Non dirlo al mio capo

di A J Foster97
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Bugie in regola ***
Capitolo 2: *** La Praticante ***
Capitolo 3: *** Un gioco che non vinco mai ***



Capitolo 1
*** Bugie in regola ***


Capitolo 1
Bugie in regola


Ho sempre odiato i numeri, sono secchi, brutti, spietati.
Mi chiamo Lisa Marcelli, vivo a Napoli ma sono nata a Milano. Ho due figli, trentaquattro anni e sono al mio trentaquattresimo colloquio di lavoro. Ah, mio marito è deceduto da sei mesi e da allora la mia vita è andata a rotoli. E come se non bastasse questa mattina, a causa dell'agitazione, ho pure indossato due paia di calzini diversi. Provo una vergogna indescrivibile quando mi accorgo che una lunga fila di splendide ragazze, con addosso gli abiti più preziosi e dieci anni in meno, mi sta squadrando da capo a piedi, con quell'aria un po' maligna di chi nella sua testa sta decisamente ridendo di te. Cerco di non darci peso, eppure come non farlo? Mi sembra di essere ritornata al Liceo quando attraversare i corridoi per andare in bagno era sinonimo di coraggio. Forse adesso ne avrei bisogno, di un po' di quel coraggio. Mi schiarisco la voce, come mio solito fare quando sto per mentire, ed esclamo con imbarazzante sicurezza: "È una moda! In Giappone se non porti i calzini spaiati, non sei nessuno", ridacchio nervosamente, trovando attorno a me solo un pesante silenzio. Era penoso. La ragazza bionda della reception mi fissa con un sorriso forzato sotto il quale si cela una disgustosa pena. Dopo qualche minuto: "Lisa Macelli?", gracchia, con aria stizzita, come se utilizzare le corde vocali per produrre un suono o leggere con attenzione il mio cognome le costasse una fatica abnorme. "È Marcelli", mi affretto a precisare, ma lei è già passata ad esaminare altri documenti, dimenticandosi completamente della mia presenza. Da qualche tempo a questa parte, sono completamente invisibile ad occhio umano. Forse è proprio per questa mia inconsistenza che, come una disperata, mi trovo all'ennesimo colloquio di lavoro nel quale, con molta probabilità, invece di valutare le mie competenze, mi proporranno quesiti d'alta cultura come 'Lei è mai stata in Tibet?' o 'Ha dei cani?'. Le opzioni in queste circostanze sono due: tenere fede all'onestà, come ho sempre fatto negli scorsi colloqui trovandomi poi con in mano un pugno di mosche, o mentire sperando in un aiuto divino. Mi avvio al colloquio, cercando di ostentare un po' sicurezza, ma in verità me la sto facendo sotto: sono almeno dieci anni che non lavoro, a dire il vero, non ho mai lavorato, c'è sempre stato mio marito, Alberto, e non ho mai dovuto realmente pensare a vivere, economicamente parlando. Tant'è che, se precedentemente la mia laurea in legge mi sembrava solo un ornamento con il quale abellire il mio studio e della quale vantarmi davanti agli amici di mio marito, adesso, a distanza di soli sei mesi, appare essere l'unica cosa che mi può salvare dal fallimento più totale.

***

Al peggio, quest'oggi, non c'è fine. Dopo essere stata cacciata elegantemente dal colloquio con un 'Le faremo sapere' che assomigliava più ad un 'Vada a cercarsi un altro impiego', vengo interpellata, di gran fretta, quasi fossi una ladra, dalla banca Partenope. E cosa potrebbero mai volere? Una miriade di visioni apocalittiche si affacciano nella mia mente senza che io possa fare nulla per fermarle, ed in men che non si dica, sono già in strada. Ho bisogno dell'aiuto di Mia e di Google Maps per visualizzare la strada, dato che non mi sono mai occupata io, ma bensì quella buon'anima di mio marito, di tutte queste faccende. Mi sento un po' ridicola mentre penso che in passato le mie uniche preoccupazioni erano andare alla SPA due volte a settimana e curare il mio orto biologico. Accosto in maniera frettolosa davanti ad una palazzina di proporzioni mastodontiche e di gusto decisamente neoclassico, e, quasi come in preda all'orticaria, mi precipito nell'ufficio del direttore. Le notizie che mi porge sono quanto di più sgradevole ci sia. Tutto ciò che riesco a recepire, oltre le sue stupide scuse più finte della mia Gucci comprata al mercato, è: ''Se non paga la retta entro una settimana, dovremo pignorarle la casa. Ha capito, signora Macelli?''. Incredibile, oggi stanno facendo a gara! Mi alzo di scatto e, con quel poco di dignità che mi è rimasta, ripeto per l'ennesima volta in una mattinata:
''E comunque, io mi chiamo Marcelli, non Macelli''.
Giro i tacchi e più che andarmene, scappo via.

***

L'aria pulita del mattino rischiara i miei pensieri e mi aiuta a superare questo shock totalmente inaspettato. Mi nascondo in un un angolo, per non farmi notare dai passanti, ed inizio a piangere a dirotto, crollando sulle mie stesse ginocchia. Dovrei darmi un contegno, lo so, dovrei essere più forte di così, ma non ce la faccio. Dopo settimane di stress e brutte notizie, tutto ciò che posso fare è piangere. E queste lacrime sono così liberatorie che inizio a commuovermi solamente pensando a quanto mi stiano facendo sentire meglio. Quando rientro in auto, perfettamente scevra di lacrime e forza di volontà, trovo Mia appollaita sul sedile anteriore che invia messaggini col suo Iphone (chissà se dovremo vederlo) a chissà quale ragazzo rockettaro con la puzza sotto il naso e Giuseppe mentre si trastulla con i giocattoli imitando i suoni di vere e proprie sparatorie.
''Mamma che volevano?'', mi domanda Giuseppe con tono squillante.
''Niente amore, mi ero dimenticata di firmare un documento, sì'', sono riuscita a trovare una scusa che regga in pochi secondi, sto migliorando.
''A papà la banca non lo chiamava mai'', mi contesta Mia con la sua voce da saputella, mentre continua a pigiare i tasti del cellulare. Credo abbia fiutato l'odore della mia bugia, ma per adesso non ho il tempo di spiegarle, non davanti a Giuseppe.
L'unica risposta che il mio cervello riesce a formulare è: ''E' vero, a papà non lo chiamavano mai''. Riesco quasi a leggere una sfumatura di nostalgia nella mia voce, e spero tanto non se ne siano accorti. ''Sincerità, sicurezza e serenità'', ripeto a me stessa, come un mantra e dopo essermi raggomitolata sul sedile, sconfortata sotto ogni punto di vista, inforco la marcia. ''Arrivati a questo punto, cosa potrebbe andare storto?'', esordisco sarcastica mentre faccio marciaindietro. Ma quando pensi che la tua giornata non possa peggiorare, ecco che il mondo ti molla un ceffone e ti dimostra che non è così. Mi porto la mano tremolante alla bocca e scendo subito dall'auto per constatare la gravità del danno inferto alla povera (mica tanto, con questa sì che potrei pagarmi l'ipoteca) automobile parcheggiata magnificamente dietro il mio vecchio catorcio.
''Dimmi che è un palo!'', il mio è quasi un ordine, una speranza malconcia, un autoconvincimento che non dura troppo a lungo, in quanto le parole di Mia subito dopo stroncano ogni mia possibilità di fraintendimento.
''Sì, un palo da centomila euro!'', mi risponde, ridacchiando, con la sua solita simpatia da quattro soldi. Certe volte vorrei provasse più empatia nei confronti della sua povera (letteralmente, ahimè) madre, invece di denigrarla ad ogni valida occasione. Eppure mi dico che è l'adolescenza, e passerà.
''E' di quel signore lì...'', prende ad urlare Giuseppe improvvisamente, con gli occhi brillanti e il corpicino in fibrillazione, prima che io possa fermarlo, tappandogli la bocca. Ciò nonostante, nel trambusto generale, riesco a percepire il parcheggiatore che, in tono languido, dice: ''Buongiorno, avvocato Vinci''. Deve essere un pezzo grosso per essere trattato con un tale grado di gentilezza e per potersi permettere un auto di questo calibro.
''Non ci ha visti, andiamocene'', sussurra Mia con fare complottista. Chissà quanti guai avrà combinato, con il caratteraccio che si ritrova, e che mi avrà tenuto nascosti.
''La mamma non scapperebbe mai, vero mamma?'', Giuseppe mi scruta con gli occhioni luminosi e tutta l'ingenuità dei suoi sette anni, mentre Mia si chiude in se stessa, con le braccie conserte, ed una faccia da schiaffi che aspetta solo che io ceda alle sue provocazioni. Il suo sorrisetto dice esplicitamente: 'Avanti, vediamo adesso cosa fai!'
''Giuseppe ha ragione'', affermo, dopo un po', non troppo convinta di volermi cacciare in un altro pasticcio, ma nemmeno in grado di fuggire via come una criminale, o peggio, come una che se la sta facendo sotto.
''Non scapperei mai!'', sento che la portata delle mie bugie, questa mattina, sta per aumentare vorticosamente.
''E quindi andate a prendervi l'autobus ed io vi raggiungo a casa, appena posso'', dico, cercando di darmi un contegno e di apparire quanto più autoritaria possibile. ''Sono sicura che sarà un uomo molto comprensivo'', stento a crederci, ma devo farlo, altrimenti rischierei di dar ragione a Mia e non posso permettermelo. *** Mentre i piani sul display dell'ascensore scorrono con una rapidità inaudita, mi sento irrequieta come una debuttante o una studentessa liceale prima dell'orale di maturità. Ho le mani sudate, un tremolio persistente alle ginocchia, un colloquio andato male ed una taglia sopra le testa che grida: Ipoteca, Ipoteca, Ipoteca. Quando le porte si aprono, susseguite dal quel tipico suono stridulo che m'avverte di essere arrivata a destinazione, come se non me ne fossi accorta, mi faccio forza e supero la soglia d'ingresso con fare affabile e timidamente sicuro; sicurezza che viene violentemente ridotta in poltiglia da una voce gelida e spaventevole che in un attimo ha fatto tremare le pareti della hall, urlando: ''Idiota! Chi sbaglia paga, eh. Ma come hai fatto? Trova i documenti giusti entro domani altrimenti...''. Lo stesso uomo che ha pronunciato queste parole si barrica nella sua stanza infondo al corridoio, sbattendo svogliatamente la porta e creando un tale scompiglio attorno a sé che in un nanosecondo vedo assistenti, praticanti, segretarie e quant'altro muoversi freneticamente da una parte all'altra dello studio. Incredibile, adesso sì che devo iniziare a preoccuparmi. Nel momento in cui riesco a trovare il coraggio necessario per fare un passo avanti, scopro di essermi aggrappata per tutto il tempo, come una bambina impaurita, alla mia borsa vecchia e corrosa dal tempo. Mi avvicino titubante alla reception dove una ragazza bassina, castana, riccia e dal volto vivace sembra essere terrorizzata più di me.
''Mi scusi, forse non è il momento, ma...'', la guardo con grande apprensione e tenerezza mentre constato che probabilemente sfuriate di questo genere avvengono giornalmente, ''avrei bisogno di parlare con l'avvocato Vinci''. La ragazza, avvolta dalle scartoffie e dalle preoccupazioni, non mi risponde, anzi, non sono nemmeno sicura che mi abbia sentita.
''C'è stato un pi-piccolissimo problema tra me e la sua macchina'', balbetto cercando di sorridere per non rendere la situazione ancora più tesa di quella che è già.
''E questo potrebbe essere terribile'', dichiara la segretaria dai ricci incolti e dagli occhi che bazzicano sullo schermo del computer, intenta a sbrigare chissà quali beghe. Non capisco perché non mi degni d'attenzione.
''Adesso... terribile, mi sembra esagerato!'', continuo a dire, con quel mio tipico sorriso da ebete che prontamente sfoggio quando tento di allentare qualcosa di grave.
''Che hai detto?'', le esplode la voce in bocca e mi accorgo che spinge con le dita sull'orecchio un auricolare. Che stupida. Probabilmente non ha sentito una singola parola di ciò che ho detto e forse è meglio così, avrebbe pensato che sono una cretina.
''Si sieda'', mi intima poi, indicando una seggiola in legno lì vicino. Nel frattempo che aspetto un qualche segno dalla bizzara segretaria con l'accento barese, inizio a darmi un'occhiata in giro, e a malincuore apprendo di essere finita in uno studio legale dalle movenze eleganti e raffinate. Le pareti sono tutte rivestite da una tenue carta da parati beige, le immense finestre lasciano trapelare appena i raggi del sole bollente poiché imbandite di lunghe tende color caffé, i pavimenti in marmo luccicano di pulito e brillantezza e l'aria ha il sapore di un miscuglio tra miele di lavanda e fiori di cedro. Accanto a me siede una donna, anch'essa sulla trentina. Mi accorgo immediatamente di lei giacché il suo piede non la smette di martellare sul pavimento immacolato. E' ansiosa come non mai e difatti non la smette di mordicchiarsi le unghie.
''Salve! Anche mia figlia si mangia le unghie quando è nervosa, sa?'', le dico, con tutto il savoir-faire di cui sono in grado. La donna mi rivolge uno sguardo tra il truce e il sorpreso. ''Mi avrebbe guardata proprio così!'', la informo, indicando la sua espressione che da truce adesso si è trasformata in spazientita . Che gaf. Un momento più tardi la segretaria la informa che l'avvocatessa Castelli la sta aspettando ed io ne approfitto per riprendere parola.
''Mi perdoni, scusi, s-sono qui per un minuscolo graffio che forse, dico forse, avrei fatto alla macchina'', cerco di pronunciare le parole nel modo più cauto che conosco, imponendomi di rendere la situazione quanto più calma e razionale possibile.
''Povera ragazza'', spiattella la segretaria, guardando, con aria soddisfatta, il proprio riflesso in uno specchio appoggiato sulla scrivania grondante di confusione.
''E' solo un graffio, mica si va in galera per questa cosa. Comunque grazie per la ragazza, ho passato i trent'anni, però devo dire che cerco sempre di mantenermi.'', affermo, crogiolandomi nell'autocompiacimento. La ragazza blocca immediatamente il mio sproloquio sottolineando che si riferiva all'altra, di donna. Mi offre poi un caffé ed inizia a parlarmi di un recente caso. A quanto pare, l'irritabile donna di prima con le dita piene di pellicine si chiama Silvia, ha perso la madre due mesi fa e adesso sta citando il padre in tribunale perché vuole le quote dell'azienda di famiglia che la madre ha lasciato al padre prima di morire, cosa tra l'altro ragionevole, dato che entrambi erano divorziati. Prima che possa solo tentare a divincolarmi da questa buffa situazione nella quale sono stata gettata dal fato, la stessa identica voce di poco fa, intensa e decisamente maleducata, esclama: ''Che cosa devo fare per avere una praticante decente? Uccidere qualcuno?''. E' così prepotente che mi sta già antipatico, antipatia che tende a farsi ancora maggiore quando mi rendo conto che la povera vittima delle sue urla era proprio una minuta ragazza incinta che, in lacrime, si precipita fuori dallo studio. Seguo tutta la scena con sgomento e in religioso silenzio.
''E' la terza praticante che fa fuori in due mesi! Se non gli trovo subito una praticante, l'avvocato mi taglia la testa'', il tono della sua voce è abbastanza esagerato, il suo gesticolare eccessivo, ma comprendo, anche io ho le mie gatte da pelare. Quando, tuttavia, dice che una certa praticante dell'avvocato Giorgi non sarebbe arrivata prima di domani, ecco che una lampadina inizia a lampeggiare nel mio cervello. Come se fossi pazza, inizio addirittura ad avvertire la voce metallica del direttore Valenti che, in modo enfatico e surreale, mi ripete il mio destino: ''Se non paga la retta entro una settimana, dovremo pignorarle la casa!'' Con tutte le mie forze combatto contro l'istinto di sopravvivenza, convincendomi che prima o poi troverò un lavoro, ma purtroppo non riesco a convincermi abbastanza da stare zitta. In fondo è una piccola bugia bianca, no?
''Sono io la praticante dell'avvocato Giorgi'', proferisco, senza nemmeno accorgermene. Cavolo, ma cosa sto dicendo? Mi caccerò in grossi guai per questo.
''Tu? E che ci fai già qui?'', domanda, con gli occhi sbarrati e lucidi per la gioia.
''Ehm, mi porto avanti'', sorrido. Ma non c'è nulla per cui sorridere. Speriamo solo che quasta giorna passi in fretta.

