Rebekah chronicles: Il sacrificio

di ElyJez
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Raven's Hill ***
Capitolo 3: *** La congrega - parte 1 ***
Capitolo 4: *** La congrega - parte 2 ***
Capitolo 5: *** L'invito ***
Capitolo 6: *** Il fantasma ***
Capitolo 7: *** Empatia ***
Capitolo 8: *** Il risveglio ***
Capitolo 9: *** Il dono ***
Capitolo 10: *** Elizabeth ***
Capitolo 11: *** Il ballo in maschera - prima parte ***
Capitolo 12: *** Il ballo in maschera - seconda parte ***
Capitolo 13: *** Il ballo in maschera - terza (e ultima) parte ***
Capitolo 14: *** Il rito - prima parte ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
 
Jillian, tesoro, non fare rumore quando dormo, diceva sempre mia madre, ed io con la mia infinita bontà l’avevo accontentata in tutti i modi possibili. Ora, le ragazze, una volta portate nello scantinato, le legavo ed imbavagliavo. (Le loro urla non l’avrebbero disturbata.)
Mi ero chiesto se avessi fatto a sufficienza anche quella volta, di solito ero abbastanza silenzioso, anche quando come in quel momento mi spingevo dentro la troia di turno troppo mediocre per ricordarmi che viso avesse o quale fosse il colore dei suoi occhi. Almeno avevo la fortuna di non sentirla.
Iniziai a muovermi più velocemente, seguendo quei movimenti che conoscevo a memoria, alzandomi ed abbassandomi, e mentre con una mano stringevo le cinghie di cuoio a cui lei era ben stretta, con l’altra cercavo di recuperare la lama fissata sotto il tavolo.
Alzai gli occhi al cielo: guarda se il coltello si doveva incastrare proprio in quel momento.
Diedi uno strattone più forte e finalmente sentii la placca di metallo cedere. Rigirai il manico tra le dita.
Era il momento: mi spinsi più dentro, sempre di più, se non l’avessi imbavagliata forse avrebbe urlato e se non lo avesse fatto, ora, con la lama a mezz’aria illuminata dalle luci delle candele, almeno un piccolo gridolino lo avrebbe lanciato. A causa delle mie precauzioni, si limitò a dimenarsi con quella che doveva essere disperazione.
Sbuffai interiormente, non sapendo se quei movimenti convulsi mi eccitassero o annoiassero, forse ci avrei riflettuto più tardi, o forse no, l’unica cosa di cui ero a conoscenza era che avrei colpito.
Una volta, due, tre, ed il sangue sgorgava come una fontana in festa. Continuai a muovermi contento e a pugnalare finché non mi resi conto di essere completamente appagato.
Quando mi scostai da lei scendendo dal tavolo mi accorsi che non si muoveva più. I suoi polsi erano rossi per i banali e ripetuti tentativi di liberarsi, esattamente come il suo stomaco visibile attraverso lo squarcio nella pelle.
Lanciai un’ultima occhiata a tutto questo rimanendo come al solito soddisfatto soltanto a metà, per poi recuperare la camicia, i pantaloni, l’accendino e le sigarette. Ne presi una, infischiandomene se si fosse macchiata, ed accesi aspirando, aspettando che il fumo iniziasse a riempirmi i polmoni.
Mi passai una mano tra i capelli inzuppandoli di sangue, uscendo dalla stanza ancora nudo con i piedi sul pavimento gelato.
Come al solito Otis era lì a raccogliere i miei resti -chissà se si scopava i cadaveri che lasciavo, quella sì che era una domanda interessante, peccato che per un tipo iperattivo a volte sapevo essere irrimediabilmente pigro e per questo non mi sarei mai dato la briga di controllare.
<< Domani mattina di’ a mia madre che ho un regalo per lei >>
Ordinai facendomi strada verso la mia camera e lasciando al servo il compito di ripulire.

Angolo dell'autrice:
Salve a tutti! Spero che il prologo/primo capitolo vi sia piaciuto. Volevo avvisarvi che la maggior parte della storia verrà narrata nei capitoli successivi dalla protagonista femminile o da personaggi secondari, quindi se volete seguirla, attenti ai cambiamenti.
Se ne avete voglia lasciate qualche commento o recensione
Ciao, Ciao

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Capitolo 2
*** Raven's Hill ***


Capitolo primo
Raven’s Hill

Rebekah
20 Ottobre 2015, Lunedì
In tutta la mia breve vita non avrei mai pensato di trasferirmi; ero sempre stata una di quelle persone che non si schiodano da dove hanno messo radici neanche se la città in cui si trovano stesse per essere inghiottita dall’inferno stesso, ma, a mio malincuore, quella volta fu diverso.
Mio nonno era caduto dalle scale fratturandosi il femore ed ora se ne stava stanziato su una sedia a rotelle provvisoria, con obbligo di fisioterapia.
Tutto questo, unito al fatto che durante la mia sempre breve e miserabile vita era stato l’unico ad essersi interessato a me, aveva solleticato quello che potremmo chiamare dovere famigliare, senso di colpa per il mancato intervento, solidarietà tra cristiani, insomma, scegliete voi quello che più vi aggrada.
In quel momento però l’importante non era la ragione che mi aveva spinto a prendere un aereo con scala Chicago-Londra, no, l’essenziale era capire per quale dannato motivo non avevo noleggiato una macchina affidandomi invece alle cure poco amorevoli di un tassista ambiguo.
Così, tra uno sbuffo ed un altro- e fidatevi se vi dico che io sospiravo tanto- giunsi scortata dal mio autista occasionale fino a Raven’s Hill, una cittadina posta sulle coste settentrionali della Cornovaglia in cui la mia famiglia viveva dal diciassettesimo secolo.
Una lunga stirpe di albini si era diramata da un unico antenato o, stando alle parole della mia carnefice, più comunemente chiamata zia, una schiera di matti da rinchiudere.
Con gli altri non aveva avuto tanto successo- a volte essere morti ha i propri vantaggi- ma con me ci era riuscita alla grande, anche se … beh, io me la sono sempre cavata abbastanza bene da sola.
I miei pensieri contorti ed i continui sbuffi diventati abitudinali furono interrotti quando il taxi frenò davanti ad un cancelletto in ferro battuto.
La casa che avevo davanti era stata costruita circa trecento anni prima e, nonostante le sue mura fossero state recentemente tinteggiate di verde pallido e il suo tetto di rosso, la struttura, nella sua austerità, tradiva gli anni che l’avevano vista come scenario di vite a me sconosciute.
Sospirando, questa volta di sollievo, scesi dalla vettura, pagando il conducente e prendendo i pochi bagagli che mi ero portata: infondo, quanto poteva metterci il vecchietto per riprendersi? Scrollai le spalle tra me e me, iniziando a trainare il trolley lungo il vialetto segnato dalla ghiaia e circondato da piccoli nontiscordardimé che, nonostante la temperatura, regalavano all’ambiente il loro profumo e le sfumature delicate.
Per di lì vi era una grande veranda scandita da arcate, che seguivano un modulo regolare, e colonne i cui capitelli ritraevano dei corvi intenti ad osservare la scena.
Suonai il campanello più volte- mio nonno aveva dei problemi all’udito quando voleva- per assicurarmi che prima o poi qualcuno mi fosse venuto ad aprire e stranamente la mia attesa non fu poi così lunga.
<< Buonasera Bekah>>
Davanti ai miei occhi, o meglio, per essere sinceri un po’ più giù del mio sguardo, Victor Shay se ne stava seduto sul suo temporaneo mezzo di trasporto con la solita voce pacata, leggermente profonda, simile ad un mare piatto senza onde né sole. La pelle, proprio come la mia, era molto chiara, ma sicuramente i suoi capelli corti e radi lo erano ancora di più. L’unica traccia di colore che vi era in quell’uomo si poteva scorgere nei piccoli occhi rossi affossati, circondati da rughe.
Il naso era leggermente grosso, una patata in piena faccia, mentre il labbro inferiore era ancora pieno, quasi a testimoniare un fascino e una sensualità passata che ora si era dissipata con il sopravvento della vecchiaia.
<< Ciao>>
Si fece indietro per farmi entrare, strusciando così le ruote sul parquet di legno duro dell’atrio.
<< La mia camera? >>
Chiesi dando un’occhiata in giro. L’ingresso non era molto grande, eppure le pareti chiare tendevano a farlo sembrare più spazioso di quello che era, contrastando allo stesso tempo con il legno del pavimento e delle scale che si aprivano al centro della stanza.
<< Piano superiore, seconda porta a destra>>
<< Vado a sistemare le valigie>>
Chiarii iniziando a salire gli scalini notando che ormai l’uomo mi stava già dando le spalle recandosi quindi in un’altra stanza. Solitamente dopo tanti anni che non si vede un famigliare, soprattutto se quest’ultimo si è rotto una gamba per non essersi allacciato una scarpa, bisognerebbe abbracciarlo, confortarlo con parole ben scelte e sperare che quando arrivi la sua ora ti lasci qualcosa in eredità, ma noi non eravamo fatti così.
L’unica persona che poteva tirarmi fuori di bocca qualche parola era il dentista ogni qualvolta rischiava di bucarmi la lingua, o il salumiere al banco degli affettati e, per quanto riguarda Victor … beh, lui ha sempre parlato a monosillabi.
Quando salii al piano superiore, lo spazio che mi si parò davanti era leggermente differente da quello che avevo appena visto. Sì, le pareti erano sempre celesti ed erano coperte dagli stessi pannelli in legno, ma su di esse si trovavano svariati quadri dipinti dalla stessa mano esperta.
Poiché mio nonno non sapeva neanche disegnare una casetta col sole, doveva averli acquistati da qualcuno con un particolare talento e, anche se non avevo una laurea in storia dell’arte o non era di mia consuetudine visitare musei, riuscivo a riconoscere qualcosa di bello quando l’avevo davanti.
La maggior parte delle tele ritraevano dei corvi risaltandone le loro qualità: in quelle pennellate vi era la regalità, la ferocia, la saggezza e la consapevolezza del mondo.
Fin dai tempi antichi si credeva che questo tipo di passero possedesse straordinarie doti di preveggenza e che annunciasse l’arrivo di una guerra o di una morte imminente: a quel punto non doveva essere poi così strano trovare così tante raffigurazioni in quella casa.
Gli Shay erano sempre stati dei medium. Nonostante non mi piaccia sventolarlo ai quattro venti- soprattutto perché poi le persone cominciano a evitarti come il letame- io posso vedere.
I miei occhi rossi sono collegati in un modo inspiegabile con quello che viene chiamato Altrove, un mondo parallelo al nostro, senza tempo, in cui sono bloccate le anime di coloro strappati alla vita troppo presto.
Per tutti quelli che se lo stanno domandando, no, non è un posto pieno di bambini e ventenni morti per incidenti d’auto … ok, si ci sono anche loro, ma non è questo il punto: nell’Altrove si trovano anche le persone anziane che avevano del tempo da vivere, delle faccende da concludere, e per qualche assurdo motivo erano deceduti … insomma, tutti quelli che non rientrano nei decreti divini, o ne fanno parte in una maniera inspiegabile se ne stanno lì a rigirarsi i pollici.
Spesso ad alcuni di loro piace mettersi in contatto con me per chiedere aiuto o per spaventarmi e altrettanto spesso io li minaccio con un mazzo di gigli - che ci crediate o no, quest’ultimi, usati contro le entità maligne, sono più efficaci di una mazza chiodata piantata nel cranio.
Sbuffando lasciai perdere tutti quei pensieri dirigendomi verso quella che sarebbe stata temporaneamente la mia stanza.
Non avrei mai pensato che nella casa del nonno, tutta linda e pinta, disseminata da tinte pastello ci fosse posto per un po’ di normalità.
La mia nuova stanza era di forma quadrata, tappezzata di tappeti scuri e moquette color vino. In una nicchia nel muro a fiori si trovava un letto bianco in completo accordo con la scrivania, le sedie e la porta del bagno. Non era tutto quello ad ispirarmi però.
Abbandonata in un angolo, tra la polvere e la semioscurità si trovava un vecchia poltrona rosa scuro, di quelle che si vedono nelle case retrò degli anni settanta, tanto orrende quanto comode, disseminate da cuscini e coperte all’uncinetto.
Vicino a questa, per mia grande gioia, c’era una libreria bianca, logorata dal tempo, che strabordava di vere opere d’arte. Charles Baudelaire, Lord Byron, John Keats e Robert Stevenson, erano solo alcuni dei nomi che apparivano sugli scaffali verniciati. Infine, una portafinestra si affacciava su un piccolo balconcino con tanto di tavolino da tè e sedie shabby chic. Abbandonai il trolley e la mia giacca a vento sopra il letto, scendendo nuovamente al piano inferiore anche se, a dir la verità, l’unica cosa che desideravo fare, era dormire fino a che le ossa non si fossero intorpidite.
Non impiegai tanto tempo per trovare mio nonno, infondo bastava soltanto seguire il rumore della televisione che, mi condusse fino in cucina.
<< Allora, per stasera pollo e tv? >>
Chiesi attirando la sua attenzione, ma lui scosse il capo.
<< No, stasera andiamo a casa di vecchi amici>>
<< Perché?! >>
Il mio fu un urlo mezzo strozzato. Non mi era mai piaciuto stare con le persone ed odiavo fare nuove conoscenze. Perché? Era abbastanza ovvio: avevo la socialità di un lampione. Oh, aspettate, credo che questo sia uno dei tanti sintomi e non la causa della mia misantropia. Come posso spiegarlo in poche parole? Forse ho trovato. Non sono mai piaciuta agli altri.
La gente normale non fa amicizia con i pazienti di psichiatria segnati da chiari sintomi di schizofrenia, ed io non avevo pazienza per trattare con degli imbecilli e la loro arroganza.
Per questo motivo, per il mio caratteraccio, e per una serie di ragioni che non sto qui a spiegarvi, non avevo mai avuto degli amici, ma non ne facevo una colpa né a me, né alle leggi di equilibrio cosmico. Era un dato di fatto, tutto qui.
<< I vecchi solitamente non mangiano minestrina e giocano a carte? >>
<< Sì, e lo faremo a casa dei miei conoscenti>>
Lo guardai, basta, non c’è bisogno di aggiungere altro. Seduto su una carrozzina, con lo sguardo calmo, la bocca serrata, le mani rilassate, era lui a decidere.
<< Certo, che problema c’è! >>
Sbraitai salendo le scale con passi pesanti simili a incudini scagliati contro gli scalini. Ci mancava anche la serata con un branco di vecchi babbioni.
<< Metti qualcosa di elegante>>
Disse con il suo solito tono pacato, che in quel momento mi fece saltare i nervi.
Dannazione, perché ero voluta andare lì? Va bene la riconoscenza e tutto, ma io e il vecchio eravamo come l’acqua e il fuoco e sapevo piuttosto bene che vivere con quel despota silenzioso significava dover affrontare un continuo susseguirsi di battaglie perse.

