L'arte è esclusione

di sofismi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo quinto ***



Capitolo 1
*** Capitolo primo ***


Capitolo primo
Quanto finalmente mi decisi e bevvi il caffè dimenticato sulla scrivania faceva schifo, era freddo. E così anche l’unico piccolo piacere della giornata venne sprecato, buttato via, come se quell’unico caffè fosse stato la predizione del giorno che doveva ancora iniziare. In effetti è una storia strana: quella mattina, uscendo di casa nascosta dentro il cappuccio, sotto l’ombrello, mi guardavo i piedi. Nulla di strano, o di insolito, finora. Salii sul treno, affollato come al solito, e rimasi schiacciata tra un signore e un ragazzo. Neanche in quel momento, in punta di piedi per cercare di respirare un po’ di aria pulita - e non quella stantia e pesante tra le braccia del vecchietto, - nemmeno lì mi accorsi della piega che avrebbe potuto prendere il corso degli eventi. Eppure alla prima fermata il treno inchiodò e gli caddi addosso. Non mi resi conto subito della figura orrenda che avevo appena fatto, mi alzai e spostandomi i ricci spettinati dal viso mi scusai con il ragazzo. Ovviamente lui, da perfetto gentiluomo, mi disse sgarbatamente di stare attenta, così nervosa e infastidita scesi dal treno nonostante non fosse la mia fermata. La gente non dovrebbe essere così sgarbata di prima mattina, pensai mentre aspettavo il treno dopo. Sotto la pioggia, arrabbiata, risi in faccia al karma, che aveva deciso di mettere alla prova i miei nervi. Risi per modo di dire, dato che avrei tanto voluto prendere quello sbruffone e lanciarlo direttamente sotto un treno; fortunatamente mi conosco abbastanza bene da sapere che se inizio ad innervosirmi mi conviene allontanarmi. L’unico lato positivo di quel piccolo “incidente” fu che riconobbi di essere migliorata molto nel gestire la rabbia, e mi sentii orgogliosa.
In ritardo di mezz’ora sulla tabella di marcia arrivai al mio studio bagnata fradicia e con un umore nero da far spavento. E come se non bastasse: le chiavi, dov’erano le chiavi? Svuotai la borsa, le tasche, mi cadde il telefono nella pozzanghera formatasi sotto al primo gradino. Grandioso.
- Sembra proprio che non sia la tua giornata, eh? -
Il ragazzo del treno. Davvero grandioso. E poi? Cosa sarebbe successo dopo? Lo guardai sconcertata.
- Ti sono cadute queste mentre scendevi dal treno, non ho fatto in tempo a dartele prima. È davvero intelligente scrivere l’indirizzo sul portachiavi, è una cosa che ti succede spesso?-
- Come scusa? - ero davvero senza parole.
- Perdere le chiavi, intendo. Ti capita spesso? – sorrideva.
Infame, prima mi tratti malissimo e poi ridi delle mie sfortune? Inconcepibile, inconcepibilmente stronzo.
- No.- Mi guardava.
- Dammele, dai. Grazie. -
Sapevo di comportarmi da ingrata, ma mi aveva costretta lui: aveva iniziato lui sul treno ad essere scortese.
Presi le chiavi e aprii.
- Quindi? – gli domandai prima di entrare. Lui esitò un momento.
- Senti, siamo partiti con il piede sbagliato, ma non è che potrei entrare ad asciugarmi? Ne ho davvero bisogno. -
Lo guardai meglio: niente ombrello, era completamente fradicio. In più sembrava sincero. Sospirai, e non senza riluttanza lo lasciai entrare.
Quello era il mio posto sacro, mi sembrava di infangarne il nome. Eppure dentro di me sapevo che era giusto così, magari me ne sarei pentita più avanti, ma lì, in quel preciso momento, era giusto. Gli diedi uno dei lenzuoli che usavo per coprire i quadri in magazzino, i suoi vestiti intanto erano sul calorifero ad asciugare. Per dimostrare che ero più matura, preparai il caffè anche per lui, e ci sedemmo: lui sul divano beige io sul mio amato sgabello.
- Quindi è questo che fai per vivere? – mi chiese, sinceramene curioso.
- Sì, cioè: ci provo. Capita a volte di non potersi permettere di fare la spesa, o per comprare il biglietto del treno. Ma non m’importa, per ora so di poter sopravvivere così, tra un po’ sono sicura che avrò la mia grande occasione, il mio miracolo.
- Sei un’irresponsabile. – mi disse serio. Non mi sarei mai aspettata una reazione del genere, non era mio padre, non aveva il diritto di parlarmi così dopo avergli acconsentito di entrare e asciugarsi, dopo essere stata così gentile e disponibile.
- Non sono affari tuoi, non deve importarti nulla di come vivo. Non mi conosci nemmeno. – risposi stando sulla difensiva. Non volevo arrabbiarmi, non potevo.
- Però sai, mi piacerebbe. – non ebbi il coraggio di rispondere, ma chi si credeva di essere?
- Conoscerti, intendo. Mi hai incuriosita stamattina, ma dopo aver visto i tuoi lavori sono davvero affascinato. – questa confessione mi mise a disagio, ma mi fece piacere.
- Che cosa vedi?- mi alzai, accarezzai i dipinti appesi, non ancora incorniciati, accarezzai i murales, le fotografie, le punte dei pennelli. Accarezzai tutta la me stessa che era stata trascritta su quelle pareti.
- Rabbia, amore. Più rabbia che amore. E freddo. -
Era una domanda che non facevo mai, non andava fatta, perché non appena una persona riesce a dare il giusto significato a ciò che vede mi sento vulnerabile, nuda, e le lacrime cominciano a pizzicare agli angoli degli occhi. Cercai in tutti i modi di camuffare gli occhi lucidi, e il rossore, perché lo so che arrossisco sempre quando le emozioni turbinano così selvaggiamente dentro di me. Mi misi il maglione, mentre lo facevo passare in testa lo usai per asciugare gli occhi, e giusto perché sono una vera signora mi ci pulii anche il naso. Non trovando il coraggi di guardarlo negli occhi e ammettere che aveva ragione ricorsi alla solita soluzione:
- Vattene. -

