentre ti portava in grembo”.
“È così anche questa volta? – gli occhi scuri del ragazzo si sgranarono, l’entusiasmo che lasciava il posto alla preoccupazione – Mamma rischia di perderlo?”
“Non lo sappiamo, comunque è necessario che stia tranquilla, va bene? Ha bisogno di tutto il nostro appoggio”.
“Posso andare da lei?”
“Certamente, ti sta aspettando. Però ricordati di tenere un tono di voce calmo”.
Kain annuì e uscì dallo studio.
Arrivato davanti alle scale esitò: nell’arco di pochi minuti l’entusiasmo era sparito per lasciare spazio ad una strana e fastidiosa angoscia. Adesso aveva paura di vedere sua madre.
Come la mia gravidanza?
I ricordi di quei racconti tornarono alla memoria. Certo, i suoi genitori li avevano intrisi solo del grande amore che portavano per lui, ma con gli anni li aveva in parte spogliati di quel tono fiabesco, arrivando alla nuda realtà dei fatti: sua madre aveva rischiato di perderlo più volte ed era quasi morta nel metterlo al mondo ad appena sette mesi di gestazione. Improvvisamente quella possibilità di morte si fece più concreta e dovette scuotere con forza il capo per cacciarla via.
Lasciando cadere la tracolla a terra si decise a salire quella rampa di scale, i gradini che sembravano non finire mai e fece quella decina di passi che lo portarono davanti alla camera dei suoi genitori
“Mamma?” chiamò flebilmente, bussando alla porta in modo così debole che a stento sentì il suono delle nocche contro il legno.
“Vieni” rispose una voce da dentro.
Kain annuì e si fece coraggio nell’abbassare quella maniglia. Non sapeva cosa aspettarsi: già l’idea di trovare sua madre ancora a letto adesso, dopo aver saputo delle difficoltà della gravidanza, gli dava un forte senso di fastidio. Non era abituato a vederla in una simile maniera: per lui sua madre era sempre forte, attiva, vitale… bella come l’aveva vista negli ultimi tempi.
Vederla leggermente pallida in quel letto gli fece profondamente male.
Oh no, no! Tu non devi stare male. Tu sei mia madre! – pensò in maniera frenetica, dando particolare enfasi all’aggettivo possessivo.
“Ciao, pulcino, è andata bene a scuola?”
“Sì – annuì lui, facendosi avanti e andandole accanto – e tu come stai?”
“Non male – sorrise lei – però, ordini di Elisa, è meglio che stia a riposo. Papà ti ha detto che cosa sta succedendo?”
“Sì, aspetti un bambino… io… congratulazioni, mamma” si sforzò di dire, cercando di recuperare l’entusiasmo di poco prima. Sul serio, come aveva fatto ad essere così lieto per tutta la mattinata?
“Grazie” rispose con semplicità Ellie.
Era un sorriso stanco il suo, come se si stesse obbligando a recitare quella piccola commedia. Poi Kain notò la mano che stava posata sul ventre e quel gesto in qualche modo lo tranquillizzò: quello rientrava nella normalità di sua madre. Essere amorevole e protettiva verso un figlio era il suo modo di agire.
“Andrà tutto bene, vero?” posò la sua giovane mano sopra quella materna.
“Sì, Kain, andrà tutto bene”.
Sembrava tanto una bugia, una di quelle che a volte gli adulti raccontano ai bambini a fin di bene, secondo il loro modo di vedere. Ma in quel momento Kain sentiva l’esigenza di credere a quella strana menzogna che intuiva senza riuscire a comprendere del tutto.
Ma lei farà qualsiasi cosa per un figlio – si convinse
– su questo non devo aver dubbi.





 

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Capitolo 28. Caino e Abele ***


 

Capitolo 28. Caino e Abele.

 


 
 
Che Kain rimuginasse sul fatto che qualcosa non andasse era inevitabile e di certo la situazione a casa non lo aiutava. Sentiva che la tensione si poteva tagliare con un coltello, come se tutti fossero in attesa di un qualcosa che temevano, ma non potevano evitare: ogni giorno che passava era sempre peggio.
All’apice di questo clima così difficile si era persino confidato con Roy, uno dei pochi ad essere stato messo al corrente della situazione, e con lui era riuscito a dare un minimo di voce ai suoi pensieri.
“È che da un po’ non mi riconosco più: sento che c’è qualcosa di sbagliato a casa e forse il problema sono io. Lo so che è una cosa sciocca da pensare, talmente sciocca che sei il primo con cui ne parlo, ma non riesco a levarmi quest’idea dalla testa. Ti giuro che ci sono momenti vorrei prendere il treno e partire”.
“E pensi che andare via da qui sia la soluzione migliore?”
“Quando non ti riconosci più parte di qualcosa, dovrebbe essere una soluzione più che accettabile, no?”
“Diamine, nano, con tua madre in quelle condizioni? Non è da te lasciarla sola in un simile frangente”.
“Se non ci fossi io le cose sarebbero più semplici, me lo sento”.
“Perché dici questo?”
“Perché credo che i miei genitori mi vedano come il colpevole di questa gravidanza difficile. Riza ti ha detto anche di questo dettaglio? Anche la mia gravidanza è stata un disastro e sono nato settimino: per poco io e la mamma non siamo morti nel parto. E se…”
Non aveva aggiunto altro, sentendosi confuso da quelle sue stesse confessioni, ma per qualche minuto si era sentito in qualche modo confortato dal rispettoso silenzio di Roy. Ma quell’ultimo “e se…” che non aveva trovato conclusione continuava a tormentarlo come un pugnale conficcato nello stomaco che a intervalli sempre più ravvicinati si rigirava con violenza.
 
Uno degli effetti principali di questo invisibile pugnale era che Kain trovava estrema difficoltà ad interagire con sua madre.
Ellie aveva iniziato a prendere le tisane che le aveva dato Elisa, dicendosi che non erano un vero e proprio farmaco e che dunque non avrebbero in nessun modo ostacolato il corso della natura, qualunque esso fosse. Se avevano l’effetto di calmarla e dunque far star meglio anche il suo corpo era un qualcosa che andava oltre la sua gravidanza. Ovviamente questa era la giustificazione ufficiale che aveva dato a suo marito e a Riza, ma soprattutto a se stessa. Dentro di sé, per quanto si maledicesse ogni volta che aveva il coraggio di ammetterlo, aveva preso l’ardua scelta di dare un minimo di possibilità alla piccola vita che stava crescendo dentro di lei. E se ogni giorno che passava le sembrava una piccola vittoria, non poteva fare a meno di dirsi che era una sciocca ad essere caduta in pieno in quell’illusione: sapeva che si stava solo ritardando di poco l’inevitabile.
“Comunque anche oggi sto molto bene, tesoro, non devi preoccuparti” lo disse con un sorriso sereno a Kain, la settimana successiva al dialogo che quest’ultimo aveva avuto con Roy.
Era raro che riuscisse a passare un po’ di tempo sola con lui: Andrew e Riza facevano gara per starle accanto e sembrava che fosse lo stesso ragazzino ad avere una strana remore a trovarsi in sua compagnia. Lo si intuiva da come se ne stava seduto rigidamente sul bordo del letto: l’aveva invitato a sdraiarsi accanto a lei com’era solito fare, ma aveva ottenuto un rifiuto, accompagnato dalla flebile giustificazione che non voleva in nessun modo disturbarla.
Ellie avrebbe desiderato con tutta se stessa sentirlo abbracciato a lei, sentire quel contatto fisico che fino a qualche settimana fisica era una cosa quasi scontata. Scoprire che il proprio figlio aveva paura di toccarla la faceva sentire strana, come se gli stesse in qualche modo venendo meno.
“Sicura? Mi sembri pallida” la voce di Kain era deliberatamente bassa, come se avesse timore di esprimere troppo, di farsi cogliere in fallo. Era come se fosse obbligato ad una sgradevole recita che non sapeva gestire.
“Certo, mi alzerei anche, ma come ben sai devo stare sdraiata”.
Il ragazzo annuì, ma non disse altro, anzi distolse lo sguardo per posarlo sul pavimento.
“Ehi, pulcino – lo richiamò Ellie – cosa c’è?”
Gli occhi scuri di Kain tornarono a fissarla, un universo di domande che desiderava ardentemente avere il permesso di uscire. Ed effettivamente le labbra si schiusero in un primo accenno di parola, ma poi si tirarono in uno strano sorriso.
“Niente, è che non voglio disturbarti troppo”.
Un muro.
Tra lei e suo figlio c’era un tremendo muro e questo non era tollerabile per Ellie.
“Ascolta, vuoi posare una mano sulla pancia e provare a sentire il tuo fratellino?” gli chiese, scostando le coperte dalla sua pancia.
Era una proposta temeraria, un gesto che sarebbe stato meglio non permettere mai e poi mai. Da una parte sarebbe stato molto più saggio impedire il minimo contatto tra quei due fratelli che con tutta probabilità non si sarebbero mai incontrati. Ma Ellie aveva sentito l’urgenza di trarre di nuovo Kain dalla sua parte, di avere un contatto fisico che le mancava troppo.
E dopo una lieve esitazione lui annuì e posò la sua mano sul ventre materno.
Fu un’esperienza surreale per la donna. Aveva sentito il suo ventre toccato da Elisa, da Andrew e persino da Riza, ma quel contatto era totalmente diverso. La mano di Kain era caldissima, in qualche modo riusciva a superare  la sua camicia da notte: sentì quell’impronta sulla sua pelle e fu certa che arrivò anche al piccolo dentro di lei.
Se solo non fosse andata così – si disse la donna, trattenendo il fiato davanti a quella sensazione piacevolmente bruciante, certa che i due fratelli fossero in contatto in una strana ma tangibile maniera – se solo questo mio corpo fosse stato più forte.
“Lo senti?” gli chiese con un sussurro.
“Sento la tua pancia – ammise lui, ritraendo la mano – forse è troppo piccolo perché si muova”.
“Beh, ormai sono nel quarto mese, ma è vero che non è ancora così grande per far sentire troppo la sua presenza”.
“Mamma, tu… insomma tu – Kain scosse il capo, alzandosi in piedi. Sembrava che quel contatto l’avesse turbato più del previsto – per te va tutto bene, vero? Insomma col bambino e… e con me, no?”
“Ma certo, tesoro! Che cosa ci dovrebbe essere che non va tra noi?”
“Non lo so – confessò lui con desolazione – solo che… che non mi piace vederti stare male”.
E senza attendere risposta andò via dalla stanza materna.
 
Per quanto la famiglia avesse cercato di proteggerlo, Kain aveva intuito che la gravidanza di sua madre era destinata a non andare a buon fine. A scuola divenne silenzioso, persino scontroso, tanto che la stessa Janet si offese e decise di non fare più la strada assieme a lui. Ma non si rendeva conto di questi cambiamenti esterni.
Man mano che questo senso d’angoscia si faceva più forte, prese ad uscire anche i pomeriggi, quasi volesse evitare di essere presente quando sarebbe accaduto l’inevitabile.
Un paio di giorni dopo approfittò dell’arrivo di Elisa per andare a prendere le tisane che la giovane dottoressa aveva dimenticato in ambulatorio.
E fu un vero colpo di fortuna per tutti perché una decina di minuti dopo la sua uscita iniziò l’aborto.
Ellie si ricordava molto bene dei dolori del parto di Kain, in particolare ancora la tormentava la prima fitta che era arrivata in maniera così improvvisa e violenta che l’aveva costretta a piegarsi in due come se fosse stata colpita da un pugno.
Questa volta, al contrario di tutti gli altri aborti, la contrazione arrivò in modo simile a quella che aveva dato inizio al disastroso parto di Kain.
Fu un attimo e nel suo viso tirato apparve una smorfia di dolore che la costrinse a piegarsi in due, proprio come quella volta, e a portarsi una mano sul ventre.
Stupida! Stupida! Stupida! – gridò mentalmente, mentre cercava di recuperare fiato davanti a quel dolore – Che cosa speravi di fare?
“Andrew!” ansimò con disperazione.
“Che cosa succede? – chiese subito Elisa, accostandosi alla sua paziente – è una contrazione?”
“Andrew! – chiamò di nuovo la donna, scuotendo il capo – Per favore, Riza, chiama Andrew!”
“Subito, mamma!” annuì la bionda, scuotendosi dal terrore per quell’improvviso cambiamento.
“Va bene – cercò di calmarla la dottoressa, scostando le coperte dalla sua figura – magari è solo un falso allarme, possiamo provare a…”
“È perduto… perduto! – singhiozzò Ellie, libera da quel primo dolore, ma consapevole che presto ne sarebbe arrivato uno nuovo – lo è sempre stato…”
“Ma no, non possiamo partire…”
“… Andrew, dov’è Andrew?”
“Ellie!” arrivò immediatamente lui, spalancando la porta e accostandosi alla moglie. Le prese le mani e la baciò con tenerezza in fronte: il suo viso era una maschera di sofferenza, eppure traspariva una grande tenerezza nei confronti della donna.
“Mi dispiace – le lacrime colavano senza parere sulle guance di lei – io… io ti giuro che ci ho provato!”
“Ehi, meraviglia – le sussurrò lui, spostando le mani per prenderle il viso – sono qui con te, non temere. Andrà tutto bene, coraggio. Non ti lascerò mai, Ellie Lyod, per nessun motivo al mondo”.
“Il nostro bambino…” mormorò la donna serrando gli occhi.
“Mi dispiace, amore… ti giuro, mi dispiace io…”
Dannazione! – sibilò Elisa, mentre una nuova contrazione faceva gemere la gestante – Riza, prendimi subito degli asciugamani! Devo provare a bloccare l’emorragia. E prendimi la valigetta, le somministrerò…”
“Niente!” la bloccò Ellie, dimenticandosi del dolore per fissarla con occhi lucidi.
“Niente? – la guardò stranita Elisa – Possiamo provare a bloccare le contrazioni e…”
“Non c’è niente da fare – sospirò lei, posandosi pesantemente contro Andrew, quasi a chiedergli forza – non… non lo sento più… non…”
Avrebbe detto altro, ma ci fu una nuova contrazione. Meno forte della prima, ma più prolungata e in qualche modo profonda: Ellie emise un lungo e straziante gemito, le sue mani che sbiancavano nel tenere stretta la camicia del marito.
“Sta già uscendo, vero?” chiese l’uomo.
“Sì – ammise Elisa, prendendo degli asciugamani e accogliendo quella creaturina che scivolava fuori dal grembo materno senza nessuna difficoltà – è… è minuscolo”.
Le mani della dottoressa tremavano mentre avvolgevano quel fagottino e lo sollevavano.
“Si… si muove…” balbettò Riza che era tornata e assisteva incredula ed inorridita a quella scena, tenendo ancora stretti a sé alcuni asciugamani puliti.
“È vivo, certo, andava tutto bene fino a cinque minuti fa… lo… lo volete tenere? Io… mi dispiace, morirà nel prossimo minuto, non ha gli organi sviluppati per…”
Ellie si posò tra i cuscini, incredula che i dolori del parto fossero già terminati, ma subito tutta la sua attenzione si rivolse al minuscolo bimbo che stava in braccio ad Elisa, così piccolo da non vedersi minimamente in mezzo all’asciugamano. L’unica sua traccia era il cordone che ancora era attaccato, una strana e sanguinolenta corda che non era riuscita a tenerlo aggrappato alla vita.
“Il mio piccolino – tese le braccia con voce rotta – ti prego, dammelo”.
Nessuno si chiese se era il caso di far vivere a quella donna un’esperienza così tremenda come la visione di un feto che annaspa disperatamente alla ricerca di un’aria che ancora non è in grado di respirare. Non ci fu esitazione in Elisa: con dolcezza passò il bambino alla madre e si alzò dal letto.
“La placenta è già espulsa – mormorò, accostandosi a Riza ed incitandola ad uscire – se usciamo per un minuto non succederà nulla. Vieni…”
La bionda si limitò ad annuire con le lacrime agli occhi.
 
