Blackvoyant di FioreDArgentoWattpad (/viewuser.php?uid=936191)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Prologo
Sarebbe stato difficile per chiunque descrivermi, forse perché nessuno si era mai impegnato a capire davvero cosa mi passasse per la testa. Nell'Heddem Institute non era usuale avere amici, io stessa conoscevo a stento le iniziali di ognuno. Una peculiarità del mio strano collegio infatti era che non ci si rivolgeva chiamandosi per cognome o nome, bensì utilizzando l'iniziale. Io ad esempio ero una delle molteplici A, la mia irritante compagna di stanza W. Ma si sa, un nome costituisce un'identità. E un'identità in quella prigione costituiva guai.
Forse mi ero sempre sentita diversa perché io il mio nome, a differenza degli altri, lo conoscevo. Quando ero sola, alcune volte lo sussurravo alle pareti grigie della mia stanza; lo ripetevo quanto bastava a ricordarmi di non essere solo una lettera simile alle altre. E allora i miei pensieri correvano velocemente verso la persona che me l'aveva affibbiato per poi privarmene, colei a cui dovevo tutto e al contempo niente. Kathleen. La donna dal viso sottile che di tanto in tanto si affacciava nella mia mente, colei che aveva scandito con la sua voce rassicurante i miei primi anni divita. Ricordavo confusamente il suo sorriso sempre rovinato dalla nota amara che rammentavo soltanto adesso, quasi che aggiungessi volutamente dettagli alla fievole immagine ogni volta in cui la richiamavo a me. Alcune volte mi domandavo quanto fosse vero e quanto falso, nel ritratto che baluginava nella mia memoria. Non l'avrei mai scoperto.
A lei non dovevo nulla, poiché aveva lasciato mi rinchiudessero in questo luogo d'inferno. Eppure se sapevo chi ero, se sapevo il mio nome, era solo grazie a lei.
"Amira." mormorai rigirandomi tra le lenzuola, mentre il suono delicato del mio nome si propagava sulle labbra e affondava le proprie radici nel mio spirito, legandomi a sé indissolubilmente.
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Capitolo 2 *** Capitolo I ***
Capitolo I
Capitolo I
Era
opinione popolare che il preside Mark Hedd fosse un uomo di
bell'aspetto, e concordavo, se non fosse stato per la costante paura
che gli deformava viso. Gli occhi stralunati erano d'un azzurro
scolorito, sembrava che non avessero mai visto la luce del sole per
assorbirne la brillantezza e la vivacità cristallina. I capelli poco
curati gli cascavano disordinati sulla fronte perennemente aggrottata
e una barbetta dorata gli copriva il mento tozzo, che tremava insieme
al labbro inferiore mentre parlava alle assemblee (uniche occasioni
in cui lo vedevamo). Avrebbe potuto avere una ventina d'anni o aver
superato la cinquantina, possedevo troppi pochi termini di paragone.
La maggioranza dei docenti della scuola era costituito di donne, e
agli scarsi insegnanti maschi non avrei sicuramente potuto domandare
l'anno di nascita.
Gli
uomini che avevo conosciuto nella mia vecchia vita invece, erano
maschere cineree che sfumavano nella memoria ogni giorno di più. Io
del resto preferivo lasciarle andare, non mi prendevo la briga di
rammentare i colori o i tratti di gente che non avrei visto mai più.
Avevo appena tre anni il mattino in cui Kathleen (avevo cessato di
chiamarla mentalmente mamma) mi aveva trascinata con l'inganno su una
nave, la stessa nave su cui quel dì sarebbero giunti i neomarchiati,
la stessa nave straripante di culle che di tanto in tanto si
affacciava nei miei incubi. Concentrai di nuovo lo sguardo sul
preside, che stava sciorinando il discorso d'inizio anno con la
passione che avrebbe messo W nel mangiare gli spinaci.
"Q-Quest'oggi
desidero in-inaugurare il centocinquantesimo anno di attività
dell'Heddem Institute che da sempre fornisce grazie all'infallibile
metodo Hedd una preparazione adeguata a noi m-marchiati,
presentandovi..." si schiarì la gola, sistemandosi per la
centesima volta la cravatta verde pallido. "... presentandovi la
novità d-del corpo docenti. L'anno scorso Paul Serringard, vostro
educatore all'uso del marchio, è andato in pensione dopo un
onorevole carriera. Vi invito per la sua sostituta, la signorina
Key."
Un
rumore quieto si levò dalla folla, ma fui probabilmente l'unica ad
osservare davvero la donna che, sbucando dalla penombra, si era
seduta silenziosamente di fianco al preside. Il cappello gocciolante
le celava parte del volto, ma sulla pelle chiara scorsi un sorriso
compiaciuto. Se lo tolse con un unico movimento aggraziato, liberando
una cascata di capelli albini bagnati sulle punte. Fui scossa da un
brivido quando ci rivolse uno sguardo penetrante, rivelando gli occhi
grigi affilati come la lama di un coltello.
Diedi
una gomitata a W, che m'ignorò volutamente. Tra l'altro me lo sarei
dovuta aspettare, W con il suo portamento compassato e l'espressione
imperturbabile incarnava perfettamente i valori dell'Istituto. Avevo
avuto la sfortuna che mi fosse assegnata lei in qualità di compagna
di stanza, che in teoria sarebbe dovuta diventare la mia maggior
confidente. O almeno così recitava il Manuale di Easton e Marcus
Hedd, i fondatori dell'Istituto. Io con W avevo soltanto un rapporto
di sussistenza, il necessario a non impazzire rinchiusa tra quelle
quattro mura.
"Sono
desolata per il ritardo Mark, ero andata che tutto fosse in regola al
porto."
La
signorina Key si sedette tra i colleghi nella prima fila, non
aggiungendo altro. I miei compagni si lanciarono occhiate di
disapprovazione, ma il preside non parve aver nulla da ridire.
"Quest'oggi
come sapete arriveranno i marchiati. Vi p-pregherei perciò..."
Un colpo di tosse sommessa lo interruppe e il preside si guardò
intorno con occhi spauriti.
"S-Samantha?"
sussurrò bianco in volto.
La
sorella del preside, nonché insegnante di Letteratura all'Heddem
Institute, si alzò dal suo posto e gli mormorò qualcosa a voce
troppo bassa per essere udita. Carlos tremò visibilmente sotto lo
sguardo accusatore della sorella e riprese:"Vi vieto perciò
di g-girare per l'Istituto dopo il termine dell'assemblea."
Strofinò
nervosamente una mano sudata lungo i pantaloni, navigando nel dubbio
con espressione sofferente. Per un attimo provai un moto di pietà
verso quell'uomo, ma ricordando di chi si trattava, lo soffocai
subito.
"Direi
che la fine dell'assemblea è a-arrivata. Tornate nei vostri
dormitori!" concluse con gioia folle e temetti che avrebbe
scagliato lontano il microfono per la felicità. In fondo sarebbe
stato divertente assistere ad un gesto così avventato, così umano,
così poco consono all'istituto. Tuttavia si limitò a posarlo
cautamente su una sedia, come se fosse una bomba pronta ad esplodere.
"A?
A? Mi senti?" Riscuotendomi dal torpore, posi lo sguardo sul
viso lentigginoso di W. "Dobbiamo tornare nei dormitori,
muoviti!" La sua voce aveva l'intenzione di suonare perentoria,
ma gli occhi verdolini mi guardavano supplicanti.
"Non voglio
essere l'ultima!" sbottò, non ricevendo risposta. In effetti
intorno a noi erano rimasti cinque o sei studenti, che diligentemente
si dirigevano verso l'uscita principale. All'improvviso in allerta
saltai su, afferrando il polso ossuto di W. Anch'io detestavo l'idea
di giungere per ultima nei dormitori, ma per motivi ben differenti.
"Ma
cosa fai?" sibilò W, scuotendo la mano dolorante. Sulla rampa
di scale che portava al secondo piano, nei dormitori femminili, le
ragazze erano disposte ordinatamente in fila e nel più assoluto
silenzio si avviavano verso le camere. Sospirai di sollievo, la
maggior parte non erano ancora arrivate.
"Corri."
mi limitai a sussurrare a W, che sgranò gli occhi scandalizzata.
Ignorandola
sgusciai tra le ragazze in abito grigio, spintonandole se necessario.
Quando passavo loro di fronte mi lanciavano occhiate poco
rassicuranti, ma la loro forza di volontà era pari a quella di una
bambola di pezza.
Con il
fiato corto scavalcai l'ultimo gradino, trovandomi di fronte ad un
corridoio grigio. Porte bianche tappezzavano le pareti, l'una la
perfetta copia della precedente. Vidi una W ansante raggiungermi, le
ciocche rosso chiaro sfuggite alla coda le donavano un'aria ancora
più sconvolta.
"Ma
cosa ti salta in testa?" farfugliò. Io però l'ascoltavo a
stento, avevo già iniziato a contare le porte che sfilavano di
fianco a me mentre camminavo
lentamente.
1...
2...
"Correre!"
5...
6...
"Spingere!"
12...
13...
"Avrai
infranto metà del regolamento
dell'Istituto!"
17...
18...
19...
Velocizzai il
passo, c'eravamo quasi.
"Ti rendi conto?" terminò
irata.
23!
Mi
concessi finalmente di concentrarmi su W, che rossa in volto mi
squadrava con aria di rimprovero.
Scrollai
le spalle, non era di certo la prima volta che violavo il
regolamento. E neanche l'ultima.
"Perché
siamo arrivati fin qui? Le altre camere erano libere." affermò
W, di colpo dubbiosa.
Io
sorrisi nervosamente, se avesse scoperto il mio segreto sarebbe stato
difficile evitare che spifferasse ai professori tutto.
"Non
me n'ero accorta." mentii, girando in basso la maniglia
della nostra stanza. In realtà noi non avevamo il
diritto di possedere alcunché, avremmo dovuto cambiare stanza ogni
giorno lasciando la borsa nell'armadio prima di cena. Al ritorno una
stanza valeva l'altra, poiché tutti avevano gli stessi libri e gli
stessi appunti.
