Le Cronache di Meknara - Sangue di Drago

di Ayduin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1.1 Segreti ***
Capitolo 3: *** 1.2 Segreti ***
Capitolo 4: *** 2.1 Scoperte ***
Capitolo 5: *** 2.2 Scoperte ***
Capitolo 6: *** 2.3 Scoperte ***
Capitolo 7: *** 3.1 Strategie ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Rimembri ancora, mio amore, rimembri ancora quanto ci amammo? Quanto la nostra passione fu folgorante? Rimembri il dì che ci trovammo, quanto fu improvvisamente sconcertante l'aver innanzi il dolce essere del creato a noi donato, come metà perfetta? Fu quasi doloroso, rimembri, constatare che l'avvenire avrebbe smarrito il proprio corso se l'uno non fosse stato mano nella mano con l'altro? Rimembri, cuore mio palpitante, qual fu il piacere dei tempi beati e qual fu il dolore sotto stelle avverse, trascorso tra noi e l'aura dorata del nostro sentimento? Io rimembro assai smarrita le memorie sgualcite che care ci furono decadi orsono, e soggiunge ai miei occhi un velo finissimo di lacrime salate nell'avere tutt'oggi senno sufficiente a ricordarti. È vuota, la stanza che mi porse al tuo cospetto, non aleggia più l'ammanto di costellazioni che vorticò sotto il mio passo, non brillano più nemmeno le pareti che ci avvolsero. Si è spento, l'incanto si è estinto e tu con esso sei tornato alla cenere, un fuoco divampato come saetta e sfumato come tuono. Vivrò, te l'ho giurato, vivrò come non fossimo mai stati ma per ora, gioia mia che fosti, continuerò ad immergermi nei nostri sogni. Il tempo è trascorso lento e la ferita che m'inflissi gronda di pazienza, sappi averla anche tu, non dolerti del mio soffrire. Guarirò. Guariremo entrambi dal nostro amore. Per sempre tua,

MohayvêeEfansthýKotarNhosýAallnheRaknýAsthêé

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Capitolo 2
*** 1.1 Segreti ***


Vissia aprì gli occhi sotto l'arcata di un cielo stellato senza luna dalle sfumature violacee, solleticata da sottili steli d'erba mossi da una lieve brezza serale. I ricordi di pochi istanti prima, annebbiati e confusi, le vorticavano in testa squassandole le tempie: aveva cercato di raggiungere Bastian al centro di una stanza tinta della magia dell'universo, riusciva ancora a riprodurre nella sua mente la sensazione che aveva provato entrandovi, un misto tra meraviglia e pace interiore, e quasi poteva rivivere il momento in cui le costellazioni che fluttuavano tra le pareti avevano cominciato a vorticarle intorno. Aveva erroneamente creduto che si trattasse di ologrammi, che suo fratello si fosse semplicemente sentito attratto dall'immergersi in immagini artificiali con la spensieratezza di un bambino di dieci anni, ma Veer era parso di tutt'altro parere, irrigidito fin nelle viscere le aveva chiesto di farlo uscire, subito, perché non era un gioco quello in cui Bastian si era immerso. Suo figlio aveva tentato di avvicinarsi per tendere una mano all'amico, invitandolo ad andare a nascondersi altrove, che tanto non l'avrebbe comunque trovato se avesse contato fino a trenta invece che a venti, ma Veer gli aveva bloccato il gesto appena prima che superasse lo stipite della porta, scuotendo la testa ed obbligando Vissia a farsi avanti, convinto che lei avrebbe sortito il medesimo effetto di suo fratello su quel luogo: nullo. Si era sbagliato, tremendamente sbagliato, rimuginò la ragazza, scrutando l'oscurità attorno a sé che sì, la nascondeva, in parte confortandola, ma permetteva al suo interno a qualunque altra cosa o persona di annidarsi senza che lei potesse saperlo. Non sapeva dove fosse, come avesse fatto a giungervi né tantomeno riusciva a spiegarsi il motivo del perché fosse sola, dopotutto erano stati in quattro ad essere partecipi della sua sorte. Tentò di levarsi in piedi, il corpo indolenzito, stremato da uno sforzo che non pensava d'aver compiuto e tornò in terra, con le ginocchia nel fango molle, quando realizzò di essere fisicamente allo stremo. L'aria che la circondava era tesa e carica di un sapore acre, la invitava a rimanere vigile e a non abbandonarsi alle lusinghe di un paesaggio apparentemente a riposo, anche la sua ragione esortava a fare lo stesso seppur tentennasse nell'immagine di un sonno ristoratore. Avrebbe voluto urlare per chiedere aiuto, ma la voce le moriva in gola, le corde vocali lacerate dalla paura di chi le avrebbe prestato soccorso. Se solo al suo fianco ci fosse stato Bastian sarebbe stata capace di trovare le forze per non arrendersi allo sconforto e continuare a lottare nella speranza di una soluzione, ma lui non era lì, come Veer e Arian, era sola. Totalmente sola in mezzo ad un nulla sconosciuto e minaccioso. Tremò, nonostante il freddo fosse sopportabile, e le prime lacrime le solcarono gli zigomi sporchi di terra, gettandola in un oscuro oblio di rassegnata disperazione. Dapprima tentò di sorreggere il peso del pianto, nell'ultimo tentativo di non farsi schiacciare, ma più i minuti scorrevano come un fiume papabile davanti i suoi occhi, più si sentiva persa e più desiderava essere soffocata dai suoi stessi lamenti. Lamenti che crescevano in suono proporzionalmente all'amara consapevolezza che si stava facendo strada sotto la pelle di Vissia: non sarebbe arrivato nessuno a salvarla. Fu sul nascere di un'ondata di panico che giunse qualcuno alle sue spalle a coprirle delicatamente la bocca
« Come ti ho trovata io, molti altri possono averlo fatto e credimi sulla parola, non vuoi sapere chi essi possano essere. » fu Veer a sussurrarle all'orecchio, la sua voce ridotta ad un sibilo e le mani impercettibilmente scosse da un sentimento che alla ragazza rimase appena celato. Annuì e si voltò per abbracciarlo, ma lui frenò il suo entusiasmo, accovacciandosi a terra abbastanza da scomparire tra l'altezza sinuosa dell'erba e portando Vissia con lui.
« Non fare movimenti repentini. » l'ammonì, perlustrando le vicinanze con occhio attento e tenendole ancora la mano poggiata sulla spalla affinché non si sporgesse troppo dal pelo del mare verde. Le disse di avanzare, lenta e costante, con movimenti sufficientemente fluidi da permettere anche ad un osservatore vicino di credere che in mezzo agli steli non stessero realmente strascicando i propri corpi due persone.
« Dove siamo? » Vissia tentò di ricavare qualche informazione prima di muoversi, ora che le sue paure erano state confermate dall'atteggiamento guardingo e nervoso di Veer, non le mancava altro che dare un nome alla fonte da cui provenivano. Le rispose solo dopo i primi metri percorsi, la voce in un affanno mentale più che fisico « Mi dispiace. » ed il cuore della ragazza perse qualche battito, non perché lui non sembrasse affatto il genere di uomo che si abbassa a domandare perdono di un proprio presunto errore, piuttosto perché quelle parole celavano, come una porta sbarrata, ciò che vi stesse dietro, quasi avesse voluto aggiungere 'Mi dispiace, se non ce la faremo'. Arrancarono attraverso il terreno umido e viscido in fila, silenziosi abbastanza da percepire l'uno le preghiere velate dell'altro, ma nessuno ebbe coraggio sufficiente per domandarsi se almeno uno dei due credesse veramente in ciò che stesse dicendo. Il tempo si dilatava e a Vissia pareva non finisse mai quell'immensa distesa di prato, avrebbe volentieri chiesto quanto ancora mancasse ma le scuse di Veer le facevano eco nella testa, minacciandola di rimanere zitta. Alzò lo sguardo del minimo necessario per osservare dove fossero diretti e vide appropinquarsi sinistra una foresta ed intorno ad essa, sospesa a mezz'aria, aleggiare una coltre di nebbia dal macabro colore bianco sporco. Si arrestò ed afferrò con la mano una caviglia di Veer, il quale si girò immediatamente, il volto tirato in una smorfia di paura « Hai visto qualcosa? » la ragazza rispose di no ed il volto di lui riacquistò colorito. Cosa le nascondeva? Dov'erano? Chi doveva seguirli? Le sue scuse non avevano sostanzialmente apportato alcun contributo nella ricerca di una risposta e lei rimaneva brancolante in una coltre di questioni.
« Dobbiamo proprio immergerci là dentro? » bisbigliò, scoprendosi perfettamente pronta ad accettare di rimanere nel fango anche per tutta la vita piuttosto che farsi avvolgere da quell'ambiente spettrale. Veer accennò una risposta muovendo solo le labbra, che lei non riuscì a carpire. Quando furono sufficientemente vicini Vissia scorse un'ombra attenderli sul ciglio della macchia di alberi e sperò egoisticamente in cuor suo che non fosse Bastian, non avrebbe sopportato di vederlo in una situazione simile, a rischiare la propria incolumità ad appena dieci anni. Fu invece Arian, il figlio di Veer, a porgerle una mano per alzarsi, delicato come un fiore l'aiutò anche a pulirsi gran parte del terriccio rimasto attaccato ai vestiti.
« Rimanete qui. » ordinò Veer « Devo ricordare come si esce una volta entrati. »
« Sei già stato in questo posto? » la ragazza sembrò sinceramente incredula che qualcuno avesse mai solcato un simile terreno inospitale.
« E' parte del mio mondo. » alzò le spalle, incurante di cosa gli avrebbe detto in risposta e si mosse per inoltrarsi nel fitto della vegetazione. Se non fosse stato per un gridolino inorridito del figlio, sarebbero rimasti lì da soli, lei e Arian, come due stranieri in una città troppo grande e nessuna indicazione a soccorrerli. Vissia sciolse a fatica il nodo in gola che le si era creato al pensiero e si girò ad osservare il motivo della reazione del bambino. Si aspettava qualunque genere di essere vivente, bestia o uomo che fosse, già in testa aveva prefigurato quel momento ed il modo con cui vi avrebbe interagito per non doverlo fare su due piedi e prendere la decisione peggiore solo a causa dell'agitazione, ma non si era preparata certo ad una corsa estenuante per fuggire da quel qualcosa. Del come avrebbero fatto a raggiungerli non aveva fatto i conti, dopotutto. Aveva dato per scontato che la notte li avrebbe fatti materializzare davanti a loro, proprio come aveva fatto con Veer, ed invece i loro inseguitori erano lontani, visibili solo grazie alle luci rossastre che dovevano star tenendo in mano. Luci? Vissia aveva scartato l'ipotesi che si trattasse di occhi più per paura di cosa ci fosse oltre quegli stessi che non per un ragionamento coerente. Dovette però ammettere che la sua ipotesi non filava, le luci erano a due a due ravvicinate come se realmente fossero iridi incandescenti e poi alcune erano più in alto, altre più in basso, quasi qualcuno si trovasse sopra a qualcos'altro.
« Dobbiamo muoverci. Adesso! » Veer incitò gli altri e se stesso a trovare la forza fisica per iniziare una fuga a perdifiato, la tensione che ormai aveva raggiunto il culmine li graziò della momentanea adrenalina che permise a tutt'e tre di cominciare a correre, seppur esausti, in mezzo alla foresta. I piedi ben presto iniziarono a sprofondare nella terra molle di una selva acquitrinosa, più simile ad una palude, rendendo l'avanzamento lento ed estenuante. Veer rimaneva volontariamente poco più indietro del gruppo, esortandolo a non voltarsi per nessun motivo, ma lui stesso periodicamente girava la testa per amaramente realizzare che li avrebbero raggiunti, stavano procedendo con un'andatura sostenuta, era evidente dallo sforzo che i suoi muscoli stavano compiendo per non cedere, ma non riusciva comunque a contrastare l'incedere brutale dei Cani Neri. Mancava assai poco prima che le urla degli uomini ed il ringhio dei cani iniziasse a manifestarsi non solo nella propria mente, lo sapeva, gli era evidente, cristallino come le sacre acque dell'Almabyra, e a chi sarebbe importato quale ruolo lui avesse avuto prima di fuggire? A nessuno avrebbero fatto paura le minacce di un sovrano scappato dal proprio ruolo. Si chinò per immergere una mano in una pozza di acqua melmosa, alla ricerca del fondo, ed un'altra la mosse nel tentativo di trovare un qualunque oggetto adatto ad incidere. Trovò un ramo, secco e malridotto, si sarebbe spezzato se non avesse fatto attenzione, lo immerse anch'esso, poggiando la punta sul dorso della propria mano già bagnata e spinse con le ultime forze rimastegli. Non era certo di cosa stesse facendo, se mai avesse potuto funzionare, ma doveva tentare lo stesso. Perdere tentandoci. Vissia e Arian si accorsero quasi subito dell'arresto di Veer e lo raggiunsero, implorandolo di alzarsi e proseguire, inconsapevoli dell'importanza del suo gesto, ma ormai lui si era estraniato dalla realtà e percepiva solo lontanamente le loro voci rotte dal pianto e le suppliche che tanto insistentemente stavano muovendo. Qualche goccia del suo sangue si era affacciata alla superficie della pozza marrone quando mollò la presa del ramo e riprese coscienza, la mente stremata dalla fatica di congiungersi con Brea ma il volto non più tirato in una smorfia, bensì, pensò Vissia, beatamente rilassato. Cos'era appena successo? Che senso aveva farlo? Altre domande si accodarono assieme alle restanti migliaia senza risposta.
« Dobbiamo muoverci! Stanno a-a...» le parole le morirono sul pelo delle labbra: non c'erano più i puntini rossi alle loro spalle. La ragazza si strizzò gli occhi incredula e constatò che per davvero non c'era più nessuno alle loro calcagna, poi rivolse gli occhi a Veer ed infine ad Arian, che pareva tanto spaesato quanto lei.
« Siamo al sicuro. » sentenziò, levando lo sguardo al cielo nell'esatto istante in cui un'ombra più nera della notte stessa passò a pochi metri dalle loro teste, muovendo i lunghi capelli di Veer in un turbinio e scompigliando quelli piuttosto corti e già arruffati di Vissia e Arian
« Andiamo. » tornò eretto, rimanendo ad ammirare l'alone di splendore che l'animale aveva lasciato, volando sopra di loro con una grazia ineccepibile, finché non scomparve del tutto. Solo allora riprese a camminare, tremando fin dentro le ossa per la mancanza di forze. Il figlio si mosse anch'egli, stringendogli la mano ed unendosi al suo fianco nel ritorno sui propri passi ma la ragazza rimase impietrita, incapace persino di respirare.
« Che cos'era quello? » chiese stridula, con un tono che non ammetteva di essere ignorato. Veer le rispose solo dopo che anche lei si decise a raggiungerli
« Un Drago. Il mio Drago. »