***

In seguito ad una breve discussione, vengo scortata dalla segretaria, che scopro chiamarsi Claudia, verso l'ufficio dell'Avvocato Vinci. Prima di chiudere la porta, ella mi accenna un sorriso di consolazione guardando con sufficienza i miei abiti scialbi e smorti. Quando la porta le si chiude alle spalle, inizio nuovamente a preoccuparmi e a farmi divorare da un'ansia persistente. Per distrarmi dalla tensione inizio ad osservare meticolosamente l'abitacolo nella speranza di poter trovare qualche argomento in comune, qualche dettaglio che possa farmi capire che tipo di persona è, quest'avvocato Vinci, e soprattutto che possa farmi assumere nonostante la mia goffagine. Magari è una persona amabile e gentile, magari questa è solo una giornata no ed io sto esagerando a tremare dentro i vestiti. Fatto sta che l'ufficio è posizionato in un'ampia stanza che somiglia più ad un'aula di scuola, il parquet doussie sotto le mie scarpe lacere è stato appena lucidato, le pareti sono dipinte di un blu cadetto che mi ricorda molto il cielo limpido che ero solita contemplare dopo la morte di Alberto, mio marito, quando ogni azione mi sembrava superflua e la vita stessa m'irritava. Per ovviare alla malinconia del momento, rivolgo lo sguardo verso l'arredamento casual e al contempo morderno, le voluminose e maestose librerie che trasboccano di libri sul diritto privato, una grande scrivania in mogano è sormontata da una pila di domenti e da un computer di ultima generazione che farebbe impallidire il mio povero Lenovo con una grande barca sul desktop; tutto è ricoperto dal legno e da quel blu spento che avvolge le quattro facciate della stanza. ''E' la tua ultima occasione, Lisa!'', bisbiglio tra me e me, quasi come a rassicurarmi. Incomincio quindi un lunga autopersuasione fatta di frasi come: 'la tua mente è ricettiva, Lisa!' oppure 'Sì,i tuoi sensi sono acuiti'. Quando tuttavia il mio sguardo si sofferma sulle terrificanti scarpe che mi ritrovo ad indossare non posso fare a meno di pensare 'Però le tue scarpe fanno schifo, eh'. ''Magari è vecchio, magari è grasso, magari è...'', la mia voce si arresta poiché viene a contatto con la sua. Ecco che sento la porta dello studio chiudersi in un soffio, una figura, improvvisamente, venirmi accanto ed interrompere il filo disordinato dei miei pensieri.
''Lisa Marcelli? Sono Enrico Vinci, il titolare di questo studio'', la sua voce è proprio come la ricordavo, carezzevole e decisa al tempo stesso, ma di certo non sono le sue corde vocali, in questo momento, a distrarmi da ciò che dice. E' sicuramente l'uomo più bello che io abbia mai avuto l'occasione d'incontrare. Alto, asciutto, dalle folte ciglia nere e dagli occhi simili a pozze d'acqua. Io... Io invece sono impresentabile. Questa mattina non mi sono nemmeno pettinata e tanto meno truccata o profumata. Sono uno straccio. Ma comunque, davanti ad un simile esemplare d'uomo stento a credere che qualcuna possa sentirsi adatta. E quando i suoi occhi si poggiano su di me, scrutandomi, esaminandomi, divento piccola piccola. Ha un atteggiamento risoluto, intimidatorio, arrogante, capisco perché quella ragazza in dolce attesa se l'è svignata. Tossisco cronicamente, come mio solito, e cerco di nascondere maldestramente dietro i polpacci i miei stivali da motociclista davvero improponibili. 'Dio, ora mi caccia via a suon di ceffoni', mi dico. Di certo non sono compatibile con un luogo del genere, talmente altolocato e dalle strabordanti aspettative, eppure, ne ho così bisogno, intendo, di essere adatta a qualcosa, di trovare un'occupazione e salvare la mia famiglia dal baratro in cui rischia di frantumarsi. Tengo le dita incrociate dietro la schiena già bagnata di sudore e ripeto mentalmente, con una voce stridula e penosa: Sincerità, sicurezza e serenità. ''In un altro momento sarei molto più selettivo ma sono in emergenza, ho bisogno di una praticante e devo fidarmi dell'avvocato Giorgi. Due parole: perché dovrei fidarmi di te?'', domanda veemente. Non ero pronta ad una domanda del genere, tanto meno a proferire parola dopo essermi lasciata abbagliare dal suo fascino. Rispondo d'istinto.
''Perché... la mia vita dipende da questo lavoro.'' Ed è vero. Annuisce, ma non mi sembra molto convinto. Mi gira attorno alla ricerca di qualche piccolezza da criticare, bruscamente porto la mano dietro la nuca, come a darmi conforto e l'avvocato nota i miei tatuaggi. Sono finita.
''Hai dei nomi tatuati sul braccio. Perché hai dei nomi tatuati sul braccio?'', mi chiede celermente, continuando ad indicare il mio braccio, con una punta di cuorisità. ''La gente si tatua i nomi dei figli, hai dei figli tu? Non posso collaboratrici con figli. I figli sono un problema: si ammalano, fanno recite scolastiche, vogliono essere sfamati. Tu hai dei figli da sfamare?'', conclude, annichilendomi e lasciandomi a bocca asciutta. Dato che ormai ho iniziato già a scavarmi la fossa, una bugia in più passa in sordina.
''No, non ho dei figli, no...'', comincio davvero a sentirmi un rifiuto umano, ma cosa diavolo sto combiando? ''Anzi, io odio i bambini e questi sono i nomi dei miei tre fidanzati, che volevono avere figli ed io non ho voluto'', la mia lingua si muove rapidamente producendo dei suoni che non riesco a riconoscere, sembra che a parlare sia la parte più recondita di me, una parte assolutamente irriconoscibile e con la quale non voglio averci nulla a che fare. Mi sembra quasi di essere fuori dal mio corpo e di guardarmi, inerme, compiere un guaio dopo l'altro. ''Fidanzati, eh'', esclama, afferrandomi il braccio ed osservando meglio il tatuaggio. Questo lieve contatto mi destabilizza.
''E Mia?'', mi chiede con particolare interesse. Ormai invento.
''Ehm... Mia è... sono una persona aperta'', balbetto con atteggiamento complice, strizzandogli l'occhio.
''E' il tuo giorno fortunato'', mi annuncia, interrompendo quest'interrogatorio infinito. Dopo avermi riaccompagnato alla hall, esclama: ''Un mese di prova, e solamente perché sono davvero nei guai. Ci vediamo domattina. Puntuale.'' Il mio sorriso è incontenibile, mi sembra finalmente di vedere una piccola fiaccola di speranza infondo al tunnel.
''Arrivederci'', gli dico, con tutta la gioia e la gratitudine di cui sono capace. Lui si volta perplesso, come a domandarsi se sono stupida davvero, e poi sparisce in corridoio. Non importa. Ho un lavoro! Finalmente qualcuno mi ha assunta! Prima di andarmene, tuttavia, riesco ad origliare un'impetuosa conversazione, che tra l'altro si svolge davanti agli occhi di tutti, tra un anziano uomo dalla chioma bianca, che intuisco essere il padre di Silvia, e l'avvocato.
''Sono Vittorio Torrini e che significa questo?'', esordisce, sventolando dei documenti davanti il viso allibito di Claudia. L'avvocato prende la palla al balzo e risponde: ''Signor Torrini, significa quello che c'è scritto. Sua figlia la cita in tribunale per circonvenzione di incapace, facile'', risponde, ostentanto tutto il suo genio. Con mio grande dispiacere inizio a perdere alcune fila del discorso, presa dall'incontrollabile gioia, ma ciò che riesco a comprendere è che il Signor Torrini è assolutamente sconvolto dall'agire della figlia, mentre ella si rifiuta di parlargli, anzi, addirittura arriva a pronunciare parole terribili come: ''Tu per me sei morto!''. Fatto sta che, dopo questo teatrino, Vittorio Torrini se ne va imbestialito.
''Ci vediamo domani mattina, Linda!'', mi saluta.
''Lisa, mi chiamo Lisa'', preciso, continuando a sorridere per l'incredulità d'avercela fatta. Sì, con qualche bugia, ma non voglio pensarci al momento.
''Stessa cosa, stesse vocali, quasi simili'', mi dice, con quel suo nonchalance irresistibile. In situazioni normali mi sentirei offesa, ma in questo momento non riesco a pensare ad altro che ad essermi salvata dalla rovina.
Recupero la mia auto, infischiandomene di quella dell'avvocato, che sono già le 13:45. Decido quindi di andare alla Coop prima di tornare, un'assunzione come questa deve essere seguita da una giusta dose di festa e di alcol se fossi più giovane e meno resposabile (ma a chi voglio darla a bere). Mentre il rombo del motore si frantuma in strada, divorando i chilometri, sento che nulla può spezzarmi, che il mio dolore è stato ripagato.