Angolo autrice:
Salve a tutti! Ecco il secondo/primo capitolo della storia (dipende da come lo si guarda) e sì, per chi ha seguito l'altra storia che ho scritto, Excalibur, ho riciclato alcuni personaggi - scusatemi, ma ero troppo affezionata a loro per lasciarli nella polvere. La storia continuerà alternando vari punti di vista quindi, ad ogni capitolo ci sarà scritto il nome del narratore.
Spero che tutto ciò vi piaccia. Se volete lasciate qualche recensione, mi farà piacere ricevere qualche consiglio da voi
Ciao, ciao

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Capitolo 3
*** La congrega - parte 1 ***


Secondo Capitolo

Rebekah


Dopo una doccia veloce ed aver aiutato il nonno a prepararsi, uscimmo finalmente di casa. Per ovvi motivi dovetti guidare io,
cosa che significava essere costretti ad ascoltare quella sorta di navigatore interattivo per tutto il tragitto.
<< Ora gira a destra>>
Disse Victor dando più valore alle sue parole indicando la strada.
La prossima volta che mi veniva in mente di fare la crocerossina avrei dovuto pensarci molto più a lungo.
<< Con piacere>>
Borbottai a denti stretti. Non mi piaceva quella situazione, non mi piaceva gironzolare per chissà dove dopo essermi fatta otto ore di volo nella vana speranza di riposare un po’ appena arrivata e, infine, non mi piaceva prendere ordini mentre guidavo.
<< Continua sempre dritta>>
Soffocai un’imprecazione.
Eravamo in viaggio solo da pochi minuti e già avevo i nervi a fior di pelle. Era deciso: una volta tornata a Chicago avrei seguito un corso per il controllo della rabbia, ritirandomi in un monastero zen per il resto della mia vita, sperando che nessuno mi assillasse con i suoi problemi o con la sua semplice esistenza.
<< Quanto manca? >>
Chiesi impaziente: prima arrivavamo e meglio era.
<< Circa cinque minuti>>
Cinque minuti. Cercai di concentrarmi sulle vie impervie di Raven's Hill illuminate da luci così fioche da farmi spuntare per la testa una domanda alquanto lecita: ma questi le bollette della luce le pagano?
<< Per curiosità, chi sono questi vecchi amici? >>
Domandai tanto per ammazzare il tempo e non il nonno.
<< I Jenkins … sono a capo della congrega locale>>
<< Quindi andiamo a trovare delle vecchie streghe? >>
Svoltai a destra, e poi a sinistra. Se scartavo la prostituta, che abitava al terzo piano, autoproclamatasi fattucchiera, non avevo mai incontrato una vera strega; certo, sapevo che molte di loro si organizzavano in gruppi più o meno grandi, e che alcune possedevano dei poteri innati, ma nella mia testa queste rimanevano delle vecchiette con il naso bitorzoluto e i capelli grigio topo.
<< Non proprio: questa congrega ha le mani in pasta ovunque, nel sistema giudiziario, penale, sanitario, scolastico ... bancario>>
Spiegò atono continuando a guardare davanti a sé, spingendomi a sospirare sconfitta.
<< Insomma questa sera siamo ospiti di un clan mafioso, che bello!>>
Commentai con finta enfasi senza ricevere alcuna risposta: a lungo andare persino essere scocciata diventava noioso con lui. << Ora dove si va? >>
<< Sempre dritta per un chilometro e siamo arrivati>>
Credo che quelli furono i mille metri più lunghi della mia vita.
La strada snodata in un susseguirsi di curve in salita, era circondata da alberi forti e scuri, affiancati da arbusti rugosi simili ad animali distorti e pietrificati.
Continuai con il mio giro turistico finché non giungemmo davanti ad un cancello in ferro battuto finemente decorato da arabeschi e disegni astratti, incastrato in un recinto di mura possenti, vittime dell’umidità e degli anni.
All'estremità dell'entrata vi erano due statue rappresentanti Cerbero, il mitologico cane a tre teste il cui compito era quello di evitare l'accesso dei vivi e la fuoriuscita delle anime dall'Ade.
Un urlo rauco fu immediatamente seguito da un gemito acuto, quando il cancello si aprì nell’oscurità, mentre gli occhi cavi dei due mastini iniziarono a brillare illuminati da fiamme vive e reali.
Diedi un'occhiata in giro per assicurarmi che non ci fosse alcuno spirito in velo e pizzo bianco legato alla terra da una promessa al dito.
Per ora la situazione sembrava tranquilla, ma c'era qualcosa nell'aria, una sensazione orribile che mi spingeva a cercare sempre di più nel buio, e che nello stesso momento mi urlava tremendamente di lasciare quel luogo dannato.
Chiusi gli occhi di scatto cercando di respirare, respingendo gli artigli che stringevano le mie viscere così forte da strapparle e ridurle a brandelli. Un respiro, un altro. Sembrava che non avessi mai respirato in vita mia. Le costole rotte spingevano impietose contro i polmoni minacciandoli di morte. La pressione aumentava, aumentava, e scendeva nel basso ventre, lungo l’apparato respiratorio e s’incatenava lasciandomi priva di speranza e fede.
<< Credo che a questo punto la cena si sia freddata>>
Disse il nonno, spingendomi ad aprire gli occhi.
Le mie mani erano ancorate così saldamente sul volante da far sbiancare le nocche fino all’inverosimile. Se in quel momento mi fossi guardata allo specchio probabilmente sarei stata io il fantasma. Il vecchio naturalmente era tranquillo.
<< Che fai, mi prendi in giro? Qui dentro c'è un'aria così malefica da dover appendere un cartello con la scritta "entrate a vostro rischio e pericolo", e tu fai finta di niente!>>
Sbottai iniziando a gesticolare, sperando di convincerlo, ma qualcosa nella sua espressione calma e monotona mi suggeriva che i miei tentativi sarebbero stati vani.
<< Nessuno ci farà del male, Rebekah, io li conosco>>
Stavo ancora lì, con l'istinto di sopravvivenza pronto a correre in ritirata, eppure, nonostante ciò, una piccola parte di me chiamata "ego sproporzionato" continuava a torturarmi affinché entrassi e smettessi di comportarmi come una codarda.
Vinse quest'ultimo e, dopo essermi affidata ai numi, feci il mio ingresso nel cortile del maniero Jenkins.
Se in un primo momento avevo pensato che il giardino del nonno fosse grande, ora mi resi conto che non era niente in confronto a ciò che avevo attorno. Sembrava quasi che tutta la vegetazione della Gran Bretagna si fosse congiunta lì, ed ora, illuminata dalla luce fioca dei lampioni, si mostrava a noi terrificante e maestosa allo stesso tempo.
C'erano arbusti, cespugli che con temperature più miti avrebbero mostrato certamente fiori unici e singolari, alberi di pino, cipressi ed altri sempreverde che parevano sfidarsi per vedere chi tra loro era il più alto.
Al centro del cortile, davanti alla casa, si trovava un'enorme fontana circolare. Caronte, il traghettatore degli inferi era lì, con il suo naso adunco, gli zigomi alti, la bocca fina, il mento squadrato, la faccia emaciata, la pelle così tirata da far sbucare le costole e lo sterno. Il corpo magro era quello di una mummia o di un vecchio affamato, con le ossa lunghe, sporgenti, le articolazioni bloccate, e le dita aggrappate ad un remo che lentamente trainava il vascello di marmo.
Mi strinsi nelle spalle augurandomi che all'interno del maniero non si trovasse Ade in persona, o qualcun'altro da temere molto più di lui.
Parcheggiai la macchina il più vicino possibile all’ abitazione nel caso dovessimo battere in ritirata, per poi scendere a mio malincuore, recuperare la sedia a rotelle, ed aiutare Victor.
Fatte quelle cinque falcate, raggiunsi il portone principale del vecchio castello di pietra. Questo, era scandito da quattro torri laterali ed una cupola centrale, costituita dall’unione di due calotte suddivise in otto vele. Sopra di essa si trovava la lanterna che, insieme ai mille occhi della casa, pareva scrutarci insistentemente.
Annunciai la nostra presenza colpendo con i battenti il portone principale alto circa due metri, coperto da borchie di ferro che tradivano l’età del maniero.
Ai suoi lati si trovavano due lunghe colonne i cui capitelli erano oscurati.
Finalmente la porta venne aperta e davanti ai nostri occhi si mostrò un uomo di circa settant’anni.

Angolo autrice:
Ciao a tutti, spero che la storia vi stia piacendo e ... non so più cosa dire. Se vi va lasciate una recensione e qualche consiglio, altrimenti no, insomma fate quello che volete =)

Ciao, ciao

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Capitolo 4
*** La congrega - parte 2 ***


