Il Tredicesimo Re - Agur, primo del suo nome

di Nirvana_04
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima Parte ***
Capitolo 2: *** Seconda Parte ***
Capitolo 3: *** Terza Parte ***
Capitolo 4: *** Quarta Parte ***
Capitolo 5: *** Quinta Parte ***
Capitolo 6: *** Sesta Parte ***
Capitolo 7: *** Settima Parte ***



Capitolo 1
*** Prima Parte ***


Il Tredicesimo Re
Agur, primo del suo nome

 
 
 
 
 
 
 
 
 
Cassia e Brige erano il suo sogno da adolescente. Le guardava camminare insieme per le strade di Cahar e insieme sognava di trovarsele nel letto. Scrutava con sguardo attento le forme di due corpi acerbi di donne mostrarsi effimeri sotto gli strati delle vesti e desiderava slacciarne i lacci, per scoprire finalmente cosa ci fosse sotto; occhi da cacciatore, se la ridevano i suoi compari.
E Agur era un bravissimo cacciatore.
Il Figlio prediletto di Cahar aveva imparato a maneggiare l’arco all’età di otto anni, abbattuto la sua prima Alce Tricorno a undici, ucciso un Meticcio del Frotsz a soli tredici. Egli amava abbandonare le mura della città e immergersi nella fredda quiete delle conifere circostanti; la caccia era un piacere che solo nel silenzio della solitudine poteva essere goduta appieno. Per lui era una danza privata tra lui e la sua preda, che spesso finiva nell’infliggere il mortale fato. Agur era capace di perdersi tra le vie dell’inseguimento, dimenticarsi dei suoi doveri di principe e dissipare il suo io in quella primitiva corsa. A volte la caccia durava giorni e lo portava distante da casa, in territori di nessuno dove solo la legge della natura vigeva e solo ella ne era il giudice; la sua sentenza era inappellabile e veniva eseguita seduta stante. Era in quelle terre che egli smetteva di essere l’erede di Cahar e diveniva il sopravvissuto.
Il primo ad averlo chiamato a quel modo era stato Jhann, quello che nella sua combriccola riusciva a bere lo Stivale – era un vero stivale puzzolente riempito del peggior malto della zona – e a restare parzialmente sobrio; ed era stato con un boccale in mano che lo aveva accolto al suo ritorno, la testa del cinghiale che strisciava sul pavimento della taverna. Jhann aveva riso, si era rovesciato metà liquido addosso e il restante lo aveva innalzato in suo onore. “Il sopravvissuto” aveva sputato sulla testa delle puttane intorno a lui, “tua madre ti ha dato per morto almeno una mezza dozzina di volte negli ultimi due giorni. Non è che ti sei imbattuto nella squadriglia che ha mandato a cercarti, vero?” Aveva riso così tanto da ricadere sulla sedia e baciarne due in un colpo.
Agur si spostò alle spalle del grande fienile del castello, aspettando con una spiga in mano l’arrivo delle due sorelle. Le vide giungere, le braccia di una intrecciate nel braccio dell’altra; ridevano. Tirò fuori un sorriso spavaldo, di sbieco, pensando che si divertissero a vederlo rincorrerle, come ambite prede, per tutto il villaggio. Chissà, forse passavano sempre da lì per vederlo. Gli sembrò che la più piccola gli lanciasse un’occhiata famelica da sotto le nere ciglia. Fece per avvicinarsi, colto da un moto di coraggio.
“Sopravvissuto” lo incalzò la voce di Der.
Agur ruotò su se stesso con un balzo teatrale e salutò calorosamente l’arrivo degli amici. Quelli sghignazzarono. “Attento, in quelle sottane potresti perderti per sempre.”
“Bah” lanciò uno sguardo alle sue spalle e non le vide più. Gettò la spiga per terra e afferrò i gemelli, gettandoli le braccia al collo. “Ragazzi, ho trovato cosa ci serve.”
“Un bagno?” Risero. “Tua madre, la nostra signora, ci ha ordinato di riportarti all’ovile. Ti attendono i tuoi doveri…reali” si piegarono in un buffo inchino derisorio.
Agur tentò di afferrarli, ma la sua mano si chiuse sull’aria. “Quello che ci serve” continuò, con il suo tono istrionico, “è una caccia che farà la storia ed entrerà nella leggenda.”
“E cosa vorresti cacciare, mio principe?” gli balzò accanto Nor, camminando al suo fianco con le braccia snodate. “Un Cervo Corneo?”
“Oh, no fratello. Già fatto. La testa di quella bestia funge da cruccia per i suoi mantelli” gli fece il verso Der, affiancandolo all’altro lato.
“Una martora? Dicono che sono velocissime e pericolose, se provi ad acchiapparle” spalancò gli occhi.
“Ma dai!” Mise una mano sulla spalla del principe, che aveva rallentato il passo, e allungò la testa per guardare il suo gemello in faccia. “Ne ha già due ai piedi e se non sbaglio è stato il suo scudiero a catturarle. Non è selvaggina da principe.”
“Allora, cosa potrebbe mai voler acchiappare?” meditò Nor, una mano sotto il mento, mentre Der spalancava la porta della taverna e con un inchino li invitava ad entrare.
“Una puttana!” urlò Jhann, mentre tre gli saltavano festanti al collo.
“Una puttana!” esclamò trionfante Der, indicando con un dito l’amico, camminando all’indietro. “No, grazie, tesoro. Non dicevo a voi” congedò le due fanciulle che si erano avvicinate. Si sedettero al tavolo e ordinarono da bere. “Dovresti fare come il nostro amico qui” e indicò il felice, “sei un principe, perbacco. Il territorio di caccia più fertile per te è la corte. Sono sicuro che una dama disposta ad aprire le gambe la trovi. E sai qual è il momento migliore?” continuò, afferrando la caraffa sul tavolo. Acciuffò la cameriera. “La sontuosa festa organizzata per il tuo ventitreesimo compleanno. Al principe!” urlò.
“Al principe!” li fece coro l’intera sala.
Agur salutò gli uomini con un gesto della mano e poi si protese sul tavolo, con fare cospiratorio.
“Le dame seguono le regole. E le regole mi annoiano. Sai quale sarebbe invece un bottino degno di un principe?” sorrise sornione. “La testa del Caimhal” sillabò con le labbra. Gli tolse di mano la caraffa, bevve un lungo sorso, e poi si appoggiò contro lo schienale della sedia, godendosi le loro facce.
Jhann tirò fuori la testa dai capelli della rossa e abbaiò loro di andare altrove. “No, che non lo farai!” Gli levò dalle mani il malto e lo sbatté sulle assi di legno. “Andare dietro una leggenda è da stupidi. Ti sei ubriacato col solo odore di questo luogo. Usciamo.”
“Sono serio, Jhann. Le Pietre di Shaev sono state un limite per troppo tempo. Roba da creduloni. Se quell’animale esiste, io lo strapperò alla leggenda e lo appenderò sopra il mio letto. E allora, le sottane di Cassia e Brige saranno solo stoffa sul pavimento della mia camera.”
Der si puntò con i gomiti sul tavolo. “Agur,” lanciò uno sguardo attorno, un sorriso accondiscendente sulle labbra, “non mi sembra il caso di farci ammazzare poco prima della grande festa. Tua madre, la nostra signora, appenderà le nostre teste sopra il suo letto.”
“C’è abbastanza tempo.”
“Non che non ce n’è” sbraitò Jhann. “Ora alza il culo e muoviamoci. Avevo detto che ti avrei riportato al castello. E maledetto io se ascolto anche solo un’altra parola del tuo delirio.” Si scolò ciò che restava del malto e si asciugò il muso con il dorso della mano.
Gli altri lo seguirono.
Agur incrociò le braccia sul tavolo per alcuni secondi, ammirando le donne del taverniere pulire le caraffe dietro il bancone. Sorrise e poi si alzò. Raggiunse i suoi amici e annuì. “Sono pronto. Riportatemi da mia madre, la vostra signora.” E si gettò a peso morto tra di loro. Risero e le sue parole rimasero solo come echi nella taverna.

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N.d.A.
 
Dizionario a 6. CAPITOLO 5 - L'ultimo tra gli ultimi, de "Il Tredicesimo Re".

Ringrazio fin da ora chi leggerà, commenterà, metterà la storia tra le seguite, ricordate, preferite.
Per qualunque domanda o dubbio, mandate un MP, risponderò volentieri.
Non siate timidi e
 dateci sotto con tutto ciò che vi passa per la testa: ho le spalle larghe e non vedo l'ora di affrontare pane per i miei denti.
N.B. Picchio duro, ma non so ancora uccidere con una tastiera tra le mani.

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Capitolo 2
*** Seconda Parte ***


Il Tredicesimo Re
Agur, primo del suo nome
-Seconda Parte-








 
Le Pietre di Shaev erano quattro lastre di perion conficcate nel terreno e slanciate verso l’alto cielo azzurro. Si diceva che era stato un antico stregone ad erigerle tra i passi dei Monti Silenti, come monito a non avanzare oltre. Agur ammetteva che era curiosa la collocazione di quelle rocce, l’unico giacimento di quel materiale si trovava a miglia più a ovest, nella colonia dell’isola di Serinut; ma probabilmente erano stati i Figli di Cahar stessi a metterle lì, loro soli sapevano a quale scopo. Erano solo rocce, dello stesso materiale di cui era fatta la sua corta cotta di maglia; nulla di più.
La paura dei suoi compagni era stata la corda che gli aveva dato la carica. Se loro non ne avevano il coraggio, egli sarebbe andato da solo; al suo ritorno, si disse, avrebbe fatto un brindisi alla loro codardia.
Cahar era la città più prospera di tutta Venasta, costruita in una valle chiusa tra i burroni a sud, le terre ignote a est, i Monti Silenti a nord e le grandi Barriere a ovest. La macchia di conifere si estendeva per l’intero territorio a nord-ovest, fino ai precipizi a occidente e oltre le montagne, fino alle Terre dei Meticci. La zona ai piedi dei monti era la meno battuta e non era raro imbattersi nella selvaggina più grossa da quelle parti; inoltre, puntualmente, manipoli o gente solitaria proveniente dal Frotsz superava il confine e razziava i villaggi limitrofi. Il Re, suo padre, guidava un manipolo di guerrieri l’anno, per trucidare gli invasori.
Agur non era nuovo a quelli incontri; già una volta gli era capitato di imbattersi nei Meticci di Frotsz ed era andata male, a loro ovviamente. Risalì la mulattiera che serpeggiava sicura tra gli alberi più giovani e risaliva le pendici delle colline boschive. Era partito prima dell’alba, con un bagaglio leggero: l’arco e la faretra, un coltello nascosto nello stivale nero e la sacca con i viveri per tre giorni. Nulla fuori dallo straordinario, una caccia come le altre; se non fosse che l’obbiettivo era entrare nella leggenda, insieme alle belve delle ballate. Già sognava i canti intorno al fuoco che avrebbero narrato delle sue avventure, e gli uomini e le donne che innalzavano canti di vittoria in suo onore.
Abbandonò ben presto la stradina per inseguire il tracciato di un vecchio passo di montagna. Le colline si fecero più irte e gli alberi più radi, fin quando non vennero completamente sostituiti dagli alti picchi di roccia. L’astro, color d’avorio, risplendeva a picco sulla sua testa e lo vegliò per tutto il giorno, osservandolo mentre guadava un torrente, scalava una piccola parete di roccia e strisciava lungo una parete in un tratto franato. Giunse alle Pietre di Shaev all’imbrunire, quando l’orizzonte occidentale si tinse d’oro e incendiò i boschi sotto di lui.
Agur ammirò le antiche pietre, sacre al Dio Agabar, la divinità del Fato adorata dai caharrin. Due volte l’anno, fanciulle a lui consacrate salivano fino a lì e celebravano le Agaas, i riti di benedizione dove, seminude e bendate, offrivano doni al Dio per ingraziarsi la buona sorte. Il principe lo considerava uno spreco: tanta verginità devota ad una creatura che la disdegnava dall’alto.
Racimolò della legna secca e accese un basso fuoco, su cui sistemò della carne. Nella semioscurità della sera, le Pietre gettavano ombre minacciose ai suoi piedi, e più di una volta lo costrinsero, suo malgrado, ad alzare lo sguardo nella loro direzione: erano alte più venticinque braccia, nere come il diamante più raro e, alla luce delle braci, riflettevano sulla loro superficie a specchio uno strano scintillio bluastro. Agur li voltò spavaldamente le spalle e si raggomitolò sotto il mantello, attendendo l’alba.
Lo stridio di un rapace lo scosse dal suo sonno. Vide la luce del giorno alzarsi ad oriente e, confuso, si guardò attorno cercando di capire perché le ombre ghermissero ancora le sue membra. Alzò la testa verso le Pietre e si alzò, infastidito. Le ombre si allungavano su di lui e oltre per diversi metri, scacciando la luce e il suo richiamo alla veglia.
Rinfoderò ogni cosa nella sacca e si avvicinò a passo lento alle alte vigilanti, una focaccia leggermente indurita tra i denti. Alle loro spalle, offuscato da una leggera nebbiolina, stava il passo di montagna: la sua terra era nera e morbida, non venendo calpestata da chissà quanto tempo; le piante erano rigogliose ai suoi lati e parevano beneficiare più delle altre del calore del sole. Agur piegò leggermente il capo e cercò di perforare le coltri in lontananza. Alla mente gli tornò la storia che i fedeli del Dio raccontavano da secoli.
Agabar era il Dio con due facce e il suo corpo era ricoperto interamente da nere placche cornee, su cui si riflettevano i mille visi del bene e del male; la faccia sorridente era bianca come l’astro luminoso del giorno, mentre quella fosca si celava dietro ad una nera cute di scaglie di cristallo nero. Quando il diluvio scagliato dal Dio Volor ricoprì la terra, raggiunse anche l’alto dei picchi della sua dimora e bagnò il suo corpo. L’acqua, che scivolava giù dai suoi dirupi, trascinò con sé pezzi della sua pelle che precipitarono tra i valichi delle montagne; da esse vennero generate le belve. Ma il Dio del Fato necessitava di un equilibrio e, per fermare la distruzione delle sue creature, scagliò con forza sulla terra pezzi del suo viso funesto, conficcandole al suolo e arrestando l’avanzata del male. Finché nessuno le avesse oltrepassate, il pericolo avrebbe errato iracondo lontano dai Figli di Cahar.
Agur sbuffò, spazientito dal filo dei suoi pensieri. I Meticci abitavano dall’altra parte dei Monti Silenti, oltre le montagne c’era la loro terra; se essa era calpestata da qualche creature mitica, egli l’avrebbe abbattuta e ne avrebbe offuscato il mito. Ma si rifiutava di credere alle fandonie dei fedeli: per lui esisteva solo un unico Dio, ed era quello che muoveva il suo braccio verso la vittoria.
Con lo sguardo dritto verso la meta, varcò il limite delle Pietre di Shaev. Per un attimo un lampo blu si irradiò nelle sue iridi, per poi sparire per sempre nelle profondità della pietra scura.
Il valico di montagna serpeggiava come un lungo pitone avvolto con le sue spire intorno al Monte Tacut, la vetta che si frapponeva tra lui e il Frotsz. La terra era soffice e i suoi piedi affondavano per alcuni centimetri nel suolo; il profumo di terreno bagnato era denso e investì con prepotenza le sue narici. Le anemoni crescevano ordinatamente sul ciglio del passo, bianchi come la luce accecante a mezzodì. Ben presto, le pareti della montagna si elevarono ai suoi lati, mentre la stradina si snodò attraverso cavità nella roccia, trasformandosi per piccoli tratti in tunnel. L’astro si era celato dietro ad un banco di nubi grigiastre e gettava ombre luminose sul suo cammino, il chiarore che filtrava attraverso le maglie della nebbia.
Agur aveva già da un po’ impugnato l’arco e con le dita ne accarezzava la corda tintinnante, saggiandone la tensione. Il suono baritonale, che si liberava sotto il suo tocco, era una nota monocorde che aveva l’effetto di distendere i suoi muscoli e placare il suo animo.
Gli pareva di camminare da delle ore e infine, ai pressi di una roccia sagomata, decise di sostare per mangiare il suo rancio. Si sedette, l’arco poggiato contro il suo fianco e guardò il cammino che aveva compiuto fino a lì. La foschia umida ammantava ogni cosa in una luce ovattata che sbiadiva le immagini e occludeva la piena visuale del panorama. Mentre sgranocchiava una galletta, i suoi occhi si posarono su un fiore dai petali aguzzi, sul ciglio di fronte. Fece per avvicinarsi e raccoglierlo, quando qualcos’altro catturò la sua attenzione. Il terreno, nonostante la sua spugnosità, aveva assorbito le sue orme e ne aveva nascosto le tracce. Si rese conto che, se avesse voluto tornare indietro, non avrebbe potuto: la nebbia sembrava richiudersi su di lui e il passo, così ben definito, si era seghettato nel candore della foschia e dava l’illusione di essersi diramato in tanti piccoli valichi da cui non riusciva più a distinguere quello percorso. Fece un passo avanti, esitante, e la punta del suo stivale sbatté contro un sasso; abbassò lo sguardo e vide un teschio umano parzialmente dissotterrato.
Il sopravvissuto indietreggiò istintivamente.
Dannazione, imprecò nella sua mente. Aveva sentito parlare dei tentativi di altri cacciatori esperti tentare l’impresa, ma nessuno era mai tornato vivo. Si diceva che il Caimhal si cibasse delle loro paure e infine, molto lentamente, dei loro corpi; egli aveva dedotto che fossero stati uccisi dai Meticci del nord.
Beh, si disse, non avrebbe fatto la loro stessa fine. Scacciò la paura, scuotendo il capo e lasciando che i suoi capelli mossi – che gli arrivavano fin quasi alle spalle – sventolassero disordinatamente intorno al suo volto. Riprese l’arco e tirò fuori due frecce. Pronto per la caccia, fece l’unica cosa che gli pareva sensata: andò avanti.
La nebbia lo ammoniva con la sua costante presenza, ma non lo ostacolava, limitandosi a lasciar vagare nell’aria i suoi inascoltati consigli. Più avanzava, più il cammino si ricomponeva dinanzi a lui: le pareti ai suoi lati restrinsero fino a quando egli avrebbe potuto sfiorarle entrambe, se solo avesse allargato le braccia; la vegetazione scomparve per un lunghissimo tratto, durante il quale strani odori raggiunsero le sue narici – muschio bruciato e un oleoso profumo di flora sconosciuta. Infine le Pietre di Shaev ricomparvero dinanzi a lui ed egli si bloccò, titubante. Strinse i denti, per un attimo convinto di aver girato in tondo, e poi spalancò la bocca, un fischio sommerso che gli sfuggì dalle labbra. Tra i costoni di roccia sotto di lui e le alture innevate a nord, era incastonata una valle; la vegetazione bassa e gli alberi tozzi primeggiavano tra cascate di muschio e acqua e fiumiciattoli argentini che infiocchettavano la terra fiorita, donandola ai suoi occhi a mo’ di benvenuto. I suoi piedi si mossero verso il ciglione roccioso, le frecce nuovamente rinfoderate nella faretra; oltrepassò le Pietre di perion. Un tonfo sordo, come di un grosso tamburo percorso in lontananza e in profondità, risuonò nelle orecchie e vibrò nel suo petto. Si guardò intorno, disorientato. I suoi occhi catturano un baluginio bluastro nella pietra prima che esso venisse inghiottito dalle tenebre. Fece per avvicinarsi, ma un dolore smorzato alla tempia lo accecò e l’oscurità ghermì anche lui.
 
 
La lingua che parlavano gli uomini non era la sua; non somigliava neanche ai suoni gutturali dei Meticci. Sentì l’odore del sangue invadere i suoi sensi e il dolore alla testa gli fece presumere che, molto probabilmente, era il suo. Si era fatto catturare come un principiante; ma non avrebbe reagito come tale. Estese i suoi sensi e capì con una certa ovvietà che l’arco e le frecce gli erano stati strappati via. Registrò anche la mancanza della sua sacca; nessuno però lo aveva privato della maglia di perion e questo, in qualche modo, lo consolò.
Suoni agitati lo costrinsero ad aprire gli occhi; e ciò che vide lo atterrì. Gli richiuse, sperando di non aver attirato l’attenzione di quelle creature, succube di paure e angosce che le antiche storie e i suoi occhi avevano risvegliato in lui. Qualcosa lo ghermì dai capelli e lo obbligò a riaprirli. Strinse i denti, dolorante: la belva aveva abbastanza forza da tirarlo su dai suoi peli, ma temette che questi si potessero staccare dalla cute per lo sforzo della tensione a cui erano sottoposti. Si guardarono, il giovane uomo e la bestia, e i suoi occhi impressero nella sua memoria l’orrore: aveva arti, quella cosa, lunghi e legnosi e neri, con venature vermiglie che percorrevano come scie di lava l’epidermide; erano completamente nudi, ma la loro nudità non era un problema, visto che erano privi di genitali; e i loro volti…Agur boccheggiò sul volto del suo carnefice. Il cacciatore spalancò i suoi occhi color della bruma e li fissò nolente in quelli di sangue del mostro: nessuna iride, nessuna sclera, nessuna pupilla; solo rosso.
La creatura aprì la bocca, un taglio dritto sul tronco lichenoso che era il suo viso, e ripeté quei suoni raschianti, striduli, come se un legno stesse grattando una dura superfice. Qualcuno gli rispose, Agur non seppe chi; di certo non lui. Il principe di Cahar era impegnato nel tentare di toccare il suolo con i piedi, poiché i capelli non avevano intenzione di staccarsi dalla cute, ma la testa minacciava di spezzarsi dal collo; la creatura doveva essere alta più di due metri. Sentì il viso prendere pallore e le punte dei piedi formicolare; prima di perdere completamente il controllo dei suoi arti, diede un colpo di reni e con le dita della mano liberò il pugnale nel suo stivale e recise la sua chioma ramata. Ricadde a terra e rotolò, lontano dall’essere, cozzando contro rocce e terra brulla. Tossì e solo allora si rese conto che era a corto di fiato.
In un impeto di raziocinio, scattò dietro ad un masso e lasciò sbattere la schiena contro di esso. Fece un profondo respiro, riprendendo possesso della sua freddezza. Erano quelli gli esseri che la leggenda di Venasta temeva tanto? Quei giganti dalla dura pelle, nera come il carbone, erano i famosi Caimhal? Di certo non si potevano considerare animali o esseri che la Dea Anojah avrebbe potuto creare e lasciar scorrazzare per il suo giardino. Ma erano comunque il suo obiettivo.
Intanto quei suoni striduli con cui comunicavano avevano ripreso a raggiungere le sue orecchie. Si mosse, rasente la parete di roccia, e discese per un declivio del terreno che lo condusse nelle prossimità di un piccolo agglomerato di case: poco più di mezza dozzina, di legno. Poté vedere delle scrofe poltrire all’interno di un recinto e due Meticci dar loro da mangiare. Agur si accigliò; quindi quelle creature erano al loro servizio e quello doveva essere un loro villaggio. Prono, sgattaiolò dietro ad un tavolo riverso e si nascose alla vista degli uomini. Aveva creduto che le Terre del Frotsz si estendessero più a nord, distanti dai monti.
I Meticci hanno allargato i loro domini e si prestano a invadere a massa i nostri, rimuginò sorpreso. Sollevò il capo, un luccichio duro negli occhi. Venasta deve prepararsi ad accoglierli.
Osservò la disposizione degli edifici e ne individuò uno più grande. Si avvicinò al capanno, l’odore di fieno ed escrementi, e s’infilò cauto al suo interno. Camminò tra i quadrupedi e scelse quello che, secondo lui, lo avrebbe condotto il più velocemente lontano da lì. Un rumore improvviso lo fece voltare, le briglie sciolte e i crini già stretti in una mano, pronto a balzare in groppa: un Meticcio era sbucato da una porta laterale e si stava avvicinando, senza notare la sua presenza. Agur indietreggiò, ma quello scelse il momento sbagliato per sollevare il suo sguardo; l’urlo gli morì in gola, il pugnale che gli aveva perforato la trachea. Il principe lo raggiunse, estrasse la lama e con un colpo tra le costole del fianco sinistro mise fine al suo dolente gorgoglio. Notò, con un solco verticale sulla fronte, che l’uomo del Frotsz portava le catene ai piedi e il suo corpo, coperto con pelli rovinate, era pieno di chiazze e segni di tortura; ad entrambe le mani mancavano i pollici.
Prigioniero, dedusse.
Un tintinnio di catene e ferraglia che sbatteva lo riscosse. Si nascose dietro una bassa palizzata accanto alla mangiatoia e guardò altri due Meticci far capolino nella stalla. Gli uomini si imbatterono nel cadavere del compagno e, sconvolti, indietreggiarono. Il rumore di legna scoppiettante lo fece voltare: dall’ingresso da lui utilizzato entrò una di quelle creature; fiutò l’aria e punto i lapilli oculari su di lui.
Agur scattò e con un abile mossa pugnalò un uomo alle spalle; liberò la lama e la puntò alla gola del secondo. “Lasciami passare, Caimhal, o ucciderò il tuo padrone.”
La creatura si fermò. Parve studiarlo per alcuni istanti, soppesando la sua figura e valutandone le abilità. Ad egli sembrò star ragionando sul da farsi, quasi comprendendo la sua lingua. Per rendere più chiaro il messaggio, premette la lama contro la gola del Meticcio e lasciò che un rivolo di sangue scendesse lungo il suo collo.
L’essere sgranò gli occhi e parlò: “Farlo tu, caharrin. Caimhal non essere. No osso del padrone.”
La mano di Agur ebbe un guizzo: l’essere parlava la sua lingua; o una sua personale variante. “Fammi passare e libererò il tuo padrone.”
L’essere fece un passo avanti. “No osso del padrone” ripeté. Parve interpretare la confusione sul viso del principe, perché aggiunse: “Osso” indicò il Meticcio. Flettè la schiena e sporse il viso verso il caharrin. “Padrone” e puntò il dito con forza al suo petto.
Agur squarciò la gola del Meticcio e, maledicendo il Dio del Fato, balzò in groppa al cavallo. Lo spronò e, afferrato un rastrello sito contro la porta, lo scagliò contro l’essere. Con la coda dell’occhio vide quello rimanere immobile, mentre i denti di ferro rimbalzavano contro il suo petto. Agur aizzò la bestia e la guidò con mani sicure verso i monti, lasciandosi dietro le baracche di schiavi. I loro versi striduli lo raggiunsero, echi tra le pareti di roccia che si prestava a scalare. Non si voltò, la schiena pigiata contro il dorso del cavallo. Per un attimo ebbe voglia di tornare indietro, amareggiato e indispettito. Non aveva capito niente: il Caimhal non era selvaggina da cacciare, i Meticci non erano il nemico così come non erano i padroni. Non aveva capito niente. Venasta non aveva capito niente, ma qualcosa l’aveva intuita più di lui.
Sopra il fianco roccioso si stagliavano le rocce di perion; la sua porta per tornare a casa. Condusse a briglia il cavallo, camminandogli accanto e incoraggiandolo a continuare. L’animale pareva sentire di allontanarsi dal pericolo, poiché lo seguiva fedele; a tratti era lui che aveva bisogno del suo aiuto per arrampicarsi. Continuò ansante, il sudore misto al sangue che colava su tutto il suo corpo. Il fiato raschiava contro le costole e i polmoni faticavano a prendere ossigeno, un dolore lancinante al fianco; la testa gli pulsava per il colpo subito. Ma continuò a scalare il pendio. Il cavallo si bloccò di colpo ed egli lo spronò, cercando di imbrigliare i suoi occhi in quelli terrorizzati dell’equino.
Non vide la creatura fin quando non fu sopra la sua testa; a quel punto fu tardi. L’essere saltò direttamente sul cavallo e affondò i suoi quattro arti affusolati nel manto palomino, dilaniandogli la cresta. Agur brandì il pugnale, ma la creatura saltò lontano dalla sua portata. L’animale, agonizzante, raschiò il terreno più volte con gli zoccli, prima di accasciarsi tra i massi.
Agur tese la mano alle sue spalle e, con un ruggito di rabbia, realizzò che il suo amato arco era rimasto al villaggio. Strinse l’elsa del pugnale e cercò la creatura tra le rocce. Un ruzzolio di pietre alla sua sinistra lo fece voltare. Da lì, con la luce riflessa negli occhi, pareva una donna: lunghi peli radi le pendevano dalla testa e occhi violacei brillavano; la sua figura era un’ombra stagliata contro l’astro, ma egli poté contarne gli otto arti. Rise, e una ventata di gelo secco la sua gola.
La creatura inarcò la schiena all’indietro fin quando gli arti superiori non toccarono il suolo; prese a zampettare rapida, a destra e sinistra, per confonderlo. La danza fastidiosa lo fece indietreggiare e col piede colpì l’addome della bestia. Colto da un’idea, voltò le spalle all’essere e tagliò la gola all’equino, lasciando che il suo dolore spirasse insieme a lui. Liberò il corpo dalle briglie e le ghermì proprio mentre la creatura balzava alle sue spalle. Prima che gli artigli potessero far presa sul suo dorso, egli mosse le cinghie a mo’ di frustra e percosse con violenza il corpo della creatura; quella cadde al suolo e scappò via. Conscio di non poter vincere sul terreno ripido, scattò verso la cima ma, prima che si potesse riparare dietro alle pietre di perion, il mostro che lo aveva preceduto scattò verso il suo petto, oltrepassando la sua guardia. Agur sentì gli artigli cercare la sua carne, ma gli unghioni acuminati trovarono il perion e parvero fondersi contro di esso. Egli lo scacciò via e quello, intimorito, tentò di svicolare lontano. Il principe gli tagliò la strada e, sfidandolo con lo sguardo, lo stuzzicò muovendo le briglia contro il suo fianco. La creatura scattò verso il lato opposto ed egli prontamente ruotò, lanciando la lama che ancora teneva nell’altra mano. Il ferro, anch’esso in perion, penetrò la pelle della creatura che avvizzì, fumante.
Agur si piegò, il fiato mozzo. Alzò lo sguardo e lo puntò sulla valle idilliaca incastrata nella roccia; poi, fiaccato dalla stanchezza e dalle ferite, lo spostò sulle rocce di perion. La pietra era opaca e non brillava più sotto i raggi dell’astro morente, ma le sue ombre lo proteggevano dal calore della luce. Il perion era la chiave.
Vinse la fatica e si alzò, nella mente un solo pensiero. Con movimenti precisi, recise la testa della creatura e l’avvolse nella sua camicia. Poi si aggiustò la maglia di perion addosso e si avviò verso le alte vigilanti. Lanciò uno sguardo laddove sapeva esserci il villaggio; colto da un pensiero egoistico, rimuginò sull’arco e la faretra donatigli dal padre alla sua prima battuta, e ringhiò frustrato. Infine, voltò le spalle a quella giungla di misteri e, lasciando che le Pietre tornassero a vigilare su Venasta, ritornò a casa.
 

