Ukiyo-e

di Sofja Ivanovna Tsugumi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I. ***
Capitolo 3: *** AVVISO IMPORTANTE! ***



Capitolo 1
*** Prologo ***



 
Prologo
 
 


 




“Il nostro destino esercita la sua influenza su di noi anche quando non ne abbiamo ancora appresa la natura: il nostro futuro detta le leggi del nostro oggi.”

-  F. Nietzsche
 


 





Forìo, isola d’Ischia, 2015
 

I riflessi arancioni del tramonto che inondavano piazza Matteotti a quell’ora della sera mi costrinsero a inforcare nuovamente gli occhiali da sole alla John Lennon, acquistati pochi giorni prima nel negozio dell’ottico di fiducia della nonna. Mi aveva fatto uno sconto talmente generoso che mi era sembrato un peccato non approfittarne. Probabilmente mi davano un’aria un po’ da hippie, ma era proprio questo l’effetto che volevo ottenere: un’americana degli anni ’80 sbarcata non si sa come su una delle più rinomate isole italiane, con una borsa di tela colorata e i pantaloncini schiariti dalla salsedine. Mancava soltanto la coroncina di margherite sui capelli e il gioco era fatto. Presi posto  sulla mia panchina preferita, quella davanti al Caffè Internazionale o “Bar Maria”, con un bicchiere di plastica colmo di centrifuga in una mano e “Musica per camaleonti” di Truman Capote nell’altra. Il mio fidanzato me lo aveva regalato il giorno del mio compleanno, gli occhi che brillavano e un sorriso enigmatico dipinto sul viso. «Ti piacerà,» mi aveva mormorato nell’orecchio, per poi consegnarmi il regalo e scoccare un bacio sulla mia guancia. In realtà non avevo ancora iniziato a leggerlo, perché mi era sembrato più opportuno riservarlo per quella vacanza tranquilla e solitaria: avevo scoperto pochi anni prima che Truman Capote, insieme a Wystan Auden ed Henrik Ibsen, aveva soggiornato a lungo a Forìo e aveva eletto il Caffè Internazionale come suo preferito, per cui mi era sembrato un dovere consacrare quel libro al luogo dell’anima del suo autore. Apparentemente, mi ero rifugiata ad Ischia per abitudine, perché ci andavo da quando ero bambina e quell’isola era impregnata dei ricordi di quegli anni ormai lontani. Ma c’era un’altra ragione, ben più segreta. Non ero consapevole di quanto fosse al sicuro da orecchie indiscrete, ma non avevo il coraggio di rivelarla a nessuno, neanche ai quadri che vegliavano sulla mia casa da più di vent’anni. Nel peggiore dei casi, coloro che mi conoscevano bene avrebbero potuto intuirlo. La verità era che avevo bisogno di una storia come gli esseri umani necessitano di ossigeno per sopravvivere. Avevo iniziato a riempire interi quaderni molto presto, poco dopo aver imparato a leggere e scrivere. Intere pagine colme di inchiostro e copertine consunte, questa era la cornice della mia infanzia; un rito consueto che avevo continuato ad onorare fino all’università. Il primo quaderno me lo aveva regalato il nonno: ricordo che mi prese per mano e mi sussurrò che le storie sono magiche, possono librarsi in volo e hanno vita propria. Se le avessi spruzzate d’inchiostro per riprodurle sulla carta, avrei donato loro