Paura del buio

di Kiki S
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un pessimo modo per farsi notare ***
Capitolo 2: *** Zoe ***
Capitolo 3: *** L'uomo muore di freddo, non di oscurità ***
Capitolo 4: *** La prova finale ***



Capitolo 1
*** Un pessimo modo per farsi notare ***


Swallowed up in the sound of my screaming
Cannot cease for the fear of silent nights …
(Imaginary-Evanescence)                 
 
I
 
UN PESSIMO MODO PER FARSI NOTARE
 
Era stato tremendo.
Era stata l’esperienza peggiore che avesse vissuto. Ne avesse avuto il coraggio, se la sarebbe tolta con le sue mani, quella stessa vita insulsa.
Ricordava perfettamente com’era andata; aveva creduto di potercela fare, ma si era sbagliata.
Ormai si era condannata da sola ad anni futuri di scherno e umiliazione. In fondo era solo al secondo anno e nessuno avrebbe dimenticato quell’avvenimento così divertente: una ragazza di quattordici anni che urla, scoppia in lacrime e si urina addosso per lo spavento perché si è svegliata nella stanza buia di un dormitorio mentre la sua classe era in gita, non è certamente cosa che passa di mente. La vergogna di quella notte se la sarebbe portata dietro a vita, anche qualora le prese in giro fossero cessate; perché non si può temere l’oscurità a quattordici anni. Non più.
In camera sua teneva sempre una luce accesa, perché la sola idea di ritrovarsi al buio le dava i brividi. Ma durante quella gita della sua classe a Dublino non aveva potuto scegliere.
A dire il vero non se l’era nemmeno aspettato.
Quando si era addormentata non era buio. Non completamente: Judith e Nancy tenevano ancora accese le luci sui loro comodini; e i letti delle due ragazze si trovavano proprio vicino al suo.
Non sapeva dirsi perché, a ripensarci in quel momento non poteva far altro che darsi dell’idiota, ma aveva creduto che quelle due luci (non tanto forti, ma sufficienti per farla stare tranquilla) sarebbero rimaste accese tutta la notte. Eppure era ovvio che non sarebbe stato così.
Si era assopita tranquilla. Il problema era sopraggiunto quando, verso le quattro del mattino, aveva riaperto gli occhi.
Da un lato forse era stata colpa del letto diverso dal suo; un po’ era avvenuto a causa del sonno appena svanito che l’aveva lasciata intontita. Stava di fatto che si era sentita inghiottire dalla tenebre. E poi c’era stato quel … silenzio.
Era così profondo, così spettrale e inquietante. Un silenzio infinito, nel quale non sembravano esistere nemmeno i respiri.
Faceva anche freddo in quella notte di novembre e, con il buio che le gravava sugli occhi, le sembrava di essere approdata in un luogo di morte.
Fin da subito aveva iniziato a tremare, poi la suggestione aveva fatto il resto: le era sembrato di sentirsi toccare il braccio da una mano ghiacciata, ed era stato quello il momento in cui aveva iniziato a urlare.
Non se n’era nemmeno resa conto.
Aveva capito veramente ciò che aveva fatto soltanto quando ormai il panico era passato.
Ci erano voluti soltanto pochi secondi perché le varie lampade cominciassero a essere accese: le altre ragazze della sua classe, spaventate, erano state tutte svegliate dalle sue grida.
Qualcuna doveva essere corsa anche a chiamare la signora Todd, una delle insegnanti, perché Rachel all’improvviso se l’era trovata davanti mentre la stringeva per le braccia e cercava di farla rinsavire dal suo stato di follia.
Poi finalmente si era calmata; tremava ancora e aveva le guance imperlate di lacrime, ma aveva smesso di urlare.
Si era guardata intorno con fare a metà tra il terrorizzato e l’incredulo e si era vista tutte le compagne intorno al suo letto; la signora Todd le chiedeva se stesse bene, che cosa fosse successo.
Non era nemmeno stata in grado di provare a formulare una risposta.
Era stata Judith a dirlo ad alta voce: -Oddio, ragazzi, si è pisciata addosso! Sentite che puzza!-.
Dopo qualche momento utilizzato dalle altre per verificare l’affermazione della compagna, la classe intera era scoppiata a ridere fragorosamente.
Era stato in quel momento che l’aveva capito davvero: sentiva il pigiama zuppo e non si trattava di certo di sudore. La coperta che le arrivava fino alla vita evitava che l’urina si mostrasse sotto forma visibile, ma così era già abbastanza.
Nel frattempo la signora Todd aveva alzato la voce per sedare l’ilarità generale.
Poi le aveva parlato con calma: -Rachel, che cos’è successo? Che cos’hai?-.
Rachel l’aveva guardata spaesata.
-Ho paura-, aveva risposto con voce tremante. -Di che cosa?-, aveva domandato l’insegnante apprensiva.
A quelle parole era seguito qualche attimo di silenzio. Silenzio totale.
Nessuno più parlava, nessuno emetteva il minimo suono.
Pareva quasi che le ragazze stessero trattenendo il respiro.
Rachel non sapeva perché l’avesse detto; aveva avuto tutto il tempo per pensarci ed evitarlo, eppure quella frase era uscita comunque dalle sue labbra, come se godesse di vita propria: -Del buio-, aveva affermato, e anche a voce piuttosto alta.
Le risate sguaiate si erano propagate nuovamente per il dormitorio.
-Ma che cos’hai? Tre anni?-, aveva scherzato una voce non definita (non aveva visto chi aveva parlato, né aveva avuto il coraggio di chiederlo in seguito), dopodiché era stata invitata dalla signora Todd ad alzarsi (dovendo così mostrare la larga macchia d’urina lasciata sulle lenzuola e il suo pigiama bagnato) e questa l’aveva condotta fuori con sé.
Non aveva più avuto il coraggio di rimettere piede nel dormitorio né di farsi vedere dalle compagne; la mattina seguente (dopo aver passato quel che restava della notte con la sua insegnate e con la luce accesa) era stata chiamata sua madre affinché andasse a prenderla, ed era tornata a casa.
La gita della sua classe però durava soltanto due giorni, così a niente era valsa la sua disperazione in proposito: la scuola la aspettava di nuovo, e con lei ci sarebbero state le compagne.
E tutti gli altri.
Perché era difficile credere che una storiella del genere non avrebbe fatto il giro di tutto l’istituto, Rachel non si era mai fatta illusioni al riguardo.
Era ufficialmente finita. Bel modo per rendersi popolare, si era detta più volte, davvero una grande trovata.
E quei primi giorni di ritorno a scuola erano stati devastanti: tutta la indicavano, tutti la deridevano, i più audaci le sparavano contro battute a raffica.
Era stata rinominata la piscialletto oppure la mongola che ha paura del buio e sapeva che quelle attenzioni negative non sarebbero mai scemate; ma in fondo, anche se fosse avvenuto, che differenza avrebbe fatto? Non si può avere paura del buio a quattordici anni, non c’è ragione che tenga, e lei si odiava perché era diversa, perché si comportava come una bambina.
Non era mai stata benvoluta all’istituto, nemmeno prima che avvenisse il fattaccio: le compagne non la consideravano perché era strana, troppo chiusa, spaesata. Sembrava davvero trattarsi di una mocciosa di tre anni nel corpo di una ragazza di quattordici.
I ragazzi delle altre classi poi, quelli più grandi, ma persino quelli più piccoli, non l’avevano mai calcolata di striscio. Un conto però era passare inosservata, finire relegata nell’anonimato più squallido e desolante, tutta un’altra storia era essersi tramutata nello zimbello di tutti, dal primo al quinto anno.
E pensare che l’anno scolastico era cominciato da poco; come pensava di arrivare fino a giugno? E poi con che coraggio avrebbe proseguito gli studi negli anni seguenti? No, la cosa non poteva funzionare. Quella di togliersi la vita era davvero una grande, grande idea.
Semplicemente era di difficile attuazione, per lo meno per una fifona come lei: se aveva paura del buio, figurarsi che cosa poteva provare nei confronti di una lama affilata che le si affondava nel polso.
Era ufficialmente senza speranza.
Quel giorno poi era stato toccato il limite: la sua classe aveva lasciato l’aula per dirigersi in palestra in vista della lezione di educazione fisica, ma Rachel si era attardata un po’ di più all’interno dello spogliatoio: gravissimo errore.
Lì dentro non c’erano finestre e le simpatiche creature che godevano della sua umiliazione avevano ben pensato di spegnere l’unica luce che c’era all’interno.
Rachel si era spaventata, anche se non aveva faticato a capire che si trattasse di uno scherzo.
All’inizio aveva fatto appello a tutto il suo coraggio: si era seduta sulla panca dello spogliatoio, aveva chiuso gli occhi e respirato profondamente.
Fuori dalla porta sentiva provenire i risolini sommessi delle sue compagne di classe, eccitate e divertite profondamente dalla faccenda.
Si era detta che non c’era nulla da temere, niente di cui preoccuparsi. Quando non l’avessero sentita urlare o scoppiare in lacrime si sarebbero arrese e l’avrebbero lasciata uscire.
In quel momento, in quello scherzo crudele ci aveva visto anche qualcosa di positivo: se avesse dimostrato (almeno superficialmente) di non avere più paura dell’oscurità, forse le prese in giro sarebbero cessate, o comunque sarebbe girata la voce che, rimasta al buio, si era comportata come una persona normale, ma non aveva messo in conto la sorpresina.
Doveva essere stata Judith, perché lei era sempre stata la più spietata. Un giorno aveva portato a scuola una foto di sua sorella (che frequentava l’ultimo anno di quello stesso istituto) in cui la ragazza dormiva completamente svestita dopo una sbornia e, dopo averla mostrata con trionfo a tutta la classe, l’aveva persino appesa alla bacheca in corridoio, e questo era tutto dire.
La poveretta si era poi salvata dallo scherno generale soltanto perché era stata lesta ad accorgersi del misfatto e aveva eliminato la fotografia incriminante appesa dove tutti avrebbero potuto vederla.
Ma Rachel non sarebbe mai stata così fortunata; Judith (o chi per lei, molto probabilmente Judith) aveva chiuso la porta a chiave. Quando aveva sentito la serratura scattare il terrore aveva cominciato a nascerle dentro.
Fin da subito aveva cominciato a sentire di nuovo quella mano gelida che le toccava il braccio; ma quella volta non era soltanto una: erano dieci, cento, mille mani che le stavano addosso.
Invano aveva tentato di dirsi di stare tranquilla, così dopo neanche un minuto si era fiondata contro la porta e, urlando e piangendo, aveva scongiurato le sadiche ragazze di lasciarla andare, di liberarla, di smetterla di scherzare. Perché lei aveva paura aveva aggiunto.
Un’altra splendida mossa, non c’era che dire.
Sembrava che volesse darsi la zappa sui piedi da sola.
Le ragazze l’avevano lasciata chiusa nello spogliatoio ancora un paio di minuti, poi avevano aperto di colpo; Rachel era incollata alla porta con tutto il suo peso, così era scivolata subito in avanti, seguendo l’uscio che si spalancava, ed era caduta a terra.
Inutile aggiungere quanto questo le fosse valso un incremento delle prese in giro.
Le era sembrata la fine del mondo: si era ritrovata a terra, singhiozzante e terrorizzata, nel bel mezzo di un cerchio di ragazze che la guardavano dall’alto in basso, ridendo come matte.
-Cerca di non pisciarti addosso stavolta-, le aveva raccomandato una di loro (ancora non avrebbe saputo dire di chi si trattasse), sforzandosi di parlare placando l’eccesso di risa, poi se n’erano andate tutte, lasciandola sola.
Quando finalmente aveva trovato la forza di alzarsi, Rachel non aveva raggiunto le compagne in palestra. Era corsa fuori, verso il cortile, ed era andata a nascondersi nella parte più isolata di esso, sul retro della scuola, lì dove, guardando oltre il cancello, non si vedevano altro che capannoni abbandonati. 
Si era poi sforzata di ripresentarsi in classe soltanto per l’ultima ora, e l’aveva fatto solo per evitare che a qualche insegnante venisse in mente di telefonare a sua madre per dirle che non la trovavano più. Le ci sarebbe mancato solo quello e avrebbe potuto realmente pensare di buttarsi giù dal primo ponte disponibile. Forse sarebbe stata la soluzione migliore in ogni caso.
Ma se per certe cose il coraggio manca, c’è poco da fare.
Così, prima che la sua vita (che non avrebbe mai avuto il coraggio di togliersi) potesse dirsi ufficialmente finita, voleva tentare di giocare la sua ultima carta.
Aveva un po’ paura, ma era l’unica soluzione.