Noi
però, all'insaputa di W, stavamo nella stessa da quattro anni. Mi
piaceva l'idea che quel luogo fosse mio, anche se equivaleva ad
infrangere le regole. Inoltre la finestra si affacciava sul piccolo
porto in cui, una volta l'anno, approdava la nave che recava scritto
sulla fiancata il nome dell'Istituto. Nonostante l'orrore imbrattasse
e confondesse i ricordi, sapevo che si fermava in diverse località
per permettere ai bambini e i professori d'imbarcarsi verso
l'isoletta sperduta delle Bahamas. Era l'unica informazione che ci
era concesso sapere.
La
vista del mare che ondeggiava dolcemente intorno al porto era
rilassante, seppur la vista della nave che proprio la sera prima era
arrivata mi nauseasse. Ero forse la sola, oltre al preside e i
professori ovviamente, a conoscenza di ciò che stava accadendo. I
bambini venivano spogliati dei loro averi ed erano sottoposti a
rigide visite mediche, prima che fosse tatuato loro il marchio.
Lo
shock adombrava il resto, ricordavo soltanto che quando degli uomini
avevano tentato di sottrarmi il mio talismano, una pietra dura che
tenevo in tasca, l'avevo lanciato in mare purché non finisse nelle
loro mani rozze.
"Miss.
Key non ci ha detto una parola, solitamente i professori nuovi
preparano un discorso." osservò W ad alta voce, distraendomi.
Negli anni avevo imparato a conoscerla e sapevo che alle volte, senza
rivolgersi direttamente a me, esprimeva i suoi dubbi ad alta voce
perché io dessi la mia opinione. Era un rapporto singolare il
nostro.
"Sempre
meglio delle patetiche frasi fatte che ci propinano gli altri."
dichiarai tagliente. W mi guardò sbigottita dal letto e aprì la
bocca, serrando le labbra sottili un secondo dopo. Era un tacito
accordo, se chiedeva il mio parere non si poteva aspettare che
fingessi la lealtà assoluta nei confronti dell'istituto. Lealtà che
poteva avere lei, ma non io.
"L'anno
scorso Serringard non ci ha mai fatto provare a... a convertire.
Secondo te lei ce lo permetterà?" cambiò argomento W, mentre
si scioglieva la coda rossa per la notte.
Un brivido gelido mi
percorse la schiena. Il professor Serringard ci aveva istruito
riguardo alla teoria ma non aveva mai lasciato che facessimo un
tentativo, anche con un oggetto piccolo. L'anno prima una volte
gliene avevo domandato il motivo e, con un misto di rabbia e
spavento, aveva gridato che il professore era lui e non dovevo
provare a contraddirlo. Non mi sarebbero mancati né il suo
caratteraccio, né i suoi sputi mentre spiegava, ne ero certa.
"Trasformare
la materia in non-materia, sta tutto lì." ripetei le sue esatte
parole assorta.
Odiavo
lo scarabocchio che avevo sul braccio, sapevo che Kathleen mi aveva
ripudiato a causa sua. D'altro canto era indelebile e scoprire a cosa
servisse o anche soltanto perché si trovasse lì, era l'unica
consolazione che potevo avere.
W mi
lanciò un'occhiata interrogativa, era raro che ascoltassi le
lezioni, ricordarmele ancor di più.
"Blaterava
la stessa frase per un'ora." mi affrettai a spiegare, ritornando
con lo sguardo puntato sulla spiaggia.
Mi
accorsi che un paio di pullman neri si stavano inoltrando nel
sentiero che si dirigeva verso l'Istituto. In quel breve tragitto dei
neonati si stavano giocando tutto: il nome che non avrebbero mai
saputo, il compleanno che non avrebbero mai festeggiato, la famiglia
che non avrebbero mai visto, le origini che avrebbero sempre
ignorato. Le cose a cui, dodici anni prima, avevo dovuto rinunciare
io.
Avrei voluto gridarglielo, fino a sgolarmi, ma non sarebbe
servito a nulla. Perché delle persone, in quel momento, stavano
perdendo tutto e neanche lo sapevano.
"Arrivano."
mormorai semplicemente, con la bocca impastata.
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Capitolo 3 *** Capitolo II ***
Capitolo II
Capitolo
II
Come
al solito la Prima Campanella non aveva ancora suonato quando aprii
gli occhi, che già guizzavano vigili lungo il perimetro della
stanza. Lunghe spade di luce dorate trafiggevano la penombra della
stanza, solleticandomi delicatamente gli occhi.
Amavo
l'alba.
Con la
mia prima professoressa di Letteratura, la signorina Kuffner, in una
lezione avevamo letto dai nostri appunti che i poeti traevano spesso
ispirazione dalla natura.
Non
avevo potuto fare a meno di chiedere perplessa:"Cosa ci trovano
di speciale?"
Il
resto della classe mi aveva fissato impaurito, convinto che avrei
ricevuto una sgridata da parte del professore.
Mai
interrompere una lezione.
Mai
dubitare della correttezza degli appunti.
Avevo
infranto coscientemente due punti del Regolamento in una volta sola,
ero già rassegnata ad essere spedita nell'ufficio della signorina
Hedd. A uno studente davvero ribelle, capitava sì e no una volta
nella carriera di finire nel "covo" di Samantha Hedd.
Io
però, avevo affrontato così tante volte la mezz'ora di tiritera
condita di minacce della signorina Hedd, che ormai rispondevo
placidamente con un sorriso ai suoi rimbrotti.
Sorrisi
tranquillamente anche allora, riposando gli occhi annoiati sulla
carta stampata.
La
signorina Hedd non mi avrebbe mai ferita o espulsa così come non
avrebbe mai ferito o espulso un altro alunno qualsiasi.
Gli
occhi della signorina Kuffner balenarono stranamente di vita e con
mia somma sorpresa ribatté:"Hai mai visto un'alba?"
"Quando
ci svegliamo il sole è già sorto." affermò W piatta.
"Almeno
un tramonto?" ritentò indefessa la signorina Kuffner,
continuando a rivolgersi a me.
Scrollai
le spalle:"Ceniamo a quell'ora."
"Ma
c'è una finestra. Stasera guardalo e la prossima volta dimmelo, cosa
c'è di speciale."
Non
rividi mai più la signorina Kuffner.
Tuttavia
quella sera mi ricordai di lei, e osservai il sole incendiarsi
attraverso la finestrella della Mensa.
Anche
il mattino dopo, mi alzai in punta di piedi e mi gustai i colori
pastello dell'alba.
Glielo
avrei voluto confessare, che li trovai entrambi belli, splendidi,
meravigliosi... ma non speciali.
Glielo
avrei voluto dire, ma non ci fu occasione.
Rimase
così soltanto l'amaro in bocca, mentre cercavo invano di comprendere
cosa ci fosse di speciale nella normalità.
Intanto
amavo l'alba.
Non
perché animasse in me il desiderio di scriverci sopra una poesia, o
ritrarla in un quadro, o osannarla in un romanzo.
L'amavo
perché in quegli unici attimi della giornata, ero Amira. Ero
qualcuno.
Non
riuscivo a datare quella mia strana abitudine di svegliarmi presto,
avrei dovuto spingere allo stremo la mia memoria per ricordarmi
l'esatto momento in cui mi ero posta quell'obiettivo.
Pensavo
risalisse ai primi anni all'Istituto, quelli che avevo trascorso
rinchiusa in una stanzetta sullo stesso piano dei neomarchiati,
isolata dagli altri studenti.
Un imprevisto,
mi aveva definito la signorina Hedd stizzita, prima di rinchiudermi
in quelle quattro pareti scrostate e macchiate d'umidità. L'avevo
odiata già da allora.
Avevo
iniziato a svegliarmi presto, per la necessità di essere libera
anche soltanto pochi minuti, prima che la campanella suonasse dando
inizio ad un alternarsi serrato di professori nella mia stanza. Era
stressante essere sottoposti di continuo ai loro sguardi di
sufficienza o sorrisi derisori, di cui inoltre non capivo l'origine.
Fu C a
spiegarmela.
Fu lei
a spiegarmi molte cose.
C era
la cameriera che mi portava i piatti di cibo, direttamente nella
stanza. L'avevo soprannominata tra me e me Cenerentola, come la
protagonista della fiaba che spesso Kathleen mi leggeva prima di
andare a dormire.
In
realtà non aveva il viso cosparso di cenere, o una matrigna cattiva,
o due sorellastre insopportabili.
Aveva
la pelle dello stesso colore del cioccolato fondente, un'indomabile
massa di ricci scuri le circondava il viso sul quale spiccavano due
occhi nocciola brillanti di vivacità.
Il
nostro primo incontro era ben impresso nella mia memoria.
Ero
stufa di essere rinchiusa in quella stanza angusta, mi trovavo lì
già da più di un giorno.
Avevo
rifiutato di mandare giù un solo boccone, sebbene diversi camerieri
si fossero presentati alla mia porta con il medesimo vassoio
d'argento coperto da un panno. Lo stomaco serrato non accennava a
mostrare appetito, ma la gola secca reclamava un bicchiere d'acqua.
Persino le lacrime non scendevano più sul mio viso, sfinite quanto
me da quella lotta persa in partenza.
Era
un incubo, non poteva trattarsi di altro.
Mamma
mi avrebbe svegliato presto, con un delicato bacio sulla fronte e
avrei scordato quel brutto sogno.
Toc
toc.
Nessuno
aveva avuto l'accortezza di bussare nelle ultime ore, di fatti mi
rizzai a sedere velocemente.
"Posso?"
domandò una voce argentina da dietro la porta.
Io
disorientata sussurrai a voce appena udibile:"S-sì."
Con
un cigolio sommesso la porta si aprì, svelando una ragazza minuta.
Non
doveva avere più di dodici anni, ma per me era come un'adulta e
provai subito un moto di ammirazione nei suoi confronti.
"Ciao."
mormorò in tono gentile.
Io
non ricambiai il saluto, abbassando diffidente il viso.
Anche
lei portava un vassoio, ma invece di pormelo sbrigativa davanti agli
occhi pretendendo che m'ingozzassi, lo posò con noncuranza sulla
scrivania.