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Capitolo 3
*** 1.2 Segreti ***


« Il tuo Drago. » era rimasta in silenzio fino a quel momento. Non aveva parlato, non ci era riuscita, nemmeno quando il leggendario animale aveva offerto le proprie ali come appoggio per giungere sul suo dorso. Aveva goduto dell'innaturalezza della situazione per sentirsi più viva, come se a provare quell'esperienza non fosse lei in persona ma un alter ego più fortunato, a cui era concessa la possibilità di vivere nelle fiabe che tanto ammirava. La sua lingua l'aveva tenuta a freno anche mentre il Drago si era apprestato ad iniziare il proprio volo, solcando l'aria fino a raggiungere un'altezza spropositatamente elevata di cui Vissia aveva preso coscienza solo alle prime luci dell'alba, allora si era fatto strada tra le sue corde vocali un gorgoglio di esaltato terrore, esattamente come quando stai per fare qualcosa di dannatamente incosciente ma lo fai in ogni caso perchè è quel gesto che ti ricorda il significato della parola vita, poi però più niente, era ricaduta nel suo inconsueto mutismo atto ad usufruire dell'istante prima che svanisca. Ma esso cadde, similmente ad un muro nella morsa di un terremoto, allorché Veer si avvicinò a lei per la prima volta dopo la pessima esperienza della notte precedente. Sapeva muoversi come un funambolo sulla schiena di Brea, abile e ben equilibrato la attraversava dalla testa alla coda senza esitazione, seppur il volo fosse tutt'altro che imperturbabile, lui lo rimaneva, saldo come in terra. Vissia aveva provato ad alzarsi e subito l'idea iniziale aveva ceduto il posto all'immagine di lei che scivolava dalla groppa dell'animale e si schiantava al suolo dopo chilometri di caduta libera, dunque si era aggrappata ancora più saldamente alle enormi scaglie sporgenti della schiena, abbandonando definitivamente il proposito di muoversi. Persino Arian, con la sua tenera età, si era dimostrato più abile di lei, riuscendo a ricavare un giaciglio nei pressi del monumentale capo della bestia, dove il corpo si faceva più liscio e piano, lì aveva dolcemente dormito per parecchie ore con l'invidia della ragazza.
« Ti devo delle spiegazioni. » le parole di Veer giunsero dal nulla e destabilizzarono Vissia a tal punto che mollò quasi del tutto la presa sul Drago. Le mani che le dolevano per essere state chiuse attorno alla punta aguzza troppo a lungo.
« Era ora. » non volle dar a vedere quanto fosse soddisfatta di quella frase, non aspettava altro che chiudere un po' di questioni ancora aperte, alcune totalmente spalancate. Conosceva a stento Veer, i loro occhi si erano incrociati più volte a causa dell'amicizia che scorreva tra Arian e Bastian ma non avevano mai davvero parlato prima, se non il giorno stesso dello strano accaduto. A Vissia parve lontano interi decenni anche se, in realtà, era stato solo poche ore prima.
« Dove siamo? Come facciamo ad essere qui? E perchè conosci già questo posto? » l'ultima era la domanda a cui più fremeva per ottenere risposta, considerare Veer qualcuno di fuori dal comune le dava un senso di curiosità inesprimibile, una speranza che ci fosse dell'altro oltre l'opprimente velo di quotidianità in cui era costretta a sopravvivere. Il ragazzo si sedette, come a far intendere che sarebbe stato un lungo e tortuoso discorso che richiedeva comodità e rivolse alla sua interlocutrice uno sguardo raggelante, era pronto a riversare su di lei l'inverno che tempo addietro era calato nel suo animo e di cui gli occhi azzurro ghiaccio facevano da custodi. Due pietre preziose e lucenti, pensò Vissia con una punta di gelosia, li avesse avuti lei così, ed invece si ritrovava due palle color marrone fango che non affascinavano nessuno.
« Oserei dire di partire dal principio. » cominciò, arginando il flusso inappropriato dei suoi pensieri « Veer non è il mio nome, non completo, mi sembra giusto dirtelo dato che ci troviamo in questa confusione insieme. Dhoveerdhan, mi chiamo Dhoveerdhan Algethy, legittimo Rekkar di Igniphetra ed ultimo discendente puro della Dinastia dei Draghi insieme a mio figlio. Ho abbandonato la mia terra per salvare Arian dopo lo sterminio della mia stessa famiglia, un uomo timorato dei Grandi Sapienti ha concesso a noi di entrare nel tuo mondo, chiudendo qualsiasi comunicazione con la mia terra di origine per proteggerci. Il suo sigillo, la serratura che non si sarebbe mai più dovuta aprire, era la stanza in cui tuo fratello è entrato, non voglio sapere come ci sia riuscito perchè era chiusa a chiave da anni e non era mai stata aperta, ma quel che è fatto è fatto. La chiave per aprire la serratura doveva essere però quella esatta, Bastian non lo era e così sarebbe dovuto anche essere per te, per questo ti ho mandato lì dentro a recuperarlo. Se fossimo entrati io o Arian, il sigillo si sarebbe aperto perchè il nostro mondo chiama a sé chi ne fa parte. Evidentemente ti ho considerata una banale mortale ed ho sbagliato perchè tu lo hai aperto ed ora siamo qui. Tocca a te spiegarmi chi sei, perchè io dubito di saperlo. » parlò tutto d'un fiato e dopo aver concluso le fece un cenno con la mano per esortare a divulgare anche lei qualche informazione a lui. Vissia attese che il suo cervello elaborasse ciò che aveva percepito, sforzandosi di non scivolare in una crisi isterica. Era tutto così assurdo, così completamente sbagliato dal suo punto di vista che le pareva di star sognando e per un secondo, solo per un secondo, temette che fosse tutto finto e presto si sarebbe svegliata. La mano di Veer che la richiamava alla realtà però era così reale da invitarla a credergli, dopotutto perchè sprecare energia nel chiedersi se si trattasse di un sogno, quando poteva esserne parte?
« Non ho niente di speciale, credimi. Vorrei solo capire perchè sono qui e come fare a tornare. Mia madre e Bastian si staranno preoccupando tantissimo. » vide Veer sovrappensiero, i lunghi e corvini capelli che dondolavano nell'aria e gli occhi vaganti su un'alba che era sorta silenziosa, dischiudendo le proprie meraviglie poco alla volta. Adesso abbassando lo sguardo si potevano scorgere le immense pianure verdeggianti su cui Brea stava sorvolando, interrotte da pochi, piccoli e distanti borghi abitati che s'intonavano all'armonia della natura incontaminata. La mano dell'uomo moderno non doveva essere passata a rivangare quella terra squisitamente selvaggia.
« Non posso portarti indietro, Vissia. Non ho questa capacità, mi dispiace ma non faccio parte del culto dei Grandi Sapienti, non so comandare la Shàkbara. Tu e Bastian siete fratelli di sangue? » l'ultima domanda mandò in secondo piano tutte quelle che ascoltando le parole precedenti Vissia aveva cominciato ad elaborare. Non si spiegava il motivo per cui porle proprio una questione del genere, una così delicata questione gettata in un discorso come qualunque altra di ben più leggera portata. Si chiuse in se stessa, costruendo un fortino di indifferenza attorno a sé, come se quella fosse stata in grado di proteggerla sul serio da ciò che stava per rivelare.
« No. E' il figlio del secondo marito di mia madre. » ammise, turbata dall'averlo detto ad alta voce. Considerava Bastian come un fratello, non un fratellastro acquisito, erano cresciuti insieme, nonostante lei avesse il doppio dei suoi anni, e poi non si era mai posta il problema di non condividere affatto la sua stessa linea di sangue. Nel suo cuore non contava quell'insulso particolare, ciò che importava erano i sentimenti che lei nutriva nei suoi confronti, puri e sinceri. Veer sembrò intuire i turbamenti della ragazza, le sorrise senza un motivo preciso, quasi volesse ritirare quanto chiesto, e si alzò per andare verso Arian a svegliarlo. Lei rimase sola con i propri pensieri e tentò vanamente di liberarsene immergendo la vista nel cielo aranciato costellato di punti luminescenti, ombra delle stelle della notte ormai trascorsa. Guardò in basso, superando la paura dell'altezza che da quando aveva ricordo si era impossessata di lei e scorse i prati diradarsi in un terreno roccioso, impervio, fatto di montagne relativamente basse ma di un'asprezza inusuale. Davano l'impressione di bucare l'aria con le loro punte a cono, talvolta ricoperte di un sottile strato di neve talvolta interamente spoglie, senza nemmeno un arbusto. Si sporse ancora di più, per guardare sotto la pancia di Brea e oltre le sue scaglie azzurrate che sfumavano in toni di nero pece. Vide le zampe anteriori, piegate di poco verso il ventre, con artigli grandi come un suo braccio a squarciare l'atmosfera: era un essere maestoso, possente. Aveva tutto l'aspetto di appartenere ad una personalità come quella di Veer, regale e misurata, affascinante e misteriosa allo stesso tempo. Non fu abbastanza però per farle dimenticare il doloroso ciottolo che aveva smosso la superficie ingannevolmente pacata del suo animo. Le onde che si propagavano sul pelo dell'acqua smuovevano il fondale sotto cui si erano nascosti anni di sofferenze celate. Il divorzio era sopraggiunto all'improvviso, quando aveva poco più di nove anni, da un giorno all'altro si era trovata a dover convivere con l'essere scambiata come merce tra sua madre e suo padre. Almeno finché non si era trasferita con lei abbastanza lontano da non permettere ai traslochi di continuare, da quel giorno i contatti con l'altro suo genitore erano andati sfumando fino a ridursi a sterili auguri per le varie festività mentre sua madre in poco tempo aveva avuto la fortuna di trovare l'uomo con il quale volesse nuovamente condividere la sua vita. Non si era data disturbo nel chiederle cosa ne pensasse, il parere di una bambina poteva contare poco nulla sulle scelte di un'adulta, e dunque Vissia aveva undici anni quando inaspettatamente in casa sua apparve quell'uomo ed un fagotto grande poco più di una mano, figlio della prima moglie del nuovo patrigno. Nonostante non se l'aspettasse un così brusco cambiamento, dall'istante in cui vide Bastian iniziò a considerarlo come un fratello, un dono prezioso concessole per sopperire alle mancanze passate e non aveva mai sentito l'esigenza di analizzare il fatto di avere genitori diversi. Doverci fare i conti in groppa ad una leggenda per bambini, dopo aver appreso che il genitore del migliore amico di Bastian non era chi avesse creduto che fosse e che ora lei stesse navigando l'aria di chissà quale mondo lontano dal suo, si era rivelato più complicato del normale. Le aveva tolto la speranza di potersi abbandonare liberamente al prodigioso fluire degli eventi, anche nell'assurdità più totale la realtà rimaneva un fardello ineliminabile ad appesantirle il cuore. Fece un tentativo di alzarsi sulle proprie gambe per lasciare che il sangue potesse fluirle in corpo e far cessare il fastidioso formicolio che si era appropriato dei suoi arti inferiori, ma ancora una volta si lasciò stritolare dalla morsa della paura e tornò a cavalcioni attorno la scaglia appuntita, sbuffando ostinata a voler superare la propria maldestria. Vide Veer guardarla e seppur lontano i suoi occhi risplendevano di una risata velata, al suo fianco Arian si era svegliato, alzando le mani al cielo per far uscire dal torpore del sonno non solo il corpo ma anche la mente. Adesso era anche lui in piedi, meno sicuro nella postura del padre solo a causa della tenera età che non gli aveva ancora fornito l'esperienza adatta ad eguagliarlo ed in Vissia crebbe il desiderio di vedere il panorama sui propri piedi. Dopo una terza prova andata a vuoto, però, si era stancata. Brea sembrava quasi che sobbalzasse nel preciso istante in cui lei si immetteva nella manovra di un nuovo tentativo e questo le rendeva il tutto assai più difficile. Infine vide un palmo tendersi nella sua direzione e seguendo la linea del braccio giunse al volto di Veer, impassibile almeno al primo sguardo.