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Capitolo 2
*** Zoe ***


II
 
ZOE
 
Zoe Collins era una ragazza strana, ma ciò che colpiva particolarmente Rachel era che si trattasse anche di un tipo piuttosto solitario.
Non l’aveva mai vista con nessuno e, cosa incredibile ai suoi occhi, non sembrava affatto soffrirne.
Di certo però non passava inosservata: era una dark, o qualcosa di simile. Stava di fatto che si vestiva sempre di nero, aveva i capelli dello stesso colore e anche sulle unghie portava sempre lo smalto scuro. Rachel quasi si chiedeva se non le avesse così di natura, in fondo non se ne sarebbe stupita più di tanto.
Però, a fare particolarmente scalpore, c’erano le sue collane e i vari bracciali borchiati e con i teschi: doveva averne davvero una bella collezione perché ne metteva di diversi ogni settimana.
E questo in barba alle regole scolastiche riguardo alla divisa.
Sembrava che a Zoe non interessasse nulla di nulla, forse che vivesse su un altro pianeta.
Aveva sedici anni, frequentava la quarta perché aveva saltato l’anno di transizione non obbligatorio previsto dalla scuola irlandese. Non che fosse da stupirsene: era difficile pensare che una come lei potesse preoccuparsi troppo dello studio e del suo futuro professionale. Probabilmente non ci pensava affatto.
Rachel ci aveva riflettuto per un po’, ma alla fine si era convinta che non esistesse alternativa; comunque dovesse andare, doveva tentarci.
Tanto, si diceva, peggio di così non sarebbe potuta andare di certo.
E aveva scelto Zoe perché lei, con il buio, pareva andarci a braccetto.
Era stato così che quel giorno (quello successivo all’incidente nello spogliatoio della palestra) le si era avvicinata prima di entrare in classe.
L’aveva vista seduta sul muretto sormontato dalle inferriate che costeggiavano la scuola. Ci si sarebbe aspettati di vederla fumare una sigaretta, ma non era così.
Zoe guardava in alto con un sorrisetto strafottente e beffardo disegnato in viso e sembrava non fare neanche caso alle occhiate di chi le passava accanto.
Di certo non aveva notato Rachel che andava verso di lei; Rachel non veniva mai notata da nessuno, salvo in quell’ultimo periodo, in cui ogni opportunità per sfotterla era colta al volo.
E questo, per inciso, non valeva per Zoe.
La dark non aveva mai detto nemmeno una parola alla povera sfortunata, di nessun genere.
Forse era anche per questo che Rachel aveva creduto di potersi rivolgere a lei: era stata l’unica in tutto l’istituto a non prenderla in giro e a non indicarla ridendo.
Forse non tanto per pietà, ma più probabilmente perché non provava interesse per la cosa. Comunque fosse, a Rachel bastava così.
Aveva preso fiato profondamente prima di cominciare a parlare; fu soltanto un peccato che avesse inalato tanta aria per niente, perché alla fine fu Zoe a parlare per prima: -Che c’è? Dimmi-, l’aveva anticipata prima ancora che l’altra potesse emettere suono.
Rachel ne rimase sbigottita, ma poi decise di darsi una mossa e cominciare a esprimersi se voleva raggiungere qualche risultato; e se non voleva che anche Zoe iniziasse a deriderla.
-Ciao Zoe, sono Rachel Robbins, sono …-
-Sì, lo so chi sei, tranquilla-.
Avanti di quel passo e Rachel non sarebbe riuscita a dire nemmeno una sola frase per intero, bel modo per presentarsi e per chiedere aiuto.
-Già, ormai sono diventata famosa… purtroppo-, ammise la poveretta con desolazione e rammarico. -Ah, lascia che le oche starnazzino e che i maiali grugniscano, tu non preoccuparti.-, fece una breve pausa, durante la quale Rachel riuscì persino a sorridere; e a perdersi nel verde profondo delle iridi della sua interlocutrice. Quanto le sarebbe piaciuto essere come lei. Per lo meno forte come lei. Indifferente come lei. Diversa come lei.
E poi avrebbe tenuto a mente quella frase: come metafora era proprio carina e poi, a quelle come Judith, l’immagine dell’oca starnazzante si addiceva proprio alla perfezione.
-Piuttosto: che ti serve?-, riprese la dark.
-Ho bisogno del tuo aiuto-
-Questo l’avevo capito da sola, tesoro, non avresti altri motivi per rivolgerti a me. La domanda è: per che cosa?-.
Rachel restò momentaneamente allibita: era davvero così prevedibile? Così scontata? O forse si trattava del fatto che mai nessuno si avvicinava a Zoe Collins, per cui non c’era da meravigliarsi che quest’ultima non si aspettasse attenzioni di altro genere?
-Ho bisogno che mi aiuti a superare la mia paura del buio-.
Zoe la squadrò interessata e le sorrise comprensiva.
-E come mai lo chiedi a me? Perché sono l’unica che non te le ha cantate per quello che hai fatto?-.
Quello che hai fatto. Senza volere quelle parole le fecero male. Rachel avrebbe preferito che l’altra avesse detto Ciò che è successo. In quel modo sembrava quasi una colpa terribile.
-Sì, anche-, rispose titubante, poi prese fiato e seguitò più decisa, -ma soprattutto perché tu sembri conoscere il buio alla perfezione, forse puoi insegnarmi a non temerlo-.
Zoe allora si alzò in piedi e, continuando a sorridere, prese entrambe le mani di Rachel nelle sue.
-L’uomo muore di freddo, non di oscurità. Sai chi l’ha detto?-, fece sembrando a un tratto una bambina felice. Rachel scosse la testa.
-Miguel de Unamuno. Poeta e scrittore spagnolo. Non so molto di lui, ma una volta ho letto questa frase e l’ho adorata-.
La ragazzina si concesse di sorridere a sua volta a quella più grande.
-Allora mi puoi aiutare?-, le domandò quindi impaziente. -Perché no? Vieni a casa mia dopo la scuola?-.
-Vorrei. Ma dovrei prima chiederlo a mia madre- e in quel momento Rachel si sentì tanto imbarazzata da pentirsi quasi di aver rivolto a Zoe la parola.
Con quella frase doveva proprio essere sembrata una mocciosa.
Zoe infatti aveva sorriso tra sé e sé.
-Niente panico, tesoro. Non c’è problema. Chiedilo a mamma, e vieni da me domani, che ne dici?-. Quella voleva essere una presa in giro? Poteva anche darsi, ma quello non era il momento di pensarci. Ormai contava soltanto uscire da quell’abisso.
-Domani andrebbe bene-, acconsentì sforzandosi di non abbassare lo sguardo di fronte al suo.
-Okay. Tanto a me non cambia niente, i giorni sono tutti uguali- e detto questo, Zoe se n’era andata senza nemmeno salutarla.
Rachel l’aveva osservata mentre si allontanava. Un po’ era spaventata da lei, ma era anche attratta da quell’aura misteriosa e tenebrosa che le aleggiava tutto intorno.
Era incredibile ammetterlo, eppure le sarebbe piaciuto diventare sua amica; ma amica per davvero, non per modo di dire.
Forse sarebbe potuta diventare come lei e sarebbe stato fantastico.
Non sapeva però se Zoe l’avrebbe mai voluta realmente accanto; probabilmente no, era inutile illudersi.
L’importante era che riuscisse a uscire da quella faccenda finalmente più adulta, più sicura e che finalmente fosse in grado di lasciarsi alle spalle certe paure puerili.
Non poteva più avere paura del buio a quattordici anni. No, non esisteva.
Doveva andare oltre. E forse, con Zoe, ci sarebbe riuscita.
In Zoe il buio viveva placidamente e serenamente, avvicinandosi a lei avrebbe imparato a conoscere anche lui. E chissà, forse alla fine le sarebbe anche piaciuto.
 