l’unica forma di eternità esistente al mondo. Sapere questo mi aveva donato un senso di potenza inaudito. Mi rendo conto di quanto sia stupido confessarlo, ma mi sentivo Dio. Ero un autentico Dio creatore e  burattinaio. Poi, un giorno, il blocco; non riuscivo più a scrivere nulla. La vita là fuori scorreva placida come l’olio, ma il mio mondo interiore era un orologio rotto: si era come congelato, cristallizzandosi nello spazio circostante. Era divenuto una pagina bianca, simile a quella di Word che non accennava a farsi riempire di caratteri, anche quelli più insignificanti. Eppure, nel mutismo supplichevole che quel bianco rifletteva,  sentivo che una soluzione ci doveva pur essere, ma a quanto pare avrei dovuto aspettare pazientemente che qualche storia venisse a farmi visita, in attesa di essere scritta. Semplicemente, Ischia era il luogo più adatto per attenderla. Ad un tratto, il mio cellulare squillò, rompendo quella pace solitaria.
Click.
« Terra chiama Zelda!»
Non cambiava mai. Sorrisi.
«Più terra di così si muore, Takei.»
Accavallai le gambe e mi adagiai sullo schienale della panchina, lasciando che il succo dolciastro della centrifuga scivolasse in gola.
« Fammi indovinare, tua nonna ti ha costretta ad una maratona di precetti della sua gioventù illuminata! »
« Più o meno … » Il bicchiere era quasi vuoto e i miei occhi presero a guizzare a destra e a sinistra, in cerca di un cestino dei rifiuti.
« Hai il taccuino con te, vero? »
« Mmm …» replicai, mandando giù l’ultimo sorso di centrifuga. Ero stata beccata con le mani nel sacco e dovevo tentare di svignarmela. « Perché? In fondo, si tratta dei soliti, corroboranti sermoni da vecchi. A chi piace essere fatto la predica perché è fuggito a Cartaromana con la moto e non con l’automobile? »
Risate lontane milioni di chilometri di distanza.
« Sappiamo tutti che tua nonna non recita sempre i soliti sermoni da vecchi, Zelda. Neanche molte poesie, a dir la verità. L’ultima volta che l’ho vista ha declamato l’intero Atto III del Sogno di una notte di mezz’estate. »
Tutto vero. Sospirai, sconfitta in partenza. « E va bene, Edogawa Ranpo. Ora, sapresti dirmi dov’è il mio taccuino? »
Tastai l’ampia tasca della borsa per sfiorarne la consistenza compatta. Era lì, presente e rettangolare.
« Non ho indizi a portata di mano, mi dispiace. »
« Ma che peccato! » dissi, un’aureola finta di scherno intorno al flusso della mia voce. « Stavo iniziando a crederci sul serio, alle tue doti investigative! »
Immaginai le sue labbra curve in un ghigno nelle prime luci del mattino, il ghigno di chi ti conosce troppo bene e sa sventare i tuoi piani segreti con facilità. Takei doveva averlo intuito fin troppo facilmente, dal momento che sì, avevo smesso di botto di occupare intere giornate china su un quadernetto rilegato in tweed scozzese o la tastiera del portatile, ma non avevo dato alcun segno di voler abbandonare definitivamente i cento mondi da cui spremevo cibo per le mie carte. Avrei potuto viverci per altri mille anni, partorendo trame intricate senza scrivere una riga, per quanto mi riguardava.
 
