Un incontro fortunato

di Iryael
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** | Capitolo 01 | Pagare pegno ***
Capitolo 2: *** | Capitolo 02 | Leggero e brutale ***
Capitolo 3: *** | Capitolo 03 | La giacca e il coltellino ***
Capitolo 4: *** | Capitolo 04 | Sospensione ***
Capitolo 5: *** | Capitolo 05 | Non facile, non impossibile ***
Capitolo 6: *** | Capitolo 06 | Lettera ***
Capitolo 7: *** | Finale | Accordo ***
Capitolo 8: *** | Epilogo | Primi passi ***



Capitolo 1
*** | Capitolo 01 | Pagare pegno ***


[ 01 ]
Pagare pegno
19 Aprile 5396-PF
Veldin, Kyzil Plateau
 
La sera era calata da un pezzo e il belvedere, a quell’ora, sembrava il set di un film noir.
I lampioni gettavano coni di luce bianca su panchine vuote e solitarie. L’acqua della fontana ristagnava silenziosa, con la superficie leggermente increspata. La brezza che spirava dal deserto portava e spandeva la sabbia fine, che pian piano riempiva ogni cosa.
Nell’angolo sud-est, davanti ai teloni scuri che coprivano i tavolini del bar, due lombax molto giovani erano l’unica presenza vivente della piazza.
«Il patto era chiaro: chi perde paga la penitenza» stava dicendo lui con aria baldanzosa. «Se volevi deciderla dovevi vincere la campestre. Dato che hai perso, se ora non ti piace... beh, stupida te che hai accettato la sfida.»
Lei non prese bene la sua arroganza. Era abituata a quel modo di parlare, ma in quel momento appariva troppo sicuro di sé. E poi l’aveva sempre battuto: di un soffio, ma era sempre stata lei la più veloce. Quello sguardo tra i ragazzi del terzo anno – quello che si erano scambiati prima di annunciare i tempi – era più che sospetto nella sua testa.
«Sono sicura che hai ladrato» borbottò.
Cole sorrise compiaciuto. «Andiamo, non ho bisogno di barare per batterti. Sei più debole di me. Le femmine sono sempre più deboli dei maschi, è biologia.»
L’aveva letto su uno dei libri della scuola, per cui era scientificamente provato. La ragazza non avrebbe avuto appigli per una risposta al vetriolo delle sue. Infatti Lilith tacque, anche se il brillio nei suoi occhi suggerì quanto desiderasse assestargli un ceffone.
Per non farlo si costrinse a ravviare la frangia, così da avere le mani occupate. Il guizzo cremisi che scintillò alla luce delle lampade suggerì a Cole l’immagine della bocca di un vulcano: rossa, fumante, pericolosa. Per un attimo si sentì minacciato da lei, poi drizzò il mento e, in risposta, sbuffò con disprezzo.
Evitare di saltargli alla gola costò alla ragazzina una generosa dose di autocontrollo, ma ci riuscì. Riuscì a mettere da parte l’insulto nello sbuffo – perché era sicura che ce ne fosse uno – e cercò di riportare la discussione al livello pratico. La voce però uscì simile a un ringhio, le parole pronunciate a denti stretti: «Dimmi cosa vuoi che faccia.»
Cole mostrò un’espressione di sincero stupore e – di fronte a quella faccia – Lilith si sarebbe riempita d’insulti. Già le rodeva pagare una penitenza che sicuramente non le spettava. Il fatto che fosse lui, poi, a deciderla, le dava il voltastomaco. Ma con quella frase si sentì una totale autolesionista. E una stupida di prima categoria.
Non aveva mai, mai acconsentito a una penitenza con parole tanto servili. Piuttosto che piegarsi in quel modo si sarebbe tagliata la lingua con un morso. Cole lo sapeva, per questo sgranò gli occhi. Poi, come un’aspirina, l’orgoglio prese a fervere dentro di lui. Sentì ribollire lo spazio dietro le costole, i pensieri si fecero frizzanti e, per alcuni istanti, si sentì onnipotente.
Lilith, però, capì la portata del suo errore solo quando lo vide sorridere. Una fila di denti bianchissimi comparve dal vello scuro, sotto uno sguardo eccitato e un po’ avido.
Poi, godendosi la reazione sgomenta della ragazzina, Cole decretò quale fosse la penitenza.