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Capitolo 2
*** Capitolo secondo ***


Capitolo secondo

Lo caccia via, nudo, avvolto nel lenzuolo e con i vestiti in mano. Non volevo più avere nulla a che fare con lui, lui che era riuscito a leggermi dentro così in fretta senza nemmeno conoscere il mio nome. Uno sbruffone, ecco cos'era. Se la regola della prima impressione è davvero valida allora non avrei dovuto per nulla al mondo lasciarlo entrare nel mio mondo, nella mia arte.
Non riuscii a concludere nulla quel giorno, in studio. Collezionai soltanto una quantità immensa di tazze di caffè, impilate l'una sull'altra.
È sbagliato, è tutto sbagliato. Tutto ciò che vedo è buio, io sono buio. Sono così chiusa su me stessa, come un riccio, che l'arte non ha via di fuga, mi rimane appoggiata all'anima e mi fa soffrire; essendo la mia arte rabbiosa, selvaggia, non dovrebbe stare chiusa dentro un corpo. Come io non dovrei rimanere chiusa dentro una stanza.
Quella notte la passai in studio, guardai le pareti piene di colori e presi una decisione: staccai tutti i dipinti, presi tutte le tele, misi tutto in magazzino, sotto i lenzuoli. Al loro posto appesi tele bianche, pulite. Sarebbe stato il nuovo inizio. Il mio inizio.
Dipinsi tutta la notte, corpi nudi, visi spenti, mani, tantissime mani. Scelsi il verde salvia, il colore delle alghe, il rosso, il rosa carne, il viola, il bordeaux. Non mi fermai un minuto, e alle prime luci dell'alba ciò che nacque mi si rivelò come se non fossi stata io l'autrice di tutto quello. Rimasi stupefatta dalla meraviglia che avevo davanti agli occhi, lo avevo creato io. Ero io l'autrice, erano le mie emozioni quelle. Mie e solo mie. Mie e di chi mi le aveva procurate, scatenate.
Quei colori, quelle forme, quel dolore, quella rabbia. Tutto mi apparteneva.
Con l'anima più leggera mi incamminai verso l'uscita, e sui tre gradini mi fermai. Era ancora lì.
- Ti avevo detto di andartene.- dissi sprezzante.
- Ho ascoltato tutta la notte la musica che usciva dalla finestra, ti ho vista dipingere quando riuscivo. Ti ammiro, vorrei aiutarti...- ancora una volta sembrava sincero, ma io non riuscivo a fidarmi di lui. Non avevo nessuna garanzia, e la sua presenza mi infastidiva.
- Voglio comprare un tuo quadro, adesso.- mi disse deciso.
Non volevo la sua carità, non volevo nulla da lui. Me ne andai, corsi via, non mi voltai indietro, non sapevo se mi stesse seguendo, andai verso casa, non volevo, non volevo, non mi accorsi.
Improvvisamente mi resi conto delle lacrime che bagnavano il viso, chi ero io per meritarmi tutto quel dolore? Lo sentii dietro di me, mi mise delicatamente una mano sulla spalla.
- Vieni dentro dai...-
- Non toccarmi. - odiavo quel tono cattivo, ma non potei fare a meno di usarlo, mi venne quasi spontaneo trattarlo male, come al solito. Alla fine mi rendevo conto di fare sempre così, di trattare male le persone. Probabilmente è per questo motivo che sono da sola, mi dissi. A volte basterebbe cambiare il modo di approcciarsi con gli altri per smettere di essere soli.
- Sei davvero una strana ragazza.- non so se lo disse coscientemente o se non si accorse di aver dato voce ad un pensiero fugace, ma non risposi.
- Scegli quello che vuoi, appena si asciugano ci passo la vernice e te lo spedisco. Per il prezzo ci organizziamo poi.- Camminò un po' guardandosi intorno, e si fermò davanti al primo che feci quella notte.
- Penso di aver scelto.- sospirò, senza staccare lo sguardo dal dipinto. Questa volta non gli chiesi nulla a riguardo, mi morsi la lingua e mi misi affianco a lui.
- Mi affascina il modo in cui riesci ad esprimere le tue emozioni.-
- Da quando ne capisci di arte?- domandai sarcastica.
- Ho tante doti nascoste.- pensai mi stesse prendendo in giro, di nuovo, e lasciai correre.
- Bhe, sto chiudendo. Non è il caso che tu vada a casa?- non sapevo proprio come liberarmi di lui. - Mi farò vivo io.- Quell'uscita di scena così inaspettata mi lasciò con l'amaro in bocca, non mi andava giù che fosse andato via lasciandosi dietro una scia di mistero. E adesso, mi chiesi? Adesso aspetto.
Passarono giorni, poi settimane. Vendetti due quadri di piccole dimensioni e pagai l'affitto. Avevo bisogno di altri soldi però, avevo sbagliato a fare affidamento su di lui. Avrei dovuto saperlo, dato com'era andato il primo incontro. All'alba della terza settimana bussò alla mia porta. Aprii senza dire nulla:
- Ho trovato i soldi.- mi disse soltanto. Lo feci entrare, aveva davvero tantissimi soldi, troppi forse.
- Per questo pezzo il valore è 800$, non di meno, non di più.-
- Zitta e ascoltami stavolta: ti sto offrendo l'occasione di una vita, accetta i soldi di questo collezionista, se il quadro gli piace ti offrirà di partecipare alla sua mostra, se no saranno gli unici che vedrai.- mi spiegò in fretta.
- Ma che diavolo dici, che cos'hai fatto?- ero senza parole, completamente stupida, in balia di emozioni che non provavo da mesi.
- Accetta e basta, per favore.- parlava sottovoce, perché? C'era qualcosa che non andava. Aveva gli stessi vestiti di tre settimane fa.
- Dove sei stato in queste tre settimane?- gli chiesi severamente. Riconoscevo il fatto che non fossero assolutamente affari miei, ma mi sentivo in debito con lui. Mi guardò negli occhi, in silenzio. Poi si alzò e scese in strada. Dall'alto dei tre gradini mi misi ad urlare:
-Resta!-

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Capitolo 3
*** Capitolo terzo ***