 

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Capitolo 2
*** La Praticante ***


Capitolo 2
La praticante

Quando rientro in casa è già il crepuscolo, ma riesco ancora a sentire in testa i riverberi di It's All Yours di Petit Rouge che ho ascoltato per almeno un'ora durante il viaggio.
''Mia! Giuseppe! Sono a casa'', annuncio, chiudendo la porta con il tacco degli stivali poiché le mani, piene di borse, non me lo consentono. Appoggio rumorosamente, come capita, le chiavi sul tavolo ed esclamo: ''Ho fatto la spesa, perché c'è una novità e dobbiamo festeggiare''. Da subito, come trascinato dal canto di una sirena, vedo arrivare saltellante Giuseppe con addosso qualcosa di orripilante.
''Mamma, mamma!'', afferma, arrivandomi accanto, il sorriso che gli scompiglia il viso.
''Che cos'è questa cosa?'', chiedo, esaminandolo con attenzione.
''E' la camicia di forza di Udinì, l'ho comprata con papà'', sembra quasi offeso che non me lo ricordi o che non lo sapessi, e come potrei, da qualche mese a questa parte tutto ciò che pensavo di sapere su mio marito si è dissolto e mi sono resa conto di non conoscere affatto quel farabutto traditore, pace all'anima sua.
''Vai a cambiarti, sù, che dopo festeggiamo'', lo liquido con un'affettuosa pacca sul sedere.
''Anch'io avevo scelto la scuola con papà'', dice Mia, irritata dal fatto che dovrà frequentare una scuola pubblica e non più una privata. Ma come potrei spiegarle che siamo totalmente al verde? ''E domani avrò un primo giorno di scuola da schifo'', continua, iniziando a disfare le borse, senza rivolgermi nemmeno lo sguardo.
''Senti, Mia, ti prego... ne abbiamo già parlato'', la mia è quasi una supplica, non ho bisogno che i suoi capricci rovinino questa serata meravigliosa. ''No, mamma, tu ne hai parlato e tu hai deciso che devo lasciare le compagne che conosco da quando facevo l'asilo per andare in una cavolo di scuola pubblica'', se non mantenesse intatto quel suo solito distacco gelido, penserei che sia furiosa.
''E' un'ottima scuola, va bene?'', le dico, cercando di convincerla con gentilezza. ''Così potrai andare in un'ottima università e trovare un buon lavoro!''. Così si fa, Lisa!
''Come quello che hai tu?''. Touché. Contro Mia non vinco mai.
''Sì! Come quello che ho io'', ribatto, tuttavia, spiazzandola completamente. Le sue pupille dilatate mi invitano a proseguire. ''Ti ricordi l'uomo che ho tamponato? Mi ha assunta. Sono la sua nuova praticante'', lo dico con un tale fervore che fatico ancora a crederci.
''Hai trovato lavoro?'', mi domanda Mia, colma di perplessità fino alla punta dei capelli. ''Come hai fatto?''. Non capisco perché sia così sorpresa. Sì, va bene, non avrò molta esperienza, ma da ragazzina ho lavorato in una gelateria, vale, no?
''Senti, tua mamma è laureata in giurisprudenza con il massimo dei voti, hai capito?'', le dico, con una sicurezza che spiazza anche me. Decido però di omettere il mio passato da venditrice ambulante.
''Non è questo... Sono due mesi che cerchi lavoro, cos'è cambiato oggi?''. Da subito mi sembra di venire nuovamente scaraventata in quell'ufficio e di sentire me stessa mentre altero spudoratamente la verità dicendo: ''Figli io? No. Assolutamente no. Anzi, le dirò di più, io odio i bambini''. Cerco di ignorare la sua domanda, affannandomi a sistemare gli acquisti nella dispensa, ma non posso farlo troppo a lungo, poiché lei continua, interrogandomi: ''Allora?'', dannazione, perché è così insistente, tutta suo padre.
''Ha riconosciuto le mie capacità, tutto qui''. Mi sono salvata in calcio d'angolo, fiù. Mia mi lancia un'occhiata non troppo convinta e come una tigre che ha appena finito di sbranare la sua preda, si allontana, lasciando che a logorarmi siano i sensi di colpa.

***

Conclusa la cena, dopo essermi accertata che Giuseppe dorma e che Mia la smetta di chattare al computer, spengo la tivù e mi avvio verso la doccia, trascinandomi per la stanchezza. Una volta dentro, mi trovo a volteggiare sotto brillanti gocce d'acqua calda, coccolata dalla tenera brezza della sera. Mi sento quasi tranquilla e rasserenata. Andrà tutto bene. Infilo la camicia bianca programmata per domani nella lavatrice e raggiungo il mio letto. ''Ho tutto sotto controllo: la sveglia è puntata per le sei, poi preparo la colazione, porto i ragazzi a scuola ed io me ne vado in ufficio. Perfetto'', dico a me stessa, con sicurezza e caparbietà. Una parte di me è tremendamente spaventata di lasciare Mia e Giuseppe da soli, per così tanto tempo, tutti i giorni, ma l'altra parte sa che non c'è altra soluzione. Mentre mi rimbocco le coperte, costringendomi a dormire, domande come Chi li accompagnerà a scuola? Chi penserà alla casa? Chi si occuperà di loro?, iniziano a lacerarmi e a togliermi il sonno. Non avrei mai voluto mentire sulla loro esistenza, in quanto sono la cosa più bella potesse mai capitarmi, ma a quanto pare, nel mondo del lavoro è necessario. Mi addormento con questa consapevolezza.