**
Quella sera pioveva e il freddo di metà novembre non scherzava affatto.
Rachel se ne stava sdraiata a pancia in giù sul letto, con i gomiti appoggiati al materasso e il mento sui pugni chiusi, ascoltando il rumore dell’acqua scrosciante.
E pensava a Zoe.
Era così affascinata dalla sua figura.
Non aveva fatto altro che rimuginare sul loro incontro di quella mattina per tutto il giorno, tanto che le ore scolastiche erano state meno pesanti del solito e non aveva fatto più di tanto caso allo scherno delle compagne.
Aveva trascorso l’intera giornata in una sorta di limbo sospeso nell’aria, all’interno di una spaesata beatitudine. Pensava che con Zoe accanto sarebbe stato davvero tutto diverso.
Zoe era meravigliosa, era attratta dalle tenebre che c’erano in lei, perché non sembrava fossero spaventose.
L’oscurità della ragazza dark aveva un che di invitante.
Sul suo comodino, come sempre, c’era la luce accesa di cui non poteva fare a meno; la osservava sperando che presto avrebbe potuto liberarsene.
Sperava davvero che grazie all’aiuto di Zoe sarebbe riuscita a sconfiggere la sua paura infantile.
In fondo già ci credeva.
E poi non vedeva l’ora di andare a casa sua il pomeriggio successivo, non stava più nella pelle.
A sua madre aveva detto che sarebbe rimasta a studiare nella biblioteca della scuola, perché aveva necessità di consultare diversi testi che non avrebbe potuto portare a casa tutti insieme.
Lei non aveva fatto una piega e le aveva dato il consenso.
Non sarebbe mai stato così semplice se Rachel avesse sostenuto di doversi recare a casa di una tizia strana e dall’apparenza oscura che per giunta non conosceva bene.
Era la prima volta che mentiva a sua madre, e anche quello lo trovava piuttosto eccitante.
Fu mentre pensava a tutte queste cose che sentì bussare alla sua finestra; si voltò di scatto verso il vetro trasalendo e con il cuore a mille nel petto.
Da un lato si sentì morire di paura, ma dall’altro fu invasa dalla gioia più spettacolare che avesse mai sperimentato: lì fuori c’era Zoe, bagnata fradicia, che le sorrideva e la invitava ad andare ad aprire.
Rachel quasi scivolò per la foga utilizzata per scendere dal letto. Si fiondò alla finestra e sollevò l’anta di chiusura. Zoe era arrampicata su una scala.
-Buonasera colombina. Disturbo?-, fece quella puntando d’improvviso il viso a mezzo centimetro da quello di Rachel.
Colombina? E quel nomignolo da dove veniva? C’era da ammettere che fosse senz’altro meglio di piscialletto. Quello era poco ma sicuro.
-N-n-no. No, fi-figurati.-, balbettò la poverina frastornata, -ma tu che ci fai qui? E… quella scala?-. Zoe sorrise. –Eredità-, sostenne con un’espressione indecifrabile disegnata in volto, tanto che l’altra non riuscì a capire se la sua risposta volesse essere una strana battuta oppure una confusa verità.
Infine Rachel decise di soprassedere. -Che cosa ci fai qui, Zoe?-, domandò di nuovo a voce più bassa. -Girovago. Mi piace andare in giro sotto la pioggia.-, e lo disse continuando a sorridere in quel suo modo peculiare e inafferrabile.
Rachel non fu in grado di rispondere; Zoe approfittò dello stupore dell’altra e della sua mancata reazione per prenderle la mano e cominciare a tirarla verso di sé.
Rachel si spaventò quando credé che le mancasse poco a volare giù dalla finestra, ma subito si rese conto che non sarebbe avvenuto. Zoe voleva soltanto che le fosse più vicina.
-Dai-, riprese la dark in tono mellifluo, -vieni con me, così potremmo conoscerci meglio prima di domani-, la invitò; e quell’invito era irresistibile.
Ma sgattaiolare fuori di casa? Oh sì, senza dubbio era un’idea niente male, eccitante di sicuro, ma avrebbe avuto il coraggio di farlo? E se sua madre l’avesse scoperta?
-E dai, colombina, non fare la bambina-, tornò a scherzare l’altra, lasciando che il suono della sua risata si espandesse insieme allo scroscio della pioggia. -Mamma non se ne accorgerà, vedrai. E poi, non vorrai mica lasciarmi qui a bagnarmi da sola?-, continuò.
Rachel a quel punto le sorrise e scosse la testa.
No, non aveva intenzione né di comportarsi da mocciosa né di lasciare che fosse Zoe a prendersi tutta l’acqua. Aveva voglia di un po’ più di emozione nella sua vita e anche di fare una bella follia.
E poi l’idea di lasciarsi infradiciare dalla pioggia insieme a Zoe era come una massa pulsante nella sua testa: voleva farlo, doveva farlo. In un certo senso sarebbe stata come lei.
-Brava la mia colombina!-, si complimentò la dark, che aveva i capelli sciolti ormai incollati al viso perché completamente zuppi.
Poi le prese la mano e l’aiutò a scavalcare il davanzale.
Rachel ebbe un po’ di paura a mettere il piede sul primo piolo della scala che incontrò fuori dalla finestra, ma fece appello a tutto il suo coraggio per non darlo a vedere.
Stava iniziando a ottenere l’attenzione di Zoe Collins, la ragazza più particolare e indipendente di tutta la scuola, non poteva permettersi di perderla per via di una stupidaggine.
Presto furono entrambe in piedi nel cortile della casa di Rachel. Quest’ultima vide che la luce in camera dei suoi genitori era già spenta; e se i suoi stavano dormendo c’era la possibilità che non si accorgessero della sua scappata. Lei se lo augurava, ma da un lato le piaceva avvertire il dubbio che così potesse non essere.
Quel pizzico di timore che avvertiva in petto stava tramutandosi in uno stimolo a continuare.
Infine Rachel smise di pensarci e abbassò lo sguardo su Zoe. Stava cominciando a bagnarsi proprio come lei. Entrambe gocciolavano dai capelli. E poi faceva freddo: Rachel non indossava altro che una tuta. Non che Zoe fosse più coperta: aveva addosso i suoi soliti abiti neri comprensivi di pantaloni, maglietta e felpa con il cappuccio. Al collo aveva una kefiah. Forse però non si sarebbe bagnata i piedi visto che portava gli scarponi. Rachel, al contrario, portava solo le calze (non aveva nemmeno pensato a infilarsi un paio di scarpe, tanto era stato lo sconcerto e l’eccitazione per quella visita improvvisa), ma in fondo non le importava più di tanto: di certo non sarebbe rimasta fuori tutta la notte; una volta rincasata avrebbe pensato a riscaldarsi i ghiaccioli.
In quel momento Zoe le sorrise, la prese per mano e la condusse con sé mentre cominciava a correre; scavalcarono lo steccato della casa di Rachel e furono subito in strada.
Rachel si voltò solo una volta verso la villetta a osservare la scala ancora appoggiata al suo davanzale dal quale proveniva l’unica luce accesa dalla casa.
Non vedeva l’ora di poter spegnere quella lampada una volta per tutte. E ormai confidava di essere sulla buona strada.
Zoe la portò con sé in spiaggia. Lì si sdraiarono sulla sabbia fredda e bagnata lasciandosi investire dalla pioggia che cadeva. Tremavano entrambe, era chiaro che quell’idea poco giovava alla salute, ma Rachel non vi avrebbe rinunciato per nulla al mondo.
Quella era la serata più magica della sua vita (non che avesse un gran termine di paragone. Fino ad allora, la migliore serata della sua vita era stata quella della recita scolastica delle elementari dove aveva interpretato la protagonista e non aveva dimenticato neanche una battuta).
E poi Zoe continuava a stringerle la mano. Rachel era arrivata a pensare che forse quella ragazza soffrisse per la solitudine anche se non lo dava a vedere. Forse aveva sempre avuto bisogno che qualcuno le si avvicinasse e parlasse con lei.
La ragazza si sentì un po’ in colpa quando l’idea le balenò in mente: pensò che lei si era rivolta a Zoe solo per ricevere il suo aiuto, era stata un’egoista. Solo in quel momento si rendeva conto di quanto quella ragazza fosse speciale, di quanto desiderasse la sua compagnia e la sua amicizia anche a prescindere da quel che avrebbe fatto per lei.
Zoe era come una rosa nera che aspetti con trepidazione di essere colta.
E Rachel non aveva paura delle sue spine.
L’acqua che scrosciava loro addosso le parve benedetta, sembrava stesse lavando via tutto il marcio e l’odioso dolore di quegli ultimi giorni. E anche l’insensatezza della sua vita scolorita, come lo era stata fino ad allora.
Rachel sentiva che con Zoe sarebbe stata tutta un’altra cosa, era certa che non sarebbe mai più stata così sola. Se era davvero una colombina, in Zoe aveva trovato finalmente il suo nido.
Poi fu all’improvviso che questa iniziò a parlare, confondendo le sue parole tra le imperterrite e sussurranti gocce di pioggia.
-Non hai paura del buio che c’è qui, Rachel?-, le domandò sottovoce. Sentì che Zoe le stringeva la mano più forte. –No-, fece a bassa voce, -il buio naturale è diverso, anche perché si vedono comunque le luci della città. Non è la stessa cosa di una stanza- delucidò, rendendosi conto di quanto potesse apparire stupida la sua spiegazione.
-Sai, io qui ci vengo sempre quando piove, mi piace-, riprese la dark, -lo faccio da quando papà è morto, sei anni fa-.
Rachel avvertì un tuffo al cuore.
-Tuo padre è morto?-, domandò costernata. –Purtroppo-, rispose l’altra in un sospiro.
-Ma c’è mia madre, ce la caviamo-, aggiunse.
Questa volta fu Rachel a stringerle più forte la mano. Prese fiato per parlare, ma Zoe la anticipò subito.
-No, no. Ti prego, non dire che ti dispiace. Non mi serve-, fece lapidaria.
Rachel richiuse la bocca e tacque. Non aveva intenzione di perdere l’approvazione della sua nuova  e improvvisata forse- quasi- amica.
-Preferisco il silenzio per certe cose. Dice di più-, le spiegò convinta e Rachel si disse che aveva ragione. Così scelse il silenzio a propria volta.
-Sei una tipa niente male, Rach. Non pensavo che l’avrei mai detto a qualcuno, ma stare qui con te è meglio che starci da sola-, esclamò d’improvviso e Rachel non seppe dirsi se la voce le aveva tremato più per il freddo o per il tentativo di trattenere le lacrime.
Fu solo certa, da quel momento, di amare Zoe più di quanto avesse mai amato fino ad allora.
E questo anche se non la conosceva veramente.
Sentiva che quella ragazza strana e sempre volutamente isolata le stava aprendo il suo cuore e tanto le bastava. Voleva ancora il suo aiuto, ma desiderava anche starle vicina. Probabilmente si sarebbero sostenute a vicenda, ed è questo che fanno le amiche.
Forse si erano trovate. Una rosa nera che ospitava al suo fianco un fiore piccolo e insignificante, forse una semplice margheritina come ce n’erano a milioni, alla quale probabilmente mancava anche qualche petalo, ma che avrebbe condiviso per sempre con lei il loro campo solitario.
Grazie a Zoe avrebbe superato la sua paura del buio. La dark, grazie a lei, forse, avrebbe smesso di essere sola.
Quando infine la riportò a casa, sotto la sua finestra, Zoe l’abbracciò, poi se ne andò sorridendo e salutandola solo con un sussurrato: -A domani-. Rachel la osservò andarsene sotto la pioggia con la sua scala mentre stava affacciata al davanzale, ancora bagnata e tremante.
Guardando l’orologio vide che erano già quasi le due del mattino quando rientrò.
Sorrise a quel pensiero; aveva mentito a sua madre riguardo al giorno seguente, era scappata di casa di notte per andare a prendersi la pioggia sulla spiaggia e tutto questo soltanto per Zoe.
Forse quelle che aveva fatto erano cose sbagliate, ma le andava bene così. Perché forse non lo erano davvero, andavano solo contro le regole e questo non rende qualcosa errato per forza.
Quando vide che Zoe era ormai sparita nella notte, si tolse di dosso gli abiti bagnati (e ai quali si era attaccata la sabbia) e si asciugò in fretta, poi indossò un pigiama pesante e delle calze spesse di spugna per scaldarsi i piedi congelati.
Nascose i vestiti fradici nell’armadio; ci avrebbe pensato il giorno dopo.
I capelli se li strofinò rapidamente con un asciugamano fino a che non smisero di gocciolare, poi si infilò sotto le coperte.
Si addormentò con il sorriso sulle labbra, anche se la lampada sul suo comodino era sempre accesa.
Sognò di Zoe Collins.
La sua nuova amica.

