Atomic Origami

di Kuri
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** UNO: Ricordare ***
Capitolo 2: *** DUE: Morire ***
Capitolo 3: *** TRE: Lottare ***
Capitolo 4: *** QUATTRO: Sopravvivere ***



Capitolo 1
*** UNO: Ricordare ***


Scritta per la V Disfida de I Criticoni con il bando Invisibile, che doveva essere centrato sul prompt Sei. E direi che tutto si è incastrato meravigliosamente alla perfezione, visto che la storia l'avevo in testa da un po'. Ci ho riflettuto sopra moltissimo, l'ho iniziata più o meno un milione di volte con un milione di forme diverse e alla fine, proprio qualche giorno fa, ha assunto la sua forma definitiva, anche a causa della mia fretta che mi costringe ad adempiere alle scadenze sempre all'ultimo momento.
E di tutti i significati che aveva, e avrebbe potuto avere, forse la dimensione più piena l'ha presa solo nell'ultimo mese, in mezzo a tutti i fatti reali che la vita normale ci mette davanti.
E se dovessi dire cos'è per me Atomic Origami, direi che è la storia di qualcosa di piccolo-piccolo perso in mezzo a qualcosa di grande-grande e che alla fine, malgrado che se ne parli, si strepiti, e si mandino in onda speciali infiniti (ed infinitamente noiosi) su qualsiasi canale della tivvù, dietro una svolta, in un giorno qualsiasi, ci sarà sempre qualcosa di nuovamente piccolo-piccolo e grande-grande che spazzerà via i precedenti piccolo-piccolo e grande-grande, e allora ricordarsene non sarà più un impegno preso da tutti, ma solo un fastidio, e in un minuto di silenzio un sacco di persone si ritroveranno a pensare a cosa prendere al supermercato come spesa per la settimana.
C'est la vie!







UNO: Ricordare



Cosa rimane di noi.
Ci rimane una città.
Un lavoro sempre uguale.
Una canzone che fa sottofondo all’Indecifrabile.
[L'aeroplano, Baustelle][1]



[1945, 5 agosto]


Non aveva sopportato di vedersela comparire di fronte con quel sorriso che non chiedeva giustificazioni e la valigia stretta in mano.
Quella valigia aveva visto così tante strade che la pelle di cui era fatta si era arricciata vicino agli angoli, crepandosi e mostrando il grosso cartone che a stento la teneva ancora in forma. Eppure Shizuka, malgrado le promesse e i sospiri, non aveva mai smesso di riempirla, neppure quella volta.
Sei poteva immaginare che dentro ci fosse anche il suo vestito rosso, quello dalla gonna ampia e vaporosa in stile occidentale e il pensiero le aveva ringhiato dentro come un animale rabbioso.
Era rimasta immobile sotto quel sorriso mentre Yōko alle sue spalle terminava di impartire istruzioni alle ultime ragazze vestite di bianco che salivano sulla camionetta militare. Il chiacchiericcio rapido e secco delle donne copriva il movimento delle jeep nel piazzale frustato dalla pioggia, i rapidi addii dei soldati in partenza, il rumore assordante delle lacrime delle loro compagne che li salutavano per l'ultima volta.
Sei aveva desiderato ardentemente veder scomparire il sorriso dal viso bianco di porcellana di Shizuka sotto l'impatto della propria mano.
Così dirsi addio sarebbe stato accettabile.
«Hai proprio deciso?»
Shizuka aveva annuito con tranquillità. Le palpebre truccate erano calate sui suoi occhi intensi, e Sei per un istante aveva potuto riprendere fiato. Aveva sempre trovato incredibile la capacità della giovane donna di essere perfetta e vezzosa anche in mezzo all'orrore.
«Me lo ha chiesto il capitano Kashiwagi. È una cosa che devo al nostro paese.»
Sei non era riuscita ad impedirsi di risponderle con uno sbuffo di derisione. Il loro paese non aveva bisogno di lei, di nessuno di loro, e quella di Shizuka era consapevolmente solo una bugia. Sei ne era certa. L'unica cosa di cui a Shizuka importasse veramente qualcosa era quel viaggiare ramingo inseguendo il canto. Quando il capitano di fregata Suguru Kashiwagi le aveva chiesto di seguire il battaglione della Marina a Hiroshima per cantare i suoi enka alle truppe lontane da casa, Shizuka non aveva esitato un istante. Sentiva già la pressione del microfono nel palmo della mano, e questo bastava a farla sentire viva.
E poi fuggire le consentiva di sentirsi libera dalla prigionia di quell'isola. L'amore non era stato un legame forte a sufficienza. Almeno, non un amore che aveva perennemente lo sguardo altrove.
In uno dei rari momenti in cui era riuscita ad intercettare gli occhi di Sei li aveva guardati con attenzione e le aveva detto che partiva. Con calma, con una certa grazia compassata nel tono della voce, aveva gettato all'aria il calore degli abbracci e i baci, tutte le parole che si erano dette e ridette sotto il fragore delle bombe.
Sei le voltò le spalle e si incamminò nel piazzale.
Che se ne andasse pure. Ormai aveva perso tutto, perdere anche il conforto di lei non avrebbe potuto peggiorare l'agonia di quei giorni.