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Capitolo 3
*** Terza Parte ***


Terza parte
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Cahar era stata costruita secoli addietro da un qualche lontano antenato di Agur: fatta interamente di solida pietra trasportata nella valle attraverso le zattere dei Felichi – i nomadi tribali dell’est – dalle Cave di Puèntagor, si ergeva al centro della valle, le spalle protette dai massicci, e vantava la protezione di cinque cerchie di roccia, di cui la quinta rinforzata da colate di perion che avevano indurito e compattato la pietra in un unico blocco indistruttibile.
Già, indistruttibile!
Agur aveva sempre pensato che la sua città fosse incrollabile; la valle e i boschi limitrofi davano la selvaggina e la vicinanza alle montagne aveva sempre significato una buona protezione dai popoli nordici. Questo fino a quando il Caimhal era stato solo una leggenda e Agur non aveva riportato la testa di quella strana creatura all’interno del castello.
Non aveva perso sangue, la creatura; la camicia con la quale l’aveva avvolta era solamente imbevuta di una strana sostanza oleosa e puzzolente, ma non una goccia rossastra macchiava il candore della maglia. Il Re Ander, suo padre, e gli Alti Consiglieri avevano osservato il cranio rachitico della bestia per ore dopo che il principe l’aveva scoperta sul tavolo dell’Adunanza, in un silenzio sepolcrale; e tutto ciò che i più saggi del regno erano riusciti a consigliare al padre era di celare il fatto agli occhi del popolo e mandare subito un’offerta di pace al Dio Agabar: trentasette vergini, aveva suggerito la cariatide; una per ogni capello che la creatura aveva ancora attaccato al teschio.
Che razza di idiozia!
Agur chiuse con rabbia il vecchio tomo e si lasciò andare contro lo schienale della sedia, il mento abbandonato contro il pugno duro. Al diavolo le vergini! La stupidità stava nel fatto di nascondere la rivelazione dietro il credo di un Dio silenzioso. Cosa avrebbe potuto fare per loro Agabar, più di osservare le donne dall’alto della sua rupe, sordo alle preghiere e muto verso coloro che desideravano risposte? Il Caimhal, quelle creature, erano reali e si stavano preparando ad attaccare, proprio al di là dei monti. Le lastre di perion le avevano tenute lontane da loro, ma per quanto ancora quelle pietre avrebbero permesso loro di dormire sonni tranquilli? Centocinquant’anni erano passati dall’ultima guerra che i venastiti avevano combattuto contro i Felichi; da allora i Figli di Cahar si erano rammolliti e la spada l’adoperavano solo per grattarsi il culo, considerando che nessuna di quelle lame veniva affilata da anni, se non per qualche sporadica schermaglia con i meticci.
Il principe di Cahar si guardò intorno e i suoi occhi volarono sopra le pergamene e i vecchi libri malamente rilegati da corde di pelle che ingombravano i due tavoli vicini. Le alcove della biblioteca racchiudevano più di tremila testi nella pietra, le foglie di alloro e rametti di rosmarino facevano capolino tra le pagine ingiallite e tutto ciò che riuscivano a scacciare erano gli insetti d’argento che bramavano la carta; poca cosa contro i mostri della loro mitologia. La loro mitologia, un corno! Per tutta la vita si era beccato le lunghe solfe dei fedeli, con le loro storie sulle creature aldilà delle Pietre di Shaev, e d’un tratto aveva scoperto che nessuno di loro sapeva veramente nulla di quei mostri; neanche quei papiri impolverati.
La chiave stava in quelle lastre nere! Si ricordava dei riflessi azzurri incastrati come fuoco blu all’interno della pietra; e di come quel cuore pulsante di ghiaccio si fosse spento al suo passaggio. Temeva che, nella sua stoltezza di avventuriero, qualcosa in quell’equilibrio si fosse spezzato. Pensò a come la nebbia fosse sparita dal sentiero e di come fosse stato facile il viaggio di ritorno.
La porta della biblioteca si aprì e Jhann entrò nella stanza, le spalle che racchiudevano la testa abbassata.
“Pss! Agur! Che diavolo stai facendo?” gli domandò in un sussurro concitato.
Egli alzò gli occhi sul suo amico e un sorriso sbieco gli spuntò sul viso adombrato. “Cammur non è qui. Puoi anche toglierti dalla faccia quell’aria afflitta.”
“Questo posto puzza del suo sudore” si lamentò. Rispostò i suoi occhi sul principe. “Gli altri sono alla taverna e non mi crederebbero mai se li andassi a dire dove ti trovi.”
“Allora, non glielo dire.”
Agur si ritrovò il collo bloccato dalla salda prese dell’amico. “Stai scherzando?! Siamo o non siamo compagni d’arme? Non posso lasciarti in balia del vecchio Cam.”
E con queste ultime parole lo trascinò fuori.
L’aria iniziava a irrigidirsi e con le prime foglie caduche l’inverno era alle porte. Spifferi e correnti gelide giungevano da nord e sembravano promettere tempesta.
Agur fu scosso da un brivido di freddo e non si oppose al ragazzo. Lasciò che il tepore della taverna gli riscaldasse le ossa e sciogliesse i muscoli. Raggiunsero gli altri due al bancone del bordello, due ragazze abbandonate contro i loro fianchi, i seni quasi nudi e i fondoschiena sormontati dalle manone di quei due perdigiorno.
“Togliete le mani dalle mie ragazze” vociò Jhann, lasciandolo finalmente libero. “Non posso voltarmi un attimo che rischio di essere defraudato. Dov’è finito il mio boccale?” Lo prese in mano e ringhiò. “Dannazione! Perché è vuoto?”
Il principe sospirò e facendo spallucce si avvicinò ai compagni. Nor stava facendo segno ad una donna di avvicinarsi mentre Der latrava come un cane scosso da profonde risate.
“Buoni tutti, adesso” li azzittì l’omone. “Voglio sapere perché sei tornato a castello senza un trofeo” ordinò e puntò il suo petto con un dito.
Egli si prese alcuni secondi di tempo, ordinando da bere. “Poca selvaggina.”
Nor quasi si strozzò e Der boccheggiò più volte prima di riuscire a pronunciare. “Ora anche gli animali ti danno il ben servito?”
Mentre sogghignava all’ilarità dei compagni, il giovane uomo sorseggiò l’ambra liquoroso, allontanando da sé il momento in cui i suoi incubi sarebbero divenuti la realtà dei suoi inseparabili amici.
 
 
Col senno di poi, si dovette dare dello stupido; in realtà, più di una volta.
Il giorno del grande banchetto arrivò e l’unico nemico che li minacciò fu il gelo. Nei giorni precedenti, Agur aveva passato lunghi momenti di contemplazione nella biblioteca, alternandoli a boccali di birra e ballate spensierate nelle vie della cittadella. Se da un lato non riusciva a dimenticare la sua ultima avventura, dall’altro il timore di un possibile attacco andava via via scemando insieme ai ricordi lontani, fin quando di loro non restarono altro che frammenti fastidiosi che il principe pensò bene di ricacciare in un angolo buio del cervello, ostinandosi a ignorarli.
I rappresentanti dei Felichi arrivarono il giorno prima della grande festa e il giovane uomo fu costretto a presidiare alla cerimonia di benvenuto. Altro che regali e divertimenti! Il suo compleanno era un ottima scusa per rinnovare le loro alleanze. Di conseguenza, Agur si ritrovò sulle sponde del Bajan-Arah al tramonto, quando i raggi di Mal sfiorivano sulla linea dell’orizzonte in tonalità argentate e il cielo si colorava di un caleidoscopio di colori, dove l’azzurro sfociava in oceani purpurei e ocra. Le tre vele dei velieri dei Felichi si confondevano con le trame dei flutti, fatti di quel particolare tessuto che cangiava insieme alla luce, veli trasparenti di cui solo qualche raggio beffardo riusciva a smascherare la presenza. Le loro navi erano le uniche che riuscissero a navigare in quelle rapidi correnti e in mezzo a quei gorghi tipici del corso d’acqua; anche per questo, nessuno mai aveva invaso Puèntagor.
Il Re Ander andò incontro ai suoi ospiti e si profuse nei consueti saluti. Agur aspettò, qualche passo indietro, che suo padre e i suoi tre invitati si avvicinassero alla corte prima di muoverglisi incontro. Il pelìc di Puèntagor si stagliò contro gli ultimi raggi dell’astro lucente, ritto in tutta la sua altezza, ed egli non poté fare a meno di squadrarlo con uno sguardo guardingo. Il felica, consigliere fidato del Pocshà, rappresentava alla perfezione il corpo e l’anima della sua gente: l’alta figura blu era essenzialmente vestita di pelli, una cintura reggeva la tipica lama a doppia curva in vita, le quattro dita della mano poggiate sull’elsa senza pomolo; il viso sottile e lungo era sormontato da tratti essenziali, fatta eccezione per i grandi occhi rotondi privi di iride e completamente aranciati; non aveva orecchie, ma ai tagli obliqui ai lati del viso erano arpionati due cerchi bianchi in cui erano incassati due più piccoli, segno della sua alta carica all’interno del suo popolo. Non portava calzari: per la sua gente era essenziale restare sempre in contatto con la terra. I suoi compagni, alle sue spalle, erano esattamente come lui, tranne che uno era un nabaik e uno aveva una corporatura piuttosto tozza per la sua prosapia.
Agur accettò i saluti e gli auguri e poi si accodò alla corte che risaliva nuovamente verso Cahar. Le celebrazioni nelle piazze e nelle locande ornavano la città di suoni giubilanti; le musiche delle cetre e delle cornamuse si riversavano nelle vie e balzavano attraverso profonde echi all’interno delle mura reali, invadendo le sale del banchetto dove le note dolci dei flauti intrattenevano gli ospiti.
Il principe lanciava spesso occhiate dalle grandi vetrate verso la baldoria dei popolani, invidiando i suoi amici e immaginandoseli a spassarsela con le donne del villaggio, tra un salto a ritmo di tamburello e qualche lascivo bacio rubato alle donne che servivano da bere. Sbuffò e ancora una volta dovette rimandare il momento in cui Cassia e Brige avrebbero alzato le gonne per lui.
“Essere in posto brutto” lo indicò un felica.
Era quello più basso, ma non per questo incuteva meno sospetto, considerato che comunque lo guardava dritto negli occhi.
“Brutto?” domandò, flemmatico.
L’uomo sembrò pensarci un po’ su. “Errore, no buono.”
“Sbagliato?” suggerì, divertito.
“Sbagliato!” esultò il felica. “Festa” e indicò verso i festeggiamenti aldilà del vetro, “tua.”
“Già” si abbatté, “peccato che sia qui che debba stare.”
Lanciò un’occhiata di sbieco verso il suo ospite, ma quello stava sorridendo, per nulla offeso dal suo atteggiamento.
“Essere festa tuo.”
“Essere regno suo” spiegò con una smorfia, indicando il Re, suo padre.
Il felica scosse la testa e si piegò verso di lui. Fece guizzare la lunga lingua, bagnandosi la faccia, e cominciò a parlare: “Puèntagor libera. Regno di Pocshà, ma terra mio e felica. Vita di Puèsigath, ma cielo e acqua mio e felica. Essere libero, essere buono. Pocshà libero, felica libero.”
Agur sbatté più volte le palpebre, visibilmente costernato dallo sproloquio. Lentamente afferrò il senso delle parole dell’uomo blu: un uomo libero era un uomo che dà libertà; non poteva regnare con delle catene ai polsi. Beh, il ragionamento filava; peccato però, che non si potesse applicare sull’intera Venasta. Pazienza, si disse, visto che era uno degli ospiti più importanti nella sala a proporlo, non vedeva il motivo per cui non mettere in pratica l’idea.
Sorrise ammiccante verso il felica e lo salutò con un svolazzante inchino. Fece per andarsene, ma quello si mosse con lui. Gli mostrò un astuccio: dentro, c’era un tamburo piatto, con dei sonagli ad incoronarlo. “Suono, festa. Essere acqua vita, mio.”
Agur si accigliò, il giovane blu era un suonatore e voleva venire. Uno sghembo sorriso gli illuminò il viso. “D’accordo” gli disse, cogliendo l’occasione al volo. Dopotutto, avrebbe mostrato al loro ospite le bellezze della loro città.
Uscirono con discrezione dalla sala dei banchetti e guadagnarono la via verso corridoi più soffusamente illuminati, dove gli occhi di sua madre e delle sue spie avrebbero avuto più problemi nel seguire le sue mosse. Condusse il felica negli androni est del castello e si infilò nella stanza dei consiglieri, dove un vecchio passaggio li avrebbe direttamente portati verso le porte laterali. Da lì, le guardie sarebbero state più collaborative e avrebbero tenuto i portoni aperti per lui, nell’eventualità che la madre non si accorgesse della sua assenza e loro fossero riusciti a rientrare indisturbati. Craig saltò sull’attenti, il vecchio uomo era una guardia simpatica che si era fatta più volte complice delle sue bravate. L’uomo li aprì i battenti della sala e lo salutò con il suo solito modo arzigogolante, fatto di smodati inchini scricchiolanti per via della senilità.
La stanza era vuota, malamente illuminata da poche candele sparse qua e là e dalla luce soffusa di Sel che penetrava dalle alte e lunghe lastre dei rosoni. La cariatide doveva essere anch’ella al banchetto, a ridacchiare come un rospo con i suoi denti ingialliti. Felice di non averla ancora incrociata, si mosse verso la porta laterale che dava a nord.
“Arakna, banah-aki!” urlò il felica, l’arma sguainata in mano.
Istintivamente, Agur sfoderò la lama di perion e si voltò a fronteggiarlo, ma l’uomo blu guardava sconvolto la testa della creatura sita sul lungo tavolo.
Egli si avvicinò, all’erta. “Come l’hai chiamata?”
Il felica si girò verso di lui, la fronte corrucciata e gli occhi aranciati che brillavano dei deboli riflessi delle fiamme gialle. “Arakna, Shaev banah!”
Agur scosse la testa, non riuscendo a capire.
“Cosa sai delle Pietre di Shaev?”
“Magia” pronunciò contrito. Tornò a guardare contrariato la testa della creatura. “Arakna” la indicò con il mento. “Essere qui, magia di Shaev morta.”
Un fluido ghiacciato colò lungo la schiena del principe ed egli suo malgrado deglutì. “Non è possibile. Ho ucciso la creatura più di una settimana fa. Le Pietre continuano a proteggerci.”
La luca diafana di Sel fu inghiottita da un banco di nuvole passeggere. Gli occhi del felica si oscurarono per un momento, persino la luce delle candele si attenuò minacciando di spegnersi per sempre.
Quando il riverbero riaccese le due scaglie aranciate sul viso dell’uomo blu, egli mormorò fatalmente: “Magia morta. Racahar essere qui, essere buio.”
 
 
Agur corse. Come quando rincorreva la selvaggina per i boschi di conifere, fino alle brughiere o su per i monti, egli volò sena peso tra i corridoi del castello, piombando nella sala del banchetto come un tuono che annunciava tempesta.
Le teste degli astanti si voltarono verso di lui, ma egli cercò lo sguardo del padre prima di varcare la soglia. Mentre il felica si dirigeva verso il pelìc, lui affiancò il Re Ander.
“Siamo in pericolo.”
L’espressione di suo padre non cambiò. Guidandolo in uno spazio isolato, fece segno ai suonatori di vivacizzare la musica; poi si voltò verso di lui e sempre con quell’aria placida, ordinò semplicemente. “Parla.”
“Il felica ha visto la testa della creatura e l’ha riconosciuta. Ha detto…”
La musica smise di suonare e la quiete festosa della sala fu azzittita per la seconda volta: i corni delle alte torri stavano squillando per tutta Cahar.
L’intera corte tremò e il Re ordinò la calma. Poi, con il figlio al seguito, si avviò con passo celere verso i portoni, dove erano stati portati i cavalli. Agur galoppò al fianco del padre – mandando all’aria l’etichetta – fino al villaggio. La gente si era rigettata sulle strade, restando immobile in spazi all’aperto, i corpi ammassati per la paura. Ciò che lo colpì di più però, fu l’assenza di suono. Le cornamuse erano abbandonate sul terreno scuro e le corde delle cetre si erano spezzate, pizzicate con veemente forza dai suonatori intimoriti. La baldoria dei festeggiamenti era stata agghiacciata dalle sette teste delle fanciulle che suo padre aveva concesso in dono al Dio Agabar, giunte in città legate al culo del cavallo: gli occhi erano stati cavati e i denti sradicati dalle gengive.
Agur strinse i pugni, il peso di quella sciagura che gravava sulle sue spalle, e guardò il Re. Per la prima volta, Ander aveva esitato, un secondo di troppo.
“Mio Re” urlò una donna, le braccia lanciate verso il cielo. “Mio Re.”
I caharrin iniziarono a ripetere “mio Re” sempre più forte, disperati, le voci delle madri che stridevano sotto i raggi di Sel e perforavano l’oscurità della notte immota.
“Padre” chiamò, il volto sconvolto.
Il Re non si voltò a guardarlo, avvolto tra le maglie nella notte. “Suona il corno. Richiama l’esercito. Siamo in guerra.”

 
N.d.A.

Dizionario aggiornato a CAPITOLO 5 - L'ultimo tra gli ultimi de "Il Tredicesimo Re"

Ringrazio chi ha letto, commentato, messo la storia tra le seguite, ricordate, preferite.
Per qualunque domanda o dubbio, mandate un MP, risponderò volentieri.
Non siate timidi e dateci sotto con tutto ciò che vi passa per la testa: ho le spalle larghe e non vedo l'ora di affrontare pane per i miei denti.
N.B. Picchio duro, ma non so ancora uccidere con una tastiera tra le mani.