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Capitolo 3
*** L'uomo muore di freddo, non di oscurità ***


III
 
L’uomo muore di freddo, non di oscurità
 
Nella stanza erano accese le candele.
Soltanto quelle.
Ma Rachel non aveva avuto paura, almeno non troppa. E poi si era impegnata per non darlo a vedere. Anche perché essere insieme a Zoe era sempre così eccitante.
Aveva atteso quel momento con trepidazione per tutto il giorno, era stato il suo chiodo fisso.
Ed era strana la casa di Zoe: dal di fuori era un’abitazione comune, ma l’interno sembrava provenire direttamente da un film dell’orrore. Le stanze erano buie, c’era la grande scala che portava al piano di sopra che pareva estendersi verso un abisso oscuro e annullante, vecchie fotografie ingiallite alle pareti e persino qualche ragnatela negli angoli del soffitto.
Anche se, a dirla tutta, Rachel non si sarebbe stupita se Zoe avesse tenuto gli amabili ragnetti come bestioline domestiche. Sarebbe stato da lei.
Sua madre non c’era quel pomeriggio; Zoe aveva sostenuto che si trovasse al lavoro e che non sarebbe rientrata prima delle otto. Rachel era curiosa, le sarebbe piaciuto vederla.
Se la immaginava un po’ tetra come la figlia, vestita di nero, pallida e con le unghie troppo lunghe; sì insomma, una sosia di Morticia Addams.
Ma poi dovette ricredersi quando notò quell’istantanea appesa alla parete, proprio vicina alle scale; si era addirittura fermata a guardarla.
Si era sorpresa, forse persino sbigottita, nel rendersi conto che la madre di Zoe aveva i capelli rossi e un bel sorriso radioso. Doveva ammettere che la sua elasticità mentale faceva davvero cilecca.
In quella foto c’era anche il padre defunto della sua nuova amica, un uomo che dalla riproduzione su carta lucida appariva alto, slanciato; ed era lui ad avere i capelli neri. Zoe doveva averli ereditati da lui. Come la scala? Suggerì una voce nella sua testa.
-Ehi, colombina. Non hai mai sentito dire la frase fatti gli affari tuoi?- la redarguì subito Zoe mentre la prendeva per un braccio e cominciava a trascinarla su per gli scalini.
-È la tua famiglia quella?- domandò Rachel incuriosita, mentre le sembrava di star salendo i gradini a velocità non rilevabile. Quasi era certa di sentire il vento sferzarle il volto.
-No, Rach. Sono i vicini, teniamo una loro foto così quando ci gira la usiamo per fare le macumbe- fece l’altra sarcastica.
A quelle parole Rachel sarebbe voluta sprofondare. Effettivamente la sua era stata una domanda stupida; no, forse stupida suonava come un complimento. Ma come le era saltata in mente? Era ovvio che l’uomo e la donna presenti nella fotografia fossero i suoi genitori.
Restando in silenzio si morse la lingua; appariva già come una povera mocciosa agli occhi dell’intero istituto, le costava molto evitare di risultare una scema totale anche davanti a Zoe? Anche perché voleva che lei le fosse amica, che la vedesse diversamente. Solo che quello non poteva certo definirsi un ottimo primo passo. Ma lo era davvero? Il primo vero passo non era forse stato quello della notte prima? Quella sì che era stata un’esperienza spettacolare, ancora rabbrividiva al pensiero della mano di Zoe stretta nella sua mentre la pioggia scivolava loro addosso e sentivano le onde infrangersi a poca distanza dai loro corpi.
Quello era il ricordo più bello della sua vita.
Quella mattina poi era anche riuscita a nascondere a sua madre i vestiti bagnati e con la sabbia attaccata sopra: li aveva infilati in fretta e furia dentro la lavatrice già caricata mentre l’altra non guardava, poi questa si era voltata di nuovo, aveva chiuso l’oblò, aggiunto il detersivo e azionato la macchina.
Le prove erano state occultate, e per giunta senza fatica. In quell’istante si era detta che avrebbe anche potuto farlo di nuovo, si sentiva già pronta a ripetere le sue azioni.
Ma quel che contava di più, in quel momento, era trovarsi a casa di Zoe.
La dark al principio aveva acceso la luce in camera sua e Rachel si era sentita subito più tranquilla, poi era stata invitata a sedersi sul tappeto posto ai piedi del letto.
Zoe le aveva detto di attenderla qualche minuto, che sarebbe tornata subito, così Rachel era rimasta lì dentro da sola per circa una decina di minuti; si era concessa di osservare la stanza.
Tutto sommato era normale, non esisteva niente che la mettesse in relazione con film horror o cose del genere. Solo alle pareti erano stati affissi disegni strani: non erano spaventosi, al contrario di ciò che si potrebbe pensare, ma i loro contenuti erano sempre di colore nero.
C’era il cavallo nero. Il gatto nero. La donna vestita di nero. La rosa nera. L’albero nero. L’anello nero. E i cocci di quella che poteva essere stata un’anfora nera che lasciava cadere a terra il suo contenuto, anch’esso nero. Però non si capiva che cosa fosse.
Rachel si guardò bene dal domandarglielo quando Zoe tornò; non aveva intenzione di fare un’altra figuraccia. Volle soltanto sapere se per caso fosse lei l’artista in questione.
-Ebbene sì- rispose la dark con scarso interesse, mentre posizionava un po’ ovunque le candele nere che aveva portato con sé -un buon talento sprecato nell’infantile arte del disegno con le matite colorate- proseguì.
Rachel avrebbe parlato al singolare in quella frase, vista la monocromia dei disegni, ma scelse di non aprire bocca. Restò invece incantata a guardarla mentre si prodigava nella sua attenta attività.
Sembrava che non stesse lasciando nulla al caso; Rachel fu certa che sapesse esattamente che cosa stava facendo. Era così bello essere lì con lei, anche se sembrava non esserci traccia della ragazza che si sentiva troppo sola della sera precedente. Zoe aveva ripreso la sua espressione serafica, altezzosa e noncurante. Eppure Rachel la adorava anche così.
Quando ebbe finito, Zoe accese una per una le dieci candele sistemate con precisione alla stessa distanza l’una dall’altra con dei fiammiferi che teneva in un cassetto, dopodiché spense la luce, infine andò a sedersi sul tappeto di fronte all’altra ragazza.
Rachel aveva deglutito a vuoto quando l’amica aveva abbassato l’interruttore; aveva respirato a fondo, ma si era anche resa conto di non essere poi così terrorizzata. Provava un po’ di timore, un po’ di angoscia, ma c’era anche l’euforia ad attenuare le sensazioni negative.
-Bene, Rach, da oggi si comincia- iniziò Zoe con tono solenne. Il suo viso appariva ancora più cereo alla luce aranciata delle candele. Ma anche più misterioso e più bello.
-Ti spiego come funziona: ora ho messo dieci candele a illuminare la stanza; ogni volta che te la sentirai ne spegnerò una, fino a quando non ci saranno problemi a restarcene qui a parlare al buio totale-. Rachel spalancò gli occhi turbata ed esterrefatta a quelle parole; gesto che Zoe colse e che la fece sorridere.
-Dopodiché sarai pronta per la prova finale, che sancirà il superamento completo della tua paura- aggiunse decisa.
-Pro-prova finale?- domandò Rachel colta alla sprovvista -di che si tratta?- e a dire il vero si sentiva anche un po’ preoccupata.
-Niente che ti riguardi al momento, colombina mia. A suo tempo. Ora siamo ancora al primo stadio- si imputò Zoe e dal suo tono di voce fu subito chiaro che non ammetteva repliche.
-D’accordo- si arrese Rachel, non del tutto convinta. L’idea era spiazzante, soprattutto perché non le era concesso di saperne di più, ma in fondo si fidava di Zoe, e questo era ciò che contava.
-Ora devi dirmi per quale motivo hai paura del buio. Devo capire il senso di quello che provi- riprese la dark, attenta e interessata come se si trattasse di un’esperta in materia. E lo era davvero.
-Il senso? Zoe, la mia paura non ha senso, ho quattordici anni. C’è qualcosa che non va in me- proruppe Rachel cominciando ad agitarsi.
-Altroché se esiste un senso. Rach, tutto ha un senso. Bisogna scavare a fondo nella tua paura, solo così sarà possibile estirparla-.
Rachel tornò a tranquillizzarsi a quelle parole. Forse Zoe aveva davvero ragione. Era l’unica che la pensasse così, riusciva a vederci anche più a fondo di lei, che come le altre compagne di classe si fermava alla superficie. Con l’unica differenza che Rachel non amava prendersi in giro da sola, né era particolarmente incline a ricevere umiliazioni.
Zoe sapeva scavare sotto la superficie, era questo a renderla tanto affine alle tenebre; e forse era il motivo per cui era anche così sola.
Come una rosa nera in un prato solitario. Si disse di nuovo Rachel. Una rosa nera alla quale lei, insulsa margherita mancante di qualche petalo, voleva restare accanto.
Una rosa nera come quella del disegno appeso alla parete.
-Allora?- la incoraggiò, eppure il suo tono era freddo, quasi scocciato.
Una rosa nera dalle mille facce. Eppure a Rachel piaceva così.
-Credo che la mia paura nasca dal fatto di non vedere niente- iniziò dunque un po’ imbarazzata; però il gelo negli occhi di Zoe si stava sciogliendo, trasformandosi in un fuoco avvolgente e benevolo, così continuò più decisa. -È perché il buio sembra nascondere qualcosa di mostruoso. Qualcosa che non conosco e che potrebbe essere orribile-.
Zoe annuì.
-E poi c’è … il silenzio- e quell’ultima parola sembrò quasi rimbombare nella stanza.
-Il silenzio?- le domandò Zoe corrugando la fronte senza capire. -Sì, c’è quel silenzio … è spettrale, agghiacciante. Anche in questo sembra nascondersi qualcosa. Poi delle volte, al buio, mi è sembrato di sentire qualcosa, come della mani gelide che mi toccavano, ed è stato orribile- spiegò. -Sì, ho capito. Quella è la suggestione-. Questa volta fu Rachel ad annuire, conscia della veridicità dell’affermazione dell’amica. Lei capiva tutto al volo.
-Il fatto è questo: tu hai paura del buio solo perché non lo conosci, perché non hai mai familiarizzato con lui. L’oscurità è amica del pensiero, della pace, non ha nulla a che fare con l’orrore o con i mostri. Il buio è solo … silenzio. Ma è silenzio positivo, tu devi capire questo- espose la dark guardandola negli occhi alla luce delle candele. E i suoi occhi verdi sembravano quasi scintillare, come avviene per quelli dei gatti quando sono raggiunti da un debole fascio di luce nell’oscurità.
-E dici che ce la posso fare?-
-Certo, Rach. È più semplice di quanto credi. Devi solo conoscere il buio, abituarti a lui. Poi vedrai che la tua paura sparirà, non ti ricorderai nemmeno di come facevi a provarla- e detto questo, Zoe le concesse un largo sorriso che cancellò del tutto il gelo che le aveva riservato poco prima. Anche Rachel le sorrise.
-Ricordati: l’uomo muore di freddo, non di oscurità. Non c’è nulla da temere nel buio, certe cose accadono solo nei film. Impara a lasciarti avvolgere dal buio-. Zoe allungò la mano verso Rachel e con lo sguardo la incitò a stringergliela, dopodiché le si mise accanto, e insieme si distesero supine sul tappeto.
-Vedi. Ti senti già meglio, vero?- fece Zoe con un tono di voce tanto pacato da sembrare quasi dolce. –Sì- ammise Rachel -ma non penso che sarei così tranquilla se non ci fossero le candele accese- aggiunse imbarazzata. -Beh, è normale. Siamo solo all’inizio- la rincuorò l’altra.
Poi per qualche minuto calò il silenzio. Rachel iniziò a cercare di abituarsi a quel buio spezzato dal bagliore delle fiammelle. Forse erano quelle a non far scoppiare l’atrocità del suo panico, ma la presenza di Zoe la aiutava di certo. Quel momento le ricordò quello vissuto la sera prima sulla spiaggia. Era magico starle sdraiata accanto, le ispirava sentimenti che non aveva mai provato prima. Non fosse stata certa delle proprie tendenze, avrebbe cominciato a credere di essere attratta da lei. Ma Rachel sapeva che non si trattava di quello: non era amore, non di quel genere almeno. Era un attaccamento profondo, un’ammirazione senza pari, un legame che sentiva consolidarsi con la sua sola vicinanza. La margherita si protendeva fino ad arrotolare il suo gambo esile attorno a quello spinoso della rosa nera. E lì si sentiva a casa, non provava nemmeno dolore. Anche perché il fiore più grande non voleva provocarglielo.
-Rach, ma fammi capire. È vero che te la sei fatta sotto quella notte famosa?- riprese Zoe d’improvviso. Rachel si sentì sprofondare e sperimentò un tuffo al cuore. Ricordare era atroce e per di più non voleva farlo proprio accanto a Zoe.
-Sì- ammise costernata -ma credevo che considerassi maiali e oche tutti quelli che mi prendono in giro- aggiunse quasi piagnucolante. In effetti, quando si sentì parlare, Rachel avrebbe voluto riavvolgere il nastro ed evitarsi quell’altra bambinata.
-Infatti. Volevo soltanto sapere se era vero oppure se si trattava solo di una malignità detta per farti stare peggio. Ne sarebbero stati capaci- spiegò serena e tranquilla la dark, senza minimamente preoccuparsi di essere stata fraintesa.
-Quindi a te non importa?- domandò Rachel speranzosa. -Ma va’. Idiozie. Tutti quelli che ti sfottono lo fanno solo perché sono intelligenti quanto un feltrino e sensibili quanto un paio di ciabatte. Lasciali stare, tutti quanti. Fai bene a voler superare la tua paura, ma devi farlo per te stessa, non per loro. Non dovresti nemmeno starli a sentire-.
Rachel sorrise tra sé e sé e le strinse la mano. -Grazie, Zoe- le disse commossa. -Di che? Ci si aiuta e consiglia tra amiche, no?-.
Amiche. Rachel sentì in quel momento che avrebbe dato la vita pur di restare per sempre amica di Zoe, la sua rosa nera che non la affliggeva con le sue spine che invece riservava senza pietà agli altri. Si sentiva una privilegiata. Ma forse era perché era riuscita a capirla.
-Ora basta parlare. Concentrati sul buio. Impara a riconoscerlo- le suggerì infine a bassa voce.
-L’uomo muore di freddo, non di oscurità- recitò Rachel sussurrando a propria volta.
-Brava, colombina. Impari in fretta- scherzò Zoe. E la fece sorridere.
 