L'ospedale militare tendato era silenzioso, tanto da sembrare abbandonato. Non si udivano più i rantoli dei civili e dei militari ricoverati in quel paese quasi raso al suolo. Oppure, più semplicemente, era Sei a non sentirli più, ad essere diventata insensibile al dolore fisico degli altri. Tutto quello che accadeva tra la stoffa sporca rimaneva nascosto come in un bozzolo umido e canceroso. Solo la notte si intravedeva qualcosa, ritagliato dalla luce delle lampade a gas, come figurini neri in un macabro teatro di burattini e ombre cinesi, ma gli occhi erano ormai abituati sfuggire alla consapevolezza dell'agonia.
«Satō-san?»
La voce giunse alle sue spalle bassa e morbida.
«Mizuno-sama.» salutò voltandosi. Le rivolse un sorriso storto, senza guardarla negli occhi «Lo sai bene che non dovresti chiamarmi così. Quelli come me non meritano tanto rispetto.»
Yōko Mizuno si staccò dalla soglia di una tenda poco lontana, dove probabilmente aveva tentato di prendersi cura di uno dei suoi pazienti, e le si avvicinò. Mentre avanzava incrociò le braccia sul petto coperto dal camice bianco e Sei poté vedere una striscia scarlatta di sangue imbrattare quel candore all'altezza del gomito.
Sul viso di Yōko tuttavia aleggiava un sorrisetto di indulgenza divertita.
«Sarebbe più semplice, per te, se ti ignorassi come fanno tutti gli altri? Ti sentiresti sollevata?»
«Il disprezzo si può affrontare con sfrontatezza. La gentilezza mette nelle condizioni di essere grati ed ossequiosi.» rispose Sei con un'alzata di spalle.
Yōko continuò ad accogliere quelle parole con un sorriso, senza accennare al minimo turbamento.
Non era inusuale coglierla in quel tipo di atteggiamento e Sei si chiese come la giovane donna potesse non apparire inopportuna nel suo indulgere sardonico, malgrado la propria condizione e quella del mondo in cui stavano vivendo.
L'orrore era dispiegato sotto i loro occhi come un rotolo di pregiatissima seta cremisi, e soffocava ogni cosa con la sua impalpabile patina irreale. Ogni singolo popolo civilizzato del mondo aveva scoperto di odiare il proprio vicino e tutti erano diventati carne da macello. Non c'era più un solo buco sicuro al mondo dove potersi rifugiare.
In tutto questo, Yōko Mizuno si ostinava a comportarsi come se tutto ciò non avesse alcuna importanza, e lavorava alacremente come se fosse stato ridicolo che la vita e i suoi risvolti pratici dovessero bloccarsi per cose del genere.
Ogni giorno, da tre anni, affondava le mani candide e affusolare nelle ferite infette dei soldati dell'aeronautica della marina giapponese, ospitati in un campo tendato nei pressi di Tokyo, nel tentativo di salvarli, forte di una sicurezza che pochi avevano saputo trovare dentro di sé dopo lo scoppio del primo colpo di mitragliatrice.
Yōko era un'infermiera. In verità Yōko Mizuno era solo l'ultima figlia di un vecchio medico militare. Questo era stato sufficiente per conferirle dell'autorità quando quasi tutti i medici di Tokyo erano stati mandati al fronte per ricucire i corpi dei soldati agonizzanti e quando la devastazione delle bombe era cresciuta a tal misura da richiedere le fatiche delle poche donne che non lavoravano nei campi o nelle fabbriche. Sicuramente l'amicizia con il giovanissimo capitano Suguru Kashiwagi, a cui il padre aveva dovuto ricucire una mano dopo la sua prima mattinata di servizio nell'esercito, l'aveva aiutata ad essere presa in considerazione con maggior serietà all'interno del vasto campo della marina militare, ma non era abbastanza. Da quando i raid sulla città si erano fatti più frequenti, nove mesi prima, il campo era diventato un ospedale per tutti, l'unico luogo in cui andare a morire lontano da quella città che si era tramutata in un tumolo di macerie, sperando in un'ultima ora dignitosa.
Yōko Mizuno allora era diventata un macellaio. Terminava il lavoro che bombe e granate e pallini di piombo facevano su braccia e gambe, imbottiva i moribondi di morfina tanto da togliere loro anche l'illusione della consapevolezza, annunciava alle madri che dei loro figli e figlie non rimaneva più nulla su cui piangere.
Yōko Mizuno era riuscita però a lottare, anche dopo che il suo vecchio genitore era morto, lasciandola sola. I suoi fratelli erano al fronte e le sue sorelle fuggite. Rimaneva solo lei ad occuparsi di tutto quello scempio con ostinazione.
«Non dovresti tornartene a casa, Satō-san? Sono sedici ore che ti trovi qui al campo. Credo che per oggi sia più che sufficiente.»
Sei rispose al sorrisetto di Yōko voltandole le spalle e alzando lo sguardo verso il cielo.
I pochi ciliegi rimasti avevano avuto il coraggio di fiorire anche quella primavera e adesso le chiome sparute si muovevano verdi contro il cielo gravato di nuvole.
«Per quale motivo dovrei andare in quella baracca?» disse con indifferenza, alzando appena le spalle. La camicia kaki da uomo, che le infagottava il busto sottile, sussultò. Yōko rimase a fissarle la nuca candida lasciata scoperta dai capelli trattenuti in alto da un berretto blu.
«Potresti andare a riposare. È da quando...» si bloccò per un istante, attenta alla reazione della donna che si ostinava a non guardarla «È da quando il battaglione è partito che non sei più andata a casa a dormire.»
Sei sbuffò, una risatina amara che le piegò le labbra mentre gettava un'occhiata a Yōko al di sopra della propria spalla. Non incrociò però il suo sguardo. Detestava la capacità di Yōko di frugarle nell'animo impunemente, capendola come se fosse stata un libro per bambini, fin troppo semplice.
«Non c'è molto da riposare. Con questo caldo le pire vanno preparate in fretta e le casse inchiodate subito, altrimenti il fetore dei cadaveri potrebbe arrivare alle narici del nostro celeste imperatore.» si sistemò il berretto sulla testa, lasciando che ciocche irrigidite dalla polvere sfuggissero all'abbraccio del cotone «Per questo devo rimanere qui. Qualcuno deve pur farlo, questo lavoro.»
Una scusa, patetica nella misura in cui si appigliava alla realtà con ostinazione.
Ma a Sei non rimaneva nient'altro che quello. Scuse.
E un aspetto che le gravava addosso come una sentenza ingiusta. I capelli chiari, gli occhi tondi e brillanti, l'altezza esile e longilinea, la condannavano senza possibilità di appello.
Nelle sue vene ristagnava sangue sporco, un miscuglio di razza che si faceva la guerra allo stesso modo degli eserciti nel Pacifico. Giapponese e americana, estranea a qualsiasi luogo, l'unico schermo e alibi che aveva era un vecchio berretto militare sempre calato sul viso.
Era così che Yōko l’aveva trovata, sei mesi prima. Scarmigliata, sporca, il bel viso coperto di fuliggine, mentre rovistava tra quello che rimaneva di una fabbrica distrutta, probabilmente nella speranza di trovare qualcosa di utile da rivendere al mercato nero. Sei doveva aver pensato la stessa cosa di Yōko, perché si era limitata a sorvegliarla di sottecchi mentre la giovane donna arrancava sul cumulo di spuntoni di cemento. Poi quel cappello blu le era scivolato di lato e lunghi capelli chiari le erano caduti sulle spalle. Yōko non aveva aspettato che Sei ricoprisse quella caratteristica che la riempiva di vergogna e le era andata vicino finchè non era riuscita a chiuderle la mano ferma intorno al polso.
Si erano guardate per lunghissimi istanti, poi Sei si era messa a ridacchiare, scostandosi i capelli lerci dalla faccia.
«Vorresti un lavoro vero?»
La risatina di Sei si era interrotta, sebbene un sorriso di derisione avesse continuato ad aleggiare sulla sua bocca. Yōko si era persa ad osservare quel viso così bello e intenso, dai tratti sconosciuti.
«Che tipo di lavoro avresti per una come me?»
Yōko aveva aumentato la presa intorno al suo polso ossuto.
«Non è molto pulito, ma forse è meglio di quello che stai facendo adesso. Avrai un posto dove dormire e mangiare.»
In quel modo Sei era entrata nel campo tendato per la prima volta. Con il viso chino all'ombra della sottile visiera, seguendo Mizuno Yōko che procedeva calma e noncurante tra gli sguardi degli altri medici, delle infermiere e dei soldati rantolanti.


Si erano separate con forza appena avevano udito il ticchettio degli zoccoli leggeri e il lieve bussare sulla porta di legno semplice e squadrata.
Fortunatamente Shizuka non aveva messo il suo consueto rossetto cremisi, altrimenti le tracce su Sei sarebbero state evidenti. Sul viso, sulle mani, su ogni centimetro di pelle che poteva essere adorata.
«Avanti.» aveva detto Sei distogliendo lo sguardo da Shizuka, come se lei non fosse mai stata lì.
La porta si era aperta e Yōko era entrata con passo elastico e sicuro, fino a quando aveva notato la presenza di Shizuka, a proprio agio e sardonica all'interno dell'unica stanza spoglia della casetta di legno.
Le aveva sorriso, inclinando appena il capo.
«Gokigenyo, Kanina-san.»
Anche la cantante le aveva rivolto un saluto garbato ed impeccabile.
«Mizuno-san, buongiorno anche a te.»
Sei era sembrata indecisa su dove andare all'interno della stanza spoglia. C'erano troppi pochi oggetti per poter fingere di essere interessata da qualcosa. Si era quindi voltata verso Yōko e aveva sospirato.
«Cosa vuoi, Yōko?» nel suo tono di voce non c'era stata irritazione, solamente stanchezza.
«Sekiguchi-sensei mi ha chiesto se puoi passare al tempio, questa sera. Ha bisogno di una mano per organizzare la veglia funebre.» le aveva chiesto. Senza neppure aspettare la risposta si era voltata nuovamente verso la porta, gettando un'ultima occhiata in direzione di Shizuka, che aveva contraccambiato quell'indagine lucida e acuta.
«Vecchio testardo...» aveva sibilato Sei tra i denti.
Yōko si era bloccata sulla porta e aveva girato la testa sopra la spalla.
«Fa solo del suo meglio.»
«Con centinaia di corpi che ingombrano quel poco del cortile del tempio che è rimasto intatto, organizzare una veglia funebre è testardaggine, non
fare del proprio meglio
Yōko aveva abbassato gli occhi, ed era rimasta a fissare la propria mano chiusa sullo stipite scheggiato. Shizuka le aveva visto le nocche sbiancarsi e i nervi tendersi sotto la pelle graffiata.
«Purtroppo ci sono delle persone che hanno bisogno anche di questi piccoli gesti di conforto, per poter credere di avere ancora una vita. E Sekiguchi-sensei e gli altri monaci apprezzano moltissimo il tuo aiuto.»
Shizuka si era voltata verso Sei, aspettandosi che replicasse in qualche modo. Sei lavorava al campo solo perché Yōko era riuscita a legarla a quel luogo a forza, sperando che il senso di colpa potesse lentamente dissolversi, mentre l’unico risultato era che lei continuava a dibattersi, come un animale rabbioso tenuto al guinzaglio.
Invece Sei non aveva detto nulla.
«Dì al vecchio che ci sarò.»
Yōko aveva annuito sorridendo, ma senza contentezza. Poi se ne era andata velocemente, seguita dal fruscio della ruvida veste da infermiera.
«Povera Sei.» aveva sussurrato Shizuka appena la giovane donna si era allontanata. Sei si era girata verso di lei. Eppure sul viso di Shizuka non aveva trovato derisione o sarcasmo, quanto piuttosto un'espressione malinconica.
«Perché?»
Sei si era ritrovata inchiodata dagli occhi di Shizuka, mentre questa copriva la distanza che le separava e la avvolgeva in un abbraccio.
«Tanto amata e con così tanta paura di esserlo...» Shizuka si era sollevata appena sulla punta dei piedi e le aveva sfiorato l'angolo della bocca con le dita «Ti rassegnerai mai, Sei? Riuscirai a sentirti a casa da qualche parte, anche solo per un secondo?»
Sei era rimasta immobile. Poi si era lasciata scivolare a terra, rimanendo in ginocchio davanti a Shizuka. Aveva affondato il viso tra le pieghe soffici del suo vestito giallo e le aveva afferrato i fianchi, stringendola ancora più forte contro di sé.
«È per questo che ci sei tu, Shizuka-chan.» aveva sussurrato e Shizuka aveva avvertito il suo respiro lambirla attraverso la stoffa «Canta, ti prego. Mi piace sentire la tua pancia che si muove mentre canti. È così
viva