« Se vuoi alzarti davvero, credo sia opportuno che tu l'afferri. » disse, rivolgendo un cenno alla mano. Titubante, la ragazza accettò l'offerta e nel momento in cui la propria pelle incontrò quella di Veer tante piccole scosse si dilatarono fino alla spina dorsale, provocandole un brivido. Non l'aveva mai toccato, non pelle contro pelle almeno, ed il ghiaccio delle sue iridi si rivelò detenere il possesso dell'intero corpo. La mise in piedi, con una forza che Vissia non pensava potesse avere una corporatura sostanzialmente fatta di ossa e niente muscoli, e trovarsi spalla contro spalla con Veer la fece sentire bassa e rozza, la schiena piegata dalla stanchezza ed i capelli giallognoli sporchi ed annodati che tanto discostavano dalla postura eretta e fiera di lui ed il capo avvolto in una chioma di seta nera. Lui non lasciò la presa su di lei fin quando non furono vicino ad Arian, la testa di Brea che alitava sotto di loro.
« Non manca molto ad arrivare. » la rassicurò Veer, vedendola strabuzzare gli occhi dal terrore di infastidire il Drago « E lei è abituata al volo in compagnia. Oserei dire che le garba. » si abbassò per toccare le scaglie meno taglienti della nuca e l'animale si mosse in segno di approvazione quel tanto che bastò a far ritornare Vissia seduta. In una nuova e più propizia posizione, certo, ma non come avrebbe voluto. Arian le si sedette vicino, la bocca tirata in un sorriso che scopriva persino i denti. Strano, a Bastian mancavano entrambi i denti davanti perchè si stava finalmente avviando ad ottenere quelli definitivi e negli ultimi mesi non aveva fatto altro che perderne uno dopo l'altro, ad Arian sembrava che la cosa non l'avesse sfiorato, seppur avesse l'età di suo fratello.
« Dove siamo diretti? » chiese, conscia che una risposta sarebbe stata uguale all'altra.
« Terre dell'Ostro, Menastir. » parlò Veer, guardando avanti, verso le nubi sulle quali la tinta aranciata non sembrava ulteriormente sortire alcun risultato. Stavano diventando sempre più bianche e sottili, scoprendo il cielo azzurro come un fiordaliso che pareva ricordar loro da quanto tempo fossero sulla schiena di Brea. Non faceva caldo nonostante la serenità del clima, Vissia riusciva quasi ad avere freddo nei momenti in cui si concentrava sul proprio corpo. Doveva essere appena iniziata la primavera in quei luoghi.
« Andiamo dai Fenrir! » esultò Arian, allargando ancora di più, se possibile, il sorriso.
« Fenrir. »
« Lupi. Di proporzioni mediamente assai più grandi dei comuni lupi che conosci ma ugualmente intelligenti. » fu Veer a risponderle, non dando tempo al figlio di spiegarsi « La vita in queste terre, Vissia, è differente. Chi e cosa le abita, è differente. Devi accettarlo fintanto che vi rimarrai. » parlò lapidario, l'intento velato dietro a quel tono era stato più palese di quanto non avesse voluto. Non farsi più tante domande ed accogliere i fatti per ciò che erano, non avrebbe potuto cambiarli in nessun caso. La stava forse addirittura invitando ad abbandonare la propria renitenza per farsi travolgere dalla diversità, accettarla come un dono e non un problema.
« Stiamo andando da dei lupi. » la voce le si era strozzata prima che la propria affermazione si tramutasse in questione. Non voleva contraddire Veer, né tantomeno mettere in discussione quel che le spiegasse, ma provava l'impellente necessità di avere tutto sotto controllo piuttosto che ripiegare in una passiva accettazione del futuro. L'aveva fatto per troppo tempo.
« No, stiamo andando dalla nobile Dinastia dei Fenrir. Esistono altre nove Dinastie oltre la mia, ognuna indissolubilmente legata ad un animale. Comunemente ci si riferisce ad esse con il solo nome di quest'ultimo. » alzò le spalle, per lui si parlava di gergo banale che persino un analfabeta avrebbe compreso e la scarsa empatia verso la vita altrui non giovava nel rendergli più semplice il compito di comprendere la curiosità di Vissia. Gli risultava genuinamente incomprensibile il suo atteggiamento seppur fosse a conoscenza che lei, delle Terre Comuni, non aveva saputo effettivamente niente prima della sera trascorsa.
« Nove? E quali sono? » le si illuminarono gli occhi di meravigliato interesse e fu Arian alla fine a prendere la parola, per iniziare un elenco che le sarebbe parso puro incanto se solo non fosse stato interrotto dall'annuncio di Veer: erano arrivati. Rivolse l'attenzione verso il basso per riuscire a vedere dove i suoi piedi avrebbero poggiato ed il fiato le si gelò in gola. Menastir era colossale e leggendaria quanto le sue mura, un freddo abbraccio di pietra che sottraeva spazio in cielo agli dei con la propria altezza. Aveva conquistato il primato di unica città inviolata, titolo che a lungo aveva dovuto contendersi con Igniphetra, la sacra capitale delle Terre del Focolare, ora tramutatasi in un fiorente covo di impurità. Lei invece rimaneva salda e boriosa sull'unico roccione al centro dell'immensa gola scavata dalle cascate che stroncavano il lungo corso del Fiume Rosso, nome conferitogli dalla tinta dei profumati fiori di Cidonia, dono delle piante rampicanti che ricoprivano gli speroni rocciosi dell'intero precipizio. Non c'era opportunità di penetrare senza permesso nella cinta muraria, un lungo ponte a dorso d'asino era il solo collegamento da una sponda all'altra, con un'estremità situata nei pressi dell'unico cancello d'ingresso, veniva costantemente sorvegliato da uomini scelti tra i più leali dal re stesso ed abili sia nello scontro corpo a corpo che in quello a distanza. La selezione per permettere l'accesso era spietata, pochi entravano ed ancora meno uscivano, consapevoli che il rientro non sarebbe stato agevolato dalla loro posizione iniziale. Tutt'intorno al fulcro della città si estendevano a dismisura abitazioni e piazze, strade e botteghe, un borgo che da lontano poteva essere scambiato per una fiorente e vivace cittadina di ricchi mercanti indaffarati nei loro affari. Il movimento, dall'alto della posizione di Vissia, era la caratteristica che catturava immediatamente lo sguardo. Si muovevano gli uomini come una colonia di formiche intente a procacciarsi il necessario, senza sosta, animando ogni angolo in cui la vista si poggiasse, ed i colori, i colori tinteggiavano quel movimento, rendendolo ancora più vivo. Prevalevano i toni della terra, come il rosso, il marrone ed il verde, ma scrutando attentamente emergevano anche il giallo, il viola e l'arancione, un arcobaleno pareva aver baciato le vie di quel luogo. La ragazza fremette, estasiata dall'idea di entrare a far parte di un tale mondo.
« Visto da vicino non è così ammaliante. » Veer aveva fatto spostare Arian per prendere il suo posto senza che lei se ne accorgesse, troppo conquistata dallo spettacolo che si stava svolgendo sotto di loro. Non prestò molta cura alle parole del ragazzo, l'immaginazione che, dopotutto, era riuscita a prendere il sopravvento sulla ragione e di questo Veer non se ne rammaricò più di molto, anche se Menastir non era propriamente una città in cui augurarsi di vivere. Da anni il popolo moriva di stenti, il lavoro nei campi era improduttivo e la terra sembrava sempre più sterile e maledetta da un gelo ostinato. La carestia si era fatta sentire, la povertà frustava la schiena di tutti coloro che non facevano parte della ristretta cerchia di corte, costringendoli a piegare la testa al cospetto della morte, ad invocarla come unica salvezza da un inferno di sofferenze fisiche. A più riprese si erano generati focolai di rivolta, la monarchia aveva subìto minacce svariate volte ma mai erano state così vigorose da non riuscire a sedarle nel sangue di pochi uomini dall'animo più ardito degli altri. E nelle ultime settimane, realizzò Veer, con l'avvicinarsi della Sékdora, dovevano essere svanite del tutto, perché nessuno osava contrastare la potenza del regno, mettendo in pericolo la propria vita, per ritrovarsi poi a dare piacere ai ranghi più elevati in una celebrazione macchiata di sacrifici. Il popolino in quei mesi preferiva sottomettersi, come era giusto che fosse.
« Scendiamo. » disse Veer, rivolto a qualcuno d'indefinito, probabilmente a Brea, perchè iniziò ad abbassarsi a livello dei tetti più elevati, intenta a trovare uno spiazzo grande a sufficienza per contenere la sua mole e permetterle di tornare a terra. « Dentro le mura. Il nostro arrivo è già stato annunciato. Inutile nasconderlo. » la voce si era fatta cupa, gutturale, quasi le parole gli raschiassero la gola prima di uscire. Vissia tornò in sé, iniziando a dubitare che i suoi occhi non l'avessero ingannata mostrandole una verità dolce quanto falsa, che Veer al contrario sembrava ben conoscere. La guardò distrattamente « Stai attenta, osserva ciò che pensi di vedere d'ora in avanti. » le sussurrò per poi tornare a curarsi di dove il Drago si stesse avvicinando.