**
Erano andate avanti così per sei mesi interi, ormai era maggio, la scuola sarebbe finita di lì a poco. Le prese in giro continuavano e di certo non accennavano a diminuire, ma ormai non le importava più molto. Come le aveva suggerito Zoe, Rachel aveva intenzione di superare la sua paura per il suo stesso bene, per sentirsi finalmente in pace con se stessa.
Ormai soprassedeva quando si sentiva chiamare piscialletto, e questo accadeva tutti i giorni.
Stava spesso insieme a Zoe, anche durante l’intervallo e ai cambi d’ora, ogni volta che le fosse possibile; ciò che più le faceva piacere era il fatto che tante volte fosse proprio la sua amica dark ad andarla a cercare. Lei era meravigliosa. Era fantastico starle accanto, anche se cominciava a non avvertire più tutta quell’eccitazione al riguardo. Si stava trasformando in una cosa normale.
Un po’ come valeva per il buio. Ci era voluto molto, ma alla fine, un paio di settimane prima, era riuscita a restare nella camera di Zoe con tutte le candele spente senza provare più alcun tipo di paura, senza avvertire più quel silenzio agghiacciante e senza più percepirsi addosso le mani gelide che creava la sua suggestione.
Negli ultimi giorni Zoe l’aveva anche lasciata da sola nella sua stanza per un’ora intera ogni volta, per assicurarsi che non fosse la sua compagnia a tranquillizzarla. Ma no, Rachel non aveva avuto paura comunque, si era sentita serena. Si rendeva conto che Zoe aveva avuto ragione fin dal principio: lei doveva soltanto conoscere il buio, familiarizzare con lui, niente di più, niente di complesso. Era stato quasi gratificante rendersene conto e costatare i progressi che faceva di volta in volta. Era riuscita a comprendere il buio, a capire che in esso non esisteva nulla da temere.
Quando ne aveva avuto paura il problema risiedeva nella sua testa, aveva solo dovuto estirparlo con le buone maniere, mettendosi di fronte alle sue debolezze per gradi, senza forzature, e alla fine aveva raggiunto il suo traguardo tanto agognato.
Era persino diventata di famiglia in casa di Zoe; ormai conosceva sua madre, e spesso restava da loro a cena. Con loro si sentiva quasi a casa.
Aveva anche accennato ai suoi genitori di questa nuova amicizia, certo senza mai scendere nel dettaglio, e loro erano stati contenti di vederla finalmente serena e di sapere che a scuola c’era qualcuno in grado di capirla e di starle vicino.
Insomma, le cose non sarebbero potute andare meglio di così.
Zoe le aveva anche detto che ormai era pronta.

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Capitolo 4
*** La prova finale ***


IV
 
LA PROVA FINALE
 
Quella notte Rachel non riusciva a dormire, e questo non perché nella sua stanza non c’era la luce accesa; a quello ormai aveva fatto l’abitudine, erano due settimane che si sentiva serena a stare al buio da sola. Continuava a pensare alla prova finale di cui le aveva parlato Zoe; anzi, a dire il vero l’amica non le aveva detto un bel niente in proposito, e il problema era proprio quello.
Non sapeva di che cosa si trattasse, non aveva idea di che cosa dovesse aspettarsi, e questo la preoccupava. La sua paura del buio ormai era superata, ne era certa, perché continuare? Perché addentrarsi in qualcosa di complicato e sconosciuto? Non le piaceva l’ignoto, non avrebbe mai fatto per lei. Il motivo stesso che l’aveva spinta a smettere di temere l’oscurità era stato proprio il fatto di non considerarla più tale; vi si era abituata. Ma questo non sarebbe mai avvenuto senza l’aiuto di Zoe; forse doveva fidarsi di lei, perché Zoe sapeva sempre quel che doveva essere fatto.
Eppure quelle stesse due parole non la persuadevano: prova finale. Esisteva un che di inquietante al loro interno. Forse sarebbe stata più tranquilla se avesse saputo ciò che a Zoe passava per la testa, ma non c’era stato verso, la dark era stata irremovibile e non aveva voluto sbilanciarsi.
Eppure erano tre giorni che Rachel le chiedeva, anzi, la pregava insistentemente di dirle che cosa si accingeva a fare, di darle almeno un’idea o un accenno in proposito, tanto per rassicurarla; ma Zoe aveva detto che non la riguardava, perché se avesse saputo prima di che cosa si trattava, non sarebbe stato possibile affermare con sicurezza se aveva superato o meno la sua paura.
L’effetto sorpresa doveva ricoprire un ruolo importante. O almeno, Zoe aveva detto che sarebbe stata una sorpresa fino all’ultimo istante. Quando fosse giunto il momento, le avrebbe rivelato tutto. Ma questo non sarebbe giunto prima della sera successiva, quella del sabato.
Zoe l’aveva invitata a dormire a casa sua per l’occasione, perché sosteneva che il tutto dovesse avvenire di notte. Quindi, viste le premesse e l’idea di non saperne ancora nulla, come avrebbe mai potuto dormire? Eppure ormai le piaceva stare al buio, sentiva quel silenzio positivo di cui Zoe le aveva sempre parlato, riusciva a pensare e a rilassarsi quando le luci erano spente, che cosa poteva avere da temere? Quale poteva essere la fantomatica prova finale? Zoe non sapeva che Rachel oramai dormiva al buio nella sua stanza, forse voleva metterla alla prova proprio su questo aspetto; voleva farle trascorrere un’intera notte al buio nella sua camera, magari da sola, così si sarebbe convinta di averla riabilitata. Fosse stato così non avrebbe avuto nulla di cui preoccuparsi.
Il problema era che Rachel non sapeva mai che cosa aspettarsi da Zoe, era strana la ragazza; proprio come quanto un attimo prima si faceva fredda, sarcastica e scocciata, per poi travolgerla improvvisamente con il suo calore e dimostrarle apertamente la sofferenza della sua solitudine.
Forse era solo lunatica, ma Zoe cambiava spesso atteggiamento. Una volta, per esempio, le aveva regalato uno dei suoi disegni, quello raffigurante la rosa nera. Rachel aveva deciso di conservarlo come un tesoro, anche perché era stata l’amica a consegnarglielo di sua spontanea volontà, addirittura insistendo perché lo tenesse. Poi però, dopo un paio di settimane, aveva cambiato idea: glielo aveva richiesto indietro e sul suo viso non era disegnato alcun tratto di imbarazzo.
Anzi, pareva quasi che fosse stata Rachel a compiere una grave mancanza nei suoi confronti, quasi l’avesse sottratto dalla sua stanza senza chiederglielo. Quando il giorno successivo glielo aveva reso, Zoe quasi le aveva strappato il foglio di mano, e con freddezza aveva affermato che era maleducazione prendere le cose degli altri. Non le aveva dato nemmeno la possibilità di ribattere, perché se n’era andata subito dopo e Rachel non era più riuscita a parlare con lei per tre giorni.
Aveva addirittura avuto paura di averla persa per sempre, di aver visto sgretolarsi sotto ai suoi occhi il sogno della sua amicizia perfetta, senza aver capito il motivo di ciò che era avvenuto.
Ma poi Zoe era tornata a cercarla e le parlava come se non fosse mai accaduto nulla. Le aveva anche fatto pressione perché si sbrigasse ad andare a casa sua uno dei pomeriggi successivi per riprendere le loro sedute, perché non dovevano perdere tempo.
Quando Rachel rientrò infine in camera di Zoe, aveva notato che il disegno della rosa nera era di nuovo lì, appeso tra gli altri. E aveva scelto di non domandarle niente in proposito.
Aveva avuto paura di quella che avrebbe potuto essere la sua reazione, perché in fondo non aveva capito che cosa fosse successo.
Così anche in quel momento temeva ciò che sarebbe accaduto la sera successiva. In proposito doveva soltanto fidarsi di Zoe e della sua capacità di scavare a fondo senza fatica, individuando sempre quel che era meglio per lei. E Rachel aveva piena fiducia nella sua amica dark, solo che era difficile non essere in ansia.
In fondo era lei che sarebbe stata messa sotto esame.
Però immaginava che si sarebbe sentita meglio una volta che fosse tutto finito; ormai non aveva più paura del buio, aveva ragione di credere che sarebbe andato tutto bene. Qualunque fosse stata l’idea di Zoe per la notte dopo, non poteva essere così terribile.
Sperava soltanto che la dark non cominciasse ad allontanarsi da lei, una volta che avesse assolto del tutto il suo compito. Rachel l’aveva voluta vicina che ricevere il suo aiuto in merito alla sua paura, ma ora che questa era sparita non voleva certo perderla.
Era strano ammetterlo, e un po’ forse la spaventava, ma Zoe era tutto ciò di cui le importasse, era tutto il suo mondo. Era solo grazie a lei che non era crollata in quegli ultimi sei mesi.
Restò a occhi aperti a fissare il soffitto. Le venne in mente che Zoe le aveva detto che, una volta che avesse superato la sua paura del buio, non avrebbe nemmeno più ricordato come avesse fatto a provarla. Era vero, non lo ricordava più. Le sembrava perfino così assurdo.
Non esisteva niente di spaventoso nel buio. Certe cose accadono solo nei film.
Si sentiva più serena quando chiuse gli occhi e si sforzò di prendere sonno.
-L’uomo muore di freddo, non di oscurità- ripeté tra sé e sé a fior di labbra per convincersi che non c’era niente da temere. E oramai per Rachel non esisteva più nemmeno il freddo, e questo non solo perché l’inverno era finito.
Era anche perché accanto aveva Zoe. Non sarebbe esistito gelo fino a quando le fosse rimasta vicina; se non soltanto, forse, quello che quest’ultima le riservava di tanto in tanto, quando aveva la luna storta. Ma anche quello faceva parte di lei.
E Rachel non voleva cambiarla di una virgola.
 