Terzo capitolo
La congrega - parte due

Rebekah
... Finalmente la porta venne aperta e davanti ai nostri occhi si mostrò un uomo di circa settant'anni
La pelle, nonostante l’età, era sorprendentemente liscia, soprattutto sulle guance paffute e rosate; l’espressione seria che aveva dipinto in volto, contribuiva a far sembrare le sue labbra poco più di due strisce sottili, sovrastate da un naso a radice bassa e con narici larghe.
Le sopracciglia folte e arricciate, contrastavano enormemente con la piega pressoché perfetta dei capelli lisci e grigi.
<< Buonasera, noi siamo … >>
<< Vi stavamo aspettando >>
Disse con una voce fastidiosa, ovattata. La voce di chi aveva la gola infiammata e aveva mangiato un barattolo intero di miele. Indietreggiò, lasciandoci fare l’ingresso in casa Jenkins.
Davanti ai nostri occhi, poco distante da noi, se ne stava una donna dai lineamenti così delicati da sembrare una fogliolina autunnale. La sua bocca, piegata in un morbido sorriso, era leggermente sporgente, con il labbro superiore più fino di quello inferiore.
I suoi occhi verdi sembravano partecipare alla sua gioia, mentre, sulle guance rosate, due piccole fossette facevano la loro comparsa. I capelli biondi, sebbene fossero raccolti in una crocchia, ricadevano in parte sulle spalle e sui seni minuti, ricoperti da un vestitino rosato con una lunga scollatura a v.
<< Victor>>
Disse la donna con entusiasmo avanzando verso di noi, porgendo a mio nonno un abbraccio che ricambiò con due tocchetti sulla spalla.
Alzai gli occhi al cielo: mio nonno non l’avrebbe scomposto neanche la morte.
<< Buonasera, Nora>>
Rispose con tono meccanico. Ok, forse avevo alzato gli occhi troppo presto.
<< Tu devi essere Rebekah, è un piacere conoscerti>>
<< Il piacere è mio >>
Anche se non ho la più pallida idea di chi tu sia.
<< Mi chiamo Nora Jenkins, sono a capo della congrega, ma non preoccuparti, non sono affatto sorpresa che Victor non ti abbia parlato di me>>
<< Però di me ti ha parlato … >>
Sembrò ignorare quel commento e con un sorriso più radioso di prima chiese:
<< Andiamo? >>
A quelle parole il maggiordomo si mise alla guida della sedia a rotelle e, insieme alla padrona di casa, proseguì verso un grande arco posto al centro della stanza.
Prima di seguirli mi presi del tempo per osservare meglio il posto.
Se l’esterno del castello conservava un’aria di maestosità, all’interno la situazione non era affatto diversa.
Caratterizzato dalle spinte in verticale tipiche dell’architettura gotica, l’atrio si apriva con una triade di archi a sesto acuto che si snodavano in lunghi corridoi percorrenti le varie arie della dimora. Il pavimento era di ebano, così come i pannelli che risalivano le lunghe pareti ricoperte da arazzi antichi.Su quest’ultimi scene di battaglie irrompevano furiose, mentre la Morte, ombra silenziosa ed oscura a tutti, aspettava i suoi compagni di viaggio per trasportarli verso un luogo, che fosse l’oltretomba o l’ignoto.
A terra, su piedistalli di marmo, statue di fanciulle piangenti accompagnavano l’ingresso delle anime inquiete che con piedi taciturni si avvicendavano all’interno della proprietà. Infine, oltre le poltrone che sembravano accogliere nei loro braccioli di legno e nei cuscini bordeaux ospiti invisibili, si trovava una lunga ed ampia scala a spirale, interrotta da rampe e piccoli terrazzi. Fu quella la prima volta che lo vidi.
Se ne stava lì, appoggiato con gli avambracci sulla ringhiera del piccolo balconcino di sospensione della scalinata a guardarmi con una curiosità velata dalla noia.
<< Come ti chiami? >>
Chiese alzando di poco il mento.
<< Prima di chiedere il nome a qualcuno dovresti presentarti>>
Chiarii incrociando le braccia sul petto scatenando la sua risata, cosa che gli mise in risalto le fossette sulle guance.
Scese i gradini ricoperti dal tappeto rosso con grande nonchalance, nello stesso modo in cui avrebbe fatto una star di Hollywood, fermandosi a circa cinquanta centimetri da me.
Indietreggiai innervosita, mentre lui piegava leggermente la testa di lato, divertito.
Ok, non avevo mai avuto così tanta voglia di colpire qualcuno come in quel momento, questo era più che certo.
<< Perché dovrei? >>
Per educazione, avrei dovuto rispondere, ma per una che aveva passato metà della sua vita tra una clinica psichiatrica e l’ufficio del preside, l’educazione non aveva tanta importanza. Quando si rese conto che la sua domanda non avrebbe avuto risposta, si allontanò leggermente.
<< Mi chiamo Jillian Jenkins, ora mi potresti dire il tuo nome? >>
Chiese con falsa gentilezza.
<< Rebekah Shay >>
<< Rebekah … >>
Sussurrò lentamente assaporando il mio nome, come chi degusta un vino pregiato, e lo annusa, lo assaggia con la punta della lingua, lo rimescola in bocca e infine lo lascia scorrere nelle pareti della gola. Quel nome, mormorato dalle labbra di Jillian Jenkins, era diventato una droga di cui solamente io potevo bearne.
Chiusi gli occhi per interrompere quel contatto visivo fino a quando la sua voce richiamò la mia attenzione.
<< Allora, hai intenzione di rimanere lì imbambolata per tutta la serata? >>
Non appena riaprii gli occhi mi accorsi che non era più davanti a me, ma se ne stava alle mie spalle, con una ciocca dei miei capelli tra le dita. Mi voltai di scatto per scacciare le sue mani, ma il mio colpo andò a vuoto fendendo l’aria.
Una risata sommessa mi spinse a voltarmi nuovamente, questa volta in direzione dell’arco attraverso cui era passato Victor.
<< Credevo che fossi più divertente>>
Bofonchiò facendo finta di sbadigliare. Come aveva fatto ad essere già lì?
<< Se ti prendo a sprangate in faccia posso diventare divertente>>
<< Oh, questo sì che suona dannatamente divertente>>
Disse con gli occhi neri brucianti di eccitazione, occhi che fecero bruciare anche me.
Scossi la testa cercando di mandare via quella sensazione e di recuperare il senno. Insomma, per quale motivo dovevo provare attrazione per un tizio snob, arrogante e che aveva appena dimostrato di provare un certo interesse per il dolore?
Sentii una vocina da dentro di me provare a sussurrare delle parole che non avevo assolutamente intenzione di udire, così la soffocai.
Mi accorsi che ormai lui mi stava già dando le spalle, facendomi strada per il lungo corridoio.
<< A proposito … >>
Disse girandosi verso di me. Sul suo volto dionisiaco balenava un ghigno maligno che mi fece traboccare bruscamente la bocca dello stomaco.
<< … hai un culetto niente male, lo sapevi? >>

Angolo autrice:
Salve a tutti, eccoci qui con la fine di un altro capitolo. Prima di tutto vorrei ringraziare chi ha seguito la storia fino ad ora - siete molto pazienti e di gran conforto =P - e poi dirvi ... scherzavo, non so che altro dirvi, non sono brava con queste cose. L'unica cosa che posso dirvi è che magari potete trovare strana l'impostazione della storia, per qualche chiarimento, chiedete pure ( anche se in realtà l'alternanza della narrazione c'è stata solo una volta fino ad ora effettivamente) . Ok, taglio corto
Ciao, ciao

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Capitolo 5
*** L'invito ***


Quarto Capitolo
L’ultimo respiro
21 Ottobre 2015, Martedì
La scalinata di pietra davanti alla cattedrale sembrava essere infinita. Salivo, salivo, eppure ero sempre allo stesso punto: troppo lontana dalla chiesa e a metà strada da una donna vestita completamente di nero seduta su una panchina.
Mi avvicinai per vederla meglio, ma il suo viso era completamente oscurato da un velo funebre; tra le braccia cullava un bambolotto di cera. Quando fui a pochi passi da lei, alzò la testa fissandomi con occhi che non potevo vedere.
<< Prendi>>
Mormorò con voce così fioca da mischiarsi con il fruscio del vento tra gli alberi.
Con delicatezza presi la bambola di cera avvolta nella copertina di merletti bianca con il timore di farle cadere la testa; ma questa non cadde, no.
Si girò verso di me. I suoi occhi dipinti si mossero verso l’alto, la bocca si dischiuse in un urlo rapace, le braccia, le gambe, si dimenarono con movimenti convulsi.
Chiusi gli occhi per allontanare da me quello scenario, ma quando li riaprii il bambino di cera e la donna vestita di nero non c’erano più. La chiesa che tanto cercavo di raggiungere era sparita.
Davanti a me si apriva una stanza con le mura completamente nere, che ospitava un letto a baldacchino dai drappeggi rossi rischiarati dalla luce debole delle candele.
Oltre al luogo, anche i miei abiti erano cambiati: avvolta in una camicia da notte bianca ottocentesca, mi ritrovai gravida, con il sangue che lentamente percorreva le mie gambe fino a giungere a terra e bagnarmi i piedi nudi.

Mi svegliai di soprassalto dentro il mio nuovo letto.
La stanza era illuminata dalla grigia luce mattutina e, dalla finestra spalancata, l’aria autunnale mi gelava il corpo bagnato di sudore freddo.
<< Che sogno di merda>>
Bofonchiai passandomi il dorso della mano sopra la fronte spostando la frangetta umida.
<< Oh, che spettacolo delizioso>>
Commentò una voce fastidiosamente famigliare dall’angolo più remoto della stanza. Mi alzai di scatto mettendomi seduta sperando che fosse il frutto di un’illusione deviata e che lui non fosse realmente lì. Speranza vana, naturalmente.
<< Che cosa stai facendo lì! >>
Domandai con un urlo mozzato in gola. Jillian Jenkins se ne stava beatamente seduto sulla poltrona rosa scuro, con le gambe accavallate, un libro tra le mani, i primi due bottoni della camicia sbottonati, le maniche tirate su fino a scoprirgli completamente gli avambracci … e che avambracci ragazzi! Ok, scusate, mi ero persa un attimo.
La verità è che per un momento sembravo essermi trasformata in uno di quei gentiluomini ottocenteschi che vedendo una donna passare esclamava allupato: le caviglie!
<< Non potevo stare sul bordo del letto: vuoi mettere il mal di schiena che viene dopo aver passato otto ore senza appoggiarsi da qualche parte? >>
Commentò lui con aria innocente cosa che istigò la parte più brutale di me.
<< Scusa, fammi capire bene, tu hai passato tutta la notte qui? >>
<< Certo >>
Rispose tranquillamente richiudendo il libro, alzandosi poi dalla poltrona, riponendolo quindi dentro la libreria.
<< Ti dispiace se ho letto uno di questi? Non mi ero portato niente con cui passare il tempo>>
Non so di preciso quanti secondi ci misi per visualizzare le sue parole, evitare di imprecare, e dare una risposta adeguata che non comprendesse la definitiva dipartita delle mie corde vocali.
<< Cosa diamine vuoi che me ne importi! Che ci fai qui, in camera mia? >>
Sbottai infine gesticolando energicamente- più passava il tempo e più somigliavo ai miei coinquilini di psichiatria.
<< Mi annoiavo >>
Spiegò stringendosi nelle spalle come se ciò che aveva fatto fosse la cosa più normale del mondo
<< E fare il guardone rientra nei tuoi divertimenti? >>
Ringhiai esasperata. Lui non doveva essere lì. Non doveva assolutamente essere lì. Quello era il mio luogo di sepoltura in un mondo coordinato dalla voglia di vivere.
<< Beh, sì >>
<< Vai fuori! >>
Gridai con tutte le mie forze, buttando giù le coperte ed indicando così la porta. Con mia grande amarezza, invece di rimanere risentito, di provare un po’ di stizza, o reagire aggressivamente, iniziò a ridacchiare divertito.
<< Se proprio lo desideri Bekah >>
Si avvicinò al letto e con poche falcate mi fu vicino. Cercai di indietreggiare finendo però contro la spalliera in ferro battuto. Bel lavoro, ora ero in trappola. Mi passò la mano bianca tra i capelli, afferrandoli da dietro la nuca, abbastanza forte da farmi inclinare la testa verso l’alto.
I suoi occhi, occhi neri cerchiati da ombre violacee, avevano lo sguardo di un demone affamato e mi catturavano spingendomi in ginocchio nella vana speranza di essere perdonata per i miei peccati.
Cercai di respingerlo ma in quel momento tra lui e una montagna non c’era differenza.
Pensai alle opzioni disponibili: lì vicino c’era un vaso di fiori, magari se fossi riuscita a raggiungerlo …
<< Ti ho lasciato un regalo sulla scrivania, mio piccolo giglio sporco>>
Soffiò lui, per poi allontanarsi ed aprire la porta. Stava per andarsene quando si girò nuovamente a guardarmi. In faccia aveva l’espressione di chi stava per svelare un segreto d’importanza nazionale.
<< Sai, io le mutandine le preferisco rosse>>
A quel punto afferrai il vaso scagliandolo con tutta la forza che avevo contro di lui, ma come al solito fu più veloce e l’unica cosa che riuscii a colpire fu una porta chiusa. Saltai immediatamente giù dal letto per poi infilarmi le pantofole ed inseguire l’intruso che ovviamente era svanito senza lasciare traccia.
<< Non m'importa dei tuoi gusti, porco!>>
Gridai a vuoto, sbattendo ferocemente la porta della mia camera.
Dannazione, c’erano una quantità indescrivibile di nervi nel corpo umano e in quel preciso istante era come se fossero sul punto di esplodere tutti insieme.
Guidata dall’irritazione e dall’impotenza per il sopruso subito andai a vedere il regalo che mi aveva lasciato. Sulla scrivania, vicino alle candele rosate e al pc portatile, era poggiato un vaso di cristallo contenente delle violette delicate e dei gigli completamente bianchi, simbolo di purezza e di castità.
“Mio piccolo giglio sporco” … chissà che cosa intendeva dire con quella frase. Soffiai, cercando di lasciar perdere il significato di quello che non era altro che un capriccio di un uomo annoiato e viziato, concentrandomi invece sulla piccola busta nera che era stata posata accanto al vaso.
La domanda da porsi in quel momento era: quel tipo era da ritenersi pericoloso? Con le fossette sulle guance, i capelli biondi lisciati all'indietro, le ciocche ribelli sul viso dolce e beffardo somigliava ad un angelo trionfante dipinto da Raffaello, eppure quegli occhi, quello sguardo, sembravano aver visto l’inferno e desiderare di trasformare il mondo in marciume e dolore.
Scossi la testa e con decisione sfilai il biglietto da dentro la busta.
Era di forma quadrangolare, dai lati lunghi all’incirca quindici centimetri, di colore nero, con la cornice e i caratteri impressi con inchiostro dorato. Scritto in caratteri eleganti, il cartoncino diceva:
“Siete invitati al ballo in maschera che si terrà mercoledì 22 Ottobre presso il maniero Jenkins. La festa inizierà alle 21:00”.
Il modo in cui era stata brutalmente troncata la frase lasciava trapelare l’identità dello scrittore. Cari fanciulli, mi gioco l’uniforme della ditta di pulizie che quel biglietto lo aveva scritto il maggiordomo con i tratti omosessuali.
Senza curarmene più del necessario, lasciai cadere l’invito sopra la scrivania: quella mattina avevo cose molto più importanti a cui pensare, altro che ballo in maschera. Per prima cosa dovevo parlare con Victor e vedere se avesse dei programmi per quel giorno, e poi mangiare qualcosa … però, innanzitutto, mi ci voleva una doccia per sciogliermi i muscoli, ancora più indolenziti del solito.
Mi diressi verso il bagno adiacente alla stanza con la determinazione di chi sta partendo per la guerra, ma la sola vista di ciò che vi era oltre la porta bianca mi mise di buon umore.
Con un sospiro di sollievo mi liberai della mia vecchia camicia da notte antistupro di flanella rosa con un orsacchiotto stampato sul petto e della biancheria intima, lanciandole dentro la cesta dei panni sporchi, per poi aprire il rubinetto ed infilarmi sotto i getti caldi della doccia.
Stare dentro al maniero la sera precedente non aveva per niente attutito lo stato d’ansia provato nel giardino, anzi se era possibile, l’angoscia era salita ad un livello esorbitante che mi spingeva a voltarmi ad ogni rumore e soffio di vento, facendomi sembrare una specie di esaltata che aveva bevuto litri e litri di caffè.
Oltre a questo scenario interessante, Victor, da bravo ricercatore farmaceutico in pensione, aveva iniziato un comizio infinito su alcune pomate antinfiammatorie per uso intimo che Nora Jenkins- risultata poi la madre del nostro caro guardone- era riuscita a seguire con un’inspiegabile tenacia.
Il biondino dal canto suo era stato impegnato essenzialmente in quattro attività: fissarmi con un sorrisetto maniacale, chattare su facebook con il telefono, mangiare, ed infine annuire con dei gesti di consenso così palesemente finti da sembrare veri. A volte riusciva a mischiare tutte e quattro le azioni insieme in una sorprendente combo.
A quel punto stavo quasi pregando di vedere un fantasma tanto per sfogarmi, ma poiché il fato mi è sempre stato avverso, l’unica cosa che feci fu affogare le mie frustrazioni sulla bistecca che ci avevano servito per secondo. Non appena uscii dalla doccia, m’infilai l’accappatoio di spugna, per poi ritornare in camera e iniziare a spulciare tra le valigie. Dopo una lunga ricerca accurata, scelsi una camicia a scacchi rossa e nera, un paio di jeans, calzini e converse nere, ed evitando i cocci sul pavimento, scesi al piano sottostante .

