I salici bianchi - Si parte! -

di Mauro il Moscone
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Si parte! ***
Capitolo 2: *** In cerca della garzaia scomparsa ***
Capitolo 3: *** La prova di Anna ***



Capitolo 1
*** Si parte! ***


                     

                                             

 
“L’Anima Mundi come respiro dell’universo, racchiude il cuore, l’empatia, il rispetto, la fratellanza universale, la libertà…”
James Hillman

PRIMA TAPPA: PONTE TIBETANO PRESSO TURBIGO (MI) - CASCINA REGINA, PONTEVECCHIO MAGENTA (MI)
                                                                   Note tecniche:

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LUNGHEZZA IN LINEA D'ARIA: 12,23 Km
TEMPO EFFETTIVO DI PEDALATA: 5 h 20'
MEDIA: 18.01 km/h
PARTENZA: 6.30
ARRIVO: 17.05
 
                             
  
Venerdì, 1 aprile 2016.
Apro il fedele taccuino moleskine per registrare i fatti di questa splendida giornata di natura e bicicletta.
Io, Paolo, Riccardo e la sua consorte Anna, “la compagnia della ParkBike”, abbiamo cominciato questo viaggio partendo dal ponte tibetano posto in località Tre Salti, nel comune di Turbigo.
 
                                
 
Il nostro è un tentativo di avvicinarci alla terra e a noi stessi.
Cercheremo di conoscere la terra su cui viviamo e che la maggioranza delle persone ignora, chiuse a tripla mandata dentro le loro prigioni di vetro e cemento.
Proveremo ad apprendere meglio noi stessi: un itinerario in bici e a piedi è anche un’esperienza di essenzialità.
Questa mattina, controllando i nostri zaini e riponendo i nostri fidati bastoncini telescopici, ricordavamo che quando li prepari devi scegliere solo alcune cose e accantonarne delle altre superflue.
E’ un’operazione fondamentale che tutti dovremmo fare in una società dove le assillanti tecniche di mercato sono attrezzatissime per convincerti di avere nuovi bisogni.
Un’escursione nel parco ti mostra come bastano quattro cose per vivere un’esperienza formativa, vitale e memorabile.
Abbiamo con noi le tende, perché vogliamo dormire per quattro notti nel Parco del Ticino, in località Lanca della Zelata.
Tempo fa ho avvistato una stupenda lanca interna, nascosta alla vista dei sentieri più battuti, tutta contornata da salici bianchi.
 
        
 
       
          
Partendo da Nord in località Tre Salti, in bicicletta, abbiamo incontrato subito il ponte tibetano sospeso che permette di attraversare il canale scaricatore della Centrale Termoelettrica Enel di Turbigo. 
Si tratta di un ponte sospeso in acciaio e legno di lunghezza circa 70 m sospeso a 8 m dall'acqua. L'attraversata è avventurosa, ma sicura purchè si rispettino le poche regole indicate sulla cartellonistica e dalla tecnica di guida: bici alla mano, attraversamento in fila indiana. 
Attraversato il ponte abbiamo imboccato il sentiero subito a destra. 
Il percorso si addentra in un giovane bosco che costeggia il Ticino, per poi rituffarsi nella vegetazione. 
Si attraversa un ponticello sul canale Turbighetto e si continua girando a destra, fino ad un cancello di ferro che divide il bosco dalla strada a fondo cieco. Prima del cancello si gira a destra verso sud all'interno del bosco fino a salire una breve rampa di raccordo tra il piano del bosco e l'argine sopraelevato. Da questo punto in poi la traccia si è snodata prevalentemente lungo la sponda sabbiosa del Ticino, aperta e radiosa, solare. 
Proseguendo abbiamo intravisto al riparo nel bosco di olmi, querce, farnie e robinie, l'Ex colonia elioterapica di Turbigo. da qui in pochi minuti siamo arriva al ponte di Turbigo. Passando sotto l'imponente struttura del Ponte di Ferro ci siamo portati all’inizio dei percorsi che portano all'area Ex Vita-Mayer, alla Lanca di Bernate, al Bosco delle Faggiole.
 Rivendico a questo punto del diario l’intelligenza delle gambe e dei piedi.
Gambe e piedi sanno sempre dove appoggiarsi, la testa invece ha bisogno di cartine e cartellonistica e d’informazioni raccolte lungo il tracciato.
La nostra civiltà dominata dalla razionalità ha dimenticato che dalla terra il flusso vitale attraversa i piedi e le gambe e arriva alla testa, e non il contrario.
Questo è un racconto scritto con i piedi e con le gambe.
 