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Capitolo 4
*** Quarta Parte ***


Quarta Parte
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Erano risaliti verso la rocca, avevano convocato l’Adunanza nella stanza con la testa dell’Arakne quella notte stessa, e poi erano rimasti in attesa di spiegazioni, di cui nessuno sembrava essere in possesso. Tutto ciò che la cariatide aveva saputo fare era stato accusare il Re Ander di aver peccato di fatuità, mandando solo sette delle trentasette teste che servivano per placare la collera del Dio Agabar.
«Vi avevo avvertito!» aveva puntato il corto dito rachitico contro le sue maestà, quasi arrampicandosi sulla sedia per farsi scorgere bene in viso – cosa inutile dato che la pelle rugosa ricadeva in grosse pieghe, nascondendone i tratti somatici. «Avete sfidato il Dio e lui ha scagliato il Fato contro di noi! Avete peccato calpestando un luogo sacro e questa è la nemesi che cola, come veleno, dalle sue zanne!»
La sala era stata agghiacciata da quel responso, ma la rabbia di Agur era montata nel suo petto, fiammante e vendicativa verso colei che manifestava la potenza del nulla, una divinità che aveva chiesto senza dar loro qualcosa in cambio. Nessuno aggiunse altro, il silenzio della sala dimostrava l’accettazione del volere divino.
I Felichi si erano, non sarebbero rimasti al loro fianco durante l’imminente scontro. Il Pelìc aveva espresso il suo rammarico per la vicenda, lo sguardo accusatore rivolto verso la corte di Cahar, mentre con gesti affrettati aveva ordinato ai suoi di spiegare le vele. Le navi avevano lasciato la battigia prima dell’alba tra lo sconforto generale; il felica non si era neanche degnato di perdersi nei soliti convenevoli di congedo, la schiena dritta e lo sguardo puntato verso la sua terra, dando loro le spalle mentre le sue navi scivolavano sul fiume in piena, ali al vento che erano sparite presto dietro la prima curva.
A sorprendere Agur in tutta quella bolgia era stata la decisione del felica suonatore, il quale, in piedi sul lungo pontile, aveva guardato con sguardo fermo le imbarcazioni della sua gente allontanarsi dal male incombente, gli occhi tondi in fiamme sotto i raggi di Mal.
«Perché?» aveva chiesto sconvolto.
«Felica libero, vita o morte» era stata la risposta concisa. Il suo tono era stato placido, la sua risposta serena.
«Non ci sarà molto tempo per suonare qui» gli aveva fatto notare, la testa chiusa tra le spalle, un senso di afflizione che gravava sul suo corpo.
«Suono mai fine. È festa, è caccia, è acqua e vento. È anche sangue fuori, ferro che urla e morte, se essere.»
Adesso, risalendo la china, Agur sentì la fatica scacciare una parte del peso dal suo cuore e mentre giungeva in cima, la valle dove la sua città sorgeva sotto di lui, si ritrovò stranamente consolato dalle parole del felica. La musica non si sarebbe fermata, e loro avrebbero cantato con le spade e suonato con gli archi da battaglia.
«Hai detto che felica è libero» interloquì con l’altro, «Puèsigath non vi dice cosa fare?»
Il felica inarcò la fronte sprovvista di sopracciglia e gli lanciò un’occhiata sbieca. «Vita di Puèsigath, sua ancora a morte di felica, ma cosa vita essere, felica dice.»
Agur annuì, asserendo al significato della risposta ricevuta. «Andiamo! Ho appena deciso cosa fare della mia!»
Ander era un uomo che aveva ricevuto il regno dal padre, che a sua volta lo aveva ereditato dal suo. La dinastia da cui discendeva era antica, risaliva ai tempi di Adurin il Bercio, non esattamente un epiteto dei più onorevoli, ma aveva la sua rispettabile storia alle spalle: egli aveva guidato l’Invincibile Armata contro le Bestie Nere, settecento anni orsono, maneggiando un’arcana magia che aveva decretato la sua vittoria. Sorvolando sul fatto che l’unica magia a cui Agur poteva rifarsi era quella pressoché inesistente della cariatide e dei seguaci del Dio, egli era molto interessato a quello scontro, letto di scorcio durante la sua breve ma intensa permanenza nel regno di Cammur, in uno dei papiri del vecchio bibliotecario.
Piegato sulle pagine di un vecchio tomo fragilmente rilegato con corde di bue ormai consunte, Agur volava tra le pagine, cercando il passaggio fondamentale scritto dal pugno di Adùrin. In mezzo alla pagina tamburellò con il dito e lesse ad alta voce per mettere a parte il felica e Jhann, che li aveva raggiunti in biblioteca: «Le Bestie Nere sono come le ombre degli alberi oscuri, sono il male ripudiato dalle profondità della terra, privi di etica o coscienza, nati dal sopruso e che vivono in onore di esso. I lapilli che bruciano nei loro occhi sono la vita del fuoco che scorre nel loro corpo, strappata ai fiumi di lava dei vulcani di Ambal. I loro busti sono corteccia arroventata e i loro arti fruste che non hanno mai fine. Sembrano abbracciare le tenebre, dondolare come liane pronte a sferzare l'aria e il corpo delle vittime. Non hanno piedi né zampe, solo pece che cola e artiglia la terra.
«Ne ho vista una ieri. Stava ritta contro il nero della notte. Era buio, molto buio, eppure potevo distinguere chiaramente la sua figura. Nera, troppo nera per essere una creatura di un qualche Dio. Dormiva, forse, chi può dirlo. Non ho mai visto una di quelle cose sedere o riposare. Non so neppure se sono vive o il Male le ha vomitate. Però hanno il fuoco, e quello lo sanno domare. Per questo la mia gente si dirige nella valle, tra i grandi corsi d'acqua. Là la terra sembra fertile, e l'acqua saprà domare l'energia di quegli esseri[…].
«Continua. Parla di come egli è rimasto indietro con la cariatide, ha invocato la Magia» scorse giù in fondo alla pagina. «Non narra il combattimento. Sentite qua: Stanotte ho perso un valoroso condottiero. Era forte e coraggioso, ha disubbidito ai miei ordini ed è tornato indietro. Ha combattuto – ho sentito le urla di guerra – e ha portato i suoi uomini alla morte. Ha Gridato, questo lo so per certo, perché dalla terra si è alzata la nebbia. La sua voce mi tormenterà a lungo: era il mio primogenito. Non sarebbe dovuto restare lui dall'altra parte, ma le mie ferite mi hanno accecato e la mia attenzione è venuta meno nel momento più importante. Mi hanno raccontato che prima che la Bianca Cortina lo celasse, l'hanno visto ghermire la sua arma e togliersi la vita. Le Belve non lo brandiranno contro di me e la mia patria. È finita.» Agur digrignò i denti. «Sì, ma come? Non dice nulla dello scontro, di come le hanno cacciate indietro. E dov'è che andato il figlio?»
Jhann si dondolava sulla vecchia sedia in equilibrio precario, il corpo penzolante in avanti come quello di un bradipo. Si grattò la barba e lanciò uno sguardo da cucciolo abbandonato verso di lui: non aveva risposta.
Il felica se ne stava ritto in piedi due passi dietro di lui, la postura rigida e servile, la sua ombra che lottava contro il riverbero della candela facente luce sulla pagina. «Magia.»
«Sì, certo, magia. Ci servirebbe una grazia dell'Agabar» mormorò Jhann.
«Non nominarlo!» inveì il principe, ancora scosso. Sapeva di aver disubbidito alla legge di Cahar, ma questo non gli impedì di incolpare l'indolenza del Dio per quella sciagura.
Jhann si corrucciò. «Amico. Non sono mai stato un fedele del culto, ma al potere divino credo. Sciocco io se mi facessi beffe del Fato!» Si leccò la mano per lungo e poi se la passò sul collo orizzontalmente, per scongiurare. «Che cada una scaglia del suo corpo sulla mia gola…»
Agur lo fece trasalire sbattendo un pugno sul tavolo. La sedia ricadde in avanti. «A morte il Fato! Non resterò a guardare il cielo, aspettando un suo segno. Vuoi che la nostra gente muoia?»
Jhann sputò per terra, incurante del luogo in cui si trovava. «Per il nero iddio, no! Per questo ti ho fermato. Ma a cosa…?» Si morse la lingua. «Bah!»
Agur non si fece abbattere dall'accusa malcelata. Invece chiese: «Notizie da Der e Nor?»
Jhann si grattò la testa e istintivamente sporse la mano sul tavolo, come per afferrare una caraffa che non c'era. Sbuffò. «Nessuna. Sarà difficile far arrivare il messaggio alle altre corti, quando tuo padre rema dalla parte inversa.»
Già, suo padre!
Il Re Ander una decisione l'aveva presa: aspettare il volere dell'Agabar. La cariatide e il culto avevano potere, troppo, sull'Adunanza; il re era sottomesso alla loro influenza, Agur non sapeva se per fede o per volere del popolo. Fatto stava che l'esercito se ne restava chiuso tra le mura, aspettando che una manna divina indicasse la strada. Perché l'uomo si aggrappava sempre al cielo quando era disperato? Perché credere che le stelle fossero qualcosa di più di semplice luce?
Il felica schioccò la lunga lingua e fece sentire nuovamente la sua voce: «Magia.»
Jhann scattò, una mano alla spada. Agur si mise in mezzo e affrontò l'uomo blu. Avevano tutti i nervi a fior di pelle, lui più di tutti. Il peso della colpa era difficile da reggere. «Con tutto il rispetto, la cariatide non ha nessuna magia in mano che possa salvarci. Non vedo come…» Si azzittì vedendo il felica aggirarlo e avvicinarsi al libro. Il suo dito indicò un punto nella pagina ancora aperta. «Il primogenito. E allora?»
«Magia.» Indicò le lettere e poi puntò il dito ammonitore verso la finestra che dava a nord. Non era difficile capire qual era la meta ultima. «Shaev.»
Agur non voleva credere. Tornò al tomo e lesse ancora una volta il passaggio: Adurin il Bercio diceva che il figlio aveva Gridato e che dalla terra si era alzata la nebbia. La stessa nebbia che fino a pochi giorni prima aveva nascosto il varco tra i monti, quello sorvegliato dalle lastre di perion. «Magia… Era questa la battaglia, ecco dove andò. Oltre le pietre, si sacrificò per alzare la nebbia. E cos'è la nebbia se non acqua fumosa? Cos'altro diceva Adurin?» Lesse di nuovo il passaggio ad alta voce: «[…]L'acqua saprà domare l'energia di quegli esseri. Jhann!» ruggì. «Andiamo da mio padre!»
La sedia cadde rumorosamente al suolo e Agur si fiondò alla porta, mandando un appena ricomparso Cammur a sbattere contro i battenti. Jhann svicolò dietro di lui, evitando la furia del bibliotecario. In maniera più composta, il felica li seguì.
Trovarono il re nella sala dell'Adunanza, con il volto pallido rivolto verso le mura, in compagnia della vecchia cariatide.
«Ah» gracchiò quella non appena furono entrati, «il fautore della sventura.»
«Taci!» l'apostrofò con veemenza il principe. Quella sollevò con fatica le sopracciglia e sgranò gli occhi, offesa. Nessuno metteva mai in discussione il verbo del culto o di un suo rappresentante, figuriamoci se qualcuno osasse avanzare ordini con la carica più alta. Agur aveva smesso di tollerare quei giochi di potere nel momento in cui era stata l'ennesima corbelleria tutto l'aiuto giunto dai cieli. Si rivolse invece al sovrano. «Ho bisogno di parlarvi, padre.»
Re Ander strinse le mani dietro la schiena e si sforzò di tenere alta la testa. «Il volere del Fato s'incarna nella cariatide. Porta ossequio.» I suoi occhi individuarono la figura del felica e un barlume di speranza si accese negli occhi del monarca. «Il Pocshà ha mandato soccorso?»
L'espressione del felica si aprì in un sorriso accondiscendente. «Felica libero e uno.»
Il Re, avvezzo al parlato ostico degli stranieri, comprese. «Qualunque forza alleata è ben accetta a Cahar, ora più che mai.»
«Ci facciamo poco con un felica, padre. Dovete ascoltarmi!»
Ander soppesò la figura del figlio, e Agur sapeva cosa avrebbe visto: un cacciatore, non un sovrano. Egli per primo non si sentiva pronto a quel ruolo. Il Re di Cahar non era libero, non se poi doveva sottostare alle baggianate di quella strega. Agur le lanciò un'occhiataccia. «Ci sono molte cose che ho rimandato della tua istruzione, Agur. Il tempo sta punendomi per questo.»
Agur tenne la testa alta. «C'è poco che il tempo può rimproverare a voi, padre.» Ander tornò a guardare fuori dalla grande finestra. «Ho bisogno di parlarvi. Da solo.»
La cariatide tese un braccio rachitico verso il polso del re. Anche in punta di piedi, la sua testa faticava a raggiungere la vita dell'uomo. «Agabar dev'essere testimone, ora più che mai, per poter decidere al meglio!»
Ander annuì con sguardo duro. «Parla, Agur.»
Le mani del principe fremettero: avrebbe tanto voluto strangolarla, eliminare il simbolo in terra di quella falsità. «Le Pietre di Shaev» iniziò. Ebbe un groppo in gola e dovette fermarsi un momento. «Le Pietre di Shaev sono la chiave. Hanno eretto una barriera di acqua e vento tra noi e le belve, ed è stata questa magia a tenerci al sicuro. Le belve non tollerano la vicinanza con l'acqua. Se noi riuscissimo a rialzare quella barriera…»
«Oh, blasfemia!» strillò la vecchia, tirando le vesti del re. «Ingiuria. L'Agabar non avrà pietà di un simile crimine. Re» s'appellò con forza, «il potere divino è proprio degli dei. Le sue manifestazioni sono segreti del culto. Quale magia può essere richiamata da un uomo senza la loro benedizione?»
Fu Jhann, poggiando una mano sul braccio dell'amico, a impedire l'ennesimo scontro in materia. Agur surclassò la voce della donna. «Bisogna tornare lì, invocare il potere.»
«Gli Dei non risponderanno all'appello di un eretico!»
«Il popolo non è pronto a combattere contro un simile nemico…»
«E io non sfiderò la loro volontà in nome di un miscredente!»
«Per il nero iddio, sta’ zitta!»
Jhann fermò la sua mano, corsa alla spada. Persino il felica dovette intervenire per trattenerlo. La donna si rifugiò dietro l'alta figura del re, invocando il perdono del Fato. Qualcuno bussò alla porta prima che venisse aggiunta un'altra parola. Il messaggero non attese risposta e, trafelato, entrò. Si guardò intorno, per un attimo un po' spaesato, poi incontrò lo sguardo severo del sovrano e s'inginocchiò.
«Mio sire, il generale Fagher…»
«Continua.»
«È appena rientrato in città, mio sire. È stato ferito gravemente. L'esercito si è dovuto ritirare dai monti, l'ultima notizia informava di una fiumana di cre-crea-ture che sfilavano sotto le antiche pietre, mio sire.»
«Si dirigono nella valle, dritti verso di noi, verso Cahar» mormorò Agur tra i denti.
A un cenno del re la mano di Jhann lo strattonò indietro, spingendolo al silenzio.
«Molto bene. Farò personalmente visita al generale. Cominciate a sgomberare i pascoli e a spopolare i piccoli villaggi. Voglio che i portoni di Cahar vengano chiusi entro domani, all'imbrunire.»
Il messaggero abbassò il capo e scattò fuori, chiudendosi la porta alle spalle.
«Volete chiudervi all'interno delle mura? Perché?» si sconvolse il principe.
Ander non rispose. Invece guardò gli altri uomini riuniti nella stanza. «Lasciatemi solo con il principe» ordinò infine il Re.
Jhann tolse la mano e uscì, seguito a breve distanza dal felica. La cariatide esitò. «Vi ho già messo in guardia, re. Il torto è stato grande e commesso due volte. Il sacrificio non può essere inferiore.»
«Conosco il verdetto del culto, cariatide. Ora, lasciaci.»
La donna parve sentirsene. Socchiuse gli occhietti minacciosi e indietreggiò fino alla porta. Prima di uscire, il suo sguardo si posò su Agur. Lo investì con rabbia e poi, con gesto deciso, portò due dita al ventre e le allontanò con veemenza: il culto lo aveva appena rinnegato.
«Perché ti lasci comandare da quella lì?» sbottò nello stesso momento in cui la porta si richiuse.
Il Re Ander sollevò un braccio per chiedere silenzio. Si avvicinò al figlio e lo studiò. C'era una luce strana negli occhi del padre, sembrava assorbire forza dalla sua presenza. Il sovrano appoggiò entrambe le mani sulle sue spalle e inspirò. Agur sentì il grande peso che l'uomo reggeva, ne percepì l'onere, e per un attimo quello gravò anche su di lui. «Ci sono delle cose che devi capire adesso. È importante che sia adesso!» sembrò autoconvincersi. Per quanto ardore cercasse di ispirare, la sua figura parve rimpicciolire, contorcersi su se stessa. Agur capì che il re non aveva più speranza, per questo aveva bisogno della fede. «Un re non ha potere se il popolo non glielo concede. Un re è un uomo, ed è saggio che sia il più forte, perché un regno ha bisogno di forza per prosperare e dominare. La forza è necessaria sia nei momenti di pace che in quelli di guerra. Non sempre un uomo è forte in entrambe le circostanze.» S'interruppe, sembrò molto stanco. Dov'era finito l'uomo vigoroso e austero che aveva guidato il regno negli ultimi tre decenni? Agur si spaventò e il senso di colpa divenne più pesante: era lui la causa di quel malessere. «Il popolo è grande ma è fatto di molte teste piccole. Le teste piccole, da sole, sono suggestionabili e contagiano facilmente il gruppo. Se tu mostri debolezza o togli loro speranza, questi si disperdono impaurite. Il popolo ha bisogno della fede…»
«Ma tu non puoi credere, non puoi sperare…»
«Il re ha bisogno del popolo, e il popolo ha bisogno del re» si sovrappose al figlio. «È importante che tu capisca adesso!» La sua voce si fece pressante, il tono urgente. «E se il popolo necessita di una fede, il re deve concedergliela. Il culto ha molto potere sul popolo, perché parla la lingua della speranza. Ed è l'unica che il popolo ascolta nei momenti bui.»
Agur si sentì in trappola. Che potere aveva il Re se era prigioniero di un altro potere? Odiò quella donna, odiò quelle stupide credenze, e odiò la sensazione che stavano facendo nascere in lui. Stava iniziando a sentirsi prigioniero della sua stessa città. Cahar si stava preparando a chiudersi a riccio, si stava seppellendo in onore di un Dio, solo perché era più facile chiedere il suo perdono che guardare la morte in faccia.
«Padre» cercò di ragionare, «io ho visto quelle creature, e credimi se ti dico che non potrai difendere Cahar da dentro queste mura. Non c'è difesa che un uomo possa erigere contro di loro.» La sua voce ebbe un tremito, la paura per un attimo tentò d'impadronirsi delle sue viscere. Deglutì. «Fa la cosa più giusta per il bene del popolo, non per la loro fede. La fede non gli salverà, la fede ha bisogno di diventare azione e non solo una stupida preghiera» si aizzò incalzante. «Il perion può ferirli, padre, io lo so, l'ho visto. La mia cotta di maglia mi ha protetto, il mio pugnale ha reciso il corpo di quell'essere. Dirigiamoci a Serinut, verso i giacimenti. Da lì potremo avanzare con le giuste armi. Ma dobbiamo salvarci adesso!»
Ander chiuse gli occhi, la fronte aggrottata e la schiena piegata davanti, aggravata dal peso di un'età che andava oltre quella fisica. L'età del suo regno, dal tempo di Adurin il Bercio, ricadde interamente sul suo corpo, lo piegò e lo sconfisse. Il Re di Cahar si eresse in tutta la sua altezza, più alto e lontano che mai, e sancì: «Cahar non cadrà nella miseria e nell'abbandono. I suoi figli la proteggeranno, dovessimo venire distrutti insieme a lei.» Agur aprì la bocca per interromperlo, ma il re sbatté un pugno sul tavolo, con tanta ferocia da richiamare gli uomini fuori dalla porta e le guardie dappresso. La sua voce tuonò su tutti loro come tamburo di guerra: «Suonate i corni, scaldate la pece. Il fuoco illuminerà a giorno la valle, e che sia dannato colui che abbandonerà questa terra senza aver versato una goccia di sangue!»
Come in risposta alle sue parole, un corno squillò dal torrione più alto della cittadella. Agur indietreggiò mentre la mole del padre si faceva largo verso la porta, fuori, sulle mura. Nella stanza calò il silenzio. La presenza di Jhann era un calore certo alle sue spalle, lo avrebbe riconosciuto ovunque; persino la figura allampanata del felica gli era familiare ormai. Della stanza e del paesaggio fuori dalla finestra, però, ritrovava ben poco di ciò che era stata la sua casa. I bracieri attizzarono in poco tempo e le mura abbagliarono i limiti della città: Cahar si preparava al rogo, il proprio.
«Agur…»
«Che sia dannato il mio nome se lascerò morire la nostra discendenza per follia e codardia.» Si voltò verso l'amico, lo sguardo di pietra. «Abbi fiducia in me e rinnega il tuo Dio, Jhann.» L'omone sgranò gli occhi, ma rimase in silenzio. «Se la gente ha bisogno di una fede, che creda in ciò che può vedere: la forza di un uomo e la strada che è irta davanti a lui. La scaleremo, dovesse essere l'ultima cosa che faccio come principe di questa terra dannata.» Si allacciò più stretta la cinghia intorno alla vita, assicurandosi che il pugnale e la corta spada di perion che si era procurato fossero ben saldi al suo fianco. «Va’ alla locanda. Da lì la voce balzerà più in fretta. Assicurati che le mie parole giungano a più gente possibile. Se è il popolo il vero potere di un sovrano, allora che sia esso a chiamare la salvezza. Che sappiano qual è la scelta: morire qui o trovare un luogo da cui riprenderci un giorno quello che ci è stato tolto. All'imbrunire, domani, noi partiremo alla volta di Serinut. Dobbiamo assicurarci le cave di Derr. Jhann, ho bisogno del soldato adesso, non dell'uomo fidato di mio padre.»
L'omone si strinse più volte nelle spalle, saggiando a più riprese l'aria pungente della sera. «Mi stai chiedendo di tradire il mio Re.»
«Ti sto chiedendo di prestare fedeltà a un Figlio di Cahar, discendente diretto di Adurin il Bercio, in nome di colui che quelle belve le sconfisse, sotto la promessa che verranno sconfitte di nuovo.»
Jhann lanciò un'occhiata interdetta alla sua espressione. Non c'era paura o boriosa arroganza nella sua voce, ma poté vedere l'ira e il furore scoppiettare sotto quelle lastre di tempesta. Sospirò. «Cosa vuoi che faccia?»
 
 
I grandi portoni della cerchia esterna si chiusero come pietre tombali su una fossa comune, la gente murata viva all'interno della cittadella. Non c'era centimetro delle mura che non rifulgesse nella notte, non c'era lancia che non brillasse agguerrita ai posti di guardia dei bastioni. Era calata una strana calma su tutta Cahar, un sudario oscuro che inghiottiva persino le stelle. La gente – coloro che avevano deciso di restare – si erano radunati ai lati della via meridionale, quella più stretta e sinuosa, che conduceva al portoncino usato dalle ronde per pattugliare il perimetro esterno, per guardare quella parte di popolazione che aveva annuito al richiamo del loro principe.
Il Re Ander non sembrava essersi sconvolto più di tanto, ma Agur sapeva che suo padre sapeva mostrare il lato più necessario quando era in pubblico; e in quel momento, la gente aveva bisogna di una roccia a cui aggrapparsi. Agur invece era l'onda che si ritirava, seguirne la corrente significava remare con tutte le proprie forze per non restare indietro e trovarsi in mezzo quando quella stessa onda avrebbe galoppato di nuovo verso la loro terra natia con furia e potenza inaudita.
La cariatide se ne stava circondata dai suoi fedeli, tra le gambe degli uomini e le sacerdotesse del Culto. Nella mente del principe rinnegato s'impresse a fuoco il simbolo di quelle catene mortifere: la donna se ne stava con le mani raggrinzite piegate ad artiglio davanti al volto, sputacchiando maledizioni e invocando l'ira dell'Agabar perché si riversasse solo sui figli infedeli, risparmiando loro, i suoi diletti. Agur guardò le sacerdotesse formare un capannello intorno alla vecchia, le gonne sfruscianti che insinuavano il male tra le strade, bisbigli che avvelenavano la mente. Nessun Dio avrebbe dovuto mai servirsi della lingua dei serpenti per poter guidare il suo popolo, egli ne era convinto.
Jhann cavalcava al suo fianco, le spalle un po’ incurvate, la bocca semiaperta mormorava qualcosa: preghiere verso l’Agabar, forse, o verso le puttane della taverna, dove aveva lasciato anche il suo boccale preferito. Legata alla sella dell’amico c’era lo spadone a due mani, pesante quanto una vena di perion, ed era proprio fatta di questo materiale. Il felica aveva rifiutato di salire in groppa a un quadrupede e li seguiva a piedi, insieme a tutta quell’altra gente sprovvista di animali da soma. Quelli con i carri avevano prestato il posto ai bambini e alle provviste dell’intero gruppo. I pochi animali, asini per lo più, erano caricati al limite delle loro possibilità. I bambini dormivano o piangevano, legati sulle schiene delle madri; quelli più grandi si tenevano stretti ai vestiti dei genitori, molto più spesso dei fratelli. La verità era che a seguire il principe erano per lo più ragazzi e fanciulli che la popolazione di Cahar aveva voluto mettere in salvo. I vecchi erano troppo stanchi per rincorrere una flebile speranza e quelli in forza per combattere avrebbero dato la vita per la città e la sua fede malcorrisposta.
«Mio signore» lo interpellò Jhann con tono ossequioso, come mai aveva fatto, «dove ci stiamo dirigendo?»
Agur tenne lo sguardo dritto davanti a sé, sull’antica strada che tutti conoscevano portare a est, verso il Volor. «Vitahj è la nostra meta.»
«Chiediamo asilo agli Spettri?» mormorò più piano, quasi con paura.
«Vitahj è una città di Venasta, fedele al suo Re. Gli Spettri sono miei sudditi. Prenderemo dimora lì, per un po’.» Il suo tono mise a tacere qualsiasi obiezione.
Agur strinse le redini e si costrinse a tenere la schiena dritta, la postura rigida e i piedi saldi nelle staffe, proprio come suo padre si obbligava a mostrarsi imperturbabile davanti al suo popolo fantasma. Erano già tutti morti, e la rabbia del principe aumentò schiumante. Non si sarebbe voltato, ma sapeva già che i fuochi erano stati accesi e che presto tutto sarebbe stato dato alle fiamme. Il fuoco era l’arma delle bestie, lo aveva avvertito. A suo padre aveva detto tutto ciò che sapeva, Cammur aveva indicato a lui la sua strada. A Vitahj, aveva detto il vecchio bibliotecario quando era rientrato nel suo regno, avrebbe trovato un altro credo che concedeva molto potere agli uomini; lì avrebbe trovato la magia.
«Vieni con me» gli aveva detto.
Ma Cammur era stato irremovibile. «Sono un custode. La mia tomba è la mia casa. Va’, principe rinnegato, e diventa Re di un popolo maledetto. Che tu possa trovare la lama che spezzi tale sortilegio.»
Gli occhi minacciarono di luccicare ma Agur scacciò il ricordo di quelle ultime parole d’addio e salutò il mentore che non aveva mai apprezzato. Poi avanzò deciso tra le tenebre del bosco e non vide l’incendio divampare.


 
 
N.d.A.

Dizionario aggiornato a CAPITOLO 5 - L'ultimo tra gli ultimi de "Il Tredicesimo Re"

Ringrazio chi ha letto, commentato, messo la storia tra le seguite, ricordate, preferite.
Per qualunque domanda o dubbio, mandate un MP, risponderò volentieri.
Non siate timidi e dateci sotto con tutto ciò che vi passa per la testa: ho le spalle larghe e non vedo l'ora di affrontare pane per i miei denti.
N.B. Picchio duro, ma non so ancora uccidere con una tastiera tra le mani.