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Capitolo 4
*** 2.1 Scoperte ***


L'aria parve irrigidirsi quando i battenti d'entrata del Salone in cui erano stati relegati tintinnarono e tra i presenti calò il silenzio. Uno ad uno coloro che avevano seguito Veer dal momento in cui si era lasciato Brea alle spalle iniziarono ad inginocchiarsi, taluni così in basso da far pensare che stessero toccando i piedi con il naso. Il fratello del sovrano invece non sembrò avere tentennamenti, rimase saldo nella sua disinteressata posizione, seduto sul trono con le gambe penzoloni da un lato e la testa leggermente reclinata all'indietro dall'altro, i lunghi e mossi capelli castani che si protendevano ben oltre le spalle. La porta si aprì, cigolando nella quiete innaturale venutasi a creare e fece il primo ingresso un uomo di poco più grande di Veer, almeno tale parve a Vissia, probabilmente a causa del sottile velo di barba e dello sguardo truce, solenne ed innegabilmente macchiato di uno scintillio tipico di una bestia a digiuno, pronta a cacciare. Maitreya rasentava l'ideale di re che si ha in una fiaba, una postura rigidamente fiera ed il rispetto indossato come un indumento, tuttavia aleggiava tutt'attorno ad egli un'aura di tensione, paura papabile con il solo uso delle mani, come se il sovrano godesse della fedeltà dei più grazie al timore. Le teste dei nobili presenti attesero ad alzare lo sguardo dopo il passaggio del re e dell'animale che pareva seguirlo come un'ombra: un lupo nero, totalmente nero, che con la lunghezza delle sole zampe raggiungeva le spalle del suo padrone. E gli occhi rossi, iniettati di guardingo disprezzo. Vissia temette che gli inseguitori della sera precedente fossero stati in groppa a bestie simili e le tremarono persino le budella al solo pensiero che, se non fosse stato per Veer, li avrebbero raggiunti. Ora sapeva, cosa fosse un Fenrir. Maitreya avanzò senza voltare nemmeno gli occhi, disinteressato alle questioni di cui si stava occupando Asper durante la sua battuta di caccia almeno quanto fosse disinteressato alle persone che le portavano avanti. Si fermò all'inizio dei tre scalini che elevavano la seduta regale al di sopra dell'intera stanza e dei suoi astanti ed il ragazzo che vi era seduto si alzò in piedi, sorridendo di un sorriso vuoto e cattivo. Scese un gradino e con un gesto teatrale si spostò al fianco di Mihir, il più vecchio e fedele dei servi del sovrano. Prima di salire, però, Maitreya lasciò che il suo lupo si sdraiasse nei pressi del trono nella posizione che riteneva più soddisfacente.
« Fuori di qui. » disse, la voce rauca e potente, sorprendentemente fredda. Non si voltò e non sentendo muovere nessun passo proseguì « Tutti. Fuori di qui, adesso. » I più vicini all'uscita allora cominciarono ad incamminarsi per allontanarsi prima del resto della folla, ma dal gruppo si fece avanti un uomo ed il movimento cessò nuovamente. Quell'uomo era il primo, oltre a Mihir, sul quale Vissia potesse scorgere i segni del tempo, le cicatrici di una vita ormai prossima alla vecchiaia.
« Mehyi Rekkar, ritengo opportuno informarla della presenza di tre ospiti giunti da poco, ospiti molto importanti. » osò obiettare, poggiando un ginocchio a terra senza però smettere mai di guardare in faccia il re. Se provava rispetto, lo sapeva nascondere assai abilmente, ma non altrettanto era in grado di fare con l'avversione che nutriva nei confronti del suo superiore. Maitreya smise di rivolgere le spalle ai presenti e tornò sui suoi passi, diretto al cospetto dell'insolente che si era permesso di parlare dopo un suo ordine e che insieme a molti altri curiosi era strisciato ancora prima del suo ritorno all'interno di Thora Koshra, la fortezza dei sovrani, della loro corte e dei loro sudditi. Non certo per della umile nobiltà di basso rango, invischiata nella vita cittadina più di quanto si debba essere per mantenere illesa la propria dignità.
« Chi credi di essere per pensare che le tue parole m'importino? Hai la presunzione di sapere qualcosa che io non sappia? Ho detto fuori di qui. » parlò, abbassando solamente la vista per rivolgergli occhiate che avrebbero gelato il più arido dei deserti e quando ebbe concluso, Asper piombò come un falco alle spalle di Maitreya per sussurrargli qualcosa che solo i più vicini compresero « Una tale insolenza non può essere ignorata, fratello. » ma il sovrano non si scompose, poggiò una mano sulla spalla del ragazzo e ribadì il proprio ordine, che stavolta venne ascoltato all'istante, davanti a tutti si mosse l'uomo che aveva parlato. L'orgoglio lacerato ma la schiena ancora eretta, attraversò la sala a passi lunghi e svelti, lasciando dietro di sé qualcosa di cui parlare.
« Gli hai salvato la vita, dicendomi cosa avrei dovuto fare. » provocò Asper, una volta che gran parte delle persone fu sciamata all'esterno. Vissia, Arian e Veer non si mossero, come aveva esplicitamente chiarito quest'ultimo d'agire, ed attesero che fosse Maitreya stesso a chiamarli al suo cospetto. La personalità del sovrano era facilmente irritabile, presentarglisi innanzi senza invito non sarebbe stata una mossa saggia, specialmente considerando che stavano per chiedergli asilo e già di per sé la richiesta non costituiva uno slancio per una buona rinnovata unione tra due amici di vecchia data.
« Lasciateci soli. » disse infine, rivolto a Mihir e ad Asper, quando furono gli unici rimasti oltre a loro. I due si allontanarono, rispettivamente con un inchino del servitore ed una battuta di scherno da parte del fratello rivolta sia a Veer ma anche velatamente a Vissia: “Avevi bisogno di qualcuno che portasse le brache al tuo posto, rikthasý? ”, una frase che lo ricoprì di vergogna. Nessuno prima di allora aveva mai osato chiamarlo codardo.
Con la sala completamente vuota, Vissia potè ammirare nel pieno splendore la sua frugale ma immensa bellezza, divisa in tre navate da alte e gentilmente istoriate colonne di tufo bianche. Al centro della navata più grande si ergeva, su una piattaforma di marmo, lo scranno, vicino cui erano sistemate altre sedute minori per concedere ai singoli regali un posto di tutto rispetto, il pavimento era un mosaico di figure geometriche bianche e nere finemente intrecciate, opera di una mano assai esperta nel proprio lavoro. Ed il soffitto era infine il coronamento di un ambiente pregiato e teso alla purezza tipica del colore dominante, una serie di volte a crociera che si susseguiva da una parete all'altra, impeccabilmente incuneate tra loro.
« Dhoveerdhan. » Maitreya aveva le labbra lievemente incurvate in un sorriso nascosto, intimo, un sorriso mai mostrato ad altri che a Veer « Quanto tempo. »
« Cinque anni. » gli rispose, avanzando verso il re, già intento nell'avvicinarsi a sua volta. La distanza che li aveva separati scomparve, si ritrovarono petto contro petto e Vissia vide che nonostante Veer fosse oltremodo alto, Maitreya lo superava, seppur di poco. La sua statura che tante volte si era rivelata nella norma, venne a risultare tremendamente bassa posta a confronto con la loro e si sentì a disagio, ancora più piccola di quanto l'enormità del luogo non la facesse già sentire. Li vide abbracciarsi come due fratelli ritrovatisi all'improvviso, affabilmente e senza vergogna. Persero entrambi per un attimo la maschera di divinità irraggiungibili e si rivelarono più umani che mai, sprigionando un'aura di affetto quasi profumata che travolse Vissia senza preavviso, e più la mano di Maitreya s'inabissava dolce nei capelli di Veer per stringerlo a sè, più lei sentiva sentiva lacerante la mancanza di Bastian e di sua madre.
« Pensavo che non ti avrei più rivisto. » alla fine l'abbraccio si sciolse e su Maitreya calò di nuovo il sipario di imperscrutabile freddezza, anche se qualcosa brillava ancora nel profondo dei suoi occhi ambrati. Un fuoco, forse, che minacciava di sciogliere l'inverno calato irrimediabilmente anche sul suo cuore.
« Non dovrei essere qui. Lei non dovrebbe essere qui. » Veer indicò Vissia e con un gesto la invitò a raggiungere il suo fianco. La ragazza sentì il sangue impastarsi nelle vene ed il respiro farsi denso e difficoltoso, percepiva in Maitreya un radicato disprezzo nei suoi confronti che in Veer non c'era mai stato. Lui aveva conosciuto l'epoca moderna, l'uguaglianza delle razze e l'abolizione delle caste sociali, la possibilità di essere chi si voleva essere senza grandi vincoli, il nuovo modo di approcciarsi al mondo ed a chi in esso viveva. Maitreya no, affondava i piedi in una tradizione fondata sulla disparità sociale e la distribuzione disuguale dei diritti, l'uso indiscriminato della violenza e la supremazia di pochi a discapito di molti. Non conosceva altro che il suo volere, i suoi ordini e le sue leggi e questo Vissia lo sentì gravare sulle proprie spalle mentre la guardava farsi sempre più vicina.
« Puzza di morte come tutti i suoi simili. Come ha fatto a seguirvi? » le parve irritato, il candido momento intessuto con Veer si era frantumato in meno tempo di quanto avesse previsto. Non osò guardarlo in volto troppo a lungo, si strinse in se stessa e alzò le spalle. Nemmeno lei sapeva per quale motivo si trovasse lì e di certo non era per sua volontà.
« E' questo che mi turba Maitreya. Non lo so. Temo che i canali della Shàkbara abbiano ripreso a scorrere. » il diretto interessato di quell'affermazione increspò la bocca e si accigliò. Veer si stava mostrando apertamente, non voleva celare l'angoscia che gli anneriva le ossa una dopo l'altra da quand'era tornato a casa propria, portare Maitreya a comprendere l'impellente necessità di consultare qualcuno che di quella materia ne sapesse più di loro era il suo principale obiettivo. Se realmente stava accadendo ciò che credesse, in poco tempo tutti ne sarebbero stati al corrente e avrebbero potuto usufruirne, nei limiti concessi, a proprio piacimento, danneggiando irrimediabilmente il corso della storia.
« Ne parlerò con Mihir. Se lo riterremo necessario, chiederemo consiglio ai suoi superiori. » le sopracciglia si rilassarono « Ora lascia che ti accolga, non è sicuro né per te né per Arian farvi vedere allo scoperto. »
« Siamo venuti da te con Brea, chi vuoi che non sappia che siamo tornati. »
« Ferni non ha smesso di cercarvi, spero ne siate consapevoli. »
« Spero tu sia consapevole che non tarderà a cercarci nell'Ostro. » Maitreya annuì « Farò preparare una parte delle truppe per ogni evenienza. » e Veer lo ringraziò, cosciente del fatto che su di loro si stava addensando una tempesta gravida di tuoni e pioggia incessante e che l'aveva appena fatta avvicinare anche a Maitreya, senza che però egli si tirasse indietro. Kaitos si mosse, ringhiando sommessamente, quasi percepisse il profondo turbamento del proprio padrone, il quale però non pareva manifestarlo a viso scoperto, troppo abituato a fronteggiare i problemi per lasciare che lo spaventassero.