                                     
 
Dal Bosco della Faggiole siamo arrivati alla meravigliosa Lanca di Bernate, dove ho fotografato le folaghe, bellissime con quella loro piastra bianche sulla fronte.
Nel bosco ho visto pararsi davanti a me uno strano ramo e mi sono impiantato con la ruota davanti, rischiando di sbilanciarmi e cadere.
Era un’enorme natrice dal collare, intorpidita dal freddo in quella zona buia e umida della foresta di latifoglie.
 
                          
 
Mi ha sentito a pochi centimetri e lentamente si è scossa e se ne è andata sinuosa, serpeggiando.
Siamo poi saliti a mangiare nella radura dov’è stato posto il calendario celtico in pietra, emblema dell’antica sapienza dei Druidi.

 
Abbiamo poi preso la via del Naviglio Grande, via Villaggio Rubone, per riposare un po’ le gambe sui suoi piani sentieri asfaltati.
 
Abbiamo passato la Canonica e il ponte di Bernate e abbiamo seguito il naviglio passando per Boffalora fino a Ponte Vecchio.
Da qui siamo ritornati nel Parco fino alla nostra destinazione: l’agriturismo di Cascina Regina, vicino al Centro Parco del Ticino, in località la Fagiana.
In quest’area incontaminata, una tenuta di 30 ettari coltivata a riso e mais e adibita a maneggio di cavalli, si conclude la nostra prima tappa. 
                                                                 
Mentre sto redigendo queste note, in una delle confortevoli stanze della Cascina Regina, massaggio i miei piedi e le mia gambe con olio canforato e snocciolo il mio credo laico e sportivo:
Primo, onora i tuoi piedi e le tue gambe. Ringrazia questi preziosi organi in ogni istante: essi portano il tuo corpo e senza di loro non vedresti il mondo.
Secondo, lavali e rinfrescali nel fiume azzurro e in ogni torrente e mantienili in piena salute.
Gesù lavò i piedi e le gambe dei suoi amici non per umiliarsi, ma per valorizzare le loro parti migliori, quelle senza la quali non potrebbero andare nel mondo per spargere il Verbo. 
Terzo: curali ogni sera, a biciclettata o a cammino finiti; dedica loro del tempo, perché non abbiano a soffrire il giorno seguente. 
Quarto: sono i piedi e le gambe e non la testa a sapere dove è la strada.
 
                                                                       (1- continua)
                  
 

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Capitolo 2
*** In cerca della garzaia scomparsa ***


                                     

                                                     
 
                                                     
 
a Lucio Mastronardi, scrittore e grande camminatore dei boschi vicino al Ticino, nei dintorni di Vigevano.       

                         IN CERCA DELLA GARZAIA SCOMPARSA
 
                                        
 
SECONDA TAPPA: CASCINA REGINA, PONTEVECCHIO MAGENTA (MI) - BOSCO DEL MEZZANONE OLTRE IL CANALE SCAVIZZOLO, DAVANTI ALLA TENUTA DELLA ZELATA (PV).
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LUNGHEZZA IN LINEA D'ARIA: 23,37 Km
TEMPO EFFETTIVO DI PEDALATA: 7 h 50'
MEDIA: 15.01 km/h
PARTENZA: 5.30
ARRIVO: 19.05
 
«Viandante, sono le tue orme
il sentiero e niente più;
                                                  viandante, non esiste il sentiero,                                              
il sentiero si fa camminando.
Camminando si fa il sentiero
e girando indietro lo sguardo
si vede il sentiero che mai più
si tornerà a calpestare.
Viandante non esiste il sentiero,
ma solamente scie nel mare».
 
Antonio Machado
 
                                      
Sabato, 2 aprile 2016, lanca dei salici bianchi.
 
 
                                                 


Riapro la moleskine.
Le tende sono piazzate vicino allo specchio argentato della lanca.
E’ tempo di annotare quest’altra giornata piena, sovraccarica come un boccale di birra spumeggiante.
 