Dall’altra parte della linea, un sospiro.
« Takei? »
« E’ che sono felice, ma mi manca … »
« Cosa?»
«Tutto» rispose, « soprattutto tu. Mi manca vederti pensare in varie posizioni, mi manca vederti scrivere e – letteralmente – osservare l’entusiasmo trasudare dal tuo corpo. »
Avrei voluto rispondergli che era  il mio essere entusiasmata da qualcosa derivava in piccola parte dall’immenso potere che la sua energia vitale – il triplo della mia – esercitava sul mondo esterno.
 « Sapere che hai il tuo taccuino a portata di mano è … è … inebriante. »
Inebriante.
Entrambi lasciammo ballare quella parola in bocca.
« Inebriante. Mi piace questa parola,» replicai, «sa di … Ecco, caramelle all’anice. Sì, come quelle che succhiavo da piccola. »
« Davvero? Ieri sono andato al tempio Hozen-ji
[1] con mia nonna e ne ho fatto una scorta immensa. Si può dire che ne avessi la nausea, alla fine. »
« E le hai lasciate tutte a lei? Vergognati! »
«Ma no, sei forse impazzita?» Rise ancora più forte. « Solo per te, sto studiando un modo per fartele gustare appieno con tutto il corpo. »
A quel punto, scoppiai a ridere anch’io. « Tu sei un pervertito della peggiore specie! »
« Zelda-chan, te ne sei accorta solo adesso? »
« No, è solo che le tue fantasie erotiche potrebbero competere a pieno titolo con quelle di Dani Daniels. O Bree Olson
[2]. A te la scelta. »
Si stava facendo tardi. Mancavano soltanto dieci minuti all’appuntamento con la nonna.
« Be’, è diverso: loro hanno un copione da seguire, la mia è tutta inventiva allo stato puro. »
Ghignai. « Spero di saggiarla presto sulla pelle, la tua inventiva allo stato puro. »
« Oh, io non vedo l’ora,
watashi no hana[3]
. » Mormorò, strascicando le ultime sillabe.
Mio fiore. A volte era schifosamente romantico, peggio di mio padre quando divagava sul rapporto di coppia, uno dei suoi argomenti preferiti. O delle melodie eccessivamente stucchevoli di Junjou Romantica. Così zuccheroso da pensare che ti stesse prendendo per il culo. E invece no. Il nostro era un rapporto di costante odi et amo, fiamme roboanti e gentili increspature dell’acqua di mare, yin e yang. Bianco e nero.
«Devo andare, Zelda-chan, » disse dopo un po’, alzando la voce per sovrastare il coro della fiumana di gente. «Devo prendere la metro, o non arriverò mai a casa. »
« Aspetta! Quando mi raggiungerai? »
Tremavo, anche se non sapevo il perché.
«Appena posso» rispose. «Su, novemila chilometri non sono nulla, se li compariamo alla distanza Plutone – Terra! »
In quel momento, le sue parole sfumarono nel vuoto, lasciando cadere la linea.
Non era semplice sopportare la sua lontananza: lasciava sempre un vuoto dentro di me, colmato soltanto quando sapevo di averlo accanto. Quando accadeva, sopportavamo tutto come due stoici, ma dentro piangevamo. Fortunatamente, Takei in Giappone era accolto a braccia aperte e questo mi rassicurava moltissimo. Sapevo quanto fosse legato alla sua famiglia e, come ogni giapponese che si rispetti, al suo paese, ed ero consapevole di quanto gli fosse costato adattarsi alla vita negli Stati Uniti, nonostante fosse la persona più internazionale e meno giapponese di questo mondo. La sua vita era un prisma la cui luce, nel buio, si rifletteva in mille specchi, così nipponici e talvolta così poco nipponici da spiazzarmi, quasi. Si trovava ad Osaka dai primi di luglio e non sarebbe rientrato a New York prima del dodici di agosto.
 