"Sai,
ci stai facendo impazzire giù in cucina. Hai proprio un bel
caratterino!" scherzò. "Ti dovrei ringraziare, di solito
scorre tutto in modo così monotono..."
Scoppiò
a ridere, contagiando anche me che sorrisi lievemente. Sembrava
simpatica. Appuntata sulla sua divisa, c'era una targhetta su cui era
incisa una lettera. C.
"Anche
tu sei... anche tu sei come me?" La indicai titubante.
"Non
esattamente." rispose quasi dispiaciuta. "Ma forse adesso
sono la persona più simile a te dell'Istituto, sì."
Si
avvicinò con cautela, sedendosi sul letto sfatto.
"E...
e anche tu hai questo?" Scoprii il braccio, mostrando il marchio
scuro.
La
ragazza si rabbuiò, ma non si scompose, e alzò una manica della
divisa. Anche sul suo braccio scuro s'intravedeva un disegno simile
al mio.
"Come
ti chiami?" chiesi curiosa.
"C."
rispose poco convinta.
"Io
invece mi chiamo Ami--" Svelta la ragazza mi coprì la bocca con
una mano.
"Shhh.
Non puoi rivelarmi il tuo nome intero. Se vuoi trascorrere serena i
prossimi anni, ti conviene non rivelarlo a nessuno." m'intimò,
senza che dalla sua voce trapelasse un filo di timore.
"Lo
so. Me l'hanno già detto... ma credevo che tu... " balbettai.
Non proseguii, lasciando che le parole fluttuassero nell'aria.
Credevo
fosse diversa, almeno lei. Credevo che non avrebbe mozzato il mio
nome, accettandolo integralmente, accettandomi integralmente.
"Non
è colpa mia." sussurrò per la prima volta imbarazzata. Restò
alcuni minuti in silenzio, formulando pensieri che non potevo
ascoltare.
"Il
tuo nome è speciale. Non dimenticarlo, anzi, tienilo come un tesoro
prezioso. Sappi semplicemente che nessuno in questo istituto merita
di conoscerlo." affermò convinta d'un tratto.
"E
tu?"
"E
io?"
C
mi fissò interrogativa, ma un lampo di consapevolezza percorse i
suoi occhi, ancor prima che precisassi: "Anche tu nascondi il
tuo nome, perché nessuno merita di conoscerlo?"
"Non
oggi." ribatté pensierosa. "Un altro giorno ti racconterò
la mia storia, ma non oggi."
La
ragazza improvvisamente turbata si alzò di scatto e riprese il
vassoio abbandonato sul tavolo. Poggiandolo sulle coperte morbide, un
sorriso luminoso le increspò le labbra:"Fai solo un torto a te
stessa non mangiando. Inoltre la pasta che prepara Sergio è
deliziosa, sai, è uno chef italiano."
"Rimani
qui con me?" la pregai.
"Certo,
perché no?"
Affiancandosi
a me, tolse il panno dal piatto che emanava un profumo invitante.
Presi la forchetta sentendo la pancia brontolare e mi accorsi che,
sorprendentemente, non stavo trattenendo le lacrime.
In
seguito mi confessò il suo nome, ma io continuai lo stesso a
soprannominarla mentalmente come Cenerentola, perché quel giorno
avevo scorto in lei la scintilla di coraggio ribelle dell'eroina
fiabesca.
Il
frastuono della sveglia interruppe il filo dei miei pensieri.
Sbuffai, udendo uno sbadiglio levarsi dal lato opposto della stanza.
Anche W si stava destando.
Balzai
di scatto giù dal letto e, prima che la mia compagna di stanza
abbandonasse del tutto il mondo dei sogni, mi precipitai nell'unico
bagno della camera.
"A!"
strillò W, rendendosi conto di essere arrivata troppo tardi anche
quella volta.
La
ignorai deliberatamente, squadrando la me allo specchio. I capelli
neri avevano lo stesso taglio di quelli delle altre ragazze
dell'Istituto, appena sopra le spalle, e le ciocche ondulate mi
circondavano l'ovale pallido del viso. Su questo spiccavano due occhi
ambrati, che mi restituivano uno sguardo perplesso attraverso il
vetro.
Ero
Amira.
Dovevo
provare a non dimenticarmelo anche quel giorno.
Aprii
il rubinetto e misi a coppa le mani sotto il flusso d'acqua,
gettandolo sul mio viso subito dopo. Il contatto gelido mi provocò
un brivido lungo la spina dorsale e strinsi i denti. Almeno mi ero
svegliata.
Mi
affrettai a finire sentendo le proteste di W dall'altro lato della
porta, e una volta uscita le lanciai un'occhiata diveritita.
Stava
ritta in mezzo alla stanza sottosopra, i capelli scarmigliati le
cadevano disordinatamente sulle spalle e gli occhi verdolini
sembravano volermi incenerire.
"Se
hai la prontezza di una lumaca, non è colpa mia!" puntualizzai
sibillina.
W
soffocò in un sospiro insofferente gli insulti che di certo mi
voleva rivolgere, e si limitò ad entrare nel bagno e sbattere con
violenza la porta.
Mi
sfuggì un risolino, la mia compagna di stanza teneva davvero tanto
alle regole.
È
severamente vietato attuare un litigio con altri studenti
dell'Heddem, a eccezione di legittima difesa nei confronti di uno/a
alunno/a che ha contravvenuto al Regolamento. Si è pregati in tal
caso di renderlo noto a chi di competenza.
Era
uno dei trenta punti del Regolamento e W si sforzava di seguirlo al
meglio, nonostante io mettessi a dura prova la sua pazienza. Non
capiva che non reagendo, m'invogliava ancora di più a continuare.
Dieci
minuti dopo W uscì dal bagno, la calma già tornata a regnare sul
suo viso.
"Andiamo."
mormorò semplicemente, tirando la porta a sé.
Nel
corridoio le studentesse ancora intontite si dirigevano verso la
rampa di scale che scendeva verso il basso, nella mensa. Eravamo le
ultime, nulla di nuovo.
Trascinai
W dietro di me, quasi correndo, verso i gradini di marmo e
nell'intercettare per un secondo lo sguardo spaurito della mia
compagna, mi scontrai con una persona.
"Ci
dispiace.... desolate... non volevamo..." colsi solo sprazzi di
ciò che W stava dicendo, incespicando nelle sue stesse parole.
La mia
attenzione era stata catalizzata completamente dalla signorina Key,
che invece di guardare l'imbarazzatissima W, teneva i propri occhi
fissi su di me. Sembrava incuriosita più che arrabbiata.
"Non
era nostra intenzione disturbarla. Ci perdoni." scandii con voce
incerta.
La
donna fece un gesto con la mano e sentenziò infastidita:"Avrei
dovuto stare io più attenta."
Io
meravigliata non mi mossi di un millimetro, qualunque altro
insegnante ci avrebbe spedito direttamente dalla vicepreside.
W
sbalordita balbettò ringraziamenti sconnessi, ma la signorina Key la
interruppe spazientita:"Andate!"
Rossa
di vergogna la mia compagna di stanza si precipitò giù per le scale
e io la seguii in fretta.
"Strana,
vero?" domandai a W nella Mensa.
La mia
compagna però replicò con convinzione:"È il suo primo giorno,
di sicuro l'abbiamo colta alla sprovvista."
Evitai
di controbattere che tutto mi era sembrato la signorina Key, meno una
persona disorientata, e addentai un biscotto.
Per
tutta la colazione non riuscii a togliermi di dosso la brutta
sensazione di essere osservata, costantemente.
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Capitolo 4 *** Capitolo III ***
Capitolo III
Capitolo
III
"La
lezione di Educazione all'Uso del Marchio si terrà nell'Aula XXII,
come da orario prestabilito dopo il suono della Seconda Campanella."
Una
cameriera lesse in fretta l'avviso, e per poco non mi strozzai con
l'ultimo boccone del pane con la marmellata. Deglutii a fatica e
volsi gli occhi in direzione della cameriera, che però con le guance
rosse era già scomparsa dietro la porta delle cucine.
L'Aula
XXIII era uno dei molti misteri dell'Heddem Institute, sebbene
impallidisse in confronto ad altri interrogativi.
Si
trattava di una stanza dei sotterranei adiacente all'Aula Magna e in
disuso dall'anno del mio arrivo, o almeno così sosteneva W.
Nelle
rare occasioni in cui mi capitava di passarci davanti mi soffermavo
sempre un po' di più degli altri, e guardavo incuriosita quella
porta blu elettrico. Risultava quasi fuori posto tra le sfumature
smorte dell'Istituto.
Alcune
volte pensavo che non eravamo poi così diverse, io e quella porta.
Entrambe
ci distinguevamo dai nostri simili, per il nostro colore, per la
nostra originalità non richiesta.
Ed
entrambe dovevamo limitarci, serrarci per volontà altrui, pur non
riuscendo lo stesso ad eliminare quei piccoli dettagli che ci
separavano dal resto.
Formulati
questi pensieri mi davo della sciocca, non potevo paragonarmi ad una
porta.
Quella
avrebbe potuto facilmente essere ridipinta di un colore più tenue,
con meno pretese.
Io
invece, per quanto avrei provato a ritinteggiarmi, sarei rimasta
sempre così.
Amira.
E in
fondo non mi dispiaceva.
"Andiamo?"
Sbattei
le palpebre ritornando bruscamente alla realtà. W era già in piedi
con un biscotto mangiucchiato nella mano destra e impaziente indicava
l'uscita della Mensa. Era davvero buffo vederla così agitata, lei
che di solito non si scomponeva mai.
"Non
voglio tardare alla prima lezione! Andiamo?" ripeté con occhi
imploranti.
Avrei
voluto suggerirle di avviarsi da sola, ma sapevo che non avrebbe
infranto un'altra regola dopo la figuraccia con la signorina Key.
Mai
allontanarsi dal proprio compagno/a, a meno che questo/a non sia
convocato da un professore o dal preside stesso.