      
 
    Siamo partiti da Cascina Regina alla volta del ramo delizia della Cascina Fagiana.
 
                                          


Prima sostiamo al centro LIPU per ammirare i rapaci notturni salvati dai bracconieri.
Chiediamo loro di essere i nostri spiriti del bosco e di proteggere la nostra avventura.
 
                                     
 
                                                               
                                                         - Poiana e Gufo del centro LIPU la Fagiana -


Purtroppo non possono più volare con la necessaria destrezza e sono sostenuti dai volontari.
Attraversiamo il ponte di legno che rappresenta il centro del Parco del Ticino e pedaliamo nel folto dei boschi, verso il ponte di Vigevano.
 
                                                        

Il cartello da seguire è località Scolmatore, sette virgola sette chilometri.
 
                                     
 
Filiamo per i boschi in fila indiana e comunichiamo tra noi a gesti.
Il capofila (quello che conosce il tracciato) usa un efficace ed essenziale linguaggio metaverbale mutuato dai nativi americani.
Braccio alzato con pugno chiuso: frenare, ostacolo in arrivo.
Braccio alzato con gesto ad esse: percorso sabbioso in arrivo.
Braccio alzato con dito indice levato: ramo basso in arrivo, abbassare la testa.
Braccio teso in giù con indice levato: fango a tutto spiano, si scivola.
E così via.
 
                                      


Usciti dalla foresta planiziale percorriamo un territorio che amo particolarmente e che mi piace chiamare la “Contea degli Hobbit”.
L’acqua dei torrenti alpini, scendendo dalla catena montuosa, scompare non appena incontra le ghiaie alluvionali dell’alta Pianura Padana che, in pratica, la assorbono come una grande spugna.
Le acque alpine, ora divenute sotterranee, incontrano materiali impermeabili come limi e argille e risorgono in limpide e pulite polle: le risorgive.
Questo stupendo fenomeno naturale permette grandi possibilità d’irrigazione per i campi, e ne fruisce in modo fertile questa rete di cascine (la Remondina, la Broggina, la Guzzafame, la Trinchera, la Roma e tante altre), che lasciamo per portarci sul trafficato Ponte di Vigevano.
Questo è stato l’unico punto veramente pericoloso del percorso di oggi.
Gli esseri umani, quando sono intrappolati dentro una macchina, diventano delle belve assassine indifferenti a chi ha una velocità diversa dalla loro.
 
                              
 
Finalmente, tirando un sospiro di sollievo, ritorniamo nei boschi e arriviamo alla Venezia sul Ticino, il porto sul fiume vicino a Vigevano.
 
                                      

E poi via ancora, nella foresta. Passiamo un limpido guado e dopo una brughiera arriviamo per il frugale pranzo al Canton del Marino, un’area ben attrezzata alla bisogna.
 
                                 

Durante il pranzo, Paolo, il fotografo della compagnia ci mostra le immagini di una poiana che ha ripreso su un albero.
Dopo pranzo, Riccardo, il tecnico, controlla le bici, mentre Anna, laureata in scienze naturali e in biologia, non vede l’ora di ammirare pedalando il “Sentiero delle farfalle”, creato nel Parco dalla sua amica Vera.
 
                                            
Si tratta di un percorso di circa 500 metri dove sono state messe a dimora piante nutrici idonee a diverse specie di bruchi e stazioni con altre piante ricche di nettare per attirare le farfalle, in modo da facilitare l’osservazione e la conoscenza dei colorati lepidotteri.
 
 

Ripartiamo, e dopo un breve tratto asfaltato siamo ancora nel bosco, sul sentiero della fatina, alquanto stretto e accidentato.
Dopo un ponticello di legno cominciamo le stazioni del sentiero delle farfalle e ammiriamo la precisa ed elegante cartellonistica.
Colorati pannelli dispiegano tutta la sgargiante biodiversità delle farfalle italiane.
 
                                             
 
                                             
 
Come il solito non c’è nessuno, troppa fatica fare due passi dalla vicina Vigevano.
Anna se ne frega del mio pessimismo e continua a fare fotografie su fotografie, insieme a Paolo.
«La via attraverso il mondo è più difficile da trovare della via al là del mondo» mi dice, scaldando la sua digitale.
Cita il nostro poeta preferito, Wallace Stevens: “Risposta a Papini”.
La maggioranza delle persone non comprende che restando chiuse in casa, a drogarsi con le illusioni che vendono a caro prezzo dai video, aumentano a dismisura i loro problemi e i loro guai.
Che cosa faremmo senza le donne che vanno avanti lo stesso e comunque, anche nel silenzio colorato. Penso io.
 