 
… distanza Plutone – Terra!
… distanza Plutone – Terra!
… distanza Plutone – Terra!
 
Mi diressi velocemente verso Vico Piazza,  su cui si affacciava la porta della casa della nonna. Il senso di rilassatezza che fino a poco prima aveva colmato il mio spirito era improvvisamente svanito, lasciando al suo posto malinconia e smarrimento. Difatti, quando lei aprì la porta e mi invitò ad entrare, avvertii i suoi occhi indagatori indugiare su di me. Non disse nulla, ma per una come lei era sufficiente una rapida radiografia oculare per indovinare anche il codice fiscale di un qualunque individuo. Va bene, forse sto esagerando, ma vi assicuro che l’iperbole è una figura con un vasto fondo di verità: non a caso, è la mia preferita tra tutte le figure retoriche.
«Spero che non ci sia del sale tra i tuoi capelli,» esclamò «fa male alla capigliatura. Molto, molto male»
«Sono perfettamente a posto, nonna!»
« Così come la tua testa è tra le nuvole.»
Tutto normale, anzi buonasera, nonnina!
«Mia carissima nipote, mi risulta che tu abbia un’intelligenza ben sviluppata, vedi di non sprecarla come fece il bradipo del Borneo.»
Quella del bradipo del Borneo era una vecchia storia trita e ritrita, che i nonni si ostinavano sempre a voler raccontare ogni sabato e domenica e a cui aggiungevano particolari ogni settimana che passava. Negli ultimi anni di vita del nonno, le memorie erano diventati i loro averi più preziosi. Questo ricordo si basava fondamentalmente su un bradipo che, sospeso da una liana, aveva deciso di utilizzare affettuosamente la testa della nonna come gabinetto provvisorio. Il nonno aveva dovuto sudare sette camicie per calmarla. Da allora, lei aveva iniziato a provare antipatia per quelle creature pelose ed eccessivamente quiete e “sbadate”, come diceva.
«Qui le strade sono pericolosissime e io non vorrei andarmene all’altro mondo per causa tua. Per giunta, prima del tempo»
Aveva ancora paura di varcare quella soglia.
Abbassai gli occhi. « Ma … sono andata pianissimo!»
«Non importa, da domani prenderai l’auto.»
Niente da fare. Decisi, tuttavia, di volgere la situazione a mio favore.
«Devi aver vissuto una vita molto spericolata per odiarla così tanto, nonna!»
Lei sorrise sotto i baffi. «Nient’affatto, Zelda. Io adoro la vita spericolata, ma sono stata graziata molte volte e la ruota della fortuna non gira ugualmente per tutti. »
« Tu credi nella fortuna?»
Ero stupefatta. Com’era possibile che un solido arbusto come lei si affidasse alla semplice fortuna?
« Perché non dovrei?» replicò «la mia vita si è sempre rivelata un mucchio di punti interrogativi, pericoli scampati, incontri provvidenziali … Rocce che parevano essere destinate all’eternità millenaria, poi crollate davanti ai miei occhi.»
Sedette sulla sedia a dondolo del soggiorno, quella che in passato era stata del nonno, e sospirò.
« Hai gli stessi occhi di nonno Jean,» mormorò poco dopo, fissandomi con tenerezza.
Fu allora che raccolsi il coraggio a due mani e le posi la domanda più complicata di tutta la mia vita. O meglio, la seconda domanda più complicata della mia vita; la prima era un’altra.
« Ti manca tanto il nonno, nonna?»
Lei non rispose subito: fissò prima la galleria di fotografie esposte nelle vetrine del soggiorno. Tra tutte quelle fotografie, ce n’era una che destava sempre un turbinio indescrivibile dentro di me. Non era particolarmente romantica come ci si potrebbe aspettare, eppure era talmente densa di significato da lasciarmi senza fiato: vi erano raffigurati il nonno e la nonna seduti su una passerella, credo sul lago di Costanza. Lui stava reggendo la canna da pesca e lei gli stava passando una minuscola esca. Fin qui nulla di eclatante, se non fosse stato per l’abilità del fotografo nell’aver catturato proprio l’istante clou della vicenda: lo sguardo che si erano scambiati in quel preciso momento. Era un’occhiata di complicità, direi oggi, come quello che si scambiano coloro che hanno scelto volontariamente di giocare la vita in squadra e sono pronti davvero a difenderla con le unghie. Insieme.
«Sì, Zelda. Mi manca tanto,» rispose a bassa voce, come se volesse confidarmi un segreto. Chissà quanti altri ne custodiva …
Poi, come se fosse stata colta da un profondo imbarazzo, tossì debolmente e mi domandò a bruciapelo come andassero le cose con Takei. Le raccontai della breve conversazione telefonica avuta poco prima e lei rispose semplicemente con un sorriso.
«Mi piace molto, quel ragazzo,» sussurrò. «Anche tu hai un’anima un po’ giapponese. Proprio come me»
Risi. «E questo cosa centrerebbe con Takei, nonna?»
«In teoria nulla. Ma in fondo, se siete riusciti a far convivere due culture così diverse in una tale armonia, un perché dev’esserci,» rispose.
«Armonia. Che parola grossa, nonna!» esclamai.
« ‘Armonia’ vuol dire anche esasperanti litigi, nipotina. Talmente esasperanti da preferire la battaglia delle Somme,» ridacchiò. «Ma ti assicuro che una volta fatta la pace ed essersi finalmente compresi, ne vale la pena»
Ascoltare il suo francese elegante mi riempì di gioia: ero tornata ai tempi della mia infanzia, quando lei e il nonno battibeccavano in francese e in greco, la seconda lingua della nonna. Nonno era un ebreo parigino, emigrato giovanissimo negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni contro tutti quelli della sua razza, giudicata inferiore dai falsi antropologi messi al Governo; mia nonna era figlia di un commerciante di seta di Saint Germaine e della figlia di un proprietario terriero di Atene, per cui, sin da piccolissima, fu abituata ad un solido bilinguismo che avrebbe influito molto sulla sua vita. Io ero il risultato di una matassa di culture talmente ingarbugliata da risultare quasi snervante da sbrigliare.
 
