Losing Our Minds

di Michan_Valentine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Leslie Withers ***
Capitolo 2: *** Ruben Victoriano (Ruvik) ***



Capitolo 1
*** Leslie Withers ***


  Capitolo 1 - Leslie Withers

“Male, male, male…”
Continui a ripeterlo sottovoce, a capo chino. A volte il tono è più acuto, più urgente. Altre è un sussurro quasi indefinito.
Il sangue ti cola giù dal naso e ti arriva in bocca. Scorre negli spacchi sulle labbra, ti sporca i denti e il mento. Gocciola sul collo bianco del camice del Beacon Mental Hospital. Il sapore sulla lingua è terribile.
Scuoti il capo, serri le dita tremolanti ai capelli e ti rannicchi contro la parete, dondolando su te stesso. Il muro bianco ti accoglie, ma non ti conforta. È freddo, come il pavimento su cui poggi i piedi nudi.
Gli assistenti del Dottor Jimenez sono stati più cattivi del solito, ti hanno fatto male. Non vuoi più tornare in quella stanza, non vuoi più toccare quella macchina. Non vuoi che lui ti veda e ti entri dentro. Né vuoi entrare dentro di lui. Vuoi tornare a casa, invece, prendere il treno tutto da solo e sorprendere i tuoi famigliari.
“Non puoi scappare, Leslie,” ti dice una voce alle spalle.
È sicura, profonda, esattamente come la ricordavi – non potresti mai confonderla – e ti ferisce dove sei più vulnerabile. T’irrigidisci e il sudore ti scivola gelido lungo la schiena. Gli occhi pungono.
“Non puoi scappare, Leslie, non puoi scappare… non puoi scappare, Leslie…” ripeti stupidamente, agitando le mani attorno al capo.
Ti mordi il labbro già spaccato. L’incisivo rotto pulsa e diventa lama nella carne martoriata.
È un incubo, ma il dolore non serve a dissiparlo. Non sai dove inizia e non sai dove finisce. Ci sei dentro e non sei il solo, tanto basta. Deglutisci e sa di ferro. Lentamente volti il capo e guardi in direzione del piccolo, spoglio letto d’ospedale.
Ad attenderti ci sono due occhi di ghiaccio che ti fissano di rimando dalla penombra del cappuccio. Spiragli pieni d’odio che si aprono su di un viso divorato dalle fiamme. È un predatore quello che siede compostamente sul materasso, in attesa; ma sai che la sua preda non sei tu.
Distogli rapidamente lo sguardo, non puoi – non vuoi – sostenerlo. Punti le iridi a terra e congiungi le mani al petto. Affondi le unghie nella carne, strappi via piccoli pezzi di pelle dai polsi e dalle dita. Nuovi graffi si aggiungono ai vecchi, mentre il nervosismo ti chiude in una morsa più stretta delle cinghie del Dottor Jimenez.
“Non puoi scappare, non puoi scappare, non puoi scappare…”
“Precisamente,” conferma lui, Ruvik, “non puoi andare da nessuna parte. Non senza di me, piccolo Leslie.”
Lo stesso vale per lui, gli hai visto dentro e non può nasconderlo. Non sai se sia un bene o un male, ma sei sicuro di una cosa: ti spaventa. Perché Ruvik è dolore. È buio perenne e odio che brucia, consuma; è labirinti e trappole e mostri annidati nell’ombra. Distorti e pericolosi come la sua mente.
Il tono della tua voce si fa più impellente, più acuto, ma le parole che scandivi diventano un indistinto mormorio. Alle tue spalle lui ti guarda e ti vede. Ti curvi maggiormente verso la parete, a capo chino. Vorresti sparire, ma non puoi sottrarti al suo sguardo. Nessuno può.
“Hai paura di me.”
Non è una domanda, lui sa.
Automaticamente ti appropri del suggerimento, del concetto che meglio esprime il tuo stato d’animo. Lo riproduci, perché la tua piccola mente non sa fare di meglio.
“Paura, paura, paura…” confermi.
Segue un verso sprezzante, forse di beffa. Ti stringi maggiormente nelle spalle e continui a fissare il suolo, sotto il peso dell’inadeguatezza. Ed ecco che accade. Sapevi che sarebbe successo, potevi già percepirlo perché è anche nella tua mente.
Le piastrelle bianche del pavimento tremano, le fughe incrostate sbiadiscono, l’intera stanza pulsa attorno a te. Serri nuovamente le dita ai capelli e trattieni il respiro, perché non sai dove lui ti porterà, cosa ti farà conoscere. Luoghi, immagini e pensieri – non tutti tuoi – che ti riempiono la testa e ti tengono sveglio la notte.
I confini che conoscevi scompaiono. Non ci sono più mura a trattenerti, nessuna porta di metallo a rinchiuderti o feritoia da cui spiare il mondo. La brezza ti accarezza la pelle, ti fa ondeggiare i capelli. Non sa di disinfettante né di sangue. Il tepore che avverti sulla schiena ricurva è la carezza del sole, la sensazione di ruvido sotto i piedi è quella dell’asfalto.
Batti le palpebre, sorpreso, e rilassi i muscoli di braccia e gambe. Sollevi il capo dalle spalle e ti guardi attorno.