Sospirai,
in quei momenti avrei voluto domandare a Easton e Marcus Hedd la
ragione di alcuni punti del Regolamento. Dalla fondazione
dell'Istituto del 1878, questo era rimasto pressoché identico,
eccetto qualche modifica legata al cambiamento esterno. Constava in
trenta punti, trenta invisibili sbarre che imprigionavano ogni alunno
dell'Istituto.
Ingurgitai
il latte rimasto nella tazza e seguii W verso le scale che
sprofondavano nel buio. Per fortuna suonò presto la Seconda
Campanella e le luci sul soffitto si accesero una dopo l'altra,
emanando un bagliore biancastro.
Ci
accorgemmo soltanto alla fine di essere effettivamente le prime per
una volta. Dietro di noi non c'erano che gradini di pietra.
Mi
concessi un secondo per gettare un'occhiata alla porta blu,
stranamente conscia che da quel giorno non sarebbe più stata tanto
speciale.
W
spinse con delicatezza la porta, che si aprì senza opporre
resistenza.
L'Aula
XXII era una stanza sgombra, priva di qualunque arredamento. Il legno
del pavimento era graffiato e segnato da piccoli solchi e la pittura
originariamente azzurrina delle pareti doveva essersi ingiallita con
il tempo. Illuminata solo da una lampada giallognola che pendeva dal
soffitto, la stanza aveva una bellezza vissuta, come un giovane che
torna dalla guerra con le cicatrici, sul corpo e nel cuore.
"Perché
è vuota?" domandò W ad alta voce, rompendo il silenzio.
Non
ebbi modo di rispondere perché una folla di studenti disorientati si
riversò rumorosamente nella stanza. Le voci sorprese incominciarono
a intrecciarsi e scontrarsi, finché non si trasformarono in un
groviglio indistinto di parole.
Io mi
rintanai in un angolo della stanza, avevo smesso da troppi anni di
pormi domande sull'organizzazione dell'Istituto. Sapevo infatti che
appartenevano a due categorie: quelle di cui non avrei mai ricevuto
risposta e quelle di cui avrei ricevuto risposta a breve. Inutile
specificare che la prima era decisamente più consistente.
W mi
raggiunse presto con un'espressione infastidita.
"Non
ci dovremmo separare."
"Siamo
nella stessa stanza W, dove credi possa scappare?" replicai
scettica.
"La
signorina Key è in ritardo." proseguì ignorando la battuta.
"Arrive--"
Mi
bloccai udendo il rumore dei tacchi scendere le scale. Non dovetti
essere l'unica, poiché anche il chiacchericcio cessò di colpo.
"Che
ti avevo detto?" mormorai acida, fissando la figura che era
comparsa sulla soglia.
Notai
che la signorina Key si era truccata da quando l'avevo scontrata,
prima della colazione. Si era messa un rossetto scarlatto e una
spessa linea di matita le correva lungo le palpebre, rendendo ancora
più taglienti i suoi occhi grigi. Da che avevo memoria nessuna
professoressa dell'Heddem Institute aveva osato tanto.
Miss.
Key sfilò di fronte a noi con un'eleganza gelida, e si soffermò
qualche secondo su ciascun alunno. Studiava impassibile i nostri
volti, come se fossimo quesiti che non meritavano soluzione.
Realizzai
che ci disprezzava.
Ci
disprezzava e non si preoccupava di nascondercelo.
Parve
indugiare più del dovuto su di me, e giurai di scorgere un sorriso
divertito incresparle le labbra.
Ebbi
la netta sensazione che stesse guardando me. Non A, non una semplice
studentessa, ebbi l'impressione che mi scandagliasse nel profondo
laddove celavo ad occhi indiscreti Amira.
Ma era
soltanto la mia immaginazione.
Lei
non poteva saperlo.
Me ne
convinsi fermamente, mentre turbata la seguivo con gli occhi fino al
centro della stanza.
"Non
mi piace fare la colazione già truccata." dichiarò, come se
bastasse a spiegare i dieci minuti di ritardo.
"Inutile."
bofonchiò e lasciò intenzionalmente che il registro le scivolasse
dalle mani.
Al
tonfo sussultammo, non era mai accaduto niente del genere. Più che
spaventata, come W al mio fianco, ero incuriosita da quei
comportamenti singolari.
"Miss.
Key, e l'appello?"
La
domanda stridula proveniva da un alunno dell'ultima fila, S mi
sembrava.
Lei
gli riservò una risata derisoria e con la voce che trasudava
sarcasmo ribatté:"Non c'è bisogno del registro per ripetere
l'alfabeto."
"Chiariamoci
subito. Questa non è una materia come le altre. Qui o siete
eccellenti, o in tutti i casi non m'interessa, saranno affari vostri.
Qui non si fa l'appello, perché esserci o non esserci è
irrilevante. Qui non conta nulla eccetto ciò che esce dalla mia
bocca. Intesi?" scandì perentoria, con occhi crudeli.
Nessuno
si azzardò a fiatare, e sentii W vicino a me trattenere il respiro
durante il discorso.
"Perfetto."
sillabò soddisfatta, gustandosi le espressioni terrorizzate dei miei
compagni.
Io
invece sostenni con fierezza il suo sguardo, senza chinare mai il
capo.
Non
avrebbe piegato me così facilmente.
"Scopritevi
il braccio destro. Ora." ordinò e immediatamente gli alunni
ubbidirono, incominciando a sbottonarsi i polsini della camicia
dell'uniforme.
W mi
lanciò un'occhiata severa, vedendo che non avevo la minima
intenzione di accontentare Miss. Key.
"A,
non fare stupidaggini!" sussurrò impaurita.
Scrollai
le spalle, incapace di spiegarle che il mio gesto non era una
semplice violazione del Regolamento.
Io non
potevo farlo.
C era
stata chiara nel spiegarmelo.
Erano
passate circa due settimane dal mio arrivo all'Heddem Institute. Le
giornate trascorrevano nella loro banalità, tra qualche lezione con
maestri dalla dubbia simpatia e gli incontri con C, che attendevo con
ansia.
Quel
giorno C venne prima del previsto.
Aveva
cinque o sei stampelle in mano che teneva in bilico davanti a sé,
stando attenta a non far sfiorar loro terra.
"Buongiorno
A. So che è noioso..."
Camminò
goffamente verso il letto, rischiando continuamente di inciampare nei
suoi stessi piedi.
"Lungo..."
proseguì.
Buttò
sul letto gli abiti sbuffando e si abbandonò lei stessa sul
materasso.
"Ma
per loro è necessario che tu provi ognuna di queste stupide
uniformi."
Gesticolò
verso gli abiti che giacevano sulle coperte e trattenni a stento una
risata. Era davvero buffa.
"E
ora è necessario anche per me, dopo aver fatto due intere rampe di
scale con questi trabiccoli di stampelle." aggiunse,
asciugandosi melodrammaticamente l'invisibile sudore sulla fronte.
A
quel punto scoppiai a ridere incontrollatamente e un sorriso spuntò
sulle labbra di C.
"Senti
un po', di chi stai ridendo?"
"Nessuno!"
risposi scaltra, ostentando un'espressione angelica.
"Meglio.
Ora sbrighiamocela in fretta che ho fame."
Iniziai
a togliermi allegramente la maglietta decisamente troppo piccola con
cui mi ero arrangiata e la gettai insieme al resto dei vestiti sul
materasso, restando in canottiera.
C
mi porse annoiata una camicia grigia.
"Non
so... ecco... non so come si chiude." balbettai avvampando,
colma di vergogna.
La
ragazza mora senza pronunciare una parola si alzò e mi venne in
aiuto, insegnandomi come si abbottonava.
"Vedi?
Così." stava sussurrando quando la sua attenzione si spostò
sul braccio sinistro, dove io stavo maldestramente provando ad
abbassare la manica arrotolata.
Me
lo afferrò di colpo e lo rigirò con forza, il terrore presente nei
suoi occhi.
"È...
è... lì."
Indicò
il marchio scuro che risaltava sulla pelle candida e io scrollai le
spalle.
"Ce
l'hai anche tu." dissi sorridendo. Non c'era niente di cui
scandalizzarsi.
"Ma
è lì." insisté rimarcando il concetto.
"Sul
braccio, come il tuo."
Stavo
incominciando anch'io ad avere dei dubbi, ma ero sicura che pure il
suo si trovasse là.
"No.
Il mio è sul destro A. Il tuo è sul sinistro. Sai cosa significa?"
chiese impaurita, fissandomi con i suoi occhi scuri.
"Io...
a dire il vero..." annaspai sull'orlo delle lacrime.
Non
sapevo perché mia madre avesse scelto di abbandonarmi.
Non
sapevo perché mi trovassi in quell'istituto.
Non
sapevo perché ero rinchiusa in quel buco soffocante.
E
ora non sapevo nemmeno quello.
"Io
non so niente!" strillai con frustrazione sentendo gli occhi
bruciare.
Non
era giusto.
Il
cuore prorompeva nel petto, scandendo la stessa frase.
Non
era giusto.
"Shh
A, smetti di piangere. Devi solo ascoltarmi. Qualcuno l'ha visto?"
"Forse...
il preside e... e Miss. Hedd..." balbettai.
"Bene.
Non farlo vedere a nessuno, neanche a un professore d'ora in avanti.
Me lo prometti?"
"Perché
C? Perché?"
Arrabbiata
mi liberai dalla sua stretta, gettandomi sul letto.
"È
difficile da spiegare. Fidati di me." mi pregò.
"Perché
dovrei fidarmi di te? Non so nemmeno il tuo nome! Perché dovresti
essere diversa dagli altri?" gridai, le lacrime ormai che
copiose mi scendevano sulle guance.
C
mi fissò a lungo, seria in viso.
L'avrei
voluta scacciare dalla stanza, ma non ne avevo la forza. Ero stanca,
desideravo soltanto ridestarmi da quell'incubo.
"Corinne."
mormorò infine atona. "Il mio nome è Corinne."
Si
massaggiò le tempie con gli occhi lucidi, d ripeté con più
fermezza: "Adesso me lo prometti?"
"Te
lo prometto."
La
gomitata di W mi sottrasse ai ricordi facendomi ripiombare nell'Aula
XXIII.