 

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Capitolo 2
*** | Capitolo 02 | Leggero e brutale ***


[ 02 ]
Leggero e brutale
Non trascorsero che dieci minuti prima che la ragazza si pentisse amaramente.
La voce baritonale del padre, nella sua testa, le ricordava a nastro tutti i motivi per i quali una dodicenne non dovesse recarsi nei bassifondi dopo il calar della sera e – forse – era il caso di ammettere che avesse ragione.
Cole aveva preteso che lei gli portasse l’autografo di una certa prostituta – Charline – che lavorava in un certo bordello – la SoftHouse. Lilith era sicura che quel nome non le fosse nuovo, ma non riusciva a ricordare da chi l’avesse udito. In ogni caso, trovava quella penitenza particolarmente umiliante. Ma, ancora prima che umiliante, la trovava spaventosa. Più si guardava intorno, infatti, più le ombre la facevano sentire tremendamente fuori posto. Lunghe e avide, si protendevano dagli imbocchi dei vicoli e sembravano dirle “vieni, sappiamo come occuparci di te”.
Ovviamente non avrebbe ammesso ad anima viva la sua paura, però stava bene attenta a camminare sotto la luce emessa dai lampioni.
Aveva già imboccato quelle vie, di giorno. N’era sicura perché di tanto in tanto riconosceva un’insegna. Ma non c’era mai stata dopo il calar della sera, e ai suoi occhi, in quel momento, le stradine sembravano un budello di intonaco scrostato.
 
Dopo aver girato a vuoto per più di mezz’ora, la ragazzina si arrese all’idea di dover chiedere informazioni.
Ma a chi?
Escluse i passanti: anche supponendo di trovarne, non sarebbe stato un buon affare fermarsi in mezzo alla strada.
Le serviva un posto più affollato.
Non chiedo una convention; qualcosa tipo un bar sarebbe perfetto. Se solo ‘sto posto non fosse fottutamente deserto...
Bofonchiando maledizioni inintelligibili, la ragazzina proseguì finché non adocchiò un locale, diversi minuti più tardi. Era in un edificio che faceva angolo di strada, con i vetri gialli e rossi incastonati come scaglie di pesce nelle vetrine.
Quando lo vide, Lilith storse il naso.
Al di là dei gusti discutibili del proprietario, le luci che uscivano dai vetri erano molto soffuse. Indubbiamente lo strato di polvere su di essi giocava un bel ruolo, ma era più come se le luci all’interno fossero tenute molto basse.
Beh, è l’unico che c’è – si disse per farsi forza. – Entro, chiedo ed esco. E se non ottengo la risposta me ne torno a casa passando da un’altra parte e la firma di Charline la recupero domani pomeriggio. E al diavolo anche Cole e le sue cazzate. In effetti potrei farlo anche adesso...ma anche no! ‘Fanculo, sono più forte di così!
Una volta dentro, la ragazzina si sentì più fuori posto che mai. L’aria del bar sapeva di fumo, di alcol e di qualcosa pungente che non voleva sapere che fosse. Si avvicinò al bancone sforzandosi di non giocare con la lunga coda di cavallo e attirò lo sguardo del barista.
«Che vuoi?» gracchiò quello al suo indirizzo.
Se avesse dovuto descriverlo, Lilith l’avrebbe definito un armadio dalla voce cavernosa. E guercio da un occhio (a meno che la benda sull’occhio destro fosse scena).
«Sto cercando la SoftHouse, ma mi sa che mi sono persa» disse, cercando di non mostrarsi impaurita.
Il barista si scambiò un’occhiata intorno, prima di rispondere: «Direi proprio di sì. Ma che ci vai a fare? Mica li fanno entrare i bambini!»
«Cerco mio fratello. Credo che sia là» mentì.
Un avventore dall’aria alticcia, piegato in due sul bancone, alzò lo sguardo e lo puntò su di lei. Era un cazar, con una chioma di capelli decisamente troppo unti.
«Non è che cerchi lavoro, eh?» disse, prima di lasciarsi andare a una risatina. Il suo alito era puro effluvio d’alcol: Lilith trattenne l’istinto di girarsi e vomitare per terra.
«No. Voglio solo ripescare quel deficiente di mio fratello» insisté.
«Oh, peccato...»
«Dree, sei all’arrivo» obiettò il barista, prima di rivolgersi alla ragazzina. «Adesso gli procuro un caffè bello amaro, così magari la smette con le puttanate» disse, indicando il cazar. Poi, molto gentilmente, le fornì le indicazioni per raggiungere il bordello.
* * * * * *
Procurarsi l’autografo di Charline non fu difficile dopo le dritte del Guercio.
Paradossalmente, dopo essere entrata in quel bar, varcare il portone della SoftHouse non le fece impressione. Forse perché le sembrò di entrare in un set cinematografico dove le donne vestivano corpetti di porporina e piume vaporose.
In quel momento stava tornando indietro. Non pensava più a come le ombre sembrassero avide, o a come gli imbocchi dei vicoli avessero sfumature sinistre. La mente era ancora settata su quel mondo luccicante che aveva intravisto pochi minuti prima.
La pithil, la brezza notturna che avvolgeva Kyzil Plateau, la colse da dietro e le portò gli odori dell’alcol e di qualcosa di pungente, subito prima che due mani unticce l’afferrassero e una di esse le tappasse la bocca.
«Non c’era tuo fratello?» sussurrò una voce alle sue orecchie, malevola.
* * * * * *
Quando la paura le concesse di utilizzare i sensi in sincrono, era già successo qualcosa, anche se non avrebbe saputo raccontare cosa.
Non avrebbe saputo spiegare come fosse finita in quel vicolo. O come mai sentisse male al seno. O come si fosse accasciata contro il muro, coperta da una giacca che non le apparteneva.
 