Capitolo terzo
Non avrei mai pensato di poter avere una reazione del genere così spontanea, ero sempre la prima ad allontanare gli altri, eppure quella mattina l’istinto mi disse di uscire e tentare di fermarlo.
- Resta!- urlai. Probabilmente non se l’aspettava nemmeno lui una reazione così, infondo lo avevo sempre trattato male, sin dal nostro primo incontro. Mentre mi portai le mani alla bocca lui si girò.
Sentii il terrore nei miei occhi: restammo immobili a fissarci, nessuno dei due ebbe il coraggio di muoversi, né tantomeno di dire qualcosa, il tempo si stava prendendo gioco di noi e più ne passava più aumentava l’imbarazzo. Appena arrivai al limite ripresi possesso del mio corpo e della mia mente e tornai dentro. Chiudendomi la porta alle spalle sospirai; perché avevo reagito in quel modo, che cosa mi stava succedendo?
Prevedibilmente bussarono alla porta, ma non aprii. Ero stanca di quella situazione, non mi riconoscevo nelle mie stesse azioni ed era una cosa che mi metteva a disagio. Non avrei permesso a nessuno di avvicinarsi, non gli avrei permesso di farmi del male. Non più.
- Mi dispiace!- sentii urlare dall’altra parte della porta. – Mi sono comportato male, lascia che ti spieghi.- la voce era più fioca.
Non sapevo che fare, probabilmente quel ragazzo aveva bisogno di aiuto, tanto quanto me. Se lui si era dimostrato così gentile e disposto ad aiutarmi perché non avrei dovuto restituirgli il favore? Ero in debito con lui, ma per sdebitarmi avrei per forza dovuto lasciarlo entrare: non solo nel mio studio ma nella mia vita, e io non ero ancora pronta.
- Ti prego, lasciami entrare.- nella sua voce c’era una nota amara di tristezza, era una voce grigia. Al che il mio cuore si sciolse e vidi la mia mano muoversi verso la maniglia senza che io forzassi il movimento. Appena la porta si socchiuse lo vidi lì, in piedi, con lo sguardo di chi era stato in ginocchio per troppo tempo. Mi spostai dall’entrata per farlo passare, e dopo un attimo di esitazione entrò. Ci sedemmo come le due volte precedenti, io sullo sgabello e lui sul divano:
- Non sono stato da nessuna parte in queste tre settimane, ma ero ovunque. Amici, principalmente. Ma mi capita di restare anche per strada, o nei bar, dormo dove capita a prescindere dall’orario. Non ho avuto il successo che meritavo; ho perso tutto.- sembrava una confessione, mista ad uno sfogo, uno di quegli sfoghi di cui hai bisogno quando sei al limite della sopportazione. Quando sei alla linea di confine.
Nonostante apprezzai molto il fatto che si fosse fidato di me a tal punto da raccontarmi, o avere anche solo l’idea di volermi raccontare, certe cose non seppi proprio cosa rispondergli. Alla fine non conosceva nemmeno il mio nome, e io non conoscevo il suo. Pensai che magari quello avrebbe potuto essere un buon inizio, in un momento imbarazzante come quello.
Non volli lasciar passare troppo, il silenzio se no ci avrebbe allontanati ulteriormente:
- Mi chiamo Helena.- dissi soltanto, freddamente.