**
Zoe si era presentata a casa di Rachel molto presto quel giorno, prima ancora dell’ora di pranzo. Non era salita con la sua scala ricevuta in eredità fino al suo davanzale come aveva fatto la notte in cui era iniziata la loro amicizia, e come era avvenuto anche in seguito durante quei mesi, ma si era limitata a colpire la sua finestra con dei sassolini, fino a quando non l’aveva costretta ad affacciarsi.
Zoe le sorrideva.
Rachel si era sentita gelare senza sapere il perché, ma in ogni caso aveva scelto di raggiungerla in cortile. Lì l’amica l’aveva abbracciata forte: -Wow, Rach! Sei eccitata quanto me per stasera?- le aveva detto mentre la stringeva tanto da non lasciarla respirare.
Rachel si sentiva un po’ stranita e sbigottita: che cosa mai doveva esserci di eccitante quella sera? In che cosa diavolo doveva consistere quella benedetta prova finale? Cominciava a essere sempre più tesa. Comunque fosse, Rachel ricambiò l’abbraccio, per lo meno nel tentativo di indurre l’amica ad attenuare la sua stretta soffocante. -Non so ancora di che cosa si tratta … come faccio a essere eccitata?- rispose preoccupata mentre cominciava a scansarsi da Zoe.
La dark allora assunse un’espressione contrariata: -Ah beh. Allora non hai fiducia in me- fece offesa. -Male, colombina mia. Male- e detto questo il suo sguardo si fece di ghiaccio.
Rachel sospirò, atterrita e confusa. La verità era che non ci stava capendo più niente, né dell’atteggiamento di Zoe, né di che cosa stesse accadendo. A momenti non ricordava più da che cosa tutto quello fosse cominciato. Ma era stata davvero necessaria tutta quella pagliacciata?
-Zoe, mi fido di te- iniziò dunque titubante, sentendosi in soggezione sotto lo sguardo collerico dell’amica; il potere che Zoe aveva su di lei non intendeva scemare. Anche se si stava facendo tutto così strano, Rachel non aveva intenzione di perderla.
-Ma…- la interruppe subito l’altra con aria di sfida. -Ma non è molto rassicurante dover fare qualcosa che non si sa nemmeno cosa sia. E poi che cosa dovrebbe esserci di eccitante nella tua prova finale? È una cosa così strana?-. E Rachel deglutì rumorosamente quando Zoe le fu addosso con scatto felino e la afferrò per le braccia, tirandola molto vicina a sé. Sentiva il suo respiro che si mescolava con il proprio ed era inquietante. Ma non solo quello; in fin dei conti non era mai cambiato niente.
-La MIA prova finale? La MIA? Vuoi dirmi che ho solo perso tempo con te in questi mesi, Rach? E questo che mi stai facendo capire?- tuonò a occhi spalancati. E questi sembrava che brillassero.
-Rachel cara, io ho fatto tutto questo per te. Per aiutarti. E tu ora non ti fidi di me? Non capisci nemmeno che tutta questa faccenda appartiene a te e non di certo a me?- la squadrò intensamente e Rachel si paralizzò sotto la sua presa che si faceva sempre più salda. Sentiva che a momenti avrebbe iniziato a tremare.
-Io potevo benissimo farne a meno, sai? Sia di te che delle tue stupide sedute con le candele. Io non sono una piscialletto, né una stupida mocciosa, potevo continuare a farmi gli affari miei, e invece ho voluto aiutarti, starti accanto, perché pensavo lo meritassi- fu in questo momento che Zoe la lasciò andare e abbassò anche lo sguardo. -Ma forse ho sbagliato tutto, sono stata un’idiota a credere che fossi diversa dagli altri e potessi capirmi. Mi dispiace-. Tornò a guardarla, poi le sorrise debolmente. <prova finale- affermò decisa -così non sarai mai sicura di aver superato la tua paura, ma in fondo non sono affari miei- e detto questo si voltò, facendo quindi per andarsene. -Addio, colombina. Ognuna torna per la sua strada- e alzò una mano in segno di saluto.
Rachel lasciò che Zoe facesse due o tre passi, poi non resistette. Corse verso di lei e la afferrò per le spalle, affondando quindi il viso nei suoi capelli neri.
-No, Zoe, ti prego, non mi lasciare così- piagnucolò. Era più forte di lei, non era proprio capace di evitarsi quel tono da marmocchia di cinque anni, anche se ormai ne aveva quasi quindici. Non volle farci troppo caso, così si limitò ad abbracciarla da dietro.
-Sono io l’idiota, e lo sai bene. Tu hai ragione, hai fatto tutto questo per me, avresti anche potuto fregartene, è solo merito tuo se ora è tutto passato- esclamò sull’orlo delle lacrime, appoggiando pesantemente il capo alla schiena dell’amica.
-Non andare via, ti prego! Io ti voglio bene!- piagnucolò di nuovo.
Zoe la obbligò a lasciare la presa su di lei, ma fu solo per potersi voltare a guardarla in viso; la sua espressione si era ammorbidita.
-Mi vuoi bene … davvero?- chiese atona; Rachel annuì mentre si sforzava per non scoppiare in lacrime. Improvvisamente si era resa conto che davvero non esisteva niente di più importante di Zoe nella sua vita, che doveva fidarsi ciecamente di lei, perché Zoe era l’unica in grado di capirla.
La dark allora le prese la mano, la guardò intensamente negli occhi per alcuni istanti, poi le sorrise: -Allora sei pronta per la prova finale?- le domandò serena; l’altra fece di nuovo cenno di sì con il capo. -La MIA prova finale- affermò quindi Rachel mentre si asciugava dalle guance quelle due lacrime che le erano sfuggite nonostante i suoi sforzi.
-Che brava colombina che sei- si complimentò dunque Zoe sorridendo e passandole un braccio intorno alle spalle; a quel punto si incamminò con lei verso la strada.
-Proprio una brava colombina!- ripeté.
Da quel momento camminarono insieme in silenzio per un po’ di tempo.
 