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Capitolo 5
*** Quinta Parte ***


Quinta Parte
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Un vento malefico spirò da nord-ovest, portando seco il profumo di casa. Nella radura che ospitava i profughi e i guerrieri rinnegati, l’unico suono che si alzava al di sopra delle cornacchie era il gemito dei più piccoli. I neonati si erano svegliati, e strillavano; indolenti verso le pene più grandi, chiedevano sostentamento. Il gruppo di ragazzini si stava litigando una focaccia, già la fame e la miseria facevano da padroni tra gli uomini, e le donne avevano ripreso sulle spalle le loro sacche, per paura che qualche ladruncolo potesse decimare le loro personali scorte. La moglie del mugnaio della zona nord e quella di un contadino delle campagne erano venute alle mani, ognuna delle due reclamava per sé il contenuto di un piccolo forziere: non più di venti peos.
«Devi fare qualcosa, o non ci arriveremo a Vitahj» borbottò Jhann mentre limava il doppio filo dello spadone.
«Cosa vuoi che faccia?» s’incupì Agur, le mani inerti tra le gambe accovacciate. «Non so di chi sia in realtà.»
«È tuo, in quanto frutto della tua terra e moneta del tuo regno» rispose a testa bassa, scrollando le spalle.
Agur meditò a fondo sulle parole dell’amico, e la conclusione fu un’enorme voragine che gli si aprì all’inizio dello stomaco, laddove le antiche credenze portate avanti dal culto dicevano che risiedesse l’anima, proprio sotto e a destra del cuore. Giusto per dire qualcosa ordinò di riprendere il cammino, cosicché sarebbe stato più difficile per gli altri discutere e azzannarsi.
Erano trascorsi due giorni da quando avevano abbandonato Cahar al suo destino. Dalla capitale non erano giunti messaggeri né segni di qualunque attività. Alle loro spalle non c’erano rumori sinistri, solo un silenzio inquietante, ma Agur non poteva permettersi di lasciare indietro esploratori: la gente che lo seguiva era spaventata e pochi erano coloro in grado di potersi addentrare da soli nel bosco; se qualche belva era alle loro spalle, nessuno sarebbe stato in grado di tornare indietro ad avvertirli, tranne, forse, le urla del malcapitato. Perciò il principe continuò imperterrito ad avanzare lungo il sentiero, senza lasciare la strada maestra, incedendo con passo felpato tra le felci, il cavallo guidato con le briglie.
Il silenzio carico di tensione che aveva ghermito i fuggiaschi sembrava scontrarsi come una barriera invisibile contro la vita proliferante della foresta. Stormi di uccelli si alzavano in volo al loro passaggio – Agur stringeva i denti ogni volta che accadeva, poiché quelle creature avrebbero segnalato la loro posizione – e il vento fischiava intorno alle chiome degli alberi, intonando una melodia che egli aveva sempre saputo apprezzare ma che ora era solo un’ulteriore fonte di pena. Simile a lui sembrava pensarla Jhann: l’amico se ne stava sempre un passo dietro di lui, come aveva sempre fatto, e gettava un’ombra sui suoi passi. Agur aveva sempre sospettato che l’enorme uomo era stato fedelmente ingaggiato dal padre per tenerlo d’occhio durante le sue marachelle – il modo giusto per tenerlo al sicuro nonostante la sua presunta libertà. Jhann era due volte la stazza di un uomo normale, i suoi muscoli nerboruti parevano rischiare di esplodere tanto che qualunque veste gli andava stretta; il suo viso rozzo aveva tratti appena accennati, quasi che Anojah avesse limitato la sua somiglianza con l’essere umano. Eppure, al momento della decisione, Agur gli aveva comunque chiesto di tradire il Re per seguirlo in quell’esilio volontario; e Jhann aveva sorprendentemente risposto con un cenno risoluto. Chissà, forse era ancora il volere del padre a guidarlo – forse il Re aveva a cuore la sua vita nonostante l’espressione severa con cui lo aveva diseredato – o, ancora, l’omone aveva mandato all’aria la sua incrollabile fede per dei e boccali pur di prestargli fedeltà. Forse c’era davvero una profonda amicizia a legarli, dopo tante brindate e avventure lontane. Un Re non ha amici, e gli alleati sono pericolosi tanto quanto la serpe, spia degli Dei Rinnegati. Il familiare ammonimento di suo padre mise fine alle sue congetture. Agur si rabbuiò e riprese a concentrarsi sul sentiero.
L’incedere incerto e spaesato dei profughi, il suo popolo, spezzettava l’armonia della foresta. Più si allontanavano da Cahar e dalla Valle, più la vita tornava a popolare il sottobosco. A mezzodì, l’arco di frassino preso dall’armeria e imbracciato da Agur abbatté una coppia di conigli. A lui si unì il rumore di una fionda; il sasso scagliato fece precipitare un rapace. Con quel poco avere, le donne prepararono una zuppa a base di selvaggina e pane nero. I conigli vennero divisi equamente sotto l’occhio vigile di Jhann; non più di un boccone a testa.
Mentre i fuggiaschi si accoccolavano intorno al piccolo fuoco, seduti su pietre o zolle d’erba, Agur si aggirò intorno al piccolo campo, agitato. Il principe era irrequieto. Mentre cercava di non volgere i suoi pensieri verso casa, altre preoccupazioni assalivano la sua mente: si stavano muovendo troppo lentamente, se le creature avessero sguinzagliato le loro forze per la foresta non sarebbe stato difficile stanarli; la sfiducia stava già iniziando a serpeggiare tra i suoi sudditi, la privazione di un posto sicuro e l’incertezza di ciò che li attendeva, nonché la meta ultima di quel folle viaggio, avevano già fatto nascere in loro il macabro dubbio di aver seguito le parole di un eretico. La maledizione scagliata su di lui dall’Agabar lo avrebbe perseguitato fino a Vitahj, e forse anche oltre. Non si sarebbe mai liberato di quell’oscenità, digrignò i denti.
Un rumore nel sottobosco lo mise in allarme. I bambini più piccoli stavano piangendo per reclamare l’attenzione delle madri; uno era caduto e si era sbucciato il ginocchio, e il fratello più grande lo stava rimproverando per i suoi capricci. Lo scalpitio si avvicinò ancora di più, puntando verso il loro piccolo accampamento. Agur incoccò di nuovo l’arco e fischiò, richiamando l’attenzione di Jhann. Una fanciulla intercettò lo scambio tra i due e urlò, isterica.
«Alle armi!» ordinò rabbioso il principe.
Distinse chiaramente il galoppo di un cavallo e, compreso il punto da cui sarebbe sbucato, puntò l’arco. Proprio in quel momento un’ombra oscurò il piccolo sprazzo di cielo che si affacciava tra la chioma degli alberi, e una nota acuta e limpida attraversò lo spazio tra loro, come un foro di luce che taglia in due una stanza colma di tenebra.
«Mio principe» lo agguantò al cuore la voce di Nor. Il cavaliere sbucò tra gli alberi e tirò le redini, costringendo il cavallo a un leggero trotto, fino ad arrestarsi del tutto. «Vitahj vi attende a braccia aperte, mio signore.»
«Dannato moccioso» sbottò Jhann, e si asciugò il sudore dal mento.
Nor smontò da cavallo e afferrò il braccio che Agur gli stava porgendo. «Sono felice di rivederti. Il tuo arrivo è inaspettato quanto benedetto. Sono quello che penso?»
Nor annuì con l’ammirazione nello sguardo. «Vorouk.»
Qualcuno tra la gente urlò di terrore, molti bambini si nascosero tra i carri e le zampe degli asini. Un enorme uccello volteggiò ancora sopra di loro, infine sfondò i rami più alti e sottili e atterrò a poche braccia da loro. Il rostro arancione era ricurvo come quello di un rapace, ma il piumaggio non aveva eguali: formato da piume lunghe e appuntite come lame, era completamente grigio, di una consistenza nebbiosa che lo rendeva impossibile da distinguere nel cielo; durante i voli con le grandi ali, il suo corpo cangiava, assumendo il colore di ciò che gli stava attorno. Il Vorouk ruotò il muso verso il principe e puntò su di lui l’occhio sinistro. Agur restò impietrito: la pupilla tonda era azzurra, attorniata da una sclera smeraldina. L’umanità che vide in quell’occhio lo turbò fin dentro l’anima.
«Ehi, moccioso, dimmi che hai del malto con te» arrancò verso di loro l’omone. «Ho perso peso dopo questa imboscata che c’hai teso.»
«Spiacente.»
Jhann mugugnò.
«Hai notizie di Der?» chiese Agur, in apprensione.
Nor notò la confusione nello sguardo del suo vecchio amico e si permise di stringergli affettuosamente una spalla per alcuni istanti. Poi tornò ad assumere una posizione rispettosa. «No, mio signore. Ma mio fratello ama farsi attendere. Crede che l’accoglienza, poi, sia più calorosa; inoltre pensa che il tenersi alla larga lo faccia apparire poi più bello agli occhi di chi sogna rivederlo.»
Agur si concesse un sorriso. «Quanto dista ancora Vitahj?»
Nor sbuffò come un cavallo. «Saranno quindici leghe verso nord-est.»
«Con questo passo sono più di tre giorni di cammino» si lamentò Jhann.
Agur guardò la popolazione, la quale lanciava sguardi disperati verso di lui e attendeva speranzosa, forse anche solo per liberarsi della presenza nefasta del Vorouk. «Dobbiamo farlo» mormorò sconsolato. In parte cominciava a comprendere il peso che gravava perennemente sul petto del padre, quella strana gabbia che lo rendeva irraggiungibile per lui. Drizzò le spalle e ordinò: «Fate salire i bambini in groppa agli asini. Riprendiamo il cammino.»
«E le donne, Agur?» si permise Nor. «Non possono reggere una marcia sostenuta.»
«Dovranno farlo» indurì lo sguardo, tanto che l’amico prese le distanze e abbassò il capo, remissivo.
«Fate montare i bambini a dorso di mulo. Riprendiamo il cammino!» Jhann ripeté l’ordine a gran voce.
Agur annuì, mentre il suo popolo raccattava le poche cose sparse e si preparava alla marcia: li avrebbe portati al sicuro, tutti.
 
 
Le stelle erano magnifiche. Spesso, durante i suoi inseguimenti sui monti, Agur aveva passato la notte all’addiaccio, con le braccia incrociate sotto la testa e il naso all’insù, a immaginare quale tipo di Dio potesse aver creato una luce così piccola e meravigliosa. Guardandole, la solitudine della caccia si perdeva in un sentiero familiare, un sapore ancestrale che lo cullava verso il ristoro, un augurio che qualcuno a lui ignoto, che conosceva però il suo destino, gli mandava da lassù. Adesso, con la schiena contro il tronco di un acero e il viso piegato all’indietro, quelle stesse stelle sembravano più distanti e taciturne: chiunque le stesse facendo brillare per lui non aveva molto da dire. Eppure indicavano ancora la via da seguire, puntando verso Vitahj e, ancora oltre, verso Serinut. La loro nuova casa. Ma come renderla sicura? Cosa avrebbe impedito alle belve di inseguirli fino alla grande isola? E una volta lì, quale via di fuga restava ai venastiti? Agur stava già crollando sotto il peso della responsabilità, ed era questo che lo irritava di più. Odiava l’inettitudine in cui era precipitata la sua gente, il bisogno di affidarsi a un gruppo di pochi eletti che avevano esteso la parola del loro Dio. Quale Dio? Lui non aveva mai sentito la sua voce.
«Non riesci a dormire?» Jhann sbucò da dietro il tronco dell’acero rosso e si appoggiò con una spalla contro di esso, le braccia incrociate al petto e le mani sotto le ascelle per tenerle al caldo.
«Qualcuno deve montare la guardia» rispose in un borbottio sommesso.
«Per quello hai dei sudditi. Istituisci dei turni di guardia.»
Agur chiuse gli occhi e resistette alla tentazione di massaggiarsi le tempie. «Devono riposare…»
«Anche tu. Un re stanco non è utile a un popolo demoralizzato. Se tu vacilli, loro saranno perduti, senza più alcuna guida a cui aggrapparsi.» Si acquattò al suo fianco, reggendosi in equilibrio sulle punte dei piedi. «Non devi cercare la loro pietà o benevolenza, ma la loro fedeltà e la loro ubbidienza. Il resto verrà da sé.»
«Non sono re» si lasciò sfuggire dalle labbra.
La risposta di Jhann fu sorprendentemente dura. «Allora sei uno stolto. E scemo io che ti ho seguito. Di un principe non sanno che farsene, Agur.» Chiamarlo per nome fu la dimostrazione di quanto sfiduciato fosse anch’egli e di quanto poca stima gli rimanesse nei suoi confronti.
L’omone lo aveva seguito perché gli era stata promessa la fede in una forza superiore, in un sovrano potente, e adesso si ritrovava con un bambino a cui badare e fare da istruttore. Strano a dirsi, ad Agur mancò il vecchio Cammur.
L’indomani Mal si svegliò sofferente, abbandonando l’orizzonte avvolto in una luce malata e priva di forza. Per controparte, Agur sembrava aver assorbito l’energia che mancava al tempo.
«Nor, hai già cavalcato una di queste bestie?»
L’amico deglutì prima di accennare con la testa verso il Vorouk, immobile al limite del campo. «No…» La nota era tentennante, timorosa.
«Beh, sarà la prima volta allora. Voglio che porti i bambini con te, al sicuro, a Vitahj.»
La sua voce raggiunse anche la popolazione. Le madri strillarono e alcuni degli uomini si pararono davanti ai propri figli e anche a quelli senza genitori. «Non ci separeremo dai nostri bambini. Mai li lasceremo soli, a vagare per le strade della Città Fantasma.»
Agur si voltò verso chi aveva parlato con sguardo duro e distante, l’espressione austera che pareva aver limato e accentuato i suoi tratti regali. «I bambini ci precederanno al sicuro, all’interno delle mura della città. Noi andremo più spediti senza di loro. Intendo raggiungere Vitahj al tramonto del secondo giorno.» Senza degnare di un altro sguardo il popolano, si voltò di nuovo verso il vecchio compagno. «Allora, puoi ubbidire al mio ordine?» Tono duro e richiesta esitante: Agur seppe di non essere ancora un esempio regale, ma ce l’avrebbe messa tutta.
Comunque Nor non ebbe scelta che chinare il capo. Con un gesto esitante, richiamò l’attenzione della creatura. Il Vorouk sembrò destarsi, il suo corpo scricchiolare come se stesse liberandosi dell’immobilità della pietra. I suoi occhi si rianimarono ed esso li puntò sul cavaliere. Nor si fece forza e balbettò alcune parole. L’animale non sembrò averle ascoltate, ma le intenzioni furono chiare perché i suoi artigli si mossero verso il centro del cerchio formato dai popolani. Nor vi gettò addosso un drappo ricamato con delle strane rune e annuì una volta, facendo capire di essere pronto. A un cenno severo di Agur, trovò un ceppo e lo usò per issarsi sulla groppa dell’animale.
«Bene, fate salire i bambini. Jhann» chiamò quando vide che nessuno si muoveva.
Il guerriero disincrociò le braccia e afferrò con gentilezza uno dei più piccoli. Con passo sicuro si avvicinò all’animale e ve lo posò in groppa. Il bambino strillò e si aggrappò al drappo runico, lentamente si sincerò che nulla di male gli stava per accadere e si calmò. Vedendo questo, gli altri piccoli si avvicinarono incerti alle grandi ali del Vorouk e si misero in fila per salirvi su.
Quando furono pronti, Agur pronunciò: «Andate, ora!»
Il Vorouk si staccò dal suolo, gli artigli che lanciarono in aria zolle di terra come una pioggia marrone, e prese facilmente quota. I suoi muscoli non si gonfiavano o contraevano, ma pareva che la pietra mutasse forma per acquisire le sembianze del movimento di un volo. Presto i bambini e il cavaliere sparirono alla vista, in un puntino sempre più invisibile nella vastità del cielo.
Agur non restò con il volto all’insù e ordinò subito: «In marcia.»
A muso duro, salì in groppa al suo cavallo e permise a due donne di cavalcare quello lasciato da Nor. Jhann cedette il suo a un vecchio con la gotta. Con la schiena dritta, il sovrano del popolo in fuga fece strada nel sottobosco, sfiduciato nei confronti della vita e dei suoi creatori, ma deciso a mostrare solo la volontà con cui avrebbe retto quell’onere. Dentro era perseguitato da mille dubbi e colpe, fuori era finalmente pronto ad apparire come il re che doveva imparare a essere.
 
 
Vitahj era un fantasma, e non solo per mera nomea. Un brivido di inquietudine aveva attraversato le membra di Agur, mentre le dita si stringevano più forti alle briglie per non cedere al desiderio di fermarsi e tornare indietro. Probabilmente se non avesse avuto nel petto il peso dei bambini che aveva affidato alla protezione di quella città, sarebbe stato propenso a invertire la marcia e raggiungere immediatamente Serinut. Ma Cammur gli aveva concesso un unico indizio e un’unica speranza, e lui era deciso a tentare finché poteva.
Mentre il passo costante del suo cavallo lo faceva saltellare, i contorni della città traballavano come un miraggio o un’immagine nell’acqua. Vitahj sorgeva su una piccola protuberanza di terra, stretta da due anse del fiume Hiv, il quale come un serpente strisciava tra le valli e i boschi, facendosi spazio tra rigogliose foreste di caccia e monti rocciosi. La città era fatta di luci, i contorni delle abitazioni bianche parevano, così, spettri velati dai riverberi che si riflettevano sull’acqua cheta. Le case erano costruite su più livelli, una addossata a quella adiacente, con muri confinanti, abbarbicate sui costoni di roccia di una piccola montagnola di cui si scorgeva solo il fosforescente dell’erba e il sanguinolento delle foglie dei suoi enormi alberi. Un piccolo affluente risaliva i versanti della città e si spezzava in piccoli canali e canaletti, fino a circondare, all’apice della vecchia montagnola, il palazzo dei suoi capi.
«È bellissima» soffiò a labbra dischiuse Agur, e capì che era proprio quella bellezza sfuggente a intimorire i caharrin. Qualcosa di così leggiadro ed effimero era pericoloso, la sua seduzione un inganno che poteva far compiere pazzie al più savio degli uomini. Se fosse stata una donna, avrebbe potuto scatenare una guerra fra temerari guerrieri, che pur servivano la morte solo per amor di patria e fedeltà alla corona.
La piccola fiumana di fuggitivi seguì il cavallo del principe fuori dalla boscaglia e giù per il declivio che conduceva alle sponde dell’Hiv. Ne seguirono il corso fino a incontrare le prime fiammelle, fiaccole conficcate lungo la riva del fiume che segnavano la strada da seguire per entrare in città. Queste, poste a una distanza di sette braccia l’una dall’altra, si sdoppiavano sul pelo dell’acqua e sfavillavano come fuochi fatui. A sovrastarne la lucentezza stava Vitahj con i suoi archi e i suoi canali che ne moltiplicavano i bagliori, tanto che alla fine tutto apparve ai profughi come un sogno insperato e ingannevole. Entrarono in città passando sotto la grande porta: un arco a sesto acuto incastrato in una muratura nivea e porosa, che si reggeva su due pilastri, intorno ai quali si attorcigliavano le lunghe code di due enormi Vorouk. La struttura era tre volte la stazza del gigante Groug, che la leggenda voleva essere venti uomini più un nano. Al di là, la strada acciottolata veniva presto interrotta da un canale d’acqua, sulle rive del quale un uomo dalla veste blu li stava attendendo. Non c’erano altre persone che si avvistavano nelle vicinanze, e la città era muta, inquietante.
«Figlio di Cahar, lungo è stato il tuo viaggio.» La voce dell’uomo era profonda, gorgogliava come l’acqua in ebollizione. «E temo che non sia ancora concluso.»
Agur si sentì messo in soggezione da quell’alta figura avvolta in una larga veste svolazzante, impallidita dalle tante luci e sormontata da quella spettrale di Sel. Le sue parole erano sincere, pronunciate con tono compassionevole, e sembravano cariche del peso di chi sapeva molto più di ciò che gli era concesso dire apertamente.
«Salute a te» riuscì infine a dire. «Siete l’Alto Cavaliere?»
L’uomo avanzò liberandosi dell’accecante bagliore sul viso e mostrò un sorriso benevolo. «No, sono un Portatore.» Aveva un viso sottile con una mascella marcata, gli zigomi alti e sporgenti e gli occhi a mandorla. Ciò che colpì il principe, però, era il colore di questi ultimi: erano bianchi come il velo che indossava Anojah quando cavalcava sulle nivee fiere di montagna. «Mi chiamo Rineg.»
Agur smontò da cavallo e gli si fece vicino. Afferrò la mano che l’altro gli porse e inspirò. «La mia gente necessita di un posto dopo riposare. Il viaggio è stato lungo e spossante. E i bambini…» si guardò attorno aspettandosi che sbucassero da qualche scala nascosta o da una delle case che si affacciavano sulla strada, «dove sono?»
Rineg ridacchiò davanti al suo tono sospettoso. «Dormono, come chiunque della loro età a quest’ora.»
Agur non si sentì più tranquillo, ma non ebbe modo di obiettare.
«Mio signore.» Nor sbucò alle sue spalle e gli corse incontro. «Mio signore, siete arrivato.» L’amico si trattenne a stento dall’abbracciarlo in modo fraterno.
«Nor, i bambini…»
«Stanno bene» lo tranquillizzò con un sorriso sincero. «L’Alto Cavaliere li ospita nelle stanze del palazzo. Siete atteso lì anche voi con i vostri sudditi, mio signore.»
Agur non sembrò trovare divertente quell’appellativo. Poche settimane prima avrebbe riso e ridicolizzato l’altro se avesse provato a rivolgersi a lui con quel tono rispettoso, adesso però era solo la piastra con cui avrebbe costruito la sua corona. Il rispetto e la devozione dei suoi amici gli erano indispensabili per ottenere quella parvenza di fiducia e obbedienza dai profughi che lo seguivano con sempre più timore e smarrimento.
«Fai strada» si rivolse a Nor.
Rineg fece un passo, attirando la sua attenzione. «Da questa parte, allora» s’intromise con pacatezza, senza avere l’aria di essersela presa per essere stato ignorato con diffidenza.
I profughi, con Agur in testa e Jhann e Nor al suo fianco, risalirono i diversi livelli della città, specchiandosi nell’acqua dei tanti canali e attraversando ponti di pietra bianca che delimitavano il passaggio tra un cerchia e l’altra, si tirarono su per lunghe e ripide gradinate e strette scale rocciose, e infine si fermarono a bocca aperta davanti alla cerchia di alberi rossi che circondavano il palazzo dei capi della città. L’Alto Cavaliere li attendeva sotto le basse fronde di uno di essi. Agur osservò con attenzione quei singolari alberi, che si sdoppiavano e capovolgevano sulle acque del fiumiciattolo, in cui le loro sottili radici erano immerse: i tronchi erano di un grigio fumoso, tanto che le chiome sembravano galleggiare come ispidi nuvole, i rami si allargavano per diversi metri ed erano colmi di foglie sanguigne e triangolari; i primi frutti, bianchi oblunghi e dal sapore aspro, si intravvedevano appesi a quelli più alti, nascosti come perle dal colore vivido del fogliame.
L’Alto Cavaliere vestiva di una livrea viola, aveva capelli ricci e ferrigni e una barba ordinata che inscuriva il viso albino. Anche i suoi occhi erano lattei e parevano fissare qualcosa che andava al di là della semplice sostanza dei corpi. Le sottili ciglia nere erano sempre aggrottate e non si distesero neanche quando, con voce dolce, salutò gli esuli di Cahar. «Benvenuti. Sarete stanchi e provati. Vi prego di seguire i sentieri rossi fino al castello. Le Silenti vi condurranno alle vostre stanze, dove troverete un fuoco e un pasto caldo. Se vuoi seguirmi, principe Agur, c’è una stanza che ti aspetta. Possiamo parlare domani» concluse con una nota interrogativa.
Agur distese il viso e tenne ben aperti gli occhi. «Il riposo per il mio popolo è gradito, e vi ringrazio. Ma sono altri i miei bisogni adesso. Voglio accedere alla vostra biblioteca e parlare con il suo custode.»
Un lampo soddisfatto passò negli occhi bianchi dell’altro, e Agur capì che la sua ultima frase era un modo per metterlo alla prova. Quella gente lo inquietava. «Troppo sapere per un uomo solo» ribatté intanto l’Alto Cavaliere scusandosi. Districò le mani che teneva strette davanti al grembo e fece un cenno verso uno degli alberi. Dall’ombra del tronco si staccò un’altra figura in veste blu. «Hyria ti condurrà ai templi. Lì, se sarai degno, potrai trovare ciò che cerchi.»
Senza dargli modo di obiettare, l’Alto Cavaliere si congedò con un inchino del capo e si avviò per strade invisibili, segnate solo dai fruscii del vento tra le foglie.