 
 
Per cena, la nonna aveva preparato dei ravioli ripieni di frutti di mare con una spolverata di burro e menta, il che, dopo essermi nutrita per quasi tre giorni di crackers e succhi di frutta, non poteva che farmi piacere. Perciò, dopo aver apparecchiato la tavola con tutti i crismi, la attesi con trepidazione. Si presentò con uno dei suoi soliti vestiti a fiori, la collana di perle e il bastone di legno intagliato, divenuto ormai indispensabile. «La zuppiera è sul tavolo della cucina, nipotina,» disse con un sorriso. Andai a prenderla. Quando finalmente portai alla bocca il primo raviolo fumante della serata, mi stupii ancora una volta del suo sapore. Era morbido, rotondo e deciso: in poche parole, casa. Ero definitivamente a casa, in un luogo in cui ogni san pietrino nascondeva storie del mio passato.
«Dio, quanto mi mancavano!» esclamai, soppesando ogni boccone sulla lingua e lasciando che il palato godesse di ogni singolo istante di quell’orgasmo culinario.
La nonna quasi non toccava nulla, sbocconcellava il tutto come un uccellino e mi teneva d’occhio con un sorriso.
«Sei così magra,» disse «qualche chiletto in più non ti farebbe male.»
In questo assomigliava a tutte le nonne: la sua prima preoccupazione consisteva nel non lasciarti morire di fame e di stenti anche se eri sazio come una botte e, per giunta, in evidente sovrappeso. Da bambina, immaginavo che, tutte le domeniche, le nonne si riunissero in un esercito infinito, armate di pentole e teglie stracolme di delizie ipercaloriche. Per colma dei suoi piatti, ero costretta a rotolare per strada e addio karatè e agili combattimenti corpo a corpo.
«E’ lo stress, nonna.»
Il suo sguardo divenne più penetrante.
«O magari centra qualcosa anche Takei?»
Scoppiai a ridere. «Nonna, Takei mi ingozzerebbe come un maiale, se ne avesse la possibilità. Cucina certi ramen …»
«Oh, quanto mi mancano i ramen! E anche le alghe wakame, quelle condite con qualche cucchiaino di polpa di granchio! Ritornerei in Giappone anche solo per mangiarne una scodellina … »
La sua espressione si era fatta sognante, e mi faceva tenerezza.
«Quanti anni ci hai vissuto, nonna?»
Si riscosse malinconicamente dai suoi sogni per poi planare sulla Terra.
«Il tempo necessario per non dimenticare nulla di esso,» rispose, per poi infilzare un raviolo con la forchetta.  
«E cioè?»
Alzò gli occhi dal piatto. «Non so se questa domanda mi piaccia o meno …»
Ridacchiai. «Non sei obbligata a raccontarmi tutto per filo e per segno, nonna!»
Sospirò. «Lo sapevo.»
Aveva smascherato tutte le mie intenzioni senza che io proferissi parola.
Il vero ponte tra passato e presente era il nonno, non lei. E adesso, non riusciva ancora a riconoscersi in quel ruolo.
«Non so con quali parole li trasmetterai ai posteri, ma sappi che stai per ereditare tanti, troppi anni di storia. Non so se riuscirai a guardarmi con gli stessi occhi di sempre, quando sarà tutto finito. Perché Zelda,» mormorò, lanciandomi un’occhiata penetrante «non tutto è come sembra o come credi, in questa storia. Siamo uno, nessuno, centomila
La mia mente volò alle maschere grottesche appese alle pareti della cucina, nascoste all’ombra della cappa assorbente.
«Forse sono nata per questo, nonna. Per dare forma a tutto ciò che vedo negli occhi della gente e sento nelle loro parole apparentemente vacue e senza senso. Verso la verità, per quanto possa esistere la verità.»
Questa risposta era perfettamente coerente con i miei pensieri, e le piacque. Solo per questo infatti, accettò di emergere da quel limbo con le pareti fatte di sussurri silenziosi, come una misteriosa creatura marina che abbandona momentaneamente gli abissi bluastri e familiari senza sapere quando vi farà ritorno, ma consapevole di ritornarvi nuova, con l’anima contaminata da nuove idee e gli occhi che guizzano lontano, più lontano del buio. Il suo viso era ormai privo di quella coltre di imbarazzo.
«Allora sei pronta?»
«Io sono sempre pronta.»
«Bene, cominciamo.»
 