**
Zoe le aveva offerto da mangiare sia a pranzo che a cena: il primo lo consumarono in giro, acquistando un paio di panini al primo bar che capitò loro a tiro, la seconda avvenne a casa di Zoe. Non cucinò sua madre, a quanto pareva non si sentiva bene ed era rimasta a letto per tutto il giorno; fu la dark a preparare tutto: fece due belle bistecche con contorno di purè di patate e non volle che Rachel si scomodasse ad alzare un solo dito per aiutarla.
Così la ragazza se n’era rimasta per tutto il tempo al tavolo della cucina mentre l’amica si prodigava ai fornelli, un po’ chiacchierando con lei, un po’ osservandosi le unghie pitturate di nero, come quelle di Zoe. Quel pomeriggio Zoe aveva insistito perché si applicasse il suo stesso smalto; era una piccolezza, ma a Rachel faceva piacere esserle simile.
Anche perché Zoe non aveva più dimostrato l’astio e la collera nei suoi confronti che le aveva riservato quella mattina sotto casa sua. E Rachel non aveva intenzione di rischiare che il fatto si ripetesse: aveva deciso che era giusto fidarsi di lei al cento per cento, semplicemente perché glielo doveva. Zoe era stata l’unica a capirla e a volerla aiutare mentre gli altri la prendevano in giro, e per altro giustamente. Era stata l’unica a non darle mai della bambina, sebbene dimostrasse spesso di essere tale. Era anche stata l’unica ad avere fiducia in lei, a credere che potesse farcela.
E se Zoe credeva fosse necessario sottoporla all’ormai famosa prova finale, doveva avere sicuramente ragione. Lei la sapeva sempre lunga, che voleva saperne Rachel in proposito?
La ragazza se l’era ripetuto più volte; aveva anche finito per non pensare più così spasmodicamente a ciò che l’aspettava. Se aveva davvero superato la sua paura non aveva niente da temere.
Dopo cena chiacchierarono ancora un po’, dopodiché Rachel aiutò Zoe a sparecchiare e a lavare i piatti; in questo caso la dark acconsentì a dividere le ultime mansioni della serata con lei e sembrò persino lusingata quando accettò l’offerta di Rachel in proposito.
Quando conclusero, Zoe lasciò l’amica da sola in cucina a finire di asciugare gli ultimi piatti, mentre lei si dirigeva al piano di sopra a salutare sua madre e ad assicurarsi che stesse meglio, ma fu presto di ritorno.
Fu proprio in quel momento che le parlò con espressione seria; le aveva preso le mani nelle sue e la guardava fissamente negli occhi.
-È ora, sai?- affermò risoluta, come se si stesse riferendo alla cosa più importante del mondo. O come se le stesse facendo presente che ormai era giunto il momento di condurla al patibolo.
Il suo sguardo dava l’idea di intendere più o meno quello.
Rachel sbarrò gli occhi e non rispose; per tutto il giorno aveva evitato di pensarci, ma ora che il momento si faceva imminente in lei tornavano a serpeggiare l’angoscia e l’inquietudine.
Sentiva che il cuore le batteva più forte. Forse un po’ troppo forte; quasi le girava la testa.
Zoe era ancora molto seria. -Siamo … anzi, SEI finalmente all’ultimo stadio, ora devi solo dimostrare di avercela fatta per davvero- le illustrò. Peccato però che Rachel ci stesse capendo ancora meno di prima.
-Co … cosa devo fare?- domandò pallida in viso e visibilmente frastornata.
-Hai paura?- chiese Zoe sorridendole e sfiorandole una guancia con le nocche, -un po’- confessò Rachel e subito temette che l’amica potesse adirarsi di nuovo per quelle sue parole. Fu per questo che si affrettò a ricordarle che si fidava di lei.
Fu in quel momento, allora, che Zoe prese a ridere con foga. Continuò così per quasi due minuti, tanto che Rachel si preoccupò che forse stesse impazzendo; e se fosse accaduto non sarebbe stato consolante, perché era lei ad essere in gioco quella sera e già le bastava non essere al corrente di ciò che l’avrebbe riguardata di lì a poco. A questo sarebbe soltanto mancato da sommare un’eventuale caduta nella follia da parte di Zoe e si sarebbe detta facilmente spacciata. Se doveva affrontare quell’ultima prova, che fosse, ma voleva per lo meno che quel maledetto mistero finisse.
E Zoe che rideva in quel modo sguaiato senza arrestarsi era inquietante.
-Sei forte, colombina mia- riprese la dark quando la sua ilarità finalmente si affievolì -di che cosa dovresti avere paura? È tutto a posto, è tutto molto più semplice di quanto credi- e lo disse scuotendo la testa; infine andò ad asciugarsi dagli occhi le lacrime causate dal troppo ridere.
-Ora posso sapere che cosa devo fare?- azzardò Rachel timidamente, ma subito venne delusa. Zoe sorrideva e agitava piano il capo.
-No, no, colombina. Non ancora. Te lo dirò quando saremo arrivate-
-Arrivate? Dove? Non restiamo a casa tua?-
-Sarebbe troppo semplice, no? Casa mia già la conosci- fece Zoe divertita, poi le strizzò l’occhio. -Avanti, colombina. Andiamo! Ormai è arrivato il momento- e detto questo la dark la trascinò praticamente fuori di casa.
Quella sera il clima era piacevole: l’aria era tiepida, non c’era umidità. Il cielo era oscurato giusto da qualche nuvola, ma niente di più. Rachel non aveva fatto altro che domandare all’amica dove la stesse portando e a fare che cosa, ma per quanto si sgolasse non ricevette mai la minima risposta.
Zoe sembrava quasi aver cambiato dimensione; pareva non sentirla. Lei la trascinava avanti con sé e basta, voleva soltanto condurla a destinazione.
Fu solo quando finalmente si fermarono che Rachel cominciò a capire; e quel che comprese non fu piacevole.
-Oh no, Zoe. Non vorrai mica che passi la notte qui, vero?- domandò spaventata e preoccupata, indicando con mano tremante i capannoni abbandonati che aveva a lato; quelli che si intravedevano da quel lato isolato del cortile della scuola.
L’altra le sorrise senza scomporsi, totalmente indifferente alla paura di Rachel. E il suo sorriso aveva assunto un che di spettrale al chiaro di luna.
-Rach, tranquilla. Che vuoi che sia? Per essere sicura di aver superato la tua paura devi passare una notte in un luogo che non conosci, tutto qui- le rispose con naturalezza.
-Tutto qui? Questi sono capannoni abbandonati … io non voglio restare qui, ho paura- e ancora una volta Rachel si ritrovò a piagnucolare.
-Che lagna che sei, colombina! Sempre a frignare! Fidati di me una buona volta: se non hai problemi a passare qui dentro questa notte significa che ce l’hai fatta- Zoe guardò Rachel sorridendo. -Potrai essere finalmente fiera di te. Non vuoi esserlo?-.
-Sì, ma …-
-Sempre ma, vero colombina? Sei così sciocca a volte. Avanti, niente paura-.
A Rachel tremava il labbro inferiore mentre guardava il sorriso imperscrutabile di Zoe.
-Devo restarci da sola?- domandò cominciando a piangere. -Che domande: è ovvio! Se sto qui a farti compagnia come facciamo a sapere se hai davvero superato la paura del buio?- Zoe la abbracciò e di nuovo la strinse molto forte. -Su, non piangere. Hai con te il cellulare, no? Se non ti senti tranquilla mi chiami e io verrò subito a prenderti. Questo vorrà dire che non sei ancora pronta, ma non importa, ci riproveremo più avanti, sai che io non mi prendo gioco di te-.
Rachel si sciolse dal suo abbraccio e si asciugò le lacrime.
-Davvero verrai subito, se ti chiamo?- chiese apprensiva. -Sì, Rach. Sì- rispose Zoe cantilenante, quasi fosse seccata dalla sua domanda.
-E tu dove vai adesso?-
-A casa. È vicina, no? Lo sai. Sarò qui in un baleno se riceverò una tua chiamata-.
Rachel deglutì e annuì, un po’ rincuorata. Ma non di certo molto.
-Tranquilla, d’accordo? Qui non ci viene nessuno- e mentre parlava Zoe aveva aperto la porta del primo capannone e aveva invitato l’amica a varcarne la soglia.
-Tu rilassati- le disse infine in tono solenne, mentre Rachel si trovava già all’interno del capannone. Gli occhi di Zoe brillavano di nuovo come quelli di un gatto.
-Vedrai che domani sarà una giornata splendida. Se ce la fai ti porto a festeggiare-.
Dopo quelle ultime parole la porta si richiuse con un tonfo, lasciando la povera ragazza nell’oscurità più totale. Da dietro l’uscio Rachel sentì i passi di Zoe mentre si allontanava.
 