***

Capisco subito di trovarmi in un incubo, una terribile realtà che, sebbene lui mi abbia fatto più male di chiunque altro, vorrei poter cancellare. Come quasi tutte le notti mi ritrovo a rivivere quel giorno, il giorno in cui Alberto è andato via. Era una giornata che sembrava nessuno potesse rovinare, in una vita che appariva perfetta. Ricordo ancora il bacio che gli diedi e il suo ti amo che voglio continuare a credere fosse vero. Lo strazio di quel momento è così vivo in me che mi sveglio con le lacrime agli occhi e la voce di Mia che, dall'altra stanza, strepita: ''Mamma! Mamma! Giuseppe non esce dal bagno!''. Buongiorno, Lisa. Getto un'occhiata alla sveglia e m'accorgo che sono già le 07:34.
''Dannazione, avevo messo la sveglia alle 6'', borbotto mentre mi alzo in tutta fretta e poggio i piedi sul pavimento umido d'acqua e sapone.
Cos'è successo?
''No, ti prego, no'', mugolo, sperando fino alla fine di non accertarmi di ciò che penso sia successo. Perfetto. La mia camicia è andata. ''Calma, Lisa, Calma. Adesso asciughi per terra, ti lavi i capelli e nessuno noterà i tuoi vestiti sciatti. Qual è la parola d'ordine? Serenità'', mi dico ad altavoce, tentando di regolare i battiti del mio cuore.
Nella stanza adiacente Mia continua a bussare bruscamente alla porta del bagno e ad urlare: ''Mamma, fa' qualcosa.''
''Arrivo'', le dico di tutta risposta, per poi balzare fuori dalla mia stanza con il viso sciupato e i capelli arruffati.
''Allora?'', le dico, rimproverandola.
Lei mi rivolge uno sguardo feroce e, riprendendo a sbattere il pugno sulla porta, mi dice: ''Oggi è il primo giorno di scuola ed io ho questi capelli. Fanno schifo. Sei tu che me li hai trasmessi!''. La sua intonazione è tremolante, l'agitazione concreta.
''Calmati, ho capito'', le dico, cercando di razionalizzare la situazione e di non entrare nel pallone, visto il mio aspetto indecente stamattina. ''Giuseppe, amore, esci dal bagno?'', gli intimo, amorevolemente.
''Un secondo, sto girando la chiave con la forza del pensiero.''
''Io ti strozzo con la forza del pensiero'', sbraita Mia realmente imbestialita.
''Mia, per favore, basta'', le dico, autoritaria, fermandole la mano.
''Uffa, non posso stare nemmeno tranquillo in bagno'', dice Giuseppe, uscendo sconfortato dal bagno, con la vocina rigata dal disappunto.
Gli accarezzo i riccioli disordinati e gli stampo un bacino sul naso dopo che lui mi dice: ''A me piacciono i tuoi capelli, sembri spongebob''.
Mia invece si chiude subito in bagno ed esce solamente mezz'ora dopo quando ormai per me è troppo tardi, anche solo per sciacquare il viso.
''Non ho lavato i capelli, non ho stirato la camicia...'', bofonchio mentre chiudo a chiave la porta di casa, ''ma noi siamo puntuali, ed abbiamo il caffé...'', che senza nemmeno a dirlo si è appena rovesciato sul vestito di un nostro vicino che, a quanto pare, si sta trasferendo. ''E adesso non c'è più, hai visto Giuseppe, sono un mago anch'io!'', dico, cercando di cammuffare la mia sbadataggine, almeno davanti ai miei figli.
''Che bel casino'', cantilena Mia, tenendo gli occhi puntati sul cellulare. Ma che avrà mai da guardare? Io non so nemmeno come si azionano quei maledetti aggeggi.
''Che sarà mai, è solo un vestito'', ribatto, facendo spallucce.
''No, mamma, questo non è un vestito, questo è uno Chanel'', constata dopo aver guardato accuratamente l'abito, con gli occhi strabuzzanti di sorpresa.
''Adesso non abbiamo tempo, sù, andiamo''. Se il buongiorno si vede dal mattino, non oso immaginare cosa mi accadrà tra due ore. Appena arriviamo davanti scuola, Mia scende, sbattendo la portiere, con quelle sue maniere scortesi che mi fanno dubitare d'averla educata bene.
''Mia, non fare così'', le dico, implorandola, ma lei è già svanita, risucchiata dal flusso della folla.
''Mamma, non ti preoccupare, appena divento un bravo mago la faccio sparire'', mi dice Giuseppe, sporgendo la testolina dal sedile posteriore. Gli sorrido calorosamente e gli intimo di far scomparire tutti i suoi giocattoli dall'auto. Lui mi chiede perché, ed io devo necessariamente inventarmi una scusa, per la milionesima volta in due giorni. Di certo non posso dirgli che se il mio capo scopre che ho due figli sulle spalle mi manda via a calci nel sedere. Lui annuisce, ma è abbattuto.
''Così sembra che non esistiamo più'', singhiozza.
''No, amore. Come potreste. Voi siete la cosa più bella della mia vita'', gli sussurro, accarezzandogli il viso per rincuorarlo.
Ma ha ragione. Sembra proprio che non esistano più.

***

Dopo aver accompagnato Mia e Giuseppe a scuola, arrivo in ufficio puntuale ma trascurata da morire: una coda di cavallo disordinata, una camicia stropicciata ed un completo acquamarina risalente a tre anni fa recuperato dalle fauci dell'armadio. Mentre aspetto che l'avvocato faccia il suo ingresso e ci degni della sua presenza cancello dal mio blackberry tutte le foto di Mia e Giuseppe. Mi sento malissimo. Giuseppe aveva ragione. Sembra che parte della mia vita si sia completamente volatilizzata.
''Signora?'', mi sento chiamare da dietro, la voce è sprezzante e l'essere stata chiamata signora mi urta non poco. Mi volto di scatto, come se fossi stata colta in flagrante, e noto una figura che mi fa impallidire. Alta, longilinea, gambe da fenicottero, viso allungato e spigoloso, grandi occhi scuri e penetranti, labbra carnose macchiate di rosso ed una chioma nera che le sfiora appena le clavicole. Indossa dei leggins neri sfavillanti ed una camicetta dello stesso identico colore arricciata ai bordi. L'altissimo me l'ha mandata per castigarmi e mettermi davanti all'evidenza della mia totale incapacità estetica?
''Per le pulizie la divisa è nello stanzino delle scope'', mi mette al corrente con fare altezzoso e francamente maleducato.
''No... ehm, io sono la nuova praticante dell'avvocato Vinci'', le dico, cercando d'essere più cordiale possibile, addirittura le stringo la mano, con un sorriso che va da un orecchio all'altro, ''Lisa Marcelli'', proseguo.
Mi osserva a lungo, con una smorfia dipinta sul viso, come se fossi un'insetto letale da annientare immediatamente.
''Sciatta e in età fertile, eh. Spero solo che tu non abbia lasciato un lavoro per venire qui'', dichiara, il volto illuminato da un sorriso malvagio, ''perché durerai poco'', mi bisbiglia all'orecchio, con l'alito fresco di menta ed il profumo Poivre Caron di Baccarat.
Che antipatica, la detesto di già. Ma chi si crede di essere?
''Vai vai'', mi ordina, gesticolando con la mano per liquidarmi, quasi le avessi dato noia. Appena mi giro tuttavia vengo nuovamente ripresa.
''Ah, scusa, abbiamo qualcosa attaccato ai pantaloni'', riferisce, dopo aver staccato un adesivo dal mio completo con su scritto bimbi a bordo. Cavolo. E adesso?
''Ah, sì, è che ieri... sono andata ad una festa e abbiamo tirato dritto fino all'alba'', ecco che ricompare quel mio solito sorriso da ebete.
''Bimbi a bordo?'', indaga, perplessa.
''No...'', le dico, dopo averle strappato di mano quell'adesivo che rischia di farmi licenziare, ''tutti con il ciuccio in bocca, è una cosa Freudiana''.
E Lisa si salva ancora. Per il momento.
D'improvviso le porte dell'ascensore si azionano e l'avvocato Vinci fa il suo ingresso nell'ufficio con un sonoro: ''Andiamo, Simona!''. Ma con chi sta parlando? E' ancora più avvenente di ieri, se è possibile: i capelli castani gli accarezzano la fronte corrucciata, un sottile velo di barba gli incornicia il viso dandogli un'espressione enigmatica e, allo stesso tempo, selvaggia, il fisico snello ed agile, l'abbigliamento impeccabile, il profumo rigorosamente Dior. Tutto di lui mi affascina, mi fa sussultare. La sua stessa presenza rende l'aria carica d'elettricità. Ma non dovrei pensare a lui in questo modo, non è corretto.
''Dai Simona, abbiamo un sacco di lavoro da fare'', continua, incamminandosi verso l'ufficio, con quel suo passo sicuro ed elegante. Lo seguo come una scolaretta completamente ammaliata ed un po' stordita. ''C'è la deposizione dell'infermiera della madre di Silvia, devo prepare le ultime carte per l'udienza, bisogna anche chiamare l'avvocato della controparte e segnati che il figlio giocava con me a tennis, può essere utile'', scandisce così velocemente le parole che riesco a malapena a memorizzare parte di tutto ciò che ha detto. ''Perché il mio caffé non è sulla scrivania?'', mi chiede, con arrogante presunzione. ''Forza, Simona, sbrigati'', conclude, sbattendomi la porta in faccia.
''E comunque mi chiamo Lisa'', rispondo con un filo di voce, troppo tardi perché mi abbia sentita. Ma tu guarda che stronzo, sarà pure bello, ma con uno così non ci starei nemmeno sotto tortura. Arrivata a questo punto, la giornata mi sembra infinita.
Mi attivo subito per prepare un caffé e portarglielo con le migliori intenzioni possibili, speriamo solo non sia troppo infuriato.
''Eccomi'', dico, porgendogli la tazzina bollente. Il suo sguardo è glaciale, perso in chissà quale dimensione, le movenze meccaniche. C'è qualcosa di vero in quest'uomo?
''Alla buon'ora''. Quant'è magnanimo.
''Senta avvocato, stanotte avrei controllato la casistica sul tema della circonvenzione d'incapace. Si parla molto del rischio, laddove ci sia il lutto, di falsare la perizia, quindi io avrei pensato di...'', ad interrompere il movimento irruente delle mie parole è il suo disturbante: ''Che cosa stai facendo?''. Sul suo viso sorge un'espressione genuinamente sconcertata ed un lungo silenzio segue questa sua stramba domanda.
''L-La sto aiutando sul caso Torrini, no? E' per questo che mi ha assunta, no?'', balbetto, insicura sul da farsi. Ormai non so più cosa aspettarmi da quest'uomo. Lui, nel mentre, continua a sorseggiare impertinente il suo caffé e quando si sente particolarmente benevolo per rivolgermi la parola, mi porge un foglio, dicendomi: ''E' per questo che t'ho assunta'', mi strizza l'occhio. Il suo sorriso mi sconvolge, ma devo rimanere concentrata. Io detesto gli uomini come lui, arroganti, presuntuosi e maledettamente affascinanti.
Comincio a leggere ad alta voce: ''Comprare il cibo per il gatto, pagare il conto al fioraio, lasciar-lasciare Camilla?'', sono allibita, tutto mi sarei aspettata fuor che dover fare la cameriera di un buzzurro come Enrico Vinci.
''Stasera cena al 900, siamo in sei, alle otto. Mi raccomando, prenota il tavolo entro l'una altrimenti non te lo danno. E porta il mio completo in lavanderia, a secco con stiratura umida. Ma perché non scrivi?''.
Sono paralizzata, non riesco a muovere nemmeno un arto per via dello sconcertante imbarazzo che mi ha appena acceso il viso. ''S-sì'', rispondo mentre lo seguo accanto alla scrivania dietro la quale si accinge a sedersi.
''Scusi è che non ho capito... 900? 800? Ma lei non mi aveva assunto per aiutarla sui casi?'', domando, ormai pallida come un lenzuolo. Non posso credere d'essere finita a fare la sguattera, dopo aver fantasticato a lungo su quest'occupazione e sul prestigio che mi avrebbe fatto assumere. Probabilmente tra un po' mi farà pure portare a spasso il suo cane.
''Sì, ti occuperai dei vecchi casi da catalogare in archivio'', sorride con un ghigno, il bastardo. ''Mentre torni sù mi prendi un pacchetto di gomme?'', continua, perdurando l'umiliazione. Annuisco, smarrita e fuoriosa al tempo stesso. Possibile che nessuno possa prendermi sul serio?
''Che ci fai ancora qui?'', affonda gli occhi nei miei, cercando di spiegare a se stesso il motivo per il quale non mi sto già strappando i capelli poiché il Supremo Enrico Vinci mi sta concedendo la grazia di poter raccattare i suoi panni sporchi e di scorrazzare per la città al fine di compiacerlo.
''Vuoi il bacetto del buongiorno?''. Che sfacciato, continuo a detestarlo. Mi volto intenta ad andarmene, furibonda, appallottolando tra le mani la sua stupida lista delle commissioni.
''Sù con la vita, Luisa'', mi dice, una volta che poggio la mano sul pomello.
''Lisa, mi chiamo Lisa'', lo correggo, con quel poco di voce che m'è rimasta.
''Sì, sì, vai''. E' già impegnato a fare altro ed io in un attimo scivolo fuori per non commettere un omicidio.