Quando Kain era nato era così piccolo da poter stare nel palmo delle mani del padre.
Questo nuovo bambino era così minuscolo che un’unica mano materna era sufficiente ad accoglierlo. Nonostante questo era già incredibilmente umano: braccia, mani, testa, gambe, piedi… sebbene le dita non fossero ancora del tutto evidenti. Nella testolina poi, i tratti somatici non erano ancora del tutto sviluppati: un accenno di nasino, degli occhi e delle labbra che avrebbero avuto bisogno di più tempo per decidere se somigliare a quelle materne o paterne.
“Va bene, è maschio…” mormorò Andrew, sistemando meglio l’asciugamano intorno a quella creatura che si muoveva leggermente.
“Piccolino – sussurrò Ellie, trovando il coraggio di posare l’indice su quella manina minuscola. Forse si aspettava un miracolo, quel semplice riflesso per cui le dita dell’infante si stringono attorno alla presa, ma poi si rese conto che quella manina rossastra non era in grado di compiere un gesto simile – Andrew… Andrew… perché ci è successo questo? Io non… non…” scosse il capo con sfinimento e si accomodò meglio tra i cuscini, tenendo stretta la sua creatura, posandosela sul petto e accarezzandola con delicatezza.
L’uomo non rispose, non potendo trovare una minima spiegazione a quella grandissima bastardata che la vita aveva appena fatto loro. Li aveva fatti illudere il tanto giusto, facendo sviluppare il bimbo persino il tanto da poterne sapere il sesso: oltre al danno la beffa, come ad aggiungere un nuovo pugnale a delle anime già straziate.
Ha diritto di essere seppellito in cimitero? – si trovò a chiedersi, mentre osservava il suo secondogenito smettere di muoversi dopo nemmeno due minuti di fragile e sofferente esistenza.
Per un meccanismo di difesa, non riuscendo ad affrontare quella visione troppo a lungo, chiuse gli occhi e riportò alla memoria l’immagine di Kain neonato che, dopo alcuni giorni di esitazione, apriva finalmente gli occhi. Occhi di un azzurro cupo meraviglioso, destinati poi a diventare neri dopo il primo anno.
 
In quel medesimo istante proprio gli occhi neri di Kain leggevano con ansia le ultime righe di una vecchia relazione medica che lo riguardava, la scatola con le tisane dimenticata nella scrivania dell’ambulatorio.
Era entrato qualche minuto prima, chiamando il medico, ma scoprendo che non c’era nessuno. Tuttavia Elisa gli aveva detto che la scatoletta stava sopra la scrivania e così aveva deciso di superare la piccola sala d’attesa e di entrare nella sala visite vera e propria, con l’intenzione di prendere il medicinale e andare via.
Ma come aveva allungato la mano per prendere la scatolina di cartoncino, il suo sguardo era caduto su dei fogli leggermente ingialliti che stavano sotto di essa e subito aveva letto il suo nome.
“… conseguenze permanenti nel grembo materno… – lesse con un sussurro, mentre arrivava alle ultime righe – impossibilità di portare avanti una gravidanza oltre il secondo/terzo mese…”
Qualche altra annotazione, la firma del vecchio dottor Lewis, e poi c’era un altro foglio compilato per tre quarti con una grafia più inclinata ed elegante, questa volta nuovo, come testimoniava il bianco immacolato della carta. I dati della nuova gravidanza di Ellie Lyod, i sintomi, la scoperta che aveva avuto almeno altri quattro aborti entro il secondo mese, i referti giornalieri, i pareri sulla possibilità di aborto in stato di gestazione avanzato…
Al ragazzo venne un forte giramento di testa e fu costretto ad aggrapparsi con forza alla scrivania di legno scuro e trarre diversi profondi respiri. Sentiva le sue gambe tremare, improvvisamente molli come la gelatina, ma soprattutto finalmente capiva il senso di sbagliato che aveva provato per quelle ultime settimane.
Vigliacco! Vigliacco! Dentro di te lo sapevi già! Sapevi già di averla rovinata con la tua nascita!
Non erano morti entrambi per miracolo. Come poteva pensare di non aver causato qualche danno irreversibile al corpo minuto di sua madre? Tutti quegli aborti di cui parlava la nuova relazione erano esclusivamente colpa sua.
E tu che le dicevi che ti sarebbe piaciuto avere un fratello o una sorella… non avevi capito di averli uccisi ancora prima che nascessero? Dio mio! E lei… e lei…
… e lei mai una volta che gli avesse rinfacciato tutto quanto. Né lei né suo padre… mai lo avevano reso partecipe di questi dettagli della sua nascita. Lei sorrideva sempre e lui non si era mai accorto quando quel sorriso era crepato dal dolore, nella sua ingenua idea che sua madre fosse la creatura perfetta.
“Merda!” sibilò, battendo le mani sul tavolo e uscendo di corsa da quell’ambulatorio il cui odore di disinfettante lo stava nauseando.
Si dimenticò completamente della scatola di tisane.
 
Non gli avevano dato un nome.
Troppo penoso e non avrebbe nemmeno avuto senso: l’unico risultato sarebbe stato soffrire di più per un ricordo già troppo penoso da portarsi dietro. I feti non potevano essere seppelliti nel cimitero e per quanto quella creaturina avesse annaspato poco meno di due minuti alla ricerca della vita, non rientrava nei canoni per aver diritto ad un funerale ed essere segnata nei registri del municipio.
Alla fine Riza procurò una graziosa scatola di cartone bianco, un ricordo del suo viaggio ad East City, e con una copertina vi fece una piccola bara per il fratellino appena spirato.
Ellie osservò ancora una volta il corpicino ormai freddo tra le sue braccia e poi lo consegnò al marito, girando la testa di lato e rifiutandosi di guardare oltre. Andrew stava per dire qualcosa, ma poi capì che sua moglie aveva già dato troppo e non poteva sopportare altre sofferenze: aveva detto addio a suo figlio.
“Taglio il cordone – mormorò Elisa con delicatezza, nonostante dalla sua espressione fosse chiaro che anche per lei l’esperienza era stata orribile – e poi penso a lei. Le do un sedativo così smaltisce gli ultimi residui dell’aborto”.
Liberato il piccolo da quell’ultimo legame, Andrew lo depose con cura nella scatola, coprendolo con delicatezza con i lembi della coperta. Si sentì un vigliacco, ma sentì una strana forma di sollievo quando il coperchio di cartone lo nascose alla sua vista.
“E ora?” chiese Riza, mentre usciva dalla stanza matrimoniale assieme al genitore.
“Lo seppelliamo in giardino – decise Andrew, tenendo quella piccola improvvisata bara – e poi… non lo so, se tua madre vorrà piantarci sopra qualche fiore lo deciderà in seguito. Adesso… ti va di venire con me? O vuoi stare con lei?”
“Credo che sia giusto dire addio al bambino” disse la ragazza dopo qualche esitazione, stringendo con la mano il braccio del padre in un gesto di conforto.
Fu un funerale? Né Andrew né Riza seppero mai dirlo: per quanto provassero pena e dolore per quella creaturina, nessuno di loro due aveva qualcosa da dire in merito. Era solo una speranza che non si era avverata, una promessa spezzata troppo presto era un dolore troppo generico per poterlo in qualche modo incanalare con delle parole.
Si risolse tutto in dieci minuti.
Andrew recuperò una pala dal capanno degli attrezzi e si recò in un angolo del giardino, proprio al confine con la pineta che circondava parte della casa. Scelse un punto facilmente ritrovabile vicino ad un albero e scavò una buca abbastanza profonda. Poi prese la scatola che Riza teneva con fare esitante e la depose con attenzione in quella terra smossa.
Padre e figlia si guardarono, chiedendosi se era il caso di dire qualche cosa, ma dopo qualche secondo di silenzio, l’uomo prese la pala e provvide a ricoprire la sepoltura di quel piccolo bimbo senza nome. Riza vi depose alcuni fiori presi da un cespuglio e poi tornarono entrambi a casa.
“Mi sento da schifo…” riuscì a dire la giovane, come andarono in cucina. Si strinse ad Andrew con rabbia, permettendo alle lacrime di uscire.
“Credo che non ci si possa sentire in altro modo – annuì Andrew, tenendola contro di sé – ma per l’amor del cielo, cerchiamo di essere forti per Ellie, va bene? Lo so che ti sto chiedendo tanto, figlia mia, ma sei il mio miglior sostegno in questa triste vicenda ed io…”
La frase si interruppe per il rumore della porta d’ingresso che veniva aperta e poi chiusa con particolare violenza.
“Dannazione, è già tornato Kain – mormorò Andrew, sciogliendosi dall’abbraccio di Riza – adesso gli parlo io. Tu preparati una camomilla sul serio, ne hai bisogno”.
 
Kain rimase fermo all’ingresso, indeciso sul da farsi.
Si sentiva pronto ad esplodere, eppure se ne stava fermo lì, in piedi, ansante per la corsa che si era fatto. Non sapeva nemmeno perché era tornato in quella casa piena di menzogne che ora gli sembrava così soffocante tanto che si dovette allentare la sciarpa che portava al collo.
Guardò le scale e per un secondo pensò di rifugiarsi in camera sua, chiudere a chiave, e creare la più meravigliosa radio di questo mondo per far vedere a tutti di cosa era capace. Ma subito si rese conto che la sola idea di pensare ai circuiti lo faceva stare male… qualunque cosa lo faceva stare male.
Rabbia, rabbia, rabbia!
“Kain…”
La vista appannata del ragazzo colse appena la figura che proveniva dalla cucina. Riconobbe maggiormente la voce, identificando così il padre.
“Dovevi dirmelo…” sibilò, serrando i pugni con violenza.
“Kain, ascolta, dobbiamo parlare – disse con voce pacata Andrew, prendendolo per le spalle – è successa una cosa mentre eri via. Tua madre…”
“Non mi dire, ha abortito, eh?”
Aveva usato un tono di voce gelido che nemmeno lui sospettava di avere. Così come non sospettava di essere capace di un furore simile che ora stava rompendo anche le ultime sottili barriere che lo trattenevano, facendogli dimenticare persino che la persona davanti a lui era suo padre.
“Kain…”
“Non poteva andare diversamente! – gridò con tutta la forza che aveva in corpo. Si lanciò con tutta la forza della sua adolescenza contro Andrew, finendo a terra assieme a lui. Lo prese per il colletto della camicia ed iniziò a strattonarlo – Lo sapevate! Lo sapevate da sempre! L’ho ridotta io così! E non mi avete mai detto niente…tu  non mi hai mai detto niente! Perché tanto sapevi che lei non l’avrebbe mai fatto!”
“Kain!” Riza intervenne, scostando il fratello dall’uomo che si rialzò in piedi.
Era assurdo vedere quel ragazzino così a modo comportarsi come una bestia impazzita, tanto da sbavare per la rabbia. Non si avventò contro la sorella solo perché si allontanò verso il muro, per dare una manata impotente che sicuramente gli creò un gran dolore.
“Adesso calmati!” gli disse Andrew, andando verso di lui senza alcuna esitazione, senza nemmeno fare caso alla camicia in parte strappata e ai segni rossi che aveva sul collo.
“Calmarmi? Calmarmi!” Kain si rivolse di nuovo contro di lui.
Ma prima che potesse dire o fare qualcosa, lo schiaffo del padre lo colpì in pieno volto.
Nel salotto di casa Fury si fece silenzio, interrotto solo dai respiri ansimanti di tutti e tre i presenti.
“Sì, calmarti – disse Andrew con voce piatta, nonostante la mano gli tremasse: mai in quei quindici anni aveva dato uno schiaffo a suo figlio – perché sopra c’è tua madre sotto sedativi, distrutta dato che nemmeno una mezz’ora fa ha dato alla luce un bambino che le è morto tra le braccia, va bene? Vuoi essere arrabbiato? Ne hai tutto il diritto, non sarò io a negartelo, ma ti proibisco di sconvolgere tua madre più di quanto lo sia… e anche tua sorella già che ci siamo!”
“Mi avete mentito per tutte queste settimane! – sibilò il ragazzo, lacrimando senza parere – E io lì, come uno scemo, a chiedermi che cosa non andasse… una dannata macabra recita che non portava da nessuna parte! Che cavolo costava dirmi che tutto era destinato ad andare male?”
Andrew fissò il figlio con rassegnazione, rendendosi conto che con tutta probabilità aveva ragione: sarebbe stato meglio dirgli subito come stavano le cose, affrontare immediatamente gli anni di silenzio, ma almeno prepararlo a quanto stava per accadere. Invece si erano tutti rifugiati nell’idea di proteggere almeno lui.
Da cosa poi? Finché era piccolo era un conto, ma adesso era perfettamente in grado di comprendere la storia della sua nascita.
Osservò il ragazzo, così schiumante, così vivo da costituire comunque una strana ed orgogliosa consolazione contro la creaturina che era spirata poco prima. Quel furore prepotente strideva nel silenzio della casa, ma per Andrew era come quando quella stessa persona aveva lanciato uno strillo di protesta quando pensava che fosse morto poche ore dopo il parto.
“Tu sei… incredibilmente vivo – si trovò a dire, superando quei pochi passi che lo separavano da Kain e abbracciandolo con foga. Non gli importava della resistenza che incontrava, delle proteste incomprensibili di suo figlio: sentire quel corpo era l’unica cosa che in quel momento gli dava una strana forma di felicità di cui aveva disperato bisogno – sei vivo…”
Perse il conto di quante volte pronunciò quella parola.
 