Per la prima volta da quando ci eravamo seduti incrociò il suo sguardo con il mio, mi parve di scorgere un barlume di speranza il quegli occhi, ma speranza per cosa? Sorrise.
- Felix.- abbassò lo sguardo, ma non smise di sorridere.
- Bene, per oggi penso che il momento delle confessioni sia stato fin troppo intenso, che ne dici?- cercai goffamente di alleggerire l’atmosfera, ma non ottenni i risultati sperati, nonostante la situazione migliorò un poco.
- Aspetta, io conosco solo il tuo nome!-
- Sbagliato: conosci la mia arte, quindi mi conosci anche troppo. E poi sto per portarti a casa mia, Felix, non è abbastanza?- domandai.
- Come scusa?- era visibilmente sconcertato, e lo ero anche io nonostante non lo dessi a vedere. Era una cosa che andava contro ogni mio principio ma il mio intero organismo agì per volontà propria. Non so da dove quell’idea si fece strada nella mia mente, non so da dove partì, fatto sta che una decina di minuti dopo eravamo diretti verso il mio appartamento e l’ansia mi stava corrodendo la cassa toracica, dal lato del cuore.
Casa mia non era nulla di nobile, era disordinata, piena di disegni ovunque e libri, tantissimi libri. Di cui tra l’altro ero molto, molto gelosa. Pensai di doverli mettere tutti a posto una volta arrivati a casa, per paura che si rovinassero, ma non avrei avuto nessun posto dove spostarli e mi rassegnai.
- Non dovrai toccare nulla di quello che c’è in giro, ogni oggetto è esattamente dove deve essere.- mentii spudoratamente, era evidente che il caos regnasse sovrano ma io mi orientavo bene in quel disordine, non avrei mai immaginato il mio appartamento diversamente.
Lui stette zitto, si guardava intorno: i suoi occhi erano luminosi come non li avevo visti mai, e fui segretamente grata di quel complimento silenzioso.
- Sembra un posto magico.- bisbigliò lui. Io intanto stavo cercando dei vestiti e delle coperte da dargli per passare la notte, gli sistemai il divano in modo che ci fosse più spazio e gli porsi le due coperte pesanti che ero riuscita a ripescare nei meandri del mio armadio.
- Non sono troppe?- mi guardò ridendo.
- Non si sa mai.- Essendo io molto freddolosa pensai che avrebbe potuto avere freddo, evidentemente ero troppo previdente.
La serata trascorse tranquilla, i vestiti che gli avevo trovato gli stavano oltremodo larghi ma per ora avrebbe dovuto accontentarsi così. L’indomani sarei andata a comprargli qualcosa di decente da indossare per un colloquio di lavoro, o qualcosa del genere, in modo da aiutarlo a tirarsi su.
La notte invece fu molto più disturbata: avevo in mente l’immagine di lui sul mio divano, e mi sentivo entusiasta. Ero contenta che lui fosse lì, mi sentivo al sicuro con una figura maschile in casa, sentivo che niente di brutto poteva succedere. Ma sapevo anche che i miei incubi quella notte non avrebbero tenuto conto dell’ospite in salotto. Per cui presi delle precauzioni chiudendo la porta della camera e dell’anticamera, mettendoci sotto dei cuscini: in modo da chiudere lo spiraglio; in modo da riuscire a isolarmi; in modo da non fargli sentire le mie urla.