***

Una volta finito di svolgere i miei compitini, con un broncio da bambina capricciosa, m'infilo nell'ufficio dell'avvocato, aprendo la porta con l'ausilio della spalla (dato che nessuno si prodiga per aiutarmi). Accidenti, quanto pesano queste borse.
''La cartella clinica della signora Torrini non lascia dubbi, nell'ultimo periodo era sotto morfina''.
Posso benissimo riconoscere la voce, ancor prima di vederla, è quella vipera di Marta Castelli che qualche ora prima mi ha umiliato nella hall con il suo durerai poco. E' appollaita come una gatta sulla scrivania dell'avvocato, la gambe chilometriche accavallate le une sulle altre, il rossetto rosso sempre più intenso, e lo sguardo magnetico. Cavolo, quant'è bella. L'avvocato, dal canto suo, sembra essere occupato solamente a colpire quello stupido sacco da boxe che si è fatto appendere nella stanza. Che professionalità. Pur detestandolo per il modo infimo con il quale mi sta trattando, non posso esimermi dall'apprezzare il suo charme. Tra l'altro, con addosso solo la camicia e la fronte imperlata di sudore è ancora più piacente. Non poteva essere vecchio e grasso come me l'ero immaginata? Sarebbe più facile perfino accettare questa mortificazione continua.
''La morfina non è uno psicofarmaco, non possiamo usarlo come prova'', afferma, iniziando a farsi slacciare da un inserviente i guantoni, ''abbiamo bisogno delle testimonianze dei suoi medici'', conclude secco.
''Vestiti ritirati, fiori mandati e ristorante prenotato'', dico, prudentemente intanto che poggio le borse sul divanetto a ridosso, ''è stato più difficile ovviamente lasciare Camilla con un bigliettino'', non posso contenermi dal dire.
L'avvocato mi lancia un veloce sguardo disinteressato e domanda: ''Il mio sushi?''. Che?
''E, non mi ha detto di comprarlo'', mi difendo, col viso accigliato. Forse si sta prendendo gioco di me.
''E secondo te cosa mangiamo?'', chiede la vipera con aria di sfida, mi piacerebbe proprio dirgliene quattro.
''Vai a ritirarlo mentre torni da casa di Vittorio Torrini, ieri ha lasciato la sua ventiquattrore qui. Mi raccomando: entri, gliela lasci e te ne vai. E' un nostro avversario, non una parola con lui'', riferisce, senza darmi troppo conto. Forse pensa che le pupille gli si possano sciogliere se perde troppo tempo a guardare una popolana come me.
''Va bene'', rispondo diretta; non vedo l'ora di uscire da questa stanza per infilarmi in macchina ed ascoltare All by myself imitando la Bridget Jones che c'è in me. Improvvisamente mi squilla il telefono nella tasca. Entrambi sembrano risentiti e si scambiano un fiume d'occhiate.
''Scusate'', dico svelta. Mi sposto in un angolo della stanza e rispondo: ''Sì?''.
E' la scuola di Giuseppe, m'informa che il bambino ha preso una brutta influenza intestinale e che sta vomitando da stamattina. Devo necessariamente andarlo a prendere.
''Sì, arrivo subito'', dico, biscicando le parole, con una fretta improvvisa.
''Arrivi dove?'', indaga l'avvocato ponendomi chiaramente una domanda retorica.
''Arrivo a... a comprare il sushi, cioè, senno dove altro dovrei andare?''.
A nascondermi, probabilmente.

***

''E' influenza intestinale, gira'', m'informa la maestra dai buffi riccioli d'oro e della camicetta fiorata sotto un delizioso cardigan lilla. Tutto in lei sembra etereo ed infinitamente infantile. Oggi mi piacerebbe proprio ritornare ad essere bambina e scacciare via le mille preoccupazioni, le umiliazioni, i disguidi con Mia, le lettere minatorie della banca. Ispeziono il viso di Giuseppe con i polpastrelli: la pelle è calda, bollente, gli occhi infossati ed assenti, non ricettivi, il viso spento e la bocca asciutta. Povero piccolo.
''Sì, va' be, non è che scotta così tanto...'', le dico, giustificandomi, ''e poi potrebbe anche essere stato il cibo della mensa perché, parliamoci chiaro, è immangiabile.'' L'espressione di Giuseppe muta immediatamente e con gli occhi tenta di mandarmi dei messaggi che non recepisco, così come anche il viso della maestra si oscura perdendo la sua iniziale radiosità.
''Senta, oggi è il mio primo giorno di lavoro, non può tenerlo lei in classe, la prego...'', domando, quasi implorandola. Giuseppe mi fissa corrucciato. ''Mi dispiace, ma è impossibile'', ribatte, gelida. Poi continua, con un sorriso espansivo: ''E da domani, visto che il cibo della mensa le fa così schifo, il pranzo glielo prepara lei'', conclude, porgendomi lo zaino. Giuseppe ed io ci alziamo, ma prima di sparire dietro le porte le mando un sonoro e falsissimo: ''Grazie.'' In macchina tutto mi appare più chiaro quando Giuseppe mi dice: ''Mamma, la maestra Evelina è la figlia della signora che lavora in mensa!'', la sua risata è incontenibile, anche se il viso continua ad essere macchiato di verde.
''Stai meglio?'', gli dico, preoccupata.
''Sì, ma tu rallenta'', mi urla, con il volto completamente fuori dal finestrino per inalare quanto più ossigeno possibile e rallentare il flusso gastrico. Cavolo, non posso decelerare, sono già in megaritardo e a Napoli il traffico è insostenibile. Nonostante le difficoltà e Giuseppe che mi vomita in macchina, sono riuscita a prendere il sushi ed aver trovato l'abitazione di Vittorio Torrini. Grazie Google Maps.
''Allora amore, se ti viene da vomitare fallo qui'', gli dico, porgendogli il sacchetto di carta che mi hanno dato da Konoha.
''La mamma torna subito'', lo rassicuro, dandogli un pizzicotto affettuoso sulla guancia rovente. Dovrei anche passare dalla farmacia a prendere qualche antibiotico a questo punto. Nel mentre che ci penso, sono già arrivata al quarto piano di questa palazzina estremamente barocca e sofisticata. Suono il campanello, ma trovo la porta sorprendentemente aperta, uno spiffero d'aria mi fa sussultare.
''E' permesso?'', dico, titubante. ''Signor Torrini, sono Lisa Marcelli, s-sono venuta a portarle la sua ventiquattrore''.
Come mio solito, da buon'amante dell'arte, non posso redimermi dall'osservare con grande garbo l'intero abitacolo, che è arredato in modo sublime. I mobili in legno artigianale, lavorato a mano, con fronzoli e giravolte che pendono su ogni lato, i meravigliosi quadri di Degas sperperati ad ogni angolo, vecchi candelabri illuminati dalle fiamme lampeggianti che danno un tocco di mistero. Mi sembra quasi di poter percepire l'anima pulsante di questa casa, silenziosa ed accogliente. Quando trovo il Signor Torrini, per non essere accusata di scasso, mi affretto a precisare: ''Le ho portato la sua borsa'', che prontamente appoggio su una sedia in vimini. Lui annuisce, assente, demoralizzato, quasi svuotato dagli affanni.
''Stavo cercando di svuotare quest'armadio, ogni giorno ci provo ed ogni giorno mi arrendo'', dice, indicando gli abiti della moglie defunta.
''Non ha avuto però le stesse esitazioni nell'andarsene di casa, no?'', ribatto, infrangendo le regole che l'avvocato mi aveva impartito. Che vada al diavolo. L'uomo cambia espressione e si avvicina con fare affabile ma al contempo risentito.
''Le è mai successo di essere delusa da quello in cui credeva di più?'', mi domanda, gli occhi azzurri che strillano di ricordi. ''Be', allora non può capire cosa significa scoprire, improvvisamente, che tutta la tua vita si fonda su una bugia'', prosegue poi davanti al mio silenzio. Ripensare a quanto male mi abbia fatto scoprire che Alberto mi tradiva, da anni, è stato straziante.
''Senta, io non so niente della sua storia'', ribatto, una volta ritrovato il coraggio di parlare, ''ma anche se sua moglie l'avesse tradito, Silvia non c'entra nulla!''.
''No, c'entra eccome. E' solo che a volte per dimenticarti il dolore, devi togliertelo da davanti gli occhi'', afferma, con fare deciso.
Mi piacerebbe saperne di più e continuare a discutere con quest'uomo che sembra averne passate di cotte e di crude. La sua saggezza mi rapisce. Bip-bip. E' nuovamente il mio cellulare quello che squilla. Chi sarà ancora?
''Mi scusi'', dico rapidamente. Sul display compare Mia.
''Sì, dimmi'', rispondo. E' la polizia, invece. M'informa di raggiungere subito il porto. Ci mancava solo questa.
Quando arrivo a destinazione sono furibonda. Parcheggio la macchina distrattamente, così male che per completare la giornata (dato che sono già le 19:36) potrebbero anche farmi la multa. Sono talmente maldestra, anche nei movimenti, che inciampo almento tre volte.
''Buonasera, cos'è successo?'', chiedo ad un polizziotto dalla folta barba castana, dal marcato accento napoletano e da un nauseante odore di sudore che, appollaiato vicino a Mia, la controlla sottecchi constantemente.
''Era con un compagno di scuola e li hanno sorpresi a prendere una barca a vela qua dietro'', risponde poi, con l'alito impregnato di sigaretta e la voce un po' roca.
''Ma la barca è di Romeo'', confessa Mia, con le guance tamburellate di rossore, il fiato corto e l'aspetto sciupato. Non posso credere che abbia potuto fare una cosa del genere. Adesso mi sente. Non posso sempre giustificare ogni sua azione sconsiderata sotto la scusa dell'adolescenza.
''Sì, i genitori hanno confermato e per fortuna il custode ha deciso di non sporgere denunzia'', ammette poi il polizziotto, liquidandoci. Prendo un lungo respiro e libero i polmoni da tutto questo nervosismo represso. Una volta fuori, stritolo tra le mani il braccio di Mia, trascinandola con forza. Un alveare di vecchie impiccione si accalca alla base della scalinata principale per sbirciare ciò che è appena accaduto. Tra di loro volano frasi come ''Cos'è successo'', ''Ma tu li hai visti?'', ''Che madre incosciente''. Vorrei strozzarle ad uno ad uno.
''Mi dispiace, mamma, ma la barca è la sua! I genitori non vogliono che la usi perché è malato, ma è sua'', cerca di scagionarsi Mia, con la voce traboccante di paura ed un batticuore frenetico.
''Stai zitta che è meglio'', le dico, facendola irriggidire. Finalmente un po' di rispetto. Davanti all'autovettura faccio la conoscenza di Romeo, un 17enne teppista, dalla chioma bionda, il naso alla francese, una spocchiosa giacca di pelle ed un caratteraccio.
''Tu sei Romeo, giusto?'', lo interrogo, con fermezza. Non voglio che Mia frequenti questa gente.
''Sì e... sua figlia ha ragione, non è colpa sua'', la difende l'amichetto, con un tono deciso.
''Vai in macchina'', ordino a Mia. Quando vedo la sua esitazione, lo ripeto con maggiore autorità. ''Sta' lontano da mia figlia, hai capito?'', gli sussurro, minacciandolo, per quel che vale.
''Mamma!'', supplica Mia, con le lacrime agli occhi e il rimmel che gocciola sulle guancie.
''E tu'', riprendo, rivolgendomi a Mia e congedando Romeo, ''niente telefono, niente computer e niente nuoto per un mese, hai capito? Eh?'', urlo, incurante dei passanti e delle probabili pettegole là sotto. ''Sei andata via dalla scuola senza chiedere il permesso, ma sei impazzita? Io, tuo fratello, stiamo facendo di tutto per andare avanti e rimanere uniti''
''Uniti?'', ripete Mia, con ormai il visso arrossato dal pianto, le mani tremolanti ma un'evidente voglia di riscatto e ribellione.
''Sì'', replico.
''Tu sei la prima che mente!''. Cavolo, come fa a saperlo? ''Perché non mi hai detto che siamo senza soldi?!'', ribatte, scrutandomi e sperando fino alla fine in un cenno negativo, che però tarda ad arrivare.
''Allora è vero'', dice in fine, scoppiando in un altro fiume di lacrime. ''E' colpa tua se papà è morto, sei tu che lo facevi lavorare tanto pur di avere la tua cavolo di famiglia da pubblicità. Io la odio la famiglia da pubblicità e odio anche te'', conclude, sedendosi sul sedile anteriore, e nascondendo il viso tra le mani.
Mi infilo di fretta in auto, la testa che volteggia e la tranquillità sotto le scarpe. Accendo la radio, sintonizzandola su RTL, che ci delizia con Dirty Old Town di Craig Cardiff. Premo dolcemente l'acceleratore mentre mi disperdo sotto le note dolenti e nostalgiche di una gracile passione, flebile ed amorevole. Mi sento quasi intristita da questo brano, come se tutto il resto non bastasse a buttarmi giù. Quando arriviamo a casa è già il crepuscolo: le luci malinconiche della notte si mischiano in una danza ribelle con i rami di un sole ardente.
È uno spettacolo magnifico, mi toglie il respiro per una manciata di minuti. Peccato non possa essere felice, in questo momento.