Angolo autrice:
Salve a tutti! Siamo arrivati al quarto capitolo + il prologo ... allora, cosa ne pensate? Vi piacciono i personaggi? E la storia? Se avete voglia di esprimere le vostre opinioni lasciate un messaggio o una recensione
Ciao, ciao

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Capitolo 6
*** Il fantasma ***


Quinto Capitolo
Il fantasma

 
La mattinata non fu poi così impegnativa, a parte ripulire le tracce del mio scontro, rassettare in modo superficiale la casa, ed aiutare il nonno ad alzarsi dal letto e vestirsi, non c’era stato molto movimento, avrei potuto persino guardare i cartoni animati in tv. Dico avrei, perché giustamente le cose non andarono così.
<< Rebekah, dovresti fare la spesa>>
Dovresti, comunemente analizzato come: voce del verbo dovere, modo condizionale, tempo presente, seconda persona singolare. Come ho appena detto, questo è come viene comunemente analizzato, ma c’era qualcosa in Victor Shay che lo faceva sembrare una persona comune?
Il condizionale per il vecchio aveva la stessa valenza- o forse anche di più perché utilizzato in maniera cordiale- del caro e vecchio imperativo.
Quindi quel “Rebekah, dovresti fare la spesa”, doveva essere inteso più o meno così:” Rebekah, giovane ventunenne con lavoro saltuario, va a procacciare del cibo per un anziano e rispettabile membro della comunità, nonché tuo parente più prossimo, e non fare ritorno a casa finché il carrello della spesa non sarà pieno!”. Sì, credo che questo fosse esattamente il significato traslato di quelle cinque parole.
Così, con mia grande gioia, salita sulla cinquecento di Vic, mi recai al supermercato più vicino, perdendo venti minuti davanti al banco dei surgelati incerta su cosa avrei dovuto comprare, optando infine per un pacco di pollo piccante.
Altri venti minuti li passai in fila, aspettando che il cassiere accrescesse la sua autostima parlando con una bionda ossigenata che aveva intrapreso una conversazione stimolante sulle palestre e sui bicipiti scolpiti dell’uomo.
Avevo come la sensazione che la prossima volta sarei entrata al supermercato con una pistola, non con il fine di rapinarlo, parliamoci chiaro, ma per saltare la coda, o almeno per sparare alle gambe del primo che avesse iniziato a chiacchierare anche solo per chiedere lo scontrino.
Dopo aver caricato le buste in macchina, mi godei per la prima volta la vista di Raven’s Hill. La cittadina, che contava all’incirca cinquemila abitanti, era piuttosto ordinaria.
Pulita, semplice ed oppressa da lunghe nuvole plumbee, la vita, all’interno di quel paesino, sembrava svolgersi con un entusiasmo sbiadito dalla bile.
Le donne tornavano a casa con passi lenti e pesanti, i fiori sui davanzali piegavano la testa gravati dal maltempo, le cameriere portavano le ordinazioni a clienti pigri ed indolenti.
Una ragazza completamente nuda dal ventre squarciato attraversava la strada di fronte a me.
Inchiodai di colpo, istintivamente, salvo poi maledirmi per ciò che avevo appena fatto.
Le persone normali non fermano la macchina in mezzo alla strada perché hanno visto uno spirito.
Socchiusi con forza gli occhi sperando che non se ne fosse accorta e che continuasse a vagare nel nulla eterno dell’Altrove. Cercai di ripartire, ma lei si girò di scatto nella mia direzione, fissandomi con i suoi occhi bianchi, privi di qualsiasi espressione se non della consapevolezza di ciò che ero in grado di fare.
Chiusi completamente le palpebre respirando profondamente. Forse se ne va. Forse se ne va. Forse se ne va. Forse se ne va. Forse se ne va.
Aprii lentamente gli occhi. Era possibile che le mie preghiere fossero state ascoltate? Lo spirito era sparito?
Una mano cinerea, fredda, rigida, mi afferrò il braccio. Se non mi giro sparisce.
Il suo respiro fetido aumentava. Se non mi giro sparisce.
La sua mano, la mano di un cadavere fresco in balia del rigor mortis, era ancora lì, sul mio avambraccio, stretta così forte da lasciarmi dei lividi.
<< Credevo di piacergli >>
Mormorò con voce tremante mentre qualcosa le fuoriusciva dalla bocca impedendole di dire altro.
Mi girai verso di lei. Non potevo fare più nulla, mi aveva vista, ed era inutile continuare a pregare.
Ora sapevo cosa usciva dalla sua bocca: era sangue, era vomito, ed era sempre sangue nero e lento quello che le colava dai seni martoriati e dallo stomaco sventrato.
<< Vattene via>>
Scandii guardandola fissa negli occhi privi di espressione.
<< Perché mi ha fatto questo?>>
Urlò afferrandomi convulsamente il braccio, stringendolo fino a lacerare con le unghie la carne arrossata, vomitandomi addosso ciò che una volta era nel fegato e negli altri organi vitali.
<< Vattene via! Vattene! Lasciami in pace. Vattene! >>
Gridai così forte che i passanti si voltarono a fissarmi nonostante tutti i finestrini fossero alzati. Con l’urlo di un’aquila ferita, tanto acuto da perforarmi i timpani, la donna si scostò da me, quasi come se il contatto con la mia pelle l’avesse ustionata.
Si ripiegò su se stessa, sempre di più, stringendo il petto sulle ginocchia ossute e bianche. Le mani segnate da profonde vene, graffiarono le cosce lasciando lunghi segni neri e profondi.
Le vertebre della colonna sembravano bucarle la pelle, spingere verso l’esterno in una lotta di supremazia, ed i capelli lucidi e neri le battevano addosso cercando di avvolgerla e portarla via.
Afferrai la busta della spesa dal sedile posteriore, sfilai la chiave dal cruscotto, e nonostante lei fosse sparita senza lasciare traccia, sbattei la portiera dell’auto, correndo verso casa sotto lo sguardo sbigottito della gente.
Corsi, corsi contro il vento d’ottobre, contro lo sguardo sbigottito dei passanti, corsi contro il mondo.
Il cuore batteva forte, veloce come le ali di un colibrì, desideroso di essere sputato fuori dalla gola mosso da un impeto di pietà e amor proprio. I muscoli delle gambe si appesantivano sempre di più ad ogni falcata, intorpidendosi, contraendosi dolorosamente.
L’aria fredda mi spiaccicava in faccia i capelli bianchi con frustrate fredde e lisce.
Salii i gradini del porticato così velocemente che per poco non inciampai sui miei stessi piedi e, solo quando infine aprii la porta di casa, chiudendomela alle spalle riuscii a respirare.
Non sapevo neanch’io per quanto avessi corso. Due, tre chilometri? Non era importante, l’unica cosa che davo per scontato era di dover chiamare un carroattrezzi per riavere la macchina perché io non sarei uscita di casa neanche per tutto l’oro del mondo. Sperando di non essermi persa niente per strada, andai in cucina dove il nonno se ne stava a guardare il telegiornale.
<< Dopo chiamerò il carroattrezzi>>
Dissi facendo la mia entrata in cucina cercando di riacquisire un minimo di calma, e quindi di concentrarmi su qualcos’altro che non fosse il mio stato d’animo attuale.
Con un sospiro mi avvicinai al lavabo. Avevo bisogno di sciacquare via i segni che lo spirito mi aveva lasciato addosso, come se un po’ d’acqua corrente potesse servire a qualcosa. Chiusi gli occhi.
<< Come mai il carroattrezzi?>>
Chiese senza dar cenno di preoccupazione, gli occhi fissi sul televisore.
Con uno sbuffo, afferrai l’asciugamano di spugna poggiato sul tavolo, andando a recuperare poi una padella in cui poter riscaldare le alette precotte.
<< Non riuscivo a far ripartire la macchina>>
Mentii andando alla disperata ricerca dell’olio che riuscii a scovare nell’angolo della cucina, sepolto dietro scatolette di fagioli e ceci.
<< Che strano, ieri sembrava funzionare bene>>
Disse continuando a fissare la televisione. Dal mondo in cui parlava non riuscivo a capire se stesse ascoltando ciò che diceva il giornalista oppure no. Sembrava molto più interessato a ciò che si vedeva nello schermo.
<< Beh, forse è ora di cambiarla, no?>>
<< E forse è ora di smetterla con questa recita, chi sei? >>
Mi girai di scatto verso il vecchio che ormai aveva smesso di darmi le spalle e mi fissava con quegli occhi rossi.
<< Come scusa?>>
Chiesi ridacchiando innervosita. Che scherzo era quello? Da quando il vecchio aveva il senso dell’umorismo?
<< Mi hai capito bene, non c’è motivo di ripeterlo>>
Insistette continuando a guardarmi ossessivamente con quello sguardo da corvo che mi spinse ad indietreggiare fino a toccare l’isola.
<< Che cavolo di domanda è? >>
Sbottai seccata. Chi ero? Sapevo bene chi ero, perché diceva certe cose? Di cosa diamine stava parlando?
<< Rebekah è mancina>>
Chiarì indicando la mano destra in cui stringevo saldamente il coltello. Non ero mai stata mancina in tutta la mia vita.
<< Smettila! >>
Gridai e finalmente capii cosa c’era di tanto interessante nel televisore. Il mio riflesso.
Capelli neri, lunghi, serpentini. Sopracciglia scomposte, arricciate. Naso grande, narici larghe. Bocca secca, corrugata in un’espressione di disgusto e inconsapevolezza. Occhi vitrei, inespressivi. Pelle grigia. I miei vestiti erano stati abbandonati chissà dove e lì, dove una volta c’era un ventre piatto e liscio ora, in un gioco perverso, l’intestino si arrotolava pendendo fuori dalla carne.
<< Vattene! >>
Scandì deciso guardandomi con quegli occhi fastidiosi. La mano mi tremava così tanto.
<< Perché?>>
La mia voce era poco più di un sussurro oscillante.
<< Va via >>
Ripeté.
Sostenni il suo sguardo con falsa determinazione. Gli occhi umidi desideravano chiudersi ed abbandonarsi in un disperato grido. Nel petto una sola certezza:
<< Credevo di piacergli!>>
Urlai contro quel vecchio maledetto. Lui non capiva, non capiva niente!
Non avevo fatto nulla di male. Cos’avevo fatto di male? Perché ero lì? Il mondo si sbiadiva in una lenta agonia.
Cercai di aggrapparmi a qualcosa, al dolore, alla rabbia, alla delusione.
Dall’altra parte non c’era nulla. Si moriva continuamente. Afferrai ancora più saldamente il coltello. Non era giusto. Avevo così a lungo sentito parlare dell’immortalità dell’anima, del cielo e degli angeli ed ora mi sembrava tutto così fottutamente ridicolo. Non potevo essere morta. Se fossi morta ora non avrebbe avuto senso, nulla ne avrebbe avuto.
Non sarei stata né in cielo, né in terra; l’Inferno mi avrebbe ignorata. Mi sarei dissolta, sgretolata, sbiadita a poco, a poco e sarei sparita.
Non mi ero mai resa conto che tutto ciò che consideravo scocciature, danni collaterali, in realtà erano le fondamenta della vita. Ora, con la consapevolezza del vero, il nulla eterno si rivelava insopportabile. Quel silenzio … quel buio … il vuoto m’inghiottiva. Avrei barattato tutto per un’opportunità, un attimo, un’emozione che fosse dolore o felicità, qualsiasi cosa piuttosto che il vuoto.
<< Vattene via! >>
<< No! >>
Urlai disperatamente affondando il coltello nell’intestino. Quello che feci dopo fu l’ultimo respiro che tanto avevo agognato. L’ultimo respiro prima di perdere i sensi e morire.