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Capitolo 6
*** Sesta Parte ***


Sesta Parte
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Vitahj era una città pacifica, ed era quella sua pace intrinseca ciò che inquietava maggiormente Agur. I templi erano un assembramento di dodici strutture circolari, bianche, sormontate da cupole, ognuna delle quali possedeva un foro al suo apice per permettere all’acqua piovana di accumularsi in un bacile di metallo posto proprio sotto di esso. Ognuno dei dodici templi, sito nei giardini interni alla cerchia di alberi rossi, alle spalle del palazzo dell’Alto Cavaliere, aveva due accessi, posti uno di fronte all’altro, nel mezzo dei quali l’acqua dei bacili scorreva e si gettava nei piccoli canali, non più larghi di tre spanne, che attraversavano i giardini, come le vene che avvolgono muscoli e ossa nel corpo di un essere vivente. Dietro ogni struttura c’era un albero dalla chioma rossa, grande e rigogliosa, che gettava la sua ombra sanguinolenta sulla pietra bianca dei templi: aveva fragili radici ed era immerso in quel chiarore spettrale dato dalle luci della città, tanto che dava l’impressione di essere l’unica cosa vera e tangibile. Nell’insieme, i giardini apparivano come un arcipelago di piccoli isolotti galleggianti in mezzo all’elemento legante: l’acqua.
«Sono fratelli-guida» gli chiarì Hyria, intercettando il suo sguardo irrequieto. «Le radici affondano nel potete del nostro Dio e le fronde cantano ciò che il vento racconta loro.»
Hyria aveva una frangia spettinata davanti agli occhi lattei e una mezza coda che teneva i capelli lontani dalle orecchie. Aveva un viso scarno, e la pelle albina le conferiva un aspetto evanescente. Gli unici colori erano il nero dei capelli e il blu della veste. Era bassa ed esile, tanto che Agur pensò che potesse trasformarsi all’improvviso in un rivolo d’acqua e scomparire lungo uno dei canaletti che erano costretti a saltare. Dalla linea delle labbra sottili usciva una voce sfuggente, come un fruscio di foglie, tratteggiandola in timide tinte velate. Eppure la luce nei suoi occhi le conferiva un’espressione attenta e sveglia, tradendo una mente brillante e un potere che lo suggestionava. La sua figura, infine, era quello che di più simile Agur poteva associare a uno spettro.
«C-cosa?» Non stava bene che un principe che doveva fingersi re balbettasse a quel modo, con quell’aria stupida per di più.
«Gli alberi» indicò con il mento, «sono nostri fratelli, al servizio del nostro Dio.»
«Ah.»
«Adesso le loro foglie sono rosse, perché il sangue della terra le riscalda da dentro. Nella prima Decade d’estate, però, diventano violacee fino ad assumere tinte rosa pallido e indaco. Le foglie diventano secche ed è più facile prelevare la loro resina.»
«Mh» mugugnò intontito. Hyria teneva un tono sommesso, quasi timoroso, eppure la sua loquacità era stordente.
«La resina la usiamo per benedire le nostre barche e le nostre armi. È come portare il potere del Dio insieme a noi, ovunque andiamo.»
Hyria si fermò e tacque, e lo fece così all’improvviso che per un attimo Agur si guardò intorno, confuso e in allerta.
«Siamo arrivati.»
Si trovavano nel cuore dei giardini, i dodici templi che sbucavano come funghi dal terreno intorno a loro. Hyria fece ancora qualche passo e lo condusse nel punto in cui le vene d’acqua si incrociavano tutte: era una conca talmente limpida e piatta da sembrare uno specchio. Con passo leggero, Hyria vi camminò sopra e si sedette a gambe incrociate proprio al centro.
«Vieni.»
Agur mise mano al fianco per scoprire di non avere con sé la sua spada… né il suo arco, constatò portando una mano alla schiena. «Questa è magia» sputò tra i denti. Il senso d’illusione in cui camminava lo stava stordendo, tutto era così irreale! Molti dicevano che a Vitahj c’era ancora chi praticava la magia, eppure la corte di Cahar aveva sempre soffocato quelle dicerie, accantonandole come pregiudizi invidiosi nei confronti di un popolo dalle molte abilità e dalla fede profonda in un Dio straniero.
Hyria abbassò il capo e lo guardò attraverso le ciglia nere. «No» scandì lentamente in un sussurro, quasi muovendo solo le labbra, «è una preghiera che il Volor ha accolto.»
Il principe di Cahar si fece ostile e iracondo. Non avrebbe più tollerato in sua presenza che qualcuno giustificasse le sue gesta come il volere di una divinità superiore.
Hyria continuò dolcemente: «Sono una Portatrice, l’acqua e la pietra sono le mie armi, come le tue sono l’arco e la spada.» Con una mano accarezzò lo specchio d’acqua, il quale si fece increspare dal suo tocco per poi tornare impassibile appena la sua mano si spostò altrove. «Io non possiedo poteri magici né abuso di quelli del mio Dio.»
Agur tirò indietro la schiena e la guardò dall’alto in basso. «Dovresti rivolgerti a me con il mio titolo.» Il suo tono non ne era molto convinto e vacillò in un modesto condizionale.
Hyria esitò un attimo e con tono timido rispose: «Non posso accontentarti, Agur di Cahar, poiché perfino al mio Dio mi rivolgo con tono di sfida e a testa alta. È così che lo onoro.»
Hyria si alzò in piedi e gli si avvicinò di nuovo. Con un movimento lento e innocente, lo prese per mano e lo sollecitò a seguirla sopra la pozza d’acqua. Al contrario di quelli della fanciulla, i piedi del principe sguazzarono e si inzupparono. Hyria si sedette di nuovo a gambe incrociate e sollevò il volto verso di lui, aspettando che le sedesse accanto.
«Mi bagnerò» protestò, ancora dubbioso.
«Solo se la tua preghiera non sarà degna di essere ascoltata. Hai motivo di dubitarne?» Le sue guance si arrossarono leggermente, forse perché si era accorta della sua impudenza; tuttavia non abbassò gli occhi.
Agur sorrise amaramente e le si accostò. I vestiti s’inzupparono immediatamente. «Direi. Io non prego. E a cosa servirebbe? Tu hai mai sentito la voce del tuo… Dio risponderti?»
Hyria socchiuse le labbra e lo guardò come si studia una rarità. «Le voci dei morti sussurrano dall’alto delle terrazze dell’Ambal.»
Agur fece una smorfia alzando un angolo della bocca. «Non hai mai chiesto loro se c’è un Dio o se sono soli?»
«Non si fanno domande sulla morte, o si rischia di essere inghiottito da essa.»
«È un po’ comodo così, però. La curiosità è peccato per il tuo Dio?»
«No» la linea delle sue labbra si aprì lentamente, «la curiosità non è peccato, ma la conoscenza richiede sempre un prezzo da pagare.»
Agur scosse la testa, guardando oltre le luci della città. Nonostante il chiarore, sopra di lui brillavano ancora le stelle, appese a un manto blu scuro. «Se un Dio esiste, dev’essere pieno di rabbia e invidia, perché ha appena rovinato la vita di tutti noi.»
Il principe sentiva su di sé lo sguardo della fanciulla, e in parte si rammaricò di tanto scetticismo, ma poterlo condividere lo fece sentire meglio, quindi non se ne vergognò. Hyria lo guardava senza giudicarlo, non gli faceva sentire il peso della sua carica né gli ricordava i suoi doveri e le sue colpe. Accanto a lei c’era pace. Abbassò lo sguardo, sentendo i suoi vestiti di nuovo asciutti: l’acqua era tornata uno specchio rigido sotto di lui.
«Sei stata tu?»
La vide arrossire e abbassare gli occhi, stavolta. «Ho pregato per te.»
Agur allungò una mano e la costrinse ad alzare la testa posando un indice sotto il suo mento. «Hyria» le si rivolse gentilmente, «ho bisogno di parlare con il vostro bibliotecario. Cammur mi ha mandato qui, lui ha detto che voi avreste potuto ancora dare una speranza al mio popolo.»
Hyria allargò le braccia. «Devi solo chiedere.»
Agur si guardò attorno ma non vide nessuno che gli potesse rispondere farsi avanti.
Hyria insistette: «Cosa vuoi sapere?»
Esitante, guardandola dritto nei bianchi occhi, Agur sussurrò timoroso: «Ho fatto uno sbaglio.» Si ritrasse, ma sentì le dita fredde di lei stringere la sua mano, trattenendola. «Ho varcato le Pietre di Shaev, ho in qualche modo distrutto il loro… potere.» Si fermò, e poi disse: «La loro magia.»
«Non c’era magia nelle Pietre di Shaev» lo corresse ella.
«Eppure avevano tenuto lontano le belve da Cahar, dall’intera Venasta.»
Hyria puntò gli occhi vitrei su di lui. Spiegò con voce atavica: «È stato il mio popolo a erigere tale barriera.» Mentre parlava, lo specchio d’acqua iniziò a incresparsi, le sue misere profondità a farsi scure e opache, fino a spruzzarsi di immagini sfocate a cui la voce della fanciulla dava forma. Anche se era una notte senza vento, le fronde dei fratelli-guida iniziarono a fremere e alcune foglie caddero lievi sul pelo dell’acqua e navigarono come barchette fino a loro. «Nelle terre dei nostri avi, la magia era permessa, gli dei erano spiriti che si facevano carne e insegnavano a utilizzarla al meglio, e la voce del vento era un fiume che ci collegava all’aldilà.» Prese fiato, un po’ ansimante. «Nessun uomo osava varcare il passo sotto i Monti Silenti, perché quelle erano le dita del Giudizio. Quella terra era degli dei, così come le strane leggi che le governavano. Nessun mortale avrebbe potuto comprenderle.
«Di tutte le magie, quella più affascinante era sicuramente quella della plasmazione. Molti non si accontentavano di aiutare a evolvere un bruco in farfalla o di curare il male dal tronco degli alberi.» Il fratello-guida più vicino a loro s’irrigidì, quasi ricordasse quell’era. Ad Agur vennero i brividi, perché per la prima volta capì quant’anima ci fosse in quel luogo: i templi erano simulacri, semplici decori in onore di quelle fronde fatate. Hyria stava ancora raccontando. «Gli alberi che crescevano oltre la valle avevano radici profonde, che raggiungevano persino i picchi dei monti degli dei. La magia che scorreva in loro era una delle più potenti, e il sogno di molti era quello di plasmarla al proprio volere.
«Usarono il fuoco e una strana lega che era stata scoperta in alcune spelonche: voi lo chiamate perion. Manipolarono la magia e usurparono la terra. Alberi e fiere furono soggiogati, privati della loro magia per servire agli scopi di quei molti. Privare un essere della proprio magia significa privarlo dell’anima. Non c’è cosa più orrenda» rabbrividì. «Il perion divenne la corazza di quelle creature e il fuoco la loro linfa, la loro nuova fonte inesauribile di magia. Un’anima rossa in un corpo carbonizzato, ecco cosa diventarono.
«La mia gente invocò allora il potere del loro unico Dio, il Guardiano. Usarono l’acqua e la pietra per sigillare quelle mostruosità al di là dei monti, mentre il Dio Volor tracciava per loro un sentiero tra di essi, in modo che gli uomini potessero passare alle terre al di qua senza cimentarsi in sentieri che portavano verso le terrazze dell’Ambal, territorio immortale. I miei avi riuscirono a salvare alcuni dei fratelli-guida e a condurli in questa terra. Le loro radici, però, sono piccole e fragili, e il loro unico legame con la voce del Dio rimane l’acqua di questo fiume che giunge direttamente dalle sue terre e che filtra fino ai giacigli dei nostri saggi defunti.»
Il sussurro di Hyria si spense in una nota dolente. Il fruscio delle fronde si acquietò. Quello che era stato odio dentro Agur si trasformò in un forte senso di colpa e timore: quanti di quei molti erano suoi avi? Aveva paura a chiederlo. E quanto potere conservava ancora il Dio di quella gente in quelle terre straniere e lontane dall’ombra dei Monti Silenti? Agur abbassò lo sguardo, anche la sua mano si contorse nella stretta delicata della fanciulla, non osando interrompere il contatto. Cahar aveva mostrato ingratitudine e ostilità nei confronti di chi aveva sacrificato il proprio legame con un potere che lui si ostinava a non voler chiamare come ʻdivinitàʼ pur di salvarli. Cacciati alle estremità di quel regno, i cavalieri di Vorouk si erano insidiati in quella piccola terra, stretta da una delle braccia del loro Dio, per essere chiamati di nuovo, all’occorrenza, a servire chi già una volta aveva frainteso il loro potere.
«Sei silenzioso, Figlio di Cahar.» La voce profonda dell’uomo lo fece trasalire. Rineg se ne stava con le braccia conserte dietro di lui, con la spalla poggiata contro il tronco della Porta. Probabilmente era strisciato nell’oscurità della notte, risalendo per il versante alle loro spalle, e aveva ascoltato la storia insieme a lui, forse accrescendo ripulsione e astio nei suoi confronti. Il volto del giovane, però, non mostrava risentimento, ma solo una compassione innata. «Non ti ho ancora sentito fare la domanda più importante.» Al che, Agur non rispose. Così fu il Portatore a pronunciare: «Come si fa a rialzare la barriera?»
 
 
Nor e Jhann erano partiti di nuovo, stavolta in direzione di Varfool. La città era un’avanguardia dell’invenzione e costruzione nel regno di Venasta: lì c’erano i migliori armaioli di tutta la corona, e c’erano le fucine adatte per lavorare il perion. Agur aveva commissionato un lavoro per quei grandi artigiani, affidando il suo volere al suo grande amico, affinché tutti gli armaioli di Varfool impiegassero il loro talento per erigere quattro grandi lastre del perion più puro. I due compagni avevano lasciato la città fantasma alle prime luci del giorno, con i raggi di Mal che brillavano di fronte a loro e i cavalli che alzavano grandi nuvole di polvere correndo come se un’intera schiera di quei mostri neri li stesse alle calcagna. L’attesa, lo avvertì l’Alto Cavaliere, sarebbe stata lunga, perciò era meglio che lui si mettesse comodo e riposasse un po’. Così Agur si ritrovò spesso in quei giorni, un po’ spaesato, a passeggiare per i giardini del palazzo, affidando alla cura dei Portatori gli uomini e le donne del suo seguito, e si concesse la compagnia di Hyria, che mai sembrava lasciare quei luoghi di bianco e vermiglio.
All’inizio fu Hyria a parlare. «Quando ero piccola, salivo di nascosto fin quassù per veder le stelle. Una volta Anojah mandò un’intera schiera di nif lucenti a sfrecciare nel cielo, sembrava una pioggia di luce dorata, quasi volesse creare uno squarcio e mostrarci cosa nascondesse il manto della notte. E io camminavo con il naso all’insù, e sono caduta dentro a una delle vene d’acqua. Sono rimasta inerme guardando il cielo mentre la corrente mi trascinava via» rise con un colpo di tosse, «e l’Alto Cavaliere mi fermò mettendo una mano dietro la mia nuca e riportando il mio sguardo sulla terra. “Non sta bene spiare una guerra tra dei” mi ha detto, però io ho sempre desiderato vederla ancora. Ho sempre pensato che finché gli dei tengono la guerra nei loro cieli, allora il male non potrà toccare noi sulla terra.»
C’era della consapevolezza nelle sue ultime parole, la visione di chi stava vedendo realizzato ciò che più temeva. Nel tentativo di rincuorarla, Agur le raccontò: «Anche io ho sempre guardato al cielo: durante le notti di caccia o presso un accampamento, mentre aspettavo il giorno successivo. Scappavo dai ricevimenti pur di vedere quella che tu chiami “guerra tra dei”. A Valissa sanno replicare quello stesso furore, lo sai? Hanno della polvere che, sparata in cielo, illumina la notte. E non è solo d’oro, ma anche blu, e verde, e rossa…» S’interruppe un momento. «Adesso so che anche la luce delle notti passati all’addiaccio non era altro che polvere sparata in cielo. Non ci sono dei, Hyria, davvero. E se ci sono, sono inutili. Quale Dio si occupa di noi? Siamo gli ultimi, valiamo meno di niente se basta così poco per annientarci.» Si puntò su un gomito per guardarla in viso. «Agabar ha mandato le sue stesse creature contro di noi.»
«Agabar ha due facce» gli rammentò con dolcezza.
«A me guarda con quella nera. Vuoi dirmi tu quale Dio potrà salvarmi se io mi metto a pregare?»
Hyria lo guardò con quegli occhi fatti di morbida neve. Restò in silenzio, cercando di avvolgere le sue pene e cancellarle in esso.
 