Elisa tornò in paese circa un’ora dopo.
Aveva lasciato una famiglia distrutta che aveva bisogno di trovare un nuovo equilibrio tra i suoi componenti e che aveva stretto una momentanea tregua a beneficio di Ellie. L’unica cosa confortante era che il corpo della donna aveva retto bene l’aborto e non c’erano state complicazioni, complice anche la rapidità dell’evento.
Per il resto la dottoressa Meril si sentiva sfinita e demoralizzata, consapevole di aver appena sbattuto il viso contro il più grosso fallimento della sua carriera medica. Aveva messo tutta se stessa in quel suo primo caso importante, ripromettendosi di fare di Ellie Fury quel miracolo che avrebbe consacrato la medicina moderna contro quella ancora rustica del dottor Lewis.
Ed invece il farmaco che aveva fatto venire direttamente da East City giaceva ancora nella sua valigetta, senza che nessuna occasione gli fosse stata data. Avrebbe dovuto essere più persuasiva e convincere la signora ad assumerlo già da tempo, avrebbe dovuto far valere maggiormente il suo parere medico, in questo modo il bambino avrebbe avuto qualche possibilità in più.
Sicuramente il dottor Lewis le avrebbe detto che era una lotta persa in partenza e le cose sarebbero andate così in ogni caso, ma il giovane animo di Elisa non poteva venire a patti con quell’idea di fatalità.
Sono io che ho sbagliato… ho sbagliato da principio la gestione di questo caso!
Non sapeva come, non sapeva perché, non sapeva nemmeno lei il primo germe di errore.
Ma aveva fallito.
Arrivata in paese deviò dalla via principale ed andò alla libreria di suo nonno.
Senza salutare nessuno si diresse verso il magazzino, sicurissima che lui era là.
“Ehi – salutò Vato con un sorriso, posando una pila di libri – non pensavo che saresti… Eli, ma che hai?”
La donna lasciò cadere la valigetta di cuoio  e si strinse al fidanzato.
Nessuna lacrima, nessun lamento, solo una silenziosa rabbia contro se stessa con cui avrebbe dovuto combattere per molto tempo.
“Giurami che tra noi andrà bene – si limitò a dire con un sussurrò, ignorando le domande preoccupate che lui le rivolgeva – giurami che ci sposiamo e che saremo felici. Non ti chiedo altro!”
 
Ellie si svegliò quella sera, profondamente stordita dal sedativo che le era stato somministrato.
Recuperando conoscenza si accorse che le lenzuola non erano le stesse di quella mattina e che in tutta la stanza c’era uno strano odore di pulito, come se qualcuno si fosse premurato di lavare per bene il pavimento ed i mobili.
Si ricordò subito di aver abortito ed intuì che quell’opera di pulizia doveva esser stata merito di Riza, per cancellare l’odore di sangue e di morte. Chiuse gli occhi e sospirò, una piccola parte di lei sollevata che quel calvario fosse finito. Solo adesso poteva ammettere quanto quella gravidanza di pochi mesi l’avesse provata emotivamente. Per quanto si sentisse un mostro, per quanto il suo cuore dolesse al ricordo di quella creaturina tra le sue braccia, l’idea di lasciarlo andare non era così orribile… anzi l’aveva accettata con fin troppa facilità.
Ci aveva provato ed aveva perso, ma in fondo era pronta alla sconfitta.
Quel bambino non era mai stato davvero suo.
“Ciao…” la salutò Kain, sdraiato accanto a lei.
“Ciao, pulcino” rispose Ellie, nemmeno troppo sorpresa di trovarselo accanto. Perché era una cosa completamente naturale per il figlio che era davvero suo.
Lo fissò, trovandolo bellissimo come sempre, preferendo ignorare quella nuova rabbiosa e dolorosa maturità che traspariva dagli occhi e dall’espressione. Preferiva concentrarsi su quell’amore assoluto che niente avrebbe cancellato: il muro tra loro due era sparito.
“Non me l’avresti mai detto, lo so – mormorò Kain – ma avresti dovuto”.
“Non sarebbe mai dovuta andare così, a partire dalla tua nascita – rispose placidamente Ellie – ma è successo. Non posso vincere tutte le battaglie contro la vita, Kain, ma la più importante l’ho stravinta, credimi”.
Non si dissero altro, ciascuno con uno strano senso di colpa dentro di sé che preferivano non esternare.
Per ora, in quel letto, loro due erano certi di avere le solide basi del loro legame che nemmeno un bambino morto poco prima poteva spezzare.

 






_________________
Finalmente sono riuscita a terminare questo capitolo, forse uno dei più "tosti" che mi sia mai trovata a scrivere.
Parlare di queste tematiche non è mai semplice e spero di essere riuscita a rendere bene il turbinio di sentimenti che avvolge i vari protagonisti. Spero che non siate rimasti troppo spiazzati dallo strano "sollievo" che ha pervaso sia Andrew che Ellie alla fine di questa vicenda: credo che nonostante la speranza fossero consapevoli che le cose non sarebbero andate bene. Per loro è stato meglio chiudere questa ferita (se mai è possibile) il prima possibile.

Bene, intanto vi avviso che questo è l'ultimo aggiornamento per un paio di settimane. Dal 3 sino al 16 agosto non sarò a casa.
Se ce la faccio aggiornerò l'altra long che sto scrivendo nel fandom di AoT :)
In ogni caso farò in modo di rispodere alle recensioni in tempi tranquilli

Ciao ciao



 

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** Capitolo 29. Tempi di ripartenza ***


 

Capitolo 29. Tempi di ripartenza.

 


 
 
Erano passati cinque giorni dalla disgraziata mattina in cui Ellie aveva abortito e per la prima volta si recava nell’angolo del cortile dove era stata sepolta la piccola creatura. Aveva approfittato dell’assenza di entrambi i figli per concedersi quel momento, e ad accompagnarla c’era solo Andrew che pure visitava per la prima volta da quando era stata creata quella particolare tomba destinata a restare sconosciuta al mondo.
Non era cambiato niente da quando era stata approntata in tutta fretta: la terra appariva ancora smossa, solo i pochi fiori messi da Riza erano ormai appassiti. A vederla così l’ingegnere provò un forte senso di colpa: avrebbe dovuto prendersi la briga di dare una sistemazione più dignitosa a quel povero bambino, anche per non turbare troppo Ellie.
Stava per mormorare qualche parola di scusa, ma non fece in tempo perché la moglie con un sospiro si era inginocchiata proprio davanti al mucchietto di terra, levando con gentilezza i fiori ormai morti. Era in qualche modo bellissima, quasi eterea in quel momento di calmo dolore: ricordava uno dei monumenti funerari che c’erano nella parte vecchia del grande cimitero di East City. Se al posto del vestito azzurro di tutti i giorni avesse avuto una veste bianca, a ricordare il marmo, sarebbe stata perfetta.
“Margherite” disse infine la donna, girandosi verso di lui.
“Cosa?”
“Che ne diresti se piantassi un cespuglio di margherite? Semplici, delicate… sono le più adatte, non credi?”
“Ma certo, Ellie, tutto quello che desideri”.
“Bene, ci penserò domani – annuì lei, posando una mano su quella terra più scura e facendo un triste sorriso, quasi salutasse ancora una volta il figlioletto – mi sentirò decisamente meglio quando avrà questi fiori a fargli compagnia. Almeno qualcosa per lui potrò fare”.
“Non devi sentirti in colpa, meraviglia – Andrew andò ad inginocchiarsi accanto, posando una mano sopra la sua, sentendo con la punta delle dita quella terra umida e fresca – tu hai fatto tutto il possibile, lo sai bene. Semplicemente non…”
“Lo so – Ellie sorrise e gli mise l’indice davanti alle labbra, impedendogli di proseguire – e sto già venendo a patti con me stessa, come è successo tutte le altre volte. Ho te ed i ragazzi, non posso chiedere altro alla vita. Mi dispiace solo di non aver avuto modo di aiutare questo povero cucciolo, di offrigli quello di cui necessitava. Ma per il resto va tutto bene, te lo giuro”.
Andrew stava per obbiettare, ma poi si accorse che era vero. Lo vedeva dal tenero sorriso che aleggiava sulle labbra di lei, dall’espressione serena che illuminava quel viso ancora leggermente pallido. Ellie stava elaborando il lutto meglio del previsto, forse aiutata anche dalle precedenti esperienze che aveva avuto nel corso degli anni. E se c’era un dolore, come chiaramente doveva essere, lo teneva dentro il suo cuore, senza lasciare che interferisse con la sua vita. Lo si capiva da come aveva ripreso in mano le redini della casa per quanto la sua salute lo permettesse: già da tre giorni aveva ripreso a mangiare in cucina con tutti loro e chiacchierava tranquillamente con i figli, quasi ad invitarli ad andare avanti dopo il brutto momento appena passato. E sembrava che almeno Riza avesse accolto a piene mani questo consiglio.
Kain invece è ancora parecchio distante, soprattutto con me – rifletté – del resto è normale che gli serva un capro espiatorio. Ma l’importante è che tra lui e la madre vada tutto bene e…
 “… e tu come ti senti?”
La domanda di Ellie giunse del tutto inattesa.
“Io? Bene…” rispose, forse troppo in fretta.
A dire il vero non lo sapeva nemmeno lui come stava: in quei giorni aveva pensato esclusivamente agli altri, senza riflettere sui suoi sentimenti. C’era il dolore della perdita, certo, unito a quello strano e imbarazzante sollievo che a quanto pare provavano un po’ tutti quanti loro. Ma non riusciva a capire davvero come stava.
“Sei rimasto sempre nel tuo studio negli ultimi giorni e non per lavorare, lo so”.
“Oh, dai, non ti devi preoccupare per…”
“Tu e Kain siete proprio simili, sai? – scosse il capo la donna con rassegnazione – dite sempre che non c’è nulla che non vada, quando invece non è così. Ma se per nostro figlio ancora ragazzo posso capire un simile atteggiamento, da te mi aspetterei qualcosa di più”.
“Ti sei accorta anche tu di Kain, eh?”
“E come non avrei potuto? – gli occhi scuri si fecero malinconici mentre tornavano a fissare il mucchietto di terra più scura – Ma capisco che ha bisogno dei suoi tempi per superare tutto quanto. Forzarlo sarebbe la cosa peggiore… senza contare che ho la certezza che se si vorrà confidare con qualcuno, i suoi amici e Riza saranno pronti a dargli una mano”.
“Dubito che cercherà il mio aiuto” commentò con rammarico Andrew.
“Oh, ecco di nuovo quel broncio! Lo vedi che anche tu hai bisogno di aiuto esterno? Perché non vai a trovare Laura questo pomeriggio? Si sarà certamente preoccupata che non ti sei fatto vedere – il sorriso della donna si allargò, come se fosse estremamente felice di quell’idea. La sua mano sporca di terra si staccò dalla piccola sepoltura per andare al grembiule, in modo da venir pulita – Così prendi un po’ di fiato. A volte basta davvero poco per superare questi momenti di crisi”.
Si era alzata in piedi, incitandolo a fare altrettanto. Sembrava la ragazzina adolescente entusiasta di tanti anni prima, mancava solo il colore sulle guance.
Dovrei essere io a confortarti, non viceversa – si disse Andrew, non potendo fare a meno di rispondere a quel sorriso – ma tu come sempre riesci a sorprendermi.
“Beh, ora che ci penso sarà anche parecchio arrabbiata – confessò – ho saltato ben due dei nostri caffè settimanali. Come minimo mi offrirà qualche cosa di tremendamente bruciato o velenoso addirittura”.
“Te lo sarai meritato” ridacchiò Ellie, prendendolo per mano ed incitandolo a tornare verso casa.
 