           
 

Dopo un altro bel sentiero nel bosco, un “tunnel verde”, come ci piace chiamarlo, passiamo da Cascina Torricella.
Stiamo costeggiando il canale Scavizzolo che ci porterà al punto panoramico e alla garzaia vicino alla segreta lanca dei salici bianchi.
Molti aironi hanno l’abitudine di nidificare collegialmente in luoghi chiamati garzaie che possono raggruppare ardeidi di specie diverse.
 
 
In genere nella parte più alta della chioma degli alberi si dispongono le coppie di airone cinerino.
Il livello intermedio è occupato da nitticore, aironi bianchi guardabuoi, garzette e sgarze ciuffetto, mentre più in basso prendono posto i maestosi aironi bianchi maggiori.
Questa vita collettiva in garzaia offre agli ardeidi dei vantaggi per quanto riguarda la ricerca di cibo, la difesa dai predatori e il successo della riproduzione.
 
L’unione fa la forza, e così riunita, la grande famiglia degli ardeidi può:
  • difendersi meglio dai predatori di uova e pulcini (Falco di palude, Cornacchia)
  • trovare più facilmente zone ricche di cibo. Infatti, è stato osservato che gli uccelli che tornano al nido con abbondanti prede, quando abbandonano nuovamente la garzaia, sono seguiti sempre da altri Aironi. Inoltre nidificare in garzaia significa avere più caldo nelle fredde notti primaverili, perché centinaia di corpi vicini riscaldano la temperatura dell’aria anche di due gradi.
  • conseguire più successo riproduttivo, perché il nidificare contemporaneamente nello stesso luogo, comporta il combattere contro un minor numero di predatori, che sono generalmente territoriali e che quindi possono complessivamente rubare un minor numero di uova.
Inoltre ogni strato abitativo può fare da sistema d’allarme per gli altri livelli.
 
 
Passiamo il ponte che ci porta al punto panoramico. 
Entriamo in una delle zone più sconosciute e disabitate del Parco, dove dormiremo in tenda per tre notti.
Non abbiamo paura, perché noi siamo la garzaia della ParkBike. 
Arrivati al punto panoramico, contempliamo il fiume azzurro che scorre come fa da millenni.
Il suono della corrente trasporta i nostri corpi verso la prossima tappa: la garzaia.
Nel posto che ho visto e fotografato l’altra volta, un boschetto di ontani e farnie, gli aironi cinerini non ci sono più.
Dove sono andati? Erano almeno una cinquantina di esemplari.
Abbiamo sentito dei rumori nel bosco e abbiamo intravisto un cercatore di funghi che veniva verso di noi.
 
                                

Gli ho chiesto dove erano andati gli ardeidi della garzaia, e mentre dividevamo pane e acqua e un po’ di caffè delle nostre borracce, ci ha raccontato una strana storia:
«Ragazzi, questa primavera stanno succedendo fatti insoliti.
Gli uccelli se ne sono andati tutti dall’altra parte del fiume, verso la tenuta dei Crespi vicino a Zelata e a Bereguardo.
Inoltre, un’altra cosa mai vista: c’è stata una migrazione in massa di molti “grugnetti”, le gallinelle d’acqua, verso la lanca dei salici bianchi.
 
                             

 Sì, Mauro, lo conosco anch'io quel meandro paludoso lasciato dal Ticino in ritirata.
Ci sono quei salici bianchissimi, bellissimi è vero, ma c’è qualcosa che non va in loro, qualcosa forse di “troppo” naturale. Sono diventati troppo bianchi e l’acqua della lanca ha preso un colore argentato che non si è mai visto da queste parti.
Se volete un consiglio, evitate quella zona.
Sapete perché ve lo dico? I cinghiali se ne sono andati anche loro.
Sono due mesi che non vedo più le loro impronte da quelle parti.»
 