Gli occhi si colmano di meraviglia quando scorgi la banchina del treno, coi segni gialli a delimitare la zona sicura e i binari scintillanti che s’intravvedono oltre il margine, fra la ghiaia spessa. Le panchine verdi sono allineate lungo i muri color mattone della stazione, esattamente come le ricordavi, e dall’alto il grande orologio segna le dieci e un quarto di mattina.
Di lì a poco, lo sai, arriverà la corsa che agognavi: quella che ti condurrà a casa.
Per un lungo, fatale istante cedi all’entusiasmo, alla reminiscenza di un abbraccio. Perfino le labbra si stendono e si arricciano verso l’alto, strappando piccole punture d’agonia alla pelle arsa e lacera.
Ingenuamente raddrizzi la schiena, le gambe, non sei più un animale ferito. Corri da quella parte, verso la banchina, e mandi lo sguardo da una parte all’altra delle rotaie. Ti manca il fiato e il cuore ti rimbomba nel petto per l’emozione.
Non te ne accorgi, ma bolle di sapone scendono dall’alto e riempiono l’ambiente, donando all’atmosfera una sfumatura quasi magica. Una tonalità di colore che non gli appartiene. Non a Ruvik.
Tuttavia la stasi e il silenzio sono irreali. E sei l’unico passeggero in attesa.
Soltanto allora intuisci l’inganno. La trappola che s’annida nelle pieghe dei ricordi, dei tuoi stessi desideri. Il semaforo sul fondo del binario lampeggia di rosso. Fai un passo indietro, curvi le ginocchia e incassi nuovamente la testa fra le spalle. Da qualche parte i passaggi a livello si abbassano, ne percepisci il ritmico ticchettare. Ti ritrai ancora, barcolli oltre la linea gialla. Il tintinnio improvviso e prolungato del campanello ti fa sobbalzare, assordante e premonitore. Strilli, ti porti le mani alla testa; e le bolle di sapone si fermano a mezz’aria.
Sta arrivando.
Allo sferragliare in lontananza si aggiunge il fischio del convoglio, un lungo, acuto avvertimento. Tremante scorgi la sagoma del treno delinearsi all’orizzonte, sui binari. Segue un altro segnale, più stentoreo del precedente, semplicemente più vicino. Imminente.
Chiudi gli occhi, mentre la locomotiva entra in stazione. Lo stridio dei freni t’investe come pioggia di lame, ti trafigge le orecchie, ti perfora il cervello. Il lungo serpente di metallo s’arresta innanzi a te, puoi percepirne il calore, puoi sentirne gli effluvi di macchina risalire dal basso.
Con uno sbuffo le porte si spalancano e cedono l’accesso agli agognati vagoni, ma ciò non ti alletta come speravi. Sollevi appena lo sguardo, temi ciò che incontrerai, ma non puoi farne a meno.
Ruvik è lì, ti aspetta, fermo nel varco.
Le bolle di sapone esplodono e scrosciano al suolo come pioggia.
“Non puoi scappare… non puoi scappare, Leslie… non puoi scappare,” dici; e compi un altro malfermo passo indietro.
Le labbra deturpate di Ruvik s’increspano leggermente in un sogghigno compiaciuto. Un’istantanea che si dissolve quando batti le ciglia. Un brivido ti risale la schiena: non puoi più vederlo, non nel senso fisico del termine, ma sai che è vicino. Lo senti.
È dietro di te, realizzi troppo tardi. Ti giri di scatto, ma il braccio scarnificato si protende, le dita si serrano come ganasce sulla tua mascella e spingono così forte da spianare qualsiasi difesa.
Il dolore ti trafigge le gengive marce e le lacrime corrono ad annebbiarti la vista, mentre annaspi a bocca aperta sotto la stretta e lo sguardo impietoso di lui. Non riesci a respirare perché il tuo naso è troppo gonfio e livido, è un grumo di sangue che pulsa.
Ti aggrappi alla stoffa sdrucita che gli copre l’arto, sbatti, graffi, e torni ad aggrapparti in un blando tentativo di liberarti. Ciò non basta a suscitare tentennamento nell’oppressore. Né ad ammorbidire il filo di quegli occhi che dall’alto ti dilaniano come bisturi.
“Sei sempre stato sotto il mio naso,” dice Ruvik, e nel farlo solleva il mento con sprezzo, “insignificante… patetico…”
Cerchi di ripetere l’ultimo aggettivo, ma il suono che ti risale la gola è più simile al guaito di un cane.
“Non sei stanco, Leslie?” ti chiede, peraltro senza aspettarsi risposta. Non da te, incapace di formulare frasi di senso compiuto da che hai dieci anni. E ciò ti fa sentire solo più patetico, proprio come ha detto. “Resistere non ha senso, io sono la sola alternativa che possiedi. Loro non ti permetteranno di prendere quel treno e tu lo sai. È una bugia che racconti a te stesso….”
Le gambe tremano e le ginocchia si piegano sotto la pressione delle dita e delle parole. Lui ti legge dentro, sa tutto di te e ti capisce come forse nemmeno tu potresti, non quando la paura e il dolore ti paralizzano in ogni più insignificante recesso la maggior parte delle volte.
