Ci vediamo sulla Luna

di Solounaltrarosarossa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Senza nome ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1: Una buona storia? ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2: La bambina maledetta ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3: Scambio di storie ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4: Il potere delle parole ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5: La biblioteca ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6: Non dimenticare ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7: Dolore ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8: Passi ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9: Variabili ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10: Meriti ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11: Tic tac ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12: Non lasciarmi ***



Capitolo 1
*** Prologo: Senza nome ***


C’era una volta una città. Più che una città era un paesino, sperduto tra le terre del mondo. Questo paesino non aveva assolutamente niente di speciale, tanto da non avere neanche un nome. Vi chiederete allora perché io ne stia narrando la storia. Non lo so. So soltanto che ogni storia merita di esser raccontata e che forse sono le storie a scegliere i propri autori, quindi sto soltanto seguendo la storia che mi ha scelto. Le storie forse seguono i propri autori come il destino segue le persone, e proprio in quel noioso paesino il fato cominciò a mettersi in moto. 
 
C’era una volta un ragazzo. Più che un ragazzo era un bambino, sperduto in un paesino che a lui sembrava immenso. Questo bambino era davvero speciale, tanto da non saperlo. Vi chiederete allora perché io non vi dica il suo nome. Non lo so. Quel bambino, semplicemente lo aveva dimenticato, come ci si dimentica di comprare il latte tornando a casa o forse un nome non lo aveva mai avuto. Si diceva che fosse orfano ma lui non lo sapeva, lui non conosceva niente. Era giunto non si sa come in quel piccolo paesino, senza un nome come lui e non aveva niente, neanche sé stesso. Aveva con sé solo il suo destino, anche questo senza un nome e una promessa fatta a chissà chi, chissà quando e chissà perché “ci vediamo sulla Luna” ma lui, la Luna non sapeva cosa fosse. 
 
C’era una volta una favola, la favola di un bambino e vi starete chiedendo perché non ve la racconto. Non lo so. La storia mi ha scelta ma non è ancora stata scritta e i nomi ancora non si conoscono. 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1: Una buona storia? ***


Camilla aveva sempre detestato tutti. Non riusciva proprio a capire come tutte le persone potessero esser felici. Era solo una bambina eppure sembrava non provare alcuna emozione, sembrava guardare il mondo da una finestra appannata, come se non avesse niente di meglio da fare, e quello che vedeva non doveva piacerle molto. Usciva spesso, odiava stare in casa. Non usciva di certo per andare ad incontrare degli amici, lei amici non ne aveva. Si rifugiava spesso sotto una vecchia quercia, una di quelle che la gente avrebbe definito inquietanti, addirittura da abbattere ma quello era l’unico posto dove potersi sentire felice, a casa. Sotto quell’albero non si sentiva sbagliata, come in tutti gli altri posti. Le sarebbe tanto piaciuto viaggiare, trovare altri luoghi felici come quell’albero, cercare persone che non dovevano per forza fingere di essere felici eppure era ancora lì. Camilla era solo una bambina, certo, ma ne aveva passate più di molti adulti. Camilla non parlava quasi mai, con nessuno. Non ne aveva bisogno. Fino a qualche anno fa era molto loquace, forse addirittura logorroica ma nessuno l’aveva mai capita, e si era rassegnata al fatto che per lei non valeva la pena di parlare. Uscì come ogni giorno da casa, era un giorno qualunque, niente di strano, di diverso. Non le erano mai piaciuti i cambiamenti, la vita le aveva dato solo cambiamenti in peggio. I libri e la sua quercia erano le uniche cose che le davano un po’ di conforto. Si chiedeva perché mai non potesse essere uno di quegli eroi che trionfano sempre, che non vengono mai sconfitti perché loro sono il bene, ed è il bene che trionfa. Eppure non poteva fare a meno di immedesimarsi nei cattivi. Riusciva a capirli, sempre lì ad essere giudicati mentre qualche tipo belloccio li sconfiggeva proclamandoli malvagi. Lei era sempre stata definita tale, una cattiva. Gli altri non riuscivano a capirlo che così, lei, lo era diventata. Solo nove anni, eppure ne aveva decisamente passate tante.
Si sedette sotto la sua quercia. Aprì il libro che aveva preso un po’ di tempo prima in biblioteca. Non aveva ancora cominciato a leggerlo ma prima di farlo doveva sempre guardare l’ultima frase. Non sapeva come aveva preso quel vizio assurdo ma ormai non leggeva più niente senza fare così. «Da quant’è che non piangi?» lo disse ad alta voce, le capitava spesso di ripetere delle fasi ad alta voce. La faceva sentire meglio, più reale. Il silenzio l’aveva sempre infastidita perciò cercava di riempirsi la testa di frasi di persone coraggiose. Detestava gli eroi ma doveva dargliene atto, sapevano vincere. «Bella domanda.» si sentì rispondere pochi secondi dopo aver letto ad alta voce la frase. «A dire la verità non lo so, sai, io non piango molto spesso. Solitamente quando sono tanto felice piango di gioia. Quindi non saprei risponderti… non sono felice da un po’.»
Chi le aveva risposto? Non aveva visto nessuno lì intorno. Non aveva mai avuto nessuno vicino per tutta la sua vita, non avrebbe certo incominciato prima di leggere un nuovo libro. Si voltò. Vide un ragazzino più o meno della sua età. Evidentemente non l’aveva visto prima, non prestava mai molta attenzione ai luoghi ma non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che quel ragazzino fosse comparso dal nulla, come un fantasma. Era una sensazione diversa, forse un po’ strana ma non poteva dire che non le piacesse. Aveva i capelli scuri, un po’ troppo scompigliati, gli occhi azzurri e la pelle chiara… chiara come… no, non riusciva a ricordarselo. Non era come se non riuscisse a ricordare la parola ma il concetto in sé non riusciva a venirle in mente. “Sarà stato qualcosa che ho letto in un libro” pensò.
«E tu, invece? Da quant’è che non piangi?» la domanda la mise a disagio. Un po’ perché era sorpresa che qualcuno le rivolgesse la parola, un po’ perché anche lei non sapeva rispondere. Non aveva mai pianto, da quando ne aveva memoria. Probabilmente, anzi, sicuramente era per questo che nessuno osava rivolgerle la parola, che veniva considerata strana. Agli altri dava l’impressione di non provare alcuna emozione. Non era normale per una bambina ma lei provava solo dolore e il dolore non lascia spazio a nient’altro. E aveva anche imparato che se questo viene nascosto si sente di meno. Le persone ti fanno meno domande. Detestava le domande rivolte a lei, esigevano una risposta.
«N-non lo so. Tu, piuttosto, chi sei?»
«Io sono io. Non ho un “nome”. È così, che si dice, giusto? Nome. Comunque, non mi serve.»
«Come fai a non averne uno? Che significa che non ti serve?»
«Non c’è nessuno che mi chiami, quindi non ne ho bisogno.»
Camilla rimase abbastanza turbata da quella affermazione, ma non si scompose più di tanto. In fondo anche lei aveva poco bisogno del suo nome.
«Va bene. Ora, per favore, lasciami stare. Vorrei leggere.»
«Leggere? Cosa significa?»
«Guardare dei disegni chiamati lettere e trasformarle in parole.»
«E perché lo fai?»
«Perché il mondo è noioso, e le persone fatte di carta sono… migliori. Non ti deludono. O, se lo fanno, lo fanno per scrivere una buona storia.»
«E tu?»
«Cosa?»
«Cosa fai per scrivere una buona storia?»
Era proprio vero. Detestava le domande, specialmente quelle rivolte a lei.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2: La bambina maledetta ***


Fece per leggere il libro ignorando la domanda ma non ci riuscì. Non sapeva perché ma doveva rispondere; questa era una delle cose che sentiva di non poter ignorare. “Vivere ignorando tutto non è forse il modo migliore ma dopo un po’ si finisce per ignorare anche questo” era quello che continuava a ripetersi da un bel po’ di tempo. Eppure c’era qualcosa nella sua testa che le impediva di ignorare quel ragazzino senza nome.
«Io sono stata scritta male, evidentemente.»
«Allora riscriviti.»
Non riusciva proprio a comprendere quel ragazzino. Tutti fuggivano dopo poco tempo di fronte a lei ed alle sue risposte complicate da capire ma quel bambino no. Lui era rimasto e le impediva di continuare a leggere come se volesse impedirle di continuare a vivere la vita che aveva vissuto fino a quel momento. O, almeno, questa era l’impressione che aveva dato a Camilla. Era abbastanza strano, in effetti, pensare una cosa del genere ma Camilla non voleva rischiare di cambiare. I cambiamenti erano probabilmente la sua paura più grande. Non poteva accettare di sentire da qualcuno “riscriviti”. Cambiare completamente. Non riusciva a muoversi al solo pensiero. Richiuse il libro con un tonfo e corse via, nel terrore del cambiamento.
Era strano, stranissimo. Eppure stava provando qualcosa, riusciva a sentirlo. Nessuno voleva avvicinarsi alla “bambina maledetta” nel paese. Non le era rimasto nessuno. Così sola… chissà da quanto tempo era che non parlava con qualcuno che non fosse il bibliotecario o qualche cassiere. Non doveva andare a scuola, faceva gli esami da privatista. Era abbastanza intelligente da poter fare tutto da sola in un mese. Le stava ritornando in mente quel giorno in cui aveva deciso di cominciare a leggere. Stava dimenticando come si comunica con le parole, dato che non aveva nessuno con cui parlare. Aveva poi imparato che con i libri ci si relaziona meglio perché le sorprese possono soltanto stupire il lettore e non ferirlo, cambiarlo come era successo a lei.
La chiamavano “la bambina maledetta” solo perché per qualche strano scherzo del destino tutti i membri della sua famiglia, una volta la più rispettata e facoltosa del paesino, erano morti. Se ne erano andati in silenzio lasciandola da sola. Nessuno aveva più voluto occuparsi di lei così, a sei anni, prima che sua zia, l’ultima persona che aveva avuto il coraggio di occuparsi di lei, morisse imparò tutto quel che c’era da imparare per vivere da sola. Normalmente la legge non lo avrebbe consentito ma tutti erano disposti a chiudere un occhio per non essere vittime della maledizione. “Vivi!” le aveva detto sua zia ma non riusciva a capire se avesse voluto essere un incoraggiamento ad andare avanti o un’ulteriore maledizione. Tutti ripetevano che era stata colpa di suo padre, Bruno Lunari, che aveva ficcato il naso dove non doveva. “A volte la curiosità è troppa anche per un illustre archeologo” dicevano, come se cercando di capire il passato si rischiasse di scatenare la collera di qualche demonio. Forse era così, ma come si poteva arrivare a pensare che lei lo fosse diventato? “Il genere umano” si era sempre detta “non finirà mai di sconvolgermi”. Lo diceva come se lei non fosse umana, perché forse non riusciva a sentirsi tale. Cose come le emozioni ed i desideri... per lei erano così strane. Poteva osservare queste cose da lontano, ma senza mai sfiorarle, senza mai interferirci. Proprio come una lettrice col suo libro. E forse anche la sua vita lo era, aveva dato la risposta giusta a quel ragazzino: un noioso, triste libro che narra di qualcuno che non fa altro che osservare storie migliori della sua; ecco cos’era lei. Solo una storia triste tra tante altre storie migliori.
 