**
Già, doveva stare tranquilla. Zoe la faceva facile, non era lei a trovarsi seduta per terra in un luogo buio e dimenticato da Dio e dagli uomini.
Che cosa poteva esistere di più semplice che rilassarsi in quelle condizioni? Un gioco da ragazzi, non c’erano dubbi. Però forse Zoe aveva ragione, doveva essere così: poco ma sicuro, Rachel non avrebbe mai più avuto alcun dubbio sul superamento della sua paura, se quella notte fosse trascorsa senza che fosse preda del panico.
E per il momento stava andando tutto bene; per lo meno, bene inteso nei canoni di ciò che si può pretendere trovandosi soli in un posto isolato in piena notte. Era un po’ agitata, questo sì, ma aveva smesso di piangere e si era messa il cuore in pace, decisa a portare fino in fondo quell’ultima, dannata, stramaledetta, odiosa prova. Magari davvero il giorno successivo Zoe l’avrebbe portata a festeggiare. E dove? Come? Si era domandata. Era stata molto vicina a lanciare la sua stessa testa contro la parete alle sue spalle quando in mente le era balenata l’immagine del Luna Park, con tanto di zucchero filato e giochi in cui si vincevano i peluche. Ma come le saltava in mente? Era possibile che le sue concezioni si fossero fermate all’età dell’asilo? Niente Luna Park, niente zucchero filato.
Zoe avrebbe saputo cosa fare, lei sì che ragionava come una persona adulta. Non per niente non l’aveva mai sentita piagnucolare come invece era solita fare lei.
Doveva toglierselo quel brutto vizio. Oh sì, non c’erano dubbi. Ma aveva già superato la sua paura del buio, il tormento di cui era certa non si sarebbe mai liberata, e per una ragazza che si comportava da mocciosa era senz’altro un gran traguardo.
Più avanti avrebbe pensato anche al resto.
In quel momento aveva altro per la testa. Tirò fuori dalla tasca il cellulare, pigiò un tasto qualsiasi e osservò il display che si illuminava: era mezzanotte. Solo mezzanotte.
Ne aveva di tempo da trascorrere lì dentro ancora, tanto valeva che si desse pace; almeno un po’ di più di quando se ne fosse data fino a quel momento.
In effetti, Zoe aveva visto giusto anche in quel caso: si sarebbe sentita fiera di sé la mattina dopo, se tutto fosse andato bene. E lei voleva davvero sentirsi così, non le era mai capitato prima.
Chiuse gli occhi, appoggiò il capo alla parete e si arrese al buio.
Tutto sommato oramai lo conosceva, aveva imparato ad ascoltarlo. Dentro non vi esisteva niente di mostruoso.
Tutto stava nella capacità di resistere … ancora quanto? Sei ore? Non era consolante, ma se non altro non si sentiva in procinto di urinarsi addosso, quindi non avrebbe potuto essere tanto peggio di quella notte diventata famosa all’istituto.
Avrebbe atteso, all’alba Zoe sarebbe andata a riprenderla e a quel punto avrebbe finalmente tirato un sospiro di sollievo. Anche perché non aveva più intenzione di farsi trascinare in esperienze simili. Le andava bene che quella fosse la prova finale, ma poi non voleva più sentirne parlare.
Meglio le scappate notturne sulla spiaggia sotto la pioggia.
Sbuffando distese le gambe sul pavimento. Pensò che tutto sommato era stata fortunata: se quella prova le fosse toccata in inverno sarebbero stati guai seri; forse non avrebbe avuto problemi con il buio, come stava effettivamente avvenendo in quel momento, ma non dubitava che sarebbe diventata un ghiacciolo.
L’uomo muore di freddo, non di oscurità. La frase preferita di Zoe padroneggiava sempre in quel contesto.
E Rachel non aveva intenzione di morire per il buio, non in quel momento in cui vi aveva preso confidenza.
Lo pensò anche quando cominciò a sembrarle di sentire quei rumori.
Di rumori non ce n’erano davvero. Si disse più volte. Certe cose avvengono soltanto nei film. Si impose di credere. L’uomo muore di freddo, non di oscurità. Si ripeté.
Ma quei rumori continuarono e presto fu sicura di non immaginarli.
Parevano dei cigolii, come quelli delle porte i cui cardini abbiano bisogno di un’oliatura. E forse, ascoltandoli attentamente, poteva anche sembrare di catturare dei lamenti.
Si strinse con forza le ginocchia al petto e si impose di respirare a fondo. Forse non stava immaginando quei rumori, ma con ogni probabilità non erano poi così vicini come le sembravano.
Forse non avevano niente a che vedere con il capannone in cui si trovava, né con lei.
Forse presto sarebbero cessati.
Invece si accrebbero. E a questi si sommarono le voci sussurrate. Non che Rachel capisse che cosa stessero dicendo, ma erano chiare, tante e sovrapposte.
Immediatamente le venne da piangere, ma poi ricordò le parole di Zoe: era semplice, bastava che la chiamasse e lei si sarebbe subito precipitata a prenderla e l’avrebbe portata via.
E non era poi così importante che non avesse superato quella stupida prova finale, Rachel non aveva certo intenzione di restare lì in compagnia di quegli strani fenomeni.
Improvvisamente il buio non le sembrava più così conosciuto; a un tratto le parve anche essersi fatto più fitto ed era inquietante la rapidità con cui stava tornando a spaventarla.
Il numero lo compose con mano tremante, ma infine riuscì a far partire la chiamata; le scappò un grido quando la voce robotica dall’altro lato della linea la informò che il cliente chiamato era irraggiungibile. Zoe non era rintracciabile. Zoe non sarebbe accorsa per salvarla dalle tenebre da cui si sentiva nuovamente inghiottire.
Al diavolo, a che cosa erano serviti quei sei mesi? A farla trovare in una situazione peggiore di quella originaria? E quella volta aveva le sue buone ragioni: non stava piangendo perché il buio sembrava nascondere qualcosa di mostruoso, ma perché era certa che lo celasse davvero.
Nel frattempo, le voci al suo udito si erano fatte più insistenti, anche se restavano ancora incomprensibili.
Il cuore le saltò irrimediabilmente in gola quando, in fondo al capannone, fu certa di aver scorto un’ombra in movimento.
D’istinto si alzò in piedi e iniziò a indietreggiare; l’ombra nel frattempo era apparsa di nuovo e pareva proprio venirle incontro. Accennò anche una risata.
Rachel gridò. Disperatamente tentò di nuovo di comporre il numero di Zoe, ma per il terrore il cellulare le cadde di mano e si aprì, lasciando scivolare all’esterno la batteria; non si curò di abbassarsi per recuperarlo. Stava ancora indietreggiando, anche perché si era resa conto che non c’era soltanto un’ombra attorno a lei. Erano varie: cinque, forse sei, non era stata in grado di distinguerle chiaramente.
Nel frattempo i rumori e le voci sussurrate erano cessati, ma questo non la sollevò; era tornato quel silenzio, quello spettrale e atroce. Quello che risvegliò prepotentemente la sua innata paura del buio.
Perché se lì dentro ci fosse stata la luce non sarebbe accaduto nulla, è solo nell’oscurità che si nasconde l’ignoto, l’orribile, l’atroce e l’errato.
Solo nel buio.
Subito riprese a sentire, come non le capitava da ormai molto tempo, quelle mani gelide che la toccavano nell’invisibilità del nulla. Si scosse urlando nel tentativo di scrollarsele di dosso, ma senza successo, perché quelle dita ghiacciate esistevano solo nella sua mente. Ma non poteva scacciarle; erano tornate.
E le ombre avanzavano ancora, come degli spettri. Sembravano averla attesa fino a quel momento.
Se solo Zoe avesse saputo. Se solo Zoe avesse previsto ciò che sarebbe capitato.
Zoe. Che non sarebbe giunta per sottrarla a quell’inferno in cui temeva di morire.
Camminando all’indietro, improvvisamente inciampò nei suoi stessi piedi. Quando si rialzò stava piangendo più forte.
Aveva avuto ragione fin dal principio, non avrebbe mai dovuto chiedere aiuto a Zoe né darle retta: non bastava conoscere il buio, non era sufficiente abituarsi a esso e lasciarvisi avvolgere.
Il buio era subdolo, si camuffava da amico per poi dimostrarsi un mostro tremendo.
Aveva sempre fatto bene a temerlo, avrebbe dovuto continuare a farlo, senza ricorrere a stupidi stratagemmi per evitarlo; avrebbe dovuto continuare a dormire con la luce accesa nella sua stanza, in quel modo non si sarebbe mai trovata in quella situazione.
E intanto le ombre erano ancora lì, anche se ormai si erano fermate.
Erano poco visibili, ma Rachel le notava e più di ogni altra cosa le sentiva. Percepiva i loro respiri; o forse si trattava del respiro del buio stesso, che era pronto ad inghiottirla.
Perché finalmente l’aveva in pugno, poteva fare di lei ciò che voleva. Era diventata sua schiava, si era arresa a lui convinta di potersi fidare.
Ma ormai quel che contava era soltanto uscire da lì.
Tra le lacrime sussurrò più volte il nome di Zoe, come a volerla invocare, ma lei non sarebbe accorsa. Lei non c’era. Rachel era sola, come forse era sempre stata.
Fu d’improvviso che, voltandosi, si ritrovò dinanzi una ragazza vestita con una tunica nera, il viso pallido e la bocca aperta macchiata di sangue. Non aveva idea da dove provenisse quella luce improvvisa che le aveva illuminato il volto, mostrandole l’abominio in tutto il suo orrore.
La ragazza-mostro si protese verso di lei con un balzo; Rachel indietreggiò e fu per un soffio che riuscì a trovare la porta che conduceva all’esterno.
Scappò a gambe levate, senza sapere dove si stesse dirigendo, anche se era a pochi passi dalla scuola.
Stava piangendo, urlava. E si era urinata addosso.
 
**
Zoe osservò Rachel che si dileguava nella notte e rise mentre la sentiva urlare.
Era stato un vero spasso prendersi gioco di quella ragazzina; per sei lunghi mesi si era finta sua amica, si era anche scomodata a cercarla, ma ne era proprio valsa la pena. La scena di quella notte la ripagava di tutto il tempo perso.
Quando non la vide più stava ancora ridendo, ma si ricompose per richiamare gli attori.
Erano i compagni di classe di Rachel, i quali avevano accettato di buon grado di prendere parte a quello scherzo maligno. In fondo non chiedevano di meglio che umiliarla ancora.
Ma lei no, non l’aveva fatto solo per quello.
Per Zoe c’era di più, lei andava oltre.
Quando le furono tutti dinanzi, mentre veniva illuminata dalla grossa torcia che aveva mostrato a Rachel il viso della ragazza con la bocca sporca di sangue, e che veniva retta da uno dei ragazzi, si inchinò a tutti loro senza demordere dal suo largo sorriso.
-Complimenti, colombini. Lo spettacolo è finito. Ora tutti a nanna, prima che arrivino i veri mostri- scherzò sadica e compiaciuta.
I compagni di classe di Rachel confabulavano a bassa voce, ma a Zoe non interessava quel che si dicevano. Tra di loro c’erano anche quelli che avevano portato lo stereo e l’amplificatore.
Quelli con cui erano stati trasmessi i cigolii e le voci sussurrate. Erano stati tratti da un film dell’orrore: ottimo mezzo per spaventare qualcuno.
Anche se la trovata migliore senza dubbio erano state le ombre che si muovevano verso la malcapitata. Quello doveva averla spaventata a morte, anche se in realtà si trattava solo di semplici ragazzi vestiti di nero che si muovevano nell’oscurità.
Prima ancora che gli attori se ne andassero, Zoe aveva già smesso di rivolgersi a loro e non li stava nemmeno più guardando.
Rideva di nuovo, e sonoramente.
Era soddisfatta del proprio spettacolo macabro, in fondo le sembrava un po’ un’opera d’arte.
Perché non poteva esistere niente di più spettacolare che mettere paura a una ragazzina stupida che aveva abbindolato per sei mesi; una ragazzina della quale aveva ottenuto la fiducia.
In alcuni momenti era arrivata a credere che Rachel si fosse innamorata di lei, e questo, se fosse stato vero, avrebbe reso tutto ancora più divertente.
Era tanto presa dai suoi pensieri di gloria che quasi la infastidì quella voce che la chiamò.
-Che vuoi?- sbottò infatti senza voltarsi; voleva bearsi della notte e di quel che le sussurrava.
La ragazza con la tunica nera, il volto truccato per apparire cadaverico e la bocca macchiata di rosso, era dietro di lei.
-Sarà tornata a casa?- fece questa con tono preoccupato. Si trattava di Judith, la compagna di classe di Rachel che si era sempre prodigata con molta allegria a sfotterla a più non posso.
-Dettagli- fece Zoe secca. Perché quella sciocca stava sciupando la sua euforia?
-È stato divertente, Zoe. Ma ho paura che tu abbia esagerato. Che abbiamo esagerato tutti. Che cosa facciamo se Rachel non torna a casa e le succede qualcosa?-.
In quel momento Zoe si voltò verso di lei e la fulminò con lo sguardo.
-Smettila di scocciarmi. Vattene- sibilò tra i denti, e i suoi occhi brillavano di nuovo.
-Non te ne frega proprio niente? Insomma, va bene uno scherzo, ma forse abbiamo superato la linea. Dovremmo andare a cercarla- si impuntò Judith.
-Se ci tieni tanto, vacci tu, io ho di meglio da fare-
-Zoe …-
-Quale parte di “vattene” ti è poco chiara, colombina? Àndale! Telare!- e detto questo smise di prestarle attenzione.
-Sai cosa, Zoe? Questa sera abbiamo sbagliato tutti, ma tu sei veramente cattiva. Lo sei per davvero … dentro-; dopodiché Judith si arrese e se ne andò.
Quelle parole stavano facendo sorridere Zoe; sì, lei era cattiva. Lo era sempre stata, le piaceva esserlo. Era proprio per questo che si era presa gioco di Rachel fingendosi sua amica per poi spaventarla a morte con quello scherzo crudele. Non lo faceva per infantilismo come tutti gli altri, le prese in giro verbali erano una stupidaggine di poco conto, non valeva la pena abbassarsi a tanto.
Lei aveva giocato con Rachel perché era stata una goduria farlo; non era passata notte senza che ridesse di gusto per quel che aveva in serbo per lei.
Perché Zoe era cattiva.
Lo era diventata quel giorno di sei anni prima: papà era morto da poco e lei, anche se sua madre le aveva detto di non toccare l’urna contenente le sue ceneri, l’aveva presa in mano comunque, perché voleva tenersi stretto il genitore scomparso; voleva sentirselo vicino.
Ma poi il contenitore le era caduto, e le ceneri si erano sparse per casa senza che fosse più possibile recuperarle interamente.
Quel giorno sua madre le aveva detto per la prima volta che era cattiva, e da quel momento in poi glielo aveva ripetuto infinite volte.
Ma fin dal primo momento in cui aveva sentito rivolgersi quella parola, aveva capito che era la sua vera natura, e doveva essere tale.
Lei era cattiva; diceva bene Judith, lo era dentro.
E non avrebbe potuto sentirsi più felice per il fatto di esserlo.

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