Ciononostante la verità è inaccettabile. E ti spaventa più dell’illusione in cui vivi, in cui ti crogioli in cerca di rassicurazioni. La speranza di un abbraccio, il calore di una famiglia e un luogo sicuro cui fare ritorno sono le uniche cose che ti permettono di sopportare il tavolo, la macchina e i trattamenti del dottor Jimenez.
Cerchi di scuotere il capo, di negare le accuse paventate e le immagini della strage che trattieni fin dall’infanzia nel subconscio, ma il dolore e il tocco dell’aguzzino t’impediscono di riprendere il controllo. E Ruvik è tormento, è buio e freddo e scale che salgono e scendono. Se ti sforzi abbastanza puoi vedere – non con gli occhi, dove ti trovi non sono che una rappresentazione della mente – il luogo remoto in cui è nato e si è alimentato d’odio.
Un grande palazzo, una discesa nelle profondità della terra, una porta spessa quasi quanto quella della tua cella al Beacon Mental Hospital. Potresti metterlo maggiormente a fuoco, dargli forma concreta, ma è anche nella sua mente. Non puoi prenderlo alla sprovvista, sa che hai guardato. Ed è più forte di te, si tratta del suo mondo dopotutto.
Perseverate sull’orlo della banchina, ma il tentativo lo affascina e lo soddisfa al contempo. A dirtelo è l’espressione del suo viso, il sorriso meno aspro, lo sguardo più assorto. È per questo che ti vuole. È per questo che sei diverso dagli altri.
“E bravo Leslie,” concede, ma non è impensierito. Sa di averti in pugno nella stessa misura in cui tu ne sei convinto.
Il pollice della sua mano ti passa sulla bocca spaccata senza delicatezza, ti fa sibilare di dolore, ti fa strizzare le palpebre e lascia dietro di sé strie rosso acceso. Un colore che spicca sulla pelle pallida del tuo viso come un’altra ferita nella carne viva.
“Ti hanno rinchiuso e picchiato, ti hanno legato, ti hanno ascoltato urlare e non hanno mosso un dito. Sei solo un pezzo di carne. Una cavia atta a raggiungere lo scopo che era mio,” continua Ruvik, mentre il tono diviene greve, quasi minaccioso. Nei suoi occhi c’è un’ombra che cresce e ti spaventa, c’è risentimento e qualcosa di ancora più distruttivo. “E questa… questa… è la fine che farai,” dice.
Un senso di vertigine preannuncia il cambiamento. Lo stomaco sussulta, la gola si stringe e i peli ti si rizzano sulle braccia. Il muro di mattoni rossi vibra, le panchine sbiadiscono e il verde di cui sono dipinte vira al nero, il treno si deforma e si dissolve man mano, inghiottito dall’oscurità. Perfino sotto e sopra perdono di senso e d’improvviso non sei più in piedi sulle gambe.
Le tenebre ti circondano. Strilli, ma il suono è attutito dalla stretta di Ruvik. Ti taglia la bocca, ti blocca le braccia e le gambe, ti costringe contro il freddo del metallo. Allora serri istintivamente i denti su quanto ti ostacola, l’incisivo rotto pulsa da impazzire, ma la consistenza è quella del cuoio. E a bloccarti sul tavolo operatorio sono le cinghie del dottor Jimenez.
Sgrani gli occhi, il cuore ti batte così forte nel petto da assordarti. Mugugni inutili e disperate suppliche, parole sconnesse che non riescono a sopraffare né la confusione della tua mente né il morso imposto fra le labbra.
L’umido ti scorre dalle palpebre alle tempie e ancora più giù. Inarchi la schiena, pieghi le ginocchia e i gomiti, tiri con la forza che solo la paura e la disperazione possono darti, ma ciò che ottieni e altro dolore perché le costrizioni affondano nella carne. E tagliano.
Tre soli spiccano nell’oscurità sopra di te, ti accecano e illuminano le tue membra indifese. L’aria è satura di disinfettante, ti fa girare la testa e ti suggerisce scenari di cui non vorresti mai essere protagonista.
Volti coperti da mascherine si affacciano su di te, anonimi e privi di espressione. Ti studiano in ogni insignificante dettaglio e innanzi a loro sei improvvisamente nudo, non solo nel corpo. Sei carne esposta per gli arnesi della scienza. Gli stessi che una volta ti appartenevano.
Saetti con lo sguardo da una parte all’altra, le membra rigide nell’impotenza. Scorgi una siringa fra le dita di uno degli infermieri, ma è il baluginio argentato del bisturi nelle mani del dottore a strapparti definitivamente il fiato dai polmoni. Improvvisamente sei lucido e sai esattamente cosa stanno per farti: privarti del tuo bene più prezioso – l’unico che ti resti – e usarlo a proprio piacimento. Ma se credono di sottrarti anche il controllo si sbagliano di grosso. È una promessa – una minaccia – che ruggisce nel tuo cervello.
La puntura sul braccio inietta fuoco nelle vene. La lava ti avvolge, corrobora il fisico e l’odio che provi verso coloro che ti circondano… le persone che ti hanno tradito. Conosci i loro nomi, sai chi sono anche senza scorgerne effettivamente i volti. E vorresti vederli annaspare. Stringere le mani sui loro colli, privarli dell’ossigeno, osservare con sistematico e asettico interesse il livore propagarsi sui loro tratti, il barlume della vita intensificarsi nei loro occhi per lunghi, esasperati istanti e poi spegnersi per tuo volere.