Arrivò alla sua grande casa oramai polverosa, che un tempo doveva essere stata davvero bella. Aveva pochi ricordi delle grandi vetrate senza macchie e delle pareti perfettamente intonacate. Eppure non le dispiaceva poi tanto la polvere. Era la prova che un tempo tutto era diverso, che tutto era migliore; e che forse un giorno, per quanto poteva sembrare difficile, avrebbe potuto tornare ad esserlo.
Sentì qualcuno bussare, era un suono che le era capitato di sentire ben poche volte e non preannunciava niente di buono. Andò quindi ad aprire trovandosi davanti dei capelli scuri scompigliati e degli occhi azzurro ghiaccio senza nome.
«C-cosa c’è?»
«Ti è caduta questa mentre te ne andavi.» così dicendo le porse una che a prima vista sembrava una normale carta da poker ma che se veniva osservata si rivelava essere una carta truccata.
«Oh… ti ringrazio tanto. Ma tu… stai tremando! Su, entra.»
«Ah, grazie.»
«Ma tu non ce l’hai una casa?» disse Camilla facendolo entrare.
«N-no e neanche una famiglia a dire il vero. Anzi, ho un fratello ma…» a quel punto il ragazzino svenne e tutto agli occhi di Camilla sembrò farsi un po’ più buio. Da quando qualcun altro poteva avere tutta questa influenza su di lei? E come mai sembrava non dispiacerle?

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Capitolo 4
*** Capitolo 3: Scambio di storie ***


Camilla rimase a fissare il ragazzo per un po’. I capelli neri e scompigliati sul pavimento, i suoi occhi chiusi, quel colorito così pallido… quanto tempo era passato? Uno, due minuti? Le gambe però cominciavano a farle male, era immobile davanti alla esile figura distesa di quel ragazzo senza nome, doveva esser passato molto più tempo. Se avesse continuato così avrebbe dovuto trovare un nome al bambino. Avere qualcuno da poter chiamare, aver bisogno di un nome al punto di dover inventarselo. Era così… strano. Eppure le sembrava così bello. Rimase ancora un po’ a pensare lì ferma per poi rendersi conto che la porta era aperta. Cominciava a far freddo. Con molta fatica riuscì a mettere il corpo privo di sensi del bambino su di un polveroso divano, chiuse la porta e accese il fuoco. Stava davvero poco tempo in casa ma davanti al caminetto era uno dei pochi luoghi dove a lei non dispiaceva stare, anche se non avrebbe mai raggiunto i livelli della sua quercia. Qualche minuto dopo il bambino rinvenne e Camilla fu felice di sapere che stava bene, addirittura sorrise, anche se per un solo istante.
«Se ti va puoi dormire qui, per stanotte… sai, hai detto che non hai un posto dove andare. Sta… facendo buio.» disse Camilla, un po’ imbarazzata.
«Davvero ho detto così? Io ho un posto dove andare. Io dormo sempre sotto le stelle. E non importa che stia facendo buio… la notte, la notte è più bella.»
«Oh… davvero? E non hai freddo o… paura?»
«No. Non fino a che ci sono le stelle a vegliare su di me. Non si deve aver paura di notte. Basta guardare il cielo.»
«Il cielo? E perché dovrei guardarlo?»
«Le stelle… hanno tante forme buffe se si collegano tra loro. Si possono immaginare tante storie, tra le stelle.»
«Oh… se ho capito bene è come leggere un libro.»
«Ecco, il cielo è un grande libro pieno di storie infinite, narrate dalle stelle. Sì, proprio come in uno dei tuoi libri.»
«Allora insegnami!» si sentì gridare Camilla, prima di potersi pentire di quel che aveva appena detto.
«Io ti insegnerò a guardare il cielo solo se tu mi insegnerai a leggere. Storie per storie.» rispose il bambino, come se fosse la cosa più naturale del mondo. «Vieni, i miei insegnamenti cominciano da subito.» continuò. Quindi la afferrò per un braccio e si ritrovò nel freddo della sera.
Camilla non riusciva a spiegarsi come avesse potuto finire in una tale situazione. Tutti che avevano sempre cercato di allontanarla e ora andava a guardare le stelle con qualcuno. Che poi, lei, non riusciva a capire come si potesse imparare a guardar le stelle.
«Sono disegni, se viste in un certo modo. Proprio come le “lettere” che dici di leggere.» si sentì rispondere dal ragazzo, proprio come se fosse riuscito a leggerle la mente.
Si sistemarono più tardi sul tetto della grande casa di Camilla. Il blu della notte interrotto dalle luminose stelle riempiva i loro occhi. Il bambino senza un nome passò tutta la serata a raccontarle storie, anche più belle di molte che aveva letto nei suoi libri. Storie tristi, felici. Storie che aveva sentito, che aveva appena inventato. Storie per gente solitaria, che doveva passare le notti a farsi raccontare leggende dalle stelle e che non aspettava altro che raccontarle a qualcun altro. Erano storie, tutto sommato, per persone come lei.
Il bambino si addormentò prima di lei e rimase a guardarlo. Camilla si rese conto di aver portato un libro per cominciare anche lei a regalare storie al bambino ma non avevano avuto modo di utilizzarlo.
«Certo che le storie delle stelle sono davvero incredibili.» aveva detto rivolta al bambino, che con sua grande sorpresa aprì gli occhi a quelle parole.
«Già. Comunque, perché sei rimasta così tanto tempo a fissarmi?»
«N-non stavi dormendo?» disse Camilla arrossendo.
«No. Perché?»
«Ma avevi gli occhi chiusi…»
«Una persona con gli occhi chiusi non sta per forza dormendo.»
«Sì… ma di solito quando si hanno gli occhi chiusi si sta dormendo.»
«Sei per caso una lettrice di storie a cui non piace l’insolito?»
«No...»
«Oh» disse il ragazzo tutto dispiaciuto «Saresti stata la prima che io abbia mai conosciuto. Comunque, perché mi stavi fissando?»
«Io… io stavo cercando di trovarti un nome… sì, insomma, mi servirà se dovrò insegnarti a leggere.»
«Oh… e a che cosa avevi pensato?»
«È solo un’idea stupida…»
«Molte cose buone sono nate da un’idea stupida.»
«Beh… in un certo senso me lo hai già detto. Il tuo nome potrebbe essere Silenzio.»
«Silenzio? Mi piace. Sembra il nome di una stella. Chissà se un giorno diventerò anche io una stella.»
«Sai che è impossibile.»
«Assolutamente no! Ad esempio, guarda lì…» e, indicando il cielo stellato riprese a raccontare storie, mentre da lì a poco si sarebbe conosciuta la storia di Silenzio e Camilla, una storia narrata da pagine e stelle.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4: Il potere delle parole ***


Camilla si svegliò tutta infreddolita e con la schiena a pezzi sul tetto di casa sua. Non riuscì a vedere Silenzio. Andò quindi a cercarlo senza risultati apparenti. “Sarà stato tutto un bel sogno?” pensò. Forse era così, d’altronde perché qualcuno avrebbe dovuto cercare di insegnarle a leggere le stelle? Perché qualcuno non avrebbe dovuto fuggire da lei, come avevano sempre fatto tutti? Andò in cucina per bere qualcosa di caldo, magari poi avrebbe letto un po’. Doveva aver preso un libro dalla biblioteca, qualche giorno prima, era anche nel suo sogno. Chissà perché era salita sul tetto, poi. Lo avrebbe ricordato, un giorno. Le capitava spesso di dimenticare delle cose. Ad esempio: dove aveva messo quel maledettissimo libro? Cercò dappertutto, in ogni singola stanza della grande casa semivuota ma non riuscì a trovarlo da nessuna parte se non vicino al camino, il posto più ovvio dove avrebbe potuto essere. Eppure su di esso non vide la sua solita carta da poker truccata, era un buon segnalibro, in fondo. Aveva giurato di tenerla sempre con sé, d’altronde... ci avrebbe pensato dopo. Eppure non avrebbe mai cambiato il suo segnalibro preferito. Aprì il libro e lesse l’ultima frase, ad alta voce «Da quant’è che non piangi?» trovò davvero strano che la prima frase del libro fosse quella del suo sogno. E ricordava vagamente anche le prime righe, come mischiate ad un’assurda conversazione con una persona ancora più assurda.
«Mi sbaglio o mi hai già fatto questa domanda?»
«S-silenzio!»
«Eh? Ma ho solo chiesto… ah, credo che dovrò abituarmi all’idea di avere un nome.»
«Ti ho cercato. Dove eri finito?»
«Osservavo la tua carta da poker.»
«Mi stai dicendo che non sai leggere ma che conosci il poker?»
«Certo. O almeno penso di ricordarlo. È come… come se lo avessi dimenticato.»
«Ho capito, dovrò insegnarti.»
«Mi piacerebbe, ma prima vorrei sapere… perché metti questa nei libri? È per segnare una pagina?» e dicendo questo le indicò la carta truccata.
«Sì… si usa ricordare dove si è arrivati con un libro, a che punto della storia…»
«Cioè una volta che hai iniziato a “leggere” è così che si dice, vero? Non finisci subito? Aspetti un po’ per conoscere la fine della storia? Perché? Non fa… male?»
«No, non si può certo leggere un libro tutto di filato. Non che io non lo abbia mai fatto… comunque è inusuale.»
«Oh… capisco.» disse, sconcertato e anche un po’ deluso da quelle affermazioni.
«Se ci tieni tanto a saperlo, comunque, quella carta era di mio padre. Ecco perché uso proprio quella.» disse in modo sbrigativo. Rifletté un po’ prima di aggiungere altro, poi disse «E poi lo trovo un po’ poetico, no? Senza questa carta truccata tutto il mazzo perde di senso, diventa impossibile eseguire i numeri di magia. È solo una delle tante prove che le cose diverse dal resto sono sempre quelle più importanti. Forse oggi si è capito e si cerca così disperatamente di essere uguali che ci si ritrova ad essere tutte carte dello stesso mazzo. Un mazzo perfettamente regolare, inadatto a fare trucchi, privo di magia…»
«Vieni con me» disse Silenzio porgendole la mano «una carta truccata non ha senso senza il resto del mazzo.»
A Camilla ci volle un po’ per realizzare che quello, forse, non era esattamente un complimento e le ci volle ancora di più per chiedersi perché diamine ci stava pensando. Si rese poi conto che era di nuovo sul tetto insieme a Silenzio. Era una giornata fredda e c’era un forte vento. Camilla non riuscì a spiegarsi perché non fossero andati a leggere nel vecchio studio di suo padre, poi si rese conto che Silenzio non era a conoscenza di quella grande stanza sommersa di libri, che Camilla aveva in programma di leggere tutti quando fosse stata più grande, dato che alcuni erano troppo difficili da capire per lei, al momento. Ammirò il panorama, forse era per quello che erano saliti sul tetto. Il piccolo paesino si estendeva un po’ troppo in lontananza, eppure era lei che era lontana da tutto il resto. “Essere lontana avvicina a sé stessi” avrebbe detto un persona saggia che era sempre stata vicino a tutto. Essere lontani significa essere soli, ecco tutto.
«Camilla, tu non sei una carta tra tante…» disse Silenzio con sua grande sorpresa «guardami: tu sei riuscita a dare un suono al silenzio. Un colore, un odore, dei pensieri… questo una carta del mazzo qualsiasi non può farlo. E anche se tu lo fossi, se tu fossi soltanto una in mezzo a centomila altre carte, saresti tu. È vero che tutte le carte si assomigliano ma nessuna è uguale ad un’altra. Oltre ad avere segni diversi, ogni carta è stata giocata in momenti differenti, decretando la vittoria o la sconfitta della mano che le reggeva. Camilla, forse le carte non possono giocare ma comunque possono vincere o perdere, alcune volte decretando il futuro di una vita.»
«Leggi.» disse Camilla, come se fosse la cosa più naturale da dire. «Le carte potranno anche essere importanti ma le parole hanno da sempre pieno potere su tutto. Le parole distinguono bene e male, che il più delle volte sono concetti indistinguibili. Le parole fanno le scommesse e le carte. Le parole sono quelle che insegnano i trucchi di magia.» lo disse tutto ad un fiato, come se non ci fosse assolutamente tempo da perdere, come se ogni secondo dovesse essere salvato. «Leggi.» ripeté.
«Ma io… non so come si fa.»
«Sono qui per insegnarti.» Camilla prese un vecchio libro impolverato chiamato “L’Alfabeto” e cominciò a sfogliarlo, si rese conto che doveva essere stato per tutta la notte sul tetto. Era un libricino piccolo e sottile, ingiallito e tutto stropicciato. Lo aveva usato per la prima volta dopo la morte della zia, era stato così tanto tempo fa… Aprendolo si sollevò un po’ di polvere, era decisamente passato tanto tempo. Il libro aveva una lettera per ogni due facciate, circondata da disegni colorati vivacemente, a fianco di ogni lettera vi erano alcune parole inizianti per la lettera corrispondente. Silenzio imparò velocemente l’ordine alfabetico e cominciarono a leggere qualche parola.
«A come ape, albero. F come farfalla, favola. G come girandola, ghianda. L come letto, Luna…» Luna? Doveva sicuramente aver letto male. Rilesse varie volte, a voce sempre più alta, come se così fosse più facile leggerlo «L-U-N-A, Luna, Lu-na…» continuava a ripetere. Non riusciva a crederci, aveva finalmente un indizio, un indizio su quel che cercava da quando ne avesse memoria. «Camilla, qui leggi Luna anche tu, vero?»
Camilla, un po’ stranita rispose «Sì, ma onestamente non ho idea di cosa significhi. Assomiglia tanto al mio cognome, è Lunari, sai? Da piccola mi pare che mi raccontassero assurde storie a proposito di questa “Luna”. Pare che sia una parola che nessuno conosce. Mio padre ne doveva essere molto affascinato, forse per via del suo cognome, non lo so… mia zia me lo diceva sempre. Questa parola si può trovare solamente in qualche dimenticato libro di favole… Mi pare che fosse un’assurda leggenda…»
«Ti prego, potresti raccontarmela?»
«Io… io non la ricordo. Possiamo andare a cercare qualcosa in biblioteca però, se ti interessa tanto…»
«Certo! Andiamo subito!» Silenzio partì così con Camilla, trascinandola sempre per un braccio, consapevole del fatto che le parole erano decisamente più potenti delle carte e delle persone, perché le parole erano riuscite ad aprirgli una via per rispettare una promessa, qualcosa che diceva a chiunque incontrasse, una volta, qualcosa che aveva dovuto smettere di dire. Lo avevano sempre definito un pazzo ma eccolo lì, speranzoso che un giorno avrebbe potuto dirlo ancora una volta: “Ci vediamo sulla Luna”.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5: La biblioteca ***