Come avevano intuito i coniugi Fury, nel loro primogenito c’era un grande turbamento del quale si rifiutava di parlare. Del resto non è mai facile affrontare un lutto o comunque un avvenimento tragico. È come se la propria esistenza subisse un brusco arresto, lasciandoti in uno strano limbo dal quale non sei capace di uscire. Almeno questo era quello che stava provando Kain dopo l’aborto della madre: per quanto il loro rapporto si fosse di nuovo consolidato, non riusciva a liberarsi dall’opprimente disagio che provava ogni volta che stava a casa. L’ambiente che aveva sempre ritenuto il suo nido sicuro ora gli appariva ostile, quasi soffocante.
Vedeva che sua madre si stava riprendendo anche emotivamente e non per mera finzione a favore degli altri: a distanza di cinque giorni si vedeva la chiara serenità che permeava ogni suo gesto e ogni sua parola. Era come se stesse autorizzando tutti quanti ad uscire dalla condizione di tristezza della quale si erano ammantati.
Quanto a suo padre, non era ancora riuscito a riappacificarsi del tutto con lui. Per quanto Andrew non gli serbasse alcun rancore per quanto era successo, era come se qualcosa nel loro rapporto si fosse incrinato.
Forse aveva ingiustamente caricato lui di tutte le colpe, non riuscendo ad avercela con la figura materna che in quel frangente gli era apparsa più fragile che mai. Il breve attimo di instabilità che aveva avuto il loro legame l’aveva spaventato inconsciamente più di quanto si aspettasse.
In ogni caso, nonostante l’emergenza fosse finita, si trovava ancora a combattere contro questi fantasmi ed era una cosa inconcepibile. La sua indole era di natura buona e ottimista, propensa a dimenticare i momenti difficili a favore di quelli positivi.
Ma questa volta era diverso.
“Non riesco a capire perché tutti vanno avanti, mentre io non ci riesco!” si sfogò.
Era andato a trovare Roy, unico suo imparziale confidente in tutta quella vicenda. Parlare a cuore aperto con gli altri componenti della famiglia era impossibile: la paura di stroncare quel tentativo di ripresa era troppo forte.
“Gnomo, ciascuno ha i propri tempi di reazione – lo consolò il soldato, muovendosi agilmente con le stampelle e andando a sedersi al tavolo per poi posare la gamba ingessata sulla sedia vicina – senza contare che tu l’hai vissuta male da principio. Credimi, la soluzione migliore è svagarti, prenderti dello spazio tutto per te”.
“Parli delle radio? – Kain scosse il capo con rassegnazione – In questo periodo nemmeno loro mi sono di grande conforto: prendo in mano i pezzi e rimango a guardarli come uno stupido”.
“Devi uscire dagli schemi, fare qualcosa di nuovo. Che ne dici delle ragazze? Hai sedici anni e sei nell’età giusta: l’idea di una fidanzata non ti piace?”
“Fidanzata? – arrossì il giovane – Io? Non credo di essere ancora pronto per…”
Non terminò la frase che la voce giovale di Jean si sentì dall’ingresso di casa Falman e qualche secondo dopo il biondo fece la sua comparsa nella camera degli ospiti dove era insediato l’infermo.
“Ehilà, marmaglia, che si racconta? – chiese, arruffando con fare distratto i capelli di Kain – Passavo di qua e ho pensato di fare un salto a salutare. Come va la gamba?”
“Quando Elisa mi leverà il gesso sarà una vera e propria liberazione – spiegò Roy con una scrollata di spalle – e non sarà mai troppo presto. Devo tornare ad East City il prima possibile: spero entro tre settimane”.
“Sempre che i tuoi carcerieri te lo permettano – sogghignò Jean – allora, di che si parlava?”
“Di ragazze – spiegò Kain con un lieve rossore sulle guance – Roy crede che sia il momento che me ne trovi una, ma non so se sono pronto per una cosa simile”.
“Una fidanzata? Lui? – Jean si rivolse al soldato, con aria incredula – Ne siamo sicuri?”
“Per me è pronto. Insomma, credo che sia il momento giusto che si interessi ad altro oltre che alle radio e alla sua famiglia. Si tratta di un’esperienza che deve fare prima o poi: deve tagliare i fili con il bambino che era ed entrare veramente nell’adolescenza”.
Jean squadrò Kain con aria dubbiosa, sicuramente chiedendosi se fosse davvero cresciuto ad un tal punto. E a vedere il ragazzo così imbarazzato i dubbi erano tanti, certo… tuttavia c’era una nuova maturità di sottofondo che era impossibile da negare. Forse fu proprio quest’ultimo fattore a convincere il giovane Havoc che persino per Kain Fury era arrivata la famosa primavera.
“Sai come si bacia?” gli chiese senza troppi preamboli.
Cosa?” per la prima volta Kain si dimenticò del tutto del suo malessere interiore. Fu come se un grosso macigno venisse sollevato e gettato lontano da lui, una sensazione davvero piacevole. Peccato che venisse quasi del tutto obliata dal senso di imbarazzante pericolo che iniziava a provare nel vedere la luce maliziosa negli occhi azzurri di Jean.
Così facile… così bello tornare alle cose normali… normali? Non è per niente normale!
“Baciare, dai! Labbra contro labbra… guarda che non è una cosa così scontata come sembra, eh!”
“Meno male che ci sei tu a fare l’esperto! – lo prese in giro Roy – stiamo parlando di primi baci, genio del male. Non vorrai già metterci di mezzo la lingua, spero!”
“Lingua?” se possibile Kain divenne ancora più rosso.
“Potrebbe già passare ad un livello più esperto, non credi? Ci farebbe una grande figura con le ragazzine!”
“A me pare… schifoso”.
“Ne verrebbe fuori un pasticcio – scosse il capo Roy – sono ragazzine adolescenti, non hanno chissà che pretese, avanti!”
“Forse tu non hai conosciuto Rebecca a sedici anni…”
“Voi due siete un caso limite…”
I due iniziarono a battibeccare tra di loro, secondo un copione collaudato da anni di amicizia.
Kain si ritrovò a sorridere come non succedeva da giorni ormai: gli sembrava impossibile che nemmeno a mezz’ora di camminata da lì ci fosse un posto dove invece si sentiva a disagio e dove l’idea di stare bene gli sembrava incredibilmente lontana.
Una ragazza – si trovò a pensare – possibile che Roy abbia ragione?
In fondo era un modo come un altro per uscire da un limbo ormai troppo difficile da sopportare.
 
“Sembra che il paese non abbia la minima idea di quanto sia successo – commentò Riza, nel medesimo momento, mentre prendeva un the a casa di Elisa – per strada e nei negozi mi hanno salutato e sorriso come se niente fosse”.
“Non è che sembra – la corresse la dottoressa, porgendole il piatto con i pasticcini – il paese non ha davvero la minima idea di quanto è successo a tua madre. Come avrebbero potuto del resto? Si è svolto tutto così in fretta e siamo stati talmente discreti che nemmeno Vato sa la realtà dei fatti. Non credi che sia un bene?”
“Certo – annuì la bionda guardando dalla finestra il piccolo giardino di erbe mediche ancora grigio per l’ultimo freddo invernale – è solo che… mi sembra così strano. Ogni volta che esco di casa mi pare di entrare in un mondo totalmente diverso, dove anche il tempo scorre più veloce”.
“Come sta tua madre? Alla visita di ieri mi sembrava in forma”.
“Meglio, molto meglio. Fisicamente si è ristabilita quasi del tutto e anche emotivamente pare aver superato la parte peggiore. Ammetto che se non ci fosse lei a darci una mano, a casa saremmo ancora in piena crisi, Kain per primo”.
“Non sono cose che si smaltiscono in fretta e lui era il meno preparato”.
“E tu come stai? In fondo è stato un duro colpo anche per te”.
Elisa sospirò e si rifiutò di rispondere subito, limitandosi ad una scrollata di spalle. La ripresa fisica della signora Fury era l’unica nota positiva in mezzo al mare di desolazione nel quale navigava. Razionalmente sapeva che come medico si sarebbe scontrata diverse volte con il fallimento della medicina, ma questa prima volta era stata più dura del previsto, specie perché aveva riguardato una persona alla quale era molto affezionata. Sentiva di aver tradito doppiamente la fiducia della sua paziente.
“Non saprei… sai, a volte sono tentata di andare da tua madre e chiederle scusa per non essere riuscita a fare qualcosa. Anzi, per averle dato delle speranze che poi si sono rivelate infondate. Il dottor Lewis mi ha detto che non ho niente da rimproverarmi, che ho agito secondo coscienza, tuttavia…”
“Oh, non pensarci nemmeno! – la interruppe Riza – Nessuno a casa ce l’ha con te, anzi ti siamo profondamente grati per tutto quello che hai fatto: mamma ha avuto la miglior assistenza possibile e se si sta riprendendo così bene è anche grazie a te”.
Un pallido sorriso apparve sulle labbra della dottoressa, come se ritenesse superflue quelle parole.
“Sai che ci vorrebbe? – disse dopo che il silenzio si prolungò per qualche minuto – una bella festa tra di noi, come ai vecchi tempi. Ricordi? Un paio di giorni per organizzare e poi eccoci tutti assieme a fare una gita. Non vedo l’ora che passi questo brutto tempo e arrivi la primavera: aiuterà a spazzare via quest’aria deprimente e grigia”.
La primavera – pensò la bionda, provando ad immaginarsi quel giardinetto di nuovo rigoglioso e pieno di vita – possibile che basti davvero questo a riportare la serenità? Sarebbe davvero fantastico.
 
Quando Kain e Riza si incontrarono circa un’ora dopo per tornare a casa insieme, era come se qualcosa fosse cambiato. Mentre all’andata erano stati prevalentemente taciturni, ora era come se entrambi, forti delle confidenze avute con gli amici, stessero cercando di recuperare la loro vecchia intesa.
“Domani Elisa passerà per la visita di controllo alla mamma, ma credo che sarà una cosa molto breve. Ormai è del tutto guarita” disse la ragazza.
“Sarò felice quando queste visite smetteranno del tutto. Mi fa piacere che Elisa venga a casa, ma preferisco che lo faccia in veste di amica e non di dottoressa”.
“Sono sicura che a mamma faranno piacere i pasticcini che le ha mandato: sono davvero buoni. Piaceranno anche a te, vedrai”.
“Ne sono certo”.
La frase terminò e si fece silenzio, interrotto solo dal rumore di passi sugli aghi di pino nel sentiero che attraversava la pineta spoglia e dal fiato corto dato dai pesanti cappotti che ingombravano i due giovani.
“Roy e Jean dicono che è il momento che mi trovi una ragazza” dichiarò Kain all’improvviso.
Cosa? – Riza si fermò nel sentiero e prese il fratello per una spalla, rischiando così di far cadere il pacchetto che portava con l’altra mano – Che sarebbe questa nuova diavoleria?”
“Dicono che ormai sono abbastanza grande – spiegò Kain con imbarazzo – che tutto sommato sono un tipo che può piacere e che… è ora che mi dia una scrollata e che esca dalla fanciullezza, almeno queste sono le loro parole”.
“Santo cielo, da loro due non potevo che aspettarmi una cosa simile. E a cosa si deve questa iniziativa?”
“Beh – il rossore sul viso del ragazzo si fece più evidente ed era chiaro che non era solo provocato dal freddo – Roy sostiene che potrebbe essere un buon modo per uscire dalla situazione in cui mi trovo ora. Sai, per via di quanto è successo…”
“Riprenderti dall’aborto di mamma?” chiese Riza in tono più gentile, lieta che il fratello decidesse di confidarsi con lei.
“Mi fa rabbia perché vedo che tutti voi andate avanti, mentre io no…”
“Fa strano anche a me se ti può consolare, non ho davvero superato quanto è successo. Ma quello che conta è che la mamma si sta riprendendo: se a lei va bene, sarà così anche per me”.
“Lei ci sta riuscendo meglio di tutti noi”.
“Si dice che ogni persona ha i suoi tempi, del resto”.
“In ogni caso mi piacerebbe che il tempo arrivasse anche per me – Kain si fece serio – forse l’idea di Roy non è poi così male. Però se penso alle ragazze a scuola, non ho la minima idea di come approcciarmi a loro: le ritengo delle creature molto strane, sai?”
“Creature? – Riza scoppiò a ridere – Suvvia, non siamo così terribili!”
“Rebecca alla mia età lo era, lo ricordo bene. Comunque le vedo sempre a ridacchiare tra di loro, a dirsi cose segrete… non lo so, mi pare un campo minato”.
“Ci sono ragazze e ragazze – commentò la bionda,  iniziando a rendersi conto che tutto sommato l’idea avuta da Roy poteva essere buona – vedrai che trovi quella giusta per te. Come hanno detto Roy e Jean sei un tipo che piace: sei diverso da buona parte dei tuoi compagni e la diversità spesso attira”.
“L’idea del primo approccio mi spaventa parecchio. Anche perché – si fermò di nuovo nel sentiero, come se stesse cercando di raccogliere bene le idee – insomma… non sarebbe più corretto che mi interessasse davvero una ragazza ben definita? A ben pensarci non è che ne conosca parecchie: nella mia classe siamo tutti maschi”.
“Il famoso guardarti attorno?”
“Esatto. Se una ragazza mi piace è perché comunque l’ho conosciuta, no? Ma per conoscerla devo prima avvicinarla e sai cosa vuol dire fare una cosa del genere a scuola. Jean e Roy sono stati tanto prodighi di consigli, ma a ben pensarci loro conoscevano te e Rebecca e non si sono mica guardati attorno a cercare altre ragazze”.
“Roy e Jean parlano dall’alto delle loro torri d’avorio – sentenziò Riza con un sorriso – prendi le loro parole con le pinze se non vuoi finire nei guai. Penso che se ti lasci guidare dal tuo istinto sarà la cosa migliore. Chissà, magari a scuola c’è già qualche ragazzina che ti ha notato ed è troppo timida per dichiararsi”.
“Forse… comunque anche la mamma aveva tirato fuori il discorso della fidanzata poco prima che accadesse tutto questo. Credo davvero di star diventando grande – si passò una mano sul mento – a questo punto pensi che mi crescerà la barba nei prossimi mesi?”
Era una domanda così assurda che entrambi scoppiarono a ridere nell’arco di pochi secondi.
Una risata allegra e sincera come non succedeva da settimane.
 