Angolo dell'autrice:
Ciao a tutti! Ok, per prima cosa voglio ringraziare chi è arrivato a leggere fino a questo punto e poi ... boh, ormai si è capito che l'angolo dell'autrice mi mette sempre in crisi >.< Comunque, tralasciando i miei scleri momentanei, cosa ne pensate della storia? Sta proseguendo come ve lo aspettavate?
Vi aspetto al prossimo capitolo,
Ciao ciao

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Capitolo 7
*** Empatia ***


Sesto capitolo
Empatia

 
Riuscire ad aprire le palpebre fu la cosa più difficile che avessi mai potuto fare e che dopo poco iniziai a rimpiangere.
La luce era così forte che avrebbe potuto bruciarmi la cornea degli occhi. Sbuffai tra me e me: ero ancora viva. Come facevo a saperlo? Col cavolo che lassù mi avrebbero aperto le porte del Paradiso.
Poco dopo riuscii a mettere a fuoco le pareti della mia nuova stanza, Victor e un angelo vestito con un abito verde acqua. Ah, no scusate, quella era Nora Jenkins.
<< Cosa è successo? >>
Chiesi con la bocca pastosa come se fossi uscita reduce dall’anestesia di un dentista.
<< Ti sei ficcata un coltello su per lo stomaco>>
Rispose una voce femminile dall’altro lato della stanza. La ragazza, poco più grande di me, se ne stava appoggiata alla porta finestra, con le braccia incrociate sul petto prosperoso e le gambe spinte in avanti.
<< Non sono stata io, quella stronza mi ha posseduto … >>
<< Rebekah non c’era nessuno spirito>>
Disse il nonno facendomi girare di scatto- per quanto ne fossi in grado- verso di lui. Mi stava dando della pazza?
<< Vuoi dire che mi sono pugnalata tanto per divertirmi o per attirare l’attenzione?>>
<< No tesoro, non stiamo dicendo questo >>
Rispose prontamente Nora avvicinandosi al letto accarezzandomi il braccio nello stesso punto in cui mi aveva stretto quella specie di nudista dal ventre spappolato e dove ora se ne stavo cinque piccoli lividi violacei.
Sussultai, scrollandomi di dosso la docile mano della donna.
<< E allora gentilmente mi potreste spiegare? >>
<< Vedi Rebekah, tu hai un dono, una sorta di empatia; lo possiedo anche io, ma in una forma diversa. Questo ti permette di immedesimarti nelle emozioni delle persone con cui vieni a contatto, nel tuo caso con gli spiriti, ed è una cosa positiva il più delle volte perché ti consente di capire cosa provano gli altri, però …>>
<< Se non lo controlli rischi di perdere la tua identità, dare di matto e ammazzare te e chi ti sta intorno>>
Tagliò corto la sconosciuta avvicinandosi.
Lasciai che lo sguardo vagasse nella stanza. Com’era potuto accadere? Solitamente le doti che una persona possiede sono collegate alla sua personalità: l’empatia di solito è  prerogativa di tutti quegli individui dall’animo ben disposto, che preparano biscotti per gli orfani e cedono il posto sull’autobus agli anziani. Tutto questo non aveva nulla a che fare con me.
<< Come posso controllarla? >>
Il nonno scrollò le spalle. Oh, sì che andavamo bene.
<< Con un po’ di esperienza, buona volontà e aiuto>>
<< Senza scordarci un poco di zucchero!>>
Esclamammo all’unisono io e la tizia con la giacca da motociclista, la quale si girò dalla mia parte lanciandomi un’occhiata ambigua.
<< Scusate la domanda, ma come mai non sono in ospedale? >>
Chiesi guardando la flebo con una sacca di sangue, il tubo collegato al mio braccio e l’ago ficcato abbastanza in profondità. Devo dire che non stavo poi tanto male, sembrava che qualcuno mi avesse riempita di botte e ridotta una fisarmonica, però era alquanto gestibile come cosa.
<< Beh, non potevamo dire che hai dato i numeri a causa di un potere che non sapevi di avere e hai ridotto il tuo stomaco a un cheeseburger >>
Spiegò la tizia a cui prima o poi avrei dovuto chiedere il nome, anche perché chiamarla tizia mi sembrava un po’ riduttivo.
<< Capisco … e chi è che mi avrebbe ricucito?>>
<< Jillian>>
Non avrei mai creduto che delle parole pronunciate da Victor potessero scombinare lo stato emotivo di una persona, ma quella volta dovetti ricredermi.
Jillian. Le sue mani all’interno del mio corpo. Le sue dita eleganti, affusolate, che mi sfioravano gli organi. Il mio sangue sporcargli le dita guantate.
Scossi la testa urlandomi che non c’era nulla di erotico. Era disgustoso e malato.
<< Non sapevo che fosse un medico>>
Mormorai tentando di controllare la voce.
<< Tutti i Jenkins sono medici … tranne Jillian, ma lui è un caso a parte>>
Abbassai subito lo sguardo sul mio ventre. Ok, ora iniziavo a preoccuparmi realmente. Prima mi pugnalavo da sola senza che mi rendessi conto di cosa stessi facendo, poi mio nonno lasciava che un tizio senza neanche uno straccio di laurea in medicina mi operasse. Bene, andava tutto così meravigliosamente bene.
<< Non preoccuparti tesoro, Jillian ha tanta esperienza e conosce l’anatomia umana alla perfezione, se non considerasse tutto ciò un hobby sarebbe un ottimo chirurgo>>
In quel momento non seppi come reagire e sinceramente mi chiesi -ma fu solamente per una frazione di secondi- su che cosa avesse fatto esperienza, ma poi mi tranquillizzai. Infondo non potevo essere l’unica deficiente che si feriva, no? Aveva un’intera congrega su cui fare pratica, giusto?
<< Comunque il problema non è risolto, le emozioni dello spirito con cui sei entrata a contatto infestano ancora il tuo corpo >> << Eh? Io veramente non sento niente>>
<< Sei circondata da un’aura estranea, questo capita solamente se hai avuto un contatto con i morti>>
Disse il nonno guardandomi seriamente cosa che non aveva mai fatto prima. Ora mi spiego bene, non è che quando mio nonno mi guardasse i suoi occhi brillavano di contentezza o roba simile, erano semplicemente inespressivi.
<< Hai bisogno di un rito di purificazione, ma è necessario che tu sia in forze, dovrai perdere molto sangue … >>
<< Non vorrei farmi gli affari vostri, ma abbiamo dovuto prendere due sacche di plasma per rimetterla in sesto, quanto ancora ne deve perdere? No, perché se volete chiamo il conte Dracula…>>
S’intromise la ragazza che a prima vista sembrava più affidabile degli altri due.
<< Purtroppo lo deve perdere per flagellazione>>
<< Come flagellazione? Sono appena tornata dal mondo dei morti dopo aver fatto harakiri e ora mi ci volete rispedire!>>
Scattai sul letto.
<< Tesoro, è l’unica soluzione, ma devi metterti in forze prima. Elizabeth si occuperà di te e di tuo nonno finché non starai meglio … più o meno fino a domani. Tutto quello che devi fare è bere questo>>
Chiarì la donna con voce triste: più passava il tempo e più iniziavo a domandarmi se tutta quella bontà e altruismo non fosse in realtà la facciata di un animo oscuro. Mi passò una bottiglietta che prese da dentro la sua borsa. Quando l’afferrai e la guardai più da vicino, capii cos’era.
<< Vi sembro per caso un vampiro? >>
Aggrottai la fronte rigirando la boccetta tra le mani.
<< Con questo starai meglio … e poi il suo proprietario potrebbe alterarsi leggermente in caso di rifiuto: fidati, è una bestia quando s’incazza>>
Oh, che cosa carina, ci mancava pure un donatore psicolabile.
<< Dovresti berla, Rebekah>>
Concluse il nonno uscendo dalla stanza, mentre la donna si avvicinava a me scoccandomi un bacio sulla fronte per poi seguirlo.
Elizabeth, mi diede una pacca sulla spalla.
<< Spero per il tuo bene che tu sia masochista o almeno affetta da CIPA>>

Angolo dell'autrice:
Ciao, eccoci tornati dal mondo dei morti =)
Grazie per le recensioni che avete lasciato, siete stati tutti davvero molto carini, ( ok ora mi sembra di parlare come una nonnina che prepara i biscotti). Spero che questo nuovo capitolo vi piaccia
Alla prossima,
Ciao, ciao

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Capitolo 8
*** Il risveglio ***


Settimo Capitolo
Il risveglio
22 Ottobre 2015, Mercoledì
Quella mattina mi svegliai con l’inspiegabile sensazione di essere osservata e, quando voltai la testa, mi resi conto che tutto ciò non era poi così strano.
<< Ma tu non ce l’hai una camera da letto? >>
Chiesi guardando il ragazzo seduto scompostamente sul materasso, infilato per metà sotto le coperte e comodamente appoggiato alla testata di metallo.
<< Veramente ne ho due, in una ci dormo, nell’altra ci sgozzo povere donzelle in difficoltà>>
Mi alzai di scatto, e irrimediabilmente l’ago della flebo si conficcò ancora più in profondità nel braccio. Con una smorfia di dolore strappai via il tutto, desiderosa di liberarmi di quella roba.
<< Spero vivamente che tu stia scherzando>>
Si girò stringendosi nelle spalle, sorridendo con un’aria angelica.
<< Naturalmente, altrimenti a cosa servirebbero i sotterranei? >>
Abbandonai l’ago sporco di sangue sul guanciale del cuscino, augurandomi per il bene della mia sanità mentale che Jenkins si stesse soltanto prendendo gioco di me. Che poi, pensandoci bene, di cosa mi preoccupavo? Stavo diventando un po’ troppo paranoica.
<< Dovresti andare da un buono psicoanalista, sai? >>
Dissi sollevandomi sui gomiti per guardarlo meglio.
Se la situazione fosse stata diversa forse avrei potuto permettermi qualche distrazione; avrei guardato il volto di Jillian, il suo profilo scandito dalla luce grigia, e lo avrei messo in un angolo dei ricordi, sperando di poterlo conservare anche in vecchiaia. Ovviamente tutto ciò non era possibile.
A volte mi chiedevo come mai qualcosa di così bello, e apparentemente dolce, potesse essere tanto distorto. Qual era il meccanismo, l’ingranaggio spezzato, che rendeva anormale la sua mente e la mia trascinandoci in un vortice di unghiate sui vetri?
<< Ne conosci qualcuno bravo da presentarmi? >>
Chiese sfoderando le fossette sulle guance. Non risposi, abbassai soltanto lo sguardo cercando di ricordare che quello stronzo mi aveva salvato la vita il giorno precedente e non era carino aggredirlo con una cornice.
<< Non fa niente, tanto non avrebbe potuto fare nulla, sono un caso irrecuperabile >>
Ridacchiò di gusto poggiando il capo sulla testiera, inclinando leggermente il volto verso di me. Mi girai: era meglio tenerlo sott’occhio.
<< Sei stato in analisi? >>
<< Ho dato al mio psichiatra un bel po’ di grattacapi, alla fine ci ha rinunciato e si è buttato sull’alcool>>
Si lasciò cadere di fianco, reggendosi su un gomito, posando quindi la testa sul palmo della mano.
Dovevo ancora capire perché quel tizio si trovava nel mio letto, ma avevo come la sensazione che se avessi continuato ad insistere sarei finita come il suo strizzacervelli.
Probabilmente avrei dovuto fare come con i bambini: ignorarlo e sperare così che la smettesse con le sue molestie. Beh, a pensarci bene non era un’ottima decisione: avete presente che fine fanno le vittime di stalking?
<< Come mai sei venuto qui? Non ti annoi a fare sempre le stesse cose? >>
<< Solitamente sì, ma ho pensato che sarebbe stato meglio sorvegliarti questa notte, nel caso in cui il tuo corpo avesse reagito male al sangue, ma vedo che sei in ottima forma … >>
Spiegò mettendosi a cavalcioni su di me, per poi scavalcarmi e scendere dal letto. Era stato per una frazione di secondo, e probabilmente era dovuto alle mie condizioni fisiche, ma per un momento mi era parso di essere stata trascinata fuori dal tempo. Il materasso si era aperto sotto di me, facendomi cadere su una superficie ruvida, e gelida: un vecchio tavolo di legno più grande e più lungo di un uomo. Il soffitto oscillava sopra di me: era buio e m’inghiottiva in una cupola cieca.
I polsi erano rossi, infiammati; lo stomaco una fornace per diavoli che rimbombava, esplodeva, in un miscuglio di viscere e fluidi.
<< … e che hai gradito il pasto>>
Sbattei le palpebre, scacciando via quella strana sensazione. Non vedevo l’ora di sottopormi a quel rito e rifugiarmi nella mia tana da bravo topo.
<< Non mi piace che non mi si presti attenzione>>
<< Questo perché sei un bambino arrogante ed egocentrico >>
Chiarii scalciando via le coperte, mettendomi seduta sulle ginocchia per sostenere meglio il suo sguardo.
<< Capita>>
Disse stringendosi nelle spalle, voltandosi e dirigendosi quindi verso la porta. Oh miracolo, se ne stava andando! Forse quella giornata non sarebbe stata tanto male.
<< Ci vediamo stasera al ballo … ah, indovina chi ti prenderà a frustate? >>
Sibilò con un sorrisetto a trentadue denti, uscendo dalla porta lasciandola chiudere dietro di sé.