“È immensa” fu la prima cosa che pensò Silenzio entrando nella biblioteca, dove grandi scaffali si ergevano strapieni. C’erano delle grandi vetrate, da dove filtrava una grande quantità di luce, avevano ancora il fiatone per la corsa, casa di Camilla era davvero lontana da lì. Se avesse dovuto usare un aggettivo per descrivere Camilla sarebbe stato “gentile”, cosa che nessuno era mai stato con lui. La ragazza si muoveva in biblioteca come a casa sua. Sembrava davvero bella –se era così che si diceva- con i lunghi capelli rossi che non dovevano aver visto un pettine da qualche anno a questa parte e gli occhi color verde foglia. Non era come tante altre ragazze che cercavano disperatamente la bellezza, era un dono che aveva e basta, come si può saper suonare il piano o disegnare. Ci mise un po’ a rendersi conto che la stava fissando mentre lei era andata a parlare con la bibliotecaria, una donna che ricordava a Silenzio uno spillo, alta e magra com’era. Aveva i capelli grigio topo e gli occhi neri, ormai spenti, come a chiedersi perché fosse ancora lì e non sotto tre metri di terra. A Silenzio era capitato spesso di vedere quello sguardo negli adulti. Alcuni uomini sembravano ansiosi di addormentarsi un’ultima volta, per sempre. Eppure non ricordava con precisione in chi lo aveva visto. Sapeva soltanto che lo aveva visto, da qualche parte. Camilla aveva appena finito di parlare con la bibliotecaria quando, con uno sguardo soddisfatto, fece un cenno a Silenzio come a dirgli di seguirla dove a quanto pare la bibliotecaria le aveva detto di cercare. «C’è un solo libro di favole che parla della Luna in questa biblioteca. Gli altri pare siano andati distrutti in un incendio tempo fa. Si pensa che questa “Luna” sia una qualche antica leggenda di cui non abbiamo avuto più traccia nel corso dei secoli.» riferiva diligentemente Camilla ad un Silenzio che ascoltava ben poco. «Comunque, se posso chiedere, come mai trovi così importante sapere cos’è la Luna?». A quelle parole Silenzio parve come ridestarsi. «Ti prometto che se capiremo fino in fondo cos’è e dove si trova te lo spiegherò, anzi ti porterò lì.» Camilla sembrò ridere a quella affermazione. «Già, allora ci vediamo sulla Luna.» a quella frase che non aveva mai sentito pronunciare da altri all’infuori del fratello, che non vedeva da anni, Silenzio scoppiò quasi a piangere, proprio come farebbe un bambino, cosa che lui avrebbe potuto permettersi ai suoi undici anni, se non fosse stato costretto a crescere così in fretta. Si chiese se anche lui non avesse avuto lo stesso sguardo della bibliotecaria, qualche volta. Eppure fece quello che faceva sempre, fingere di essere il bambino allegro e che non piange mai che nessuno in realtà aveva mai visto sorridere «Già, ci vediamo lì.» si limitò a dire, cercando di mascherare la voce che cominciava a rompersi. Avrebbe voluto dire tante cose, avrebbe voluto dire che quella era la promessa che aveva fatto al fratello di cui non ricordava neanche il volto, poco più di sette anni prima. Sette anni prima, quando anche lui aveva un nome, un nome che aveva dimenticato. Se chiudeva gli occhi poteva ancora sentirli: bambini senza volto che si prendevano gioco di lui, persone che lo costringevano a crescere “è davvero da stupidi non ricordare il proprio nome” dicevano in continuazione. Non ricordava, non ricordava niente. Non i loro volti, non i loro nomi. Solo poche parole. Forse lui di un nome ne aveva sempre avuto bisogno ma si era sempre considerato troppo poco da meritarselo. “Un nome serve alle persone che vengono chiamate, affinché non si dimentichino il proprio, un nome è una questione di grande responsabilità” aveva sentito dire una volta, da una persona saggia. Eppure non ricordava neanche quella persona. I suoi ricordi erano sempre piccoli frammenti di cose, piccoli pezzi di tessuto, insufficienti a cucire un vestito ma pur sempre abbastanza per dare l’illusione di poterci riuscire. Era orribile, dimenticare sempre tutto, vivere come rinchiusi nella propria testa, svegliarsi da un giorno all’altro nel mese dopo, in un altro posto, con altre persone, altri visi e nomi che sarebbero stati dimenticati per lasciare posto ad altri ancora. Per un periodo si ricordò che aveva provato a inventarsi un nome ma aveva dimenticato anche questo quale fosse, così ogni volta che qualcuno glielo chiedeva ne diceva uno diverso. Doveva essersene andato dall’ultimo paese per questo. O forse era il penultimo? O quello prima ancora? Lo aveva dimenticato, forse perché non c’era alcuna ragione per tenerlo a mente, oppure perché si era rassegnato a non potercela fare. Non si accorse che Camilla si era fermata a cercare il libro fino a che lei non smise di parlare e lui quasi non la urtò. Tutta soddisfatta si voltò con un libricino molto più piccolo rispetto ai grandi tomi sparsi per tutta la biblioteca. Era davvero in una cosa così insignificante quello che lui cercava ininterrottamente da sette anni, senza mai riuscirci? Eppure, per quanto insignificante,  quel libro era pieno di parole. E le parole erano potenti, credeva di averlo imparato, ormai. Senza dire niente Camilla posò il libro sopra un tavolo di legno massiccio, dove un uomo tutto vestito di nero stava leggendo un libro dalla copertina grigiastra. Silenzio si sedette di fianco a Camilla e guardò il libro. Era di colore blu scuro, di quello che fa da sfondo alle stelle e c’erano puntini argento qua e là, come a disegnare davvero un cielo stellato. Quando Camilla lo aprì si notavano pagine ingiallite e consunte, che dovevano esser state amate. “Almeno le stelle un vantaggio ce lo hanno” pensò Silenzio “non si rovinano col tempo, semplicemente si spengono, fanno la loro uscita di gran carriera esplodendo e non lasciano più niente lì. Niente che le ricordi e che faccia star male chi le aveva amate, non c’è niente che riporti alla mente le stelle una volta spente. Si spengono e basta. I libri invece lasciano lì i segni del proprio svanire e non svaniscono mai completamente; restano lì ad aspettare che qualcun altro li legga o si impolverano, guardando dall’alto di uno scaffale il mondo che se la cava senza di loro.” Silenzio si chiese come avesse potuto pensare tutte quelle cose, lui che il giorno prima i libri neanche sapeva cosa fossero.
«Questo libro racconta tante storie.» spiegò Camilla, che non doveva aver riflettuto molto sulle pagine ingiallite del libro, chissà quanti ne aveva visti, lei, di libri così «qui intorno ci dovrebbe essere una favola anche sulla Luna…» sfogliò il libro, e la solita espressione seria cominciò a farsi un po’ spaesata, aprì il libro all’indice, rivolse uno sguardo amareggiato, deluso e anche un po’ disgustato da quel che vedeva a Silenzio e, con la voce ridotta a niente di più che un sussurro disse: «Qualcuno ha strappato le pagine riguardanti la Luna.»