 
 

[1] Si trova ad Osaka ed è il tempio dell’amore e della fertilità.          
[2] Attrici porno americane.
[3] In giapponese, “mio fiore”.

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Capitolo 2
*** I. ***


֍   Ukiyo – e
 


 

Parte I
 


 
 
 





Kyoto, 1930
 
 


Uno.
Buio totale e migliaia di esserini vorticanti in quel nugolo di bollicine.
Due.
Avvertì la piccola sagoma del cagnolino a pochi metri da lei, ma non riuscì a individuarla. Agitò le braccia a caso, nuotando a tentoni, e finalmente spalancò gli occhi.
Tre.
«Dove sei, piccolino?»
L’acqua bruciava i polmoni e gli occhi, e la sensazione di non farcela assumeva un colore sempre più tetro e reale. «Chissà starà pensando Vincent … e quella bambina di cui non ho nemmeno capito il nome.»
Finalmente lo scorse: era lui, piccolo e fluttuante, in procinto di perdere aria per sempre.
Quattro.
Afferrò la minuscola bestiolina con una mano.
«Resisti, piccolino. Resisti!»
I suoi polmoni supplicavano ossigeno.
Cinque.
Si schiantò contro la superficie torbida dello stagno.
Aria.
«Saguru-chan!»
La bambina non doveva essere molto più piccola di lei. Eppure, ad ogni suo urlo disperato, le si stringeva un po’ di più il cuore.
Guardò la piccola palla di pelo tra le sue braccia: tossicchiava e piangeva debolmente; se non fosse stato portato subito in un luogo adeguatamente riscaldato, avrebbe rischiato un’infreddatura non di poco conto.
«Saguru-chan!»
La bambina quasi glielo strappò dalle braccia; le lacrime le rigavano il volto delicato e gli occhi rossi sprizzavano gratitudine.
«Arigatou! Grazie, grazie …»
Irène si rese conto solo in quel momento che intorno allo stagno si era riunita una piccola folla; era sicura che le guance stessero assumendo un colore scarlatto, simile a quello delle ciliegie estive appena raccolte. Avrebbe solo voluto prendere  i suoi fratelli e scappare via di lì, lontano da tutti.
Li vide lì, insieme agli altri bambini: la fissavano stupiti, senza sapere cosa fare. Erano imbarazzati anche loro, questo lo sapeva.
«Midori, non la aiuti nemmeno ad uscire dallo stagno? Ha freddo anche lei!»
D’istinto, afferrò la mano allungata verso di lei. Era calda e sicura, le ricordava quella di suo padre quando le accarezzava il viso. Lentamente lasciò che le pupille roteassero nella sua direzione ed fu allora che notò che il suo salvatore era un bambino, l’unico peraltro che si fosse offerto di aiutarla. Non poté fare a meno di arrossire davanti al suo sorriso radioso: riscaldava perfino il ghiaccio stratificato da millenni. Non ho mai visto nulla di più bello, pensava.
«Stai bene?»
«Io? S-sì, credo … Io …»
«Sei stata un fenomeno! Se non ci fossi stata tu, a quest’ora Saguru sarebbe già crepato, e mia sorella con lui!»
«Non ho fatto niente di che.»
Rivolse il viso verso il terreno. E’ tutto troppo imbarazzante per lei.
«Sì, invece! Ripeto, grazie, grazie, grazie!» esclamò il piccolo, profondendosi in una serie di inchini che la fecero sorridere per la prima volta in quella giornata. Lo osservava di sottecchi e non riusciva a smettere di sorridere. E così, inglobò molta aria nei suoi polmoni per darsi coraggio e glielo domandò. La fatidica domanda.