«ERA LA MIA PUTTANA, STRONZO!»
Alzò lo sguardo. La sua attenzione si focalizzò sul cazar ubriaco del bar, quello che le aveva chiesto se cercasse lavoro.
Quello che si era avventato su di lei quasi senza darle respiro.
Ricordò la scena in pochi flash confusi, prima di essere sovrastata dalla sensazione delle sue mani che la toccavano. Si strinse le braccia al petto, sentendolo pizzicare e dolere in più punti.
«Torna a casa che sei ubriaco» ordinò l’altro, scandendo le sillabe con calma.
L’altro. Il lombax ch’era intervenuto a sorpresa, che dopo aver spinto via il cazar le aveva gettato addosso la sua giacca.
«CAZZO VUOI DA ME?!?»
Lo sguardo scattò di nuovo sul cazar. Nella sua destra era apparso un tubo che, per quanto stretto con mano leggermente tremolante, aveva l’aria pericolosa.
Lilith deglutì e si fece piccola piccola contro il muro.
Dove l’ha preso?
Poi vide i ponteggi impilati contro il muro e capì.
E anche il lombax dovette capire che il cazar s’era fatto pericoloso, perché si fece più serio.
«Ti rispiego il concetto, Dree» asserì. «Poggia quel tubo e vai a casa.»
«SCORDATELO!»
Scattò in avanti. Il tubo compì un unico arco, fino alla verticale e poi giù, violento come un colpo di scure.
Lui, però, non si fece sorprendere. Quando il tubo calò, lo scansò torcendo il busto. Si spostò di una misura a malapena sufficiente a evitare il colpo e contrattaccò, affibbiandogli un pugno a palmo aperto sotto il mento.
Il cazar rimase disorientato e l’altro ne approfittò per aggrapparsi alla sua spalla e impattargli una ginocchiata alla bocca dello stomaco.
Dree si piegò su se stesso, lasciando cadere la sua arma. Lilith lo vide indietreggiare fino al muro, con una mano sul ventre, prima che una poltiglia lasciasse la sua bocca producendo un rumore disgustoso.
Poi la sua visuale fu riempita dalle ginocchia del lombax, che s’accucciò fino a guardarla in faccia.
Lilith si ritrasse contro il muro, spaventata. Poco importava che quel tizio avesse pestato il cazar al momento giusto o che avesse un’espressione innocua.
«Va tutto bene» lo sentì dire, con lo stesso tono pacato di poco prima. «Sono un amico. Mi chiamo Sikşaka.»
Vedendo che non reagiva, si affrettò a chiedere: «Non sono arrivato tardi, vero?»
La ragazzina denegò e lui si aprì in un sorriso sollevato.
«Meno male!» esclamò, soddisfatto.
 