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Capitolo 7
*** Capitolo 6: Non dimenticare ***


Erano ritornati a casa di Camilla come se tutti gli scaffali di quella enorme biblioteca fossero caduti loro addosso. Silenzio aveva come un gusto amaro in bocca, come chi ha trovato quel che avrebbe potuto dare alla propria vita un senso ma che poi lo perde come se fosse niente di più che un pezzo di carta. Beh, in effetti era proprio così, ma questo Silenzio non ebbe neanche la forza di pensarlo. Erano ritornati senza dirsi neanche una parola, Silenzio immerso nella propria delusione mista ad un certo senso di tristezza e Camilla nei suoi pensieri e nel suo disgusto per chi strappa delle pagine di un libro. Il ragazzo dagli occhi azzurri salì sul tetto senza dire ancora niente e si abbandonò al freddo della sera. 
Il giorno dopo Camilla aveva un aspetto orribile. I suoi occhi verdi erano cerchiati di nero e i suoi bei capelli rossi erano persino più scompigliati del solito, non doveva aver dormito molto. Silenzio invece aveva dormito profondamente quella notte, sul tetto. Eppure era stata una notte in cui le stelle sembravano essersi tutte spente e che non ci fosse più nessuno a raccontargli belle storie tranne le nuvole, che gli avevano regalato solamente brutti sogni. Ma questo, dagli occhi azzurri di Silenzio, non traspariva. 
Quel giorno Camilla aveva deciso di far vedere a Silenzio quel che c’era in casa sua, pur non sapendo neanche lei bene cosa ci fosse. Passarono tutta la giornata ad ammirare la bella villetta. Camilla non si era mai resa conto di quanto potesse essere graziosa, con le sue tinte pastello e le sue timide decorazioni, ma suppose che non ci accorgesse mai del valore delle cose fino a che non ci fosse qualcuno a cui mostrarle. E Silenzio era rimasto stupefatto da quel luogo che sembrava scardargli il cuore, come il fuoco di un camino in pieno inverno o come l’abbracciare una persona cara di cui aveva sentito la mancanza per tanto tempo. 
Passarono per il polveroso soggiorno dalle pareti giallo canarino, dalla cucina arancione pastello e dal lungo corridoio bianco latte, aprirono tutte le porte che riuscirono a trovare, fino ad arrivare davanti ad una stanza che Camilla ignorò come se non esistesse. 
«E questa stanza?» chiese un Silenzio incuriosito dalla porta scura che ad un ragazzo basso e gracilino come lui trovava enorme. 
«Cosa?» 
«Cosa c’è qui dentro?» disse Silenzio leggermente seccato, detestava le persone che rispondevano ad una domanda con un’altra domanda. 
«È… era lo studio di mio padre… Era un archeologo, sai?» 
«Oh, cos’è un archeologo?» 
«È una persona che cerca di riportare un po’ di passato qui nel presente.» 
«Ma è magia! Ma… perché si dovrebbe fare una cosa del genere?» 
«Affinché il passato non venga dimenticato. Perché le azioni degli uomini si ripetono sempre uguali… è importante, davvero importante, non dimenticare.» 
«Già, hai ragione. Non… non si dovrebbe dimenticare. Non si dovrebbe.» fu davvero doloroso per Silenzio pronunciare quelle parole. Lui aveva dimenticato, aveva dimenticato tutto. Non avrebbe dovuto, ma sapeva di averlo fatto. Era come se qualcuno avesse tentato con  tutte le proprie forze di strappargli qualcosa dalla mente e, riuscendoci, ne avesse fatto cadere a terra un pezzetto, fondamentale, con una frase come marchiata a fuoco su di esso “Ci vediamo sulla Luna” diceva. Ma lui, ancora, la Luna non l’aveva trovata. Chissà che favola avrebbe dovuto essere quella scritta in quel libro rovinato, chissà quale storia si era persa tra quelle pagine… 
«Sai, non entro spesso in questo studio… mi ricorda troppo mio padre, e come io lo stia lentamente dimenticando, quasi che il suo ricordo mi stia sfuggendo dalle dita come sabbia. Mi è sempre più difficile ricordare il colore dei suoi occhi o il suo profumo. Ero piccola quando morì. Pensavo che sarei stata felice per sempre, al tempo. Pensavo che non ci fosse bisogno di ricordare le cose, perché avrei potuto sempre rivivere tutto, tutto quel che mi rendeva felice e così dimenticare solo le cose tristi. Pensavo che dimenticare fosse necessario per vivere felici. Eppure dimenticare, dimenticare non è vivere» disse Camilla interrompendo i pensieri di Silenzio; e, aprendo la porta con fare teatrale, disse: «e forse ora è arrivato il momento di vivere.» 
Lo studio era una stanza maestosa, con la grande libreria a muro di mogano che si ergeva davanti a Silenzio, la grande scrivania dello stesso legno ricoperta di scartoffie e la grande finestra che lasciava entrare la luce rossastra del tramonto. Silenzio non poté fare a meno di pensare alla biblioteca quando vide tutti quei grandi e polverosi tomi. Chissà cosa era contenuto lì, in mezzo a tutte quelle parole. A quel punto un’idea, forse un po’ folle, gli venne in mente «Camilla… e se cercassimo qui? Se cercassimo qui, in mezzo a tutte queste parole la Luna?» 
Camilla lo guardò come se fosse un pazzo ma forse, pensò, doveva essere un po’ ammattita anche lei per il troppo tempo passato col ragazzo. Guardò prima la moltitudine di libri e scartoffie in quella stanza, poi spostò la sua attenzione alla luce del sole sempre più rossiccia che illuminava di uno strano colore caldo gli occhi freddi di Silenzio e disse: «Va bene.» 
Rimasero in piedi tutta la notte senza niente nello stomaco alla fievole luce della lampada sulla scrivania a cercare una sola parola in mezzo ad altri milioni prima che l’attenzione di Camilla ricadesse su un vecchio foglio ingiallito che diceva: “A mia figlia lascio questa carta da poker a me molto cara oltre al resto dei miei averi e chiedo che mia sorella, Aurora Lunari, le consegni la lettera a questo documento allegata e che nessuno la legga oltre a mia figlia, che ne è la destinataria, fino a che ella non avrà compiuto la maggiore età.” si vedeva anche una specie di scarabocchio alla fine del documento, doveva essere stata la firma del padre. E proprio sotto di essa c’era una lettera sulla quale si poteva leggere “A Camilla”. Senza dir niente, senza pensarci neanche, Camilla aprì la busta, delicatamente, come se anche su di essa potesse essere scritta qualche importante informazione. “Alla mia cara bambina” diceva “non sarai più una bambina da un po’, oramai, ma per me resterai sempre tale, anche perché non ti vedrò mai crescere. Credo che tu sia abbastanza grande per sopportare quello che la nostra famiglia si porta dietro da generazioni, mia cara. Per questo ti ho regalato quella carta da poker, spero che tu la abbia trattata bene e che la zia te la abbia data. Presta molta attenzione, è molto importante, e ti avverto che per te sarà pericoloso perciò se vuoi strappare questa lettera fallo ora, perché non potrai più tornare indietro.” Camilla, ovviamente continuò a leggere, incapace di smettere “Bene, sono tanto orgoglioso di te. Ora, sulla porta del mio studio ci dovrebbe essere una fessura, sembra un piccolo taglio ma è sufficiente ad inserire una carta. Inseriscila lì. Sii coraggiosa, spero che zia ti abbia spiegato quel che non posso scrivere in questa lettera perché troppo pericoloso. Se incontrerai tua madre, dille che non ho mai smesso di amarla, nonostante tutto. Con affetto, tuo padre. P.S. Ricorda di farlo perché ci sono cose che non possono essere dimenticate, Camilla. Perché è la nostra Luna. Perché ti amo, Camilla. Perché ora ti devo dire addio.” Camilla non si accorse subito di star piangendo, eppure gli era sembrato di sentire quella voce dolce e leggermente profonda del padre, mentre leggeva, quel tono calmo le aveva ricordato dei tempi felici in cui le lacrime neanche sapeva cosa fossero. Ci mise un po’ prima di capire cosa fosse realmente scritto in quella lettera. Sua madre? Sua madre morì quando lei nacque, le avevano sempre detto così… e poi cosa avrebbe dovuto spiegarle la zia? Qual era questo grande segreto? Le parole, per la prima volta nella sua vita, le sembravano vuote e prive di significato. Eppure dopo un po’ di tempo si alzò, senza dire una parola e facendo attenzione a non fare rumore per non svegliare Silenzio addormentato, uscì dalla stanza, vagò per la casa in cerca della carta da poker che era, come al solito, infilata in un libro del soggiorno ma sbatté il fianco alla parete del buio corridoio, emettendo un lieve gridolino di dolore e svegliando Silenzio, che doveva avere il sonno leggero come pochi. 
«Cosa stai facendo?» chiese uscendo dalla stanza e sfregandosi gli occhi, ancora insonnolito. 
«Cerco il mio passato.» e dicendo questo, dopo che Silenzio fu al suo fianco, inserì la carta nella lieve fessura della porta che, inspiegabilmente, non aveva mai notato. 
La carta venne come risucchiata dalla fessura e ci fu come uno scatto, niente di più. Eppure, quando Camilla riaprì la porta si poteva vedere una specie di portale, la cui luce andava poco a poco affievolendosi. Da questo, si intravedeva una stanza interamente bianca. Girandosi contemporaneamente l’uno verso l’altro, Camilla verso lo sguardo confuso di Silenzio e Silenzio verso quello stranamente determinato di Camilla, fecero un passo in avanti ed entrarono. 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7: Dolore ***


La prima cosa che Silenzio poté dire di aver visto chiaramente al suo risveglio fu una donna dai capelli rossi. Sembrava una versione di Camilla più vecchia e dallo sguardo meno gentile, ma poi si accorse che aveva degli occhi azzurri, glaciali, proprio come i suoi. Era bella, quella donna, ed aveva anche lei quell'aria triste tipica della sua unica amica. Fu proprio nel momento in cui Silenzio notò quell'assurda somiglianza che cominciò a percepire il dolore. Non era come tutto quel che aveva provato fino ad allora: le cadute, le ossa rotte, i pugni, i capelli che vengono strappati. Era tutto insieme e mille volte di più, come se lo stessero lentamente cancellando dal mondo. Non s’era accorto di essere incatenato alla sedia fino a quel momento. Urlò, urlò fino a non aver più fiato in gola, e osservò la donna che piangeva e urlava assieme a lui, come se quella tortura fosse stata simultaneamente inflitta anche a lei. Eppure ad ogni suo movimento corrispondeva una nuova scossa, una nuova parte di lui che si veniva strappata via, fino a sentirsi scivolare lontano, così lontano da non riuscire a fare più ritorno.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8: Passi ***