Angolo dell'autrice:
Ed eccoci a un nuovo capitolo =) Grazie per le recensioni lasciate e sì ... il pollo piccante salverà la situazione, il pollo é SEMPRE LA SALVEZZA XD
A parte gli scherzi, spero che questo nuovo frammento della storia vi piaccia anche se in relatà è un pò corto ...
Alla prossima,
Ciao, ciao

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Capitolo 9
*** Il dono ***


Ottavo Capitolo
Il dono

 
22 Ottobre 2015, Mercoledì
Quando scesi al piano inferiore – una volta dopo essermi fatta la doccia e vestita, naturalmente- ed entrai in cucina, dissi soltanto poche parole:
<< Si può sapere come ha fatto ad entrare?>>
<< Se ti riferisci a Jillian gli ho aperto io>>
Bofonchiò Elizabeth alzando una mano, mentre mi dirigevo pesantemente verso la tavola, sognando solo di affogare le mie frustrazioni sui pancake con lo sciroppo d’acero.
<< Stai mangiando con la destra>>
Borbottò il nonno continuando a leggere il giornale come se nulla fosse.
Lasciai cadere la forchetta iniziando a fissarmi la mano. Come funzionava questo nuovo potere? Attaccava il sistema nervoso? Perché lo avevo sviluppato? Infondo avevo sempre desiderato avere altri doni con cui rovinarmi l’esistenza, dovevo essere contenta, no?
<< Non preoccuparti, riuscirai a controllarlo>>
Commentò la ragazza trangugiando un pancake con sopra la cioccolata. Beh, ognuno ha i suoi gusti.
<< Come fai a dirlo? >>
<< Per questo>>
Non fece neanche in tempo a finire di parlare che la sua mano prese fuoco. Doveva aver visto il panico e il terrore nei miei occhi perché poco dopo le fiamme smisero di ardere, lasciando una mano illesa, senza neanche una scottatura che potesse testimoniare cosa era appena accaduto.
<< La mia famiglia possiede il dono della pirocinesi da generazioni. Da ragazzina avevo qualche problema a controllarlo e ogni volta che mi facevano saltare i nervi rischiavo di dar fuoco a qualcosa o a qualcuno. Ci ho messo un po’ di tempo, ma ora modestamente lo gestisco alla perfezione, vedrai che per te sarà la stessa cosa>>
Scossi la testa, un po’ per riprendermi da ciò che avevo appena visto, e un po’ per smentire le sue parole.
<< Non è la stessa cosa: io non posso spegnerlo>>
<< Non si sa mai, nella vita tutto è possibile>>
Chiarì riprendendo il suo caffè, soffiandoci sopra.
<< Già, probabilmente hai ragione>>
Mi sforzai di dire con un sorriso autoimposto. La ragazza storse il naso.
<< Cos’è che non ti convince? >>
La fissai. Sapevo che tra le tante domande che mi rimbombavano nel cranio una era di gran lunga molto più importante ed inquietante delle altre.
<< Sai se nei dintorni è morta o sparita una ragazza?>>
Di solito me ne ero sempre sbattuta di ciò che era accaduto ai morti. Perché? Perché erano morti, che domande. Certo, se fossi stata un’altra persona, magari un prete generoso con lo scopo di convertire ragazzi di strada, o un borghese che si candidava alle elezioni sindacali, avrei iniziato a riempirmi la bocca di sproloqui moralisti, ma io ero soltanto, ecco, io.
Perché mai avrei dovuto complicarmi la vita quando ci pensavano già gli altri? Ok, forse potreste credere che magari una volta ogni tanto avrei potuto provare a dare una mano e forse gli spiriti mi avrebbero lasciato in pace, ma abbiate fiducia in me se vi dico che a quel punto sarei diventata l’essere più ipocrita del mondo. Una persona non può essere obbligata a fare del bene, non avrebbe senso.
Ora però le carte in tavola stavano cambiando. Ora potevo sentire quello che provavano. No, aspettate, non è come state pensando: non avevo avuto un repentino cambio di idea o una conversione. Non ero un animo pio, non avevo il minimo interesse di cosa fosse accaduto alla povera donzella- probabilmente Nora era stata precipitosa a definirla empatia questa cosa che mi stava travolgendo- volevo solo sapere con che cosa avevo a che fare.
<< Rebekah>>
Mi richiamò Victor come se avessi incidentalmente offeso la zia di qualcuno.
Se fossi stata in grado di alzare un sopracciglio, quello sarebbe stato il momento opportuno per farlo. Il nonno aveva alzato la voce. Non aveva urlato, o sbraitato, no. Era solo una leggera inclinazione, paragonabile al passaggio tra un Re e un Do. Elizabeth scosse le spalle finendo il suo caffè.
<< Mi dispiace non so niente>>
Corrugai la fronte. Com’era possibile? Una ragazza moriva e quella specie di clan mafioso non sapeva niente? C’era qualcosa che non tornava.
<< Probabilmente è morta tempo fa>>
Disse Victor continuando a leggere il giornale. Diamine, quell’uomo sarebbe riuscito almeno una volta a essere, non saprei, meno se stesso?
<< Il suo corpo era in balia del rigor mortis, ciò vuol dire che deve essere stata uccisa all’incirca ventiquattro, massimo trentasei ore prima che la vedessi>>
<< Ne sei sicura? >>
Annuii e qualcosa nello sguardo della donna mi suggerì che stava prendendo sul serio la faccenda, d’altronde quella era la sua città.
<< Puoi descrivermi com’era fatta?>>
<< A parte il fatto che fosse un po’ grigiognola, aveva capelli neri, lunghi, occhi piccoli, scuri. Il naso era grande, con la radice bassa; la bocca larga, sproporzionata. Non saprei dirti quanto fosse alta, probabilmente un metro e sessanta circa. Era alquanto magra. La cosa più importante, escludendo l’essere nuda e avere un buco nello stomaco, era che continuava a ripetere in modo ossessivo “credevo di piacergli” >>

Angolo dell'autrice:
Ciao =)
Per prima cosa volevo ringraziarvi per le recensioni ricevute - sono molto contenta che la storia vi piaccia- e per seconda avvertirvi che il prossimo capitolo che pubblicherò sarà narrato da un altro personaggio e non da Rebekah, dopo di che la narrazione riprenderà come prima
Al prossimo capitolo,
Ciao Ciao

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Capitolo 10
*** Elizabeth ***


Nono capitolo
Elizabeth
22 Ottobre 2015, Mercoledì
La biblioteca del castello aveva sempre avuto qualcosa di particolare, una sacralità pagana che faceva vacillare i miscredenti ed accoglieva i pentiti; in tutti quei manoscritti polverosi, i grimori di famiglia, le reliquie antiche provenienti dai vari continenti si poteva annusare la vita e la conoscenza di secoli passati.
Tamburellai con le dita sopra la porta di legno intagliata per dar segno della mia presenza alla padrona di casa.
<< Mettiti comoda cara, finisco di fare una cosa e arrivo>>
Sollevai lo sguardo in alto verso la figura che volteggiava tra gli scaffali delle libreria, passando di tanto in tanto l’indice tra libri sconosciuti.
Mi lasciai cadere sulla prima poltrona che trovai, posta vicino all’enorme camino in rovere scuro nella cui profonda gola brontolavano braci rosseggianti.
Fu su quest’ultime che mi cadde lo sguardo e mi persi nel loro calore famigliare.
Dovendo tenere un occhio su Rebekah e uno su Victor, avevo dormito pochissimo, quasi per niente e ora, con il crepitio del fuoco, l’aroma di cognac nell’aria, e il cuscino di piume sotto la testa, mi sentivo a casa.
Stavo per crollare quando mi accorsi della vicinanza di una figura e dovetti sbattere le palpebre più volte per realizzare chi avevo davanti. Avvolta nella sua lunga gonna bianca Nora mi stava guardando con un sorriso materno sul volto, velato da un leggero senso di colpa.
<< Non c’era bisogno che venissi subito, potevi riposarti prima di passare qui>>
Mormorò con voce soffice sedendosi sulla poltrona bordeaux difronte alla mia, accavallando le gambe coperte dalle calze. Scossi la testa spingendomi con il busto in avanti.
<< Non fa per me lasciare i lavori a metà>>
Spiegai prendendo il bicchiere a tulipano contente il cognac che lei aveva appena versato. Prima di poggiare le labbra sul vetro, avvicinai delicatamente il calice al naso, facendomi catturare dall’immediato, tenue odore, per poi ruotarlo leggermente liberando gli aromi più forti e fruttati.
Infine bevvi a piccoli sorsi, lasciando che il liquido scorresse nella mia bocca, lungo la gola, sprofondando in getti agrodolci nell’esofago.
<< Lo so, ma mi dispiace ugualmente>>
Con quelle parole, chiuse la bottiglia di vetro, impedendo che gli aromi del liquore si disperdessero tra le mura alte della biblioteca. Gli unici spazi lasciati liberi dall’ingordigia degli scaffali erano il camino e la facciata al di sopra di esso sulla quale faceva spettacolo un arazzo rappresentante la battaglia tra San Giorgio e il Drago.
<< Beh, non si può dire che non avessi compagnia>>
Jillian aveva avuto la brillante idea di fare la sua comparsa nella camera da letto della bella addormentata così non avevo dovuto passare tutta la notte da sola e fortunatamente aveva portato con sé un mazzo di carte da poker e un termos pieno di caffè.
Prima regola del codice: accorrere quando un amico ha bisogno di te.
<< Jillian deve essersi proprio innamorato>>
Disse con un sospiro che era un misto tra malinconia per il tempo passato e felicità. Storsi il naso: Jillian innamorato? Se avesse detto che i mutandoni di lana erano tornati nuovamente di moda sarebbe stato più credibile, e poi … dopo soli tre giorni? Cos’era, un harmony?
Alzai le mani, scrollandomi di tutte le responsabilità.
A dire il vero quella storia aveva qualcosa di estremamente famigliare: mi ricordava la volta in cui il mio caro e vecchio cugino si era appassionato allo studio degli anfibi e per non sentirsi solo aveva coinvolto me ed André.
Avevamo quasi dodici anni e, dopo aver percorso dei chilometri con le bicilette, ci eravamo gettati come matti nel fiumiciattolo nel tentativo di catturare più rane possibili. Ne prendemmo trentadue, nel giro di una settimana Jillian ne aveva dissezionate tredici.
Quello era solo uno dei tanti piccoli avvenimenti che mi facevano credere che ogni cosa vivente al di fuori della congrega per cui il ragazzo provava interesse finiva squarciata in due su un tavolo di anatomia.
<< Allora, ci sono novità? >>
Domandò sistemandosi le pieghe della gonna, mentre mi facevo avanti per poggiare il bicchiere sopra il mobile intagliato.
<< Per ora non ha avuto altre crisi, ma i suoi riflessi sono palesemente condizionati dallo spirito>>
<< Capisco>>
Borbottò con voce così fioca che mi fu quasi difficile udirla. Il rito doveva essere compiuto il prima possibile, questo era certo, ma con la festa di mezzo sarebbe stato un bel problema.
Jillian ne parlava da un mese, André da più di quattro e sembravano entrambi eccitati all’idea della sala da ballo piena di gente; ero più che certa che l’avvocato avesse parlato di una chiaroveggente con tre seni, o come l’aveva definita lui “la leggi-palle con tre tette”.
<< C’è un altro problema, sta iniziando a fare domande>>
Annuì silenziosamente accarezzando il bordo del libro rilegato in pelle risalente al sedicesimo secolo, o almeno era questa la data che gli attribuiva l’iscrizione sul lato.
<< Possiamo tenerla a bada fino alla fine del mese>>
<< Ne sei sicura? >>
Si strinse nella spalle abbandonando il libro sopra la poltrona, avvicinandosi al vecchio camino. Le sue mani erano incrociate dietro la schiena, appena sotto la camicia celeste, pronte ad accarezzare le punte delle lunghe ciocche bionde che ricadevano come una cascata lungo il profilo del suo esile corpo.
<< È la cosa più giusta da fare, non possiamo permetterci il lusso di fidarci della prima persona che passa, senza contare il fatto che lei è cresciuta in un mondo completamente diverso dal nostro, retto da norme morali e civili assurde. No, continuiamo in questo modo>>
Non stava guardando me. Si era persa nei ricami dell’arazzo appeso alla parete, sulla spada estratta dal santo e sulle fauci spalancate dalla bestia.
<< Per il rito invece, come la mettiamo?>>
<< Stasera sarà tutto pronto>>