Il cazar avvertì una fitta al plesso solare quando si raddrizzò.
Sikşaka – pensò. Era troppo ebbro per pensare con criterio, ma quel nome così particolare gli riportò alla mente una scena passata.
C’era una città devastata dalla guerra. C’era un vicolo fatto di muri sgretolati e una donna che implorava pietà. E c’era lui che gli rifilava un pugno in pieno viso, furibondo, gridando che non tollerava lo stupro.
C’era una fila di insulti che non riusciva a ricollegare al ricordo, ma sapeva che a rivolgerglieli era stato lui.
Sikşaka – pensò di nuovo, stavolta più arrabbiato. – Quello lì. Quello che mi ha stangato di botte.
Un flash gli fece sgranare gli occhi. Sbagliava: gli insulti non erano i suoi. Erano quelli dei loro camerati, che dopo la zuffa l’avevano lasciato nel piazzale, riverso nel fango e nell’umiliazione.
Bruciante umiliazione.
 
Vicino a lui c’era il fascio di tubi. Senza pensare allungò la mano e la strinse attorno al più vicino. Doveva essere lungo quanto il suo braccio, ma era leggero. Poco importava. L’attenzione era tutta per il bastardo, che cincischiava con la ragazzina senza più calcolarlo. Proprio come dopo la baruffa in quel vicolo di Anther City.
Dree digrignò i denti e scattò in avanti.
«TALAVARA!»
Il lombax – in quel momento come allora – fece appena in tempo ad alzarsi a metà, prima che lui lo sovrastasse. Ma quella volta Dree l’afferrò per il bavero e lo tirò a sé, affibbiandogli una testata sul naso.
Lo colse totalmente di sorpresa.
Una rete di dolore avvolse il volto di Sikşaka che, quando il cazar lo allontanò con una spinta, barcollò rischiando pericolosamente di perdere l’equilibrio.
L’altro, euforizzato dal successo, lo inseguì menandolo con foga, ogni colpo sempre più vigoroso.
Sikşaka, stordito, fece a malapena in tempo a offrire il fianco piuttosto che il torso intero. Il bastone impattò con forza sull’avambraccio alzato a mo’ di scudo, poi sulla parte alta della schiena, lasciata indifesa, poi in pieno ventre, con un movimento a gancio.
Il lombax gemette e realizzò che al colpo successivo sarebbe stato alla mercé dell’avversario. Il suo istinto combattivo gli intimò di fare qualcosa.
Dree lo vide piegarsi e sul suo volto si allungò un sorriso folle. Era debole. Alzò il tubo, quella volta con entrambe le mani, deciso a finirlo e lavare l’umiliazione subìta.
Fu il fisico a reagire per Sikşaka. Mentre il tubo scendeva, portò avanti tutta la parte destra del corpo e intercettò con l’avambraccio i polsi del cazar. Fu diverso da poco prima: non cercò di bloccare il suo movimento; bensì lo guidò verso il basso, cambiandogli traiettoria. Dree era ancora trasportato dal suo slancio, e non poté fare altro che finire il movimento, sbilanciandosi in avanti.
Il lombax era di lato all’avversario, gli agganciò la caviglia col tallone e lo spinse sulla nuca. Il cazar cadde faccia avanti, a strusciare il pavimento.
L’aria lasciò violentemente i suoi polmoni, mentre la parte sinistra del volto divenne un’accozzaglia di dolore e bruciore. Fu la rabbia a dargli la forza di puntellare i palmi a terra, ma di rialzarsi non ci fu verso. Un peso gravò all’improvviso sulla sua già malconcia spalla destra, un piede entrò di profilo nel suo campo visivo. Capì che si trattava di Sikşaka, che si era inginocchiato su di lui.
«Bas...tardo...»
«Ah, parli ancora?» domandò, mentre faceva passare il braccio armato al di sopra del ginocchio alto. Gli piegò il polso all’indietro e il tubo passò di mano. Ora armato, il lombax si rialzò e colpì di punta la tempia del cazar, mandandolo definitivamente al tappeto.
 