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Capitolo 5
*** 2.2 Scoperte ***


« Avanti, raccoglila. Dimostrami che scendere tra i mortali non ti ha scalfito. »
Maitreya aveva insistito per convincerlo a duellare e la lama che lo guardava da terra, deridendolo, non lasciava tempo per altri rifiuti. Avrebbe dovuto prenderla in mano ed aggrapparsi ai ricordi per lottare senza morire, l'elsa finemente istoriata che lo avvertiva di quanto quella spada fosse reale ed affilata: il sovrano non si abbassava certo ad usarne di fasulle. Sarebbe stato doloroso, pensò, mentre impugnava un'arma che gli pareva estranea nonostante avesse trascorso la propria esistenza al suo fianco. Erano cinque anni, cinque che non ne vedeva né tantomeno toccava una, anni in cui non si era nemmeno più posto il problema di tenersi in allenamento e l'idea di dover riaffrontare un uomo corpo a corpo appariva nella sua mente sfocata ed ambigua, non facente parte della normalità come invece lo era in quella di Maitreya. Si sentì estraneo in casa propria e se ne vergognò tremendamente, la vita dei comuni mortali lo aveva scalfito, ferendolo in profondità per poi rigettarsi nel suo corpo prendendone il possesso. Era diventato debole, incline ai sentimenti e favorevole alla libertà di pensiero, la caricatura del sovrano che fu. Si scansò appena in tempo per evitare un fendente del re a poca distanza dal suo volto ed incrociarono le loro lame, decretando l'inizio di una sfida in cui avrebbero versato sangue in due, se solo Veer non avesse conosciuto la parola pace. Maitreya lasciò la spada danzare tra le proprie mani, quasi a sbeffeggiare l'avversario di non esserne capace, poi tentò un fendente verso la sua coscia che finì dolorosamente in porto, squarciando di netto la stoffa e la pelle. Indietreggiò con movimenti felini, era abile nel muoversi e fermo nell'attaccare, uno spettacolo unico di forza e agilità che attirò gli occhi di quanti passassero nelle vicinanze. Ben presto una piccola folla di soldati e servi iniziò timidamente a raccogliersi attorno ai due sfidanti e Veer sentì la pressione aumentare, particolarmente quando si accorse che tra quelle persone c'erano volti conosciuti, tra cui Vissia nelle prime file, una smorfia di orrore a storpiarle i lineamenti delicati. Tentò di richiamare a sé l'esperienza acquisita in anni di perpetue ribellioni nelle quali lui, lo stesso che ora stava miseramente sanguinando dopo un primo attacco, aveva partecipato in prima fila uscendone vincitore. Battaglia dopo battaglia non si era mai lasciato intimidire dalla difficoltà, dai numeri a suo svantaggio e dalle sorti avverse che molti ciarlatani prevedevano per il suo corso vitale, liberava la mente e lasciava che l'istinto primordiale di sopravvivenza lo travolgesse con tutta la sua potenza.
« Pensavo che duellare fosse come andare a cavallo: una volta che l'hai imparato non lo dimentichi. » sferrò un fendente che Veer riuscì a fermare a mezz'aria ed accennò un sorriso « Forse mi sono sbagliato. »
Lasciò che lo sfidante potesse acquistare fiducia, permettendogli di sferrare qualche colpo senza che però lo raggiungesse mai veramente e concedendo lui di avanzare fino a ritornare al centro del prato verde su cui tutto aveva avuto inizio. Poi però si stancò di parare mosse irrimediabilmente prevedibili e riprese le sue azioni di attacco, studiando nei particolari i gesti di chi aveva di fronte. Maitreya era un calcolatore, freddo e senza scrupoli, avrebbe lasciato che il tempo scorresse anche per ore pur di trovare un punto debole verso cui muoversi ed agguantare la vittoria. Così stava facendo, e con rammarico notava sempre più quanto Veer fosse diventato un avversario mite e facilmente valicabile, un'ombra sbiadita del guerriero spietato che fosse stato. Erano passati solamente cinque anni, eppure stentava a riconoscerlo, undici anni passati al suo fianco sembravano essersi ridotti in granelli di polvere tanto piccoli che una folata di brezza li aveva già dispersi. Quello non era il ragazzo con cui aveva condiviso la sua adolescenza, la sua vita intera nel bene e nel male, era un uomo diverso, un uomo più schiavo di se stesso che padrone degli altri. Accarezzò il suo zigomo con l'acciaio tagliente, lasciando dietro di sé un taglio zampillante di rosso e si allontanò di qualche metro per guardare cosa avrebbe fatto. Voleva fargli ritrovare la forza, l'onore ed il coraggio e poteva farlo solo umiliandolo innanzi a tutti coloro che stessero guardando, la ragazza che aveva portato con sé in particolar modo doveva vederlo in difficoltà. Doveva usarla, era lì, a guardarlo pietrificata, non poteva non approfittarne per ledere la dignità di Veer e farlo tornare in sé.
« Saresti già morto se l'avessi voluto, Dhoveerdhan. »
« Fallo, Maitreya. Hai paura? » Veer lo incitò, il desiderio di rivalsa che gli scorreva in corpo come ossigeno. Aveva compreso i piani di Maitreya, il suo volerlo mortificare spietato per infliggergli una pena che gravasse sul suo cuore come un macigno, di cui si sarebbe potuto liberare solo riacquistando la lucidità che lui non vedeva più nei suoi occhi. Aveva sofferto silenziosamente in tutto quel tempo, non piangendo la morte di sua moglie e sorella, la distruzione della sua Dinastia e la perdita di tutto ciò che avesse avuto valore, si era cucito indosso il mantello dell'indifferenza, fingendo che quanto fosse accaduto non l'avesse nemmeno sfiorato. Invero, quella stessa indifferenza l'aveva lacerato inconsapevolmente ed ora se ne rendeva conto, dovendo fronteggiare nuovamente la realtà che si era ripromesso di non incontrare mai più e non essendone in grado. Il fuoco ardente si era ridotto a brace, il suo animo fiero uno spettro raggrinzito. Voleva davvero essere un codardo? Impugnò l'elsa della spada più saldamente, con entrambe le mani, e decise che il suo passato non l'avrebbe ulteriormente ostacolato. Fendette l'aria per un paio di mosse ma alla fine un clangore di metallo risuonò nelle orecchie degli astanti, un suono dopo l'altro, sempre più forte, sempre più tonante, che si spandeva nell'eco del luogo circondato dal porticato. Stavano combattendo, lottando sul serio come nemici in quel momento, dimentichi del rapporto che li legasse, troppo testardamente orgogliosi perchè uno s'inginocchiasse al cospetto dell'altro. Chi dei due avesse perso, non avrebbe smarrito solo il proprio rispetto personale ma quello di chiunque. Maitreya infine vide la debolezza che tanto aveva atteso, sull'avambraccio destro scoperto dalla guardia di Veer, un solo fendente ben assestato in quel punto ed il dolore gli avrebbe fatto cadere la spada dalle mani. Si preparò ad avanzare ma qualcosa andò storto, Veer respinse il suo attacco ed in una sola mossa gli puntò l'arma alla gola, la punta che premeva contro la molle carne sotto il mento e nelle pupille un'oscurità indefinita, la spada del sovrano penzolante dalla mano.
« Non sottovalutarmi. » lo minacciò Veer, socchiudendo le palpebre in uno sguardo di puro odio che bastò per fargli calare l'attenzione, abbastanza da permettere a Maitreya di reagire. Rinsaldò la presa sull'impugnatura ed abbassandosi si fece strada nel tessuto che copriva gli stinchi di Veer, aprendo due nuove ferite sanguinanti con un unico gesto e costringendolo a barcollare per la sorpresa. Approfittò del suo momentaneo sconvolgimento per concludere lo scontro, attuando ciò che si era già prefigurato nella mente. Un colpo netto e gli lacerò anche la carne del braccio che ancora teneva in mano la spada, obbligandolo a lasciare la presa ed accasciarsi al suolo.
« Non sopravvalutarti. » ghignò, solleticando a sua volta la bianca pelle del collo di Veer e meditando se premervi contro o meno. Tutti si aspettavano che l'uccidesse, perchè mettersi contro la sua persona era un affronto mortale, ma l'invito a combattere era giunto da lui. Sarebbe stato scorretto negarlo. Rinfoderò l'arma nella cintura di cuoio che portava molle attorno alla vita e gli porse una mano per aiutarlo a rialzarsi, la fronte prima corrucciata ora si era distesa, rivelando un'espressione imperturbabile ma pacata.