Quelle immagini, quei pensieri ti spaventano quanto e più del resto, perché non ti appartengono. La rabbia, l’odio smisurati e quello stesso dolore che ti squarcia il petto assieme al bisturi piantato nella carne non sono i tuoi.
 
They killed me. They ripped me apart and took what they needed.
 
Non vorresti e ne hai terrore, ma le sensazioni di Ruvik ti travolgono… e ti accorgi con apprensione crescente che ciò che desidera è ciò che desideri. Che l’idea di liberarti e d’infliggere dolore – di essere predatore anziché preda, anche per una sola volta nella vita – ti solleva dal tormento come una boccata d’aria fresca dopo l’apnea.
Perciò quando il braccio ustionato di Ruvik fuoriesce dal buio e si protende insperato verso di te, offrendoti l’alternativa al tavolo – alle cinghie, alle percosse e al terrore perenne – non ti soffermi sulle conseguenze. Allunghi la mano da quella parte, schiudi le dita con urgenza e ti aggrappi all’unico appiglio che hai. L’unico che possa contrapporsi a loro, al destino che hanno in serbo per te. Per il mondo intero, ti suggerisce una voce dentro.
La trazione impressa dall’arto è come un vortice, ti risucchia e ti conduce altrove. Non sai dove finirai né cosa lui ti farà vedere, ma qualsiasi posto ti sembra migliore di dov’eri. 
“Male, male, m-male,” ripeti, “Alternativa… f-fine, fine, paura, alternativa, Ruvik,” balbetti ancora, disorientato, le mani screpolate che tornano ad avvinghiarsi ai capelli in un gesto ormai istintivo.
Soltanto allora ti accorgi di essere nuovamente solo, rivolto verso il muro fatto di piastrelle bianche e fughe incrostate della tua cella, al Beacon Mental Hospital. Come se non ti fossi mai mosso da lì.
Tuttavia non ti fai illusioni. Fa parte di un incubo, il suo, non sai dove inizia e non sai dove finisce. Ci sei dentro. E il tuo naso è una massa livida e tumefatta. Pulsa ed è caldo e così pesante da sfiancarti. Il sangue ti scorre lentamente giù dalle narici, scivola fra gli spacchi nelle labbra e si spande sulla lingua. Il sapore in bocca è terribile… quasi quanto il trionfo che hai visto negli occhi di Ruvik allorché hai afferrato la sua mano.
Note: La fic consta di due capitoli, il prossimo esplorerà il punto di vista di Ruvik e concluderà la storia. Il banner non è mio, ma della persona che l'ha realizzato e che potete trovare QUI. Non esitate a farmi notare eventuali errori. Alla prossima!

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Capitolo 2
*** Ruben Victoriano (Ruvik) ***


  Capitolo 2 - Ruvik

Non si è accorto di te, ma lo farà presto. Siete legati, dopotutto. E del tuo incubo incarnato non sei più l’unico architetto.
Leslie Withers – l’insospettabile, piccolo Leslie, la cavia su cui non avresti scommesso – si culla sull’altalena del parco giochi che il suo inconscio ha creato. Il riflesso di una mente semplice e di un’infanzia iniziata e mai finita. Certamente un luogo che reputa sicuro, probabilmente teatro di lieti ricordi.
A suggerirti il suo stato d’animo sono le bolle di sapone che fluttuano sopra le giostre, leggiadre come farfalle donano all’ambiente una sfumatura eterea, quasi incantata, che si sposa perfettamente agli scacchi azzurri e rosa della pavimentazione antiscivolo.
Puoi condividere il suo angolo di paradiso. È anche nella tua mente e puoi addirittura intuirne il rassicurante tepore. Ma sono atmosfere e colori che non ti appartengono, perché a caratterizzarti – a renderti Ruvik – sono il rosso e il nero. Come il dolore, come la paura che si annida nel profondo dell’animo umano e l’odio che divora tutto ciò che tocca. E la tua infanzia forse non è mai iniziata. Di certo è morta assieme a lei.
Perfino il giallo dei girasoli o l’arancio intenso del tramonto sono ormai contaminati nei tuoi ricordi. E bruciano, anneriscono come solo le fiamme possono. Tu lo sai, ce l’hai scritto sulla pelle, nella carne e perfino nelle ossa – simbolicamente parlando, perché un corpo non ce l’hai più da tempo e ciò che resta di te è rinchiuso in sacchetti accuratamente catalogati o bidoni di formaldeide. Ciononostante il cervello non dimentica la sensazione di avere braccia e gambe, né il tocco del fuoco. Tantomeno lo scopo che ti avvelena, rinchiuso nella gabbia costituita dalla tua stessa materia grigia.
Di certo non sarà Castellanos a fermarti, a tenerti rinchiuso, si tratta solo di un imprevisto – o di un piacevole passatempo. E Kidman non è che una pedina sulla tua scacchiera, confusa, spaventata come e più degli altri. Perché ha intuito – glielo hai permesso – cosa si cela nelle tue intenzioni; ma il timore è la sostanza di cui sono composti gli sbagli e presto o tardi lei verrà da te. Li tradirà come loro ti hanno tradito e ti consegnerà quanto ti occorre per annientarli
Il pensiero ti fa arricciare le labbra deturpate in un sogghigno ironico, mentre descrivi il ragazzo – l’involucro che ti permetterà di prescindere i tuoi limiti, la tela bianca su cui calcare l’impronta indelebile di Ruvik – e lo studi di lontano, perché è questo quello che fai da quasi tutta la vita. Sperimenti, analizzi e trai conclusioni in solitudine.