"Adesso
alzate il braccio!" ringhiò Miss. Key.
Mano a
mano i miei compagni levarono in alto il braccio nudo, e io mi
rintanai dietro a W. In altri casi non mi avrebbe preoccupato essere
scoperta, ma in quella occasione non potevo rischiare che mi
costringesse a farle vedere il marchio.
"Questo
è ciò che vi rende diversi. Questo è ciò che vi rende speciali.
Tenetelo a mente."
Puntò
lo sguardo su ciascun alunno ed ebbi un fremito quando lo percepii,
incombente e pesante, opprimermi il petto. Stupendomi però non si
soffermò più di qualche secondo e passò avanti, ignorando la mia
insubordinazione.
E lo
rividi, quello stesso sorriso che prima avevo creduto di essermi
immaginata, campeggiare sul suo volto.
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Capitolo 5 *** Capitolo IV ***
Capitolo IV
Capitolo IV
Era
stata la mattina più lunga della mia vita.
Avevo
speso il tempo gettando occhiate fugaci all'orologio appeso al muro,
ed era stato un sollievo quando finalmente il suono della Quinta
Campanella aveva sovrastato la voce acuta di Miss. Harrison.
Dovevo
parlare con Corinne.
Non
ero riuscita a pensare altro dalla fine della lezione di Miss. Key.
I
quesiti che mi affollavano la testa avevano bisogno di risposte e
sapevo che C era l'unica a potermele dare.
Trasportata
dai miei pensieri non mi accorsi di star imboccando involontariamente
le scale per i dormitori femminili e tirai W per una manica verso di
me, sottraendola al flusso ordinato di ragazze che stava salendo le
scale.
"Che
succede adesso?" si lamentò.
“Dobbiamo
fare una piccola... deviazione." azzardai titubante.
W mi
fissò inebetita per qualche secondo, come per accertarsi che fossi
seria.
Io
sostenni il suo sguardo con un sorriso angelico, fingendo che fosse
una richiesta assolutamente normale.
"Tu
sei pazza." affermò W rompendo il silenzio.
"Da
legare. Andiamo?"
Le
indicai le scale che scendevano in basso, e lei sgomenta seguì con
gli occhi il mio dito.
La
forza di volontà svanì via via nei suoi occhi verdolini, e seppi
che stava lentamente accettando l'idea.
"Un
minuto e basta però."
"Un
minuto." concordai spazientita.
Le
presi un polso e la trascinai giù per i gradini, di corsa.
"Posso
sapere almeno dove stiamo andando?" domandò con il fiato corto
mentre scendevamo la seconda rampa di scale.
"Nella
Mensa."
"Nemmeno
ti chiedo cosa devi fare poco prima di pranzo nella Mensa!"
esclamò ironica W.
"Saggia
decisione."
Eravamo
quasi arrivate quando lo udii.
Un
canto delicato.
Proveniva
dalla Mensa e si espandeva lungo il corridoio come il profumo di un
fiore.
Velocizzai
il passo.
W
troppo occupata a seguirmi non se n'era accorta e mi guardava
interrogativa.
Instintivamente
la bloccai con una mano appena dietro la porta, e mi posi un dito
sulle labbra.
"Ascolta."
le intimai.
Le
frasi appartenevano ad una lingua che non conoscevo, ma la melodia mi
rassereneva. Le parole traboccanti di tranquillità s'insinuavano
dolcemente nella mia anima e placavano l'ansia che l'aveva impregnata
per l'intera mattina. Mi soffermai un po' sulla soglia, indecisa se
entrare o meno. Non volevo che quella musica si fermasse. Accadeva
così raramente che delle note fluissero nei corridoi dell'Istituto.
"È...
bella."
La
voce di W, poco più di un sussurro, spezzò per un attimo l'incanto
della musica.
Avrei
voluto restasse in silenzio.
Alle
volte serviva che il tempo non fosse riempito da inutili parole.
Vidi
troppo tardi W appoggiarsi involontariamente alla porta socchiusa, e
questa si aprì con un cigolio sommesso.
La mia
maldestra compagna di stanza si ritrasse subito, ma ormai il danno
era fatto.
Il
canto venne improvvisamente interrotto da un grido strozzato. Udii il
fragore di posate che cadevano a terra, e spalancai la porta di
scatto.
Nel
mezzo della stanza, il volto rosso fuoco, riconobbi la ragazza minuta
che ci aveva letto l'avviso quella mattina. Teneva i capelli
biondissimi legati in una coda e ci fissava con gli occhi sgranati,
le iridi azzurro cielo brillanti d'imbarazzo.
"Mi
spiace... io... sono... in ritardo... forse..." ansimò.
S'inginocchiò
sul pavimento e iniziò a raccogliere le forchette sparse sul suolo.
Corsi
ad aiutarla, e lei nell'accorgersi del mio gesto strabuzzò gli
occhi.
"Non...
non c'è bisogno."
"Lo
so." replicai, continuando a raccattare le posate.
"Qual
è il tuo nome?" le domandai di getto.
Incapace
di proferire parola indicò la propria targhetta, il rossore che le
colorava le guance.
I.
Abbozzai
un sorriso e precisai:"Il tuo vero nome."
I
sussultò, incredula.
Poi
rispose con un filo di voce:"Inez."
"È
un bel nome." commentai.
La
timidezza le bloccava le labbra, ma vidi lo stesso nei suoi occhi il
desiderio di pormi domande indiscrete.
"Canti
davvero bene."
La mia
osservazione dovette stupirla parecchio, poiché le scivolò di mano
la forchetta che stava prendendo.
Le
guance le s'infuocarono nuovamente e si sminuì: "Grazie... ma
davvero, non sono..."
"Oh,
invece sì. Posso farti una domanda?" la interruppi.
Inez
annuì timidamente.
"In
che lingua stavi cantando?"
La
ragazza sorrise nostalgica e abbassò lo sguardo, rapita da
riflessioni lontane.
"In
svedese. È... è la mia lingua madre." confessò infine, gli
occhi fissi nel vuoto.
Intuii
che non aveva voglia di continuare la conversazione e abbassai gli
occhi sul pavimento, accorgendomi però che era già sgombro.
Dovette
rendersene conto anche Inez perché si alzò di scatto, pulendosi il
grembiule.
Accorgendomi
che guardava preoccupata i tavoli vuoti la rassicurai: "Il
pranzo comincia tra quindici minuti. Siamo noi in anticipo."
"Voi?"
Realizzai
solo in quel momento che W era rimasta dietro la porta per tutto quel
tempo e scoppiai a ridere.
"W,
vieni! So che sei lì!"
Il
viso lentigginoso della mia compagna di stanza fece capolino dalla
porta della Mensa e Inez le sorrise gentilmente.
W si
precipitò verso di noi e si rivolse a Inez, ignorandomi.
"Siamo
desolate, interrompere così il suo lavoro è stato più che
maleducato. La prego di perdonarci."
La
diretta interessata si sciolse in una risata, e con un gesto
minimizzò: "Non è successo nulla di irreparabile."
"E
dammi del tu, siamo coetanee." aggiunse, voltandosi verso W.
Quest'ultima
chinò gli occhi verdolini verso terra, e io mi sentii d'un tratto in
colpa.
Mi
aveva seguito contravvenendo al Regolamento, con l'unica promessa che
avrei impiegato solo un minuto per sbrigare la mia faccenda.
Promessa
che non avevo affatto mantenuto.
Ciò
nonostante lei non si era mossa di lì.
"I,
per caso c'è C? Vorrei parlarle." andai diritta al punto.
Inez
si strinse nelle spalle: "Sta cucinando in realtà."
Notando
la mia espressione delusa Inez si affrettò ad aggiungere: "Se
vuoi posso lasciarle un messaggio da parte tua."
"Bene.
Allora, per favore, dille che vorrei una nuova forchetta. Utilizza
queste stesse parole." dichiarai, dopo aver tergiversato a
lungo.
Erano
passati quattro anni dall'ultima volta in cui avevo utilizzato quel
nostro "linguaggio".
Quando
Corinne era ancora una semplice cameriera e io non godevo dell'ora di
conversazione giornaliera, comunicavamo in quel modo.
A
pranzo io facevo accidentalmente cadere la mia forchetta a terra, e
gliene domandavo una nuova. Soltando noi due sapevamo cosa
significava davvero.
Corinne
tornava con una nuova forchetta e se la posizionava a destra del
piatto voleva dire che ci saremmo potute incontrare, se la metteva a
sinistra voleva dire che quel giorno non poteva.
W
aveva l'abitudine di coricarsi molto prima del coprifuoco, perciò di
sera sgattaiolavo con facilità fuori dalla stanza, prima che le
porte venissero chiuse a chiave.
Io e
Corinne c'incontravamo nella sua stanza, trascorrevamo un'ora o due
insieme, e al ritorno era lei stessa che mi forniva la chiave per
riaprire la porta.
Poi C
si era diplomata ed era stata promossa ad aiuto-cuoco, e a me era
stata concessa un'ora libera al giorno.
Questa
consisteva in un lasso di tempo durante il quale potevamo conversare
con gli altri studenti, seppur controllati costantemente dai
professori.
Poiché
coincideva con il tempo libero del personale delle cucine, io e
Corinne avevamo iniziato ad incontrarci lì.
Stavamo
attente a non sfiorare certi argomenti, ma in fondo pensavo fosse
stato un sollievo per lei non doverli affrontare più.
E
forse anche per me.
"Glielo
riferirò."
La
voce sottile di Inez mi riportò alla realtà.
"Grazie."
mormorai.
Fu in
un silenzio tombale che io e W andammo nella nostra stanza.
Esasperata
da quel silenzio una volta giunta nella nostra stanza eruppi: "Non
mi fai nessuna domanda?"
W mi
diede le spalle e ripose la borsa sotto il letto, fingendo di non
avermi sentita.
"W?"
la chiamai.
La
ragazza allora sollevò il capo di scatto, gli occhi un misto di
rabbia e tristezza.
"Tu
mi daresti qualche risposta?"
La sua
risposta dura mi colpì.
W non
si era mai comportata in quel modo.