Angolo dell'autrice:
Salve a tutti =)
So che vi aspettavate tutti Jillian però spero che il capitolo vi piaccia lo stesso. Ora, domanda importantissima: che ne pensate di Elizabeth? Vi piace?
Al prossimo capitolo con Rebekah
Ciao, Ciao

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Capitolo 11
*** Il ballo in maschera - prima parte ***


Decimo Capitolo
Il ballo in maschera - prima parte

 
22 Ottobre 2015, Mercoledì
Sapete, c’era sempre stata una domanda che mi gironzolava in mente: qual è il miglior antistress da adottare quando condividi lo stato emotivo di una donna vittima di violenze sessuali barbaramente uccisa?
Non so quale possa essere la vostra risposta, ma io mi diedi al bricolage.
Quel pomeriggio decine e decine di articoli di giornale caddero sotto la furia delle mie forbici. Incidevo, sminuzzavo, tagliavo, spezzettavo, sbriciolavo, squarciavo, e così di tutti quei bei caratteri neri e rotondetti non era rimasto altro che brandelli di carta, rimasugli da appallottolare insieme e gettare al cestino.
Se fare ciò può sembrare frustrante, lo era molto di più sorprendermi mentre utilizzavano la mano sbagliata per soddisfare tutte quelle necessità, o mi riscoprivo con il desiderio di voler infilzare qualcuno con quelle forbicine; non che quest’ultima sensazione mi fosse estranea, a dire il vero.
Non vi è mai capitato di fissare un oggetto pesante che avete tra le mani e di provare nell’intimo la voglia di colpirci qualcuno, non per qualche male che ci ha arrecato, ma solo per vedere la sua reazione?
A me era successo varie volte, ma non mi ero mai spinta più in là del semplice fantasticare: era lo svolgersi degli eventi a preoccuparmi, ma soprattutto le conseguenze che questo gesto ne comportava.
Probabilmente ciò era alquanto normale, chi voglio ingannare, dopo essere stata rinchiusa l’ultima cosa che volevo fare era dare un pretesto per rivisitare le celle del manicomio.
Quando l’orologio a cucù della salotto segnò le ventidue capii che ormai non potevo più indugiare e che era tempo di rimboccarsi le maniche.
Se per le menti comuni era giusto e quasi scontato che Victor mi accompagnasse ed assistesse alla seduta, è necessario ricordare che quell’uomo ragionava con una logica tutta sua.
<< Vado a dormire>>
Furono queste le sue parole di conforto prima di sparire nella sua camera da letto a piano terra. Con un sospiro infilai la giacca grigia, la sciarpa a scacchi gialla e nera, presi le chiavi della macchina ed uscii di casa.
Sospirai. Cosa mi succedeva? Non ero mai stata quel tipo di persona. Non accettavo quello che mi passava sotto il naso quietamente, anzi, di solito mi ritrovavo a dimenarmi come un pesce dentro ad una rete, e forse era proprio così che mi sentivo. Quella volta la rete era diventata troppo stretta, ed io ero stata trascinata via dall’acqua con una rapidità tale da non riuscire ad orientarmi.
Il problema che mi si poneva davanti era solo uno: cosa dovevo fare? Sottopormi a quel rito sembrava la cosa più logica momentaneamente, ma poi? Non potevo andare avanti in quel modo.
Picchiettai con le dita sopra lo sterzo, e con un sospiro partii per il castello.
Nonostante fossi giunta a Raven’s Hill da pochi giorni, sembrava che la prima impressione che avessi avuto fosse quella giusta: una città nera che scoppiettava nella sua quotidianità.
Le finestre delle villette in stile vittoriano erano illuminate e al loro interno le famigliole si apprestavano a terminare le proprie faccende. I bambini riempivano gli zainetti, le mamme staccavano le lavatrici, i papà spegnavano il televisore. Il gatto e il cane con uno sbadiglio si stiracchiavano sul tappeto del salotto.
Era un posto strano quello, dotato di una perfezione anormale, di un ciclicità tranquilla che non poteva essere interrotta, eppure nonostante ciò, qualcosa era successo. Era morta una donna e nessuno ne parlava. Sembrava che il mio fantasma fosse stato ingoiato dall’asfalto pulito o dalla luce fioca dei lampioni ed anch’io, mentre abbandonavo quelle stradicciole debolmente illuminate, sentivo di sparire poco a poco.
L’oscurità degli alberi morti e neri mi accompagnava nei gironi di quell’inferno che si dischiudeva con porte di ferro protette da mastini di pietra.
Quella notte al palazzo era festa. Il grande cortile era rischiarato da un susseguirsi di candele le cui fiamme oscillanti somigliavano agli occhi di un famiglio. Le grida, le urla, le percussioni erano a stento contenute dalle mura possenti.
Non erano gli invitati a far festa quella notte, erano i diavoli.
Scossi la testa, e con rassegnazione parcheggiai l’auto vicino alle altre vetture, scivolando via dal sedile. Una volta giunta davanti al grande portone, bussai, animata dalla speranza che il maggiordomo mi venisse ad aprire.
Fu quella la prima volta che ci feci caso; quei capitelli che giorni prima erano velati dall’oscurità, ora si mostravano alla luce dei mille occhi luccicanti del cortile. Gli Shay avevano come emblema un corvo, i Jenkins, un’aquila.
Improvvisamente il maggiordomo spalancò il portone, ed il vociferare che sentivo dall’esterno si trasformò in un profondo grugnito di voci e suoni duri.
<< I signori l’aspettano nella sala da ballo, lasci pure a me il soprabito>>
Disse il vecchio con la solita voce asfissiata e le guance così rosa da sembrare una donna o un bambino piccolo.
Lasciai il cappotto e la sciarpa all’uomo, mettendomi alla ricerca della sala. Non doveva essere difficile trovarla, bastava seguire i rumori, no?
E di rumori ce n’erano molti. Crescevano, stridevano, cessavano e ricominciavano. Più forte, sempre più forte. Sbattevano e stridevano, sbattevano e stridevano. L’aria cigolava sottomessa al caos. I corridoi lunghi e spenti tremavano al suono di quegli strumenti da dentista. Trapano, ferro freddo contro dente bianco e limpido. Sega, scintilla, ferro. Aprii la porta: l’ultima difesa prima di essere inghiottita dalla bolgia.

Note dell'autrice:
Ciao a tutti =)
Grazie per le recensioni lasciate, sono contenta che la storia vi piaccia e scusate per il ritardo ma ultimamente sono un pò occupata =P
Alla prossima, ciao, ciao

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Capitolo 12
*** Il ballo in maschera - seconda parte ***


Undicesimo Capitolo
Il ballo in maschera - seconda parte

22 Ottobre 2015, Mercoledì
<< I signori l’aspettano nella sala da ballo, lasci pure a me il soprabito>>
Disse il vecchio con la solita voce asfissiata e le guance così rosa da sembrare una donna o un bambino piccolo. Lasciai il cappotto e la sciarpa all’uomo, mettendomi alla ricerca della sala.
Non doveva essere difficile trovarla, bastava seguire i rumori, no? E di rumori ce n’erano molti. Crescevano, stridevano, cessavano e ricominciavano. Più forte, sempre più forte. Sbattevano e stridevano, sbattevano e stridevano. L’aria cigolava sottomessa al caos. I corridoi lunghi e spenti tremavano al suono di quegli strumenti da dentista. Trapano, ferro freddo contro dente bianco e limpido. Sega, scintilla, ferro.
Aprii la porta: l’ultima difesa prima di essere inghiottita dalla bolgia.
I gas e l’oscurità interrotta da raggi di luci rosse mi pervasero. L’alto volume, il battito penetrante delle bacchette sulla batteria, il tremare delle casse; corpi che si scioglievano, lentamente e scendevano e si contorcevano.
Unghie affilate accarezzavano e percorrevano toraci seminudi e bustini di lattice neri, graffiando una volta che avevano trovato ciò che tanto agognavano.
Fui colpita da qualcosa che mi spinse a voltarmi. Mi ritrovai davanti agli occhi la faccia lardosa e grassa di un maiale indossata da un uomo con calze a rete rosse. Tra le mani un guinzaglio legato ad un ragazzo poco più giovane di me.
Il cane era alto all’incirca un metro e settanta, pallido, emaciato, dagli zigomi alti, l’eyeliner sbavato intorno agli occhi grandi e lucidi, il vestitino bianco e il petto piatto ornato da collane di perle.
Non feci neanche in tempo a scansarmi che fui colpita da un altro invitato. Il suo busto era troppo largo per una persona sola. Quando alzai lo sguardo, vidi due teste e due colli uniti ad una sola colonna vertebrale.
Cercai di farmi strada tra la folla indistinta che si mescolava e mischiava come un liquore malsano una volta liberato dalla bottiglia.
Stare in mezzo a quell’orgia indistinta forse non fu una buona idea.
Una donna con un cappellino a retina e un corsetto perlaceo si strusciò contro di me lentamente. Indietreggiai per evitare di essere toccata ma andai a sbattere contro qualcosa.
Quando mi voltai un nano tozzo con la faccia sporca di trucco scenico mi sorrise malvagiamente lasciando che mille spuntoni mi punzecchiassero la pelle in risposta a quel gesto.
Mi allontanai addentrandomi ancora di più all’interno dell’abominevole agglomerato provando a scorgere il volto famigliare di Elizabeth o di Jillian.
Non cercai Nora: sarebbe stato utile come tentare di trovare una vergine all’interno di un bordello. Nel tentativo sbattei nuovamente contro qualcuno.
Questa volta fui più fortunata ed invece di trovarmi di fronte il viso deforme di un ospite incrociai lo sguardo di un uomo molto più fedele ai miei schemi mentali, anche se nella mia testa non avevo mai immaginato un uomo con una bocca così dannatamente sensuale.
<< Sei la nipote di Victor?>>
Urlò per farsi sentire, superando il suono stridente della chitarra elettrica e la voce lasciva del cantante.
<< Sì>>
Gridai a mia volta. Una smorfia si diffuse sul suo viso. Aveva quell’espressione mezza schifata e innervosita che sembrava voler dire “non si capisce niente con questa musica”.
Mi afferrò per il polso, trascinandomi via dalla folla.
Non lottai e sinceramente non pensai neanche che quel tizio mi potesse far del male. Conosceva Victor. Mi poteva dare una mano? Non lo sapevo. Probabilmente era un membro della congrega.
In pochi minuti mi ritrovai fuori dall’inferno, in un angolo della sala lontano dagli amplificatori che era stato adibito a privé per coloro che avevano avuto la decenza di dar sfogo ai loro istinti animaleschi lontano dallo sguardo altrui. Forse ero stata precipitosa a fidarmi di quell’individuo.
<< Tu chi sei? >>
Chiesi allarmata, notando che ora non era più necessario sforzare più di tanto le corde vocali per parlare.
<< André Johnson … non preoccuparti, non ho intenzione di mangiarti>>
Sarei dovuta essere irritata o forse preoccupata dalle sue parole, ma c’era qualcosa nella sua voce.
Era bassa, deliziosa, profonda.
Tutto in lui sembrava così … penetrante.
<< Anche perché altrimenti qualcuno gli spezzerà le gambe>>

Angolo dell'autrice:
Ciao a tutti =)
Ce ne ho messo di tempo, ma sono tornata con un nuovo capitolo che spero vi piaccia =)
Al prossimo capitolo,
Ciao, Ciao

 

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Capitolo 13
*** Il ballo in maschera - terza (e ultima) parte ***