Ruben è un bambino particolare, così chiuso, diceva tuo padre. Ma lui non vedeva il mondo che tu vedevi. Non poteva. La fede stessa gli chiudeva gli occhi, lo rendeva cieco e per questo estremamente ottuso. E la tua curiosità – la necessità di comprendere come funzionava questo o quello all’interno della psiche e del corpo umano, di sviscerare nel senso letterale del termine i così detti tabù – non poteva che apparire pura eresia al cospetto del timorato capostipite dei Victoriano, sempre disposto a infilare sotto al tappeto quanto metteva in discussione il suo credo.
O la propria immagine.
Serri la mandibola e indurisci l’espressione, mentre il subconscio ti raggira e riporta alla memoria ciò che seppellisci. Pareti spesse, urla e buio infinito. E la vana speranza di essere ascoltato.
È quasi buffo considerare come un così esperto conoscitore della psiche e degli impulsi cerebrali non possa sottrarsi a simili scherzi, ma ciò non ti conforta né ammorbidisce il tuo sguardo. Al di sotto del cappuccio le tue iridi sono come pezzi di vetro e altrettanto taglienti, fissi sullo strumento di cui hai più necessità.  
Leslie Withers si è accorto di te, finalmente. Sa che ci sei, sebbene non possa dire dove, e che lo stai osservando con attenzione.
Il bian coniglio – la piccola cavia che corre e si nasconde nel tuo personale Paese delle Meraviglie – incurva le spalle e la schiena, come se raggomitolandosi su se stesso potesse mettersi in salvo. Si porta le mani alla testa nel tentativo di respingerti, di tenerti fuori, ma è tutto inutile: puoi leggergli dentro come e quando desideri. Spingerlo in luoghi lontani nel tempo e nello spazio, alla ricerca di ciò che contro ogni logica vi accomuna… o fargli sperimentare il dedalo infernale che è la tua mente superiore.
Le bolle di sapone s’arrestano a mezz’aria come ovvia conseguenza all’intrusione. Perfino le giostrine – le altalene, il girello e il dondolo – si bloccano nel movimento, come intrappolate in un’istantanea. L’unico punto in movimento è la patetica cavia, una macchia candida e tremolante che non sbiadisce nel quadro generale. I contorni dell’ambiente invece vibrano e si sciolgono come acquerelli sotto il tuo volere, assecondano la tua spietata ricerca e si rimodellano secondo le immagini estrapolate dalla mente semplice di Leslie Withers.
Gli squittii del ragazzo accompagnano il formarsi della nuova realtà, probabilmente più famigliare e meno spaventosa di quanto si aspettasse.
Lo studi ancora, non visto. È ora seduto a gambe incrociate sulla moquette del piccolo appartamento di periferia, nel salotto di casa, fra i divani disposti a elle della sua infanzia. Innanzi a lui, sul basso tavolino, sono sparsi una moltitudine di pastelli a cera e una serie di fogli colmi di scarabocchi gialli e blu. La sua espressione è un misto di sconcerto e speranza che raramente gli hai visto in volto.
Illuso.
Non è che una trappola, l’ennesima, che hai messo a punto soltanto per lui. E che attende di scattare, di affondare le acuminate e velenose estremità nella polpa viva del bersaglio, lì dove sai è più vulnerabile: la speranza di rivedere i suoi cari. Il motivo che spinge quella piccola, confusa e incompleta testolina a resisterti, quando molte altre più stabili e con uno sviluppo psicofisico migliore non hanno potuto contrastare la tua rabbia.
Un desiderio – un sogno – che non ti è poi così estraneo e che ti rende più simile a lui ogni volta che accarezzi il ricordo di lei.
Ciò rende tutto soltanto più insopportabile. E c’è una cosa che quell’insulsa cavia – l’unico essere collegato allo STEM che ti eguaglia in potenzialità – deve capire al più presto. Nel tuo mondo non c’è salvezza né speranza. Ti appartiene. Come e più di coloro che hai divorato pezzo dopo pezzo, fino a renderli ombre distorte, mostruose e incoscienti, specchio dei loro stessi e infiniti incubi.
“Leslie è a casa? Ha p-preso il treno? A casa, Leslie è a casa?” balbetta il ragazzo. Ha lo zigomo escoriato e l’occhio tumido. La sua stessa faccia non è che una tavolozza di viola e antracite e verdognolo; fra le labbra timidamente arricciate all’insù spiccano il dente rotto e le gengive scure, ma ti ci soffermi con indifferenza.
Ti palesi alle sue spalle, invece. L’indumento sdrucito che indossi ondeggia come se ti fossi fisicamente spostato ed emette un lieve fruscio. Ciò basta ad attirare l’attenzione di Leslie e due grandi occhi pieni di timore si sollevano su di te. Sembra una bestia ferita innanzi al predatore. Si acquatta sul tavolino, tra i disegni, sa di non avere scampo e il dubbio s’insinua fra i suoi pensieri sconnessi, deturpando l’immagine del sogno che hai così abilmente costruito.