 
Il tè di giunco lo calmò e gli diede un po’ di quel ristoro di cui la notte insonne lo aveva privato. Era una strana bevanda amarognola che, a quanto pareva, gli abitanti di Vitahj avevano in comune con i felichi.
«Acqua tutta buona, vita da essa essere pure. Popolo di acqua sapere» annuì sapientemente il felica, come a dire che i popoli che vivevano in simbiosi con fiumi laghi e mari sapevano sfruttare come nessun altro le loro materie prime.
Al caldo, in una delle piccole stanze del palazzo, Agur sorseggiava quella bevanda e ascoltava il silenzio tramortirlo con i suoi enormi spazi, dove ansia e paura si andavano ad ammontare.
Hyria era rimasta ai templi. Al suo fianco aveva il felica e l’Alto Cavaliere. Quest’ultimo era un uomo dalle poche ed enigmatiche parole. Agur avrebbe detto che sarebbe andato d’accordo con i modi incomprensibili del felica, ma quando li lasciò soli per andarsi a occupare dei preparativi per la loro partenza, questi sospirò grato.
Quando il principe gli fece notare la sua confusione, il felica s’indignò e rispose acidamente: «Strano a me no. Difficile parlare per capire essere. Lui strano sì. Facile parlare per non capire essere.»
Agur lasciò perdere. Stravaccato sul grande scranno imbottito di piume d’oca, per far risultare la seduta più comoda, il principe si guardava intorno per tenere lontane le ansie e i pensieri funesti. L’ambiente lo aiutava non poco, con le sue rifiniture particolari e pregiate. Tra le tante cose erano le grandi vetrate colorate che lo impressionavano. Fatture simili erano giunte in dono anche alla corte di Cahar, ma mai di simile bellezza. Quelle che ornavano la sala del trono, nella valle, per esempio, raffiguravano battaglie epiche ed eroi gloriosi; i loro colori erano vividi e avevano il compito di suggestionare gli ambasciatori in visita che venivano accolti in udienza da suo padre, il Re. Quelle del palazzo di Vitahj, invece, possedevano solo un colore – il blu – ma lo frammentavano in infinite sfumature, tanto che la delicatezza di tale opera costernava l’osservatore proprio per il senso di fragilità e imperitura bellezza che rappresentava. In quelle vetrate c’erano raccontate le storie dei miti e delle leggende, quelle dei sussurri del tempo che tanto affascinavano i bambini e facevano fantasticare gli avventurieri come lui; e c’era anche lo scorrere di tutto, dell’acqua che faceva spazio ai nuovi venuti con una carezza, ma che poi tornava al suo posto, libera di andare dove era suo destino scorrere, incurante del volere prepotente delle forze che cercavano di impedirglielo.
Non c’erano porte in quel palazzo. Così, quando Rineg sfiorò il suo scranno, il principe sussultò e si piegò per prendere in mano la sua spada.
«Pensavo ti sarebbe piaciuto visitare la mia città. Signore» aggiunse cercando di essere cortese, ma alle orecchie di Agur quell’appellativo suonò pesante e denso di ironia.
Tuttavia non era saggio per un sovrano rifiutare un simile invito, tanto più che era proprio quella città a ospitarlo e a tenere la sua gente al sicuro. Così rispose: «Sarebbe un onore.»
Rineg annuì e si avviò verso il corridoio. Agur, che era già stato traumatizzato dalla strada fatta per raggiungere quell’alcova, si affrettò a seguirlo, con il felica qualche passo dietro di lui. Le piccole stanze del palazzo erano collegate da tantissimi corridoi lunghi e stretti, cosicché passeggiare per i suoi anfratti diventava un’avventura labirintica in cui era facile smarrirsi. Una volta fuori, però, quello stesso senso di scombussolamento e perdita dell’orientamento si unì a una continua scoperta. Vitahj non era una città per cuori deboli o gente pigra. I vari livelli in cui era costruita erano collegati da lunghe gradinate e strette e ripide scale, tanto che a tratti gli sembrava di star discendendo una montagna; alcuni ponti erano quasi a punta, e li portavano sulla cresta del mondo. Alcune case e terrazze si gettavano a strapiombo, da alte rupi, sui boschi sottostanti o su tratti dell’Hiv. La cosa più impressionante, però, era la calma e la cordialità con cui tutti lavoravano e interagivano tra loro. Vitahj era candida, le sue strade erano pulite e i bambini correvano spensierati portando allegria, come l’acqua di un fiume che inonda di luce le trame oscure di una foresta oscura; i rumori dei fornai e quelli dei venditori che chiamavano la gente erano gioviali e serene, nulla a che vedere con gli schiamazzi disordinati e caotici delle taverne della capitale. Le locande della città fantasma erano allestite all’aperto, all’ombra dei fratelli-guida, e in molti pranzavano in quei luoghi raccontando storie e suonando la zampona. Camminando per le strade non era raro imbattersi in uomini e donne con le vesti blu che parlavano agli alberi. Intorno a loro il vento faceva danzare le foglie caduche e svolazzare in lampi di luce dei piccoli uccelli dalla forma allungata e dalle ali sottili, le nif. Alcuni Portatori, poi, erano seduti a gambe incrociate e lasciavano che la gente si avvicinasse, curando e portando sollievo ai malati e ai sofferenti.
Agur si lasciò sedurre dalla serenità di quella città e per un attimo dimenticò la guerra che imperversava oltre le sue mura. Avrebbe tanto voluto vivere lì, dimenticarsi dei suoi doveri, diventare uno tra tanti, significare qualcosa per poche persone, imparare a trovare quel perdono e quello spirito di unità che gli abitanti di Vitahj coltivavano con cura e amore.
Si fermò davanti a una fucina con le porte spalancate. Un uomo era inginocchiato davanti alla bocca del forno e reggeva una lunga canna di metallo, a cui era stato agganciato un ammasso di vetro. Il materiale, avvolto dalle fiamme, stava velocemente deformandosi e acquisendo un colorito aranciato. L’uomo, a torso nudo, allontanò la canna dal forno e l’appoggiò su un incavo del tavolo. Poggiò le labbra sull’estremità fredda della canna e iniziò a soffiare a pieni polmoni. Lentamente e con fatica, il vetro cominciò a modellarsi e a prendere una forma allungata e vuota all’interno. Veloce come un gatto, l’uomo lo lasciò a freddarsi e mise un’altra canna con un vetro dalle sfumature verdognole dentro al fuoco. Il lavoro a cui assistette Agur fu immenso e delicato. La fronte sudata e le mani annerite, l’uomo fece riscaldare il vetro a più riprese per poi lavorarlo sul tavolo con l’aria dei suoi polmoni e alcuni strumenti; con cura poi, iniziò a mescolare i diversi vetri fusi fino a quando le sfumature si mischiarono in un disegno sempre più definito e chiaro. In ultimo, lavorò il metallo e lo incastrò attentamente al vetro. Quando l’opera fu pronta, sul tavolo si trovò una lanterna di vetro con rifiniture runiche, poste sopra a un disegno di Vorouk che spiegava il volo sopra acque in tumulto.
Agur sgranò gli occhi e alzò il capo: sopra di lui il cielo era imbrunito e Mal stava scomparendo oltre i boschi verdeggianti, al di là del Mare di Mezzo. Era rimasto a guardare l’uomo lavorare il vetro per tutto il giorno. Il felica, al suo fianco, si avvicinò con passi cauti e indicò il lavoro finito sorridendo.
«Prendila pure, uomo blu» rise quello, «illuminerà la tua strada nei giorni a venire.»
Il felica s’inchinò dinanzi alla sua gentilezza e prese la lanterna, quasi con venerazione. Al principe disse, non appena gli si trovò di fronte: «Luce amica ossa nere batte.»
Al che Agur s’intristì e rispose: «Non credo che una lanterna possa aiutare il mio popolo.»
Risalirono verso il palazzo e il principe si congedò dai suoi compagni per addentrarsi in solitudine nei giardini. Camminò senza meta saltando da un isolotto all’altro, guardò le foglie farsi scure e annerirsi per poi rilucere sotto i raggi di Sel. Le luci di Vitahj si accesero, il sentiero di fiaccole che costeggiava l’Hiv sfidò la sera. Agur sperò che potesse guidare i suoi compagni di nuovo da lui. Il freddo gli ricordò cosa covava fuori da quella muraglia bianca, cosa stesse patendo la sua gente a causa della sua arroganza. Non lo aveva ammesso neanche con se stesso fino a quel momento, ma la leggerezza di quella città gli ricordò quanto era costata la sua esuberanza all’intero regno di suo padre. Come poteva adesso lui ereditarne l’onere? Non poteva biasimare la sfiducia che aveva colto chi lo aveva seguito, non avrebbe potuto punire chi aveva perso tutto a causa sua e gli negava la sua lealtà.
Nel tempio alle pendici dei fratelli-guida, l’acqua stava ridendo. Era un suono vivo, ritmato, frizzante. Agur varcò uno dei due ingressi e ammirò Hyria far volteggiare spire d’acqua tutt’intorno alla pietra e al bacile, fino a quando non venne anch’ella avvolta in quella vorticosa danza. Le spire si trasformarono in zampe e iniziarono a tastare il suolo e le pareti, sobillando e iniziando a corrodere le bianche pareti. Infine, come serpenti, strisciarono sul pavimento per tornare remissive dentro il bacile. Il respiro di Agur fu rumoroso e allarmò la giovane, la quale puntò i suoi occhi su di lui: erano di un azzurro glaciale che brillava.
«E questa non è magia?»
Hyria si ricompose e chiuse le mani in grembo. Il suo viso era rilassato, compassionevole. «In lingua runica si chiama Rurh, ed è una preghiera.»
Agur si adirò. «Cos’è una preghiera per te, si può sapere?»
«Un canto, un’invocazione. È gentilezza, è comprensione» rispose in un leggero sussurro. I suoi occhi tornarono del loro consueto biancore. «La magia che tu temi si chiama Gishk, è manipolazione e sottomissione. È abuso di potere, è privazione di libertà.»
«Mi hai mentito!» urlò. Sbatté un pugno contro l’arco di pietra. «Hai manipolato la verità per ingannarmi. Sei come la cariatide, alla ricerca di un vantaggio per i propri scopi.»
«No» mimò con le labbra, e gli occhi le si inumidirono. «Ti ho detto la verità che tu potevi accettare. L’ho fatto per aiutare te» riprese in un sussurro roco e tremante.
Agur le voltò le spalle e ridiscese verso il palazzo. Non si voltò indietro sebbene il suo cuore lo supplicava di ritornare sui suoi passi, ad avere compassione della prima persona, da quando aveva lasciato Cahar, che lo aveva guardato con occhi sinceri. Come aveva potuto mentire con quegli occhi? Come poteva l’acqua più limpida nascondere tali malvagità? Gli era stato insegnato che la magia era peccato, un male da estirpare; che i suoi antenati l’avevano seppellita al di là dei monti. Come poteva adesso lui accettarla, condonare quel crimine solo per aver salva la vita?
Adesso riusciva a vedere la verità: quelle strane piante, i soffiatori di vetro, gli uomini inginocchiati agli angoli delle strade… ingannavano la vita con quella blasfemia.
«Cahar di principe, di re!» lo chiamò una voce allarmata. Il felica stava balzando da un isolotto all’altro, sembrava un gazzella delle creste di Hitclast. «Alle porte tu… lei… essere» s’impappinò.
Agur sentì il sangue coagulare nel petto, e lì puzzare come una ferita in cancrena. «Che succede?»
Senza tanti complimenti il felica lo afferrò da un braccio e lo strattonò scompostamente verso le strade della città, giù per ogni terrazzamento, fino a lanciarlo contro il parapetto di una delle terrazze più sporgenti, la quale si gettava sopra la porta dei Vorouk. I rumori ovattati che già aveva captato lunga la corsa, tra le bianche vie e i canali azzurrognoli, si fecero finalmente immagini tetre e spaventose all’orizzonte, giù per il declivio che loro avevano affrontato al loro arrivo. Uomini e donne si erano armati di spade e fiaccole, tra quella marea di appiedati cavalcavano cavalieri in assetto da battaglia, con le picche alzate e gli spadoni che brillavano alle luci del fuoco. Un alito di vento spianò gli stendardi di Valissa e Cabiorn.
Rineg saltò sul basso parapetto e fiutò l’aria. «Vengono per le nostre teste, alla fine.»
Agur sgranò gli occhi e valutò la situazione. C’erano i buoi che trainavano lunghi carri – lì tenevano gli sputafuoco e altre diavolerie incendiarie tipiche della città di Valissa – e piccole viverne corazzate – a Cabiorn c’erano allevatori di quelle bestie. Il declivio s’illuminò a giorno e si mischiò alle fiaccole che delimitavano l’ansa dell’Hiv. A occhio e croce Agur poté stimare che le due città si erano completamente svuotate e riversate nei boschi intorno a Vitahj, portando con sé persino i vecchi e i bambini, e capì che era la mossa di un folle a guidarli.
«Rineg, raduna tutti i Portatori.» La voce dell’Alto Cavaliere era servizievole.
La veste di Rineg frusciò via in uno svolazzo blu. Agur si avvicinò all’Alto Cavaliere. «Non vorrete attaccarli? Parlerò io alla gente.»
«Non farlo, principe» lo mise in guardia, le rughe tra gli occhi sempre più marcate, «quello è un fuoco che vuole divorarci. E un fuoco non sa distinguere tra la sua preda e le vittime che incontra sul suo cammino.»
«Quelli sono i miei sudditi» lo minacciò con lo sguardo.
«Anche noi lo siamo» gli ricordò con una pacatezza disarmante.
Agur mantenne il contatto visivo per cercare una qualsiasi rimostranza in quello sguardo, ma esso rimase corrugato e mesto, come sempre. Allora il principe lo superò e chiese a gran voce le redini del suo cavallo. Quel poverino, portato a morso da uno stalliere, era stato tenuto sotto una delle tettoie delle terrazze, poiché Vitahj era sprovvista di stalle, e la sua calma era stata messa a dura prova dagli improvvisi risvegli dei Vorouk che vi stazionavano. Agur ne prese le briglie e lo montò con sicurezza. Quello, riconosciuto il suo tocco, lo servì con fedeltà, di nuovo libero dal giogo di quella città di pietra e acqua. Discese al galoppo per le strette strade e superarono la porta sorvegliata dai due Vorouk con la coda attorcigliata all’arco di pietra. Spronò il cavallo ad andare incontro ai fuochi e alle spade, la bava alla bocca e il cuore che pompava sotto i suoi muscoli.
«Popolo di Venasta, fratelli di Cahar!» vociò a metà strada. Gli stendardi erano stati ripiegati e i cavalieri di Valissa avevano puntato le lance. «Se siete ancora fedeli al vostro Re, allora abbassate le armi, perché è il suo sangue che scorre nelle mie vene! Fermatevi, vi dico!» La marea di disperati fu lenta a comprendere, non si fermò ma il suo passo esitò e rallentò. Molti urlarono e imprecarono additando Vitahj, alcuni, non avendo udito le sue parole, incitarono i compagni a uccidere il ʻmessaggero di pietraʼ.
Agur fece arrestare la sua cavalcatura. Si mise ritto sulle staffe e proclamò a gran voce: «Vitahj è nostra alleata! Cahar è caduta sotto i colpi delle belve nere e la città fantasma ha offerto ai sopravvissuti protezione e aiuto. Farò in modo che la dia a tutti voi!»
«Hanno liberato l’ossa ‘nere!» sbraitò una donna tra la folla, con un forcone in mano. Si tirò i capelli dalla disperazione. «Mio figlio… me l’hanno ammazzato!»
«Mio padre!» invocò isterica un’altra, reggendosi a un uomo con il viso sanguinato. «Pezzi pezzi per strada, lì l’ho trovato. Povero padre mio!» si sgolò, e scivolò in ginocchio mentre le sue mani non smettevano di percuotere le gambe del suo compagno.
«Papaveri rossi c’abbiamo lasciato dietro» strillò furente un’altra con la veste a brandelli e le braghe per tenere su i lembi della gonna, «ci penseranno loro a ricordare i morti. O c’abbiamo preparato le buche per noi?»
«Noi li ammazziamo!» chiarì uno dei domatori di viverne, che era già montato in sella a una di quelle bestiacce color del fango e dalle pupille verticali. Uno degli occhi della belva lo puntò proprio mentre il suo cavaliere parlava, una palpebra scattò dal basso verso l’alto repentina. «Sicuro che muore anche la sporca magia. Anojah poi pulirà tutto, piangerà e pulirà, amici!»
Agur deglutì: la gente sragionava, non lo stava ad ascoltare, parlava di miracoli e si attaccava ai loro dei per farli accadere. I visi erano indemoniati, i vestiti sporchi e consunti. Nelle retrovie poteva vedere persino bambini reggere con una mano i più piccoli e con l’altra armi mezze smussate. I vecchi si tenevano a tridenti e a lance, mentre gli occhi dei cavalieri infuocavano tutto ciò su cui si posavano, odiando la pace che li circondava e che invece loro avevano perso. Questo poteva capirlo: era la stessa cosa che aveva provato lui quando era arrivato… lo aveva provato fino a un attimo prima di vedere quella massa di profughi assediare i boschi intorno alla città mentre i suoi abitanti guardavano alla loro paranoia con sguardo mesto e remissivo. I vitahjir erano stati sfruttati, per poi essere cacciati e isolati, ingiuriati alle spalle e invidiati per le loro capacità manuali e visionarie. Decise di non pensare, per il momento, a ciò che aveva visto fare a Hyria.
«Sono il principe Agur, erede di Cahar…» deglutì, «e vi ordino di abbassare le armi!»
«Principe Agur?» chiesero alcuni tra le seconde file.
«È il principe Agur?»
«È il principe!»
Le voci si rincorsero fino ai declivi, dalle acque dell’Hiv ai carri ancora nascosti nel sentiero. Qualcuno gli puntò contro una fiaccola per illuminargli i tratti.
«Agur! Sei tu!» Der si fece largo tra la calca e si buttò sul garrese del suo cavallo per stringere le sue gambe in un gesto di felicità insperata. «Non credevo in tanta fortuna. Ho perso ogni traccia di Nor…» si affievolì la sua voce, lo sguardo perso nel manto scuro del cavallo. Scosse la testa e lo guardò a occhi spalancati. «Anche tu, a scacciare il male. Li purificheremo con il fuoco, come si fa con la peste, amico mio. Sei qui per questo anche tu…»
Agur rimase inorridito dallo stato pietoso e convulso in cui versava l’amico d’infanzia. Non sembrava in grado di riconoscerlo veramente. Smontò da cavallo e cercò di allontanarlo dalle sue vesti. Lo afferrò dalle spalle e aprì la bocca per calmarlo, ma Der continuava a farneticare e a guardarsi intorno, lanciando ordini e annunciando l’appoggio del signore di Cahar alla loro missione.
«Der, devi ascoltarmi…»
Il giovane uomo si trascinò sopra un carro e richiamò la folla a sé. «Ecco, ecco! Agabar ha mandato a noi il suo figlio prediletto. Il Dio del Fato sa come debellare il male dalle terre di Anojah, il Dio del Fato conosce la giustizia!» Le voci di esultazione si innalzarono verso le terrazze di Vitahj, e i versi dei Vorouk si scossero dalla pietra che li teneva dormienti. «Ecco, ecco! Sentite? I maligni si preparano ad attaccarci. Scendono direttamente a prendere parte a questa guerra. Se uccidiamo loro, l’Agabar ci libererà dalle belve nere, e dalle fiere d’oro, e dalle donne-ragno…» La bava gli colò sul mento e lui dovette riprendere fiato. Urlò: «Diamoli in pasto al fuoco! Uccidiamo i maligni!»
La gente fece balzare le proprie armi in alto e intonò: «A fuoco! A fuoco!»
Agur perse la pazienza. Si gettò sull’amicò e lo trascinò giù dal carro. «Che diavolo stai facendo?»
«Mi hai mandato tu ad avvertire il tuo popolo. Tutti quelli che sarebbero stati disposti a seguirti verso ovest. Poi ho pensato…» Der lo guardava confuso e balbettava sconnessamente, «… Nor non l’ho più visto… le belve nere, le hai viste? Oddio, spero di no… ho pensato, sì… Vitahj, a ovest sta Vitahj… Cahar distrutta, tutti i sovrani smembrati sul balcone…» Il sangue si gelò nelle vene del principe, «…sì, se tu eri morto, non potevi andare a ovest, ma a Ovest c’è Vitahj… ho pensato… a fuoco Vitahj, così finisce tutto, sì…»
«Ascoltami adesso!» Lo afferrò dalle spalle e gli diede un violentissimo strattone, tanto da catapultargli la testa all’indietro. «Nor è vivo, tornerà qui presto. Io so come fermare le belve… so dove potremo trovare pace e prepararci ad affrontarle.» Gli uomini più vicini a loro sentirono le sue parole e si azzittirono, quelli accanto a loro, di riflesso, sussurrarono sempre più piano, nel tentativo di capire cosa stesse accadendo. Presto, intorno ad Agur e Der si formò una campana di silenzio. Agur si sentì male, ma continuò a testa alta: «I cavalieri di Vitahj ci aiuteranno, useranno la loro… preghiera, pregheranno il loro Dio perché alzi una barriera a protezione della nostra terra. Non potete attaccare la città!»
Der spalancò gli occhi: «Nor è vivo? Dov’è?»
Agur ebbe pietà di lui. «Arriverà presto.» Si guardò intorno, fissò alcuni uomini e ne scelse uno che gli parve ancora lucido e moderato nell’atteggiamento. «Il tuo nome?»
«Mors. Sono… ero un alto in grado del palazzo di Cabiorn, mio signore.»
«Bene! Recluta dei messaggeri, che portino a tutti questo messaggio! Il figlio prediletto di Cahar è ancora vivo e si è guadagnato il potere del Dio delle acque per proteggere il suo popolo. Di’ loro che avranno acqua e cibo, ma che adesso dovranno abbassare le armi, perché il loro signore non vuole spargimento di sangue, per ora.»
Mors annuì più volte, poi si congedò in fretta e ripeté le sue parole agli uomini alle sue spalle. In sella ai loro cavalli, quelli si avviarono tra la folla per gridare a gran voce il volere del principe.
Agur sospirò di sollievo e si costrinse a prestare nuovamente attenzione al suo vecchio amico. Der gli stava strattonando la manica e chiedeva insistentemente dove fosse il fratello. «Sta facendo una cosa per me. Vieni, al palazzo dell’Alto Cavaliere c’è una stanza che ti aspetta. Mors, sarai tu a…»
«Nel covo dei maligni non entro!» sbraitò quello. «Ti hanno forse avvelenato la mente?» s’insospettì.
Agur lo guardò come si guarda la peggiore serpe che tenta di avventarsi al fianco. «Nessuno, divino o mortale, riuscirà mai a togliermi il senno! Che la mia stirpe possa perire nel fango, se questo mai accadrà.»
Der sputò per sancire quel giuramento. Sembrò calmarsi.
«Mors, rappresenterete Cabiorn. Trovate un rappresentante di Valissa e raggiungetemi alle porte della città. Vieni, Der» disse controvoglia.
Un po’ incitandolo e un po’ tirandolo di peso, condusse l’amico fino al palazzo dell’Alto Cavaliere. Il suo cavallo era stato di nuovo affidato alle cure dello stalliere, al quale stavolta egli si raccomandò perché al suo destriero non mancasse fieno, una cesta di mele e una bella spazzolata.
«Ah» esultò Der, il quale aveva adocchiato il felica, «tu sei il muso blu che serve Agur.»
Agur non ne poté più. «Siediti e resta buono qui fino al mio ritorno. Lì troverai un fuoco e un pasto caldo. Non lasciare questa stanza, nessuno ti disturberà.»
«Si, Agur. Ma muoviti» tremò sulle ultime sillabe.
Agur si chiuse la porta alle spalle con uno sguardo abbattuto: Der sembrava un bambino che ha paura del buio, incapace di potersi occupare di se stesso. Adesso egli doveva scoprire quali orrori si nascondevano nelle memorie di Valissa e Cabiorn, in modo da potersi spiegare una simile perdita di senno.
Mors aveva portato con sé una donna: Milenna. Dal suo portamento più che dai suoi abiti infangati, capì che era una donna dell’aristocrazia della città. Sul viso aveva un lungo graffio che le sfregiava lo zigomo e i capelli erano un ammasso aggrovigliato sulla sua testa.
«Vorrei potervi offrire riposo, ma ho bisogno di risposte.» In quel momento, sentì il peso che era gravato una volta sulle spalle di suo padre passare sulle sue. «Avete notizie di Cahar?»
Mors esitò, ma Agur scoprì che Milenna non aveva peli sulla lingua né conosceva mezze misure. «Impiccati sul balcone che dà sulla grande piazza, spogliati e spellati dalla vita in giù.»
Agur si tenne allo schienale di uno scranno per non vacillare. «Quali sorti per Cabiorn e Valissa?» Non voleva sapere!
Milenna rispose puntualmente: «Mio padre, il reggente della città, è stato legato a un cavallo sellato con dell’olio di acacia a cui è stato dato fuoco. Non credo potreste riconoscerlo, non ce l’ho fatta neppure io nonostante abbia guardato attentamente ciò che ne rimaneva. A Cabiorn siamo arrivati prima delle belve nere, ma le donne-ragno avevano già iniziato i loro giochi perversi.»
Milenna continuò nel suo catastrofico monologo, e a ogni parola che aggiungeva l’anima di Agur cadeva sempre in più profondi e squallidi anfratti, dove strati di viltà e ignobile paura sedimentavano sopra a quelli di inadeguatezza e colpa. Il felica era al suo fianco e non sembrava sorpreso dai racconti, ma li ascoltava con scrupolosa attenzione. Anche l’Alto Cavaliere ne reggeva il peso con la postura dritta e un’espressione indecifrabile.
«Mio signore» lo riscosse esitante la voce di Mors, «avete detto di avere un piano.»
Agur lo guardò allibito: aveva un piano? Lui? Sì, certo, ma cosa poteva la sua idea per coloro che erano già periti o per quelli che avevano dovuto assistere a quell’orrore? E con quale coraggio poteva garantire a quelli ancora in piedi che non lo avrebbero dovuto più rivivere? Ancora una volta, in quel momento più che mai, il bisogno di un potere più in alto di lui fu talmente forte da provocargli una fitta di odio-dolore.
«Io…»
«Mio signore.» La voce di Hyria attraversò la stanza come un lampo di luce che squarcia le nubi. Agur la vide rischiarare le tenebre che lo avvolgevano e affiancarlo a testa china, gli occhi puntati sulle sue mani. Non lo aveva mai chiamato con tanta reverenza. «Gli ultimi profughi sono stati rifocillati, i feriti hanno ricevuto le cure adeguate. Le Silenti, tue servitrici, stanno adesso rincuorando i più piccoli con le nuove preghiere.»
Agur si voltò verso di lei, ma fu Milenna a chiedere: «Le nuove preghiere? Verso quale Dio?»
Hyria rispose in un sussurro accorato: «Il Dio degli ultimi, il Dio della forza, il Dio della vendetta, il Dio della rossa rabbia… Colui che ha accettato il dono delle madri senza figli e delle spose vedove, dei figli rinnegati e delle anime in collera.» Chiuse gli occhi. «Meg.»

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Capitolo 7
*** Settima Parte ***


Settima Parte
 
 
 
 
 
 
 
 
 
«E adesso… cosa dovrei fare io?»
«Parla con loro. Condividi con loro la tua fede.»
Agur era poggiato contro il parapetto della terrazza aggettante sulle rive dell’Hiv, sopra l’accampamento degli abitanti di Valissa e Cabiorn. Al suo fianco, la presenza di Hyria era un’amara consolazione. Guardava alla sua gente con sguardo duro e adombrato. I servi delle Silenti avevano parlato più volte alla folla, raccontando di Meg e della sua forza, che si cibava di sangue e di voglia di riscatto; che incitava al coraggio e alla resistenza, che vegliava sui disperati e li guidava nella luce folgorante di una notte rabbiosa. Prima erano stati avvicinati i più piccoli, perché le loro voci delicate potessero riscoprire in quei leggendari racconti di nuovo il volto della speranza. Se un bambino tornava a credere nel futuro, allora un adulto aveva la forza di lottare per lui, e quella piccola fiammella diventava una scia di lanterne che saliva verso il cielo scuro. Le storie, così, erano circolate: la gente mormorava, molti dubitavano, tutti chiedevano di lui, e Agur… Agur era di nuovo in catene. Un Dio era stato posto al di sopra di lui, di nuovo, ed egli doveva rispettarne il volere; ancora una volta, se voleva avere il controllo sul popolo, doveva farlo attraverso un’effimera divinità.
«Io non ho alcuna fede» rispose caustico.
Hyria pose con delicatezza una mano sulla bianca pietra, davanti ai suoi occhi. Agur ne seguì il pallore fino a venir catturato dalle iridi lattee. L’ascoltò dire: «Tu credi nella forza, tu vuoi la vendetta. Rinneghi il volere dell’Agabar, ma hai bisogno di un grande potere per tenere unito e guidare il tuo popolo. Un mortale non ha questo potere. Un Dio sì, che esso sia vero o solo una leggenda lontana, è la fede dell’uomo a dargli potere. E se è il sangue che reclami, allora è del sangue che il tuo Dio si ciberà.»
«Io non ho la forza per fare questo.»
«Sì, invece. Hai una famiglia e un popolo sterminati barbaramente. È la collera la tua forza. Un Re non è necessariamente la persona più saggia o più buona. In guerra, è la persona più forte e brava a sopravvivere che deve regnare. È tu ne hai anche il diritto di sangue. Mostra loro la tua forza, chiamandola rabbia o Meg. Mio signore.»
Agur guardò verso l’orizzonte lontano la terra che presto li avrebbe accolti. «Non serve che mi chiami così quando siamo soli» sorrise amaramente.
Hyria fece un passo indietro e chinò il capo. «È giusto che io ti ricordi quale sia il tuo ruolo in mezzo a noi. E io ti seguirò oltre la valle del mio Dio e ti servirò. Mio signore.»
Agur strinse le mani a pugno e mantenne un’espressione solenne: era il momento d’imparare, di tenere accanto a sé tutta quell’ira che era stata sottomessa a imperizia e paura. Si voltò verso di lei e le mise un dito sotto il mento, le alzò la testa. La guardò con decisione. «Mi servirai» constatò semplicemente, e la sua voce promise molto più di quello che l’imperturbabilità del suo viso esprimeva. Adesso sapeva che accanto alla rabbia, avrebbe tenuto lei, la speranza. Le fece una carezza lieve sulla guancia imporporata, poi si voltò senza esitazione verso l’irta via.
Discese a piedi per le strette stradine, superò ponti e ripide scale con calma e un fuoco dentro che divorava il cammino davanti a lui, giù fino alla grande porta con i magnifici Vorouk dormienti. Hyria aveva detto che quei due esemplari, adesso solo scolpiti nella pietra, erano i progenitori di tutti i Vorouk che dominavano sulla valle e che si sarebbero destati solo il giorno in cui Vitahj sarebbe stata perduta e un suo figlio ne avrebbe invocato la rinascita. Agur non li guardò e decise che non si sarebbero destati, non durante il suo regno, perché avrebbe significato la sua disfatta.
Le tende erano state piantate alla bell’e meglio, diversi bracieri erano stati sistemati tra di esse. La gente era radunata lì, dove strategicamente stavano le Silenti. Hyria aveva detto che era stata un’idea di Rineg lasciare che fossero le donne a parlare con il popolo. Le vesti di larga e bianca lana grezza erano indossate da corpi magri, tanto che l’immagine di quelle donne era molto fragile e innocua. Hyria, però, gli aveva detto che erano combattenti esperte che si erano votate al silenzio della morte. Il loro dominio erano le nicchie dove venivano imbalsamati i corpi prima di essere affidati alle correnti del mare. «Vedi la strada di fiaccole spente che s’inoltra verso est, oltre il fiume? Le Silenti traghettano i morti sull’altra sponda e poi viaggiano per la Foresta del Mirenel fino al mare, dove solitarie consegnano i corpi alla Valle del Volor, la distesa d’acqua blu» gli aveva spiegato Hyria. «Noi non seguiamo mai i morti fino alla loro ultima tomba. È il Guardiano in persona che li prende con sé. Solo le Silenti possono intraprendere quel viaggio e tornare indietro.» Come aveva scoperto in seguito, le Silenti non erano solo donne ma avevano una folta schiera di uomini gracili e un po’ malaticci, dai volti effemminati e con due tagli ai lati della bocca. «Sono ciechi o nati con difetti del parlare e del camminare. Servono le Silenti per ripagarle di non averle strappati prematuramente alla vita.»
Agur ascoltò le ultime parole di uno i questi e rimase agghiacciato dal gelido suono della sua voce: «Meg è un Dio silenzioso, ama solo il suono del ferro che strida fuori dal fodero. È un Dio che arriva quando tutti gli altri dei se ne vanno.»
«Anojah non ci ha abbonati!» urlò qualcuno, disperato.
«L’Agabar farà giustizia!»
«L’Agabar ci ha traditi!» tuonò la voce di Agur. Balzò al fianco della donna e dell’uomo deformato, che prontamente si chinò, muto. Si aggrappò alla corda di una tenda e saltò sopra un tozzo barile. «Ho visto la cariatide pregarlo per giorni, ma sapete qual è stata la risposta del Dio del Fato? La morte di sette vergini innocenti e l’arrivo delle belve nere! Quelle creature sono il flagello di Cahar, sono Ra-cahar!» Si puntò su un ginocchio, in precario equilibrio. «Non vi chiedo di abbandonare i vostri dei. Anojah serve la vita, ma di vita non ce n’è più né a Cahar né nelle vostre città. Il Volor serve la morte, ma noi respiriamo ancora. Meg è il Dio degli ultimi, è il Dio dei sopravvissuti, di chi ha ancora voglia di lottare, di chi ha ancora forza per riprendersi ciò che gli appartiene! È il mio Dio!
«Seguitemi, e vi farò conoscere le sue fiamme! Seguitemi, e vi darò la vostra vendetta! Servite ancora un figlio di Cahar, e io costruirò per voi una nuova Venasta, da dove il nostro fuoco scoppierà per bruciare quelle nere ossa!» concluse con affanno. Era stato precipitoso, aveva scaraventato la sua ira e aveva bestemmiato con il nome di un falso Dio sulle labbra.
Per questo si sorprese quando gli uomini di Cabiorn ruggirono in sella alle loro viverne, le vedove e le madri piangenti strillarono la loro rabbia, il loro dolore, e bevvero della sua sete di vendetta. Le lance di Valissa brillarono mentre venivano più volte alzate verso il cielo, a ritmo delle urla dei guerrieri che le impugnavano. I bambini corsero verso i Portatori, i quali avevano seguito Agur in silenzio, e accettarono i dolci doni che essi portavano loro. Molti sorrisero, e Agur vide nei volti dei loro genitori il desiderio di non veder più spegnere tale guizzo di luce. Qualcuno aveva guidato il suo cavallo tra le tende. Agur balzò in sella con un salto elegante e lo fece impennare.
Disse: «Se il Fato ci accieca, allora noi accenderemo i fuochi. Da ovest verso est! Che bruci tutti! Che bruci tutto al suono del nostro urlo di guerra!»
La gente gridò. Il cavallo nitrì e Agur lo spronò in un folle galoppo lungo la sponda del fiume. E dalla riva migliaia di nif si alzarono in volo, suadente luce sorta dalla scurità degli steli d’erba intrecciati.
Arrestò la corsa e in una danza avanti e indietro, come un leone in gabbia pronto a balzare, ruggì: «Ascoltate la mia rabbia: sta per segnare la strada da seguire. La mia, e non quella di un Dio ingannevole! La nostra, e non quella capricciosa del Fato! Preparatevi a partire!»
Voltò le spalle al suo popolo esagitato e, aitante, superò i Portatori e rientrò in città. Senza fermarsi, raggiunse i giardini del palazzo e chiamò a gran voce l’Alto Cavaliere. «Preparate il vostro popolo, Cavaliere. Partiremo questa notte. Incontreremo Jhann e Nor tra tre notti, sulla Via Carraia.»
Il volto corrucciato e insondabile come sempre, le mani nascoste tra le pieghe della tunica viola, sentenziò: «Non sono il mio popolo.»
«È vero. Sono il mio! Lo so, Cavaliere. Mandate messaggeri tra di loro. Preparatevi a partire. Nel mio regno sarà riservato loro un posto d’onore, come è giusto che sia. Se non posso cancellare gli errori dei miei avi, posso almeno fare in modo di non ripeterli. Se non volete considerare questo come risarcimento per il patimento subito, accettatelo come dono di un Re riconoscente per ciò che avete fatto ora, per lui. Per me.»
L’Alto Cavaliere annuì e lasciò che un latore eseguisse l’ordine del principe.
Poche ore dopo, Agur si ritrovò di nuovo dentro al palazzo, chino su un tavolo, in compagnia di Hyria e dei capi del suo esercito. Sulla mappa tracciava diversi sentieri, ognuno con diversi ostacoli. «Più breve e sicuro sarebbe seguire l’ansa del fiume fino al delta e poi, da lì, restare di fianco alla costa fino alla Via Carraia.»
«Niente è più sicuro, nessuna strada è breve» fu la risposta enigmatica dell’Alto Cavaliere mentre la stanza si svuotava: era stato già scelto chi si doveva occupare dei rifornimenti e chi di dirigere le operazioni dei battipista e degli esploratori. Fece un cenno verso la fanciulla e le concesse un rarissimo sorriso, breve ma sincero. «Hai scelto?»
«Sì, padre.»
Agur cercò di dissimulare in fretta la sua sorpresa a sentir quell’appellativo.
«Anche io.»
«Lo so» rispose laconica, ma la voce gli si spezzò in un rantolo soffocato.
L’Alto Cavaliere tornò a guardarlo mentre si prestava a diventare Re e Dio insieme. «Sei un principe senza corona, Agur di Cahar» lo disarmò con la sua profonda conoscenza, mostrando un’inibente schiettezza e una durezza nella voce che sapeva di minaccia. «La tua gioventù porta con sé molte colpe e poca saggezza. Ma non puoi fidarti di chi ne vanta più di te. Dovrai accettare di sbagliare, di essere arrogante, di rimanere solo, di sacrificare i tuoi desideri. Dovrai diventare Re, e un Re esiliato in terra straniera non verrà mai veramente accettato. La tua strada non è né breve né sicura. Poche saranno le gioie e ancor meno le virtù che lascerai in eredità. Ma verrai ricordato come grande. Aspira a quella grandezza, questa sarà la tua virtù.»
Agur sentì uno strano disagio crescere lungo la schiena, fino alla nuca. Le parole dell’Alto Cavaliere erano algide, sembravano giungere direttamente dai freddi giacigli dell’Ambal, troppo fredde per un uomo in cui la vita ancora scorreva focosa. «Mi state dicendo che non dovrò fidarmi di voi?»
«Ti sto dicendo che non sei ancora Re, sicuramente non su questa terra. E io non ti seguirò» sancì duramente. «Le Silenti hanno spezzato il loro voto di silenzio per te» lo redarguì, esprimendo tutto ciò che aveva taciuto dal suo arrivo. «Ho visto il mio popolo racimolare la grazia dei Re di Cahar per anni, seduto sul poggio più alto senza il potere di riscattare per loro la dignità che meritano. Non scordarti di questo, non permettere che la tua gente dimentichi le mie parole.»
Agur s’adirò. Sentiva la vergogna avvolgerlo da dietro, proprio partendo da laddove gli occhi di Hyria, alle sue spalle, stavano trafiggendogli la schiena. Non volle voltarsi, e affrontò a muso duro l’uomo che credeva un savio amico ma che scoprì essere colui che più di tutti lo accusava per i soprusi subiti, causati per ordine e ingiustizia altrui, nel passato. Sentì la presa allentarsi sulla città di Vitahj, fondamentale pietra su cui costruire il suo regno.
L’Alto Cavaliere lo congedò, come se fosse egli il padrone, e non il servo: «Puoi andare, Agur di Cahar, porta i figli di questa terra morta con te. Ricorda che sono orfani, e piangeranno. Non puoi consolarli. Dei miei figli, però, ti chiedo di restituire al mare le spoglie quando sarà tempo. I morti lasciali tornare qui. Li veglierò io.»
Per la prima volta la sua anima percepì la presenza di un potere più grande e immenso. Agur abbassò il capo e ubbidì.
 