                                          
 
                                                                           (2 - continua)
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Capitolo 3
*** La prova di Anna ***



   

                                                                 

      - Robert Ryman -
 
   Studio di immagini I 
 
"Non serve parlare del grande cespuglio blu
del giorno. Se lo studio delle sue immagini
è lo studio dell'uomo, quest'immagine del sabato,
questo simbolo italiano, questo paesaggio del Sud, è come
un risveglio, come nelle immagini noi ci risvegliamo,
entro l'oggetto stesso che cerchiamo,
partecipi del suo essere. Esso è, noi siamo.
Egli è, noi siamo. Ah, bella! Egli è, noi siamo,
entro il grande cespuglio blu e la sua vasta ombra
di sera e di notte."

Wallace Stevens
 
 
Domenica, 3 aprile 2016, lanca dei salici bianchi.
La scena era da film: Anna aveva ammanettato con delle fascette di plastica, usate da Riccardo come materiale per le bici, a tre alberi, Mauro, Paolo e suo marito Ricky.
 
                                     
 
La donna, per quanto snella e atletica, stava cercando di calmare il respiro dopo aver lottato ed essere riuscita a intontire Riccardo col suo storditore elettrico Skorpy 2000, regolato a soli 50000 volt dei suoi 200000 potenziali.
Mai e poi mai avrebbe immaginato di usarlo contro se stessa, suo marito e i suoi amici più cari.
Aveva fatto bene a portarselo dietro, non si sa mai che cosa può capitare nel mondo.
Dopo aver legato i polsi di suo marito a una robusta farnia di palude, si sdraiò schiena a terra, e contemplando il cielo rimise in fila i fatti di quella giornata.
 
                    
 
Dopo l’inquietante incontro col cercatore di funghi, erano arrivati dopo una mezzora, ormai a sera, alla lanca dei salici bianchi.
Mentre piazzavano le tende e preparavano la cena, osservarono lo strano biancore dei salici intorno a loro.
Era vero, troppo bianco quel bianco e troppo argentate quelle acque.
L’indomani sarebbero andati a esplorare gli alberi.
Anna aveva già intuito dal silenzio che c’era qualcosa di preoccupante in quel posto, per quanto doveva ammettere che era davvero affascinante nella sua bizzarria.
Impressione che era stata acuita dall’ascolto del racconto “I salici” di Algernon Blackwood, letto da Mauro quella sera sulla sponda della lanca, nella fioca luce della torcia elettrica.
Due turisti in canoa, un inglese e uno svedese, risalgono il Danubio e restano isolati a causa di una tempesta su una sperduta isola fluviale.
Dovranno confrontarsi con entità indecifrabili legate alla vegetazione del luogo e completamente estranee alla dimensione umana.
 
                                   
 
“Potrò mai dimenticare la solitudine di quell'accampamento sul Danubio? La sensazione di essere completamente solo in un pianeta deserto! I miei pensieri correvano senza sosta alle città e alle tane degli uomini. Avrei venduto l'anima, per così dire, per "sentire" i villaggi bavaresi che avevamo attraversato a decine; per le cose più umane e banali: contadini che bevono la birra, tavoli sotto gli alberi, sole caldo, e le rovine di un castello sulle rocce dietro la chiesa dal tetto rosso. Perfino i turisti sarebbero stati i benvenuti. 
Eppure quanto sentivo o temevo non era la solita paura dei fantasmi. Era infinitamente più grande, più estranea, e sembrava nascere da qualche oscuro sentimento ancestrale di terrore che mi turbava molto più profondamente di qualsiasi cosa avessi mai conosciuta o immaginata. Ci eravamo "allontanati", come diceva lo svedese, in qualche regione, o in qualche insieme di condizioni dove correvamo grossi rischi, a noi tuttavia incomprensibili; dove le frontiere di qualche mondo sconosciuto erano vicinissime a noi. Era un posto dominato dagli abitanti di qualche spazio esterno, una sorta di feritoia dalla quale potessero spiare la terra, non visti, un punto in cui il velo si era un po' consumato. Come risultato finale di un soggiorno troppo lungo in questo luogo, saremmo stati trasportati oltre il confine e privati di quella che chiamavamo la "nostra vita", ma attraverso un processo mentale, non fisico. In questo senso, come diceva lui, saremmo stati le vittime della nostra avventura: un sacrificio.”
 
Il mattino dopo erano andati a vedere da vicino quegli strani salici bianchi e avevano scoperto che erano tutti ricoperti da nidi biancastri brulicanti di “gatte pelose”.
 