«Come ti chiami?»
«Akira. Maeda Akira.»
Nel tono con cui pronunciò il suo nome, Irène percepì chiare note di orgoglio. Non sapeva ancora bene cosa fosse, né a cosa potesse portare, ma poteva sentirlo e vederlo. In quell’attimo, l’orgoglio le si presentò come una pennellata su un vaso rifinito. Non poteva prevedere, tuttavia, che quella pennellata si sarebbe sbiadita con il passare degli anni.
«E tu, come ti chiami?»
«Ehm, Irène. Irène Kauffmann.»
Akira aggrottò le sopracciglia.
«E-Eirené?»
«Irène,» sillabò ancora la piccola, ma dato che un simile nome sfuggiva completamente alla logica di quel bambino dell’altro capo del mondo, gli disse che sì, si chiamava Eirené, che in fondo andava bene lo stesso perché sua madre la chiamava così. Ma, nonostante provenissero dagli antipodi del pianeta, nonostante non conoscessero ancora un codice linguistico con cui comprendersi appieno, accadde un evento straordinario: si strinsero la mano e l’indomani, in quello stesso posto, giocarono a rubarsi il pallone a vicenda. Spesso, le parole sono prolisse e superflue. Irène sentiva di avere qualcosa in più da spartire con quel bambino di qualche anno più grande di lei, che tracciava i kanji con un pennello zuppo d’inchiostro nero sulle carte, risolveva mentalmente più calcoli del normale e l’aiutava a leggere, lasciando scorrere il dito sotto le parole. A volte, sussurravano alcuni segreti importanti l’uno alle orecchie dell’altra, poi ci ridevano sopra con quella leggerezza propria della loro età. Quando Akira compì dieci anni, Irène gli regalò un orologio. «Ti servirà per tenere sotto controllo lo scorrere del tempo» gli spiegò con fare importante.
«Forte!» esclamò Akira lasciandolo scorrere tra le dita, estasiato. «Ma come hai fatto a trovarne uno così? Non ho mai visto una cromatura con le costellazioni sopra! Aspetta, c’è anche l’acquario!” Gli occhi color onice brillavano, colmi di meraviglia ed entusiasmo.
«E’ un segreto!»
 Ci sono momenti in cui il corso del tempo è segnato dalle parole come da un marchio infuocato appena estratto dalla carbonella della brace. Entrambi non compresero subito quanto valore avesse il loro peso, ma Akira conservò quell’orologio tra i suoi averi più cari e poco tempo dopo iniziò ad indossarlo.
Quando invece li compì lei, i dieci anni, il suo migliore amico si presentò a casa con un pacchetto piuttosto grande avvolto in carta color cremisi. Tralasciando un cavallino di legno che suo nonno materno aveva intagliato nel legno d’ulivo apposta per lei alcuni anni prima, la bambina non aveva mai ricevuto un regalo così grande e difficile da tenere nel palmo di una mano.
Non ebbe il coraggio di scartarlo subito: percepiva una strana energia provenire dal suo interno.
«Aspetta Riri-san, ti aiuto io.»
Timorosa, la bambina lasciò che Akira l’aiutasse e, quando l’involucro fu accuratamente smosso, una stampa di dimensioni notevoli, i cui bordi erano attraversati da sottili infissi in bambù, apparve davanti ai loro occhi.