Non ci mise una forza eccessiva – voleva renderlo incosciente, non ucciderlo – eppure agli occhi di Lilith il gesto parve incomprensibilmente brutale, in totale contrasto con la leggerezza dimostrata prima.
Anche il gesto con cui lanciò via il tubo ebbe un ché di sgraziato, ma a quello la ragazza pose molta meno attenzione. Il lombax, infatti, si era voltato verso di lei.
La stava fissando, così come lei fissava lui.
Poi, lentamente, Sikşaka s’incamminò verso di lei.
C’erano forse dieci passi tra di loro, non di più. Una parte del cervello di Lilith considerò che, se si fosse mossa subito, sarebbe potuta scappare. L’altro non sembrava proprio in condizione di correre e, con ogni probabilità, l’avrebbe seminato facilmente.
Tuttavia c’era qualcosa che la fece rimanere seduta dov’era, con gli occhi incollati su di lui e la giacca indosso che odorava di naftalina. Non sapeva dire il motivo esatto, ma provava una sensazione a pelle per cui non riusciva a identificare quell’uomo come un nemico.
Perciò rimase a fissarlo mentre si avvicinava, con la mano sul ventre che la diceva lunga su quanto la randellata gli avesse fatto male. Lo fissò in silenzio, e non disse una parola nemmeno quando si fermò davanti a lei e si accucciò di nuovo.
A quel punto la ragazzina si rese conto della scia rossastra che colava dal naso e gli tingeva le labbra. Si strinse leggermente nella giacca, e Sikşaka – interpretando il suo gesto – si affrettò a coprire la parte bassa del viso.
«Della tasca alla tua sidistra c’è u’ fazzoletto. Be lo passi?» domandò, sporcando la pronuncia col naso tappato.
Lilith impiegò un istante a capire che stava parlando con lei. Le sembrava talmente surreale!
Però, passato quell’istante, si affrettò ad infilare le dita nel luogo indicato. Il tessuto all’interno era quasi scivoloso, come se fosse stato cerato. E fu altra stoffa ciò che toccarono i polpastrelli: diversa, più ruvida. Quando riportò fuori la mano, stringeva un fazzoletto ripiegato.
Sikşaka si andò a sedere un poco distante da Lilith, la testa alta e il fazzoletto premuto sul naso. Rimasero in silenzio a lungo, lui impegnato a fermare l’emorragia e lei coi pensieri in panne.
Il primo a parlare fu Sikşaka, non appena si fu assicurato che non usciva più sangue. «Mi dispiace di averti spintonato, prima.»
Lilith scosse la testa. «Fa nulla.»
“Era per staccarmelo di dosso, va bene così” avrebbe voluto aggiungere, ma non riuscì ad andare oltre l’essenziale.
«Sei tutta intera, al di là dello spavento?»
La lombax annuì.
«Allora, se mi dai un minuto, ti accompagno fuori da qui.»

 

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Capitolo 3
*** | Capitolo 03 | La giacca e il coltellino ***


 