Il lavoro che Yōko le aveva dato allora, sei mesi prima – e il tempo scandito dalle bombe e dagli spari sembrava essere iniziato da sempre, senza speranza che finisse – ora le sembrava l'unica vera ragione del suo esistere.
Sei si occupava dei corpi dei soldati, o dei pezzi di essi, che lasciavano il campo. La composizione delle salme disintegrate dai mortai, braccia e gambe ormai inutili venivano smaltiti con meticolosità dai suoi gesti attenti. La metà di lei che si sentiva responsabile per tutto quello che le passava tra le mani veniva a patti con la metà che piangeva per ogni singolo brandello di uomo e donna.
«Immagino che tu non abbia intenzione di lasciarmi in pace finché non ti giurerò che andrò a riposare.» la voce di Sei risuonò non più forte di un sussurro tra i rumori del campo.
«Potrebbe essere.» le rispose Yōko annuendo con un sorriso.
«Perché non riesci a rassegnarti con me, Yōko?»
La donna avanzò di qualche passo verso il sentiero tracciato dalle pietre squadrate. Sei la seguì con lo sguardo mentre le passava accanto sorridendo, con quella piega sulla bocca che aveva la resistenza e l'imperturbabilità di uno scudo.
«Ti aspetto domani mattina. E forse, se stasera piove, non ci sarà neppure molto lavoro.» le disse semplicemente con voce tranquilla «Buon riposo, Sei.»
Rimase ad osservarla con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni, finché non vide Yōko scomparire all'interno della baracca che ospitava la base centrale, dove erano conservati gli scarsi medicinali e da dove si tentava di organizzare quella mattanza con cui ogni minuto dovevano fare i conti.
Anche lei iniziò ad incamminarsi. Se avesse potuto, avrebbe voluto camminare fino a quando le gambe non le avrebbero più retto, e gli occhi non sarebbero più stati in grado di farle vedere la strada. Forse, da qualche parte, avrebbe trovato un buco dove nascondersi.


Le era andata quasi a sbattere addosso mentre attraversava di soppiatto il vasto spiazzo illuminato dalle scarsa lampade del campo militare.
Stava strisciando come una ladra tra jeep ammaccate e camionette quando le sue mani avevano incontrato qualcosa di soffice e caldo, la consistenza di una carne intensamente viva, avvolta da stoffa frusciante come il vento tra i ciliegi.
Le aveva afferrato gli avambracci con entrambe le mani e se l'era stretta contro, per vedere sotto la poca luce chi aveva interrotto la sua fuga dalle voci allegre che giungevano dal campo, da una tenda spaziosa al suo centro che sembrava pulsare come un cuore scintillante.
«Che ci fai tu qui?» le aveva sibilato addosso non appena aveva scorto il suo sorriso rosso fiamma.
Shizuka non le aveva risposto.
«Dovresti essere lì a cantare.» aveva concluso Sei lasciandole andare le braccia. Malgrado la rabbia nella sua voce, il movimento era stato gentile, quasi si fosse ritrovata tra le mani una bambola.
«Mi ha sostituito una ragazzina, la pupilla di Sachiko Kushiwagi, la moglie del nostro caro capitano del battaglione del Giglio. Malgrado non sia che un uccellino, la sua voce ha molta voglia di farsi udire, non trovi?» Shizuka aveva parlato appena con un sussurro e Sei aveva avvertito contro la propria guancia il calore del suo respiro.
Kanina Shizuka era la cantante più famosa di enka[2] di quel paese distrutto. Quando le bombe avevano iniziato a cadere sulla città, il novembre precedente, Shizuka stava cantando in un locale dalla parte opposta rispetto a dove erano fiorite le prime esplosioni. I colpi sordi che avevano fatto tintinnare i bicchieri degli uomini seduti ai tavolini le avevano fatto ingoiare le note all'istante, ammutolendola.
Da allora, ogni volta che un petalo di metallo cadeva giù dal cielo, la gola di Shizuka si paralizzava. La ragazza dalle labbra scarlatte aveva imparato a giocare con le bombe, come se non fossero stati altro che i balocchi di una bambina capricciosa.
Quando la sua voce perfetta si immobilizzava sotto il rintocco della devastazione, il silenzio vibrante che ne seguiva si propagava negli uomini angosciati che la circondavano come il grido di paura che loro non avevano il coraggio di emettere.
Non voglio morire.
E le parole del canto, gli enka struggenti che componeva, si dilatavano così all'infinito, impedendo che la loro eco potesse avere fine.
Era per quel motivo che, sempre più spesso, il capitano Kashiwagi aveva insistito affinché lei cantasse per le truppe e per i poveri moribondi del campo militare.
«Satō-san...»
«Non chiamarmi così.»
«Sei.» vedeva i suoi occhi che la fissavano nel buio «Perchè stavi scappando?»
Lei si era allontanata e le aveva puntato un dito addosso. Il movimento aveva spinto Shizuka contro la fiancata ferrosa di una jeep, malgrado Sei non l'avesse neppure sfiorata.
«Non è prudente che una come me se ne vada in giro quando i soldati hanno bevuto un po'. Potrebbero farsi venire la voglia di prendersi la rivincita contro...» aveva alzato la mano e indicato il cielo nero e ancora silenzioso «La protezione di Mizuno-sama e di Kashiwagi-san non può garantirmi l'immunità per questa.» l'indice si era piegato verso il suo viso appena visibile.
Shizuka aveva sollevato la mano e le aveva sfiorato la guancia.
«A me piace molto.» le aveva sussurrato vicinissima.
Il suo sguardo era stato intenso e senza equivoci.
Le stava chiedendo qualcosa di vergognoso e immorale, un gesto che nessuna donna per bene dell'intero Giappone avrebbe mai sognato di fare. Ma Satō Sei non era una persona per bene e malgrado l'aria da diva non lo era neppure Kanina Shizuka.
E Shizuka era bella e tiepida, e non aveva voglia di piangersi addosso per quello che stava accadendo. Non avrebbe mai permesso a quegli stupidi uomini che giocavano alla guerra di piegarla, neppure quando si fosse ritrovata con la faccia schiacciata in mezzo alla polvere.
Sei le aveva raccolto il viso tra le mani e l'aveva baciata sulla bocca rossa. Quando Shizuka aveva alzato le braccia per cingerle il collo, Sei aveva sentito il fruscio crepitante della stoffa e l'odore intenso ma buono della pelle sudata della donna.
La sirena dell'allarme aveva iniziato allora a gridare contro la notte.[3]



Il calore all'interno della struttura centrale dell'infermeria del campo era appiccicaticcio e afoso, come bava.
Yōko si passò il palmo aperto della mano sul collo, spazzando via i rivoli di sudore che le cadevano dall'attaccatura dei capelli. L'aria era gravida d'umidità. Forse un tifone si stava preparando oltre la linea della costa, in pieno oceano, di quei tifoni con il vento forte che piegava gli alberi e con la pioggia che percuoteva le imposte chiuse.
La radio posata accanto al suo gomito sul tavolino non ne voleva sapere di emettere un suono udibile, qualcosa che risultasse comprensibile tra il gracchiare indistinto delle frequenze. Forse era colpa del vento che fischiava forte tra i cavi. Oppure non c'era nessuno che avesse qualcosa da dire.
Fuori il campo continuava ad essere schiacciato dallo spesso strato di nubi grigie che non sembrava avere intenzione di lasciare la città.
Si ritrovava sempre più spesso così, immersa nel silenzio tra gli scaffali vuoti dei medicinali.
Ricordava che la prima volta che aveva messo piede lì dentro, le persone che ingombravano la stanzetta dell'infermeria sembravano un unico corpo deforme, contorto da spasmi violenti ed incontrollati. Tutti urlavano per farsi sentire e per impartire ordini, oppure per rendersi utili con le frasi e i gesti più stupidi.
La guerra era appena sbarcata in Giappone e aveva gettato il panico su un paese che non sapeva come reagire di fronte a quella novità mostruosa. All'inizio tutto era stato tamponato con l'industria. Il traffico di corpi e di granate che avevano preso la strada per il Pacifico avevano dato a tutti la sensazione di essere in una fortezza.
Poi era arrivata la sensazione strisciante della morte, della fame, la certezza di essere completamente soli, abbandonati al centro di un'isola da cui non si poteva fuggire.
Il conflitto nel Pacifico aveva dato il via ad una sassaiola in cui l'unica vittima era risultata essere Tokyo. Dalle zone occupate dalle industrie, la distruzione si era allargata verso il resto della città, finchè si era arrivati al punto che non c'era stata notte in cui le sirene non suonassero disperate.
Yōko era persino arrivata a pensare che prima o poi tutto sarebbe finito. Ogni cosa sarebbe stata rasa al suolo, così che gli americani si sarebbero potuti fermare. Ma non era accaduto. Dopo nove mesi la città viveva ancora.
Anche il campo, a suo modo, era vivo.
Poi c'erano momenti in cui ogni cosa sembrava perdere d'importanza. In cui tutti diventava infinitamente piccolo e solo le sciocchezze arrivavano a contare davvero, come a significare che anche una cosa tanto brutta come la guerra poteva non arrivare mai ad ingoiare gli esseri umani fino in fondo.
Era per quel motivo che aveva deciso di dover salvare Sei.
Le sembrava l'unica cosa davvero importante, l'unico motivo per cui sudare, arrotolandosi le maniche fino ai gomiti e gridare tra le esplosioni, gonfiando i polmoni fino a farli dolere.
E il tutto senza un perchè. Ogni gesto che aveva compiuto nella sua giovane vita aveva avuto la traccia di una forte motivazione. L'impronta del suo carattere, della sua volontà inflessibile.
Sei era l'unico elemento impazzito di quel reticolo perfetto. Prima di tutto perchè era una ragazza, come lei, e quello struggimento che le catturava il cuore non doveva esistere. Poi perchè era totalmente priva della volontà di ragionare, istintiva come gli animali.
Sei non voleva riflettere, forse perchè l'impatto della realtà contro la faccia le forniva una risposta molto più che valida per continuare a lottare, malgrado le sue parole.
Yōko invece non ci riusciva.
Quello che le avevano insegnato i suoi genitori, il quartiere in cui aveva abitato, quello che lei stessa era arrivata a pretendere dai propri comportamenti era solo la perfezione.
Ci aveva creduto, con la sua consueta serenità pragmatica e l'acuto spirito di osservazione. Sarebbe stata la giusta attitudine di una donna destinata ad un futuro meraviglioso, a un matrimonio conveniente e ad una vita rispettabile e ammirata da tutti.
Poi era arrivata la guerra e ogni perfezione era svanita, fuori e dentro di lei.
Il baratro e l'incertezza si erano fatti più vicini. Eppure Yōko Mizuno avrebbe potuto sopportare anche quello.
L'incontro con Sei, però, le aveva dato un'altra vigorosa spinta e Yōko si era ritrovata con le punte delle scarpe sospese sull'abisso.
E tra le mani l'unica domanda che le era rimasta.
Che senso ha ogni cosa se non si può avere quello che più si desidera, oltre ogni moralità e giustizia?