 
«Quando sarà tempo, dovrai prendere la prima decisione sbagliata, mio signore.»
Erano dentro una piccola tenda, in mezzo all’accampamento di profughi, sulla strada buia che conduceva al mare. Le Silenti avevano fatto strada lungo la via che solo loro potevano seguire, i vitahjir che lo avevano seguito erano più della metà e tutti erano stati bendati, persino Hyria, che lo aveva seguito a dispetto delle dure parole del padre. La loro fede era profonda, e se dovevano camminare lungo i sentieri dei morti con il respiro nella gola, allora avrebbero sacrificato la vista. Equilibrio, lo chiamava Hyria. Agur aveva annuito e trattenuto il suo pensiero – superstizione. La prima notte era trascorsa tranquilla. Il secondo giorno era continuato con le donne di Cahar, Valissa e Cabiorn che insistevano a lasciarsi dietro fiori di papaveri, e quando erano finiti avevano seminato i semi che un giorno avrebbero ricoperto di nuovo di rosso quella terra. Agur si era obbligato a parlare con loro e in un momento di trasporto aveva proclamato che il simbolo di Cahar sarebbe stato sostituito con un papavero rosso, in segno del lutto che la sua gente avrebbe portato fino al ritorno in patria. Alcuni Portatori, tra cui Rineg, si erano proposti di restare indietro per poter riferire di eventuali avvicinamenti. Le loro ultime informazioni dicevano che le belve nere, e soprattutto le Araknaa, non erano molto distanti dalla città fantasma. Presto sarebbe diventata una città ragnatela. Der sembrava essersi dato un contegno e seguiva fiducioso il suo signore. Continuava a chiamarlo per nome, però, e a volte le occhiate che gli lanciava lo preoccupavano. Il felica camminava sempre un passo dietro di lui, e questo in qualche modo lo rassicurava. Adesso, loro tre erano nella tenda insieme a Hyria, che si era momentaneamente liberata della benda, e di due Silenti. Queste due non avevano nome, e Agur si rivolgeva loro con lo sguardo, un po’ circospetto: gli ricordavano troppo il potere infido che aveva la cariatide a Cahar. Faceva fatica a tenere a mente il monito dell’Alto Cavaliere. Lui non avrebbe permesso che una simile carica si sviluppasse anche nella nuova Venasta.
«Quale scelta?» chiese alla più alta.
«Uno dovrà restare indietro, separarsi da te.»
Agur s’irrigidì ma non cambiò espressione. Aveva già intuito cosa richiedeva la magia, lo aveva carpito dalle scritture del Bercio.
«Ma non potrà essere meno di padre.»
Il principe si accigliò, confuso.
«Erede di vita» annuì sapientemente il felica.
Ancora più confuso, Agur chiese l’aiuto di Hyria con lo sguardo.
«La magia spezza un legame, divide una cosa che è una, ma per rimanere attiva ha bisogno che il sangue da cui prende forza rimanga vivo, integro» spiegò con un tono compassionevole. «Il sangue di chi prenderà parte alla magia dovrà continuare a scorrere, di padre in figlio, per mantenere il potere attivo.»
Agur si contorse leggermente, a disagio. Era l’ultimo erede del Bercio e del figlio sacrificatosi per il popolo, per questo passando tra le Pietre di Shaev aveva spezzato la magia: il suo sangue aveva ricucito lo strappo. Adesso, il suo sangue doveva tornare a scorrere in un erede, se voleva che la magia durasse nel tempo. Ma chi sarebbe rimasto dall’altra parte era destinato a morire, la sua progenie doveva già essere nata affinché il sangue continuasse a scorrere. In un sospiro egoistico, pensò che nessuno dei suoi amici poteva assolvere a quel compito, poiché nessuno di loro era padre. Chiedere, però, a chiunque altro di sacrificarsi era un peso di cui non riusciva a farsi carico: non poteva obbligare un vitahjir, non dopo la fiducia che quei reietti gli avevano concesso; e non poteva chiamare all’immolazione un uomo di Cahar o di un’altra città, aveva promesso loro una speranza e non poteva troncarla adesso, sarebbe stata una beffa degna dell’Agabar.
«Metà di uno» pronunciò il felica, e gli posò una mano sulla spalla.
Agur si voltò lentamente verso di lui, incredulo. «Cosa?»
«Vita di Puèsigath, sua ancora a morte di felica, ma cosa vita essere, felica dice. E io dico: metà di uno.» Sorrise e portò una mano sul petto. «Metà vita a Puèntagor essere. Fiume e monti sani, e ossa nere non passa. Sangue felica sicuro.»
Agur socchiuse le labbra e lo guardò bene. Si accorse solo in quel momento che aveva dato la presenza del felica al suo fianco scontata, e che di lui non sapeva niente. «Hai un figlio?» Quella confessione lo sconcertò, anche se non capì subito perché.
«Sì» rispose trasognato, come se potesse vedere il figlio arrampicarsi sul ramo più alto dell’albero e salutarlo con la mano.
Ecco cosa sconcertava il principe! Quell’essere, quell’uomo blu, aveva rifiutato la salvezza della sua città, gli era rimasto accanto, sconosciuto in terra straniera, e lo aveva seguito come un’ombra, senza mai dire una parola di troppo o scoraggiarsi per la poca considerazione. Agur lo aveva notato in misura della sua utilità: lo aveva aiutato a riconoscere l’Arakna, a trovare il testo del Bercio, a tenere d’occhio Der; gli era stato fedele nonostante egli non fosse il suo signore.
«Perché?» domandò, e sapeva che il felica avrebbe capito.
«Perché» si fece serio, «fratelli essere. Metà di uno. Agabar e Puèsigath fratelli essere. Caharrin e felica fratelli essere.» Ci pensò un attimo, poi aggiunse: «Metà vita» e si puntellò il petto con un dito, «sicura, salva.»
Agur annuì: anche lui stava combattendo per salvare la sua famiglia. E non l’avrebbe più rivista. Voleva fermarlo, impedirgli di sacrificarsi. Avrebbero trovato un altro modo per ricongiungerlo alla sua terra, avrebbero trovato un’altra vittima da immolare. Agur avrebbe preferito pescare a caso tra degli sconosciuti, piuttosto. Sarebbe stata una scelta sbagliata, ma lui non avrebbe perso un… amico. Eppure i suoi occhi erano imprigionati in quelli aranciati del felica, sembrava che gli stessero parlando: se la scelta dev’essere sbagliata, dicevano, allora è il re, e non il popolo, a doverla sorreggere.
«Fratello» disse con tono duro, «qual è il tuo nome?»
«Tahari, fratello» sorrise.
Agur afferrò il suo braccio e lo strinse forte. «Lo ricorderò, e lo ricorderanno.»
Tahari mostrò i denti, serafico.
Uscì dalla tenda e respirò l’aria che soffiava da est: vento di casa, profumo di terra. Anche gli altri uscirono dalla tenda, restarono solo Agur e Hyria. La fanciulla non aveva detto più una parola, e anche in quel momento restò di pietra, silenziosa, senza alcuna soluzione per lui. Allora Agur cadde in ginocchio e pianse. Rabbia, amarezza, odio, vendetta, ma soprattutto dolore per la sua famiglia, per il suo popolo, per i suoi amici, per il suo futuro. Pianse sangue.
 
 
Un uomo di Cabiorn irruppe nella tenda con fare imbarazzante. «Mio signore, dovresti venire.»
Agur si scostò da Hyria e lo guardò minaccioso. «Che succede?» Se c’era una cosa che aveva capito era che anche in mezzo alla tragedia un sovrano doveva mostrarsi calmo e saldo, proprio come aveva fatto suo padre, fino alla fine.
«Beh, ecco» tergiversò, in imbarazzo, «noi sappiamo che è un vostro consigliere fidato, ma… ecco, insomma… c’abbiamo andati cauti, però… l’abbiamo fermato, ecco. Anche perché il muso blu non è che si faceva acchiappare.»
Agur irrigidì la mascella. «Der?»
«Sì, mio signore. Per favore, venite, che gli uomini miei so’ abituati a usare la frustra.»
Agur spostò i lembi della tenda e avanzò con una falcata decisa. Un manipolo di persone si era riunito intorno a un albero e assistevano a una scena pressoché inverosimile: Tahari era abbarbicato tra due piccoli rami, in cima a un frassino, mentre ai piedi dell’albero Rineg lottava per tenere fermo Der; due uomini di Cabiorn tenevano tutti e tre sotto tiro di frusta e arco.
«Ditemi che sta succedendo!» sbottò con un’inflessione nella voce che non ammetteva silenzio o risposte evasive.
«Traditori!» sbavò Der, senza controllo. Si dimenava come un pazzo tra le mani del Portatore. «Ha avvertito della nostra posizione, c’ha traditi, Agur.» Ruotò gli occhi indemoniati verso la chioma dell’albero e ringhiò. «E questo, questo è un malvagio.» All’improvviso le convulsione si fecero talmente frenetiche che Der riuscì a liberarsi e ad arpionare con le unghie la benda intorno agli occhi di Rineg. Gli occhi dell’uomo erano azzurri, irradiavano bagliori elettrici. Der strillò e portando due dita al ventre le allontanò con disprezzo. Gli uomini di Cabiorn fecero un passo indietro e si misero in posizione difensiva.
Agur avanzò in mezzo al cerchio che si era formato e voltò le spalle al Portatore, affrontando la folla. «Abbassate quelle armi. Tahari, scendi!» La sua voce era calma, il suo tono austero.
«Agur…» farfugliò Der, ma un manrovescio lo azzittì.
«Se qualcuno ha recriminazioni da fare, è a me che deve rivolgerle. Io solo posso giudicare un mio suddito. Ciò che è mio non si tocca!» proclamò ad alta voce.
Il felica saltò giù e si mise in posizione ritta, un passo dietro di lui. Agur li assestò un’occhiata spietata. «Che ci facevi lassù?»
Tahari mostrò un’espressione distesa e melanconica, persa in un vuoto che si colmava di forza e determinazione mentre diceva: «Messaggio a sangue, a felica e a terra di Puèsigath.»
Agur non mostrò compassione. «Bene.» Si voltò verso gli uomini. «Preparatevi a partire!»
Il manipolo di curiosi si disperse con qualche perplessità, tanto che i due capi delle città gli si fecero vicino. Mors si torturò le mani, a disagio, ma Milenna andò dritta al punto e chiese: «Cosa ha detto? Cosa stava facendo?»
«Stava dicendo addio alla sua vita» rispose senza pietà. Camminò imperterrito verso la Silente più vicina e le sussurrò in modo concitato: «Racconta una nuova storia, falla circolare tra chi ancora rifiuta la fede di Meg. Se non è la collera a farli insorgere, sarà la fratellanza. Racconta del patto di sangue tra Puèsigath e Anojah, che sia il felica il loro profeta. Fallo» ordinò perentorio, l’espressione grave.
La Silente annuì una volta e si defilò con grazia.
Agur ritornò nella tenda, dove Hyria aveva già fatto fagotto. «Ancora un momento» la fermò. Le tolse la sacca dalle mani e la cinse con le braccia, le sollevò il mento e la scrutò con durezza, rabbia e una forza che sapeva di follia e spietatezza. Non le lasciò scelta. «La tua gente avrà potere, ma io voglio poterlo controllare. Non mi fido di quelle donne, sussurrano con troppa facilità.»
«Sono serve fedeli del Volor» lo tranquillizzò.
«Voglio che servano me» chiarì. «In questo tempo vorrei trovare le parole più soavi con cui chiedertelo, ma credo che mi resterà poca dolcezza negli anni a venire, per le persone più vicine quanto per quelle più disperate.»
«Non hai bisogno di chiedermelo» esalò in un soffio spezzato.
Agur fece scorrere una delle ciocche nere dei bei capelli tra le sue dita, la trattenne dalla punta e ne inalò il sapido profumo: profumava di pioggia, dell’acqua che il cielo piange per pulire le macchie di sangue sulla terra. Era un bene prezioso, e lui stava per tramutarlo in pietra, tenerselo per sé. Si fece forza e disse: «Sarai regina, e questo garantirà protezione alla tua gente e controllo su di loro a me.» Il Primo Re della Casa di Venasta indurì il suo cuore, e vene di quella pietra si strinsero intorno al cuore pulsante della fanciulla, come artigli sottili che vibravano al suono della carne viva.
Fu Hyria che, comprendendo quanto dolore stava provando il suo futuro sposo, si sporse sulle punte dei piedi e lo baciò, regalandogli la prima goccia di consolazione. E ne avrebbe versate molte negli anni a venire.
 