Dall’altra parte dell’appartamento risuona il canto di una donna, l’impeccabile proiezione di un tempo lontano eppure mai passato. È un’eco così melodioso, così famigliare e rassicurante da suggerirti una stretta al petto, qualcosa di molto simile alla nostalgia. Qualcosa che non sperimentavi da tempo immemore e che ti disturba, intaccando momentaneamente la freddezza dei tuoi tratti.
D’improvviso è come se avessi dieci anni e il tuo mondo fosse tutto lì, racchiuso nelle poche note intonate a labbra serrate. Un sentimento che non ti appartiene.
Ti basta ricordare la sensazione della lama che affonda nella carne o il porpora del sangue che si allarga sul pregiatissimo tappeto persiano di villa Victoriano per ricordarti dove e come hai detto addio a tua madre. Ma il contrasto netto fra ciò che percepisci – l’ingenua reazione emotiva del tuo tramite – e il desiderio di rivalsa che ha animato il tuo coltello in quella che ti sembra ormai un’altra vita non fa che rendere il tradimento più doloroso, la pena per coloro che ti hanno messo al mondo più inevitabile. A discapito del senso di colpa.
Meritavano di morire, ti ripeti. Esattamente come in passato.
Forse proprio per questo, ciò che sta per succedere – l’hai visto, sai che accadrà, lo sapete entrambi – non può che sollevarti, restituirti insana soddisfazione. Poco importa che la sua famiglia sia innocente, che non abbia chiuso occhi e orecchie dinnanzi all’esistenza del proprio figlio. Il sorriso ti taglia la faccia, aggiungendo l’ennesimo, crudele sfregio ai segni già evidenti sulla carne.
“Sai dove siamo, non è così? Sai quello che sta per succedere,” dici, il tono profondo, quasi solenne. E al tuo cospetto Leslie Withers non è che un verme, nudo innanzi al tuo sguardo.
 
I know who you are. I know what you crave… what you fear.

 
La cavia saetta con gli occhi da una parte all’altra, ma se per raccapezzarsi o se per cercare una via di fuga – da te o da ciò che rifiuta con tutto se stesso – non sai dirlo. Deglutisce lentamente, rumorosamente, quasi avesse qualcosa incastrato in gola, e trema. Poi scuote la testa una, due volte, come per ricacciare l’eventualità paventata.
“Paura, male, paura, p-paura,” farfuglia. La sua schiena proietta una curva sul tavolino del salotto. È patetico.
“Sì, esatto,” confermi senza pietà, ma la tua voce sembra quasi comprensiva, “puoi spingerlo più a fondo che puoi, fingere che non sia mai esistito, ma è e sarà sempre lì. Io lo so, lo vedo, e prima o poi verrà in superficie. Non puoi cambiarlo, non puoi dimenticarlo. E lei ti chiederà se vuoi che tagli i bordi del sandwich per te…”
“Vuoi che tagli i bordi al tuo sandwich?” chiede la donna dalla stanza attigua, in un propizio e ineluttabile ripetersi. Il suono è lontano ed echeggiante come quello di un fantasma, di un ricordo sbiadito ma non dimenticato.
Di conseguenza le dita abrase della cavia si avvolgono attorno al cranio con maggiore urgenza; le palpebre si serrano, le lacrime a imperlare le ciglia bianche; le unghie scavano nella cute con disperazione e i tendini al di sotto della pelle si tirano a rivelare la rigidità degli arti. Tutto il suo corpo si contrae nel rifiuto e nel terrore della perdita.
“No, no, no, n-no,” ripete stupidamente, un mantra che sai non potrà salvarlo.
Un tonfo irrompe nel frenetico balbettio e la porta d’ingresso sussulta per via del colpo. Leslie Withers trasalisce, sgrana finalmente gli occhi e punta le iridi in quella direzione, ma non ti scomponi. Non tu, il burattinaio dietro il sipario. Vuoi che veda, che non scappi nei recessi della sua mente come ha fatto per anni…
“Sta arrivando,” dici; e alle parole segue un’altra botta, più violenta della prima. Sorridi e la superficie che si frappone tra l’innocenza del piccolo Withers e ciò che la segnerà indelebilmente crepita, si deforma. Semplicemente cede il passo all’inevitabile. I primi fasci di luce irrompono attraverso le crepe nel legno e feriscono la vista.
Dalla cucina la donna accorre, nient’altro che una sagoma bianca e tremolante, l’etereo riflesso della persona, della madre, che la cavia conserva gelosamente dentro di sé. E sul volto stravolto dalla preoccupazione puoi a stento scorgere una certa somiglianza, negli occhi leggermente all’ingiù o nella linea morbida delle labbra. Fra le mani regge il piatto su cui sono disposti i sandwich privi di bordi e nei suoi occhi brilla vivida una consapevolezza carica di timore e di determinazione.
“Corri a nasconderti, Leslie,” dice con fermezza, mentre il piatto precipita al suolo, s’infrange in molteplici pezzi che si sparpagliano tutt’attorno sulla moquette e la porta continua a sussultare sotto i colpi della furia omicida che trattiene.