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Capitolo 4
*** Capitolo quarto ***


Capitolo quarto
Come sempre quella mattina bevvi il mio solito caffè, freddo. Mi ostinavo ad abbandonare in giro la tazzina, non importava cosa stessi facendo: avrei sempre, puntualmente, incondizionatamente dimenticato il caffè da qualche parte. Quella mattina stetti a fissare la tazzina bianca con il bordino blu fino ad imparare a memoria la sequenza dei fiorellini stampati sopra, ero completamente persa nella mia mente: ogni qual volta passavo una notte insonne mi veniva sempre difficilissimo concentrarmi anche sulla cosa più piccola e sciocca.
Rimasi con lo sguardo perso nel vuoto e pensai a quanto in quel momento mi stavo odiando. Non riuscivo nemmeno ad essere coerente con me stessa, avevo sempre pensieri orrendi ma agivo di continuo nella maniera opposta. Quanto deve essere crudele una persona per torturarsi in questo modo?
Ripensai ai mesi precedenti, a tutti quei mesi passati con un vuoto nel petto, sintomo di una persona che ha perso l’anima, o come nel mio caso: sintomo di quando l’anima viene letteralmente strappata dal corpo, assieme a tutta la vita a cui era legata. Avevo sofferto così tanto che non volevo più nemmeno essere felice, per paura di poter essere accoltellata di nuovo.
Le lacrime mi pizzicavano gli occhi, sapevo cosa stava succedendo ma non lo avrei mai ammesso. Negavo sempre il mio dolore, con l’idea che non fosse abbastanza valido da essere considerato tale. Incolpavo sempre il cambio di stagione, una giornata storta, un gesto maleducato da parte di chiunque; non avrei mai ammesso la gravità della situazione. E nemmeno in quel momento fui in grado di concedermi una lacrima, un singhiozzo, per alleggerire il peso di quella situazione così sottovalutata.
- Buongiorno- disse Felix entrando in cucina, spettinato e con un sorriso in volto che invidiavo con tutta me stessa. Avrei voluto esserne capace anche io: sorridere la mattina, che meraviglia.
-‘Giorno.- mi stropicciai gli occhi e feci finta di sbadigliare, per camuffare gli occhi lucidi.
- Tutto bene?- mi guardava in modo strano, ma il sorriso non abbandonò il suo volto. Aveva uno sguardo così gentile, il poco che sapevo su di lui non si addiceva per niente all’impressione che mi aveva dato, eccetto forse per il nostro primo incontro sul treno.
- Vuoi del caffè? Qualcosa da mangiare?- cercai volontariamente di cambiare discorso, non sono mai stata brava a mentire.
- Ti ho sentita, stanotte. – mi disse serio.
Il mio cuore perse un battito, il suo sorriso scomparve, lo sguardo triste.