***

A cena, sono sola. Mia si è imposta il digiuno e non mi rivolge la parola almeno da due ore. Giuseppe è sfiancato dalla febbre, dal vomito e dall'influenza violenta. Si alza barcollante dal tavolo e mi dice: ''Io ho finito, posso andare in camera mia?''. Annuisco, con il volto segnato dalla stanchezza e da una tristezza grezza, nuova, matura, decisamente dolorosa.
''Domani mi prepari il dolce, a colazione?'', chiede poi, arrivato sul ciglio della porta.
''Ci provo, okay?'', ribatto, accennando un sorriso forzato. Bip-bip. Non di nuovo, ti prego.
''Un certo Enrico sta chiamando, rispondo?'', domanda Giuseppe, afferrando il blackberry e dirigendosi verso il tastino verde.
''No, no, no amore, rispondo io''. In fretta e furia balzo giù dalla sedia per rispondere. ''Fa il bravo'', gli sussurro, tenendolo accanto a me.
''Avvocato!'', esclamo, con troppa esaltazione, come se fosse una telefonata di cortesia o mi facesse piacere essere chiamata a quest'ora della sera. Dall'altro capo della linea, la voce che mi sopraggiunge, violenta come un treno in corsa, è a dir poco agghiacciante. Improvvisamente tutti gli errori della mattinata mi passano davanti come in un orrendo flashback.
''Lisa Marcelli, ha forse dimenticato che l'ora del pranzo è passata da un pezzo e che ancora io e l'avvocatessa Castelli non abbiamo ricevuto il nostro sushi?''. Oh, merda. ''Sì, è che ho avuto un contrattempo e non ho potuto portarlo'', replico, terrorizzata.
''E il mio tavolo? Ha ordinato alle nove all'800, quando invece era alle otto al 900'', è fortemente arrabbiato. E posso capirlo. Sono un'incompetente.
''E il mio completo? Io avevo chiesto un lavaggio a secco con stiratura a mano, e cosa mi arriva? Un abito adatto solo alle bambole. Mi dispiace. Ma lei è licenziata.''
Tu-tu-tu. Ha già riattaccato.

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Capitolo 3
*** Un gioco che non vinco mai ***


Capitolo 3
Un gioco che non vinco mai

Lo smarrimento che provo quando il silenzio invade la cornetta è immenso. Sembra quasi che un'ondata di violenta tristezza mi abbia travolto in pieno viso e tutto ciò che posso permettermi di fare è disperarmi. In punta di piedi, per non far rumore, quasi trascinata dalle onde del mio malessere mi dirigo verso il balcone. Giuseppe mi chiede chiarimenti, si domanda come mai io, d'un tratto, sia così afflitta e dolorosamente angosciata. Gli rispondo di andare a dormire e di non preoccuparsi. Una volta fuori, l'atmosfera della notte, fresca e pulita, rimbalza sulle mie guance, addentandone il calore e tranquillizzandomi. Prendo un respiro profondo, ingoiando fiumi di stelle e profumi lontani. Tento di non crollare, ancora una volta. E non lo faccio. Non posso permettermi il lusso di lasciarmi andare alla frustrazione. Devo cercare un altro modo per rimanere integra, per sopravvivere a questa burrasca contro la quale l'esistenza mi ha gettata. Afferro immediatamente il pacchetto delle winston che avevo nascosto dietro una pianta e ne fumo un paio senza alcun pudore. Mi accorgo addirittura di Mia, giù in cortile, con una merit in bocca, come se fosse un giocattolo. ''Massì, fuma come tua madre!'', esclamo, nel silenzio della notte. In questo momento non ho proprio la lucidità necessaria per trascinarla nella sua stanza e metterla in punizione, così la lascio fare, immaginando che la sua giornata non sia stata grandiosa. In questo momento non ho proprio la lucidità necessaria per trascinarla nella sua stanza e metterla in punizione, così la lascio fare, immaginando che la sua giornata non sia stata grandiosa ''Louboutin, tacco quindici, se te lo conficco nello sterno sei morta!'', tragugida una voce alle mie spalle. Presa dalla paura, sputo via un urlo incontrollato e mi accorgo improvvisamente di essermi mossa così placidamente da aver addirittura sconfinato nel balcone altrui. La ragazza che mi ha mosso questa terribile minaccia di morte ha gli occhi sbarrati, scarabocchiati dalla violenza di questa sera. ''Ladra! Ladra! Forse assassina!'', continua a sbraitare, le pupille dilatate, la bocca imbrattata dal rossetto, una camicia da notte di seta blu che le accarezza le curve. ''Sono la tua vicina di casa e questa casa è disabitata da anni, e i miei figli non sanno che fumo e oggi è stata una giornata di merda, c'ho Giuseppe che vomita, Mia mi odia, mi hanno licenziato e fra una settimana devono lasciare la casa!'', dico tutto d'un fiato, rendendomi finalmente conto della gravità della situazione. La concretezza delle mie parole iniziano a pesarmi come un macigno sopra le spalle. ''Sta' lontana, non mi toccare'', ribatte la ragazza, appena cerco di avvicinarmi. ''Solo un bicchiere d'acqua, piccolo...'', le chiedo, continuando a sporcare i miei polmoni con il fumo. L'abitacolo nel quale vengo scortata è stracolmo di scatoloni sfatti, quadri invecchiati di John Atkinson Grimshaw e mobili ancora ricoperti dal cellophane. Una leggera pellicola di polvere ha macchiato i pavimenti intarsiati e le luci soffuse che avvolgono le pareti danno alla stanza un'aria demodé. ''Quando mi hanno chiamato e mi hanno detto che mio marito aveva avuto un incidente stradale, io... è come se fossi morta anch'io'', dico, una volta seduta su un divano samoa young scomodissimo. ''Tieni'', sussurra maldestramente, porgendomi con insistenza un martini bianco. ''No, grazie'', rifiuto, quasi dolendomi d'essere astemia. Sotto il chirore della lampada riesco a scorgere i suoi tratti delicati e la fisionomia elegante: gli occhi verdi brillano d'intelligenza, il viso profuma di fondotinta appena spalmato, le labbra sono bagnate da una forte pennellata di rossetto, mentre la sua sagoma, minuta e femminile, fa rimpicciolire la mia autostima. Non bastava Marta Castelli, adesso anche la mia antipatica vicina ha più fascino di me. ''Ti farà bene'', m'invoglia la ragazza, della quale ignoro ancora il nome, con un leggero accento toscano. ''Quindici anni insieme e mai una lite, poi sono andata a Parigi...'', continuo il mio sermone, agitando nell'aria la sigaretta fumante. ''Olivetta?'', mi domanda, come se non stesse assolutamente ascoltando ciò che le sto confessando, come se non ne capisse la portata. ''No, grazie'', la fulmino, per la seconda volta, ''E mi hanno detto che non era da solo, era con la sua amante. Due anni. Per due anni si vedeva con lei! Mi diceva che andava fuori per il week-end, e invece non era vero, stava con lei.'' Questa stramba quanto sofisticata vicina continua a mangiucchiare le sue olive striminzite e ad ingurgitare litri di alcol, quasi come se non ci fossi. Talvolta mi lancia un'occhiata annoiata e torna poi ad occuparsi del proprio pasto. ''Guarda, guarda cosa m'aveva portato dal suo viaggio'', le dico, per attirare la sua attenzione, sflilando dal polso un braccialetto di poco valore. ''Chissà, forse l'hanno scelto insieme... e parlavano di me... e ridevano di me'', la mia voce è tremolante dal risentimento e dalla violenza di quei ricordi ancora troppo vividi, di quel tradimento atroce che non mi meritavo affatto. ''Bella merda'', gracchia la ragazza, continuando a masticare. ''Lo so'' ''No, no, dico... il braccialetto è proprio una bella merda, perché le perle sono sicuramente d'allevamento'', ribatte, spiazzandomi. In un attimo mi sento deteriorata, svuotata, come smarrita in questo fiume d'eventi. In uno slancio di empatia che assomiglia molto più ad una richiesta d'aiuto, mi avvicino, sfiorandole il braccio e le dico: ''Senti, io non l'ho mai detto a nessuno...'', e sono onesta, è la prima volta che racconto a qualcuno ciò che mi è accaduto. Dopo la morte di Alberto tutte quelle amiche che prima mi ronzavano intorno si sono dissolte nel nulla e, adesso, mi ritrovo a casa di una sconosciuta ad elemosinare gentilezza. ''Non mi toccare'', ribatte, per poi aggiungere: ''Anch'io mi sono separata da poco, rimarrò qui giusto il tempo di portar via la casa al mio ex-marito, quindi, io e te non siamo amiche'', dice, con un sorriso malevolo sul viso. Tuttavia, all'imbrunire del mio viso e dopo essersi resa conto di quanto sia stata brusca, continua: ''Però per quel che può valere, io ti consiglio di buttarlo quel braccialetto. Il miglior modo per dimenticarsi qualcosa è di togliersela da sotto gli occhi''. ''Me l'ha detto anche Vittorio'' ''Ora chi è questo Vittorio?'' ''Un cliente dello studio dove lavoravo... te l'ho già detto che mi hanno licenziato?'', il mio atteggiamento cela tutto il dolore che questa consapevolezza mi provoca, ma lei sembra non accorgersene. ''Te l'ho già detto che non siamo amiche?'', ribatte la ragazza, facendomi per un attimo sorridere. ''Bene, e adesso levati dalle scatole perché ho preso i miei sonniferi e non ho voglia di svenire mentre tu stai qui tra i piedi. Vai!'', mi dice, scortandomi fino alla porta. ''Ah!'', esclama, costrigendomi a voltarmi. ''Il tailleur di Chanel me lo ricompri''. Una volta rientrata, mi dirigo verso la stanza di Mia e trovo la porta inspettatamente aperta. La osservo guardare lo schermo del computer mentre fa scorrere a ripetizione alcune foto di Alberto sotto le note di Losing your memory di Ryan Star. La musica riempie la stanza di pallidi ricordi e lacrime celate. Quando si rende conto della mia presenza, cambia espressione. Si alza di scatto dalla sedia e mi sbatte la porta in faccia. ''Buona notte anche a te'', dico, più a me che a lei. Prima di andare a dormire, Giuseppe mi dice che con le sue magie farà ricomparire papà. Il cuore mi si frantuma in mille pezzi, e la notte trascorre tra le lacrime, le battaglie per farcela e qualche documento di troppo che mi adocchia sul tavolo mentre preparo la crostata ai lamponi per domani. La notte mi ha portato consiglio, e sono sicura di riuscire a risolvere il caso Torrini.
 