« Tornate ai vostri compiti, perditempo. » tuonò senza preavviso, facendo sciamare come mosche la piccola folla riunitasi per ammirarlo. Rimase solo Vissia, accompagnata da una donna che era stata incaricata di sistemarla come si confaceva ad una corte. Si chiamava Mocma, era piuttosto anziana eppure indossava la propria età come un gioiello, ritta con la schiena ed infaticabile, aveva assistito la ragazza mentre si lavava e le aveva procurato un bliaut color pesca di fattura pregiata secondo quanto le era stato richiesto, ma non si era limitata solo a soddisfare degli ordini. Era riuscita di sua volontà persino a raccogliere i pagliosi capelli di Vissia in una treccia elegante, più lunga di quanto lei stessa si fosse aspettata, abbellendola con piccole perle argentate che ottimamente si abbinavano alla collana che si mostrava pretenziosa sulla casta scollatura e che anni or sono aveva adornato persino il petto della moglie del fratello maggiore di Maitreya.
« Hai bisogno di un medico. » il sovrano guardò Veer che non si scompose, riacquistò la propria fierezza ed ignorò il pungente fastidio delle ferite « E di altri vestiti nuovi. Mocma, pensaci tu. » ma Veer non le permise nemmeno di muovere un passo. Scrostandosi il sangue dalla guancia s'incamminò, lasciando alle proprie spalle un'aria carica di rimorso « So occuparmi di me stesso. »
Vissia rimase immobile al cospetto di Maitreya, alle sue spalle c'era Mocma ma si sentiva sola nell'affrontarlo, nell'affrontare il disgusto che lui provava nel vederla respirare la sua stessa aria. Non si capacitava del motivo per cui la odiasse e sentiva di dovergli dimostrare qualcosa, qualunque cosa che gli facesse cambiare opinione su di lei, ma non sapeva come. Si trovava ai piedi di un monte così alto da disorientarla, confonderla riguardo dove e quando dovesse iniziare a scalarlo.
« Seguilo, Mocma. E' testardo ma non stupido. » il re si massaggiò le tempie tra pollice e medio, scuotendo la testa con gli occhi chiusi. Vissia si permise di rivolgergli delle occhiate fugaci, visto da vicino i suoi lineamenti erano duri ma piacevoli. I capelli quasi ricci incorniciavano fino alle spalle un viso adulto solo per lo sguardo, la pelle al contrario era fresca e giovanile, ben curata come il resto del corpo. Si sorprese a pensare che fosse avvenente, con un fascino sinistro che la lasciava al contempo smarrita e attratta. Come un quadro che non comprendi fino in fondo ma nonostante tutto ne sei sedotto. Distolse l'attenzione da lui quando riaprì gli occhi e seguì il percorso di Mocma passo dopo passo fingendo che le interessasse davvero dove stesse andando. Infine attese che fosse Maitreya ad andarsene, perchè le ginocchia le si erano fatte molli e camminare avrebbe dato loro la possibilità di cedere.
« Dhoveerdhan tiene a te. Sarai la sua nuova rovina. » la lasciò sola a riflettere sulle sue parole. Detestava quella ragazza con tutto se stesso, somigliava in una maniera sgradevole a lei, starle vicino non faceva che ricordargli il motivo per cui Veer era fuggito, il motivo per cui il suo migliore amico aveva perso tutto, per cui aveva abbandonato l'onore in favore della vigliaccheria. Per cui lo aveva abbandonato a se stesso.

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Capitolo 6
*** 2.3 Scoperte ***


Thora Koshra era un dedalo di porte e corridoi che si dipanavano identici tra loro, un luogo in cui perdersi fisicamente e mentalmente nei propri deliri. Veer stava vagando seguendo solo il proprio istinto, inconscio di dove fosse realmente diretto, le gambe si muovevano come animate da volontà propria, inciampando esclusivamente nella sua renitenza mentale nel proseguire oltre ogni varco che già aveva superato. Si sentiva stanco, confuso e frustrato, in preda ad una lotta interiore tra presente e passato che pareva restia a concedere un vincitore ed un vinto. Lo stava lentamente stremando, prosciugandogli anche la forza di rimanere in piedi, in poco tempo sarebbe crollato a terra e lì rimasto fintanto che qualcuno non fosse giunto a richiamarlo dai propri incubi. Il dolore lancinante della carne viva esposta all'aria stava allentando la propria morsa, ma nella sua testa si stava addensando una foschia che lo stordiva ancora di più della sofferenza fisica. I rimpianti seppelliti in tumuli di pietra si stavano risvegliando dal proprio sonno per trascinarlo in una voragine di perdizione, i ricordi s'ammassavano pesanti sulla sua schiena, piegandola. Avrebbe preferito rimanere dov'era rimasto per cinque anni, rinunciando per sempre alla propria natura, avrebbe sacrificato tutto pur di non dover fare i conti con quello che aveva commesso, con quello che era successo per colpa della propria avida ingordigia e cieca rabbia. Preferiva essere un codardo piuttosto che un idiota come era stato. Raccolse la propria testa fra le mani e si tirò indietro i capelli sudati che si erano appiccicati sul volto, alzò lo sguardo e la vide davanti a sé, nella penombra delle fiaccole che si erano andate via via diradando mentre si immergeva nelle viscere della fortezza. Una comune porta di legno dietro cui si nascondeva uno dei tanti segreti della sua gioventù dannata. Non poteva essere altri che quella porta, i leggeri segni incisi sulla superficie molle dell'albero morto erano troppo evidenti perchè si stesse sbagliando, pur nella sua labile lucidità. Si accostò ad essa, calcandone la ruvidità con i polpastrelli ed annusandone l'acre odore di marcio che si spandeva nelle vicinanze. Era vecchia, quella porta, estremamente vecchia e l'umidità elevata della parte più sotterranea del castello non l'aveva risparmiata, si era fatta spezzabile con un calcio ed ammuffita, inadatta a rimanere la custode delle sue azioni. Volle ugualmente aprirla e con una spinta fu spalancata: Maitreya non si era nemmeno preso il disturbo di chiuderla a chiave, sarebbe stato inutile serrare una stanza vuota. Ed era vero, le pareti di scura pietra, viscide, erano spoglie e prive di grazia, non raccontavano la storia che avevano visto e vissuto, esattamente come il pavimento, colorato da pochi steli di paglia che parlavano di una menzogna. Quel luogo poteva facilmente essere scambiato per un deposito ormai in disuso, una stanza innocua, seppur solo all'apparenza. Veer chiuse la porta alle proprie spalle e si sedette a terra, in attesa di riacquisire il senno momentaneamente perduto, ed immaginò come si sarebbe sentito se fosse stato lui costretto in quelle quattro anguste mura, anno dopo anno, con le ultime memorie del mondo esterno macchiate di morte. Si sentì un verme a non aver avuto la pietà di ammazzarlo, quel povero diavolo, ma di aver seguito il volere di Maitreya, riducendolo alla stregua di un pezzo del mobilio. Tutto per sete di vendetta nemmeno personale. Fu sul punto di piangere quando una figura s'intromise nella sua disperazione, ironicamente bussando sul legno con le nocche. Attese che entrasse, senza rispondere, convinto che si trattasse di Arian o Vissia che, vedendolo fuori di sé, l'aveva seguito. Invece fu la serva fidata di Maitreya a fare capolino dall'entrata, una donna buona e di poche parole, riverente e ben disposta ad obbedire. Chinò leggermente il capo, forse accennando un sorriso, ma il buio era troppo fitto per dirlo con certezza e la mancanza di fessure che dessero all'esterno complicava la vista già intralciata dall'illuminazione scarsa.
« Mi è stato detto di seguirvi. L'ho fatto e se lo desiderate posso lasciarvi solo, ora. » disse, la voce impastata dall'età avanzata.
Veer la ringraziò e con un cenno della mano la congedò dal suo compito, ritrovandosi nuovamente in totale solitudine a naufragare tra le proprie pene ma, perlomeno, non aveva versato una singola lacrima.