Qualcuno aveva caricato un disco su un vecchio grammofono e di tanto in tanto la musica sembrava stiracchiarsi, come un gatto che faceva le fusa brontolando.
Le poche persone rimaste al centro del cerchio di terra battuta, tuttavia, non sembravano preoccuparsi più di tanto per la qualità della musica.
All'interno della tenda bianca c'era un caldo soffocante. Era tardo aprile e il vento si portava via i fiori di ciliegio nella notte, mentre le ultime coppie strappavano ancora qualche momento a quella danza mormorante al centro della tenda. I loro movimenti a volte erano impacciati, ma senza timidezza. La goffaggine era solo la naturale conseguenza di ferite ancora non ben rimarginate che dolevano un po', e tendevano la pelle sotto le uniformi dei soldati, mentre le loro donne lottavano nel tentativo di aiutarli a rimanere in piedi. Era solo un momento, poi tutto sembrava passare.
Forse era il desiderio di normalità ad essere così forte da rendere l'atmosfera soffocante.
Yōko aveva colto con la coda dell'occhio un movimento accanto all'imboccatura della tenda, e si era voltata per controllare, in un automatismo ormai consolidato dai ritmi della guerra.
Sei aveva approfittato delle sue chiacchiere con il capitano Kashiwagi per sgattaiolare verso l'uscita, senza dover sopportare i suoi muti rimproveri, ma all'ultimo momento si era girata per gettare un'ultima occhiata alla pista quasi deserta. Il suo viso era quasi per intero nascosto dall'ombra gettata dalla visiera del cappello blu, e dei capelli chiari Yōko riusciva solo a scorgere la lanugine che le percorreva il collo.
Sei si era voltata nuovamente per farsi inghiottire dalla notte del campo, ma gli occhi di Yōko l'avevano bloccata. L'aveva vista scuotere appena le spalle e muovere le labbra, come se la stesse pregando di lasciarla in pace.
«Ehi, soldato... non è un po' troppo presto per andarsene, senza avermi invitato a ballare?»
Yōko aveva visto Sei sussultare sotto il suono di quella voce che era arrivata calda e suadente fino a lei. Dal buio oltre la tenda era comparso un sorriso vermiglio e uno sgargiante abito rosso dalla strana foggia occidentale. Poi due occhi neri avevano catturato Sei e Yōko era rimasta impotente ad osservare la ragazza bella e sicura che si era avvicinata a lei.
«Io sono Shizuka... mi fai ballare?»
Yōko conosceva la donna che aveva intrecciato le dita della mano sinistra di Sei e le aveva fatto scivolare l'altra intorno ai propri fianchi, come se sotto il berretto di tela fosse davvero nascosto il viso bellissimo di un soldato dagli occhi allungati e con i gradi belli lucidi sulle spalline.
Kanina Shizuka, la cantante di enka più famosa di Tokyo, aveva trascinato Sei sul bordo della pista e lì aveva iniziato a dondolare lentamente, chiudendo gli occhi e appoggiandole la guancia sulla spalla. Sei si muoveva rigida, ma la sua mano indugiava contro la stoffa frusciante, come fosse stato quello il suono che permetteva ai suoi piedi di muoversi.
Yōko aveva potuto solamente seguirle con lo sguardo, mentre le brutte scarpe di cuoio indurito che indossava le sembravano essere diventate di piombo e cemento.



La radio parlò. Era il consueto bollettino di guerra, la cronaca puntuale e crudele di quanto stava accadendo nell'Oceano.
Yōko strinse le mani attorno all'apparecchio. Lì dentro, nella solitudine dell'infermeria, diventava facile far scivolare a terra la maschera di perfetta efficienza e sentirsi solo una ragazzina di diciannove anni. E sentire che c'erano cose ingiuste, che non sarebbero mai dovute accadere. Come il bollettino di quel momento, in cui venivano elencati i giovani uomini dell'aeronautica della marina che avevano perso la vita, lanciando i propri caccia contro le portaerei americane. E poco le importava se tutti gli altri dicevano che era una cosa giusta e buona, e se anche lei nei momenti di esaltazione bellica aveva gridato quelle stesse parole, nel freddo di una serata invernale trascorsa nei rifugi ad accogliere chi scampava alle bombe.
Alcune cose non sarebbero mai dovute accadere, semplicemente. Ma non perchè molte persone morivano, e tutti vivendo nella miseria diventavano simili ad animali feriti.
Odiava quel luogo e quel momento perchè le avevano fatto conoscere Sei e perchè la desiderava, con un'avidità maggiore rispetto a quella con cui aveva imparato la medicina da suo padre o con cui aveva sognato il proprio brillante futuro.
Yōko lasciò andare la radio e si portò le mani alla testa.
C’erano cose che, semplicemente, non sarebbero mai dovute accadere.












[1] Questa stupenda canzone è L’aeroplano, dei Baustelle. Forse non la più geniale, forse non è la più “cervellotica” ma secondo me racconta qualcosa di assolutamente reale, che con la voce stupenda di Rachele diventa ancora più doloroso e bellissimo. È inutile dire che l’ascolto di questa canzone in loop continuo è vivamente consigliata, insieme a Breathing di Kate Bush e ad un’altra canzone stupenda che verrà nominata più avanti.
[2] Riporto quando detto da Wikipedia: “Il termine enka si riferisce a due diversi stili della musica giapponese. Il primo nacque nel periodo Meiji (1868-1912) e fu in voga fino al periodo Taisho (1912-1926). Il secondo, al quale generalmente ci si riferisce usando il termine enka oggi, è un tipo di musica popolare più melodrammatica. Nacque come forma di musica per esprimere dissenso politico, ma perse presto queste caratteristiche per diventare una forma di musica legata a temi come l'amore, la perdita (dell'amore), la solitudine, le difficoltà della vita, e anche suicidio e morte. L'enka è la prima forma musicale che unisce la scala pentatonica giapponese con le armonie occidentali.”
[3] Citazione da Ali scure, dei Subsonica.

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Capitolo 2
*** DUE: Morire ***








DUE: Morire





[08:15 a.m., 1945, 6 agosto]


KA-BOOM.













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Capitolo 3
*** TRE: Lottare ***








TRE: Lottare



Che cosa ne è della nostra relazione.
Stupidi noi che piangiamo disperati.
Che cosa resta dei sogni che avevamo nella testa.
La nostra esperienza a che cosa servirà.
[L'aeroplano, Baustelle]



[1945, 7 agosto]


L'annuncio era arrivato al campo dodici ore prima.
Su Hiroshima era caduta una bomba.
Le notizie che erano state trasmesse sulle frequenze militari erano confuse, frammentarie, e ripetevano insistentemente fatti a cui nessuno riusciva a credere.
Il nulla. Dove prima c'era una città, adesso sorgeva il Nulla.
I contatti con Hiroshima si erano interrotti la mattina del sei agosto. Nessuno avrebbe saputo dire con precisione quando, ma improvvisamente non era più stato possibile telefonare o ricevere telegrammi.
Una squadra di tecnici inviata a controllare dove potesse trovarsi il guasto lungo le linee telefoniche, aveva dovuto constatare come fosse tutto in perfetto ordine finché... qualcuno non si era affacciato sull'orlo del Nulla, e ne aveva osservato sgomento la profondità.
Le frequenze radio avevano allora crepitato furiose: il Nulla, il Nulla! Aiuto, c'è il Nulla!
Era stata sufficiente un'ora per organizzare una ricognizione aerea, per poter trovare una spiegazione a tutto quel devastante silenzio che allungava i suoi artigli anche su Tokyo e sui quartieri generali delle forze armate.
La spedizione aveva impiegato sette ore per tornare all'aeroporto miliare di Tokyo. Giusto il tempo di andare e tornare, sul finire di una torrida giornata estiva.
Quella notte non era stato possibile dormire. Da un posto lontano, aldilà dell'oceano, una voce seria in un inglese pastoso aveva ammesso che sì, su Hiroshima era stato piantato il seme del Nulla. Non era più servito sapere con precisione ciò che i due piloti della spedizione ricognitiva avevano visto. L'evidenza era sotto gli occhi di tutto il mondo, perché il carnefice aveva mostrato a tutti con innocente orgoglio la propria bravura.[1]
L'ordine di organizzare immediatamente i soccorsi aveva vibrato attraverso tutte le radio delle basi militari, degli ospedali di campo, di ogni orecchio rimasto in ascolto. I pochi medicinali, le garze ritagliate dai kimono morbidi delle geishe, i corpi attoniti di infermiere e medici erano stati stivati in grossi aerei cargo e avevano attraversato l'aria fino all'altro capo del Giappone.
Ognuno di loro sperava ci fosse abbastanza tintura di iodio per tamponare il Nulla.