Dodicesimo Capitolo

Il ballo in maschera - terza parte
22 Ottobre 2015, Mercoledì
<< Tu chi sei? >>
Chiesi allarmata, notando che ora non era più necessario sforzare più di tanto le corde vocali per parlare.
<< André Johnson … non preoccuparti, non ho intenzione di mangiarti>>
Sarei dovuta essere irritata o forse preoccupata dalle sue parole, ma c’era qualcosa nella sua voce.
Era bassa, deliziosa, profonda. Tutto in lui sembrava così … penetrante.
<< Anche perché altrimenti qualcuno gli spezzerà le gambe>>
Commentò una voce meravigliosamente famigliare.
Dietro le spalle larghe e ampie del libertino, Elizabeth fece la sua comparsa.
<< Uhm, non credevo che fossi così possessiva ma chérie>>
<< Parlavo di Jillian, cosa vuoi che me ne importi di te >>
Chiarì con un sorrisetto sarcastico sul volto.
Elizabeth quella sera era tutto quello che io non sarei mai stata neanche se l’avessi voluto.
Indossava una giacca nera sbottonata che mostrava la linea piatta del ventre, le forme generose dei seni avvolti in un reggiseno di pizzo bordeaux. Le gambe erano fasciate da pantaloni aderenti di pelle, dai quali fuoriusciva il bordo del tanga. Ai piedi, decolleté con tacchi a spillo alti almeno tredici centimetri.
Non le rispose, ridacchiò soltanto, con uno sguardo che diceva chiaramente: non ci credi neanche tu. Lei lo ignorò.
<< Hai bevuto qualcosa? >>
Scossi la testa. L’ultima cosa che volevo fare era raggiungere uno stato d’incoscienza in mezzo a tutta quella gente.
<< Vieni con me >>
Disse facendomi strada verso il piano bar illuminato da luci rosse.
Lì non si erano fatti mancare niente, d’altronde quando hai un castello e fai parte della mafia a volte può succedere.
<< Mi puoi fare un Cosmopolitan e … >>
<< Un Long Island >>
Aggiunsi guardando il barista. C’era qualcosa nel suo aspetto che non mi convinceva, forse perché le profonde cicatrici che aveva intorno ai polsi e al collo le avevo già viste molte volte sui pazienti dell’ospedale, o forse perché quelle somigliavano molto alle mie.
<< Per me un Orgasm, grazie>>
Ordinò André beccandosi un’occhiataccia di Elizabeth alla quale rispose con una scrollatina di spalle e un sorrisino innocente. << Cosa stavi dicendo prima di Jillian? >>
Chiesi tamburellando con le dita sopra il bancone del bar.
Lei si girò verso di me. Nei suoi occhi balenò qualcosa, un pensiero, un’idea improvvisa, ma si limitò a scrollare la testa e a rispondere:
<< Nulla di cui tu debba preoccuparti>>
Non fece neanche in tempo a pronunciare quelle parole che un enorme, unico grido si levò dalla folla diffondendosi, toccando le pareti, rimbombando nella cupola del soffitto e aumentando sempre di più quando egli si mostrò completamente.
Jillian in quel momento sembrava un dio sceso in terra, imbevuto di gloria, che si manifestava ai suoi fedeli ricevendo onori ed adorazione.
I credenti si fecero da parte prostrandosi per far strada al re incoronato di ulivo e superbia che agevolmente, accompagnato dall’ondulare del suo soprabito nero, saliva sul palco.
Una volta salito sul piedistallo, si spogliò del mantello, gettandolo a terra, con una nonchalance che si apprende solo dopo anni e anni passati a ricevere l’approvazione altrui.
<< Salve ragazzi, vi sono mancato? >>
Quelle parole, miste tra semplicità e presunzione, avevano provocato una forma di completa venerazione. Le donne urlavano, ricercando l’attenzione del loro idolo, gli uomini rimanevano lì, a guardarlo con occhi attoniti, segnati dall’ammirazione e dall’invidia, gridando a loro volta.
Mi girai verso i due ragazzi: André si era abbandonato sullo sgabello del piano bar, Elizabeth guardava l’intera scena indifferente.
<< Tutto ciò è normale? >>
<< Tu che dici? >>
Improvvisamente le urla cessarono.
Non aveva detto nulla di particolare, anzi, non aveva proprio aperto bocca eppure, quel suo lento portare un dito sulle labbra in segno di silenzio, accompagnato da un sorriso compiaciuto aveva avuto l’effetto sperato.
<< Vi sono molto grato fratelli miei; erano mesi che aspettavo di incontrarvi, mesi che desideravo rivedere i vostri volti e ora siete tutti qui con me.
Questa serata è qualcosa di straordinario, rappresenta ciò che noi siamo e che non potremo mai cambiare. Questa sera, abbiamo l’opportunità di mostrare le nostre vere facce senza filtri e ipocrisie ed è proprio tutto ciò che dimostra la nostra superiorità. Il mondo è falsamente dominato da formiche sterili inzuppate da principi svenduti e cervelli polverosi tuttavia, in un piccolo angolo oscuro della coscienza, ci siamo noi.
Siamo tutto ciò che loro non potranno mai essere e che invidierebbero fino alla pazzia se venissero a sapere della nostra esistenza. Noi non siamo solo vampiri, licantropi o stregoni. Noi siamo delle divinità.
Vediamo ciò che questo mondo di ciechi non può vedere. Sentiamo cose che distruggerebbero secoli e secoli di equilibri terreni. Conosciamo cose che potrebbero ridurre il mondo in polvere bruciata.
Ora, fratelli miei, ora che si avvicina un nuovo ciclo, festeggiamo, e ricordiamo a noi stessi qual è la vera ed unica unicità. Quell’unicità che abbiamo fin dalla nascita come diritto; quell’unicità che scaturisce dalle nostre qualità; quell’unicità semplicemente grandiosa che non potrà mai essere soffocata da un insulso principio di uguaglianza. Festeggiamo fratelli, perché un nuovo anno sta per iniziare e pianteremo a terra il nostro vessillo nero!>>
Un urlo omogeneo si levò dalla sala in onore al re.
Jillian era arrogante, lo sapevo, ma non avrei mai potuto immaginare che riscuotesse tanto successo.
Osservare quella scena, quella situazione, mi faceva bruciare gli occhi e le viscere. È forse sbagliato credersi superiori quando lo si è realmente?
Ad una tale domanda non sapevo cosa rispondere. La mia vista era troppo infettata dal buonismo sociale che ricercava un mondo uguale, perfetto, senza discriminazioni, che non riuscivo a vedere chiaramente.
La figura del giovane, avvolta in abiti scuri, sembrava quasi stagliarsi contro i soliti precetti morali, abbatterli uno ad uno, e mostrare quella che per lui era la via più realista ed adatta.
Mi strinsi nelle spalle, cercando di soffocare i lunghi brividi che mi percorrevano il corpo. Nelle orecchie mi rimbombava una sola e semplice parola, una litania al maligno, un rito di profanazione. Jillian.

Angolo dell'autrice:
Salve a tutti ! Mi dispiace di essere mancata per un pò ma ho avuto un pò tanto da fare - ormai la tastiera del pc era diventato un miraggio XD
Comunque, lasciando perdere gli affari miei, spero che questo nuovo capitolo vi piaccia =)
Ciao, ciao

 

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Capitolo 14
*** Il rito - prima parte ***


Tredicesimo Capitolo

Il rito - prima parte

22 Ottobre 2015, Mercoledì
Il mio respiro mozzato in gola era un pugno nello stomaco che non faceva altro che dolere e beffeggiarmi, sussurrandomi di essermela andata a cercare.
Indovina chi ti prenderà a frustrate? Era tutto quello che riuscivo a pensare mentre Nora, con tono rassicurante e materno cercava di spiegarmi come e cosa bisognava fare.
Perché il nonno non era venuto? Perché mi aveva lasciato da sola?
Scossi la testa: ci ero abituata, quella notte non sarebbe cambiato nulla nella mia vita.
C’ero sempre stata soltanto io, Victor era una bella decorazione che esisteva per ricordarmi di avere uno straccio di legame famigliare su questa terra che non aveva come ambizione quella di rinchiudermi in una cella.
Strinsi le mani a pugno annuendo alla donna. Dovevo denudarmi altrimenti sarei tornata a casa con i vestiti a brandelli e non era esattamente il momento adatto per giocare al remake dell’Alba dei morti viventi.
Mi liberai del maglioncino color caffè, della camicetta bianca, piegandoli accuratamente per poi posarli sopra ad un lungo tavolo di legno che aveva un che di famigliare, probabilmente lo avevo visto in qualche film horror o in uno di quei quadri antichi che ricoprono le pagine dei libri di scuola.
Slacciai le scarpe e le tolsi insieme ai calzini, appoggiando i piedi sul pavimento gelido del sotterraneo.
A quel contatto trasalii. La pietra era la lastra ghiacciata di un lago che ad un mio minimo movimento, un passo, una svista, poteva spaccarsi e farmi affondare in un abisso nero e profondo.
Sbottonai i pantaloni facendoli scivolare lungo le cosce bianche illuminate dalla luce delle candele.
Ridacchiai tra me e me. No, non la pagavano le bollette.
<< Stai bene, cara? >>
Chiese la donna preoccupata per la mia risata isterica. Annuii.
<< Sì, va bene così? >>
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Al suono di quella voce persi un colpo al cuore.
Mi voltai di scatto, verso l’arcata di pietra che si snodava per chissà quali corridoi e lui era lì, con quell’espressione tutta sua, una curiosità annoiata che fremeva per evolversi in qualcosa di più.
Guardai Nora.
<< Devo proprio? >>
<< Sì >>
A rispondere fu Elizabeth che sbucò subito dopo le spalle del giovane. Con sé aveva delle candele bianche visibilmente consumate.
Sistemò gli oggetti che recava in mano sulle punte del grande pentagono che era stato tracciato a terra con del sale. Attorno a questo, lungo il perimetro di un cerchio contenitore, scritte di una lingua a me ignota sembravano essere lì a testimoniare quello che sarebbe accaduto.
Nel cuore della stella a cinque punte, si trovava un rialzo in pietra affiancato da due sbarre di metallo visivamente corrotte dagli anni a cui erano agganciate delle catene.
Sbuffai: non avrei lasciato che la versione ariana di Hitler mi mettesse in un angolo.
Con una mossa veloce sganciai il ferretto del reggiseno e lo sfilai via, cercando immediatamente di coprirmi.
<< Seguimi per favore>>
Le parole di Nora erano un velo delicato.
Come poteva quella donna, una sconosciuta, avere così tanto a cuore gli altri? Una voce nella mia testa mi suggeriva che se fossimo stati tutti come lei, il mondo sarebbe stato un posto più pulito, sicuro. Se fossimo stati tutti come lei, la realtà che conoscevo non sarebbe esistita.
Mi inginocchiai sopra l’altare bianco.
Nonostante fossi voltata, sentivo lo sguardo di Jillian su di me. Le braci spente che aveva negli occhi sembravano essere state ravvivate da una folata di vento ed ora bruciavano sul mio corpo rendendolo caldo e stanco.
Le luci delle candele galleggiavano nell’aria tiepida, mescolandosi tra di loro, sciogliendosi in un flusso di fiamme tremolanti, dondolando e ondeggiando a ritmo di una debole danza a cui le distorte pareti della stanza partecipavano.
Il soffitto oscillava, cadendo a terra, per poi rialzarsi e cadere nuovamente in una cascata di fluidi di pietra. Il naso mi bruciava per il pungente odore di erbe.
<< Dove sono Nora ed Elizabeth?>>
Domandai cercando con lo sguardo le due donne che parevano essersi dissolte con la camera. I passi di Jillian erano così vicini.
Posò le mani sulla mia carne nuda. Avrei dovuto sussultare, avrei dovuto fare qualcosa. Avrei dovuto.
Le sue dita eleganti percorsero lentamente le mie braccia in un susseguirsi di brividi bollenti che si sparsero lungo i seni, lo stomaco, il ventre. Non avrei mai pensato che quel senso di impotenza, il languore che si era impadronito delle mie membra, potesse essere così piacevole.
Sentii le catene oscillare al mio fianco. La loro morsa sui miei polsi era così fredda, rigida.
<< Dove sono?>>
Mormorai nuovamente. La mia voce sembrava così lontana. Era un suono estraneo che non avevo mai sentito prima. Improvvisamente Jillian mi afferrò i capelli in una morsa, reclinandomi con violenza la testa all’indietro, lasciando che le candide dita si mischiassero alle ciocche lisce e lunghe in un perverso gioco di luce bianca.
Sentii le sue labbra provocanti lasciarmi un bacio sensuale sulla gola ed io non potei far altro che sospirare di piacere. Il tocco leggero di Jillian sulla mia pelle era uno squarcio d’estasi nel vuoto, la voluttà nell’abisso.
Si avvicinò sempre di più. Sapeva di erbe e whisky.
<< Lo sapevo che poteva essere divertente>>
Mi sussurrò nell’orecchio dedicandomi una lunga e lenta leccata sul collo. Presi fuoco. Non come Elizabeth, ma presi fuoco.
Il ragazzo si staccò bruscamente da me, allontanandosi, dirigendosi chissà dove, mentre le voci confuse delle due donne si facevano sempre più vicine.
<< L’hashish sta avendo effetto?>>

Angolo dell'autrice:
Ciao a tutti
Allora eccoci arrivati ad un altro capitolo e ... ok, sarò onesta, non aspetto altro che sentire i vostri commenti su questo ... ehm ... tete a tete tra Jillian e Rebekah. Comunque, tralasciando perdere ciò, cosa ne pensate della storia, vi piace?
Al prossimo capitolo,
Ciao, ciao =)

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