Quella sera, dopo cena, Ellie si dovette sedere nel divano ed asciugarsi le lacrime d’ilarità. Continuò a ridere per un minuto buono prima di tirare un grosso respiro.
“Santo cielo, Riza – disse infine – pensare a Kain che si fa avanti con le ragazze usando le famose tecniche di seduzione di Roy… se mi ricordo com’era sfacciato quel ragazzo quando aveva la sua età!”
Riza ridacchiò di gusto, sedendosi accanto alla madre: l’idea era così assurda che il solo parlarne non poteva che scatenare le risate. Aveva aspettato prudentemente che Kain ed Andrew si ritirassero dopo cena e poi aveva affrontato la questione con Ellie. Era sicura che la donna si sarebbe interessata e così era stato: una ventata d’allegria in quella casa non poteva che fare bene.
“Gli ho suggerito di essere se stesso e di non usare nessun approccio alla Roy o alla Jean”.
“Non ne sarebbe mai capace, credimi – la bruna si sistemò meglio le pieghe della gonna – ma sono felice che Kain affronti un’esperienza simile. Mi fa capire che finalmente anche lui si sta dando una svegliata dal torpore di questi giorni”.
“Come tutti noi… a volte mi chiedo come sia possibile che tu sia stata la prima a riprenderti” ammise Riza con sincerità, posando il capo contro la spalla della donna.
“Non so – rispose Ellie con serenità – forse ero quella maggiormente pronta ad affrontare quanto mi stava succedendo. Bene o male sono venuta a patti col mio corpo e so cosa aspettarmi. Non che non abbia sperato in queste ultime settimane, è stato inevitabile, ma alla fine la delusione… beh, so come farmela scivolare via. Dopo tutti questi anni so a che cosa rivolgermi per tornare alla mia vita”.
“Sembra così facile sentendotelo dire”.
“Sembra, ma non lo è. Ma credimi che nonostante questa ripresa un po’ forzata, per te e Kain sarà più semplice andare avanti e superare questo scoglio”.
“Tramite pasticcini e approcci con le ragazzine”.
“Un ottimo modo a parer mio…” sorrise Ellie.






____________________________________________
Scusate l'estremo ritardo per la pubblicazione di questo capitolo.
Lo odio, non ne sono per niente soddisfatta, l'ho riscritto almeno dieci volte ma il risultato non mi ha ai convinto. Questa è la versione che mi soddisfa un minimo dopo un periodo di tentativi con blocco di scrittura per una settimana buona. Insomma, non ho mai avuto problemi così grossi per un capitolo di transizione (non potevo troncare di netto gli eventi del capitolo precedente come avevo intenzione di fare da principio, me ne sono resa conto come ho iniziato a scrivere).
Insomma, alla fine ho deciso che se volevo andare avanti dovevo accontentarmi di questo, altrimenti sarei sclerata malamente al milionesimo tentativo di stesura. 
Spero solo che i prossimi siano migliori e più facili da scrivere.

Ps: lo so che pare quasi un discorso "ecco il pranzo, ti avviso già che fa schifo".

 

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** Capitolo 30. Rebecca ***


 

Capitolo 30. Rebecca.

 


 
 
Con tutto quello che era successo a partire dalla festa del primo dicembre, quando c’era stata una prima brusca rottura tra Rebecca e altri componenti del gruppo, i ragazzi non erano ancora riusciti a tornare compatti come al solito. Nonostante ci fossero stati riavvicinamenti era come se mancasse quel senso d’unione che li aveva da sempre caratterizzati. Influiva sicuramente l’assenza di Heymans che, spesso e volentieri, aveva fatto da tramite per risolvere i problemi interni tra i suoi amici e a questo si andava ad aggiungere non solo il momento difficile di Kain, Riza ed Elisa, ma anche le condizioni fisiche di Roy. Insomma era come se ciascuno pensasse solo ai fatti propri o solo a determinati amici.
“Qualcosa tra di noi non va” commentò Rebecca, mentre lei e Jean sedevano tranquillamente nel cortile di casa Havoc a godersi il primo tiepido sole di inizio marzo.
“Tra di noi?” chiese il biondo con sospetto, accendendosi una sigaretta.
“No, tra di noi va tutto bene” rispose lei laconicamente, giocando con un filo d’erba che coraggiosamente spuntava dopo il freddo invernale.
Nonostante quello che si poteva pensare di loro due, era vero: le cose andavano bene. In quelle settimane non c’era stato nessun colpo di testa che aveva riportato al riesplodere della passione. Rebecca aveva ripreso a lavorare all’emporio, recuperando buona parte della sua vitalità: sembrava che le problematiche a casa sua fossero in buona parte appianate, come se sua madre si fosse in buona parte rassegnata al fatto che la figlia lavorasse nell’emporio degli Havoc. Quanto alla sua relazione con Jean, avevano entrambi rispettato il patto di non correre: dopo un primo imbarazzo iniziale erano riusciti a trovare un compromesso e ora si parlavano con tranquillità, godendo della reciproca compagnia senza ancora cercare altro che andasse oltre un eventuale sfiorarsi la mano ogni tanto. Si poteva dire che in quel breve arco di tempo i due giovani fossero maturati più di quanto avessero fatto negli ultimi cinque anni.
“E allora cosa intendi con tra di noi?” chiese ancora Jean.
“Intendo con gli altri. Insomma, se ben ci pensi questa settimana è già tanto se sei passato a trovare Roy mentre ti trovavi in paese. Mentre io…” non terminò la frase e scosse il capo, come ad allontanare un pensiero fastidioso.
Jean annuì, il fumo della sigaretta che veniva allontanato bruscamente da una folata di vento, come se capisse perfettamente il problema. Ovviamente a Rebecca pesava ancora lo strano distacco che aveva con Elisa e soprattutto con Riza: dopo l’emergenza sulla sua presunta gravidanza era come se entrambe si fossero dileguate. Sulle prime il giovane Havoc non ci aveva fatto troppo caso, teso com’era a ricostruire le basi del suo rapporto con la sua più o meno fidanzata, ma ora che ci pensava si rendeva conto che la compattezza del gruppo era venuta a mancare, specie da parte femminile.
E ovviamente, per quella mentalità buona e sincera che era quella degli Havoc, se qualcuno di caro aveva un problema automaticamente diventava un qualcosa da risolvere. Anche se questo voleva dire addentrarsi nel pericoloso mondo delle amicizie femminili.
“Perché non vai a trovare Riza? – propose – sono sicuro che le farebbe piacere”.
“No, meglio di no”.
“Come mai?”
“Non so se sono gradita a casa sua”.
“Per via di quello che è successo a dicembre? Oh, andiamo, Reby! Sono i Fury: vedrai che avranno già lasciato tutto alle spalle e saranno ben felici di rivederti”.
“Dici? Non lo so, può anche darsi che sia così… ma non mi sento pronta per una cosa simile”.
“Vuoi che parli con Riza?”
“Ma no. Tutto sommato credo di dover risolvere la cosa da sola… solo che non so come fare. Senza contare che ultimamente la vedo pochissimo anche in paese”.
A quelle parole Jean si limitò ad annuire: Rebecca aveva messo dei paletti oltre i quali era impossibile andare, pena il rischio di una litigata. A parer suo, specie conoscendo Riza e avendo la vaga impressione che sarebbe stata la prima felice del riavvicinamento, si stava complicando la vita, ma non osava farglielo notare.
Il discorso si bloccò lì: cinque minuti dopo terminò la loro pausa e tornarono a lavorare all’emporio. L’imminente arrivo della primavera e dei nuovi ordini li tenne impegnati fino al momento in cui lei dovette tornare a casa prima che il buio la cogliesse durante il cammino. Tuttavia nella mente di Jean ormai il seme era stato piantato: volente o nolente si trovava a rimuginare sui problemi relazionali della sua più o meno fidanzata.
“Fratellone, senti – lo chiamò Janet, mentre dopo cena salivano le scale per andare ciascuno nella sua camera – hai idea di cosa voglia Rebecca per il suo compleanno?”
“Compleanno?” fece con aria stranita.
“Il quattordici marzo, no? Tra una settimana, non mi dire che te ne sei scordato! – la ragazzina lo fissò con aria indignata – Comunque, dicevo, credi che potrebbero piacerle dei fazzolettini nuovi? In paese ho visto che ce ne sono anche con l’orlo rosa”.
“Compleanno… ma certo!”
“Certo cosa? Che la settimana prossima è il suo compleanno o che le potrebbero piacere i fazzolettini ricamati? Jean… Jean! Insomma mi ascolti? È importante!”
“Cosa? – il giovane osservò la sorellina con curiosità, come se fosse comparsa all’improvviso – entrambe le cose, Janet. Sono sicuro che i grembiuli le piaceranno tantissimo”.
“Fazzoletti, vorrai dire”.
“Ma sì, quelli. Adesso scusa, ma devo proprio andare in camera a pensare ad una cosa”.
“Tu che pensi?” fece sarcasticamente Janet.
Ma se in un momento normale Jean avrebbe ribattuto con stizza a quella presa in giro, in quell’occasione manco si girò a guardare la ragazzina. Ormai la sua mente stava elaborando un piano che non aveva niente da invidiare a quelli fatti da Roy Mustang quando era all’apice della sua inventiva adolescenziale.
 
Mentre il resto del gruppo aveva maturato un certo modo di agire, Jean aveva tenuto una certa spontaneità che spesso portava le sue azioni ad essere considerate infantili. Allo stesso modo in cui aveva ben pensato di fare un gesto eclatante durante la festa del primo dicembre, per il compleanno di Rebecca decise di farle una sorpresa che avrebbe di gran lunga superato qualsiasi regalo materiale che avrebbe potuto comprarle in paese.
“Devi farmi da regalo – disse il giorno dopo ad una stupefatta Riza che se l’era ritrovato davanti non appena aveva aperto la porta – non pretendo che tu ti metta un fiocco in testa, sarebbe ridicolo. Però devi essere la sorpresa per la festa di compleanno di Rebecca”.
“Aspetta, prendi fiato, Jean – cercò di calmarlo la ragazza, accorgendosi che l’amico si doveva esser fatto una bella corsa per arrivare sino a casa sua – spiegati meglio. Perché non entri?”
“No, non ho molto tempo a disposizione – scosse il capo lui con impazienza – tra nemmeno mezz’ora Rebecca arriverà all’emporio e io dovrò essere lì. Per farla breve – prese fiato come se fosse imperativo dire il tutto il più in fretta possibile – lei è triste per il fatto che il vostro rapporto non è più come una volta. Le ho detto che dovrebbe parlarti, ma credo che tema un tuo rifiuto, del resto era successo un bel casino tra di voi, me lo ricordo bene. Però, insomma, la vostra è un’amicizia di lunga data e sarebbe un peccato buttarla via… certo, alla fine dev’essere una tua decisione, ma se ci rifletti bene ammetterai che Reby non è così stronza come può sembrare… non sempre… insomma, in questo periodo non lo è di certo”.
“Jean, senti…”
“La settimana prossima è il suo compleanno e sarebbe brutto se non ci fossi almeno tu a festeggiarlo. Forse una cosa come ai vecchi tempi, ovvero tutti assieme, sarebbe esagerata, ma credo che la tua presenza le farebbe davvero piacere. E prima che tu me lo chieda… lei non ha la minima idea di quello che sto facendo, con tutta probabilità mi direbbe che sono un idiota e forse lo sono. Ma lei è la mia…”
“… la tua?” adesso un primo accenno di sorriso appariva sulle labbra di Riza.
“… beh, non lo so bene che cosa sia. Ci stiamo riavvicinando ma non siamo ancora tornati assieme. Però, a prescindere da quello che lei è, vorrei che faceste veramente pace e tornaste quelle di prima. Credi sia fattibile o ti sto chiedendo troppo?”
Questa volta Riza non riuscì a trattenere una risatina.
“Oh, Jean, fossero tutti come te il mondo sarebbe decisamente un posto migliore – dichiarò, prendendo la mano dell’amico – a dire il vero sulle prime ero tentata di dirti di no, del resto io e Reby non ci siamo parlate per tutto questo tempo dopo quell’emergenza…”
“… la stai chiamando Reby e non Rebecca: lo prendo come un buon segno”.
“Sicuro che lei voglia fare pace con me? Intendo in maniera definitiva”.
“Sono sicuro che è quello che vuole, anche se… a ben pensarci, forse toccherà a te guidare la conversazione. Insomma, sai quelle cose dove in teoria dovrebbe iniziare una, ma invece lo fa l’altra: come fanno le ragazze già da quando sono a scuola. E ti prego di darmi una risposta in fretta: per quanto corra veloce il tempo a mia disposizione è davvero poco. La festa è tra una settimana, a casa mia, di primo pomeriggio… e se non vuoi… insomma, lo sai quanto è difficile per me pensare ad un regalo. Figurati per una persona che non è ancora la mia fidanzata… non di nuovo, almeno”.
L’esitazione di Riza durò solo per qualche secondo, ma alla fine non poté fare a meno di annuire. Questo bastò al giovane Havoc per sorridere soddisfatto, rivolgerle un cenno di saluto ed iniziare la sua folle corsa verso casa, quasi avesse paura di un improvviso ripensamento.
 