“No! No! No!” sono le urla di Leslie Withers. “No!” E il suo terrore diventa violenza. Si graffia la faccia, lascia strie rosse sulle braccia, afferra i pastelli a cera e li scaglia lontano, artiglia le dita sui disegni, la rappresentazione di una vita serena, forse felice – ordinaria, come diresti – e ne fa a pezzi la carta, su cui spiccano case, alberi e familiari stilizzati. Ed è proprio quello che sta per accadere: tutto nella sua piccola e banale esistenza sta per essere dilaniato sotto il suo sguardo impotente.
Sai cosa si prova – com’è perdere qualsiasi punto di riferimento, sentire il vuoto dentro e rifiutarsi di accettarlo; soltanto il Dio cui tuo padre rivolgeva le suppliche potrebbe sapere quante volte hai visto i lembi rossi del suo vestito ondeggiare lungo i corridoi vuoti di casa Victoriano o quante volte il dolce profumo dei suoi capelli corvini ha inebriato le tue narici, anche dopo l’incidente, immagini e sensazioni impresse a fuoco nel cervello – e il sentimento della cavia è improvvisamente il tuo stesso sentimento. Ciononostante perseveri sulle tue posizioni, perché hai imparato – hai dovuto – che determinate realtà sono imprescindibili.
Laura non c’è più, risuona nella tua coscienza. Le fiamme l’hanno inghiottita e lei ha smesso di esistere nella forma in cui esisteva. E a te spetta – spetta a entrambi – il tormento dell’essere sopravvissuto.
“Lei è morta, Leslie, è morta,” pronunci, ma stavolta le tue parole non sono fredde né taglienti, sono calme, grevi. Accurate. “Il 13 Maggio del 1991 un uomo armato di machete ha fatto irruzione in casa e ha ucciso i tuoi genitori. Lei è stata la prima,” sottolinei, con una lentezza che potrebbe sembrare cautela. O crudeltà, perché non c’è tremore nella tua voce. “Le ha tagliato la gola, le ha squarciato il petto, le ha sfigurato il volto. Delitto passionale. Tuo padre è arrivato troppo tardi…”
“No!” fa eco Leslie Withers. Il rosso del sangue spicca sul livore della sua pelle, lì dove le unghie sono passate e hanno lasciato il segno.
“Non c’è più nessuno ad aspettarti da molto, molto tempo,” continui, mentre la porta crepita, si spacca e i primi pezzi di legno s’abbattano sul pavimento, permettendo al fascio di luce di proiettarsi all’interno senza intermediari. Come da copione la sagoma bianca della donna si pone nel mezzo, a protezione della prole indifesa. Un impulso dettato dal DNA ancor prima che da neuroni e sinapsi. Infine si dissolve come se non fosse mai esistita, ponendo fine a una rappresentazione dal finale fin troppo scontato. “Non c’è né casa né famiglia per te, sei solo al mondo, Leslie. Pensi forse che quella serpe di Jimenez e la MOBIUS ti lasceranno andare? O magari che qualcuno di quei poliziotti possa contrastarmi?”
La sola idea ti strappa una risata bassa, quasi gutturale, e una disinvolta scrollata di spalle.  
“Sono la sola alternativa che possiedi, l’unico alleato,” dici, “aspetta e vedrai, è una questione di tempo. Kidman non manterrà la parola data, farà ciò che ritiene sia giusto e si rivolterà contro di te, contro di noi, tenterà di farti del male come hanno fatto tutti gli altri,” sottolinei. “Perciò te lo chiedo ancora una volta… non sei stanco di scappare, Leslie?”
“Scappare, scappare, scappare,” ripete la cavia, dondolando freneticamente su se stessa, gli occhi rivolti al tavolino colmo di pastelli in frantumi e fogli accartocciati. “Leslie è stanco, stanco, è stanco, Leslie è stanco,” continua, musica per le tue orecchie. E ad ogni parola il suo tono di voce è sempre più incrinato, prossimo al pianto.
Contemporaneamente ciò che resta della porta viene divelto dalla violenza dei colpi e proiettato in avanti, nella stanza. Una parte di essa resta appesa ai cardini, di sbieco, e dondola malamente. Una lunga, sinuosa gamba si allunga oltre il varco così ricavato. Le autoreggenti che indossa sono rigate dal sangue. Il piede ricoperto dalla lucida decolté rossa tasta il pavimento e trova appoggio poco dopo, piantando l’acuminato tacco a spillo nella moquette.
La creatura che conosci – la raccapricciante personificazione dell’ossessione, la tua, di Kidman e di chissà chi altri all’interno dello STEM – si piega nella sua notevole altezza e si affaccia nel passaggio con tutta la testa, rivolgendo il proiettore da cui è costituita lì dove si trova il bersaglio designato.
“Leslie… Leslie… Leslie…”
La sua voce è monocorde, inespressiva. La sua stessa esistenza è dissennata, prigioniera dell’unico proposito che l’avvelena.
Leslie Withers si raggomitola su se stesso, le mani alla testa, e urla. Urla fino a perdere il fiato, fino a graffiarsi la gola. Le finestre esplodono con fragore e investono la tua proiezione fisica come inevitabile conseguenza; ma il vetro non può ferirti – non può ferire Ruvik. Ti passa attraverso e precipita al suolo come pioggia.
Sorridi innanzi al tentativo del bian coniglio. Non può resisterti – e il sangue gli scende dal naso per via dello sforzo. Tutto quello che devi fare è aspettare pazientemente che ceda, che ti tenda la mano di sua spontanea volontà… ma la sicurezza di cui sei pervaso ti acceca per un lungo, fatale istante e d’improvviso ti trovi nel bel mezzo di un incubo. Il tuo.