Non
trovando parole per controbattere incassai il colpo.
Alle
volte il tempo non doveva essere riempito da inutili parole.
Quella
sera Inez mi fece l'occhiolino e posizionò la mia forchetta a destra
del piatto.
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Capitolo 6 *** Capitolo V ***
Capitolo V
Capitolo
V
"W,
non pensi sia ora di spegnere la luce? Tra poco scatta il
coprifuoco."
La
mia compagna stava leggendo "Storia dell'Heddem Institute",
sdraiata sul letto opposto al mio. Le spirali rosse del suoi capelli
sparse sul cuscino, gli occhi verdolini intenti nella lettura.
"Come,
all'improvviso sei una studentessa devota al rispetto del
Regolamento?" ribatté acida, senza staccare lo sguardo dai
fogli ingiallite.
Sapevo
bene che stava fingendo, conosceva a memoria ogni parola di quel
piccolo volume.
Tutti
noi da piccoli avevamo speso tempo prezioso, imparando a decifrare
quelle righe. Era l'unico libro che fosse concesso leggere agli
studenti e, per quanto ne sapessi, anche l'unico presente nell'intero
Istituto.
"Sono
molto stanca." mentii.
"Avresti
potuto riposarti prima di pranzo. In quel momento però non mi sembra
che tu avessi così a cuore il Regolamento."
Con noncuranza voltò un'altra pagina.
Ero
scioccata.
I
nostri litigi non erano mai durati più di mezz'ora. Di solito W si
limitava a serrarsi in un silenzio offeso, tenendosi sempre lontana
da un vero scontro.
Cosa
le era successo? Aveva deciso di meritare un briciolo di rispetto nel
momento meno opportuno?
Non
sembrava nemmeno lei.
"Giuro
solennemente che da domani riprenderò ad ignorare il Regolamento!
Ora, per cortesia, potresti spegnere quella stupida lampada?"
ironizzai esasperata.
"Non
è tra le mie priorità."
La
sua flemma era snervante.
"Spegnere
la lampada o avere una compagna incosciente come me?" azzardai.
W
chiuse di scatto il libretto e si mise a sedere, rivolgendosi
finalmente a me. Mi squadrò in silenzio per qualche minuto,
consapevole di star mettendo a dura prova i miei nervi.
La
voglia di schiaffeggiarla cresceva di attimo in attimo. Ma non potevo
darle quella soddisfazione.
"Entrambe
direi. Mi sembra che invece siano tra le tue di
priorità."
Avevo
raggiunto il limite della sopportazione.
"Infatti.
Vorrei tanto avere una compagna incosciente, al posto di una noiosa
come te!" sbottai, la voce intrisa di veleno.
W
s'irrigidì di colpo e gli occhi le si velarono di lacrime.
Accorgendomi di averla ferita ebbi una stretta allo stomaco. Forse
avevo esagerato.
"W..."
la chiamai titubante.
"Hai
ragione, anch'io sono stanca."
Mi
diede le spalle mentre armeggiava con la lampada, una cortina di
capelli rossi a scenderle sul viso.
"Ma..."
"Buonanotte."
m'interruppe e una coltre di buio calò sulla stanza.
Mi
rannicchiai sotto le coperte, reprimendo l'istinto di riaccendere la
luce. In fondo il giorno dopo sarebbe tornata la solita W, accadeva
sempre così.
"Avere
una compagna di stanza incosciente non è facile. Parlo per
esperienza."
Sussultai
nell'udire la voce sottile di W. Pensavo si fosse già addormentata.
Sarebbe
stato più facile se le avessi spiegato tutto.
Ma
non potevo metterle in mano un'arma così preziosa. C me lo aveva
fatto intendere, seppur non mi avesse mai vietato esplicitamente di
tenere all'oscuro W.
Sospirai,
gettando un'occhiata furtiva verso di lei.
Era
chiaro che non desiderava davvero una risposta da me, perché il suo
respiro si era regolarizzato. Doveva essere già avvolta dal calore
del sonno.
Tuttavia
trovavo rischioso uscire subito, avrei atteso ancora qualche minuto.
Involontariamente
i miei pensieri si dirottarono verso il mio primo, strano incontro
con W.
"Non
essere così tesa!" eruppe C con una risata.
Io
strinsi i denti, strofinando l'una contro l'altra le mani gelide per
l'agitazione. Era ovvio che Corinne non comprendesse.
Quel
giorno avrei cenato con gli altri alunni dell'Istituto, sarei
scappata da quel buco inospitale in cui ero stata costretta negli
anni passati.
E
avevo paura, una di quelle paure che seccano la gola e mozzano il
fiato.
Paura
che quella volta potesse essere l'ultima.
C
non lo sapeva, ma io avevo sentito i professori discutere riguardo al
mio destino. La conclusione era stata brutale.
O
quella sera avrei convinto loro che l'isolamento mi avesse
addomesticata, o avrei trascorso il resto dei miei giorni tra quelle
quattro pareti.
"Corinne...
gli altri bambini come sono?" domandai d'un tratto.
La
ragazza mi stava chiudendo la treccia con l'elastico, ma questo le
sfuggì di mano nel sentirmi. Sbuffò e lo raccolse di nuovo,
subendosi la mia risatina derisoria.
"Cosa
dicevi?" s'informò ostentando indifferenza.
"Gli
altri bambini..."
"Oh."
Corinne ricominciò a separare le ciocche, in apparenza ignorando la
mia domanda.
"Corinne...?"
"A,
sono diversi da noi due." dichiarò con voce incerta.
Incuriosita
mi girai d'istinto verso di lei, a cui di conseguenza risfuggirono i
miei capelli.
"In
che senso?"
C
esalò un gemito insofferente e prese il mio capo, voltandolo con
forza verso lo specchio.
"Rimani
così." ordinò.
"Dunque..."
Sospirò ripetutamente. "Dunque, sono diversi perché loro non
conoscono il loro nome. O la loro terra d'origine."
"Be',
io so di essere inglese, nulla più." Scrollai le spalle.
Corinne
scoppiò a ridere e mollò la presa sulla treccia, che si sciolse. Di
nuovo.
La
ragazza si curvò su di me, gli occhi scuri brillanti di
divertimento.
"A,
tu non hai nemmeno idea di quanto sia vasto il mondo. Le persone
sprecano la loro vita alla ricerca del loro posto su questa
superficie immensa, infinita. Tu sai già di essere inglese. È un
passo avanti."
Mi
piaceva quando si abbandonava a quel fiume di parole, spesso per me
incomprensibili. Mi piaceva ascoltarla, con la consapevolezza che
avrei serbato nel cuore e nella memoria quelle conversazioni, fino a
quando non avessero acquistato un significato anche per me.
"Non
temere, andrà tutto bene." mi rassicurò C a bassa voce.
"Corinne..."
Ebbi un sussulto e m'interruppi. "Noi non ci vedremo più. Se
loro decideranno di assegnarmi, non avrò più bisogno che tu mi
porti il cibo."
Mi
rivolsi a lei, il cuore che batteva all'impazzata.
"Non
voglio!" urlai e gli occhi mi si riempirono di lacrime. "Non
voglio Corinne, mi comporterò male, io..."
"Piantala
di dire stupidaggini e pensa ad impegnarti stasera! Qui non c'è solo
in ballo il luogo in cui dormirai di notte!" m'intimò brusca C.
"Continueremo
a vederci, te lo prometto." scandì, con un tono talmente sicuro
da rasserenarmi subito.
Allora
rilassai i muscoli, abbandonandomi sulla sedia di legno. Era
importante che l'ansia non mi sopraffacesse, Corinne aveva ragione.
"Non
trovi che i capelli sciolti ti stiano meglio?"
Divertita
le lanciai un'occhiata e lei alzò le mani, uno stupore esagerato
dipinto sul viso.
"Ehi,
il mio era un consiglio totalmente disinteressato!"
"Certo,
chi potrebbe mai avere dubbi!" la assecondai, costringendomi a
non ridere.
Corinne
guardò distrattamente l'orologio e si rabbuiò.
"È
tardi. Devi andare." mormorò, aggiustandosi il grembiule mezzo
slacciato.
Mi
tese una mano gentilmente e io saltai su, pronta ad affrontare la
cena.
Corinne
mi accompagnò lungo la rampa di scale che scendeva verso il basso,
stringendomi una mano sudata. La sicurezza che avevo provato nella
mia stanza cominciò a sfumare, gradino dopo gradino.
Quando
giunsi dinnanzi alla porta della Mensa, la fame era svanita per la
tensione e il mio colorito non doveva essere dei migliori.
"A?"
mi chiamò Corinne con dolcezza.
Spostai
il mio sguardo su di lei in automatico.
"Ora
devi proseguire da sola." Si morse un labbro mortificata. "Tutto
bene?"
"Sì..."
riuscii a rispondere con voce fiebile.
C
mi guardò preoccupata un'ultima volta e sussurrò, facendomi
l'occhiolino: "Ci vediamo dentro."
Poi
si allontanò verso l'entrata destinata al personale con passo
veloce.
Ero
da sola. Completamente sola.
Non
mi attardai ancora nell'osservare la porta chiusa e la aprii, con una
spinta decisa.
Una
folla di bambini vestiti con l'uniforme della scuola erano seduti
intorno a tavoli bianco latte e addentavano dei rigatoni al sugo, in
un innaturale silenzio. Qualcuno di loro mi notò e alzò gli occhi
dal piatto ma nessuno sembrava porsi delle domande o avere un po' di
curiosità nei miei confronti.
Da
una parte ne fui rasserenata, dall'altra ne fui quasi intimorita.
A
sbloccarmi dalla mia posizione fu l'irruzione di C nella Mensa, la
quale mi dedicò un sorriso incoraggiante, prima che la perdessi di
vista nel viavai dei camerieri.
Respirai
a fondo e decisi di puntare verso una delle bambine che mi aveva
fissato per più tempo. Spiccava per i suoi capelli rossi chiari, che
fino a quel momento non avevo mai visto.
Scostai
una delle sedie accanto a lei e mi sedetti, cercando di sistemarmi la
gonna dell'uniforme. Erano passati quasi tre anni e ancora non mi ero
abituata.