Jean, inconsapevolmente o meno, aveva fatto i calcoli nel modo giusto: era Riza la chiave di volta da cui partire per consentire a Rebecca di tornare a far parte del gruppo. Una volta sanato il litigio tra le due amiche il resto sarebbe venuto di conseguenza, proprio come a volte succedeva tra gli altri componenti: bastava il perdono di chi aveva subito il torto per riportare l’ostracizzato nelle grazie della restante compagnia.
E aveva fatto i calcoli nel modo giusto anche nell’anticipare alla bionda che con tutta probabilità sarebbe toccato a lei il compito di iniziare il discorso con l’amica. Del resto bastava conoscere un minimo Rebecca per sapere che molto spesso dalla sua bocca non erano in grado di uscire le famose parole giuste al momento giusto.
Rebecca infatti costituiva l’elemento forse più incomprensibile del gruppo, specie in confronto alle altre due componenti femminili che invece erano pacate e sensibili. In lei c’era qualcosa della malizia di Roy, della sfrontatezza di Jean, ma questi caratteri venivano enfatizzati e forse storpiati dall’impronta materna.
Di conseguenza se possedeva indubbio fascino e sapeva essere più che gradevole, bastava che la luna le girasse storta per avere un completo ribaltamento di fronte.
E sembrava che quei pochi giorni che precedevano il suo compleanno facessero pare di quest’ultima categoria. Le giornate all’emporio scorrevano tranquille, ma a casa la situazione era tornata un po’ ai ferri corti per via di sua madre: sembrava che questo diciannovesimo compleanno rappresentasse una sorta di scadenza entro la quale lei dovesse decidere che cosa fare della sua vita.
“Ancora non riesco a capire come sia riuscita a trasformare la questione della torta in una tragedia – sbottò Rebecca, sdraiandosi sul letto della sorella maggiore e cercando di sbollire la furente litigata avuta guache minuto prima in cucina – non mi pare che per te abbia mai fatto qualche problema. Sai che ti dico? Mi sa che rinuncio del tutto all’idea di festeggiare a casa… farò direttamente da Jean. Gli chiedo se puoi venire anche tu, ma non penso che ci saranno problemi: assieme a papà ti considera la parte sana della famiglia Catalina”.
“Oh, non dar troppo peso a mamma – sospirò Polly, finendo di sistemarsi i capelli con un nuovo nastro – è di pessimo umore per conto suo e non perde occasione per farlo presente a tutti”.
“Sai, a volte vorrei davvero che Jean mi sposasse – confidò la mora, guardandosi la mano sinistra ed immaginando un cerchietto d’oro attorno all’anulare – finalmente me ne andrei di casa e non avrei più a che fare con lei… almeno non quotidianamente. Non capisco come tu non senta quest’esigenza”.
“La sento pure io, fidati, ma non per i motivi che credi. Ringraziando il cielo la mamma sa che con me certe critiche non attaccano: me le faccio scivolare addosso”.
“Certe critiche non attaccano con te perché non te ne può muovere: sei la figlia perfetta, Polly. Non hai mai creato un problema a casa. Credo che la mamma ti consideri come l’angelo del focolare che sarà il bastone della sua vecchiaia e cose simili, mentre io…”
“Ho ricevuto una proposta di matrimonio”.
A Rebecca sarebbe tanto piaciuto bere qualcosa in quel momento, così avrebbe potuto esibirsi nel classico farsi andare storto il sorso per la sorpresa ricevuta. Ma si dovette accontentare di balzare a sedere sul letto, con una mossa a dire il vero poco elegante, e guardare la sorella maggiore con aria incredula. Penny Catalina che riceveva una proposta di matrimonio? Era qualcosa di altamente impensabile se si considerava che in tutti quegli anni non aveva avuto uno straccio di corteggiatore. Non era tanto l’aspetto fisico: sebbene non fosse bella come la sorella minore, Polly era comunque piacevole con il suo viso rotondetto ed i luminosi occhi scuri; era più che altro l’atteggiamento molto riservato che non aveva mai incoraggiato i ragazzi a fare qualche passo verso la sua direzione.
“Hai detto proposta di matrimonio? – riuscì a dire Rebecca dopo qualche secondo di silenzio – Senza nemmeno un minimo di corteggiamento? Polly Catalina questa è la storia più assurda del mondo, a meno che tu non sia stata fidanzata per anni riuscendo a nascondere la cosa persino a me”.
Polly le sorrise con tenerezza, un lieve rossore che le appariva sulle guance: di colpo apparve molto più carina del solito, come riescono ad esserlo le ragazze felici e realizzate della propria situazione sentimentale.
“Si tratta di Buck Chester, dovresti conoscerlo”.
“Il secondo figlio dei Chester? – Rebecca fece mente locale per visualizzare quel giovane che doveva avere qualche anno in più della sorella – Non mi sembra di avervi mai visto assieme… oh, cielo! Non vorrai dirmi che hai una relazione clandestina con lui! Insomma… è il secondo figlio di un contadino”.
“Lo sottovaluti – scosse il capo Polly – ha ottime doti di amministratore. Sai, aiutava suo padre nella gestione dei terreni del vecchio Lyod che pare debba tornare in paese a breve. A quanto pare Buck si è occupato di buona parte dell’amministrazione negli ultimi due anni, da quando il genitore ha avuto quel brutto incidente a cavallo che l’ha costretto con la stampella…”
“… questi dettagli non sono quello che mi interessano. Spiegami come Buck Chester ti ha fatto una proposta di matrimonio!” la interruppe Rebecca.
“È stato il mese scorso – confessò lei – mi ha detto che il signor Lyod, data la sua bravura, gli ha proposto di andare ad occuparsi dell’azienda della sua famiglia, sai il paese oltre il fiume… a ottanta chilometri da qui. Si tratta di un ruolo di grande fiducia e dovrebbe partire entro questa primavera. Mi ha detto che vorrebbe sistemarsi prima di partire e così mi ha chiesto se volevo sposarlo e andare assieme a lui. Del resto un uomo ammogliato dà di sé un’impressione decisamente più seria, specie se giovane”.
“Oh, santo cielo, Polly! – Rebecca era incredula – Ti stai sposando per interesse?”
“Buck è un bravo ragazzo – si difese la maggiore – è un gran lavoratore, onesto e apprezzato. Mi rispetterà e mi vorrà bene come moglie perché è quel tipo di persona, è risaputo. Senza contare che io non ho… qui non ho nessuna aspettativa, Reby, ne sono consapevole da parecchio tempo ormai. Fa paura, certo, si tratta di andare in un posto completamente nuovo, ma un treno simile non ripasserà mai più”.
“Ma tu non lo ami!”
“È una brava persona, certo non molto loquace… anche se ci conosciamo poco arriveremo a volerci bene in fretta se non ad amarci veramente. Forse ti sembra quasi un matrimonio combinato, ma a me non dispiace come idea”.
Rebecca non poté far altro che fissare allibita la sorella: per lei quello era un matrimonio combinato bello e buono che andava totalmente contro tutto quello che riteneva giusto. A suo parere se due persone si sposavano dovevano come minimo volersi un gran bene, se proprio non si voleva usare la parola amore, altrimenti non era qualcosa di molto diverso da uno scambio di mucche al mercato annuale. Perché sua sorella si doveva sminuire in un simile modo? Se solo avesse osato di più avrebbe sicuramente trovato qualche altro giovane che l’avrebbe conosciuta un minimo prima di fare una simile proposta.
E magari uno che invece di partire se ne rimanga in paese.
“Come pensi di dirlo alla mamma?”
“Ne parlerò prima con papà – scosse il capo Polly – gli farò incontrare Buck e se per lui andrà bene le cose saranno in discesa. Ammetto che l’idea di andare via dal paese mi attira”.
“Un discorso simile me lo aspetterei più da me”.
“Papà viaggia spesso in quel paese per lavoro. Potrebbe venire a trovarmi e stare a casa nostra”.
“Insomma mi lasci sola ad affrontare il mostro che adesso ancora sputa fuoco in cucina”.
“Prima o poi anche tu ti sposerai con Jean, no? Le cose con lui non hanno ripreso ad andare bene?”
“Certo che vanno bene, ma ci vorrà ancora tempo per il matrimonio”.
Lo disse con troppa sicurezza, se ne rese contro subito e forse lo capì anche Polly. Ma le due sorelle non avevano mai avuto un grado di confidenza tale da parlare apertamente dei loro problemi. Per quello Rebecca si era sempre rivolta a Riza, ma i rapporti con lei non erano idilliaci come una volta, anzi erano quasi del tutto inesistenti.
A volte mi viene da chiedermi se siamo ancora amiche o se si è trattato solo di un momento di riappacificazione – pensò, ripensando con nostalgia al tempo in cui sarebbe corsa dall’amica per raccontarle questa grande novità e confidarle la paura che provava all’idea di non avere più la sorella maggiore a casa.
 
Dopo questa nuova rivelazione fu normale che l’umore della ragazza fosse sotto terra il giorno del suo compleanno. Se non fosse stato per l’impegno preso con la famiglia di Jean avrebbe preferito restare a letto a rimuginare su quanto fosse ingiusta la vita che le rovinava così quelli che in teoria dovevano essere dei momenti di festa. Sua sorella per fortuna decise di non partecipare alla festa: questo almeno avrebbe evitato di aver davanti uno dei suoi motivi d’apprensione.
Ma sì – si disse mentre bussava alla porta di casa Havoc, cercando di sfoggiare il migliore dei suoi sorrisi – in fondo si tratta solo di qualche ora. Posso anche passare una bella serata e lasciarmi alle spalle i guai.
“Ciao, son…” la frase le morì in bocca quando ad aprirle fu Riza.
La ragazza indossava uno dei suoi vestiti di festa, segno che non era una coincidenza il fatto che si trovasse lì. La osservava con espressione neutrale, come se aspettasse un suo segnale per decidere che atteggiamento assumere.
Ovviamente il cuore di Rebecca ebbe un balzo nel vedere quella persona che, assurdamente, sembrava uscita da un’esistenza molto lontana. L’immagine di loro due che passeggiavano confidandosi i loro segreti sembrava sbiadita ed irrimediabilmente perduta.
“Come stai, Reby?” le chiese la bionda dopo qualche secondo di silenzio.
“Io… beh, è il mio compleanno, no? – sorrise – Come posso stare se non splendidamente?”
“Bugiarda” rispose al sorriso Riza, come se avesse già capito tutto.
“Avrei decine di cose da raccontarti – sospirò Rebecca, prendendole la mano e stringendola con forza. Una volta tanto il suo grande orgoglio scompariva di fronte all’esigenza di riavere quella preziosa amica e confidente – non hai idea di quello che sta succedendo a casa…”
“Me lo potrai raccontare dopo la festa – Riza rispose a quella stretta con calore – anche io ho svariato da dirti”.
“Periodaccio, vero? Lo si capisce dalla faccia”.
“Siamo proprio dei libri aperti l’uno per l’altra, eh?”
“Meglio non approfondire la tipologia di libri. Allora, presumo di dovere a Jean la tua presenza, vero?”
“Presumi bene. Il tuo quasi ragazzo è un tesoro, lo sai bene”.
“Quasi ragazzo? Ora si definisce così?”
“Tu come lo definiresti?”
“Non lo so… dopo che ti ha fatto venire alla mia festa di compleanno ci devo riflettere”.
“Oh bene! – comparve proprio il quasi ragazzo – sei arrivata. Allora, ti piace il tuo regalo?”
“È stato delicato – commentò Riza con una risatina – mi ha concesso di non mettere un fiocco gigante nella testa. Però mi sono messa un abito da festa in modo che l’incarto fosse più che decoroso”.
“Hai fatto benone!” annuì Rebecca.
 
La festa fu un verso successo: nonostante fossero presenti solo tre dei componenti del gruppo fu come se ci fosse finalmente un’armonia che mancava da troppo tempo. Riza e Rebecca si comportarono come se nessun litigio fosse mai intercorso tra loro e questo, ovviamente, fece gongolare di soddisfazione Jean, lieto che il suo piano fosse riuscito alla perfezione.
Verso sera le due ragazze si congedarono dagli Havoc, ma mentre stavano per avviarsi Rebecca scambio qualche parola con Riza e poi tornò indietro verso Jean che ancora indugiava nel cortile.
“Dimenticato qualcosa?” chiese il biondo.
“Sì – rispose lei, con serietà – direi che è arrivato il momento di chiarire bene cosa siamo”.
“Uhm” Jean prese dalla tasca il pacchetto di sigarette, ma parve ripensarci e si limitò a tenerlo in mano.
“Un regalo come quello che ho ricevuto stasera non viene fatto da una persona qualunque, questo è chiaro: non ti ringrazierò mai abbastanza per aver convinto Riza a venire… per una volta tanto sono davvero felice che tu abbia preso l’iniziativa andando contro quello che volevo”.
“Non c’è di che”.
“Jean, la mia vita in questo momento è un pessimo disastro – confidò – quest’anno è iniziato nel peggiore dei modi, facendomi sentire un vero schifo: solo i quest’ultimo periodo ho recuperato un minimo di serenità… e se ho dei momenti di quiete lo devo solo a te”.
“Fidanzati o no lo sai che ci sarò sempre – borbottò Jean con fare imbarazzato – senti, Reby, non è da noi farci discorsi simili. Mi metti un po’ in difficoltà… mi stai chiedendo se ti amo ancora? Certo che ti amo, altrimenti non avrebbe senso che tu venissi qui ogni giorno, questo è chiaro ad entrambi. Per me va bene aspettare i tuoi tempi dopo tutto il casino successo”.
“Non mi va più di aspettare – scosse il capo la mora – ho bisogno di sentire di nuovo il tuo contatto, i tuoi abbracci, i tuoi baci… voglio fare l’amore con te come eravamo soliti fare, solo perché ci andava senza porci nessuna domanda…giuro che sarò prudente che chiederò ad Elisa qualche consiglio per non cascarci. Ma di una cosa sono certa: se la mia vita è un casino voglio avere un porto sicuro dove trovare sempre rifugio e quel porto sei tu, Jean Havoc… volente o nolente. Ecco, ho finito: mi ritieni una matta o cosa?”
“Ritengo che ho fatto bene a non accendermi la sigaretta” dichiarò lui prima di afferrarla per la vita e baciarla con foga, come se cercasse di recuperare tutti quei baci che non si erano dati durante quelle settimane, quando entrambi avevano troppo timore di andare oltre.
“Dannazione a te, se baci bene…” sospirò Rebecca staccandosi da lui.
“Perché? Tutto il resto non lo faccio bene? – le chiese Jean, rifiutandosi di lasciarla andare – Domani giuro che ti…”
“Devo andare, non posso lasciare Riza troppo tempo ad aspettarmi” si divincolò dalla sua stretta con un’agile mossa.
“Bastarda, mi provochi…”
“Lo so – strizzò l’occhio lei – e a te piace, non negarlo. A domani, fidanzato!”
“A domani, fidanzata”.