Sei fissò attonita il corpo di Yōko che si schiantava con forza contro una divisa miliare lacera color kaki. Vide le sue braccia che annaspavano nell'aria, cercando di grattare la polvere che soffocante aleggiava tutto intorno a loro, per poi affondare con le unghie nella stoffa, stringendo a sé lo sgomento del giovane uomo.
Lui sollevò le mani ferite, attraversate da lunghi tagli scarlatti, e le chiuse intorno al camice candido che indossava la donna, ma sembrava non avere più le forze per stringere nulla.
Sei sollevò il fazzoletto sul viso e se lo premette intorno alla bocca. L'aria era irrespirabile, densa e gessosa. Sentì il proprio respiro rimbombare contro la stoffa, nel naso, nelle orecchie.
Quando l'aereo era atterrato, avevano trovato una divisione dell'aeronautica della marina ad attenderli. C'era anche il capitano Kashiwagi, ma del giovane che era partito con il berretto sulle ventitrè, come il protagonista dandy di uno dei rari film occidentali che avevano visto a Tokyo, non era rimasto nulla. Gli occhi scuri si posavano sulle cose, ma non ne distinguevano i contorni. Anche quando aveva visto Yōko andargli incontro, arrancando come impazzita appena il portellone dell'aereo si era aperto, pareva non averla riconosciuta.
Sei non aveva stentato a capire perché lo sguardo di Kashiwagi facesse così fatica ad oltrepassare le ciglia delicate e la linea delle guance pallide e sporche di fuliggine.
Hiroshima non esisteva più. La devastazione era stata evidente fin dalla prima occhiata angosciata lanciata dai finestrini dell'aereo. A terra, vicino ad una delle colline erbose che chiudevano Hiroshima contro il proprio golfo, tra la polvere e il sole forte del mezzogiorno, un grande buco vuoto si apriva davanti a loro, inghiottendoli.
Gli edifici non esistevano più. Solo alcuni muri di cemento e pericolanti graticci di ferro allungavano le proprie dita annerite verso il cielo. Di tutto il resto – case, strade, ponti, persone, migliaia di persone, animali e composizioni di ikebana – non rimanevano che calcinacci bianchi come ossa che ricoprivano tutta la terra e che riflettevano come uno specchio lucidissimo i raggi del sole.
L'ampiezza di quella visione la stordiva.
Fin dove poteva allungare gli occhi, Sei vedeva solamente cenere e polvere. In lontananza si udivano le esplosioni di incendi che innalzavano colonne di fumo nero, dove qualche casa e le fabbriche di armi avevano avuto l'ardire di rimanere in piedi traballanti, seppur piagate dalla forza del colpo.
«Non avremmo mai pensato che...»
Sei si voltò verso Yōko. Cercava di reggere il corpo di Kashiwagi con tutte le sue forze, ma i muscoli di lui sembravano sfuggirle dalle mani. Alle loro spalle le infermiere e i soldati arrivati da Tokyo scaricavano dall'aereo il poco materiale di soccorso che erano riusciti a trovare nei depositi e lo trasportavano all'interno di quello che rimaneva di una piccola chiesa cristiana semi-distrutta dalla bomba. Un gruppo di case all'ombra della cappella sembrava essere scampato alla forza distruttiva della bomba. Le finestre si affacciavano cieche su quello che rimaneva delle strade, alcune tettoie erano crollate e le schegge di legno formavano un tappeto morbido sotto i loro piedi, ma le strutture sembravano reggere e offrire un riparo che ormai più nessun luogo lì era in grado di dare, sotto i raggi impietosi del sole.
Sembrava che per un richiamo ferino, spinti dal dolore delle proprie membra devastate, molti dei sopravvissuti si fossero diretti verso quel luogo. Le loro grida di sofferenza e i rantoli di agonia erano udibili sopra il trambusto delle operazioni di scarico dell'aereo e il silenzio devastante della città scomparsa.
Erano così forti, che Sei non riusciva a sentire altro.
Abbassò gli occhi verso un gorgoglio rauco che le passò accanto. Riuscì solo a vedere una bocca spalancata che chiedeva aiuto agli dei, sporca di vomito e sangue.
Quando erano fortunati, i soccorritori trovavano tra le macerie un pezzo di porta o una tavola con cui trasportare i feriti. La maggior parte delle volte, però, dovevano raccogliere con le mani nude e sporche quello che rimaneva e trasportarlo fino alla cappella.
«Sono morti tutti... la gente bruciava...» in bocca a Kashiwagi quelle parole sembrarono come cocci di vetro. Yōko lo allontanò da sé, continuando a stringergli le mani sulle spalle e voltando lo sguardo verso Sei.
Era tutto troppo grande. La voragine biancastra aperta al centro della terra, la sofferenza che riempiva l'aria di gemiti, il turbamento dei soldati che si sentivano smarriti e impotenti.
Sei arretrò di un passo sotto l'angoscia che leggeva negli occhi neri di Yōko, scuotendo la testa con un moto impercettibile. Sollevò le mani in un gesto di scusa, poi le lasciò ricadere lungo il corpo come carne morta.
In quel momento un colpo secco le scosse il braccio.
«Assassini! Assassini!»
Sei alzò lo sguardo verso il gruppo di baracche che erano ancora in piedi. Un ragazzino, il petto e il viso percorso da lunghi graffi, la osservava con odio e dolore, stringendo due piccole pietre tra le mani.
«Fermo!» Yōko lasciò andare la divisa di Kashiwagi, arrancando verso Sei che non accennava a muoversi. Rimaneva a fissare il ragazzo con rammarico e vergogna, quasi lo supplicasse di ammazzarla a sassate.
Yōko le posò una mano sulla nuca e la strinse a sé, nascondendole il volto contro la propria spalla e circondandola con il braccio. Tutti intorno a loro sembravano pietrificati. Le altre infermiere e i soldati arrivati da Tokyo conoscevano Satō Sei. L'avevano vista accomodare con cura i corpi dei loro compagni morti e aiutare Mizuno-san nel curare i malati più gravi, quelli che era necessario stringere forte a sé mentre gli si staccava le membra alla meno peggio, per concedergli un giorno in più. Tutti, al campo, avevano fatto finta di non vedere il suo viso e il colore dei suoi capelli, e tiravano un sospiro di sollievo ogni volta che li nascondeva sotto l'ombra del berretto.
Satō Sei era solo un nome. Con quello potevano parlare, vivere, lavorare fianco a fianco. Era comprensibile per loro, uguale ad ogni altra cosa che li circondava. La sua faccia no.
E quello che rimaneva di Hiroshima non era il campo del Giglio di Tokyo. I suoi abitanti feriti, coloro che non erano accecati dalla sofferenza del proprio corpo morente, non potevano capire.
Il ragazzino tirò un'altra delle pietre che stringeva in mano. Fendette l'aria bollente del mezzogiorno e colpì Sei sulla gamba. Lei non si mosse, stretta nell'abbraccio protettivo di Yōko.
«Aiutami a portarla via di qui!» gridò verso Kashiwagi che la fissava stordito. Sentiva passi che si avvicinavano, un po' curiosi, un po' timorosi, sfiniti «Aiutatemi!»
«Assassini!» il grido rotto dal pianto del ragazzino risuonò ancora più forte.
«Qualcuno mi aiuti!»
Un movimento frettoloso alle sue spalle la costrinse a voltarsi. Un uomo completamente vestito di nero le si avvicinò, facendo scricchiolare calcinacci e vetri rotti sotto le suole dei saldali. Anche lui aveva occhi tondi, che la fissavano dal centro di un viso precocemente invecchiato, con la polvere depositata tra le lievi righe della pelle attraversata di graffi. La fronte, lasciata scoperta dai radi capelli scuri era imperlata di sudore. I suoi vestiti, strappati in più punti, mandavano riflessi lucidi, come se fossero stati inzuppati di sangue fresco e vermiglio. Sul suo petto spiccava una semplice croce di legno chiaro, legata al collo da uno spago ruvido.[2]
«Cosa sta accadendo?»
«Padre, mi aiuti!» Yōko arrancò di qualche passo tra le macerie, trascinandosi dietro il corpo immobile di Sei. Quando gli fu vicino le sollevò la testa, affinché l'uomo scorgesse i tratti del suo volto.
«Oh...» sussurrò solamente lui, mentre il viso stanco si deformava in una smorfia di angoscia e comprensione «Venite, subito!» la sua voce aveva una sfumatura morbida, malgrado i suoi occhi si fissassero nervosi sulle persone alle loro spalle.
Le diede un colpetto sulla spalle, spingendola verso le casupole che resistevano ancora dietro la struttura monca della cappella da cui era uscito.
Yōko si mise a correre verso quel punto. Sentì l'uomo dirle qualcosa con un tono che voleva essere rassicurante, ma non ne colse le parole, coperte dagli schianti dei calcinacci mentre arrancavano. Sei sembrava un corpo morto. I suoi piedi si muovevano, assecondando lo sforzo di Yōko, ma tutto il resto era immobile.
Quando arrivò alla porta della prima capanna, il frate aprì la porta traballante di legno e Yōko si lasciò inghiottire dal buio, mentre la luce del sole veniva tenuta fuori dalla povera struttura da spessi pannelli di legno inchiodati alle finestre. Arrancò, inciampando in qualcosa di morbido che ingombrava il pavimento e finì a terra, trascinando Sei con sé.
Sentì le braccia dell'uomo circondarle le spalle, aiutandola a rialzarsi. Mentre i suoi occhi si adattavano alla penombra, riuscì a scorgere i contorni di alcune forme oblunghe che occupavano quasi tutto il pavimento di terra battuta della capanna, coperte misericordiosamente da teli che un tempo dovevano essere stati bianchi.
«Venite qui...» le disse lui aiutandola a raggiungere a tentoni un angolo libero della casupola. Il suo giapponese era stentato, ma la voce accompagnava i gesti con sicurezza e una dolcezza compassionevole.
«Devo nascondere Sei... devo...» Yōko lo balbettò tra i denti, mentre i suoi occhi non ne volevano sapere di staccarsi dai cadaveri adagiati a terra, nella calura insopportabile. Da sotto le lenzuola iniziava ad innalzarsi un olezzo che sapeva di carne bruciata e fiori lasciati marcire.
«Potrà rimanere qui, ma temo che appena scenderà la notte dovrà fuggire. La voce potrebbe spargersi in fretta, e qui...» si bloccò un istante, cercando di ingoiare più aria possibile «È tutto così orribile...»
«Chiederò a Kashiwagi-san di procurarci una jeep...» disse appena, spingendo dolcemente Sei ad appoggiare la schiena contro la parete di legno.
Lui annuì, chiudendo gli occhi.
«Venite... lasciamola qui. Verrete più tardi.»
Yōko si voltò per osservare Sei. Sembrava una bambola vuota, un fantoccio a cui avevano uncinato l'anima per strapparla via. Respirava affannosamente l'aria malsana della baracca, ma a parte il petto, in lei non si muoveva nient'altro.
Yōko indugiò per un attimo. Non voleva lasciarla lì. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per difenderla, avrebbe chiesto anche di essere lapidata a morte al posto suo. Però fuori le urla continuavano, facendosi sempre più forti nella misura in cui coloro che non erano morti si ammassavano intorno all'unica speranza che avevano incontrato lungo il loro cammino distrutto. Non poteva abbandonarli nelle mani del nulla.
Strinse forte la mano di Sei tra le sue, ma questa rimase immobile, come un pezzo di carne morta.
«Torno presto.» le disse con un sussurro. Desiderò che le sue parole scavassero tra il terrore e l'angoscia «Resisti, ti prego...»