« Dov'è lui? » Aveva trascorso le ultime ore in completo silenzio, l'unico suono udibile era stato quello della propria anima che va in frantumi, un suono secco come cocci di bottiglia che cozzano col pavimento. L'aveva tormentato, insieme alle proprie memorie. Era riuscito a tornare in piedi dopo un tempo indefinito, in cui anche respirare gli aveva provocato spasimi di sofferenza, solo grazie al desiderio di appianare i propri dissidi e per farlo era stato costretto ad alzarsi e trovare Maitreya.
« Lui chi? » stava guardando le pagine ingiallite di un tomo dall'aria importante, seduto alla scrivania della sua stanza. Non era immerso nella lettura, l'aveva capito, stava cercando un modo per non guardarlo negli occhi.
« Lo sai chi, Maitreya. » gli chiuse il libro senza badare della sua reazione, voleva vederlo in faccia mentre trattavano di un argomento così delicato, vedere se fosse ancora capace di provare un qualsiasi sentimento verso il prossimo.
« Ho avuto un colloquio con Mihir. » sviò, tirando indietro la sedia e dirigendosi verso uno scaffale colmo di volumi per sistemare quello che aveva tra le mani.
« Non ignorare ciò che dico. »
« Dice di essere certo che i canali siano ben sigillati. » Trovò uno spazio sufficientemente largo per sistemarlo e con un piccolo sforzo lo inserì, completando la piccola e ben fornita libreria che adornava la stanza, donandole un aspetto più elegante.
« Maitreya dove diamine è lui? »
« Evidentemente quella ragazza l'hai voluta tu qui. » gli rivolse un sorriso sardonico e tornò a sedersi, incrociando le gambe.
« Rispondi! » urlò, noncurante se qualcuno potesse sentirlo. Aveva i nervi a pezzi, non controllava più né cosa dicesse né cosa facesse, l'ultima cosa che voleva prima di affondare in un materasso qualsiasi, era vederlo. Sapere se fosse ancora vivo o la pietà l'avesse graziato, scusarsi per ciò che gli aveva fatto.
« E' morto, l'ho ucciso con le mie stesse mani. Oh quanto è stato piacevole vedere la vita lasciare quel dannato corpo, scrutare quegli occhi maledetti spegnersi. Non ho mai provato nulla di più gratificante dell'ammazzarlo, nemmeno torturarlo mi ha mai dato tanta soddisfazione. » alzò un palmo e glielo mostrò « Vuoi piangerci sopra? » rise per davvero, di gusto, vedendo l'espressione dipintasi in viso a Veer.
« Non è vero. » scansò malamente la provocazione di Maitreya e si allontanò fino a toccare il muro della parete con le spalle, cosicché non potesse cadere, nemmeno qualora avesse perso anche il briciolo di ragione che ancora lo sosteneva.
« Già, ma vorrei averlo fatto. » si ricompose, anche se un sogghigno beffardo gli increspava ancora le labbra. Assaporava la disperazione altrui come un nettare, traendone un beneficio indescrivibile, il suo umore migliorava improvvisamente perchè il mondo pareva prostrarsi ai suoi piedi e non v'era nulla di più appagante per Maitreya dell'essere superiore all'universo intero. Un Dio impassibile che guarda l'altrui dolore senza esserne parte.
« Te lo chiedo un'ultima volta: dov'è? »
« Ti odia, proprio come odia anche me. Ti ucciderebbe se potesse, non avrebbe alcuna esitazione. Perchè vuoi vederlo? Pensi di trarre ristoro a scusarti? Le scuse non gli ridaranno gli anni che insieme gli abbiamo tolto. » sembrò compiaciuto della propria risposta tanto che osò avvicinarsi a Veer fino a sentire il suo fiato condensarsi sul petto.
« Perfavore, devi dirmelo. » cercava di guardarlo negli occhi ma seppur con tutta la sua volontà, lo sguardo ricadeva sempre sulla sua bocca a causa della vicinanza. Sperava che vi potesse uscire il nome che così insistentemente gli aveva domandato, magari appena sospirato. Credeva nel rapporto che aveva condiviso con Maitreya, credeva nella sincerità che minuziosamente l'aveva costruito, credeva ancora che lui non fosse diventato il mostro che a poco a poco si stava rivelando prima della sua partenza.
« E perchè dovrei? » con indice e pollice di una mano gli prese il mento e posò l'altra vicino al suo orecchio, sulla parete, per non lasciargli possibilità di andarsene senza il suo permesso.
« Perchè ne ho bisogno. » stava tremando, se ne rese conto tentando di allontanare la presa di Maitreya. Faceva freddo, era vero, nell'Ostro anche l'estate era fredda, ma il suo tremore non era causato dalla temperatura. Era più un malessere interiore che gli scuoteva persino le viscere.
« Andiamo. » decise infine di porre un limite alla loro vicinanza, lasciando la propria morsa, e si allontanò, muovendosi verso l'uscita « Ma se mai tornassi da lui senza prima aver avuto il mio consenso, giuro che lo soffoco con le tue stesse mani dopo avertele tagliate. »



Veer conosceva ad occhi chiusi ogni angolo, ogni svolta di quel castello. Lui e Maitreya avevano trascorso mesi interi della loro infanzia ad esplorarlo da cima a fondo, in cerca di qualunque passaggio fosse precluso agli occhi, di qualunque nascondiglio si celasse nell'ombra, di qualunque segreto esso racchiudesse come una crisalide. Ma le gallerie che stavano attraversando con solo una torcia ad illuminarle gli erano estranee, sconosciute, e non perchè il buio che dominava per quelle vie, nero come la notte che si apprestava all'esterno, non lasciasse modo di orientarsi, piuttosto perchè non vi era mai passato, non esistevano ai suoi tempi. Erano incredibilmente recenti e l'ambiente pulito, intatto, ne era una dimostrazione più che valida.
« L'ho fatta costruire io, questa parte, insieme ad un nuovo mastio che sapesse di me. » parve rispondere in poche parole ai dubbi che gli erano sorti, quasi potesse percepire cosa pensasse, ma dopotutto doveva semplicemente aver notato la sua espressione sbigottita ed interpretata nel modo giusto. Non si scambiarono più nemmeno una parola dopo quella frase, le scale della torre che avevano cominciato a percorrere mozzavano loro il fiato per quanto risultassero ripide e numerose, inoltre la salita era un reiterato girare su se stessi a causa della sua forma a chiocciola e non rendeva certo il tutto più agibile. Più di una volta Veer dovette fermarsi per riprendere aria nei polmoni e non rotolare per tutta l'altezza che già aveva coperto, ma Maitreya non l'attese, instancabile, riusciva persino ad accelerare l'andatura dopo un tratto attraversato più lentamente. Era palese quanto fosse in forma rispetto a lui, ritiratosi nella comodità troppo a lungo per tornare al pari di Maitreya in un solo giorno. In cima ad uno spropositato numero di gradini apparve un piano proprio quando Veer aveva ormai perso le speranze di vederne uno, le pareti fino a quel momento gli erano sembrate farsi sempre più strette di quanto non fossero realmente e poter di nuovo avere a disposizione uno spazio sufficiente per respirare fu un sollievo. Sentì il proprio peso gravarsi solo sulle articolazioni delle gambe e temette di aver raggiunto il limite della sopportazione, di non riuscir più ad andare oltre. Maitreya attese pochi minuti, poi si rimise a camminare, costringendo Veer ad oltrepassare la soglia che pensava di aver toccato per non rimanere disperso, al buio, in un luogo di cui non sapeva nemmeno l'esistenza. Con uno sbuffo di disperazione, lo seguì e fu certo di vedere sul viso della sua guida un sinistro compiacimento, come se la sua stanchezza fosse una punizione più che meritata per averlo scomodato ad accompagnarlo fin lì.
« Non è eccessivo? » osservò a voce alta, analizzando quanto si erano distanziati dalla parte principale di Thora Koshra. Non solo erano strisciati in gallerie che dovevano vantare una profondità assai notevole, ma erano dovuti tornare al livello del terreno per poi elevarsi ben oltre la sua superficie, tutto questo quasi completamente nel buio tetro rischiarato solo dal fuoco di una fiaccola che sperava non si estinguesse troppo in fretta e senza nemmeno una guardia ad impedire passaggi non approvati. Doveva essere certo Maitreya che nessuno si sarebbe inoltrato fin lì, se mai fosse riuscito a superare il labirinto di cunicoli che lo precedevano. Tutto troppo complesso, perdersi là dentro significava morirci.
« Avevano iniziato a girare voci nel castello di grida durante la notte, grida disumane provenienti dai sotterranei. Troppe persone iniziarono a credere nei fantasmi ed altrettante a dubitare che ci fosse qualcuno a generarle che non fosse uno spettro. » alzò le spalle « Troppo pericoloso lasciare che i dubbi crescano. E far costruire il mastio più alto dell'intero castello sotto il mio nome, troppo allettante. » sfilò dal collo una corda che vantava avere legate tre chiavi, Maitreya ne prese una ed aprì la serratura che avevano di fronte. Li investì un'ondata di freddo che s'insinuò fin nel midollo di Veer: era difficile mantenere il calore in una fortezza così estesa anche con le più avvedute precauzioni, in quella torre non c'era neppure un fuoco che sciogliesse il gelo. Quell'anima dannata doveva star morendo ghiacciata.
« E' qui dentro. » Maitreya si arrestò davanti ad un uscio decorato con intarsi di metallo pochi metri più avanti e vi picchiettò sopra le nocche, mentre si accingeva ad infilare la chiave nella toppa, senza però girarla, imprecò « Non ho intenzione di assistere alla scena del tuo tentato strangolamento, vai dentro da solo. » Afferrò dalla parete vicina una fiaccola spenta e l'accese con la propria, dandola in mano a Veer. Si scostò poi di lato ed accennò alla chiave, facendogli capire che sarebbe stato lui a doverla muovere. Tentennò, ma seppe raccogliere il coraggio necessario per muoversi e, trattenendo il respiro, entrò, accompagnato da un tintinnio di catene
« Ci rivediamo, Dhoveerdhan. »

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Capitolo 7
*** 3.1 Strategie ***