Camilla stava avendo paura. Paura come non ne aveva avuta da quando gli occhi verdi del padre s’erano chiusi per non riaprirsi mai più. Lei non voleva, non doveva avere paura, mai. Questo non le era concesso, era una delle regole che si era autoimposta per riuscire quantomeno a sopravvivere. “Mai avere paura” si ripeté “mai”. Quando aveva paura si comportava proprio come una bambina di nove anni, esattamente quel che era, e che non le era assolutamente concesso essere. Era sola, Camilla, è vero, ma ogni tanto se ne dimenticava. Dimenticava tante cose, Camilla. Dimenticava cose poco importanti, come quale giorno fosse, di comprare il latte, dove aveva messo le chiavi. Dimenticava qualche volta anche cose più importanti come che aspetto avesse avuto suo padre o addirittura che fosse morto. Non che lo dimenticasse completamente, ma tutto le appariva come un sogno, e quando scendeva le scale e vedeva la casa impolverata capiva che da quel sogno, lei, non si sarebbe mai svegliata. Dimenticava tante cose, Camilla, e spesso dimenticava persino di aver dimenticato, andando avanti con la sua vita, come se fosse normale dimenticarsi di essere orfana. Ma adesso ricordava, e ricordava che prima di riaprire gli occhi non era sola. Gridava “Silenzio” al silenzio, e nessuno rispondeva. Il silenzio non c’era e lei era sola, un’altra volta.
D’improvviso, sentì l’aprirsi d’una porta alle sue spalle e un rumore di passi. Tic toc, tic toc. Quasi come il nemico che bussa alla tua porta, come l’orologio che si porta via il tuo tempo. Tic toc, tic toc. Sembrava un lasso di tempo infinito. Tic toc, tic toc. Per quanto tempo non aveva più sentito nessun rumore? Da quanto tempo era lì, nella stanza bianca? Quanti passi sarebbero stati necessari a quelle scarpe per smettere di far rumore? Tic toc, tic toc. Una donna dai capelli rossi e gli occhi azzurri le si presentò davanti. Aveva pianto. Aveva in mano una penna e una cartella verde.
«Ricordi qual è il tuo nome?» chiese seccatamente la donna dai capelli rossi, evitando il suo sguardo.
«Chi sei?! Perché sono incatenata alla sedia?! Cosa volete farmi?! Dov’è Silenzio?!»
«Non si risponde mai ad una domanda con altre domande.» disse la donna, in un tono più spazientito di prima, andandosene via dopo aver annotato qualcosa sulla cartella verde.
“Quanto tempo? Quanti passi?” tic toc, tic toc. Gli stivali risuonavano sul pavimento ad ogni passo, ogni volta che la donna dai capelli rossi e gli occhi di ghiaccio apriva la porta e camminava da questa fino alla sedia dove era legata Camilla.
«Ricordi qual è il tuo nome?»
“Sì che lo ricordo, ma non te lo dirò.” pensò, ma non fu quel che disse «Chi sei?! Perché sono incatenata alla sedia?! Cosa volete farmi?!» c’era un’altra domanda che doveva esser posta, ma l’aveva dimenticata “di certo qui una cosa che non mi manca è il tempo per pensare, mi verrà in mente”. Ma era qualcosa di importante, riguardava una persona importante. Eppure non riusciva a ricordare.
Passi.
«Ricordi qual è il tuo nome?»
“Lo ricordo? Iniziava per certo con la C…” si ritrovò a pensare “…lo ricordo, per forza che lo ricordo… Caterina? Coccinella? Ah, no, quello era un insetto… ma era quello che strisciava o quello rosso con le macchioline nere? Ah, non ci pensiamo ora. Il mio nome… qual è il mio nome? C… mio padre mi ha dato questo nome, lo so…” la ragazza incatenata alla sedia non rispose.
Altre annotazioni sulla cartella verde.
Passi.
«Ricordi qual è il tuo nome?»
Ne aveva mai avuto uno? «Non lo so. Ora lasciami andare.»
«Cosa stavi facendo prima di ritrovarti qui?»
«Non lo so. Lasciami andare.»
«Qual è l’ultima cosa che ricordi?»
«La morte di mio padre e una promessa, non so quale sia venuta per ultima. Lasciami andare.» perché lo stava dicendo ad una persona che aveva incontrato in quel momento, mentre era legata su una sedia come una cavia da laboratorio? Beh, per quanto ne sapeva poteva benissimo esserlo, non c’era ragione per urlare, per lottare. O forse c’era, ma in quel caso lei non la conosceva.
«Quale promessa?»
«Ci vediamo sulla Luna, diceva, ma io non so né a chi io l’abbia fatta, né cosa sia la Luna.»
La donna dai capelli rossi scosse quindi la testa rivolta verso la porta e scribacchiando sulla cartella verde. Aveva ancora il viso ricoperto di lacrime.

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Capitolo 10
*** Capitolo 9: Variabili ***


Il ragazzo dagli occhi gelidi viveva ancora. Non che questo la sorprendesse, era ovvio che ce la facesse. In quei giorni si sentiva distrutta. Era sempre così, ogni volta che quei ragazzi finivano nel laboratorio. Erano intelligenti, perspicaci, forse troppo, e l’ultima volta arrivare lì era stato persino più facile delle altre volte per loro, tutto per colpa sua. Come aveva potuto dimenticare di bruciare anche quella lettera? Era ovvio che ce ne fossero tre, una per ogni figlio… ah, era inutile rimuginare su queste cose. Sapeva fin troppo bene che per quanto si possa cercare di cancellare qualcosa accaduto tempo prima questo rimane impresso come un’ombra nelle memorie delle persone. Dopo questa volta, però, non sarebbe più successo niente di tutto ciò. I ragazzi non sarebbero mai più arrivati al laboratorio, non entrambi. Questo la faceva soffrire terribilmente. Erano pericolosi quei due ragazzi, se messi l’uno accanto all’altra. Ma non potevano essere separati, anche se allontanati finivano sempre per ricongiungersi e per arrivare al laboratorio. Il governo dietro sua richiesta era andato avanti per moltissimo tempo cancellando loro la memoria e cercando di impedire loro di arrivare al laboratorio, ma senza risultati. Sapeva che avrebbe dovuto distruggere la carta di Camilla, ma gliela aveva regalata Bruno, e non aveva voluto farlo, benché si fosse costretta a distruggere quelle di Luca e Marco. Questo era stato un grosso errore. Ora Camilla sarebbe morta, tutto per colpa sua. Sua e dell’uomo che non aveva mai smesso di amare. Se non lo avesse amato tanto… se lui non avesse detto che l’amava ancora nella lettera, forse… forse sarebbe andato tutto in modo diverso. Ma non era andata così, e tutti avrebbero sofferto. Camilla sarebbe morta della stessa terribile morte di Luca e lei avrebbe provato dolore, ancora una volta. Se lo ricordava, Luca, un ragazzino gentile e coraggioso, identico a suo padre. Non aveva neanche avuto il coraggio di alterare il suo aspetto come aveva fatto con il ragazzo che stava urlando in quella stanza. Le ricordava troppo Bruno, il suo dolce Bruno. Quello che aveva perso. E come lui, come Camilla, Luca era fragile. Aveva potuto cancellargli la memoria solo un paio di volte, soltanto in modo leggero, ed era sempre arrivato al laboratorio assieme ai due ragazzi che ora erano rinchiusi in due stanze separate. Entrambe le volte ricordava molte cose: suo padre, sua sorella, suo fratello, la promessa… ma non lei, lei era stata facile da dimenticare. Luca, Camilla, persino Marco… tutti l’avevano dimenticata. Ma non Bruno. A Bruno non era stato possibile cancellare la memoria, neanche una volta. Lui aveva sangue Lunari puro. Morì al primo tentativo, aveva inoltre trasmesso quella fragilità tipica dei Lunari a Luca e, in minor parte anche a Camilla. Tuttavia, incredibilmente, non era stata trasmessa a  Marco. Marco era forte, aveva il suo sangue e i suoi occhi gelidi, anche se provava un dolore indescrivibile ogni volta che la memoria gli veniva cancellata. Una volta aveva anche i suoi capelli rossi, ma aveva dovuto alterare il suo aspetto, altrimenti lui e Camilla avrebbero potuto capire di essere fratelli, avrebbero potuto ricordare Luca, e così trovare più facilmente il laboratorio. Era stato comunque uno dei suoi tanti esperimenti falliti. Era la tredicesima volta che i ragazzi arrivavano al laboratorio, contando le volte che erano arrivati con Luca, e Camilla poteva resistere per sedici volte alla memoria cancellata in modo leggero. Ma questa volta Alice aveva deciso di tentare il tutto per tutto, aveva deciso di cancellarle la memoria come aveva fatto tante volte con Marco, ma era stato tutto inutile. Non rimaneva che restituirle i ricordi per un’ultima volta e cancellare tutto in modo definitivo, sapendo che avrebbe davvero dimenticato tutto in questo modo. Avrebbe dimenticato la promessa, Marco, Luca, Bruno, lei, ma avrebbe dimenticato anche come si respira e il suo cuore avrebbe dimenticato come battere. Una morte del genere era molto dolorosa, ma il corpo dimenticava cos’era il dolore. Così quella morte era semplicemente triste per chi la guardava. Una morte del genere cancellava completamente una persona dall’esistenza, e se nessuno ricorda che una persona sia vissuta, non si può dire che sia vissuta realmente, la sua vita diventa solo un’ombra, come i ricordi cancellati. Avrebbe ucciso sua figlia, quella bambina che le assomigliava tanto e che ora non ricordava più il suo nome. Era come Marco prima di arrivare al laboratorio per la tredicesima volta. Camilla gli aveva dato un nome, Silenzio. Lo aveva fatto anche un altro paio di volte:  una volta lo aveva chiamato Occhi di ghiaccio, un’altra Stelle… era interessante studiare le variabili di quell’esperimento. Certo, lo sarebbe stato molto di più se le cavie non fossero state i suoi figli… ma lei li aveva abbandonati, aveva rinunciato a loro, aveva fatto una scelta e, in nome della Luna e della scienza, non si poteva pensare a queste sciocchezze, anche se la faceva soffrire doveva andare avanti, altrimenti… no, doveva concentrarsi sulle variabili. C’erano delle costanti, nelle persone di sangue Lunari. Marco ricordava sempre due cose: suo fratello maggiore e una promessa, mentre Camilla ricordava sempre Bruno e il momento in cui era morto. E poi non ci si poteva certo dimenticare delle ombre che ritornavano. Ad esempio Camilla doveva ricordare di un legame tra lei e Marco, una bambina introversa come lei non avrebbe mai fatto accolto uno sconosciuto in casa per giorni, né tantomeno gli avrebbe mostrato lo studio di suo padre. Anche Marco doveva ricordare quello studio, la stanza di quello che una volta era stato suo padre, il suo maestro. Marco era il secondo figlio, e quello con minore concentrazione di sangue Lunari. Proprio per questo motivo sarebbe sopravvissuto a tutta la sua famiglia. Una famiglia maledetta, i Lunari. Era vero che tutti quelli intorno a Camilla erano morti, almeno in questo non avevano dovuto mentirle. I Lunari erano una famiglia rispettata, potente, una volta. Ma poi ci fu Bruno che non volle accettare quello che stava accadendo nel suo paesino. Era, in fondo, solo un ragazzo e una volta cancellatagli la memoria di lui più che un ragazzo rimase un bambino, sperduto in quel paesino che a lui sembrava immenso. Era davvero speciale, tanto da non saperlo. Bruno, si chiamava, e non voleva dimenticare il suo nome, ma non sempre i desideri vengono rispettati. Lo avevano mandato in strada, a morire, e si diceva che fosse orfano, ma lui non lo sapeva, lui non conosceva niente, neanche come si faceva a respirare e a far battere il cuore. Era giunto non si sa come in quel piccolo paesino, senza un nome come lui, e non aveva niente, neanche sé stesso. Aveva con sé solo il suo destino, già vissuto e dimenticato, senza nome. I nomi s’eran già conosciuti, ma nessuno aveva il coraggio di pronunciarli, e così s’erano persi. E aveva una promessa, fatta a chissà chi, chissà quando e chissà perché “ci vediamo sulla Luna” ma lui, la Luna, non sapeva cosa fosse. Eppure si ricordava ancora di lei, di quello che aveva fatto per lei… Era stato sciocco ad agire così, lui era un Lunari, uno scienziato che aveva il dovere di proteggere il grande segreto del paesino senza nome. Il paesino si chiamava Luna, ed era perso tra le stelle, lontano dai regni degli uomini, e allo stesso tempo anch’esso uno dei regni, forse quello più duramente governato. E questo era solo merito dei Lunari, che proteggevano il paesino di generazione in generazione, tenendo tutti al sicuro, al di sotto della cupola d’atmosfera, cancellando la memoria dei curiosi, di chi voleva viaggiare e scopriva che l’unico mondo era la sua città. Cancellavano la memoria a chi faceva troppe domande, e anche Luca un giorno, dopo Bruno, avrebbe dovuto farlo. Ma Bruno aveva compromesso l’esperimento. Durava da generazioni, ed era promettente. La gente era forse un po’ intontita, e qualcuno ogni tanto moriva, ma per la scienza questo era un piccolissimo prezzo da pagare, no? Ma forse era proprio questo il motivo per il quale lo amava tanto. Aveva avuto coraggio, Bruno, e riusciva a scombinare i piani del governo anche da morto, anche da dimenticato. Quando l’avevano mandata lì dalla Terra non pensava che la Luna potesse essere un posto così crudele. E pensare che la Luna era qualcosa di così bello da guardare, così delicato… la Luna le sembrava come gentile, se vista dalla Terra. “È proprio vero che le apparenze ingannano” pensò.
Ding. La macchina aveva finito di fare il suo lavoro. Il ragazzino dagli occhi gelidi non aveva più ricordi, solo ombre. Ora non sarebbe stato più Marco, ma qualcun altro, il governo non aveva ancora deciso chi. Marco, il suo Marco, era dentro ad una scheda, quasi fosse una canzone… “Hai dato un suono al Silenzio” pensò “Forse anche io non sono una carta qualsiasi del mazzo”. Una variabile, era una variabile anche questo, doveva tenerlo bene a mente. Era tempo di tornare da Camilla. Ci sarebbe stato il tempo per un suo ultimo desiderio. “Vado ad uccidere mia figlia” pensò “ma è per la scienza, è il prezzo da pagare… la sua vita è solo una variabile… se non avessi accettato, se fossi rimasta su quel pianeta inquinato e quasi invivibile non avrei dovuto farlo. Magari avrei avuto anche lì i miei tre figli, i miei bambini dai capelli rossi… anche se non avrei avuto lui.” Doveva smetterla con queste sciocchezze, doveva ritornare al suo lavoro. Uscì dalla stanza dopo aver controllato Marco. Era svenuto per il dolore, sveniva sempre, mentre lei piangeva. Andò nella stanza di fronte a quella che aveva appena lasciato. Su una sedia vi era una ragazzina dai capelli rossi che aveva perso se stessa, aveva visto quella scena fin troppe volte. Farsi strappare i ricordi era un’operazione sfiancante per una persona con anche una sola goccia di sangue Lunari, ma provava un piacere immenso quando questi venivano rimessi al loro posto. “Per questo tutti gli scienziati vengono dalla Terra, e per questo tutti i Lunari non generano figli con persone che si sono fatti iniettare la stessa sostanza” ricordò. I Lunari non dovevano dimenticare, altrimenti diventavano inutili. Ma lei aveva generato figli con Bruno e non aveva quella sostanza nel sangue. Era allergica, se gliela avessero iniettata sarebbe morta, ma era già incinta di Luca, e se non l’avesse fatto l’avrebbero messa a morte comunque. “Una comune allergia e un figlio testardo che rovinano un esperimento che va avanti da quattro generazioni” la faceva quasi ridere. Bruno aveva dovuto fare l’impossibile per truccare gli esami e l’iniezione, e non le aveva detto niente fino a quando era morto. Sapeva cosa avrebbe fatto se ne fosse venuta a conoscenza. “Se incontrerai tua madre, dille che non ho mai smesso di amarla, nonostante tutto.” Glielo aveva ripetuto in tutte e tre le lettere. Lei l’aveva tradito, quel giorno, perché non pensava che l’avrebbero ucciso, perché non sapeva niente di quanto voleva fare… no, non era per questo… era perché la scienza veniva prima di tutto, lui era solo una variabile. “Anche io lo sono, e sono una di quelle che non dovrebbe mai verificarsi.” Spinse il bottone. Ding. Un altro lavoro completato. Sul volto pallido della ragazzina si dipinse un sorriso, e poi una lacrima.
«Mamma?» disse, come se fossero state ancora una volta sotto la sua quercia a giocare e leggere favole… lei era quella che aveva goduto meno di tutti di quei momenti.
«Sì?» rispose Alice, come aveva già fatto tante, troppe volte.
«Papà ha detto di dirti che ti ama.»