***

Nella dolcezza della mattina nessuno mi parla Nella dolcezza della mattina nessuno mi parla. Mi aggomitolo su me stessa, dissolvendomi nei sogni, nel chiarore della luce. Le fiamme pallide dei primi attimi innervano la città di mantelli bianchi, cristalli liquidi e grappoli di rose fredde. Il freddo di Settembre mi sconcerta, caccio via un lamento aggrovigliato e mi tiro sù. A colazione sorseggio del caffé accompagnato da un delizioso croissant al miele; quando ne addento metà, i pensieri e gli avvenimenti della notte precedente si librano dentro di me come una nebulosa di stelle, dando vita a buchi neri e temporali. Come un lampo nella burrasca, afferro il telefono, non riuscendo a porre un freno alle mie dita che, digitano un numero sconosciuto; non sapevo neanche di averlo memorizzato. Chiamo Claudia, e tremante, le faccio una proposta. Un'ora dopo sono seduta in casa di Vittorio Torrini con una fumante tazza di tèenglish breakfast tra le mani infreddolite. ''Silvia non è sua figlia, vero?'', gli dico, rompendo così un imbarazzante silenzio ormai durato troppo a lungo. Il signor Torrini s'irrigidisce ed inizia nervosamente a mescolare col cucchiaino il suo espresso amaro. ''Ho visto le carte della sua causa e ho notato che lei ha fatto una richiesta, due anni fa, al tribunale per un test del DNA. Ovviamente il risultato è secretato, ma credo di aver capito perché lei è andato via'', continuo, con garbo, cercando di captare ogni sua possibile reazione, ogni suo sguardo furtivo. ''Per non vedere più Silvia, giusto?''. Questa mia ultima osservazione ha l'effetto di un incoraggiamento su di lui che, dopo aver poggiato la tazzina su un tavolino in vetro ed aver preso un lungo respiro, inizia a raccontare la storia dal principio. ''Silvia doveva fare un piccolo intervento, una cosa da poco, e l'ospedale ha chiesto un profilo medico dei genitori. Mia moglie mi dice, insomma, che Silvia non è mia figlia. La vita mi è crollata addosso e me ne sono andato. Poi, qualche mese fa, mia moglie si è ammalata e mi ha chiamato. Mi ha chiesto di occuparmi di Silvia, per questo mi ha ceduto metà dell'azienda... per obbligare Silvia a starmi vicino''. Raccontare, questo piccolo squarcio di vita, per di più ad una sconosciuta, gli costa un coraggio immane. Alla fine, nonostante tutto, credo che si senta sollevato. E, d'altronde è ciò che è capitato a me ieri sera, con Perla (ho scoperto il suo nome); confessare una parte di noi stessi, che vorremmo non essere mai stati, è come mettersi a nudo. E' tremendamente difficile, ma assolutamente bellissimo. ''Ma perché non parla con Silvia?'', domando poi, con il té che rischia di scivolarmi sui polpastrelli. ''Lei non può capire...'', dice, scuotendo la testa in segno di rassegnazione. ''No, io posso capire eccome! Mio marito è morto sei mesi fa e mi ha lasciato senza un soldo. Mi tradiva. E in tutto questo mia figlia mi odia. Le sembra giusto? No, non è giusto. Quindi non è giusto che Silvia odi lei. Lo capisce?'' ''Non mi vuole parlare, non mi vuole nemmeno vedere, l'unica cosa che ci unisce è questa cavolo di causa''. E sarà proprio questa causa a farli riavvicinare. Ho già prestabilito tutto: io e Vittorio ci dirigeremo in studio dall'Avvocato Vinci (che ovviamente non sarà in sede, e, sì, me ne sto fregando se mi ha licenziata), poi con una scusa farò convocare Silvia e, dulcis infundo, li chiuderò in una stanza. A quel punto saranno costretti a confrontarsi e a risolvere il problema.
 