Tra le pareti grezze, con il passare inesorabile delle ore, il calore si era fatto insopportabile. Sei sentì la camicia che le si attaccava al corpo, e un rivolo di sudore solleticarle la pelle mentre le percorreva il fianco.
Ma non era importante. I gemiti strazianti dei feriti la raggiungevano comunque, aggirando gli ostacoli delle pareti, superando il puzzo della morte che la circondava, penetrando attraverso i suoi vestiti fradici.
Nulla l'avrebbe mai liberata dalla maledizione del proprio sangue. Le si era piantato nelle vene, aveva riempito ogni spazio possibile, deformandole i tratti del volto perchè fosse visibile a tutti il mostro che era.
Probabilmente decine di migliaia di persone erano morte nella calura torrida della mattina d'agosto del giorno prima. Centinaia e centinaia di feriti tentavano la fuga dalle piaghe che la bomba aveva aperto su di loro, allontanandosi dal punto in cui l'esplosione aveva reso tutto bianco, solo polvere e cenere. E lei li sentiva tutti nelle mani. Le povere ossa spezzate, i capelli bruciati, le gole arse, il sangue impastato dalla terra.
Quel ragazzino avrebbe dovuto ucciderla, sarebbe stata l'unica cosa giusta da fare. Se si fosse fatta massacrare dall'ira impotente dei superstiti, forse loro si sarebbero ripresi prima.
E lei si sarebbe sentita meglio.
Perchè tutto quello era accaduto?
Avevano deciso che non ci doveva essere pace. Qualcuno, e il fatto quel nemico non avesse un nome era terribile e disorientante, aveva decretato che non sarebbe dovuta esserci più nessuna felicità. E anche quando lei aveva trovato le braccia di Shizuka, quell'ombra scura e senza volto aveva fatto di tutto per portargliela via.
Sei sussultò. Il ricordo di Shizuka era riaffiorato di colpo. Era sempre stata nei suoi pensieri, fin da quando aveva sentito l'annuncio del bombardamento alla radio del campo, ma l'angoscia per quello che aveva visto una volta arrivata a Hiroshima l'aveva completamente sopraffatta.
Tentò di alzarsi in piedi all'interno della capanna umida. Le fessure tra le tavole di legno non erano più ritagliate dalla luce, ma di tanto in tanto una fiammella soffusa e tremula sembrava scorrere lungo il legno con una corsa forsennata.
Sentì una fitta acuta premerle la gola, e il rantolo diventare un tentativo impastato di chiamare Shizuka.
Shizuka le aveva sorriso mentre si allontanava dalla jeep che l'aveva portata a Hiroshima. Sei non aveva risposto a quel gesto luminoso e bellissimo. Si era limitata ad una smorfia risentita, nulla di più del capriccioso egoismo di un bambino. Perchè era davvero furiosa verso Shizuka, arrabbiata con quell'espressione che la rendeva ancora più affascinante, mentre lei aveva solo bisogno che rimanesse e la stringesse forte tra le braccia come la sera prima, e quella prima ancora.
Avanzò di qualche passo, tastando le pareti alla ricerca della povera porta ritagliata nella superficie scheggiata.
Non poteva essere morta. Non Shizuka. Lei non aveva paura di vivere, non aveva il timore di sentire quello che la agitava dentro, anche se non era giusto. Anche se, una volta scoperto, l'avrebbe condannata alla peggiore delle infamie.
Fuori dalla baracca c'era la notte. Il cielo era punteggiato di stelle, e la terra di lamenti. Nella città, ben visibile dalla piccola altura su cui si trovavano i resti della cappella gesuita, si muoveva una miriade di puntini luminosi. Alcuni scoppiavano scintillanti come uno spettacolo di fuochi d'artificio, alzando un nastro di fumo argenteo verso l'alto. Altri gridavano disperatamente, cercando la traccia di una risposta nelle macerie. Ed era tutto sconfinato, teso verso l'orizzonte fumoso.
Sei brancolò verso il varco che si apriva su un fianco della struttura della cappella che ancora rimaneva in piedi. La porta di legno era stata probabilmente divelta dai cardini dal fragore della bomba e un frate ne stava staccando dei pezzi con un piccolo machete, raccogliendoli in una pila accanto a sé. Un'infermiera uscì frenetica dall'apertura e parlò all'uomo gesticolando con forza, indicandogli l'interno dell'edificio con una smorfia di dolore.
«Abbiamo bisogno di altra legna... non riusciamo ad avere ferri abbastanza caldi per cauterizzare...» la donna si strinse la divisa sporca al petto ed ebbe un tremito. Oltre il muro di mattoni rossicci, come un'eco dilaniante, le rispose un grido stridulo.
Quando Sei le passò accanto, sentì la donna singhiozzare. Né lei né il frate la notarono mentre gli passava accanto e si infilava nell'apertura. I loro occhi erano smarriti nelle profondità di un orrore indescrivibile.
L'interno dell'edificio la inghiottì. Anche se parte del tetto era crollato, il lezzo era intollerabile. Sei si portò la mano alla bocca, coprendo il gemito vomitato dalla sua gola. L'odore era ancora più intenso di quello a cui si era abituata nella baracca, perchè nei corpi che emanavano quel tanfo denso c'era ancora vita e c'era tutta la sofferenza di quelle ultime ore. Le suole delle sue scarpe affondarono in uno strato scivoloso, che sembrava ricoprire l'intero pavimento formato da ampie lastre squadrate. Distolse lo sguardo, anche se la scarsa luce delle candele le avrebbe impedito comunque di sapere.
Su tutto il pavimento erano disseminati corpi. Adagiati su barelle di fortuna, o sorretti dalle pareti e dai calcinacci che, staccandosi dal soffitto ancora rimasto in piedi, disegnavano lunghe scie biancastre sui loro capelli o sulle membra annerite lasciate scoperte dagli abiti bruciati.
Non aveva mai visto una cosa simile, neppure quando il bombardamento a Tokyo si era fatto intollerabile, uno scroscio senza fine di granate e bombe.
La singola, immane esplosione che aveva investito la città ne aveva dilaniato i corpi in mille modi diversi, in una varietà infinita di torture che nessuno avrebbe mai potuto immaginare.
C'era chi era stato schiacciato dalle rovine della propria casa. Chi non era riuscito a trovare un riparo alla propria carne da schegge impazzite di metallo, vetro, pietra e legno. La maggior parte, però, avevano il corpo ustionato, con la pelle che si increspava sotto il tocco del calore e l'avanzare delle infezioni. Qualcuno alzò su di lei il viso annerito, su cui spiccava solo il bianco latteo degli occhi, l'unica parte ancora mobile di un corpo sofferente.
Avanzò attraverso la piccola stanzetta in cui era entrata. Due frati cercavano di togliere le ante ad un grosso armadio di legno, dal cui interno proveniva il fruscio lieve di alcune vesti, forse gli abiti che avevano usato per celebrare tante cerimonie in quella stessa chiesetta. In quel momento un'infermiera gracile, con le maniche della divisa lordate di sangue fino al gomito, ne stava ricavando lunghe strisce morbide da utilizzare come fasce.
Passò sotto un arco di pietra stretto, strisciando lungo un piccolo corridoio completamente buio, finché sbucò nel corpo centrale della cappella.
Le sue gambe tremarono e dovette appoggiarsi con la schiena contro il muro ancora pregno del calore umido del giorno.