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Capitolo 11
*** Capitolo 10: Meriti ***


Camilla vide sua madre piangere, e non sapeva se quelle fossero lacrime di gioia o di dolore, non che Alice sapesse dirlo con certezza.
«Ricordi?» le chiese, andche se era ovvio che ricordasse.
«Sì, e ricordo che non dovrei ricordare.»
«Quindi sai anche che…?» chiese Alice con la voce rotta dal pianto.
«Che dovrai uccidermi? Che hai già ucciso papà e Luca? Che spedirai Marco chissà dove? Ammesso che si chiami ancora Marco, ovvio. Vi siete presi il disturbo di dargli un altro nome, questa volta?»
Alice non capiva, non poteva capire come solo una variabile potesse causare tanto dolore, come potesse stravolgere tanto una vita. E, soprattutto, non capiva perché quella vita dovesse essere proprio la sua.
«Camilla…»
«No, mamma. Ti ho perdonata, davvero. Ti ha perdonata papà, è giusto che lo faccia anche io. E poi sono stanca. Sono stanca di vivere questo eterno déjà-vu, questa vita piena di incongruenze, di puzzle che non possono essere risolti perché qualcuno ne ha nascosto i pezzi. Non voglio più lottare, non voglio più arrivare qui per giungere sempre alla stessa maledetta conclusione. Papà aveva ragione. Noi non avremmo mai potuto vincere, non senza di lui, non senza l’Associazione, non dopo quello che hai fatto. Ci hai precluso ogni chance di vittoria quel giorno, mamma. Chi riesce a tenerti qui come una scimmietta ammaestrata deve esserne stato contento, no?» disse, lo sguardo ricolmo di rabbia rivolto verso la piccola telecamera che l’aveva ripresa ormai tante volte. Lei non aveva paura, Alice lo sapeva. Non aveva paura di tutto quello che la teneva come incatenata a quella stanzetta dalle pareti bianche, piena di strane ampolle contenenti liquidi pericolosi che pochi conoscevano come lei. «Sì, ti ho perdonata, e ora sto per morire. Non dico di non essere in collera con te, per quel che hai fatto quel giorno, quando io ero ancora troppo piccola per fare qualunque cosa… non che ora io abbia l’età giusta. Sono dovuta crescere in fretta, è chiaro. Ma ti ho perdonata, e di certo non ti amo, non ti amo come hanno continuato a fare papà e Luca. Penso che anche Marco ti voglia bene. Ma ti ho perdonato, anche se oggi morirò. Anche se ho nove anni e stavo facendo la cosa giusta, oggi morirò, e non ne sono più di tanto dispiaciuta, non ho paura, non quanta dovrei averne. Magari anche io sono diventata coraggiosa, a furia di leggere di eroi. Anche se è da tanto tempo che sto leggendo lo stesso libro, vero? Saranno state quante: tredici, quattordici volte? Sempre lo stesso libro, sempre la stessa frase. “Da quant’è che non piangi?” e io conosco già la tua risposta. Guardati: stai piangendo, anche ora. Sono io quella che deve morire, oggi. Che deve dimenticare di essere esistita. Sono io. Tu non hai il diritto di piangere per questo. Non puoi. Solo io, solo io posso permettermi le lacrime.» disse, con gli occhi lucidi e la voce che si spezzava sempre di più ad ogni parola. Camilla Lunari stava piangendo. E nessuno ricordava quale fosse stata l’ultima volta in cui aveva pianto.
«Mi… mi dispiace, io non volevo… non sapevo…»
«Già, non lo sapevi. Eppure è successo. Ci hai uccisi, ci hai condannati! Tutti noi, tutti i veri Lunari si erano alleati, avremmo potuto farcela. Saremmo stati disposti a morire, certo. Ma in questo modo la morte di papà, di Luca e di zia Aurora non sono servite a niente!» si sollevò tutta in una volta, come se il suo metro e trenta di altezza potessero incutere paura alla madre, gli occhi rossi e lo sguardo acceso.
«Pensavo… pensavo che mi avessi perdonata.»
«Ci ho provato, ci sto provando, con tutte le mie forze. Ma non credo di avere il tempo di riuscirci. È difficile fare una cosa solo perché credi che sia la cosa giusta. La mia vita lo ha dimostrato, farà lo stesso anche la mia morte.» e detto così si risistemò sulla sedia e si preparò a morire.
«Hai… hai un ultimo desiderio?» chiese Alice.
«Da quand’è che quegli avvoltoi del governo concedono desideri?»
«Da quando le madri sono costrette ad uccidere i propri figli nel disperato tentativo di salvarne altri.»
Un istante, si trattò solo di un istante. Camilla riuscì a vedere la propria madre dietro quegli occhi gonfi e quell’espressione esasperata. Poi tutto si sciolse come neve al sole. «Sì. Ne ho uno.»
«Proverò ad esaudirlo.»
«Voglio parlare con mio fratello. Chiunque egli sia ora.»
«Camilla. Tuo fratello ora… io l’ho cancellato. Ricorda solo la promessa. È… è un guscio vuoto… ti farebbe solo male…»
«Beh» disse Camilla «non farà più male di morire.»
 
Qualunque cosa si provasse a morire, Camilla aveva torto. Guardare Marco ridotto in quello stato era decisamente peggio di morire, sempre che Marco si potesse ancora chiamare. Il ragazzino che una volta era stato suo fratello non c’era più, Camilla lo sapeva. Non c’era più, di lui era rimasta solo l’ombra nascosta pavidamente dietro ad una promessa che avrebbe ricordato per sempre, che doveva ricordare per sempre, la promessa per cui era nato. Fuori le stelle splendevano nel cielo, ma non c’era più quel ragazzo, sempre con quell’insolita promessa in testa e nient’altro con sé, c’erano i suoi occhi gelidi ma in essi non c’era più la solita luce vivida, perché spenta dal dolore, c’era solo il silenzio nella stanza, anche quello portato via dai passi di Alice che si muoveva lentamente per arrivare davanti al ragazzo che una volta era il silenzio stesso. Eppure Camilla si comportò da bambina, perché aveva paura e perché per qualche istante voleva smettere di essere grande, perché stava per morire e perché se lo meritava, doveva credere di meritarselo, lei, una bambina, aveva fatto quanto molti adulti prima di lei erano stati troppo spaventati per fare. Perché, in fondo, quando si ha paura, tutti diventano bambini di nove anni e alcuni credono persino di poterselo permettere, senza aver lottato. Lei se lo meritava, meritava di aver paura, perché comunque rimaneva coraggiosa, doveva credere di esserlo, nonostante tutto, nonostante avesse oramai accettato il suo crudele destino. Abbracciò il ragazzino sulla sedia, e lui la guardò stranito chiedendo chi lei fosse, non che gli importasse più di tanto, quando non sapeva neanche chi fosse lui. Camilla non rispose e continuò a tenerlo stretto tra le sue braccia, come se non volesse mai più lasciarlo andare, anche se non era più una delle tante persone che aveva conosciuto: non era più Marco, suo fratello, Stelle, un ragazzo con mille storie da raccontare o Silenzio, un amico strampalato che voleva solo trovare la sua Luna, lui era solo un ragazzino spaventato su una sedia, un’ombra di tutte quelle persone. Eppure, eppure quell’ombra avrebbe dovuto fare quanto tutti i Lunari non erano riusciti a fare, avrebbe dovuto riuscire dove lei, una persona che aveva meritato di aver paura, aveva fallito. Altrimenti sarebbe tutto stato vano, altrimenti tutto sarebbe andato perso, tra stelle e silenzio.
«Mamma, esci.» disse, perché i suoi attimi meritati si erano ormai esauriti.
«Sai… sai che non posso…»
«È il mio ultimo desiderio. E voglio che tu vada via.» si girò verso la madre, il suo viso bagnato dalle lacrime «Per favore.»
Alice la guardò, e, chissà perché, chissà per quale variabile o scherzo del destino, chissà per quale folle pensiero, uscì dalla stanza. «Abbiamo poco tempo.» disse, prima di chiudere la porta.
Camilla prese quindi una cartella verde appoggiata su di uno strano macchinario, e vide che su di essa erano scritte informazioni e appunti di qualche scienziato, appunti su di loro, su come cancellare loro la memoria, ed era ripetuto costantemente “è per la scienza” come se quello stesso scienziato stesse cercando di convincersi che era giusto farlo, che era giusto cancellare persone dall’esistenza solo per fare un esperimento. A giudicare da quante volte era ripetuto sugli appunti, quello scienziato non ci aveva mai creduto, per quanto cercasse disperatamente di farlo. Ovviamente, Camilla aveva ben capito che la cartella verde era di sua madre, ma lei, come quel (forse poi non così tanto) misterioso scienziato, cercava di autoconvincersi che una cosa tanto ovvia non fosse la realtà, che sua madre fosse davvero una persona malvagia, cercava di convincersi che davvero ella avesse avuto una scelta e che avesse fatto quella più sbagliata. Doveva farlo, doveva crederci. Perché non poteva sbagliare, lo sapeva. Se Camilla doveva essere uccisa, avrebbe fatto uccidere e avrebbe salvato chi lo meritava, perché meritare la paura non è da tutti, e lei aveva già riscosso il suo premio. 