[ 03 ]
La giacca e il coltellino
Lilith riaprì gli occhi al trillo della sveglia. Il display segnava le 7:15 del 20 aprile. Sabato. Un ultimo giorno di tortura, poi la scuola le avrebbe dato un giorno di tregua.
Si alzò come al solito, s’infilò in bagno come al solito, e quando tornò in camera per vestirsi... incappò in una giacca piuttosto vecchia. Una giacca che non era sua né di suo padre.
Una dodicenne qualunque avrebbe messo la testa fuori dalla porta e avrebbe gridato alla madre di fornire spiegazioni. Lilith, però, era sola in casa. La madre non si vedeva dai tempi del divorzio e suo padre era a fare consegne dall’altra parte delle Galassie Unite. E comunque non le servivano spiegazioni. Rivisse in pochi flash la sera precedente, e d’improvviso perse ogni voglia di uscire di casa.
* * * * * *
Raggomitolata sotto le coperte, dentro di lei infuriava una battaglia tra ragione e coscienza. Succedeva ogni volta che percepiva qualcosa di particolarmente negativo, come un voto pessimo in qualche interrogazione. In quei casi, di solito, la battaglia interna durava al massimo due minuti e si concludeva con la decisione di raccontare una balla al genitore. Un’aggressione però era su un altro livello. Non si poteva metabolizzarlo in due minuti, soprattutto non nel modo caotico con cui viveva quei momenti. E così, prima che se ne rendesse conto, erano passate le 19:00.
A svegliarla dalla sua condizione confusa fu lo stomaco, che emise un brontolio inequivocabile. Dopotutto non aveva mangiato né bevuto per tutto il giorno.
Spinta dal bisogno fisico, si allontanò dal suo piccolo rifugio di stoffa. Abbandonò la camera e scese al pian terreno. La cucina l’accolse con il familiare ronzio del frigo e l’odore di cucinato sparso nell’aria. Lo stomaco reagì subito, brontolando ancora più forte.
Dopo aver riempito a dovere la pancia, la ragazzina tornò in camera, dove si trovò di nuovo davanti a quella giacca dall’aria vecchiotta. Era appoggiata sul servomuto, proprio davanti al letto. Forse era di ecopelle. Di certo era stata conservata con la naftalina, l’odore non mentiva. Il tizio della sera prima gliel’aveva appoggiata sulle spalle prima della zuffa e poi non gliel’aveva più richiesta indietro.
Bisogna che gliela riporto.
(Bene, il primo pensiero decente della giornata!)
Com’era che si chiamava? C’era una esse...
(Una esse, eh? Dèi, che memoria di merda.)
Spero che ci sia scritto il suo nome da qualche parte.
(Improbabile. Mica è un cucciolo d’asilo. Spera in qualche documento, altrimenti hai una giacca da portare all’ufficio oggetti smarriti. O da tenere, se preferisci.)
Non le restava che controllare.
Tolse la giacca dal servomuto e l’aprì sul letto. Una tastata sommaria le fece capire che nelle tasche esterne, al massimo, avrebbe trovato degli scontrini. Passò direttamente alle tasche interne. Dalla prima tirò fuori solo uno stick per le labbra, ma nella seconda c’era una vecchia patente di guida. La ragazzina rigirò il tesserino tra le mani. La foto era sbiadita, ma raffigurava sicuramente il tizio che l’aveva tirata fuori dai guai.
Sikşaka Talavara. Avevo ragione a ricordare una esse.
(Peccato che ti mancassero tutte le altre.)
Gli occhi corsero all’indirizzo sotto il nome.
I bassifondi... – la parola rimbalzò in ogni angolo del suo cervello, procurandole un brivido lungo la schiena. Per sicurezza voltò la tesserina.
È scaduta l’anno scorso.
(Non cercare scuse. L’indirizzo può essere ancora valido.)
Posso fare un pacco e inviargliela.
(Certo, magari senza neanche un biglietto di ringraziamento. Bella stronza che sei.)
Così non dovrei scendere di nuovo laggiù.
(Quel tizio ti ha salvato la coda. Un ringraziamento di persona glielo devi.)
Girò di nuovo la patente per guardare la foto. Un ringraziamento glielo doveva, era fuori discussione. Però l’idea di tornare nei bassifondi le dava la tremarella.
Alla fine decise che ci sarebbe andata il giorno dopo. Forse.
* * * * * *
Ci volle tutta la notte prima che Lilith prendesse seriamente in considerazione l’idea di avvicinarsi al portone. E ci volle qualche altra ora prima che trovasse il coraggio di vestirsi per uscire. Ma alla fine, quando l’orologio segnava le 10:35 di domenica 21 aprile, la lombax comparve in cima alle scale, ben vestita e con una borsa di carta in pugno.
Scese le scale fino al piccolo ingresso, afferrò il pomolo del portone, e d’improvviso le venne meno il coraggio.
Non ce la faccio.
(E non ce la farai mai se non apri il portone.)
Non voglio uscire.
(Questa è un’altra storia. E comunque non vuoi nemmeno tenerti quella giacca puzzolente.)
Qui sto bene.
(Bugiarda.)
In casa sto bene.
(Sai che non è vero. Uscire è importante.)
Non voglio uscire.
(Ma riportare la giacca è giusto.)
Posso riportargliela domani.
(No, lo farai oggi. Perché domani dirai “domani” e così via. Quel tizio ha bisogno della sua giacca.)
La ragazza scoccò un’occhiata alla maniglia. “Combattuta” era un eufemismo. Dentro di lei c’era una guerra in piena regola, e l’idea di uscire di nuovo le chiudeva lo stomaco. Ad un certo punto sentì anche l’impulso di vomitare, eppure non si mosse di un passo.
Alla fine serrò le dita attorno al pomolo, con lo sguardo sofferente e i denti conficcati nel labbro inferiore. E aprì il portone.
* * * * * *
Mezz’ora più tardi, ore 11:15
Kyzil Plateau, Bassifondi est
 