______________________
nda
Beh, diciamo che siamo in ripresa: questo capitolo non mi ha fatto soffrire come il precedente :D
Speriamo bene

 

Ritorna all'indice


Capitolo 31
*** Capitolo 31. Interferenze ***


 

Capitolo 31. Interferenze

 


 
L’entusiasmo per l’avvenuta ripresa di relazione con Rebecca fu tale che Jean si premurò di riempire di dettagli la lettera che spedì ad Heymans la settimana successiva. Proprio lui, che se scriveva due pagine scarse era tanto, inviò una missiva di dieci fogli buoni dove, con parole confuse e orgogliose, spiegava all’amico la sua geniale trovata che aveva fatto riappacificare Riza e Rebecca e riportato la sua storia d’amore (sebbene mai questa parola venne scritta) a gonfie vele.
Ricevere quella lettera fu per il rosso una gradita sorpresa: nelle ultime settimane si era spesso rammaricato di non esser stato vicino al suo miglior amico in un momento così delicato della sua vita e diverse volte aveva pensato di prendersi una pausa per poter tornare in paese per un mese buono e non per i pochi giorni che si poteva concedere ogni tanto e che comunque non gli lasciavano il tempo necessario per dedicarsi davvero alla famiglia e agli amici.
A dire il vero dietro quell’insistente voglia di tornare a casa c’era anche un altro motivo: il periodo che stava vivendo non era proprio sereno. La causa di questo malessere non era da cercarsi certo nella sua vita cittadina e universitaria che, anzi, lo appagava completamente: aveva dato buona parte degli esami previsti in quei mesi, avvantaggiandosi rispetto alla maggior parte dei suoi compagni di corso che invece arrancava nelle materie più ostiche del diritto. Studiare non gli pesava per nulla, aveva sempre avuto una mente pronta e vivace: i meandri della giurisprudenza lo affascinavano e si soffermava sulle più piccole sfaccettature della Costituzione di Amestris.
A tutto questo si era aggiunta una novità non da poco: il giudice Doyle gli aveva proposto di seguire alcune delle sue cause, collaborando con i suoi assistenti. Poter imparare da un’autorità come il padre di Arthur era una grande occasione, senza contare che era stata un’iniziativa proposta solamente a lui.
“Totalmente slegato dall’Università, sarebbe un qualcosa al di fuori del curriculum scolastico che ti porterà vantaggi una volta finiti gli studi. Te lo propongo perché vedo che hai talento e so che fornire della pratica è sempre utile. Anche se sei al secondo anno hai dato gli esami necessari per districarti e soprattutto hai quel dannato buon senso che ormai sta sparendo nella giurisprudenza”.
Heymans si era trovato ad accettare in nemmeno dieci secondi, merito anche di quegli occhi chiari che lo sfruttavano con intensità, pronti a valutarlo qualunque fosse stata la risposta o l’esitazione. Per una frazione di secondo aveva dubitato che si trattasse solo di un mero trucco per spronare in qualche modo Arthur, colpevole di non essere ancora rientrato nella dimora paterna, ma poi si era riscosso: quell’uomo così austero e onesto non si sarebbe mai abbassato ad una cosa simile. Certo restava l’incognita di una reazione scontrosa di Arthur ad una simile notizia. Non tanto per gelosia, quanto per l’irritazione nel vedere il padre immischiarsi in qualche modo nel loro rapporto di amicizia. Ma per come la vedeva lui, l’amicizia si misurava anche da queste cose: essere felici per gli altri a prescindere da quanto costava ingoiare il rospo.
Comunque, frenato da un lieve senso di colpa, non ne aveva ancora parlato con l’amico e l’unica ad aver saputo della grande notizia era stata un’entusiasta Erin.
 
Ed il motivo del malessere mentale del rosso veniva proprio dal suo tirocinio presso il tribunale.
Non che ci fosse qualcosa che non andava, anzi i due assistenti del giudice l’avevano accolto con grande educazione ed erano pronti ad aiutarlo nel caso avesse qualche dubbio. Lo stesso lavoro che gli veniva affidato era interessante e stimolante: poter toccare con mano dei veri casi gli dava una scarica d’adrenalina che nessun libro gli aveva mai procurato.
Ma dopo una settimana questa medaglia brillante aveva mostrato il suo retro più oscuro. Era tutto iniziato con un semplice faldone che gli era stato consegnato, con la richiesta di mettere in ordine tutte le deposizioni ed i documenti dato che in cancelleria avevano fatto un mezzo disastro. Non c’era niente di complicato: i fascicoli non erano troppi e serviva solo un minimo di organizzazione.
Tuttavia il suo sguardo non aveva potuto fare a meno di cadere sul titolo della causa.
Morris contro Loris – causa di separazione e affidamento dei figli.
Una semplice frase, nella prima riga di un foglio leggermente spiegazzato sull’angolo per via di una graffetta inserita male. Ma era stata capace di far salire uno strano magone alla gola di Heymans. Di colpo quella causa non era più un mero esercizio: ombre del passato l’avevano obbligato a leggere con attenzione ogni singolo foglio, ogni testimonianza, cercando similitudini con la sua vita.
Perdita di soldi al gioco, infedeltà... Le pagine si susseguivano impietose, tracciando il quadro di un matrimonio infelice durato fin troppo, fino a quando la donna aveva trovato il coraggio di denunciare dopo l’ennesimo affronto. In tutto questo due bambini di mezzo, il più grande di nemmeno dieci anni,  motivo principale della disputa. Il padre apparteneva ad una delle famiglie più in vista della città e questo spiegava perché le deposizioni erano relativamente poche: si stava ovviamente cercando di far passare tutto nell’ombra senza che la stampa scandalistica si immischiasse troppo. I due figli erano eredi di una grande fortuna e, nonostante tutte le sue pecche e le sue mancanze come padre, l’uomo voleva che restassero in seno alla propria famiglia. Nella sua dichiarazione sosteneva, senza troppi giri di parole, che i bambini avevano diritto all’educazione e all’agio che solo la sua casata poteva offrire dato che la moglie proveniva da un ceto meno abbiente e col divorzio avrebbe avuto uno stile di vita molto più modesto.
E ad Heymans questo aveva molto male perché si rendeva conto che la legge era dalla parte dell’uomo. Adesso aveva dalla sua quasi due anni di studi, ma aveva già imparato tempo prima che non sempre la vita era giusta: ci aveva pensato il signor Fury a spiegarglielo, ponendolo davanti a quelli che erano gli effettivi diritti di Gregor – quanto gli aveva fatto male pensare a quel nome, a quella figura che tornava dal passato – su lui ed Henry.
“E’ vostro padre, per la legge ha più diritti su di voi, specie perché non siete così piccoli. Ha mai picchiato te ed Henry?... ha mai fatto qualcosa che concretamente vi ha danneggiato? E non parlo di indifferenza o diversità di trattamento… parlo di cose fisiche e materiali, perché sono queste che hanno maggior peso nella separazione. Non è facile, Heymans, il cognome che portate tu e tuo fratello è una catena che vi lega strettamente a lui. Anche se è ubriaco, non ha lavoro, non c’è prova che lui sia un cattivo padre… un cattivo marito sì, perché c’è il tradimento. Ma riguarda Laura e non te ed Henry: non è per niente scontato che la vostra custodia vada a lei.”
Dunque, per quanto si sforzasse di restare emotivamente distaccato da quella causa, Heymans non era riuscito ad evitare un cambiamento d’umore più che evidente. L’idea che una buona madre venisse separata dai figli per un puro capriccio legislativo gli sembrava totalmente ingiusta: una buona educazione non poteva competere con il vero amore di una genitrice attenta, senza contare che quella donna non andava certo a vivere nella miseria: l’ex marito forse le avrebbe anche dovuto pagare una rendita. Ma per i figli non c’era molto da fare: trattandosi di una famiglia importante e comunque salda la legge guardava con maggior favore a quest’ultima per quanto concerneva il benessere dei bambini.
 