                                      
 
Sembravano bombici del salice, vermetti pelosi che poi diventano magnifiche farfalle color latte.
 
                                     
 
Ce n’erano a milioni, dappertutto.
E nello specchio d’acqua della lanca notammo, ben nascoste come loro abitudine, centinaia di gallinelle d’acqua pronte a inghiottire i molti bruchi che scivolano dai nidi.
 
                                                     
 
Poi, come in un incubo, tutto era accaduto come un’inesorabile reazione a catena.
Centinaia di leucoma salicis avevano “sparato” verso i loro volti migliaia di peli urticanti che si erano conficcati nei loro occhi come minuscole frecce a forma di ago.
Lei per istinto era riuscita con un avambraccio a coprirsi l’occhio sinistro, ma il destro era stato colpito, come tutti gli occhi degli altri compagni di sventura.
Imprecando per il dolore e semiaccecati erano tornati all’accampamento per lavarsi gli occhi con le loro riserve d’acqua.
Si tenevano per mano e lei guidava l’incerta comitiva con il suo occhio sano.
Il bruciore dentro le cornee era quasi intollerabile e anche l’acqua recava ben poco sollievo.
Con una pinzetta Anna cominciò pazientemente a togliere tutti i peli urticanti penetrati nelle congiuntive oculari.
 
    


In quel momento i loro corpi furono percorsi da un intenso prurito e la loro pelle bruciava per colpa di un’improvvisa infiammazione a chiazze, una sorta di fastidiosa dermatite fulminante.
I tre uomini intorno a lei presero a tossire violentemente e a gemere per il dolore, rotolandosi per terra, in preda a quella che sembrava una virulenta reazione allergica.
Lei si spogliò e si lavò accuratamente e con l’aiuto di uno specchietto riuscì a togliersi tutti i peli visibili dagli occhi.
Era chiaro che erano stati aggrediti da una tossina contenuta nei peli urticanti, e per fortuna lei era riuscita ad assorbirne una dose minore rispetto agli uomini.
Intanto, intorno a lei le centinaia di “grugnetti” si levarono in volo e, posatesi sui salici, cominciavano a divorare i vermi del salice a più non posso.
 
                                                      
 
Che cosa stava succedendo?
Mentre cercava di togliere i peli dagli occhi feriti degli sventurati compagni d’escursione e al suo consorte, Anna rifletteva lucidamente su quel pazzesco fenomeno.
 
                         
 
In natura tutto è connesso e collegato.
Le lanche sono antichi meandri del fiume Ticino che si formano quando questo, ripiegandosi su se stesso, sceglie il percorso sinuoso rispetto a quello diretto.
Quando tali anse sono tagliate fuori dal flusso principale della corrente, sono relegate ai margini del corso principale e, non più rifornite d’acqua dinamica, vanno a costituire dei fermi bracci interni in cui trovano rifugio molte forme di vita come i salici e gli ontani, i pioppi neri e bianchi e pesci che amano il fango come le carpe e le tinche e le gallinelle, le folaghe, i germani e i bellissimi tuffetti.
Dal colore argenteo delle acque si capiva che la lanca si era formata con dell’acqua inquinata da metalli pesanti.
 
                                


Ora, i salici bianchi avevano attivato lo stesso meccanismo di difesa dell’aquilegia serpeggiante, una bella pianta delle regioni occidentali delle coste californiane.
L’aquilegia, come tutte le piante, non attacca ma si difende dai propri nemici inviando un segnale chimico che attrae gli insetti che le gironzolano attorno intrappolandoli poi sulle sue superfici appiccicose, foglie e appendici ricoperte di strati di barbigli che ricordano tanti capelli. Gli insetti che si avvicinano, chiamati da alcuni miei colleghi “turisti”, sono fatti prigionieri e in seguito muoiono. 
Il risultato è che l'aquilegia si ricopre di uno strato di cadaveri, più propriamente definiti “carogne”, che attirano ragni e insetti carnivori e che senza saperlo proteggono la pianta attaccando gli erbivori che altrimenti la danneggerebbero. Questa strategia è un efficace meccanismo di difesa indiretto.
Gli artropodi predatori come i grossi ragni velenosi possono attingere a queste carogne saltuariamente o stabilirsi nei pressi delle piante che garantiscono così una fonte di cibo su cui fare affidamento. In questo modo i predatori possono respingere o uccidere col tossico gli erbivori che si avvicinano.
 