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Capitolo 12
*** Capitolo 11: Tic tac ***


C’era una sola domanda ora che doveva aver risposta nella mente di Alice: “Posso davvero farlo?”. Ci aveva già pensato con Luca, e si era spaventata semplicemente all’idea, perciò se l’era tolto subito dalla testa, ma non pensava avrebbe sofferto tanto. Quando era morto Bruno, il suo dolore era stato straziante, certo. Ma quando era morto Luca… beh, credeva che fosse così che Marco si sentisse ogni volta che gli veniva cancellata la memoria. Come se una parte di sé stesse scomparendo per non tornare più. Eppure, poteva davvero farlo, tradire la scienza in questo modo? Tutto quello per cui era stata cresciuta, quello che era destinata a compiere, poteva davvero tradirlo così, per una variabile dai capelli rossi e gli occhi vivaci? No, non poteva, ma doveva farlo. Aspettate… no, che cosa stava pensando!? No, non poteva, perché avrebbe dovuto, quelle erano solo pedine di una scacchiera più grande, perché non avrebbe dovuto darle in pasto al giocatore del colore avversario? Aspettate… di che colore era lei? Nera, dalla parte di chi cerca inutilmente di combattere o bianca, dalla parte di chi ha già vinto? Aveva un colore? E cosa sarebbe stata? La regina? No, non scherziamo. L’alfiere? No, ancora più in basso. Era un pedone? Sì, era solo un pedone. E il suo re? Chi era il suo re? Quello che svettava nella sua armatura immacolata al sicuro, protetto, lì, ad un estremo della scacchiera o quello vestito di tenebre, caduto all’inizio della battaglia? Era sicura della risposta, era sicura di quel che doveva fare ma non voleva dichiararsi sconfitta. Sapeva di esser un pedone vestito di tenebre e verniciato di bianco. Sapeva cosa avrebbe dovuto fare, ma non sapeva se ne avrebbe effettivamente avuto il coraggio. Non l’aveva avuto, una volta, e un altro pezzo scuro era stato mangiato proprio da lei, verniciata di bianco, per proteggere un re che non era il suo. Eppure il tempo passava, non le dava tregua, l’orologio continuava a ticchettare e i pensieri a farsi largo nella sua mente, a combattere come se stessero giocando una partita senza senso, una partita di scacchi con un unico giocatore. Bianco e nero. Una guerra civile nella sua testa, dove non importa il risultato, perché tutti ne usciranno sconfitti comunque. Avrebbe perso comunque. Bianco o nero? Conosceva la risposta. Poteva farlo? No, probabilmente, ma lo avrebbe fatto comunque.
La ragazza dai capelli rossi continuava a scrivere sulla cartelletta freneticamente, come se non riuscisse a fermarsi, o come se sapesse che di lì a poco avrebbe dovuto. Le telecamere non potevano riprenderla, non potevano vederla scrivere, e di certo non potevano capire cosa stesse scrivendo. Si era creata un punto cieco. Dalle telecamere sembrava che stesse piangendo su suo fratello, leggendo le parole della madre sulla cartella. Se avessero imparato a conoscerla, non avrebbero mai creduto a quella farsa, ma a quanto pare agli scienziati quelle che venivano considerate semplici cavie non stavano molto a cuore. Dopo aver finito di scrivere rivolse un sorriso a quel che era stato il fratello, ringraziando silenziosamente quegli sciocchi del governo che lasciavano le persone a cui era stata cancellata la memoria senza catene. Luca non aveva avuto il coraggio di fare quel che andava fatto, ma lei doveva averlo, doveva essere abbastanza forte. Avevano preparato un piano, per le situazioni di emergenza ma non avrebbe voluto usarlo, nessuno di loro avrebbe mai voluto. Strappò il foglio e mise il bigliettino in mano a Marco. Il tempo passava, inesorabile, e, Camilla poteva sentirlo, non gliene restava molto. Eppure assaporò ogni singolo istante che poteva passare con quegli occhi gelidi e quei capelli spettinati. Una volta non erano di quel colore, lo ricordava. Ora che aveva recuperato la memoria ricordava ogni cosa, proprio come i Lunari dovrebbero fare. Eppure era sicura che i ricordi del passato che aveva lei fossero più confusi di quelli che suo padre e altri Lunari prima di lui avevano ereditato. I Lunari non dimenticavano, mai, e se lo facevano morivano. Ma lei non era una Lunari, non del tutto. Era un misto, un ibrido; aveva anche il sangue della madre, ma a quanto pare non ne aveva abbastanza. Non quanto Marco, non ne aveva tanto da potersene andare con lui. Eppure era stato sufficiente per portarla fino a quel punto. Si odiava per questo. Aveva sempre detestato non essere abbastanza. Per l’associazione non era mai stata abbastanza grande, intelligente, alta, forte… lei era sempre stata l’ultima. E ora aveva solo nove anni, insomma, era ancora l’ultima, la peggiore. Eppure era lei l’ultima a ricordare, l’unica che poteva far sì che niente fosse stato vano. Ora la domanda era: sarebbe stata abbastanza, solo per questa volta? Intanto l’orologio continuava a ticchettare e lei continuava a tormentarsi. “Posso farcela?” Tic. “No, probabilmente.” Tac “Ma lo farò comunque.” Tic. La porta si aprì. Tac. «È tempo di andare.» Tic. «Allora andiamo.» Tac.
Marco, non abbiamo molto tempo. Le lettere confuse sulle pagine bianche contenute nella cartelletta verde si agitavano come in preda al panico davanti agli occhi del ragazzo. Devi prestarmi attenzione, prego solo che tu riesca a leggere decentemente questa volta. So che ti sembrerà strano ma abbiamo un piano per andare via da qui, okay? Al resto, beh, ci penseremo dopo. Ora, stai qui per un po’, aspetta che io apra la porta. Appena la apro, non dire niente, corri il più veloce possibile in fondo al corridoio, c’è una porta, l’emergenza avrà già cominciato a suonare e si sarà aperta. Non voltarti mai, qualunque cosa accada. Arriva lì. C’è uno strano marchingegno, salici sopra, c’è una scala. Appena arriverai vedrai un grande bottone ed un sacco di altri comandi. Non aspettarmi. Chiudi il portellone e premi il bottone. Ti porterà via. Marco, ti prego. Devi fermare la guerra, devi fermare tutto questo. Altrimenti… altrimenti tutto sarà perso. So che ti sembrerà strano ma ti deve essere rimasta un’ombra di me. Ti prego… ricorda. Ci vedremo sulla Luna, un giorno, di nuovo.
Il piano, tutto sommato, era molto semplice da realizzare, ma allo stesso tempo era quasi impossibile trarne un esito del tutto positivo. Era un piano affidato alla fortuna, e Camilla non ne aveva mai avuta molta. Eppure, non si era mai detto che non si potessero fare modifiche al piano originale. Il piano precedente prevedeva la salvezza di tutti loro, ma salvare solo Marco sarebbe stato infinitamente più facile. Marco poteva farcela, era la cosa giusta da fare. Avevano deciso di attuarlo solamente nel momento in cui si sarebbe rivelato necessario, una soluzione disperata. Avrebbe dovuto farlo Luca, la seconda volta in cui l’avevano catturato, ma non ne aveva avuto il coraggio, evidentemente. Sapeva che avrebbero sicuramente messo a morte la madre per essersi lasciata scappare i propri figli, e Luca era sempre stato troppo legato a quella donna per poterla uccidere in questo modo. Ma per Camilla era diverso, la madre per lei, anche coi ricordi, restava una figura sbiadita persa a leggere un grosso libro di favole ad alta voce, seduta all’ombra di una grossa quercia che Camilla soleva chiamare Luna, come se facesse parte anch’essa della famiglia. “Ci vediamo sulla Luna” andava ripetendo, non conoscendo il reale significato di quelle parole. “Sì, te lo prometto” le rispondevano i fratelli, assecondandola “ci vediamo lì.” Il piano era semplice da attuare, ma non ne conosceva l’esito e questo le faceva paura. Ma non poteva averne. Doveva solo prendere la siringa alla madre e fare a lei l’iniezione, che l’avrebbe lasciata intontita, prendere la chiave della stanza dove era rinchiuso Marco e correre quanto più veloce le era possibile. Era facile, ma sapeva che le poche guardie presenti nel laboratorio sarebbero saltate loro addosso prima che potessero entrambi raggiungere la navicella che li avrebbe portati lontano. Ecco perché soltanto una persona poteva farcela. Qualcuno doveva distrarli, e comunque le possibilità di successo rimanevano minime. Ma doveva provarci. Voleva morire per salvare qualcuno. Era una cosa giusta, una cosa buona, no? Camilla entrò nella stanza. Si sedette sulla poltrona. La madre cominciò a preparare l’iniezione. Era di un azzurro brillante, spaventoso, inimitabile, unico. Lo aveva visto tante volte, eppure questa volta era diverso… più vivo, meno spaventoso… come se oramai non avesse più dovuto temerlo. La madre le si avvicinò. L’orologio era congelato in un tac. Sentì qualcosa nella propria mano sinistra, come carta. Era quella la paura, l’adrenalina? Non c’era tempo. L’orologio era fermo? Dov’era il tic? Non aveva tempo per questo. Prese la siringa. Gli occhi della madre si aprirono. L’espressione pietrificata. Un sorriso? «Mi dispiace tanto.» Camilla spinse lo stantuffo. Tic.
Alice sentì il siero bruciare nelle proprie vene sin dal primo istante. Era questo che provava Marco? Uccisa dalla propria iniezione, davvero incredibile. Quando aveva scambiato il liquido dei sieri non aveva mai pensato che sarebbe finita così. Era così orgogliosa di Camilla. L’aveva appena uccisa, ma non l’aveva fatto di proposito, e lo aveva fatto per salvare qualcuno di importante. Aveva fatto una scelta. Come lei. Passarono pochi istanti tra l’iniezione e la sua caduta sul pavimento. Furono istanti in cui Alice si sentì fiera anche di se stessa. Aveva finalmente smesso di tradire il suo re, si era tolta la vernice bianca ed era giunta alla fine della scacchiera, diventando regina, cadendo come tale. E ora, anche se non era altro che un pezzo caduto, anche se non contava più niente, era una Lunari a tutti gli effetti. Aveva il loro sangue. Non era più un pedone, una carta qualunque. Ora avrebbe potuto dirlo veramente a Bruno: “Anche io, ti amo anche io.” Perché anche se non era stata fatta per essere tale, era una regina, pur essendo nata come pedone, e ora vedeva tutto, pur avendo prima la vista offuscata. Ricordava, ricordò anche cose che non aveva mai visto. Per pochi secondi lei fu la persona più simile ad un pezzo della scacchiera vestito di tenebre che il bianco non avesse ancora inghiottito. Tac. Un sospiro. Più nulla.