Senza preavviso alcuno le fiamme divampano tutt’attorno con la ferocia che ben ricordi, si arrampicano sui pilastri e lungo la volta del piccolo appartamento di periferia, ruggiscono e mordono senza pietà tutto ciò che riescono a raggiungere, lasciandosi dietro pura devastazione.
Al di sotto del cappuccio i tuoi occhi si sgranano e un lampo di paura li attraversa, mentre ripercorri ciascun centimetro dell’ambiente circostante; perché a ben guardare non ti trovi più nella casa di Leslie Withers. Anzi, di lui non c’è più traccia – né c’è traccia di Shade – e sei da solo nel fienile della tua infanzia. Il fumo ti acceca, ti brucia i polmoni a ogni respiro, ti opprime il petto e ti graffia la gola. Il calore è semplicemente insopportabile; e anche se tu un corpo non ce l’hai, stai bruciando.
È il cervello che ti tradisce, che si prende gioco di te. Sei caduto nella trappola nascosta nel tuo subconscio e Leslie Withers ti ha visto dentro – siete legati, dopotutto. E ciò che vi accomuna ti rende debole come rende debole lui.
Il fienile crepita, si lamenta e si dissesta sotto il tocco del fuoco. Uno schiocco improvviso preannuncia i primi cedimenti strutturali e una parte del soffitto crolla, abbattendosi al suolo fra un mare di scintille incandescenti. L’aria è irrespirabile, invivibile, ma non ci sono uscite… salvo per la piccola finestrella al piano superiore, la stessa tramite cui lei ti ha messo in salvo in una vita che non ti appartiene più da moltissimo tempo.
Il solo pensiero basta a restituirti il controllo, perché la rabbia, l’odio che ti ribolle dentro e ti consuma al pari del fuoco, è di gran lunga superiore alla paura. O al dolore. Ciò ti rende diverso dalla cavia, più forte e tenace. Così indurisci l’espressione, perseveri fra le fiamme a braccia aperte – è il tuo mondo, le tue regole, su di esso e sulle sue manifestazioni hai l’assoluto dominio – e modifichi quanto ti circonda con la stessa semplicità con cui schioccheresti le dita.
Il rosso delle vampe diventa il rosso del tramonto, il giallo delle scintille il giallo dei girasoli e l’aria soffocante diventa brezza sulla tua pelle ustionata. Accarezza gli sfregi, fa ondeggiare le corolle che si perdono a vista d’occhio nel campo e cancella il ricordo del fumo.
Innanzi a te c’è Leslie Withers, in piedi tra i grossi fiori. Con le spalle curve e il capo chino ti osserva di sottecchi. Si scortica le dita delle mani, forse per via del nervosismo e del timore che nutre sempre nei tuoi confronti, ma quando compi un passo verso di lui non arretra, contrariamente alle aspettative.
Ti ha tirato un brutto scherzo solo qualche istante prima – avresti distrutto chiunque altro per un simile affronto – ma non potresti essere più affascinato dal risultato – e Leslie è sempre stato una sensazionale scoperta. Ma ora è diverso, perfino migliore. La patetica cavia sempre pronta a fuggire e nascondersi ha tirato fuori gli artigli… e ti fronteggia.
“Niente male, Leslie,” ammetti; e il sogghigno si apre sul tuo viso.
“Niente male, Leslie, niente male,” replica l’altro, come fosse un’ovvietà. “Stanco, Leslie è stanco, è tanto stanco,” aggiunge poi, “Leslie non andrà a casa, Leslie non può prendere il treno.”
Le ultime parole sono un mormorio quasi indistinto e le lacrime gli scendono giù dagli occhi, correndo lungo le guance livide. Resti insensibile innanzi alla manifestazione, ma copri la distanza che vi separa, gli afferri il mento con la mano e gli sollevi il capo. Stavolta ti guarda dritto negli occhi e puoi quasi leggervi una supplica. E il disperato bisogno di rassicurazioni di un bambino; ma tu sei Ruvik, sei rosso e nero, sei scale che salgono e scendono, labirinti e trappole di morte. Sei sofferenza subita e donata e non c’è altro che tu possa riservargli. Salvo promesse di vendetta, l’unica consolazione che conosci. 
“No, ma compirai un’impresa più grandiosa e loro, tutti loro, si inchineranno davanti a me, davanti a noi,” gli dici. “E si pentiranno di ciò che ci hanno fatto.”
 
We will destroy what they wish to control.
Note: La fine! *-* *una pioggia di pomodori la investì* Lol. Ok, credo che la seconda parte sia peggiore perché Ruvik è davvero fico e complesso e difficilissimo da rendere. In ogni caso questo è un piccolo omaggio a un titolo horror che mi è piaciuto molto. Forse avrò travisato qualcosa e di sicuro c'è molto della mia interpretazione, ma è stato un modo per raccapezzarmi su ciò che lega Leslie e Ruvik e cosa abbia spinto il primo a consegnarsi al secondo alla fine del gioco. Ringrazio chi ha letto e chi vorrà farmi sapere le sue opinioni. Passo e chiudo, alla prossima! ^^

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