I salici bianchi si sono sentiti aggrediti alle radici dai metalli pesanti e allora hanno creato un segnale chimico che ha attirato i bombici.
Ma no, un momento...il bruco del salice è sempre in attività sulla pianta, deve essere avvenuta una mutazione ancora più profonda.
                                                                                                                   
 
Anna notò per terra una foglia di salice bianco.
Sarebbe dovuta essere slanciata e acuminata e invece presentava un rigonfiamento anomalo.
In quel mentre comprese: i salici bianchi avevano trasformato i bruchi in armi letali! Sicuro!
L’aquilegia aveva creato delle “carogne” e i salici bianchi degli ordigni biologici pronti a esplodere in maniera devastante.
Fu allora, nel corso di quei pensieri, che cominciarono i deliri dei suoi sodali d’avventura.
Mauro si rialzò da terra con uno sguardo fisso da allucinato e urlò:
«Il grande Pan è ancora vivo!» 
 
                 
 
Detto questo, si diresse verso il fiume, che in quella stagione era impetuoso e pericoloso.
«Aspetta Mauro, voglio venire anch’io».
Aveva dovuto mentire e spogliarsi nuda come lui per fermarlo.
Era chiaramente fuori di sé e sarebbe annegato nella corrente tumultuosa.
«Vieni con me, Anna, il grande Pan ci aspetta!»
Dietro la schiena nascondeva il dissuasore e con una rapida scarica sul collo lo stordì, e non senza fatica, lo legò con le fascette a un vicino ontano.
Tornando all’accampamento ragionava su quei drammatici eventi.
Era evidente che la tossina prodotta dai peli urticanti causava una reazione allergica psicofisica completa, e anche il cervello era intossicato.
Il risultato era che il malato era spinto a disporre in scena la sua immaginazione, a mettere in atto, alla lettera, le sue fantasie inconsce.
Per ritornare all’accampamento, passò dalle parti di un alveare messo in un campo da un contadino.
 
                         



Si avvicinò a un’arnia.
Era sempre stata affascinata in modo magnetico del mondo delle api.
In ogni alveare circa cinquantamila piccoli cervelli sono collegati tra loro in un superorganismo che è ben di più di un semplice brulichio bruno dorato.
Cinquantamila componenti della stessa famiglia sono l’equivalente di una cittadina come quella in cui abitiamo.Ogni singolo individuo ha un ruolo specifico secondo l’età.Nessuno ordina ma tutti obbediscono alla loro missione: alimentare e tenere in vita la Regina.Perfino i favi con le loro cellette fanno parte di questo sistema integrato e interconnesso: una rete di comunicazione ricca d’informazioni che sono diffuse nel buio dell’alveare attraverso gli odori.Che meraviglia! Anche lei voleva entrare dentro quella cassetta colorata, per mettere dentro la testa tra i favi e chiedere:«Dov’è la Regina? Vengono deposte abbastanza uova? Le riserve di pappa reale e di miele sono piene?»
Stava per infilare davvero il capo dentro l’arnia, esponendosi a una serie di morsi letali, quando sentì Paolo che parlava da solo dalle parti delle vicine tende canadesi della lanca dei salici bianchi.
Riuscì a risvegliarsi appena in tempo: la tossina!
Il tossico la stava spingendo a un atto autolesionistico, ed era un qualcosa più forte di lei, non riusciva a resistere, voleva andare a conversare con l’ape Regina.
Con un sussulto d’istinto d’autoconservazione, regolò il taser al minimo e si scaricò una bella scossa sulla fronte.
Cadde semisvenuta a un metro dall’alveare.
Le api ronzavano furiosamente, spaventate dal lampo accecante dello storditore, ma per sua fortuna non la considerarono una minaccia e non la attaccarono.
Lentamente si riprese e si rimise in piedi e andò al campeggio.
Giunta a una decina di metri, vide Paolo che fotografava il cielo con la digitale, in modo assurdo.
Aveva sciolto al collo una corda che usava per ancorare la tenda al terreno, e cantilenava dei versi di una poesia, mormorandola in modo inespressivo come un ossesso:
 
“E il cielo è nivale
come su la tua guancia
ondata il velo
insolito.
Il mare è d’opale
con vene di crisòlito.
 