 
Hyria gli cavalcava al fianco, finalmente senza benda, resa più pallida dall’oscurità creata dalle pieghe del mantello. Agur non si voltò nemmeno una volta a guardarla, ma percepiva il suo calore come l’unica cosa viva intorno e dentro di lui. La sentiva respirare, e questo era l’ossigeno che lo faceva andare avanti. Rineg aveva galoppato avanti loro, per preparare la strada e i seriniti al loro arrivo.
Tahari camminava scalzo sempre un passo dietro alla sua cavalcatura. Era un’ombra rigenerativa di cui cominciava a capirne l’importanza. Era veramente necessario il suo sacrificio? In un momento di follia aveva confidato alla sua regina il volere rimanere egli stesso indietro. Se ella avesse portato in grembo suo figlio e lo avesse nascosto a Serinut, tra la gente, come uno tra tanti, egli sarebbe potuto rimanere indietro, avrebbe dato volentieri la vita per il suo popolo. Era stata la onnipresente Silente a dire che la sua paura era quella di dover soffrire, e per questo voleva condannare altri a compiangere lui. “Sarebbe un figlio senza padre”, aveva detto, “un principe senza corona. E chi guiderà, sotto il nome di Meg, il popolo?” Agur odiava quella donna, odiava il suo credo e, ancora di più, odiava la sua inamovibile coartazione: era il simbolo delle sue catene. Quelle donne dalla voce fredda e rimbombante come un’eco servivano un Dio mentre raccontavano delle promesse di uno nuovo; per entrambi mostravano lo stesso volto appuntito, inacidito dal loro ruolo e dai vezzi che svolgevano dalla loro nascita.
Avevano finalmente lasciato la via dei morti, erano usciti dal folto della foresta seguendo il rumore delle onde che si abbattevano contro la dura pietra della scogliera ed erano sbucati sopra a uno strapiombo, ai piedi di una vecchia roccaforte costruita dai caharrin durante gli anni della conquista di Serinut. Oltre il porto abbandonato c’era lei: una striscia nebulosa più scura delle acque del mare – la Valle del Volor, le aveva chiamate Hyria – sospesa tra sogno e incubo, distante tanto quanto poteva spingersi la disperata voglia di vivere di un uomo.
Agur alzò un braccio e li fece fermare. I bambini più arditi, tra cui molti figli di Vitahj, si precipitarono verso il precipizio, sopra le scale scavate nella roccia e sui moli fradici del porto. Immensi acquedotti navigabili si stagliavano in mezzo ai faraglioni, bianco in mezzo alla pietra scura, e scale incorniciate da fiaccole spente conducevano ai piedi della scogliera, dove la risacca del mare sciabordava tra il legno e i sostegni delle costruzioni antiche.
«Presto sarà troppo buio per procedere» constatò Mors. Il consigliere si guardò attorno e sospirò nel guardare con nostalgia alle opere di Cahar. «Grandi cose abbiamo fatto. Le sapremo ripetere?»
«Faremo di meglio.» Gli occhi di Agur erano puntati sulla striscia scura all’orizzonte, la quale stava bruciando davanti agli ultimi raggi di Mal che andavano a morire alle sue spalle: il suo nuovo regno.
Hyria aveva abbassato il cappuccio e stava tenendo per mano un pargolo ai suoi primi passi, il quale, incosciente della disperazione in cui perversavano, tentava di acciuffare l’acqua salmastra prima che questa si ritirasse di nuovo verso il mare aperto. Sorrideva, con quella sua timida dolcezza che invogliava a guardare il mondo con compassione e buon cuore.
Milenna si affiancò ai due uomini. «Avete deciso cosa fare degli spettri?» Agur s’irrigidì a sentire quell’appellativo sprezzante.
«State parlando dei miei sudditi» le ricordò caustico.
«Sudditi! È bene, allora, mettere a tacere certe dicerie.» Lanciò un’occhiata disgustata verso la fanciulla e raddrizzò le spalle. «Valissa ha uomini valorosi che sono pronti a dare la vita per voi. A un mio semplice comando.»
Ed ecco la politica dalla quale si era tenuto lontano raggiungerlo, finalmente! «E risponderanno al Re!» la minacciò con lo sguardo.
Milenna sembrò guardarlo con scetticismo, ma due Silenti lo affiancarono e gettarono un’ombra sopra di lui. Agur avrebbe tanto voluto ordinare loro di allontanarsi, e invece si eresse in tutta la sua autorità e allontanò in malo modo i sotterfugi della donna.
«Siete una donna onesta che apprezza la franca verità. E allora sappiate che le voci sono vere: uno spettro siederà sul trono della nuova Venasta, al mio fianco.»
«Nemmeno un caharrin vi seguirebbe in questa follia. Der aveva ragione» sibilò, «vi hanno stregato, rubato la ragione.»
Agur mise mano al pomolo della spada, ma non arrivò ad attuare le sue intenzioni, poiché un corno suonò nel folto della foresta, giù, a sud-est, e lo riconobbe: era un Figlio di Cahar, era Jhann; ed era nei guai, probabilmente circondato da quelle belve. Erano vicini, troppo.
Agur montò in sella e gridò a Mors: «Conduci il popolo sulla via carraia, presto!»
«Lungo il precipizio è morte certa. E la foresta è una trappola» esitò spaventato.
Al che Hyria rispose mentre balzava sulla groppa del suo cavallo: «Pregate Meg. Lui illuminerà la strada.» Affiancò il suo Re.
Agur la squadrò e aprì la bocca per fermarla, ma l’indolente serenità con cui ella lo guardò lo mise a tacere: lo avrebbe seguito, a dispetto di qualunque ordine. Annuì e diede un colpo di staffa.
«Le viverne, con me! Cabiorn, alle armi! Uomini di Valissa, verso ovest! Il comando a Mors!» Incitò il cavallo e partì al galoppo.
Gli zoccoli sull’ispida pietra producevano un suono duro, acuto, perentorio. Divenne tutto il suo mondo, una gabbia di suoni che lo incitava al massacro. La foresta li avvinse in lunghe ombre e la scogliera sparì oltre la linea degli alberi. Il corno di Jhann suonava ancora, invocava un aiuto. Hyria aveva detto agli uomini di pregare Meg, ma Agur aveva solo la sua spada a cui affidarsi. Strinse forte le briglie e si appiattì sul garrese, quasi a voler imbrogliare il vento e la sua forza contraria. Raggiunsero, in un boato di zoccoli, il punto in cui gli ultimi esuli, partiti da Varfool, erano stati assediati. La foresta sembrava esser stata sradicata violentemente da un tornado, c’erano tronchi spezzati e ramoscelli ancora rigogliosi sul terreno dissodato. Agur e la sua cavalleria improvvisata si arrestarono.
Dopo un mese dalla sua fuga da Cahar, finalmente vide la creatura la cui caccia aveva dato inizio a tutto quello: il leggendario Caimhal. Il viso di una lince e la coda di uno scorpione, il Caimhal teneva la testa china, a livello delle sue prede, e con gli occhi iniettati di sangue si divertiva a decidere la prossima su cui affondare le zanne. Di fronte a lui c’era Jhann, la mole enorme sminuita da quella gigantesca della belva; alle sue spalle il carico era stato rivoltato e Nor dava ordini agli uomini di risollevarlo e metterlo in salvo. E c’era gente, la plebe, gli indifesi; e bambini terrorizzati nascosti tra gli alberi abbattuti.
Agur irruppe in un grido inferocito e spronò la sua cavalcatura a volare verso il pericolo. Neanche allora la creatura si preoccupò di lui. Agur brandì la spada, mentre i suoi lineamenti si distorcevano in una smorfia d’ira. Fu allora che un secondo caimhal sradicò una delle cortecce più robuste e la scagliò tra i ranghi del piccolo plotone, disperdendone le fila. Finalmente la prima creatura sollevò gli occhi e lo fissò, astuta e maligna. Era lui il suo bersaglio, e non lo aveva ignorato neanche per un momento, glielo aveva solo fatto credere. Superò con un salto Jhann e atterrò morbidamente sulle zampe corrazzate; avanzò con eleganza, la coda serpeggiante, e lo ammirò, così come si ammira un pasto delizioso o una ricompensa promessa e lautamente guadagnata. Gli stava dicendo che era lui il predatore, e che averlo cercato arrogantemente oltre le Pietre di Shaev aveva trasformato il principe nella sua preda. Agur sentì nuovamente quel terrore atavico ghermirlo e imbavagliarlo, impagliarlo in quell’assurda posizione, con il braccio alzato e la spada lucente tra le tenebre. Si rivide oltre i Monti Silenti, al di là del passo sorvegliato dalle Pietre di Shaev, di nuovo in balia dello scherzo del Fato. Il Caimhal superava quell’orrore, lo sfruttava e lo decuplicava a suo piacimento, il miele del suo manto che serbava tormento in un’affettata e fluente magnificenza: la sensualità del felino a caccia.
Il Caimhal scattò e mosse una zampa, ma agguantò acqua. Una barriera d’acqua si era alzata dalla terra – ormai secca e inaridita – sotto di lui. Il cavallo s’impennò e indietreggiò sulle zampe posteriori, mentre la barriera si disperdeva in tantissimi tentacoli fluenti. Hyria vi stava in mezzo: era inginocchiata e stava pregando; i suoi occhi erano nuovamente di ghiaccio.
Agur si riscosse. Riprese il controllo della cavalcatura e la aizzò verso il nemico. Intorno a lui gli uomini gridavano e invocavano i loro dei – che Agabar volgesse a loro favore il Fato, dicevano – mentre l’altro Caimhal giocava con loro, il pungiglione che scattava prima da un lato e poi dall’altro, cercando di infilzarli. Colate di sangue caldo scivolarono lungo la coda corrazzata, andando a inumidire il suo manto: il sangue lo faceva brillare.
La luce di Sel impallidì ogni cosa in un sudario bianco e irreale, quasi a dischiudere le porte dell’aldilà.
In Agur montò la furia.
Mentre il suo cavallo galoppava, il cuore che scoppiava e la bava al muso, balzò al suolo e caricò un fendente verso il muso della belva. La forgia del perion produsse un taglio sghembo sopra uno degli occhi, liberando liquido simile a fango. Piangeva argilla!
Il caimhal tuonò. Un suono vuoto ed echeggiante, un corno profondo che pareva risuonare in una valle chiusa tra alte montagne. Una sferzata della coda lo lanciò a gambe all’aria, gli tolse il respiro e lo inebetì. Sentì Hyria frapporsi di nuovo tra loro, il potere del suo dio svolazzare come un fuoco fatuo, irritandolo. L’acqua che brandiva, da sola, non poteva scalfire la corazza del mostro, il potere del Volor non era sufficiente. Ma il perion sì!
«Hyria!» la invocò. Non avrebbe pregato un Dio, ma poteva implorare la fanciulla di compiere il miracolo.
E successe, ancora prima che gli occhi di lei si voltassero a guardarlo. Il cielo s’illuminò, i fuochi si accesero nella notte. E fu un richiamo alla vita, alla lotta, alla rabbia… alla guerra! Le stelle fecero posto a lanterne di fuoco, a lucciole sfavillanti che si mossero verso ovest, verso Serinut, indicando loro il cammino.
Hyria si lanciò verso di lui, in una folle gara contro il caimhal. Si gettò a terra, afferrò la lama di Agur e sussurrò una flebile preghiera. Una goccia d’acqua trasudò dal terreno, il perion l’assorbì. La belva fu sopra di loro in un balzo, ma Hyria aveva ancora gli occhi socchiusi e le labbra dischiuse. Agur afferrò le sue mani e le guidò in alto, in un affondo verso il cielo avverso. La lama si conficcò sotto una zampa del mostro, in un incavo non protetto dalla corazza. Piovve fango.
Agur si tirò via, tutto inzuppato, e aiutò la fanciulla a liberarsi del corpo esanime.
«Jhann!» chiamò. Il suo fedele amico stava drizzando il carro e assicurando le lastre di perion. «Va’!» gli ordinò. «Adesso!»
L’omone sollevò lo sguardo incredulo al cielo e si beò di quella meraviglia. E il suo corpo subì un mutamento: infiacchito e disperso nel vuoto lasciato dall’Agabar, si riempì e rinvigorì della forza del fuoco, lo stesso che brillava negli occhi del principe. Jhann gridò. Gridò come un orso, e più il grido echeggiava e più il suo corpo s’ingigantiva. L’omone annuì una volta nella sua direzione e poi gridò, stavolta parole d’incoraggiamento verso gli esuli.
«Forza, prendete forza e andate! Andate!» li incitò, indiavolato. Scansò in malo modo due uomini con le gambe tremolanti e afferrò le redini di due viverne. Le legò al carro, sollevò Nor e lo mise sopra una delle due. Gridò: «Andate!»
«Un Vorouk è una cosa…» tentò quello, ma Jhann pungolò con la punta dello spadone la zampa di una viverna. Quella, ragliante come un asino, allungò il collo sussultante e partì.
Jhann rimase indietro con gli uomini di Cabiorn ad affrontare il secondo Caimhal. Rianimati dalla luce promessa dai racconti di Meg, gli uomini iniziarono a gridare il suo nome: prima piano, quasi in un mormorio timoroso, poi sempre più forte, sempre più vorace; alla fine divenne un rullio di guerra scandito da tre lettere, quelle che imbrigliavano la rabbia di quei disgraziati.
Agur urlò: «Che Meg scenda su questa terra. Ancora una volta, combattete, Figli di Cahar!»
Circondarono la belva. I domatori di Cabiorn condussero le viverne all’attacco. Gli artigli delle scure creature cercarono di scalfire la corazza del mostro, ma a ogni loro affondo il caimhal rispondeva con un colpo di coda o una zampata. Per quanto gli uomini provassero a stringerla in una mossa e a raggiungere uno dei suoi punti deboli, la belva riusciva sempre a trovare un varco da cui defilarsi o a debellare il fastidio dato dalle loro lame, molte delle quali fatte di ferro. Jhann s’imbestialì: si posizionò sotto una viverna e sgolò. La viverna sembrò condividere la sua frustrazione e in un impeto disperato si avventò contro il caimhal. Il felino affondò le zanne sporgenti nel collo dell’avversaria, decapitandola, ma mentre il corpo morente si contorceva su se stesso come quello di un serpente, la belva nell’assalto scoprì l’addome. Non aspettando altro, Jhann si lanciò tra i due, superò la guardia dell’essere e affondò la lama sotto la sua corona di ossa. La lama di perion trovò la via del sangue e lo spillò con veemenza.
Il tonfo dei due grossi corpi scosse la terra. Per un attimo i caharrin rimasero a fissare le due enormi belve distese al suolo, in pozze di fango. Agur studiò quello che aveva abbattuto con l’aiuto di Hyria: il corpo sembrava come esser stato svuotato delle viscere, pareva invecchiato, inflaccidito. Rabbrividì. Hyria posò una mano leggera sul suo avambraccio e sospirò.
«Mio signore» lo chiamò, triste.
Agur gli voltò le spalle e guardò i suoi uomini. Del plotone che aveva condotto in aiuto di Jhann e di Varfool restavano solo una decina di uomini e nessuna viverna.
«Rimontiamo in sella. Raggiungiamo gli altri» ordinò perentorio, l’espressione scolpita nella pietra.
I cavalli corsero di nuovo, stavolta verso ovest, lontano dalla battaglia. La nuvola di terra che sollevarono pareva aleggiare a lungo dietro di loro, come a voler schermare i loro passi, a nasconderli al nemico: era l’ultimo dono di Anojah. Il folto della scura foresta sembrava inscurirsi e morire, la vita l’abbandonava così come stavano per fare i suoi figli prediletti. Agur si chiese se erano veramente loro quei figli o se quel mondo stava solo mostrando il suo vero volto, per accogliere i nuovi padroni.
All’improvviso Jhann, che era in testa al piccolo drappello, gridò un avvertimento e fece dietrofront. Affiancò il principe e mormorò concitato: «Ci sono morti davanti a noi, puzza di sangue dappertutto.»
«Le belve sono avanti a noi?» chiese avvilito un uomo di Varfool. Doveva essere un semplice artigiano, perché teneva la spada come se dovesse accarezzarla piuttosto che brandirla.
Hyria abbassò il capo. «No, solo tanto dolore.» Guardò Agur. «Per me e per te» si rattristò. La sua attenzione era tutta per quel lieve venticello che le accarezzava i capelli. La fanciulla vi si adagiò, come si adagia la guancia in una mano amica. Chiuse gli occhi per un istante e poi fece avanzare la sua cavalcatura al passo. Agur la seguì, timoroso.
In mezzo a una macchia di licheni, tra tronchi striati di sangue e foglie morte adagiate sulla fredda terra, i corpi di Rineg e Der parevano riposare tranquillamente, beanti di sogni felici. Eppure c’era una nota macabra e angosciante in quello scenario. La prima stilettata la assestò la figura di Nor, inginocchiato accanto al corpo del fratello: aveva il volto rigato di lacrime e le mani sporche di sangue; teneva la mano del dormiente e la accarezzava pietosamente. Hyria smontò da cavallo e i suoi passi esili scivolarono sul tappeto di foglie. Silenziosa, si rannicchiò accanto alla testa di Rineg e la sollevò per stringersela al seno. Lo pianse senza un lamento. Intorno a quella scena vegliavano mezza dozzina di Silenti, i corpi slanciati come colonne gettavano ombre sui cadaveri: avvoltoi, ecco cosa parvero agli occhi di Agur. Dietro di loro c’erano tutti gli altri, quelli che avevano assistito alla scena e quelli che erano corsi a vedere cosa stava succedendo. E Agur non aveva ancora capito.
Domandò, atono: «Come?»
Jhann si posizionò al suo fianco, la spada pronta a dar battaglia, ma Tahari allungò una mano blu e lo fermò, greve.
Fu la voce di Nor a rompere il silenzio. «Ho dovuto farlo, non era più lui. Se n’era già andato.»
Agur non capì.
«Ossa nere bruciato sua mente» sospirò Tahari. «Rineg… provato… uomo fedele a te, provato a vita tornare fratello…»
Nor alzò il volto e i suoi occhi, un tempo vivaci e astuti, apparvero svuotati della vita, velati da un dolore che segnava la sua carne. «Lo spettro ha condotto i seriniti da ovest, voleva che andassimo con loro, voleva posizionare le lastre. Der ha gridato al tradimento» scosse la testa «non mi ha neanche visto, non mi ha riconosciuto. Sembrava preda di una visione, i miei occhi non lo hanno rincuorato.» Mostrò i palmi vermigli. «Rineg ha provato ad aiutarlo, ma Der… è stato atroce, una ragna senza fili… ho dovuto fermarlo, per lui, per te, per Rineg… per me, non potevo vederlo così. Troppo…»
Agur tornò a guardare il corpo del Portatore: la sua veste, a prima vista integra e immacolata, mostrava squarci sulle braccia e sulle spalle, che con molta probabilità continuavano per tutta la schiena. Il sangue si era raggrumato in un’enorme pozza sotto di lui, aveva impregnato gli abiti di Hyria, segno che le mortali ferite erano state inferte alla schiena, vigliaccamente. Stornò il capo verso Nor, lottando contro tutti i suoi istinti. Vide il pugnale al suo fianco, le sue mani insanguinate, e capì che era il sangue di Der, e non quello di Rineg, a macchiarle.
«Uomini di isola andati» gli comunicò Tahari. Serinut aveva ritirato gli aiuti.
Agur serrò la mascella, un unico solco di dolore screpolò la pietra in cui aveva rinchiuso i suoi sentimenti. «Serinut non rifiuterà alcun aiuto al suo Re. Brucia il corpo di Der con la foresta.»
«Cosa?» Jhann si sconvolse.
«Meg lo accoglierà al suo fianco, se sarà degno. Date in pasto al fuoco questa terra.» Si voltò verso le Silenti, sbrigativo. «Riconsegnate Rineg al vostro Dio.»
Agur passò in mezzo ai defunti e alle figure di Hyria e Nor, che ai lati opposti piangevano i loro cari. Tenne il volto fiero e lo sguardo distaccato, e si allontanò dalla folla e da quella fossa di perduti, solitario e più che mai rabbioso contro quella terra maledetta.
 
 
«Milenna ha condotto la popolazione di Valissa oltre la Via Carraia» lo informò Mors, «Ho tentato di farla ragionare…»
«Avevate il comando, non dovevate farla ragionare ma farvi ubbidire» si alterò Agur senza fermarsi un attimo.
Il rumore dei picconi e degli artigli delle viverne che scavavano la roccia ai fianchi della strada coprivano le loro voci. Gli uomini di Varfool, dopo esser stati curati e controllati dai pochi guaritori, erano stati messi a lavorare senza sosta al passo della via. La luce del nuovo mattino faceva risplendere i pezzi di perion che facevano capolino da sotto i grandi teli marroni, una luce nera che rifulgeva nell’alba. Tutto quel perion sarebbe rimasto lì, come un simulacro o una pietra tombale, e Agur sperava davvero che la magia di cui voleva servissi funzionasse. Più di una volta era stato tentato di ordinare la fusione di quel materiale per farne un uso più utile, come spade e frecce, per combattere in un folle assalto i mostri. Si consolava ripetendosi che oltre quella via le cave di Serinut avrebbero armato le loro schiere, con quello avrebbe attaccato con una strategia e più possibilità di vittoria.
«Perdonate, mio signore.»
Agur serrò la mascella e lo azzittì con un gesto impaziente. «Avevate detto di essere un alto in grado a Cabiorn. Di cosa vi occupavate, per l’esattezza?»
Mors si tormentò le mani. «Ero… sono uno studioso, mio signore» sospirò un po’ demoralizzato, «studio le erbe e l’arte curativa, mi occupavo dei sanatori della città. Sapete, a Cabiorn non ci sono solo gente rozza come i domatori.» Nella sua voce sembrava celarsi una certa nota rancorosa, legata a vecchi dissapori tra le varie caste della città.
Agur sembrò volerlo aggredire. «Ho bisogno di un condottiero, non di un taumaturgo.»
Mors se ne risentì. Abbassò il capo e si scusò più volte, mortificato. Agur sentì il tocco delicato di Hyria frenare la sua collera.
«Mani benedette quelle che sapranno risanare il regno del Re» lo allietò, incoraggiandolo a raddrizzare il capo. Mors sembrò pendere dalle sue labbra. «Sono mani discrete quelle di chi riflette prima di agire. Ed è per questo, mio signore» si voltò verso Agur con tono conciliante, «che ti parlo apertamente davanti al tuo fedele suddito. Dobbiamo sbrigarci. Rineg mi ha sussurrato, mi ha detto ciò che noi non possiamo ancora vedere: i due Caimhal che abbiamo abbattuto erano a caccia, la loro morte ha allertato i loro compagni. Si stanno radunando, stanno richiamando i Ra-Cahar.»
A confermare le parole profetiche, il suono cavernoso di una di quelle belve dorate vibrò tra le fronde degli alberi. I rami più fragili vennero scossi e la baia ebbe un brivido. I picconi si fermarono, le teste si sollevarono. Ad Agur sembrò di poter sentire gli artigli delle creature sradicare il terreno mentre correvano verso di loro.
«Jhann!» chiamò con una nota strascicante nella voce, esasperato.
«Abbiamo quasi finito!» non si perse d’animo l’omone. «Bisogna solo tirarle su.» Tirò via i teloni e riscosse gli uomini ad aiutarlo a trasportare la prima lastra.
«A questo punto anche Nor deve aver finito. Mandate i carri da lui. Mors, guida le donne i vecchi e i bambini dall’altra parte della Via.»
Il taumaturgo lo guardò con sorpresa. «Sì, mio signore» rispose con gioia. Corse via.
Agur esitò alcuni istanti. «Mi dispiace per la tua perdita.»
Hyria sollevò il viso verso di lui, si appoggiò leggermente alla sua figura. «Ho meno rimpianti per cui piangere di molti altri.» Spaziò con lo sguardo sulle famiglie distrutte e i feriti doloranti: c’era gente sola che si risollevava con fatica dal fango e altra che quel letame se lo sarebbe portato addosso; c’erano visi macchiati, deturpati, persino i bambini avevano gli occhi grandi e spaesati. «Io posso ancora sentire la sua voce, loro hanno perso tutto, persino il loro Dio.»
«Hanno me, hanno Meg.» Avanzò austero.
Hyria lo trattenne da un braccio, lo implorò piegata in due dall’impeto: «Un Dio non può nulla senza potere, e nessun Dio ha potere se non c’è qualcuno che non creda in lui.»
«Loro crederanno, le Silenti…»
Hyria scosse la testa. «Meg è una tua creatura, devi fidarti di lui. Devi fidarti di te.» Allungò la mano e cercò di appianare i solchi rabbiosi che indurivano i tratti del suo viso. Gli sorrise, flettendo il collo di lato. «Non sentirti in colpa per Der, mio signore» lo consolò colpendolo al cuore, «né devi rimpiangere la morte di Rineg. Nessuno dei due ti ha mai accusato. Rineg aveva fiducia in Cahar, vi ha dato tutto e l’ha fatto per volontà, e non per dovere. Se vuoi, abbi pietà di Nor che ha versato sangue fraterno per salvare uno poco più che sconosciuto. Abbi fede in Mors, perché porterà un panno con cui pulire il fango dal viso del tuo popolo. Non disprezzare chi ama e ha pietà, non togliere la fede al tuo popolo. Nessun Dio è solo ira, nessun Re è solo regalità. Tutti hanno un cuore.»
Agur strinse la mano di Hyria nella sua, la tenne ancora un po’ sulla guancia per compiacersi del suo tepore. Fu con mestizia che disse: «Le belve non hanno un cuore, non hanno neanche sangue da far prosperare. Ed è con loro che dobbiamo avere a che fare per riscattarci.»
Con delicata fermezza si fece scivolare la mano della fanciulla tra le dita e si allontanò. Montò in sella e cavalcò verso le lastre di perion. Osservò il suo popolo marciare sulla via carraia sui carri e a piedi: alcuni portavano seco animali e bestie, pochi erano quelli con muli o cavalli. La processione di rifugiati si allontanò in direzione della colonia di Serinut, la loro nuova casa… l’avamposto da cui attaccare, un giorno. Agur accarezzò il manto del suo cavallo e attese che le lastre fossero incassate nel terreno. Vide Jhann detergersi il sudore dalla fronte e annuire nella sua direzione. Voltò il destriero per richiamare i domatori di Cabiorn che erano rimasti nelle retrovie. I suoi occhi si scontrarono con l’alta figura del felica: aveva il viso disteso e un sorriso di commiato stampato in volto; teneva la lanterna donatagli a Vitahj nelle mani e la stava tendendo verso di lui.
«Luce di Meg. Lanterna utile» ammiccò, accennando alle sue parole in merito.
Agur abbassò lo sguardo sui vetri colorati. «Chi vuoi che l’accenda?»
Tahari abbassò un po’ le mani e si avvicinò. Con cura ripose la lanterna nella vecchia sacca legata alla sella del cavallo. In un gesto fraterno, pose una mano sul petto del principe. Annuì.
«Finita la magia, scappa» sbrogliò d’un fiato, liberando la sua irrequietezza. «Sei veloce, ho visto la tua gente cacciare. Puoi trovare un varco, puoi nasconderti e sopravvivere, riuscire a raggiungere la tua famiglia. Una volta oltre i monti, il tuo sangue sarà al sicuro. Non devi morire!»
Tahari continuò a sorridere.
Un domatore urlò un avvertimento. Agur scattò sulla sella, il cavallo s’innervosì. Le viverne si acquattarono, in difesa, e Jhann aiutò Hyria a montare frettolosamente sul cavallo. Il felica afferrò la spada a doppia curva e gli fendette, aprendogli uno squarcio nel petto. Il sangue macchiò la maglia di lana. Poi si recise anche il suo petto, un taglio molto più profondo anche se non mortale, e vi bagnò la mano blu. La ritrasse completamente zuppa del suo sangue e la pose di nuovo sul petto ferito dell’altro.
«Ad Ambal, fratello. Vita tua ama.» Con un colpo al quarto del cavallo, lo fece allontanare.
«No!» Agur tirò le briglie e si voltò. Lo vide correre verso le lastre di perion e intingerle del suo sangue.
«Hai il suo sangue?» gli chiese una Silente.
Agur si portò una mano al petto.
«Andiamo, allora.»
Jhann lo affiancò. «Mio signore? Agur?»
«I domatori…» Sembrava confuso, in preda al panico. Le belve erano giunte troppo in fretta, Tahari non avrebbe avuto vie di fuga, e lui non poteva abbandonarlo, non poteva lasciarlo indietro. Suo padre, sua madre, Cammur… erano morti mentre lui fuggiva. Non poteva fare lo stesso con il felica: lo aveva seguito nel disonore, lui lo avrebbe affiancato nella morte. Fece per tornare indietro, ma Jhann afferrò le redini del cavallo, quasi gettandosi sul garrese.
«Non lo puoi più fare» gli rammentò i suoi doveri. Jhann capì però le sue sofferenze e richiamò i domatori.
L’uomo che aveva guidato la sua viverna contro il Caimhal qualche ora prima si voltò un attimo verso di loro e si mise in piedi sul dorso del nuovo animale. Sbatté una mano contro la coscia, com’era tradizione fare durante i tornei di Cabiorn, Gli altri lo imitarono.
«Andiamo.» Jhann si voltò e guidò i cavalli verso la via carraia.
«Ho detto…»
Jhann sputò, tornando per un attimo ai suoi soliti modi. «Che io sia dannato se stavolta ti permetto di fare l’idiota. Agur, mio signore, la caccia è finita.»
Agur sollevò gli occhi al cielo, cercò le stesse stelle che tanto gli erano familiari durante le notti passate oltre le mura di Cahar. Alcune le ritrovò, un po’ sfocate, altre sembrarono essere nate proprio in quel momento, all’alba del suo nuovo regno: erano le lanterne di fuoco che tanto le Silenti avevano pregato, brillavano come la lanterna che Tahari gli aveva donato. Le vide muoversi verso ovest. Per un attimo Agur si dimenticò che erano le nif, per un attimo si lasciò accompagnare dal suo nuovo Dio. Meg lo sorresse lungo la via.
Lanciarono i cavalli al galoppo. Alle loro spalle, un domatore scagliò un dardo infuocato contro la foresta del Mirenel, un esile fuscello che voleva arrogantemente ferire la belva che era diventata quella terra; altre cento la seguirono. Il fuoco attecchì prima sulle fronde, donando una chioma dalle sfumature aranciate agli alberi, poi il vento lo ghermì e sembrò pennellare tutto di rosso. Una scintilla venne spruzzata anche nel cuore del Primo Re della Casa di Venasta. Persino gli animali parvero incenerirsi, e come cenere volarono sopra la via carraia. All’orizzonte c’erano le gemelle delle lastre di perion che si erano lasciati dietro, due cuspidi feroci che minacciavano il cielo, avvertendolo che mai più la sua gente avrebbe accettato di cadere nel fango, mai più avrebbe avuto paura dell’usurpatore. Il Fato, in quella nuova Venasta, non era il benvenuto.
Agur macchiò del suo sangue e di quello di Tahari le due pietre. A Mors, che osservava la scena con trasporto e venerazione, sembrò che il suo re stesse abbracciando un lontano fratello. Il Volor rispose con uno sbuffo rabbioso. Il mare s’agitò. La popolazione, impaurita, scappò dalle rive sabbiose e indietreggiò, arrampicandosi caoticamente per le dune, facendosi largo a gomitate, spingendo, salendo addosso ai più deboli. La pietra della via carraia venne scossa da mani di gigante. Uno scalpello invisibile la scavò e v’impresse sopra antiche e sconosciute rune, poi il mantello del Volor ingoiò ogni cosa.
Agur non si mosse, non indietreggiò di un passo. Hyria aveva posato una guancia sulla sua spalla, teneva la testa alta e fiera di fronte il suo Dio e gli occhi mesti in saluto alla sua terra. Aveva lasciato tutto per lui. E lui non aveva nulla da darle in cambio, solo un regno da ricostruire e tanta fatica da condividere. La guardò, e lei gli sorrise, come sempre, occhi bianchi che riflettevano le striature azzurrine del mare.
Agur rilassò la mascella per un attimo e la strinse a sé. Le onde danzarono vorticose e ribelli, il vento spazzò via l’ultimo legame tra Serinut e la terra proibita. Poi la voce del Volor vibrò un’ultima volta e si acquietò. La gente osò di nuovo ammirare il mare cristallino che giocava teneramente con la rena. Si sentì un sospiro collettivo allietare gli animi. Poi calò la nebbia a est, e ciò che rimase furono solo le echi della morte sul versante fantasma.
«Andiamo» disse il Re, prendendo per mano la fanciulla, «devi insegnare loro a tenere la testa alta. Mia signora.»
Hyria ricambiò la stretta e lo accompagnò lungo la via che saliva a ovest.




 

N.d.A.

Non so in quanti siano effettivamente arrivati alla fine (se ci siete, battete un colpo),  ma dopo due anni di alti e bassi, incertezze e ripensamenti, questo spin-off è stato finalmente concluso.
Adesso sapete come tutto è iniziato, come anche il più piccolo gesto possa cambiare le sorti di molti. Ricordate che ogni azione ha una reazione uguale e contraria, e che ognuno di noi, quando agisce, dovrebbe assumersene la responsabilità e le conseguenze.
Avete scoperto qualcosina in più su mostri e dei, su quanto i fili che dividono tutti noi siano sottili. Avete forse anche compreso quali dinamiche siano state messe in atto. Da questo evento sono nate poi città, costumi e usanze, alleanza politiche e intrighi. Vi ho mostrato un bel po' di personaggi: sapreste collegare ognuno di loro a una città? Ci sono diversi indizi e diverse allusioni con "Il Tredicesimo Re", spero che siano state colte.
A me non rimane che ringraziare i sopravvissuti, coloro che sono giunti a quest'ultimo rigo: avete portato molta pazienza, e spero che sia stata ripagata.
Ringrazio chi ha recensito - siete stelle che illuminano la mia solitudine - e chi ha inserito la storia tra le seguite, ricordate e preferite. Siete più di quanto sperassi.
Alla prossima avventura.

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