"È
così scomoda!" mi lamentai, sperando di attirare la sua
attenzione.
"Be',
qualcosa dovremmo pur indossare." osservò in tono distaccato la
bambina.
"In
effetti non penso sia il caso di girare nudi per la scuola..."
scherzai.
Lei
non reagì e ingoiò un altro boccone.
"Io
mi chiamo Am..." Mi bloccai, stavo già per combinare un
disastro. "A. A e basta."
La
bambina però non sembrava nemmeno avermi sentita, così ripetei a
voce più alta: "Mi chiamo A."
Dei
bambini udendomi si posero un dito sulle labbra, infastiditi, e la
sconosciuta divenne rossa come il pomodoro che era rimasto nel
piatto.
"Non
si può parlare nella Mensa!" sibilò a denti stretti.
"Io
volevo solo sapere il tuo nome." mormorai.
Era
assurdo.
"W.
Mi chiamo W, contenta?"
Non
parlammo più fino all'arrivo del secondo.
Appena
esaminò il contenuto la vidi storcere il naso.
Carne
e spinaci.
Rimasi
zitta e mangiai la mia porzione, finché non mi accorsi che W stava
accantonando gli spinaci ad un lato del piatto seppur questo fosse
vuoto.
"Non
ti piacciono."
"Sì
che mi piacciono!" mi contraddì lei stizzita, prendendo la
forchetta e radunando un boccone sulle punte.
"È
normale, non c'è nulla di cui vergognarsi."
Forse
si sentiva a disagio perché a me piacevano e a lei no.
"Io
odio le patate, ad esempio. E non gradisco molto il tonno."
ammisi con sincerità.
"Ma
a me piacciono. Devono piacermi." affermò testarda W. Poi si
ficcò la forchetta in bocca e iniziò a masticare lentamente,
inghiottendo infine con le lacrime agli occhi.
"Se
vuoi posso finirli io." le proposi.
Indignata
W scosse il capo: "Sarebbe un gesto molto maleducato verso chi
ha cucinato."
Ma
chi le aveva inculcato quelle idee in testa? C non si era mai offesa
quando avevo lasciato qualcosa nel piatto.
"Ti
assicuro che loro non si arrabbiano." riprovai.
"Basta
A, stai zitta che altrimenti ci mandano nell'ufficio o peggio, in
isolamento!"
Evitai
di confessarle che io ci ero stata negli ultimi due anni e
ricominciai a mangiare i miei spinaci, ammutolita.
Ritornai
alla realtà. Quella era stata la prima volta in cui mi ero scontrata
veramente con le norme rigide dell'Istituto. Andai con lo sguardo
all'orologio appeso al muro e mi sforzai per guardare oltre le
tenebre.
Trattenni
un gemito.
Persa
nei miei ricordi il tempo era sfuggito e mancavano solo due minuti
allo scoccare dell'Ultima Campanella. Dovevo sbrigarmi.
Mi
alzai in fretta e corsi verso la porta, pregando me stessa di non
inciampare.
Lanciai
un'ultima occhiata furtiva verso W. Dormiva profondamente.
"Scusami
W." mormorai, prima di spalancare la porta.
I
faretti del corridoio si stavano spegnendo l'uno dopo l'altro,
lasciando che l'oscurità invadesse lo spazio. Presto Miss. Hedd
sarebbe passata per vedere se il sistema automatico che monitorava le
porte avesse funzionato.
Incominciai
a salire, quasi correndo, le scale che portavano all'ultimo piano.
Il
luogo dove riposavano i neomarchiati, il personale delle pulizie e in
via del tutto eccezionale io.
Era
proprio come lo ricordavo.
Il
pavimento rovinato sepolto sotto un tappeto verde bosco, uno dei
pochi arredi colorati dell'Istituto. Una finestra grande sulla parete
destra, la serranda a mezz'asta, che dava sulla folta vegetazione
intorno all'Istituto.
L'atrio
si diramava in due corridoi: a sinistra i neomarchiati, a destra il
personale delle pulizie.
Ero
tentata di girare a sinistra per vedere se davvero la stanzetta, che
per due anni aveva costituito il mio mondo, fosse diventata uno
sgabuzzino.
Non
ebbi modo di rifletterci tuttavia, perché d'un tratto avvertii
distintamente il rumore di passi.
Provenivano
dalle stanze del personale.
Seguendo
l'istinto arretrai e ripercorsi i miei passi, correndo giù per
qualche scalino.
Accadeva
spesso che i camerieri andassero a controllare le condizioni dei
neomarchiati, ma di solito io li udivo a notte fonda.
Era
strano che lo facessero poco prima dell'Ultima Campanella.
Se
avessi mantenuto la calma, non sarebbe successo nulla.
I
passi si avvicinavano, più di quanto avessi supposto. Perché non
andavano diritti verso i dormitori dei neomarchiati?
M'imposi
di non agitarmi, ma il battito accelerò contro la mia volontà.
Erano
troppo forti, troppo per trovarsi nel corridoio di sinistra.
Mi
raggomitolai nell'angolo che segnava la svolta della rampa,
schiacciata contro la parete liscia.
Goccioline
di sudore m'imperlavano la fronte, il cuore vibrava nel mio capo
stanco.
A
quel punto potevo solo affidarmi alla fortuna.
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Capitolo 7 *** Capitolo VI ***
Capitolo VI
Capitolo
VI
"A?
Non preoccuparti, sono solo Inez."
Rilassai
di colpo i muscoli, il battito che ancora pulsava nelle mie orecchie.
Era raro che il panico s'impadronisse in quel modo di me, annebbiando
la lucidità con cui avevo imparato ad affrontare i problemi con il
passare degli anni.
Cosa
mi stava succedendo?
Sembrava
che l'arrivo di Miss. Key avesse scatenato i fantasmi che popolavano
da bambina i miei incubi, quelli da cui mi risvegliavo con le lacrime
agli occhi e il cuore a mille.
Faticavo
ad ammetterlo, ma negli anni passati avevo cominciato lentamente a
considerare l'Heddem Institute una casa. Ed era la prima volta da
molto tempo che, là dentro, non mi sentivo al sicuro.
"A?
Ci sei?"
Un
fascio di luce m'investì, strappandomi alle mie riflessioni e
socchiusi le palpebre. Tesi una mano in avanti alla cieca, mentre i
contorni della figura magra di Inez si facevano più definiti.
"Scusa."
mormorò I colma d'imbarazzo. "Ti ho spaventata?"
"No,
assolutamente. Avevo già in programma di rimanere quasi accecata."
replicai ironica.
Le
guance della giovane cameriera s'imporporarono e la torcia le scivolò
via dalle mani sudate, spegnendosi e cadendo con un tonfo sul marmo
delle scale.
"Me
l'ha prestata C, non sapevo fosse così potente." farfugliò
imbarazzata Inez.
Mi
sollevai in fretta da terra, scuotendomi di dosso la polvere.
"Stai
be--"
"Perfettamente."
tagliai corto.
Soltanto
in quel momento osservai Inez. Le ombre le scavavano il viso e
serpeggiavano sui capelli chiari, raccolti sulla nuca. Uno strano
pezzo di stoffa verde le avvolgeva le spalle, coprendo il pigiama
dell'Istituto.
"Ma
voi potete vestire degli indumenti che non siano l'uniforme o il
pigiama con il logo dell'Istituto? C mi aveva raccontato che valeva
pure per voi."
Inez
sgranò gli occhi azzurri, con l'aria di chi è stato sorpreso nel
commettere un furto.
"Con
me puoi stare tranquilla. Non sarò certo io a farti la predica."
la rassicurai, forzando un sorriso.
"È
di mia madre. C l'ha trovato nella mia valigia e l'ha nascosto, in
modo che sopravvivesse all'ispezione." riuscì a confessare,
dopo qualche minuto di silenzio.
Stavo
per aggiungere qualcosa, ma Inez m'interruppe con impazienza:
"Dobbiamo andare. C ti aspetta."
"Dove?"
Inez
non mi rispose. Voltò le spalle e iniziò a salire le scale, i
capelli una scia albina dietro di sé.
La
seguii interdetta.
"Puoi
tornare a dormire, capisco che Corinne non si fidi della mia memoria
ma ricordo dov'è collocata la sua camera."
Inez
si fermò e respirò a fondo, lo sguardo stanco.
"C
non dorme più lì. È stata promossa ad aiuto-cuoca. Quella è la
stanza della nuova coordinatrice delle cameriera, e ti assicuro che
uno scontro con lei non sarebbe piacevole."
Ricominciò
a salire gli scalini, come se la spiegazione scarna bastasse a
soddisfarmi.
"Dunque
andiamo nella sua nuova stanza?" insistetti.
"No."
Ci
ritrovammo presto al bivio dei due corridoi. Mossi con sicurezza un
passo a sinistra, ma Inez mi afferrò per un braccio.
"A
destra?" chiesi dubbiosa.
"Sì."
Inez sciolse la presa, un rossore soffuso sulle guance. "Conosci
la strada meglio di me."
Spostai
l'attenzione sul corridoio, riempito da una fitta trama di tenebre.
"Vuoi
dire che..." Mi bloccai, accorgendomi di essere l'unica nel
corridoio. Inez se n'era andata.
D'altronde
c'era solo una stanza da quella parte.
Presa
da un'impazienza irrefrenabile, corsi a perdifiato lungo l'intero
corridoio. Un'ondata di nausea mi assalì quando la scorsi,
incastrata nella parete grigia, quella porticina sgangherata che da
piccola consideravo il solo limite tra me e il resto del mondo.
Paura.
Nostalgia. Affetto. Un fiume di sensazioni differenti m'invase.
Afferrai
con mano tremante la maniglia, accarezzando con il pollice la vernice
scrostata.
Quella
stessa porta, un po' più levigata.
Quella
stessa maniglia, un po' meno arrugginita.
Quella
stessa bambina, un po' meno cresciuta.
Le
lacrime offuscarono la mia vista, mentre immagini confuse scorrevano
dinnanzi a me.