- Mi sono stancata! Sono stanca, e delusa. Non hai le palle per continuare questa relazione, non hai le palle per continuare ad amarmi. Non lo meriti. Io non lo merito. Se pensi di non farcela vattene, e non tornare mai più. Vattene senza voltarti. Sai cosa mi fa più arrabbiare? Mi stai facendo sentire una scema: nonostante la difficoltà del momento io sono qui, e ti amo, e il pensiero di vivere senza di te non mi passa nemmeno per l’anticamera del cervello. Per me sei sempre stato indispensabile, evidentemente per te non ero così importante.- le emozioni mi turbinavano nel petto come impazzite, non ragionavo più lucidamente. Stavo guardando la mia vita voltarmi le spalle, lo stavo aiutando a prendere il coraggio per prendere le sue cose e chiudersi la porta alle spalle.

Ricordo l’esatto momento in cui realizzai di essere rimasta sola. Il momento in cui mi strappò l’anima dal petto con violenza. Ho sempre odiato i luoghi comuni ma in quel momento mi sentii morta. Non c’era un altro modo per descrivere come mi sentivo. Semplicemente non mi sentivo.
Che cosa avrei fatto? Dove sarei andata? Il mondo intero mi aveva voltato le spalle: prima la mia famiglia, adesso anche lui.
L’ansia che mi attanagliava lo stomaco era pressoché impossibile da gestire, era proprio un dolore fisico. L’ansia stava diventando il mio peggiore incubo. L’ansia era l’unica compagnia che mi meritavo. L’ansia mi ricordava ogni giorno quanto stupida fossi stata.

Ormai erano mesi che non esisteva più un noi. Ero sola, e non vivevo. Giornate grigie trascorrevano lente, e notti ancora più buie mi inghiottivano. Le persone che pensiamo di amare, e quelle da cui pensiamo di essere amati, sono sempre le prime a voltarci le spalle, a farci del male, a tradirci. E non parlo solo carnalmente, il tradimento emotivo è peggio: è quello che ti fa pensare “io non ti amo più”, “tu non sei quello che voglio”; è questo quello che ci uccide, quello che ci fa odiare la vita. E questo non è che l’apice del mio malessere, la punta dell’iceberg contro il quale il mio cuore si era schiantato. Mille altri pensieri che ero solita a lasciare nella stiva della nave tornarono a galla con lo schianto, le pareti lacerate del mio cuore lasciarono evadere memorie nascoste e segrete che ricominciarono a mangiarmi da dentro. E piano piano iniziai a morire davvero. Il cibo divenne un bisogno secondario. L’unica cosa di cui avevo bisogno era la mia arte: sentivo la costante necessità di buttare su quelle tele, su quelle pareti, tutti i demoni che mi portavo dentro. E piano piano mi isolai.


- Ti ho sentita, stanotte.- mi disse serio.
lo guardai con dispiacere:
- Ne parliamo un’altra volta, va bene? Promesso.- sinceramente dispiaciuta pensai a quanto fosse difficile da mandare giù una confessione del genere e non me la sentii subito di mettere questo ulteriore peso sulle sue spalle.
- Tranquilla, mi sono solo preoccupato. Tutto qui.-
Erano forse anni che non sentivo una frase del genere, mi scaldò il cuore ma mi fece paura: fortunatamente la paura era l’unica emozione che riuscivo a non tradire. Ho sempre cercato di stare ad una certa distanza dalle persone, a causa del mio passato. Questo ragazzo però stava esercitando una sorta di potere su di me, forse non volontariamente, eppure lo stava facendo. Stava succedendo qualcosa dentro di me, e io non capivo cos’era, ero curiosa e spaventata. Paura e contentezza. Distanza e riavvicinamento. Ero spezzata a metà.
- Vestiti, ti porto fuori a dare una svolta alla tua vita.- dissi, non sicura se fosse riferito a me o a lui.