Non c’era spazio sul pavimento per posare i piedi, e sicuramente anche gli occhi sfuggivano la vista di quello che costellava le pietre come un tappeto che tentava ancora di respirare. Le infermiere e poche altre persone dai vestiti ridotti a brandelli si chinavano sui feriti, porgendo acqua sporca recuperata in qualche lattina, oppure tentando di far ingurgitare medicinali e un po’ di cibo. Di tanto in tanto qualcuno tentava di rimettersi in piedi o seduto.
Il mormorio dei lamenti e le grida, poi, non finiva mai. Basso, come il sussurro di un ruscello immerso nella quiete, l’ansito riempiva ogni centimetro d’aria presente nella struttura, saturandola di sofferenza. Sei abbassò lo sguardo e accanto a sé vide una ragazzina che non poteva avere più di quattordici anni. Sembrava che stesse bene, tranne per gli avambracci scoperti percorsi da lunghe escoriazioni infette. Eppure si teneva i palmi delle mani premuti con forza contro le orecchie, e strizzava gli occhi e stringeva i denti nella bocca con una tensione che rischiava di spezzarla.
«Sei…» alzò la testa sentendo la voce di Yōko. Era completamente distrutta, come se qualcosa avesse stretto le dita attorno a lei e le avesse disintegrato l’anima di vetro e di cristallo che per anni aveva conservato con cura maniacale dentro di sé. I suoi capelli erano bianchi di polvere. L’abito ricoperto di tracce degli uomini e delle donne che la circondavano.
Sei avanzò, tendendo le mani verso di lei. Quando le fu vicina le prese gli avambracci e li strinse, costringendola ad avvicinarsi.
«Dimmi che hanno trovato Shizuka…» disse con un rantolo che cercava di trattenere la nausea «Dimmi che lei è qui, da qualche parte…»
Yōko non le rispose. Continuò ad osservarla con le pupille dilatate dall’orrore.
«Dimmelo!» esclamò con più forza. La voce le si era arrochita, e quel grido assomigliò ad un insulto sputato verso di lei, verso tutto quello che aveva visto in quella giornata infernale.
Yōko lasciò che i propri occhi scivolassero sulla folla accalcata sul pavimento della chiesa. Sei la lasciò andare, avanzando di qualche passo incerto. Iniziò a camminare più velocemente, scostando lembi di stoffa e strattonando spalle tremanti al suo passaggio, strappando dolore e lacrime ad ogni gesto.
Poi si bloccò a pochi passi da un fagotto abbandonato a terra. Ciuffi di capelli corvini sfuggivano alla stoffa che la copriva e alla pelle piagata. Sei sollevò la mano, e la lasciò ricadere lungo il corpo.
«Non farlo, Sei. Lasciala in pace. È finita.»
La voce di Yōko la fece trasalire. Le sue dita tremarono.
Come poteva fingere, voltarsi e scappare? Shizuka era fuggita, non lei. Lei aveva voluto fino all’ultimo secondo tutto quello che aveva stretto tra le braccia, o almeno ci aveva creduto con tutta sé stessa. L’aveva ritrovata, e ora non poteva più lasciarla andare. Shizuka si sarebbe ripresa. La guerra sarebbe finita e tutto sarebbe stato normale, desiderabile, felice.
Si chinò in avanti e diede uno strattone al lenzuolo che ricopriva il povero corpo. Un occhio, un solo occhio nero come la pece la fissò con dentro il vuoto e la paura, con un terrore così immenso e una sofferenza così assoluta, che Sei si ritrasse di scatto, lo stomaco contratto in uno spasmo che le gridava di muovere i piedi e iniziare a correre, in qualsiasi direzione che la portasse lontano da lì, e da un volto che non esisteva più dove fino a pochi giorni prima aveva appoggiato le labbra e respirato.
L’immagine di Shizuka non esisteva più. Il lato destro del suo viso era stato portato via dalla bomba. Sei poteva vedere, una per una, le schegge che le aveva accarezzato la pelle di porcellana. La sua bocca non era più rossa come le rose. Non era più Shizuka.
L’urlo lacerante sovrastò il mormorio che invadeva la cappella. L’aria entrò furiosa nei polmoni di Shizuka e ancora uscì dalla gola martoriata, come il verso d’agonia di un animale. Urlò, e urlò ancora, mentre il suo corpo prese a contorcersi in un tremito frenetico, che strappò il lembo del lenzuolo dalle mani di Sei che lo reggeva ancora.
Sei indietreggiò. Non sapeva se quello che stava calpestando fosse il pavimento o persone. Non lo sapeva.
Le grida di Shizuka sembravano non voler finire. Come se la sua vita, la sua maledetta faccia, avesse avuto il potere di risvegliare tutte le esclamazioni di stupore degli uomini che il giorno prima si erano ritrovati sotto la luce accecante della bomba. Come se tutta Hiroshima in quel momento stesse urlando, ferita.
Sei iniziò a correre, mentre i suoi piedi scivolavano sulle pietre imbrattate.
Si gettò verso la porta, travolgendo le infermiere e i frati che erano accorsi. Sentì il berretto che le scivolava all’indietro e i capelli, chiari come fieno sotto la luce delle lanterne e delle candele, aderire contro il collo sudato.
Quando si trovò fuori dalla cappella gettò uno sguardo ansioso attorno a sé. Sentiva la voce di Shizuka nel cranio come una coltellata. Non riusciva a capire se stesse ancora gridando, ma sapeva che doveva fuggire lontano da quello che aveva visto, dal cratere di nulla che le si era spalancato di fronte.
Una mano le si strinse intorno al gomito. Sei cercò di liberarsi, ma incontrò lo sguardo muto di Yōko.
«Vattene, ti prego. Se ti trovano qui ti ammazzano!»
Sei la bloccò tra le braccia. Tremava e la stringeva, come se tutto si fosse riversato su di lei in quel momento, e le paralizzasse le membra. Come se dentro di lei una voce stesse dicendo qualcosa così disperatamente che Yōko non riusciva a distinguerne le parole.
«Vattene…»
La spinse verso il retro della chiesa, mentre i loro corpi tentavano di sostenersi a vicenda in quella corsa attraverso il cumulo di macerie di una parete che era franata, portandosi via anche parte del tetto. Tra i mattoni era riversa una statua di gesso. L’urto le aveva spezzato parte delle braccia allargate in un gesto amorevole di compassione, e la delicata figura di donna le osservava rivolgendo loro un abbraccio monco, il viso dipinto ancora bello e dolce malgrado la sporcizia della cenere che vi si era depositata sopra.
«Devi sopravvivere. Ti prego, lo so che non mi ascolti mai, però fallo comunque…» le parole di Yōko la fecero voltare.
Sentì che le avvolgeva il viso tra le mani bollenti e fissò lo sguardo nelle sue pupille. Quella che le stava rivolgendo Yōko era una preghiera, di quelle sentite e vere che si facevano agli dei per Capodanno, sperando in un nuovo anno migliore, in una vita diversa. Non aveva lacrime negli occhi, o forse era proprio per quel motivo che le sue parole le sembrarono tanto importanti, come un vincolo.
«Perdonami, Sei.»
Sentì le labbra di Yōko sulle proprie. Un bacio dato stringendo le palpebre forte, come i primi baci dei bambini, di quelli accompagnati da uno schiocco vigoroso e la sensazione di aver fatto qualcosa di piacevole e vergognoso insieme.
Non la sentì indugiare su di sé. Solo quella stretta sincera sulle guance e il dolore, un tormento terribile perché era come aver sollevato la garza che copriva una ferita aperta da sempre. Le dita di Yōko la lasciarono andare.
Sei arrancò all’indietro, finché la sua schiena non impattò sul fianco metallico della jeep.
Arrancò fino al sedile e girò la chiave nel quadro, mentre il motore prendeva vita borbottando e sputando nell’aria una nuvola nera di gasolio.
Poi ingranò la marcia e la jeep partì con un sobbalzo.
Via, in fuga, senza più guardarsi indietro.