E
fu con quei ricordi che si sovrapponevano nella testa, e quella
confusione comune che regnava nel cuore, che io e quella bambina
sospingemmo la porta.
Cercai
a tentoni l'interruttore, finché la mia mano non trovò il piccolo
riquadro.
La
lampada si accese, emanando un bagliore instabile. Era appesa al
soffitto da un filo di metallo sottile, così sottile che da bambina
avevo temuto cedesse mentre dormivo.
La
stanzetta mi parve ancora più piccola di quanto avessi memoria,
giusto lo spazio perché una bambina di quattro anni riuscisse a
respirare. L'aria viziata stagnava nella camera, l'unica finestrella
circolare serrata. Doveva essere passata molto tempo dall'ultima
volta in cui era stata aperta.
Sulle
pareti spoglie, passate dal bianco originale a un giallino malsano,
erano ancora visibili le sagome dell'antico mobilio.
Ebbi
una stretta al petto. Delle scope spennacchiate e un secchio ossidato
avevano sostituito il mio letto.
La
mia vecchia camera era davvero diventata uno sgabuzzino.
"Sì,
qualche mese fa Miss. Hedd ha deciso che non eri più a rischio e ha
ordinato di buttare il tuo letto e l'armadio."
Un
brivido mi percorse la schiena, nemmeno mi ero accorta di essermi
espressa ad alta voce.
"Corinne!"
la riconobbi.
"In
persona."
Non
feci nemmeno in tempo a voltarmi, che un abbraccio mi travolse.
Un
abbraccio che odorava di limone e tranquillità.
Un
abbraccio che, per quanto ne avessi esperienza, sapeva di famiglia.
Bastò
quello a cancellare l'ansia che avevo provato per l'intera giornata.
All'improvviso
C s'irrigidì e si staccò da me. I suoi occhi castani mi squadrarono
vigili da capo a piedi, come a volersi accertare che ciascuna parte
del mio corpo fosse al posto giusto.
"Inez
mi ha riferito il tuo messaggio." enunciò alla fine, il tono
incerto.
"Era
sospettosa?"
"Perplessa,
direi. Immagino lo sarebbe stato chiunque." ribatté C.
"Quale
bugia le hai raccontato?" Sogghignai.
"Nessuna."
"Cosa?"
Saltai su indignata.
"Calmati."
"Le
hai rivelato tutto." sibilai a denti stretti, incredula.
"L'indispensabile."
mi corresse Corinne indispettita. "Inoltre bisogno di aiuto.
Inez manterrà il segreto."
"Come
puoi esserne sicura?" la attaccai ostile.
"Non
lo sono."
"Come
posso esserne io?"
"Non
lo sei." rispose. "È vero, di questo non sono certa
nemmeno io, ma so che Inez è arrivata all'Istituto appena un anno
fa. So che si è separata dalla sua famiglia d'adozione e dalla sua
terra d'origine. So che ha lasciato in Svezia due fratelli e una
sorellina in procinto di nascere. So che forse non la conoscerà mai.
Ora dimmi, secondo te parlerà?"
Tacqui,
non trovando nulla con cui replicare. Sapevo che Corinne aveva
ragione, seppur la mia testardaggine m'impedisse di parlare.
"Terrà
la bocca cucita." ribadì.
"Sembra
affidabile." le concessi a bassa voce.
Soddisfatta
C schiuse le labbra in un sorriso e domandò: "Di cosa dovevi
parlarmi?"
All'improvviso
mi sentii un verme. Ciò che fino a qualche attimo prima avevo
ritenuto di vitale importanza, mi sembrò frutto di vaneggiamenti
insensati.
"Ti
ricordi il giorno in cui hai visto il mio marchio?" chiesi
titubante.
La
ragazza si morse un labbro, ma non rispose.
"Corinne...?"
la richiamai.
Pareva
essersi persa nei suoi pensieri, come quando da ragazza s'incantava
nel decantare le meraviglie di un mondo che io non avevo mai
conosciuto.
"Amira,
giungi dritta al punto."
Ebbi
un sussulto. Non ero abituata a udire il mio nome da una voce che non
fosse la mia. Sebbene lo avessi svelato molti anni prima a C, lei lo
usava raramente. Preferiva tenerlo per i momenti più solenni, quasi
che pronunciarlo troppo ne riducesse il valore.
"Stamattina
Miss. Key ci ha ordinato di scoprire il braccio destro. E io non l'ho
fatto."
Corinne
non si scompose di un millimetro, limitandosi a mantenere lo sguardo
fisso nel vuoto.
"Hai
qualcosa da dire o ti sembra un comportamento ordinario?"
azzardai.
"Sì,
avrei molto da ipotizzare o domandare. Ma penso che tu non abbia
voluto incontrarmi qui perché ti confondessi ancora di più."
Si
sedette sul pavimento impolverato, la schiena appoggiata a una
parete. Anch'io mi accovacciai, le ginocchia strette al petto.
Restammo
così un'infinità. Entrambe sapevamo che quella conversazione
avrebbe pesato. Non sapevamo su cosa, non sapevamo in che modo, ma lo
sentivamo.
Perché
quei momenti cruciali, quei momenti che si ricordano per il resto
della vita, si sentono. Anche quando non sono ancora arrivati.
"Amira?"
Forse
era passata un'ora quando Corinne si azzardò a chiamarmi. Forse
erano passati solo cinque minuti.
"Abbiamo
rimandato troppo a lungo questa conversazione. Sappi che quello che
conosco è davvero poco. Troppo poco." sussurrò.
"Non
te ne faccio una colpa."
"Lo
so." La voce di Corinne tremò. "Fammi una promessa.
Promettimi che, qualunque cosa ti rivelerò, tu non commetterrai
l'errore di sentirti imprigionata."
"Ma
io sono imprigionata. In questo Istituto, in questa stanza, in questo
marchio, in questa lettera." dissi con amarezza.
Corinne
volse il volto verso di me, gli occhi lucidi di lacrime, i ricci
appiccicati al volto.
"E
lo sarai per sempre. Non smetterai mai di essere imprigionata. Ma
promettimi che non concederai mai a te stessa di sentirti tale."
Sembrava
così decisa, così disperata, che annuii senza riflettere.
"Bene."
Si rasserenò e tornò la fiduciosa, ferma C di sempre. La sporgenza
del dirupo a cui mi ero aggrappata per non cadere nel vuoto.
"Sono
pronta."
"Bene."
ripeté la giovane donna. "Da dove vuoi cominciare?"
"Dal
Marchio. Perché si trova a sinistra e non a destra?"
Sfiorai
inavvertitamente la pelle su cui, impresso come un disegno, c'era il
marchio che mi perseguitava dalla nascita.
"Sai
come siete chiamati, tu e il resto degli studenti?"
"Marchiati."
risposi di getto.
"Il
termine in realtà è inesatto. Per Marchiati s'intendono tutte le
persone che portano quello scarabocchio sul braccio, su qualunque
braccio."
Lo
stupore si fece strada sul mio volto, mentre una strana adrenalina mi
attraversava come una scarica elettrica.
"Questo
significa che--"
"Sì
A. Non sei da sola." m'interruppe, un sorriso malinconico
dipinto sul viso.
"E
gli altri dove stanno?" Mi trattenni a stento dall'urlarlo.
"Fuori.
Esistono delle Comunità, a quanto so. Ma A, non è il posto dove si
trova il Marchio a determinare la categoria a cui appartieni, quella
è una mera formalità." spiegò Corinne.
"E
cosa allora?" la incalzai, gli occhi brillanti d'entusiasmo.
"Come
ne fai Uso." disse in un soffio.
"Uso?
Significa che loro non trasformano la materia in...?"
"No,
non trasformano la materia in non-materia. Loro..." Indugiò,
mordendosi un labbro.
"Loro?"
Quell'attesa
era esasperante.
"Loro
si staccano dalla realtà." disse alla fine con un filo di voce.
"Non
capisco." Agrottai le sopracciglia.
"Nemmeno
io ne so tanto a dire il vero. Ho udito Miss. Hedd parlarne con i
miei genitori, poco prima che venissi spedita qui." svelò a
bassa voce. "Poi ho udito qualche conversazione occasionale,
nulla più. Tra queste quella che si svolse tra Miss. Hedd e un
professore di cui non ricordo il nome."
"Sul
serio?"
"Sì.
Dovevo portare una tazzina di caffé nell'ufficio di Miss. Hedd. Lui
stava dicendo che saresti diventata una di loro, che se si
apparteneva alla nascita a loro, si sarebbe appartenuti a loro fino
alla morte." narrò Corinne.
"E
Miss. Hedd?"
Corinne
assunse un'espressione grave e distolse lo sguardo.
"Lei
ha detto che ti sarebbe stato impossibile nell'Istituto, che lei te
lo avrebbe reso impossibile." rispose dopo qualche minuto,
riluttante.
Io
aprii e richiusi la bocca, incapace di proferire parola.
Perché
quel professore credeva che sarei diventata una di loro? Cosa avevo
di diverso rispetto agli altri alunni, eccetto la posizione del
Marchio che, a quanto sembrava, non aveva valore?
"A,
non allarmarti. Ci sono io e ti aiuterò, qualunque sarà il tuo
desiderio." promise, la voce traboccante di sicurezza.
"Penso
sia tardi." mormorai fredda.
"A
ma--"
"Penso
sia tardi." ripetei con veemenza. "Devo tornare nella mia
stanza, la solita."
"D'accordo."
si arrese C, incominciando a frugare nelle sue tasche.
Io
mi avvicinai alla finestra e la spalancai, forzando il meccanismo
arrugginito. Il vento fresco filtrava nel mio pigiama leggero. Mi
sarei beccata un raffreddore forse, ma non m'importava poi tanto.
Avevo bisogno di respirare aria pulita, aria chiara, aria priva di
punti interrogativi.
"Trovate!"
esultò debolmente Corinne alle mie spalle, riportandomi alla realtà.
Richiusi
la finestra con un colpo secco.
Corinne
mi lasciò scivolare una chiave nella mano e con noncuranza aggiunse,
le labbra accostate al mio orecchio: "Vengono
chiamati Neroveggenti."
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