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Capitolo 13
*** Capitolo 12: Non lasciarmi ***


Mentre correva, si chiese ancora una volta perché mai non potesse essere uno di quegli eroi che trionfano sempre, che non vengono mai sconfitti perché loro sono il bene, ed è il bene che trionfa. Lei era uno dei cattivi, uno di quelli che nelle storie vengono sconfitti in partenza da qualcuno più carismatico e forte. Aveva appena perso. Aveva capito subito che c’era qualcosa che non andava col siero, ma era troppo concentrata sul piano per capire che cosa fosse. Gli occhi della madre. Quando li aveva visti aveva capito tutto. Aveva cercato di salvarla. Lei, la figlia che aveva conosciuto meno di tutti, quella che a mala pena ricordava il suo viso. Eppure, prima di morire lo aveva visto chiaramente: le aveva sorriso. Come in quel vago ricordo, prima che portassero via la zia Aurora .“Vivi” le aveva detto la zia. “Non posso, mi dispiace” avrebbe ora risposto. Ricordò la sensazione di carta nella sua mano, poco prima che tutto accadesse. Non era solo una sensazione, non era adrenalina, non era coraggio, non era paura. Era, beh, carta. Un bigliettino e una scheda di memoria. Corri. Porta con te questo, contiene i ricordi di Marco. Troverai il modo di restituirglieli. Ti voglio bene, e mi dispiace. Se lo vedrò, dopo che mi avranno giustiziata, se ci sarà qualcosa, dirò al papà che lo ami anche tu. Non poteva piangere. Non ne aveva il tempo. Aveva una speranza, poteva salvarsi, grazie alla madre, forse avrebbe potuto farcela. Corse alla porta. La aprì. Il ragazzo non si mosse. «Marco! Corri, vieni via!»
«Chi… chi è Marco?»
«Tu! Sei tu! Ora vieni!»
«Perché?»
«Perché sto cercando di salvarti, razza di idiota!»
«Chi mi dice che tutto questo sia vero? Che non sia una specie di test?»
«Io… sono tua sorella, e puoi anche non credermi, ma devi correre, dobbiamo scappare da qui… ti prego… pensa, ti deve essere rimasta almeno un’ombra di me!»
«Non ricordo più niente! Neanche il mio nome!»
«E se ti dicessi che hai in testa una promessa, una strana e senza senso, a proposito di un appuntamento in un posto che non hai mai visto, che non esiste? Una promessa che hai fatto ad una persona di cui non ricordi né il nome né il viso. Se ti dicessi “ci vediamo sulla Luna”, quel che ti ho scritto nel biglietto? So che sei confuso, ma ora devi venire con me! Dobbiamo scappare!»
«Come… come fai a saperlo?»
«Perché questo ti è già successo! Ora vieni! Non c’è più tempo!»
L’emergenza cominciò a suonare. Tutto accadde in pochi secondi. I passi dei soldati echeggiarono sempre più forti, lungo il corridoio. Non dovevano essere in molti, ma per dei bambini erano più che sufficienti. Eppure delle due persone in quella stanza, nessuna era un bambino. Ad entrambi era stato impedito tempo prima. Memoria cancellata o no, nessuno dei due ricordava di esserlo mai stato. Tic. «Corri!» un ragazzo cominciò a correre a perdifiato, non sapendo neanche perché. Passò vicino ad una ragazza. Tac. Lo sguardo della ragazza si rivolse in direzione del rumore di passi. La ragazza diede qualcosa al ragazzo. «Difendila.» Il ragazzo non aveva idea di cosa fosse, non aveva idea di cosa stesse accadendo. Non aveva memoria. Non sapeva niente. Sapeva solo di dover correre. E corse. Tic. Arrivò in fondo al corridoio. Non aveva più fiato in corpo, ma non importava. Doveva scappare. Tac. Salì su uno strano marchingegno, non sapeva perché proprio su quello, ma sapeva che era la cosa giusta. Una voce gridò dietro di lui. Non poteva partire. Sapeva che non avrebbe dovuto farlo senza di lei, anche se non aveva idea del perché. Tic. Il ragazzo aveva paura, non sapeva cosa dovesse fare, era terrorizzato, congelato. Non riusciva a muoversi, a differenza dell’orologio. Tac. La porta si aprì. Entrarono dei capelli rossi. Lei correva. “Ce la farà” si disse. Tic. Degli uomini continuavano ad inseguirla, lo sapeva. «Vai senza di me!» gli urlò la ragazza.
«Non voglio.»
La ragazza continuò a correre. Tac. “È sempre più vicina. Ce la farà. Può farcela, deve farcela.”
«Perché?» gli urlò ancora.
«Non lo so.» non lo sapeva per davvero. Tic. La ragazza ce l’aveva quasi fatta. Stava salendo sulla nave. I soldati entrarono, le spararono qualcosa. Non era un colpo di pistola, no. Era azzurro. Era bellissimo. Era spaventoso.
La ragazza riuscì  a salire. Ce l’aveva fatta. «Parti! Presto!» gli urlò ancora. Il ragazzo si accorse solo in quel momento della cartella verde che la ragazza aveva in mano.
E lui partì, incerto sul da farsi, eppur sapendo quale pulsante dovesse premere, come se lo avesse imparato precedentemente e poi messo da parte.
«Ce l’abbiamo fatta!» gridò il ragazzo mentre la nave decollava.
«No, non è vero. Solo tu.» disse la ragazza mentre osservava quel che le avevano sparato. Ora era solamente un contenitore vuoto.
«Che cosa…?»
«Il siero. Di solito si usa con una macchina, affinché i ricordi possano essere conservati ma funziona anche in questo modo. Ho poco tempo.»
«No! Non puoi farlo!»
«Non è che abbia scelta…»
«Possiamo cercare aiuto!»
«Stai andando sulla Terra; anche con questa navicella ci vorranno un giorno o due: io non ho neanche un’ora.»
«Cosa pensi che io possa fare!? Io… io non ho idea di quale sia il mio nome, non so…»
«Marco! Il tuo nome è Marco! Sei mio fratello, e sei un Lunari. Molto tempo fa la Terra capì che di lì a un paio di secoli il pianeta sarebbe diventato invivibile, e mentre si tormentavano per trovarvi un rimedio, un giorno si presentò alla base della NASA uno scienziato, con un progetto per colonizzare la Luna. Tuttavia era solo un progetto, un esperimento, troppo rischioso, e soprattutto troppo costoso. Cinque generazioni, una piccola porzione di Luna. Lo scienziato propose questo. Dopo la quinta generazione avrebbe lasciato ordini affinché tutta la Luna venisse resa agibile agli umani. Lo scienziato si offrì di andare lui stesso insieme alla sua famiglia per controllare l’esperimento. E affinché nessuno volesse tornare indietro, lui e la sua famiglia sarebbero stati gli unici a ricordare. Aveva infatti sviluppato un siero non solo per cancellare la memoria, ma uno anche per trattenere i ricordi in modo permanente, affinché venissero tramandati alle altre generazioni. Il governo approvò, ma aveva bisogno di una garanzia. Così fecero rendere allo scienziato il siero per la cancellazione della memoria mortale per chi avesse preso il siero per trattenere e tramandare i ricordi, e diedero l’ordine di somministrarlo anche a chi avesse generato con un membro di quella famiglia, perché i loro figli avessero i ricordi delle generazioni precedenti. Lo scienziato pretese di avere una garanzia a sua volta, per le emergenze, e fece costruire una navicella, non rintracciabile dal governo, che è quella sulla quale stiamo viaggiando. Così l’esperimento partì. Lo scienziato prese il cognome Lunari. Per le prime tre generazioni fu un completo successo, ma alla quarta, quella di nostro padre, i Lunari scoprirono quel che i capi di stato volevano fare, e si rifiutarono di proseguire con l’esperimento.»
«Cosa… cosa volevano fare?»
«Volevano… sì, certo, volevano… non… non lo so….» la ragazza crollò a terra. Il ragazzo corse verso di lei, ignorando i comandi della nave, e lo spettacolo di stelle che cominciava ad aprirsi intorno a loro «Il siero… ha cominciato… questo… ci mette poco tempo ad agire… sto dimenticando tutto poco a poco… ti farò domande strane, ma poi diventerò innocua…il mio cuore… dimenticherà come battere. Ho salvato la cartella verde… lì ci sono informazioni importanti… quel che ti ho dato prima, quando stavamo scappando… sono i tuoi ricordi…»
«Cosa dovrei fare, come posso riaverli?»
«Io… non lo so… non lo ricordo…»
«Devi ricordare! Non puoi dimenticare tutto!»
«Io… cosa mi sta succedendo…?»
«Non puoi andartene così! Non so neanche il tuo nome!»
«Camilla! Mi chiamo Camilla, questo lo ricordo… anche se non ne sono sicura. Mio padre si chiamava Bruno…è morto. Mia madre si chiamava Alice… è morta. Avevo due fratelli… Marco e Luca… non so dove siano…»
«Io! Marco sono io! Lo hai detto tu!»
«Gli somigli molto, in effetti… ma lui, lui è più piccolo… e ha i capelli come i miei…»
«Quanti… quanti anni hai?»
«Quattro, non lo vedi?»
«No! Ne hai di più!»
«Che cosa… la… la mia testa…»
«Ti prego! Non andartene!» le disse, tenendola sempre più stretta.
«Io… cosa… dove sono?»
«No! No! Dovevamo vederci sulla Luna, ricordi?»
«Io… no… tu chi sei…?»
«Sono tuo fratello! Marco!»
«Ho… ho un fratello?»
«Sì! Sono io! Sono qui! Mi hai salvato! Devi ricordare!»
«Cosa… devo… devo andare in un posto… si chiama “Luna”, sai dove sia?»
«Ora lo so fin troppo bene.»
«Puoi… puoi portarmi lì…? È per qualcosa… qualcosa di importante… anche se non so… non so esattamente perché... io… aiutami…»
«Non puoi sparire così! No!»
«Io… non…»
«Parlami! Stai con me!»
«Co…sa… mi sta…»
«Ti prego…» ma non ricevette più risposta. Mai più, da una ragazza che detestava rispondere alle domande, e che aveva finito l’inchiostro per scrivere ancora pagine della propria vita, lasciando da sole le stelle a brillare e a raccontare storie che oramai più nessuno avrebbe ascoltato.

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