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Cari lettori, buonasera.
Intanto volevo ringraziare per le recensioni, mi fa un sacco piacere sapere cosa ne pensate. Mi sto prendendo questo piccolo spazio per un motivo ben preciso: vorrei spiegare come prima cosa che questo è un "esercizio" per allenare la mente a rimanere concentrata su un solo personaggio, e per dimostrare (a me stessa) che posso iniziare una cosa e prortarla a termine.
Volevo anche spiegare che la triade io-lui-noi è fatta apposta per simboleggiare i gradini presenti nella mente di Helena: dove il primo apparteneva al "noi" (lei e il suo ex fidanzato), sul secondo c'era "lui" e infine veniva lei. E il mio obbiettivo è proprio quello di ribaltare la gerarchia e far sì che Helena riesca mettere se stessa al primo posto.
Un bacino a tutti,
Ann Marie.

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Capitolo 5
*** Capitolo quinto ***


Capitolo quinto
Mi piacerebbe poter dire che i mesi passarono e che la vita trascorse nella mera semplicità di ogni piccolo gesto, ma purtroppo non mi è concesso. Non avevamo più soldi, mangiare era diventato raro, non pagando le bollette non c’era nemmeno più la corrente, il che voleva dire niente telefono, computer, TV, forno, lavatrice, niente luce. La casa era ricoperta di piccole candele, in modo che la sera non fossimo nel buio assoluto; ammetto che l’atmosfera era rilassante ma la paura di non poter avere nemmeno più un letto dove dormire cominciava a farci paura. Mentre lui cercava un impiego io lavoravo a ciò che avrei dovuto mostrare al collezionista per partecipare alla mostra, i miei lavori gli erano piaciuti, aspettava solo di scegliere quelli giusti da esporre. Ormai lavoravo soltanto su corpi nudi e labbra, e come mio solito aggiungevo dettagli floreali su ogni pezzo: peonie e camelie, i miei fiori preferiti, volevo esprimere ciò che siamo realmente, volevo esprimere il concetto esteriore della sofferenza, le bocche invece celavano più parole di quante se ne potesse immaginare. Mi sentivo meglio quando riuscivo a trasmettere ciò che pensavo, Felix interpretava sempre i miei quadri in maniera più che esatta ed era appagante: non era mai successo che qualcuno mi capisse così. Eravamo così vicini, ogni sera dopo il lavoro veniva a prendermi, e a casa ci immergevamo nella poesia: era il momento che preferivo. Lui era così intelligente, profondo, e ogni cosa gli mostrassi a lui interessava, e piaceva, e ne discuteva con me.
- La stoltezza, l’errore, l’avarizia, la colpa / ci occupano l’anima e il corpo ci fan guasto, / e noi ci offriamo ai nostri cari rimorsi in pasto,/ come il povero sfama le zecche che lo spolpano.-
-Baudelaire?- sorrise.
-Sì, lui. Un genio a parer mio.- chiusi il libro. Pausa. – Che cosa faremo?-
Ci incupimmo entrambi, l’aria era pesante.
- Andrà bene, vedrai. Il collezionista amerà i tuoi lavori, ti finanzierà, ti salverai.-
Un giramento di testa improvviso.
- Helena!-
Non svenni, non caddi, oscillai un pochino e poi lo guardai. Quando il dolore accumulato arriva a farti stare male fisicamente? Quanto ancora posso resistere? Il mio corpo, bramando contatto fisico, calore, si avvicinò a lui per farsi abbracciare, senza che la mia mente fosse d’accordo.
Restammo lì abbracciati, e piansi tutto il male che avevo dentro, tutto il mio passato, e tutta la paura per il mio futuro. Appoggiò il mento alla mia testa, prima di quel momento non mi accorsi mai di quanto fosse più alto di me. Era una strana sensazione, non riuscivo a capire se mi sentissi a mio agio o meno. Nessuno mi toccava da molto tempo, questo bisogno improvviso di calore umano mi stupì. Assaporai ogni singolo respiro come se fosse l’unica cosa di cui avessi bisogno in quel momento, ma non appena ci staccammo l’imbarazzo era visibile ad occhio nudo.
- Scusami,- cercai di giustificarmi – non avrei dovuto…-
Lui in risposta sorrise e mi accarezzò i capelli, fu così strano ma altrettanto dolce che mi lasciò di stucco.
- Vado a dormire, buonanotte.- mi chiusi tutte le porte alle spalle e mi seppellii sotto le coperte, come se fossero le assi della mia bara.