[1] In Giappone si seppe di cosa era accaduto sedici ore dopo il bombardamento da un comunicato della Casa Bianca.
[2] La figura di questo frate gesuita è liberamente tratta da Padre Pedro Arrupe, che si trovava realmente a Hiroshima quando Little Boy uccise sul colpo tra le 70.000 e le 80.000 persone, e ne condannò a morte molte di più.

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Capitolo 4
*** QUATTRO: Sopravvivere ***








QUATTRO: Sopravvivere



Il futuro era una nave tutta d’oro che noi pregavamo ci portasse via lontano.
Cosa rimane di noi.
Ora che ci siamo amati ed odiati e traditi.
E non c’è più limite.
[L'aeroplano, Baustelle]



Quando il gasolio nella jeep finì, scesi ed iniziai a camminare a piedi.
Avevo guidato tutta la notte tra strade appena visibili e prati e un'altra mattina tersa, splendente, inondava la terra.
Camminai per tanto tempo con i vecchi stivaletti militari, finché non sentii il cuoio indurito dal sudore sfregare contro la pelle nuda.
Nessuno mi inseguì. Né quel giorno, né quelli a venire. Stupida io a darmi tanta importanza quando poco lontano una città e i suoi abitanti non esistevano più. Ma lo compresi solo in seguito, quando era ormai troppo tardi per chiedere davvero perdono.
La forza della mia gente – l'unica vera radice che con il tempo ha avuto al tenacia di farsi sentire anche da una persona sorda come me – l'ho sentita dentro di me quel giorno, mentre impedivo ai miei piedi di fermarsi.
Giunsi alle alte colline boscose dell'entroterra. In quei luoghi tutti avevano sentito parlare della guerra, ma nessuno l'aveva mai vista. I contadini che incontravo lungo la strada osservavano i miei vestiti grigi di polvere con sbigottimento e con una trepida confusione. Avevano sempre visto i camion militari sfrecciare accanto ai loro villaggi. Ogni tanto i soldati avevano razziato le loro provviste e preso le loro capre, ma nessuno si era mai interessato davvero a loro.
Arrancai, finché il desiderio di morire, e di vivere, e di morire ancora fu così forte che le gambe cedettero e caddi al suolo, su una stradina di ciottoli ordinati che correva lungo la sponda di un fiume placido, sotto l'ombra fresca di un lungo filare di ciliegi frondosi.
Tutto era così bello che la guerra non sembrava essere mai esistita. Nella valle stretta che si apriva tra le colline quel mostro putrido non era riuscito ad infilarsi. Nessuno aveva mai pensato di sganciare una bomba sui piccoli paesini fatti di case di legno e bambù. Un po' perchè tra il rigoglio degli alberi non li avevano visti. Un po' perchè a gettare un ordigno lì non avrebbe ammazzato quasi nessuno, perciò non valeva la pena di sprecare così le granate.
Quando aprii gli occhi, una mano fresca mi stava toccando la fronte e due limpidi occhi chiari mi fissavano preoccupati. Sentivo anche una voce chiamarmi con dolcezza, ma non riuscii a risponderle. Credo forse di aver sorriso, per questo lei non pensò che fossi morta e corse a chiamare suo padre al tempio.
Così sopravvissi.
Quel giorno, e tutti quelli successivi.
Senza Yōko non è stato facile, come perdersi in un mare senza bussola e gli strumenti per leggere il cammino delle stelle. Non l’ho mai cercata, e lei non ha mai trovato me.
Sarebbe stato tutto troppo complicato da capire e da vivere, da masticare dopo aver perso il senso del gusto per un boccone troppo caldo.
Non riesco ad impedirmi di vivere come la vigliacca che sono. Ma sono sicura che ha avuto la vita meravigliosa che desiderava e che meritava. Sicuramente ha avuto l’onore di aver fatto parte di quegli uomini e quelle donne che successivamente i giornali e le radio hanno chiamato eroi. Ma io credo che non ci sia comunque una parola tanto grande per descrivere cosa hanno fatto.
Ogni tanto, però, sento ancora la voce di Shizuka. Dalla porta aperta di qualche locale che si affaccia sulla strada, oppure attraverso gli altoparlanti della mia vecchia radio.
La pancia di Shizuka non si muove più mentre canta. Dalla copertina dei suoi vinili, però, sorride ancora, anche se tutti sanno che Kanina Shizuka è morta a Hiroshima dopo diciotto giorni di agonia.
Quanto durano diciotto giorni? Diciotto giorni di urla che non sembrarono terminare mai, anche la notte, quando tutti sono troppo stanchi e ormai non ci fanno più caso.
Quando mi ritorna alla mente il ricordo di lei, mi ritrovo senza più pensieri, priva di giustificazioni e risposte.
Penso solo a quella voce stupenda straziata dalle grida e al suo viso portato via dall'alito caldo della bomba, e il mio senso di colpa che non vuole saperne di spegnersi.
Perchè quando fuori il sole splende e la città è inondata dalla luce e dai suoni della vita normale di tutti i giorni, ogni cosa appare normale e semplice, e la testa è vuota, libera per un attimo dalle memorie e dagli incubi e allora sembra che ricominciare sia possibile, e che il destino che ci è stato riservato non sia semplicemente quello di chi è sopravvissuto, ma di chi ha saputo rinascere, lasciandosi l'orrore alle spalle.
Oggi è il sedici ottobre millenovecentosessantasei. Sono qui al Peace Memorial, e ne approfitto per godermi l'aria tiepida.
Sono ai piedi di un arco di cemento. Sulla sommità ci sono una bambina e una gru dorata.[1] Spiccano il volo, anche se il cielo è gravato da quelle nubi sottili color perla tipiche delle giornate autunnali. Mi hanno detto che c'era anche lei quando accadde, persa da qualche parte in quella devastazione infinita.
Mi dispiace di non avere avuto occhi per guardare oltre me stessa. Sono stata una dei testimoni dell'orrore e non ricordo nulla. Faccio difficoltà a ricordare il viso sfregiato di Shizuka, e l'ultimo sguardo raccolto dagli occhi di Yōko.
L'essere umano è davvero meschino, smarrito com'è nel concentrarsi sul proprio dolore.
Ci ho provato a fare gli origami delle gru. Pensavo che anch'io avrei potuto portare la mia ghirlanda in questo luogo, un giusto tributo per ringraziare gli dei. Ma le mie dita non sono sottili e delicate, e mi annoio subito.
Ma a quel giorno penso spesso, cercando di riesumarne quanti più particolari possibili, e a tutti i giorni successivi di tutte le persone che hanno vissuto quell'istante.
È questo quello che faccio, anche adesso in questo parco dagli alberi tinti di rosso e arancio, con il vento autunnale ancora caldo che scuote i lembi delle giacche e il cielo che minaccia pioggia. Ci sono ragazzi che attraversano i vialetti in bicicletta, diretti all'università. Ridono e parlano a voce alta. Ci sono vecchini che si trascinano qui a stento. Molti di loro sono ammalati, a causa dell'eco di un'esplosione che non vuole spegnersi. Qualcuno mentre cammina canticchia una melodia, forse dei Beatles. Altri parlano della guerra che è scoppiata in Vietnam, della paura che gli americani trasmettono ancora, anche se adesso i nemici sono altri. O ancora qualcuno semplicemente cammina attraverso il parco, chi diretto a casa, chi al lavoro, chi di fretta per essersi soffermato troppo al tempio a pregare.
La vita ha avuto il coraggio di riempire il vuoto, come fa una pianta rampicante di rose quando viene potata.
Alzo gli occhi verso la figura della bambina.
Le dimensioni delle cose mi appaiono ancora più relative, all'ombra del monumento. Eppure continuano a scorrere, inesorabili, insieme al tempo. Un giorno, questo luogo forse non avrà più un significato. La gente saprà che esiste, ma non ne conoscerà il perchè.
E solo i desideri infinitamente piccoli avranno importanza e riusciranno a muovere le persone.
E la vita continuerà, facendosi beffe di ogni singolo essere umano.
Ogni giorno, ogni attimo, con in sottofondo il lieve frullio delle gru che si levano in volo.



Sfreccia in cielo un aeroplano.
Io ti amo e non ti penso mai.
Penso a quello che ci resta.

Vola l’aeroplano.
Va lontano.
Vola su Baghdad.

Noi voliamo invano.













[1] Il monumento a Sadako Sasaki al Peace Memorial di Hiroshima, bambina che, scampata alla furia di Little Boy, morì successivamente a causa dell’avvelenamento da radiazioni.

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