Il banchetto, che vantava essere composto da venti portate, imbandiva la tavolata al centro della sala ed offriva ai suoi avventori un ampio ventaglio di sapori che soddisfava i palati più rozzi e quelli più raffinati, indiscriminatamente. Il vino scorreva a fiumi, le brocche d'argento passavano di mano in mano, riempiendo bicchiere dopo bicchiere e, troppo spesso, finendo gran parte in terra. Le malaugurate donne che s'indaffaravano nel pulirlo dovevano quindi combattere contro le lascive attenzioni che uomini, già per gran parte ubriachi, riservavano loro. Le mani tastavano la loro pelle nuda, infilandosi attraverso le sottane e mentre alcune preferivano rimanere in silenzio, altre tentavano vanamente di ribellarsi per poi finire zittite da un bacio viscido di saliva color del mosto. Tra le pareti si spandeva un chiacchiericcio vivace che creava l'atmosfera tipica di un festeggiamento, solleticando la fiamma baldanzosa delle candele, ben salde nei possenti lampadari che pendevano dal soffitto. Numerose erano in procinto di esaurirsi, la cera colata che creava fontane su cui far danzare la luce di quante potevano ancora vantarsi di risplendere. La cena proseguiva ormai da ore, gli invitati però non davano l'impressione di volersi alzare, forse perchè avevano bevuto tanto da non riuscirci o forse perchè non avevano nulla di più interessante da fare quella sera che rimanere a trangugiare ogni sorta di cibo e bevanda. I partecipanti non erano molti, quattro sovrani con i rispettivi fedeli che variavano in numero da due a tre, eppure riuscivano a suscitare la medesima confusione di un intero esercito esultante per qualche vittoria. Ferni sedeva a capotavola, un ginocchio premuto contro di esso e l'altra gamba distesa, osservava i propri alleati giovare delle sue vivande e dell'ottima annata scelta appositamente per la serata. I suoi pensieri divagavano oltre l'apparenza spensierata e giocosa della scena che prendeva vita innanzi a sé, quella cena era per lui più importante di quanto volesse mostrare. Rappresentava la certezza di poter dare fiducia agli uomini presenti, la prova che la loro unione possedeva fondamenta stabili su cui poggiarsi nelle guerre che avrebbero affrontato. Era orgoglioso di aver soggiogato al suo volere quattro Dinastie intere solamente utilizzando discorsi retorici e persuasione materiale, lo aveva trovato terribilmente facile ancora prima di menzionare un'ipotetica spartizione dell'Ostro, mentre dopo aver esplicato i propri piani non gli era rimasto che stringere la mano ai nuovi compagni ingordi di terre e potere.
« Vorrei proporre un brindisi, miei ospiti. » si era alzato in piedi e nella stanza era improvvisamente calato il silenzio, non una parola fu detta anche mentre versava nel suo calice intatto il primo bicchiere di vino della giornata. Sembrava davvero che Ferni rivestisse un ruolo superiore a quello dei quattro monarchi. Levò in alto la mano che lo teneva stretto in una presa elegante « Vorrei brindare al mio fratellastro, tornato ad affrontare il destino inesorabile della morte, e alla Dhevýr, che possa portare giovamento nei tempi a venire. » delle grida di consenso si innalzarono a raschiare il soffitto e Ferni bevve tutto d'un sorso il dolce liquido scuro, inneggiato sotto lo scrosciante battere degli altri bicchieri sul piano del tavolo. Tornò a sedersi trascorsi minuti di estremo compiacimento verso il proprio operato: poteva essere un abominio, un'impurità generata dall'amore proibito di suo padre ed una puttana qualunque, senza nemmeno l'ombra del sangue della sua Dinastia e di quella di Veer, ma era riuscito là dove molti altri assai più puri di lui avevano fallito. Si era impossessato di un regno solo grazie alle proprie forze ed ora vantava di averne sottomessi altri, tra i più orgogliosi come i Rok e tra i più indomabili come i Cani Neri. Suo padre sarebbe stato fiero di lui, avrebbe finalmente compreso la natura debole del suo vero erede e la grandezza del bastardo di corte che per anni era stato odiato e disprezzato. Rivolse uno sguardo d'intesa ad ognuno dei grandi Rekkar del Sud, ed infine posò tutta l'attenzione nelle iridi rossastre del suo primo vero complice, Kohor, sovrano di Tehewea, capitale della Penombra, e della Dinastia dei Cani Neri. Era stato lui ad informarlo di persona dell'inaspettata apparizione di Veer nelle sue Terre e della tentata cattura da parte dei suoi uomini migliori esattamente la sera precedente alla presente. E grazie alla sua tempestiva informazione era riuscito a convocare per la prima volta gli uomini con cui aveva stretto un patto mesi addietro e che evidentemente lo consideravano così importante da non tradirlo fin da principio.
Kohor si mise eretto a sua volta, i capelli biondi, quasi bianchi, da cui pendevano trecce e ciocche legate strette con dei lacci verdi e marroni, colori che simboleggiavano la loro unione spirituale con la natura, spostati dietro le orecchie « Propongo un brindisi anche io, amici miei. A Ferni, che possa guidarci con coraggio. E a tutti noi, che andremo a caccia di lupi! » una cascata di voci unanime si riversò nella sala, gli uomini strepitarono consensi e si riversarono di nuovo sul cibo, affamati ancor di più dall'euforia di un'immagine lontana e sfocata, reale poco più di una favola. Loro, vincitori sulle carcasse dello spietato esercito dei Fenrir e Maitreya sconfitto, ridotto all'umiliazione, la sua Dinastia sterminata come i Draghi. Le due potenze delle Terre Comuni schiacciate dalla forza dell'unione.



« E' stata una cena memorabile quella di ieri sera, mehyi Rekkar. Dovete esserne orgoglioso. » si azzardò a dire Yed, rincorrendo a passi svelti il proprio sovrano, all'apparenza impegnato a dover fare tutt'altro che ascoltarlo. L'andatura veloce consentita dalle lunghe ed agili gambe gli creava non pochi disagi a seguirlo, le sue gambette minute e tozze erano costrette a mantenere un ritmo serrato, simile ad una corsa. E, soprattutto, Ferni non pareva voler nemmeno provare ad ascoltare le parole che tanto accuratamente stava scegliendo, di conseguenza non si aspettava certo che rallentasse. Era tremendamente tentato di aggrapparsi alla spessa chioma di capelli che ondeggiava a pochi centimetri dal suo naso e tirare indietro la testa ad un ragazzo che non aveva neppure il profumo di uomo, eppure manteneva un atteggiamento di innata superiorità che non avrebbe potuto giustamente vantare nemmeno il più anziano dei re.
« Il fetore delle tue adulazioni m'infastidisce la mattina. » reclamò Ferni, senza scomodarsi di rivolgergi perlomeno un'occhiata « Fai in fretta. Ho molto da fare. » si arrestò, incrociando le braccia ed attendendo che il servitore facesse capolino dalle sue spalle e cinguettasse le proprie inutili constatazioni.
Yed si passò una manica del vestito sul grasso volto per asciugarsi il sudore che gl'imperlava la fronte a causa dello sforzo eccessivo per la mole del suo corpo e si sistemò il cinturone in vita nel quale penzolava un fodero vuoto, che serviva solamente a rimarcare la pancia sproporzionatamente sporgente da sotto la larga e spessa tunica blu. Un indumento semplice, intarsiato di fili d'oro a dimostrare il rango d'appartenenza, perché Yed non era un qualunque uomo di cui prendersi gioco, rivestiva la carica di Retoltrach, il braccio destro del Rekkar, colui che conosceva ogni cosa riguardante il regno di cui si prendeva carico, colui che sapeva in ogni situazione cosa dire e come agire, colui che dietro la facciata del grande e potente sovrano, muoveva i fili della corte a proprio piacimento.
« Una ragazza, mio signore. Ho appreso personalmente dagli inseguitori di Kohor che Dhoveerdhan ha portato con sé, nel suo ritorno, una ragazza. Bella, dicono, più di Solana. I capelli gialli come il miele. » Ferni parve interessarsi all'improvviso alle sue parole, nelle profonde iridi nere scintillò un interesse animalesco al solo sentire il nome di Solana. Delle tante cose che aveva rubato a suo fratello, lei rimaneva la più preziosa. Ammazzargli in una volta sola moglie e sorella era stato un piacere così grande da non poterlo descrivere, ricordava nella sua testa solo il dolcissimo calore che l'aveva invaso nell'ammirare il suo sangue bagnare le mani di Veer. Era stato quello, l'attimo in cui aveva indugiato, colto da un sentimento invalidante quale la vedetta, e che aveva permesso al suo amatissimo fratellastro di svignarsela come un coniglio, aiutato da un uomo la cui testa aveva fatto da centrotavola per giorni nei suoi banchetti, fintanto che l'odore non era diventato insostenibile.
« Amo, le donne di Veer. » sorrise, increspando la pelle più scura della cicatrice che gli attraversava a mezzaluna tutto il volto, partendo da sotto il mento, tagliando per le labbra e lo zigomo, e terminando appena al di sotto del sopracciglio.
« E' con lui a Thora Koshra. » s'inchinò Yed, quasi si aspettasse un qualche ringraziamento per il suo impeccabile operato. « Volete davvero attaccarla? Solo voi? Senza attendere gli alleati? » vide Ferni farsi serio d'un tratto ed infine abbandonarsi in una sana risata adeguata alla sua tenera età.
« Mi credi tanto pazzo, vecchio? » lo derise, poggiandogli una mano sulla testa nuda, totalmente priva di capelli ed avvicinandosi con le labbra al suo orecchio « Non sai nulla, di strategie militari. » sospirò e tornò distante non solo fisicamente.
« Temo per voi. » ammise imbarazzato, non tanto a causa dell'esplicita critica che un neonato di guerra gli avesse rivolto, quanto piuttosto per colpa dei suoi sentimenti. Voleva bene a Ferni, nonostante lui non avesse alcun rispetto per la sua persona, come avrebbe voluto bene ad un figlio. Poteva risultare capriccioso ed irriconoscente ma rimaneva tale.
« Mio ingenuo amico, non attaccherò i Fenrir stanotte. Li voglio solamente provocare al punto giusto, solleticare l'ego di Maitreya per indurlo a muoversi contro di noi per sua volontà. La Dhevýr sarà effettiva solo in caso di minacce imminenti, e nessuno, eccetto l'orgoglio ferito di Maitreya, avrebbe il coraggio d'interrompere una pace che dura ormai da decenni. » riprese a camminare, abbandonando Yed ai mille pensieri che l'avrebbero investito con una frase sibillina, farcita di implicazioni, quale gli disse per chiudere il discorso « Chi viene attaccato, dopotutto, non è mai dalla parte del torto. »

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