L’incubo che si fece strada nella mia mente quella notte fu diverso dal solito. In genere sognavo mani, corpi, respiri affannosi, voci. Nei miei incubi mi sentivo sempre schiacciata sotto il peso di una persona, ero cieca, non vedovo chi fosse: non sapevo se era sempre la stessa persona o meno. Quella notte invece vidi chiaramente un viso, il suo viso. Il viso di chi mi fece così tanto male, e il suo corpo, le sue orrende mani, quelle mani che odiai così tanto. Non mi lasciava in pace, mi inseguiva, mi girava in torno come un avvoltoio sul cadavere. Perché era così che mi faceva sentire: un cadavere, morta. Mi aveva portato via tutta la vitalità che avevo in corpo.
Alla fine mi prese. Urlai.
Erano le due di notte, ero stesa sul letto con gli occhi spalancati e con le mani che stringevano la coperta così forte da farmi male.
Ci pensai, ci pensai molto. Ma il buio mi faceva troppa paura, e io mi sentivo troppo sola, indifesa. Usai la lucina da lettura per farmi strada fino al soggiorno, e mi intrufolai sotto le coperte con Felix. Era sveglio.
- Non dire nulla.- lo pregai. Mi strinsi forte a lui e basta. Con lui mi sentivo al sicuro, e l’abbraccio di qualche ora prima mi aveva dato la sicurezza di cui avevo bisogno. Sapevo che lui non mi avrebbe fatto del male, lo sentivo. Nonostante la stranezza di quella situazione sapevo che era la cosa giusta da fare, speravo solo di non doverne parlare con lui. Non mi sembrava di provare qualcosa, era molto tempo che non mi “innamoravo”, e in un certo senso speravo non fosse così. Però pensavo sempre a lui, e se non era presente aspettavo di incontrarlo, per raccontargli qualcosa magari, o semplicemente per ascoltarlo leggere qualche poesia. Forse, però, mi stavo illudendo, forse stavo solo cercando di negare a me stessa le mie emozioni. Forse la verità era che di notte tutto si amplifica.
L’indomani mattina mi sveglia sul divano da sola, Felix era in cucina. Mi sedetti, inspirai profondamente e poi lo raggiunsi.
- Potremmo rifarlo, sai?- mi disse lui dopo due minuti di un silenzio diventato ormai fuori luogo, a causa mia: non trovai il coraggio nemmeno di salutarlo.
- Ci sono cose che non sai, Felix. È più complicato di quanto non sembri.-
- A me sembra già molto complicato. E sono preoccupato per te: perché scappi?- aveva messo giù la caffettiera, anche se la tazza era ancora vuota, mi stava guardando insistentemente. Non sapevo come reagire, dovevo dirglielo o no? In fondo, perché avrei dovuto? Ma perché tenere il segreto?
- C’è qualcosa che mi frena, sia per dirtelo, che per avvicinarmi a qualsiasi essere umano. È…- non riuscivo a parlare, avevo così tanti pensieri, così tante domande che non riuscivo a pronunciare una frase di senso compiuto senza tendere a deviare il discorso. Era più forte di me.
- Cosa, cos’è che devi dirmi?- mi venne vicino, mi accarezzò il viso. Appoggiai il viso sulle sue mani e mi permisi di chiudere gli occhi, e di avvicinarmi.
- Tempo fa sono uscita da una relazione difficile.- gli occhi erano ancora chiusi.
- Che cosa ti ha fatto?- serio, lui. Zitta, io. Lasciai che migliaia di lacrime rigassero il mio viso, tutte le lacrime che avrei dovuto versare anni fa, ma che non ebbi mai la forza di far cadere. L’orgoglio era troppo, e la paura.
Lui mi capì, mi capiva sempre. Da quel momento non mi chiese più nulla, e iniziò a stringermi sempre più forte.
Quella sera venne a prendermi un po’ più presto del solito, mi fermò sui gradini e fece qualcosa che non avrei pensato mai. Mi prese il viso e appoggiò velocemente le sue labbra sulle mie, di sfuggita. Semplice, veloce, quel nostro primo bacio fu l’inizio di una lunga serie di gesti affettuosi e piccole premure, e pensai che non avrei mai potuto essere più felice di così.

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