“O ti sei accorto di aver sbagliato qualcosa nella tesina che abbiamo presentato stamane, cosa che ritengo assai improbabile dal primo del corso, o qualcosa ti turba e non me lo vuoi dire”.
Le parole di Arthur, dette con la solita noncuranza, fecero quasi sobbalzare Heymans dal suo letto, un pomeriggio in cui si era messo a rimuginare per l’ennesima volta sulla questione. Si girò ad osservare il suo compagno che, seduto alla scrivania, sfogliava con aria annoiata il testo del loro prossimo esame.
“Si vede così tanto? – rispose con ironia, fermo nel suo proposito di non far trapelare nulla sul suo passato – Beh, succede anche al primo del corso, mi dispiace distruggere le tue certezze”.
“Ci sono ben poche certezze a questo mondo, Heymans Breda – sogghignò Arthur lasciando del tutto il libro e girandosi verso di lui, un lampo di malizia che appariva negli occhi chiari – e dunque non mi sorprendo mai di nulla. Però mi piace osservare e cercare di capire cosa frulla nella tua testa complicata: dovresti essere contento che ti trovi degno di tali attenzioni”.
“Contento? Perdonami se ti contraddico: spesso essere degno delle tue attenzioni vuol dire finire nei guai, come ammetti tu stesso”.
“Oh dai, mi bastano dei laconici si o no. Accontentami in questo piacere personale: magari ne trai dei benefici pure tu”.
“Che sarebbe? Una variante di obbligo o verità?”
“Ma no, semplici conferme alla mia deduzione. Allora, c’entra per caso la collaborazione che stai facendo con mio padre e che stai pateticamente cercando di tenermi nascosta?”
Se ci fosse stato Jean avrebbe spalancato la bocca per la sorpresa, ma Heymans riuscì a mantenere un discreto autocontrollo, sebbene nella sua mente iniziasse a cercare da dove fosse fuoriuscita la notizia. Possibile che si fosse sbagliato così tanto sul giudice Doyle?
“No, non me l’ha detto il mio vecchio, se è questo che credi – lo corresse subito Arthur, seguendo i suoi pensieri – a dire il vero non parlo con lui da una decina di giorni. Quando passo a casa a salutare mi assicuro che non sia presente e credo che i nervi di mia madre ne traggano parecchio beneficio”.
“Forse avrei dovuto parlartene da subito – scrollò le spalle il rosso, decidendo che non era il caso di nascondere quella che ormai era un’evidenza – ti chiedo scusa…”
“Ma no, in fondo per te è una grande occasione – rispose il moro, senza alcun rimprovero nella voce, segno che non era minimamente colpito dalla decisione paterna – e anche se ho problemi a relazionarmi con lui, sono il primo a dire che mio padre è un grande giudice e che si può solo imparare a lavorare sotto la sua direzione. Sono solo ribelle, mica stupido. Se ti ha scelto vuol dire che ha grande stima di te e per una volta tanto, stranamente, sono d’accordo con lui”.
“Crollerà il mondo…”
“Comunque torniamo al nostro gioco… vediamo, non è il fatto di aver tenuto nascosta questa collaborazione al sottoscritto, vero? Però c’entra qualcosa: all’Università non hai nessun problema e di certo non saresti così turbato per un esame. Ed inoltre quando hai letto le ultime lettere ricevute dal paese ero presente pure io e non ti ho visto minimamente turbato, anzi sembravano belle notizie”.
“Dovresti fare il detective, lo dico sempre e continuerò a ripeterlo…” sbuffò Heymans, senza nascondere l’ammirazione per le capacità del suo compagno di studi.
“Dovrei? Allora fammi continuare ad allenarmi… con la graziosa cugina che mi hai presentato qualche settimana fa pare andare tutto bene: ti ha persino portato una torta due giorni fa, ottima devo dire. Non sono un grande amante della crema ma era davvero buona. Comunque, tornando a noi, andando per esclusione, resta la parte delle tue giornate di cui ancora non mi parli: l’aiuto che dai a mio padre”.
Heymans sbuffò, mettendosi a braccia conserte: certe volte le capacità di deduzione di quel ragazzo lo lasciavano davvero sconcertato. Era abituato ad essere lui stesso quello intuitivo del gruppo ed essere messo spalle al muro in questo modo non era per nulla piacevole.
Questo qui se si mette d’impegno è capace di ricostruire la mia storia in un paio d’ore.
“Sì – concesse – è per l’aiuto che do a tuo padre. Niente che riguardi la sua persona o quelle dei suoi collaboratori, intendiamoci. Semplicemente ho a che fare con un caso piuttosto antipatico e la cosa mi mette di cattivo umore”.
“Patteggi per la parte destinata a perdere? Non saresti così cupo altrimenti – lo stuzzicò Arthur, intuendo di essere arrivato al nocciolo della questione – mio padre tende spesso a fare la morale su quanto possa essere ingiusta, almeno in apparenza, la legge. Ogni tanto, quando ancora spera che diventi un giudice famoso, mi dice che all’inizio della carriera sarò costretto a scontrarmi con la dura realtà che non potrò dare giudizi secondo i miei personali gusti. Uno dei tanti motivi per cui non mi ci vedo proprio a stare in un’aula di tribunale ad ascoltare dei litiganti”.
“Uomo saggio tuo padre. Forse mi ha proposto di fare questo tirocinio con lui anche per farmi sbattere la testa contro quanto mi aspetta”.
“Gli piaceresti molto come figlio – ammise Arthur, per nulla turbato – hai la testa sulle spalle, intelligenza, buonsenso: anche se non farai il giudice avrai una grande carriera nel campo dell’avvocatura. E sarei felice di averti come fratello maggiore: in questo modo tutte le aspettative sarebbero su di te e io non sarei costretto ad andare via di casa per respirare un po’ di aria pura”.
“Gli piacerei come figlio, eh?” Heymans rifletté su questa beffa del destino. A quanto pare diversi genitori lo consideravano come figlio perfetto, persino uno particolarmente esigente come il giudice Doyle. Solo Gregor non l’aveva pensata in questo modo.
“Comunque sono arrivato ad una conclusione – disse ancora il moro, distogliendolo da quei pensieri – hai bisogno di svagarti. Considerato che adesso ti dai da fare anche in tribunale, è più che salutare che ti prenda delle pause: la tua testa imploderà con tutti questi pensieri e non puoi certo aspettare le rare volte che scendi nel tuo paesello, no?”
“Proponi una cena fuori?”
“Certo, ma a quattro: tu hai bisogno di una bella ragazza che ti faccia divertire… niente di sconveniente, non fare quella faccia. Guarda che sono dinamiche normalissime: si esce, si va a mangiare da qualche parte, si fa un bel giretto per le vie del centro e finisce lì. Se poi la storia prosegue sono fatti vostri. Può anche risolversi con un nulla di fatto ma con delle ore passate in piacevole compagnia”.
Heymans scosse il capo con forza: l’idea di uscire con una ragazza lo spaventava, anche se era da stupidi avere dei simili timori. Sapeva benissimo che Arthur aveva ragione: non c’era niente di male nel passare un paio di ore con una di loro, sebbene non avesse la minima idea di come si sarebbero potute evolvere le cose. Paradossalmente l’essere figlio di suo padre arrivava a condizionarlo anche in questa sfera della sua vita: non che credesse che in lui ci fosse qualche seme di cattiveria, ma preferiva evitare l’argomento ragazze. E poi…
“… andiamo, non sono bello come te. In una cena a quattro sfigurerei e la mia compagna rimpiangerebbe la mia presenza”.
“Sottovaluti il tuo fascino – strizzò l’occhio Arthur, con la sicurezza di chi è consapevole di essere bello – sei una persona interessante che può parlare di decine di argomenti. Tu tendi a…”
“Buon pomeriggio! – salutò Erin, entrando – Oh, scusatemi! La padrona di casa mi ha detto che eri in camera e ho pensato di salutarti, Heymans. Non pensavo fossi in compagnia del signor Doyle!”
“Signor Doyle! – esclamò il moro con aria offesa – quello va bene per mio padre! Per te sono Arthur, signorina Erin”.
“Se tu sei Arthur allora sono solo Erin” ridacchiò lei, recuperando i suoi soliti modi affabili.
“Avevamo un appuntamento che mi sono dimenticato?” le chiese Heymans.
“No, ma sono passata per invitarti a casa a pranzo domenica prossima”.
“Più che volentieri, riferisci pure a tua madre che…”.
“Ehi, Erin, senti – la invitò Arthur, facendole cenno di unirsi alla conversazione – ci sono tutti gli indizi che tuo cugino in questo periodo sia un po’ stressato per lo studio e per il lavoro che sta facendo per mio padre”.
“Sai che iniziavo a pensarlo pure io?” rispose lei seriamente, quasi fosse un medico che si consulta con un collega.
“Vedi, Heymans? Se pure tua cugina la vede in questo modo vuol dire che ho ragione. Erin, pensavo che uscire con una ragazza non gli farebbe male, che dici?”
“No, senti…” iniziò il rosso, iniziando a sentire un imbarazzante calore sulle guance.
“Devo dire che mi pare una buona idea – lo interruppe la giovane – Ci ho pensato ogni tanto, Heymans: insomma pare che le tue uniche frequentazioni siamo io e Arthur, non va proprio bene. Specie ora che il tuo amico dell’Accademia, Roy, è in paese per quell’incidente”.
“Secondo me tu e Arthur state correndo troppo” protestò lui, cercando di recuperare il controllo di quella situazione che, nell’arco di un minuto, era diventata più pericolosa del previsto. Per qualche strano motivo gli ricordava il disastroso episodio della caccia al fantasma, più di cinque anni prima, quando una semplice chiacchierata era degenerata in un’avventura finita decisamente male.
“Ma dai, che cosa vuoi che sia! – Erin scosse il capo, muovendo i suoi bei capelli rossi – Anche io sono uscita con dei ragazzi quando ero a scuola, sai? Non c’è niente di compromettente. Possibile che in paese non succeda niente del genere? Dai, eppure mi parli spesso di quella festa del primo dicembre!”
“Hai qualche amica da presentare al nostro buon Heymans?” le chiese Arthur.
“Credo di conoscere la persona giusta – gli occhi grigi di Erin brillavano di entusiasmo, segno che la stava prendendo la faccenda estremamente sul serio – a volte ho pensato che Heymans e Kate sarebbero davvero una bella coppia. Era mia compagna a scuola e ora fa l’insegnante privata: è davvero intelligente e si interessa a tanti argomenti. Potreste parlare per ore con lei”.
“Dobbiamo assolutamente organizzare – dichiarò il moro, con la medesima serietà – l’occasione perfetta sarebbe un bel pranzo a quattro, con tanto di passeggiata finale al parco. Erin, ti va di essere mia complice e compagna in questa crociata di salvezza per il periodo buio di tuo cugino?”
“Ovviamente, Arthur!”
“Ehi, no… non vorrete fare un uscita a quattro coi voi due assieme!” si preoccupò Heymans. Gli sembrava la più pericolosa e scellerata alleanza che fosse mai apparsa sulla faccia della terra. Senza contare che l’idea di Erin in compagnia di Arthur, che di santo aveva ben poco, non gli piaceva molto.
“Non ti preoccupare! Organizziamo tutto noi! – lo bloccò Erin – In questi giorni parlo con Kate e le chiedo se le va bene, ma non penso che ci siano problemi. E adesso scusatemi, ma devo proprio andare!”
“O scappare da eventuali opposizioni da parte mia?” commentò il cugino con sarcasmo.
“Probabile” sorrise con malizia lei, guadagnando la porta.
La stanza si fece improvvisamente silenziosa, solo una lieve risatina di Arthur risuonava allegra.
Heymans non sapeva cosa dire: era accaduto tutto quanto così in fretta che non aveva avuto molta possibilità di reazione. Non avrebbe mai immaginato che Arthur ed Erin potessero tramare alle sue spalle, anzi davanti a lui, in maniera così spudorata.
“Ehi, Doyle…” mormorò con serietà.
“Dimmi”.
“Metti mia cugina nei guai e ti anniento”.
 
Heymans non aveva mai avuto esperienze d’amore, tanto che si poteva tranquillamente dire che la sua esperienza più vicina all’avere una ragazza era stata quando Janet si era proclamata sua fidanzatina. Questo dettaglio non l’aveva mai preoccupato perché, a conti fatti, non aveva mai sentito l’esigenza di trovare la famosa altra metà. In paese la questione era quasi fuori luogo: per quanto la maggior parte della gente non avesse più problemi a parlare con lui, sentiva che comunque era in qualche modo marchiato da quanto era successo alla sua famiglia. Ed inoltre era stato lui stesso a non cercare di approfondire quelle che potevano essere chiacchierate occasionali con le amiche di Riza e Rebecca.
In città la situazione era ancora diversa, nel senso che non aveva avuto materialmente tempo e voglia per dedicarsi all’amore, come invece facevano diversi suoi compagni di corso. Il suo obbiettivo era laurearsi, diventare giudice o avvocato: si era totalmente immerso nella sua vita universitaria, specie ora che Vato ed Elisa erano tornati in paese, da non aver minimamente contemplato qualcosa che andasse oltre la semplice cena tra colleghi.
“Rilassati – gli disse Arthur, la settimana successiva, mentre prendevano posto nel tavolo che avevano prenotato al loro ristorante preferito – vedrai che andrà tutto bene”.
“Guarda che sono tranquillissimo: non sono un adolescente che entra in crisi per una lettera d’amore passata da una compagna durante la lezione”.
“Perfetto, allora pensa solo a goderti la giornata: finalmente il tempo ha deciso di essere dalla nostra parte e questa mattinata è già tiepida, non trovi?”
Il rosso convenne che era vero: quel giorno di inizio aprile iniziava finalmente a regalare un po’ di vero calore dopo quell’inverno particolarmente rigido e ventoso. Finalmente ci si poteva permettere una camicia più leggera ed anche sciarpa e guanti non erano più indispensabili. La decisione di prendere un tavolo all’aperto era più che perfetta per godere di quel sole così bello.
“Chiariamo subito una cosa, anzi due. Numero uno, tu ed Erin non fate gli scemi, va bene? Sto partecipando a questo pranzo più per fare un favore a voi che per reale interesse, va bene?”
“Mai pensato di forzare le cose” commentò con ingenuità Arthur.
“Numero due, e forse più importante: non fare l’idiota con mia cugina, intesi? Siete qui solo come poco più che conoscenti: questo pranzo non si deve trasformare in un appuntamento per voi due”.
“Mi ritieni così poco di buono? Ora mi offendi! Erin è tua cugina ed è una fanciulla più che rispettabile: non mi sognerei mai di avere comportamenti sconvenienti con lei… ad onor del vero, mi hai mai visto fare lo scemo con qualche ragazza?”
“No – gli concesse Heymans – e vedi di non iniziare proprio oggi”.
“Mai pensato… oh! Ma ecco le nostre graziose ospiti – un seducente sorriso apparve sul volto del giovane Doyle – buongiorno Erin, oggi sei più splendente del solito. Sarà il sole che finalmente decide di comparire per rendere omaggio alla tua chioma?”
“Dongiovanni…” sibilò il rosso, prima di sfoggiare un sorriso ed andare incontro pure lui alla cugina e all’amica. Il suo sguardo acuto iniziò a studiare la sua presunta compagna, sperando che Erin dicesse il vero quando aveva spiegato che la sua compagna di scuola era tranquilla ed intelligente. Oggettivamente se gli fosse stata presentata una ragazza sulla lunghezza d’onda di Rebecca sarebbe fuggito a gambe levate.
Aveva la stessa età di Erin, quindi un anno meno di lui, ma c’era qualcosa nel suo portamento che la faceva sembrare più adulta. Indossava un cappotto marrone chiaro, dal taglio dritto, che le conferiva una certa classe, al contrario della spigliatezza dell’amica accanto. Il viso non era bellissimo, ma aveva quelli che si definivano lineamenti interessanti, tesi a dare carattere più che essere un difetto: mento generoso, naso dritto, sorriso leggermente sghembo… un po’ ricordava quello di Roy nei suoi momenti di malizia. I capelli erano lisci, di un biondo molto vicino al castano e la fronte era tenuta libera da alcune forcine che fermavano diverse ciocche ribelli. Gli occhi, castani, fissavano senza paura sia lui che Arthur, nemmeno una traccia d’imbarazzo.
“Heymans, posso presentarti Kate?” fece Erin.
“Ciao, Heymans – si presentò lei, tendendo la mano. Aveva la voce bassa ma accattivante, quella che sa come tenere l’attenzione degli studenti – immagino che sia stato difficile sottrarti all’entusiasmo di tua cugina: quando decide qualcosa c’è ben poco da fare”.
“Non hai sbagliato di una virgola la situazione – sorrise il rosso, stringendo la mano che gli era stata offerta – Aggiungi anche l’insistenza del mio amico Arthur e capirai come siamo stati praticamente obbligati a questo pranzo”.
“E allora tanto vale goderselo, no?” dichiarò con semplicità Arthur, intromettendosi con eleganza ed indicando loro il tavolo.
Ma sì – pensò Heymans, mentre si avviavano e prendevano posto nelle sedie – alla fine tanto vale godersi il pranzo. Almeno Kate mi ha fatto una bella impressione.

 



_________________________
Nda

Rieccomi qua a postare, dopo un tempo che sembrava infinito. Quanto è passato? Sui cinque mesi mi pare... per me sono come un'eternità. 
Anyway, veniamo a noi. Ecco che entra in scena Kate... una vecchissima conoscenza, quasi finita nel dimenticatoio, creata per la mia terza long in questo sito (parliamo quindi di un 4-5 anni fa). Ero rimasta nel dubbio fino all'ultimo se inserirla o meno nella trama di Heymans, ma alla fine ho deciso che ne poteva valere la pena.
In ogni caso, ovviamente questa trama proseguirà nel prossimo capitolo, così vedremo l'evolversi della storia.
Bene, spero di aggiornare in tempi più brevi rispetto a quest'ultima volta.

Enjoy :D

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3521627