Come i mari dell’Asia.
Immoto albore
di gemme fuse.
Brillano le meduse
a fiore
dell’emerso banco.
E tutto è bianco, 
presso e lontano”.
 
«Paolo? Che cosa stai facendo?» gli aveva urlato per risvegliarlo dal delirio.
 
                           
 
«E’ grande albàsia
da lido a lido,
come allor che fa in nido
sul Mar sicano
la sposa Alcyone».


Era fuori come una terrazza e le disse ancora:
«Sposa Alcyone, voglio arrampicarmi su questa quercia, farmi un bel nodo scorsoio al collo e lanciarmi dal ramo più alto perché voglio volare, volare oh oh! Cantare oh oh oh!»
«Come no, Paolo Modugno» e gli aveva assestato una bella scossa su una tempia.
Dopo averlo legato alla base del tronco, aveva visto uscire da dietro un salice bianco Riccardo, anche lui devastato dalla dermatite allergica e con lo sguardo da pazzo come gli altri.
Aveva in mano una bottiglia di plastica piena di alcol e tanti legnetti secchi.
 
                                    
 
Li buttò a terra, spruzzò l’alcol, e gettato a terra il contenitore accese il fuoco con un fiammifero preso dalla scatola che aveva in tasca.
«No, che cazzo fai Riccardo, è vietato accendere fuochi nel parco!»
Così aveva urlato, mentre correva con tutte le sue forze per spegnere quel pericoloso principio d’incendio».
Giunta nei pressi del fuoco Ricky l’aveva abbracciata con tutte le sue forze:
«ora ci rotoleremo insieme nella focosa passione del nostro amore, tesoro, oh sì, come on baby light my fire…» e la stava spingendo insieme con lui tra le fiamme.
C’era voluta un’altra scarica nella pancia e poi un’altra ancora sotto il mento per intontire Riccardo.

Ecco come si erano svolti i fatti.
Il respiro si era calmato.
Prese il cellulare che aveva nei pantaloni e come nei film horror di serie zeta non c’era campo.
Doveva bere e mangiare qualcosa, recuperare le forze e pedalare con la bici verso la vicina Bereguardo per chiedere aiuto.
Ce la poteva fare: i tre uomini erano ben assicurati ai tronchi degli alberi e non potevano dare seguito ad altri folli propositi con gesti insensati.
Intanto, intorno a lei, le gallinelle d’acqua stavano di nuovo banchettando con i bombici dei salici.
Uno spettacolo strepitoso della natura.

 
- Robert Ryman -

Anna pedalava sullo stretto sentiero nei boschi che portava a Bereguardo.
Pensava che  gli alberi non possono spostarsi quando si sentono minacciati, e hanno un'unica possibilità: cambiare il proprio sistema chimico rapidamente in modo da cercare di riappropriarsi dell’ambiente.
Darwin aveva fatto un bel lavoro di ricostruzione storica dello sviluppo delle forme viventi ma si era sbagliato sul conto della dinamica dell’adattamento.
I salici bianchi non s’adattavano all’ambiente ma lo modificavano, lo conquistavano usando come armi, come schiavi, altre forme viventi.
Anzi, cercavano di conquistarlo, lo modificavano e lo facevano proprio perché non erano in grado di adattarvisi.
La natura non è buona né cattiva. Essa è.
Ogni essere vivente cerca di imporre la sua esistenza modificando l’ambiente dal suo punto di vista.
L’essere umano è il predatore in cima alla piramide alimentare e segue la sua natura devastando il pianeta su cui vive.
I salici bianchi sono grandi nel loro cercare di contrattaccare il grande predatore uomo, più forte di loro.
Noi esseri umani possiamo essere grandi solo se rinunciamo a essere dei predatori.
Solo se rifiutiamo di adattarci alla logica della predazione.     
Anna aumentò la frequenza della pedalata perché non vedeva l’ora di mettere in salvo, da loro stessi, i suoi amici.
                                                                                 
                                                                                                                   FINE      


a Paolo, Riccardo e Anna.
Oliate gli ingranaggi e tenete ben ingrassata la catena: in primavera si riparte...a "al culo tutto il resto".

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