«Noi li chiamiamo ukiyo-e. Non è stupendo?» disse il ragazzino, un sorriso compiaciuto stampato in volto e gli occhi che brillavano.
Effettivamente, Irène ammise di non aver mai visto una stampa così meravigliosamente dipinta, i cui colori brillanti e delicati di acquerello si stagliavano nella luce come forme viventi generate dall’unione di miliardi di idee.
Ukiyo-e.
Mondo fluttuante, dal ritmo avverso a tutto ciò che stagnava fuori dai suoi ritmi interni.
Un mondo i cui sentieri furono percorsi da Irène con lo stesso ardore e passione di una farfalla appena liberatasi dello scomodo bozzolo del bruco e impaziente di inghiottire il mondo dentro di sé. Per pochi attimi, la bambina si abbandonò al ritmo ondeggiante dell’ukiyo-e e divenne anche lei prima bruco, poi farfalla, mimentizzandosi tra i cardellini color bronzo che cinguettavano appollaiati sui rami tinti di nero dei ciliegi in fiore e tra le vesti della bambina, della ragazza e della donna che vivevano in quell’universo apparentemente privo di profondità visiva.
«Ho visto quella bambina e ho pensato subito a te,» dichiarò Akira, osservando da lontano lo strano viaggio mentale della sua compagna di giochi e avventure, desideroso di prendervi parte e allo stesso tempo consapevole di violare l’accesso al suo mondo interiore.
«Grazie, Akira-san. Lo appenderò nella mia cameretta, così lo sognerò tutte le notti! Ma … dove lo hai trovato?»
«Be’, è un segreto!» replicò Akira con un sorriso furbo, strizzandole l’occhio.
Istintivamente, sentì l’impulso di abbracciarlo, ma sua madre era nei paraggi e il pensiero che potesse vederli la fece arrossire. Ma poi avvertì le braccia di Akira che le si stringevano attorno e allora gli circondò la vita con le sue e posò la testa sulla sua spalla, senza pensarci due volte.
«Buon compleanno, Riri-san,» sussurrò il ragazzino.
«Vorresti venire con me lì dentro?»
«Ma solo tu puoi farlo.»
«Ti prego!»
«E va bene, verrò con te.»
Un sorriso spontaneo nacque sulle labbra di Irène.
 
 
 

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Capitolo 3
*** AVVISO IMPORTANTE! ***


Ohayo, ragazzi! :3
Sì, merito il linciaggio automatico perché, per cause di forza maggiore, non mi son fatta viva per molto tempo.
Vorrei tranquillizzarvi dicendovi che "Ukiyo-e" non è bloccata, è semplicemente momentaneamente sospesa.
Sto continuando a lavorarci sopra, anche se più lentamente rispetto a prima, e la storia sta crescendo.
La vera novità, però, non è questa, ma un'altra: da oggi in poi, le mie attività su EFP si svolgeranno su 

http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=971939, a causa dei numerosi problemi che quest'account
mi sta causando. Seguitemi tutti lì!
(cliccando sul link: è funzionante, anche se scritto in neretto). Un abbraccio fortissimo,
Sofja/Sophie/xifeng

P.S. Questo messaggio sarà concellato tra due giorni.

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