***
 
Claudia è ancora un po' restia, ma riesco a tenerla a bada, dicendole: ''Ma tu non c'entri nulla, ho organizzato tutto. L'avvocato mi ha già licenziata, cos'altro può fare? Uccidermi?'' ''Ma tu sei sicura che lui non lo verrà a sapere?'', mi domanda, in fibrillazione. Un po' perché ha paura, un po' perché non vede l'ora. ''Certo che sono sicura! Gli ho prenotato un massaggio alle 8:00 e il personal trainer alle 9:00, lui prima delle 10:30 non sarà in ufficio!'', le dico, incoraggiante, con un sorriso molestatore. Quando Silvia suona il campanello, lei avvampa; vorrebbe fuggire, glielo si legge chiaramente negli occhi. ''Lisa... ci metteremo nei guai!'', ripete, piagnucolando, mentre mi dirigo verso l'entrata per accogliere la figlia del signor Torrini. ''Stai tranquilla, fa' fare a me'', le dico, fingendo di avere tutto sotto controllo. In verità, non ho la più pallida idea di che cosa io stia combinando, so solo che ho bisogno di fare del bene in questo oceano di bugie e cose storte. ''Non capisco il perché di questo appuntamento improvviso. Ma l'Avvocato Vinci vuole parlarmi?'', domanda Silvia, un po' perplessa poiché frastornata da una telefonata così repentina, una volta entrata. ''Più o meno!'', mi giustifico, con un sorriso tanto grande quanto insicuro. Tuttavia, quando i suoi occhi incontrano quelli del padre, seduto in poltrona ad aspettare nella stanza delle conferenze, il suo sguardo diventa glaciale e la sua espressione è un miscuglio di emozioni. ''Tuo padre ti vuole parlare'', le dico, gentilmente, cercando di farle vedere tutto il bene che le sto mettendo nelle mani. ''Aspetta!'', dichiaro, riacciuffandola, quando tenta di andarsene con un'espressione corrucciata. Le afferro le mani, la guardo intensamente, e le dico: ''A mia figlia, a volte, sulle unghie metto lo smalto amaro. Non sempre le cose cattive vengono per nuocere'', concludo, infilandola nella stanza e chiudendo la porta a chiave. Vedo Claudia sbucare dalla reception con uno sguardo folle, l'atteggiamento preoccupato. ''Tutto secondo i piani!'', sorrido, lanciandole un occhiolino. ''Tutto secondo i piani tua sorella! Ho appena visto la macchina dell'avvocato. Sta salendo. Madonnina'', nella sua intonazione le si legge tutto il rammarico che prova in questo momento per una scelta tanto azzardata, eppure, al tempo stesso, è esaltata, come se andare controcorrente, talvolta, le rendesse la vita un po' meno tragica. Sorpresa da uno slancio di coraggio, mi infilo velocemente in ascensore, condividendo l'abitacolo con una serie di impiegati privi di anima con le camice appena stirate e le scarpe tirate a lucido. Appena raggiunto il piano terra, mi faccio forza ed esco, assaporando ancora per poco la tranquillità di questa bella mattina di sole. L'avvocato si manifesta davanti ai miei occhi in tutto il suo dannato splendore e per poco non gli cado ai piedi. Cerco di mantenere un controllo scrupoloso ed un atteggiamento che forse appare troppo teso, ma non posso fargli capire che gli sbavo dietro in modo imbarazzante. ''Tu? Sei ancora qui?'', domanda, infastidito e un po' annoiato dalla mia presenza. Eh, no. Oggi no. Non mi farò più mettere i piedi in testa, soprattutto da uno che non è più il mio datore di lavoro. Tuttavia, quando mi passa accanto per entrare in ascensore, con quel suo buon odore di pulito e la mano destra in tasca, non posso fare a meno di perdere qualsiasi velleità. Come faceva quella canzone della Pausini che ascoltavo tantissimo quando ero un'adolescente? Un gioco che non vinco mai, il mio sbaglio più grande. Che rabbia che mi fai. La trappola dei giorni miei . Sei il mio sbaglio più grande ma che rifarei. Quando lo vedo varcare la soglia dell'ascensore e mettersi comodo, mi riprendo e scaccio via questo vecchio motivetto dalla mia testa insieme all'idencente significato che alcune parole hanno per me. ''Che fine ha fatto il tuo massaggio? Lo avevo prenotato per le otto'', chiedo a bruciapelo, sorprendendomi della mia determinazione. ''Sì'', i suoi occhi acquamarina si poggiano su di me per un istante che sembra durare un'eternità, poi continua: ''...di domani mattina''. Ma dove ho la testa? Spiazzata dalla mia stessa negligenza e carezzata dall'orrendo pensiero che probabilmente anche io mi licenzierei, lo seguo all'interno della cabina in un pudico silenzio. Mentre poggia le dita sul pulsante numero uno, per errore, ho l'impressione che i suoi polpastrelli mi abbiano sfiorata, e questa vicinanza così inattesa e deliziosamente sofferente m'ingarbuglia le emozioni. Tuttavia mi irrigidisco all'istante quando comprendo di trovarmi chiusa, in uno spazio di pochissimi metri quadri, con un uomo del quale riesco a malapena a reggere lo sguardo. ''Da quando mi dai del tu?'', prende a dire, poi, mentre aspettiamo. ''D-da quando non lavoro più per te'', dico, col viso tutto rivolto verso le porte dell'elevatore per evitare di inciampare in un suo sguardo tentatore. ''E lascia che ti dica una cosa'', riprendo, piena di dignità, in uno sbalzo d'umore repentino. Premo lo stop e l'ascensore si arresta. L'avvocato Vinci si guarda in giro, perplesso, quasi intimorito da questa mia reazione avventata. ''Non si lasciano le fidanzate tramite le praticanti, non si urla contro le donne incinta e non si tiene un sacco di boxe dentro l'ufficio. Sei un maschilista presuntuoso e cattivo'', dichiaro, con forza, tremando come una foglia per l'entità delle mie parole. L'avvocato mi è pericolosamente vicino e tutta quella paura che mi sembrava di aver percepito sul suo viso, adesso è stata rimpiazzata da un sorriso beffardo. Sbaglio o è compiaciuto d'essere stato insultato? Nel momento in cui inizia a fissare le mie labbra arrossate con interesse, noto nei suoi occhi accendersi la brillantezza dell'eccitazione. Sento le fila del mio cervello spegnersi, il mio cuore incomincia a ronzare come una girandola e le guancie s'arroventano. ''Ti piaccio'', bisbiglia, troppo vicino al mio viso, così tanto che mi basterebbe davvero poco per baciarlo, ma questo significherebbe calpestare completamente il mio orgoglio di donna indipendente (nonché una vedovanza ancora troppo recente!). Eppure questa sensualità incontrollata mi trascina verso di lui in modo prepotente, tanto che per un nanosecondo mi sembra addirittura che anche lui voglia questa intimità, questo contatto segreto. ''Che cosa?'', rispondo, allontanandomi di botto, per poi retrocedere fino a cozzare le spalle contro il ferro freddo delle pareti. ''Tu sei pazzo, eh! No. Tu non mi piaci. I-io gli odio gli uomini come te: pieni di sé, arroganti e antipatici''. Per l'avvocato è facile ingoiare i miei insulti in quanto la mia figura, per lui, ha lo spessore di una sottiletta kraft. Annuisce con vigore, come a darmi ragione, tanto per darmela vinta. Quest'uomo è proprio un gioco che non vinco mai. ''E' vero'', dichiara, avvicinandosi nuovamente al pulsante e facendo ripartire l'ascensore verso l'alto. ''A volte posso sembrare spiacevole. Ma se provi a chiedere alle donne con cui sono stato nessuna potrà accusarmi d'averle ingannate. Io non mento. Non uso strategie. In un mondo di vigliacchi, ti sembra poco?''. Mi volto dall'altra parte, come una bambina alla quale non è stato acquistato il gelato, e mi prodigo per fermare di nuovo l'ascensore, solo che questa volta l'effetto è permanente. ''Che cosa è successo?'', domanda l'avvocato, pieno d'agitazione. ''Che succede... s'è bloccato, no?'' ''Cazzo'', impreca mentre un velo di sudore gli brilla sulla fronte: gli occhi magnificamente azzurri sembrano addirittura farsi più cupi e le sue mani vengono scosse da un tremolio improvviso. ''Cosa ti prende?'', chiedo, preoccupata, coprendo in due passi la distanza che ci separava. ''Soffro di claustrofobia'', ammette, sfinito dalle mie continue domande. Allora è umano, ed anche tremendamente indifeso in questo momento. In questa nuova veste, smarrito ed impacciato, mi sembra quasi di riuscire a vederlo per la prima volta, di riuscire ad intravedere qualcosa nella sconfinata oscurità che avvolge la sua anima. Ed è luce. Nella dolcezza di questo momento di debolezza, scorgo il folgorante bagliore che sconvolge il suo cuore. ''Guarda cosa faccio. Premo l'allarme, ecco, tinc, e ci tireranno fuori. Stai tranquillo. Anche mio figl- cioè mio fratello soffre di claustrofobia, quindi... so che cosa fare.'' L'avvocato tenta di slacciarsi la cravatta ed è così emotivamente vacillante che alla fine mi implora d'aiutarlo. Ci sediamo a terra e le nostre mani, nella fretta, si cercano, s'intrecciano. Il nostro è un contatto piuttosto strambo, scomposto, impacciato e relativamente romantico. Il suo respiro irregolare, nel silenzio profondo, ha lo stesso suono del vento che squassa le cime degli alberi nei giorni di novembre. ''Pensa a qualcosa di bello'', gli dico, carezzandogli il dorso della mano. ''A quando eri bambino, a qualcosa che ti rendeva felice...'' ''Sì, sì, lo faccio, ma tu stai zitta'', mi interrompe, con un piglio arrogante che riesco a perdonargli. ''Sto zitta'', gli dico, con dolcezza, mentre osservo con particolare tenerezza i suoi occhi arrossati, i ciuffi ribelli che sono riusciti a sfuggire al gel, il colletto della camicia sbottonato, la cravatta per terra. Il caos generale che lo avvolge rende il suo animo, per qualche ragione che non riesco a capire, magnificamente sensibile. Lo rende un po' più vicino a me. ''Mio padre aveva una barca, ci andavamo a largo e mi faceva tenere il timone'', sussurra, con la voce rotta dai ricordi, dalle gioie lontane e da un forte dolore ancora troppo difficile da dimenticare. ''Bene, ehm, è una cosa molto bella, no?'' Annuisce, un po' imbarazzato. ''Bé, di' qualcosa tu adesso, altrimenti...'', sembra quasi arrossito. ''Sì. Be', io... io non so nuotare'', confesso, con un sorriso che ha tutto il sapore della libertà, di una confidenza recondita ed infinita. ''Da piccola sono caduta in acqua, ricordo che chiedevo aiuto ai miei genitori ma loro non mi sentivano perché stavano litigando. Dall'ora non entro più in acqua, nemmeno in piscina'' ''E nemmeno litighi, immagino'', mi risponde, ridacchiando; un suono che stordisce, che mi fa percepire il movimento del mio cuore fino alle tempie. ''E' un peccato. Litigare è il miglior modo per iniziare a farsi una scopata''. Adesso i miei battiti si trasformano in martellate continue, il sangue sembra affluire sulle mie gote in maniera istintiva. Deglutisco rumorosamente, cercando di evitare il suo sguardo languido che mi ispeziona, come se per la prima volta mi stesse seriamente prendendo in considerazione. L'incanto di questo momento, così intenso e violentemente proibito, sembra ardere in eterno, ma in realtà, in un soffio è già scomparso quando l'ascensore inizia a ripartire. ''Fantastico! Ci liberano'', riprende, staccandosi da me e donandosi nuovamente un contegno. Raccoglie le sue cose da terra e strofina le mani sudate le une sulle altre. E' bello da mozzare il fiato. ''E... cos'è stato della barca?'', dico, con un filo di voce, alzandomi da terra. ''Mia madre è morta e mio padre l'ha venduta'', mi liquida, con uno sguardo indifferente, come se tutto ciò che è appena accaduto tra di noi non avesse avuto la minima importanza, almeno, non quanto per me. ''Aspetta... devo dirti una cosa'', biascico, mentre lo seguo nella hall. ''Avrei dovuto dirtelo prima, ma se lo avessi fatto non avresti vovuto. Ehm...'', e ora come faccio? ''Ho parlato con Vittorio'', dichiaro, improvvisamente, quasi soffocando per l'agitazione. ''E ho scoperto perché se n'è andato!'', riprendo, come se questo mi giustificasse o riuscisse a mettere tutto a posto. Ma, in fin dei conti, perché dovrei avere paura? Ormai il peggio è passato. ''T'avevo ordinato di non parlare con lui'', dice con durezza, gli occhi spalancati per la sorpresa e la rabbia repressa. Il suo viso è la perfetta rappresentazione della frase perché questa è capitata a me! ''E invece l'ho fatto. E se tu lo avessi fatto prima non ci troveremmo in questa situazione'' ''Tu sei una praticante! Quindi non parli con i clienti e soprattutto non parli con i nostri avversari. Io sono un avvocato e il mio obiettivo è far vincere la mia assistita'', scandisce con così tanta attenzione le parole che quasi temo di essermi tramutata in una sciocca dodicenne. ''E se la vittoria rendesse la tua assistita infelice?'', domando, con la voce frantumata da una delusione che credevo di non poter più provare. Come se immaginare che lui sia capace d'interessarsi solo alla parcella mi facesse un po' male. ''Qui non ci occupiamo di felicità. Qui ci occupiamo di vincere delle cause. Ti è chiara la differenza? Basta, vattene, non lavori più qui!'', mi dice, allontanandomi con un cenno della mano. D'un tratto, Silvia esce dall'aula delle conferenze e l'Avvocato impallidisce. ''Silvia! Che ci fai qui?'', chiede, con un sorriso forzato. ''E' questo che volevo dirti prima. Si sono incontrat- cioè, li ho fatti incontrare io'', m'intrometto, addossandomi tutta la colpa di un probabile fallimento. ''Perdonami, dev'esserci stato un malinteso...'', si scusa l'avvocato, scuotendo il capo per non scoppiare dalla rabbia. ''No, anzi! Papà mi ha ceduto le quote dell'azienda. Niente tribunale'', afferma un'esuberante Silvia, con un sorriso così luminoso da far affievolire il sole stesso. ''E in cambio, una volta a settimana, Silvia, verrà a pranzo con me. Come una vera famiglia!'', esordisce Vittorio Torrini, colpito da quella gioia improvvisa che si manifesta quando tutto sembra ritornare alla normalità. ''Grazie avvocato. Non so come abbiate fatto, però, abbiamo vinto'', conclude Silvia, con una stretta di mano. ''Già. Accomodati nel mio ufficio che formalizziamo l'atto'', risponde l'avvocato, sempre più stordito. Silvia entra nel suo ufficio ed io faccio per andarmene, quando lui mi blocca. ''Ci vediamo domani mattina. Alle otto'', mi informa, sforzandosi di mantenere un atteggiamento incolore, ma in verità mi è riconoscente. ''Ma non mi avevi licenziata?'', dico, sarcastica, con le gambe già in fibrillazione e la testa altrove. ''Non adesso. Ah! E, la praticante raccomandata da Giorgi si chiama Elisa ed è la sua amante, ecco perché ho scelto te, oltre per il fatto che ho capito che al momento sei disperata. Quindi, non mi mentire più. E per favore, ricomincia a darmi del lei'', conclude. Poco dopo, si avvicina al mio viso con una movenza improvvisa e inaspettata e bisbiglia, con un perfido ghigno che non riesco assolutamente ad odiare: ''E ovviamente, i danni della mia macchina, li scalo dal tuo stipendio''. ''Ovviamente'', rispondo, con la consapevolezza che non mi disferò facilmente di questa inguaribile infatuazione che ha appena travolto il mio mondo.

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