L’edificio davanti a lei era simile a tutti quelli che aveva intorno. L’ingresso era sottostrada, in una nicchia ben riparata dalla pithil e dalla sabbia. Dalla strada i muri si alzavano per due piani, e sul tetto si poteva intravedere il bucato che svolazzava. Per sicurezza, Lilith confrontò l’indirizzo con quello sulla patente. Per corrispondere, corrispondevano.
Fece qualche passo incerto verso il portone. Che avrebbe fatto se ad aprirgli fosse stato un tizio completamente diverso? E se fosse stata una donna? Che gli avrebbe detto? “Scusi, sa, ieri suo marito/fratello/zio/cugino mi ha salvato da un ubriaco con brutte intenzioni...”
Già mentre lo immaginava le orecchie scesero per l’imbarazzo. No, non poteva andare bene una frase del genere. Magari poteva fingere di aver trovato la giacca, mollarla e andarsene. Sì, suonava come un ottimo piano. Prima, però, doveva suonare il campanello.
Suonò una volta sola, brevemente, sperando che non ci fosse nessuno. Invece qualcuno c’era, lo capì dai passi che udì all’interno. Si rassegnò ad una colossale figuraccia mentre la sua coscienza, nel profondo, le suggeriva che sarebbe stata una cosa breve e liberatoria.
 
Alcuni interminabili secondi più tardi il portone si aprì, e Lilith si trovò davanti un lombax dal vello del colore della iuta, con le striature scure e le iridi color ruggine. Non aveva dubbi che fosse il suo salvatore.
«Ah...buongiorno...» balbettò. «Sono venuta a riportarle la giacca.»
L’altro aggrottò le sopracciglia, sinceramente stupito. Aveva riconosciuto la chioma rossa e il vello biondo, e non credeva che la ragazzina si sarebbe avventurata così presto nei bassifondi.
«Molto gentile da parte tua» rispose. «Come hai scovato l’indirizzo?»
Lilith scattò come una molla. «Sì, certo, che scema.» Si frugò in tasca e tirò fuori la patente scaduta. «Era nella giacca» disse, porgendogliela assieme alla borsa di carta. Sikşaka guardò il tesserino con un misto di sorpresa e sollievo.
«Ah, ecco dove l’avevo lasciata» commentò, prima di farsi leggermente da parte. «Perché non entri? Anch’io ho qualcosa da renderti. E poi vorrei scambiare due parole con te.»
Una serie di sorpresa, sconcerto e anche paura lampeggiò negli occhi di Lilith, che sussultò e s’irrigidì. Un mezzo passo indietro le venne istintivo.
«È questione di pochi minuti.» cercò di rassicurarla Sikşaka. «Ovviamente potremmo parlarne anche qui, ma la signora che abita di fronte è una ficcanaso terribile.»
La ragazzina si girò e scoccò un’occhiata al fulmicotone alla residenza di fronte. Vide una tendina muoversi, e nella sua mente esplose un coro di improperi.
Una volta in casa lo seguì per un corridoio che costeggiava una parete vetrata. La stanza attirò subito l’attenzione di Lilith: era spaziosa, alta due piani, e completamente vuota.
Il lombax la guidò fino a una delle porte in fondo, che rivelò essere l’ingresso di una cucina. Lilith squadrò l’ambiente e le venne in mente un solo aggettivo: mignon. Tuttavia si limitò a sedere al tavolino e aspettare che l’altro le dicesse le due parole promesse. Non voleva stare in quel posto per più dello stretto necessario.
Sikşaka spense l’olovisore e la guardò dritta negli occhi.
«Prima di tutto grazie per la giacca» disse. «Immagino che rimettere piede qui ti abbia fruttato un bel po’ d’indecisione.»
Un lampo di sorpresa passò per le iridi verdissime della ragazzina. Poi, di colpo, la vena al centro del tavolo divenne molto interessante.
«Ho pensato che un ringraziamento diretto fosse meglio di una lettera» si schermì.
«Non posso negare di apprezzarlo.» breve pausa. «Come va? Ti senti meglio?»
«Sì, un po’.»
«Mi fa piacere.»
Calò un breve silenzio. Sikşaka si aspettava che la giovane dicesse qualcosa, magari anche banale, ma l’imbarazzo era evidente. Così prese in mano la situazione.
«Prima ho detto di volerti parlare... Be’, è perché l’altra sera hai fatto qualcosa che merita di essere discusso.»
Aprì il cassetto del tavolo e ne tirò fuori una barretta di metallo dai fianchi rigati. Lo sguardo della ragazzina riconobbe immediatamente i meccanismi nascosti dietro le lamine, e ancora prima di notare le lettere LH incise sulla superficie sapeva di essere davanti al suo coltellino multiuso.
«Ma questo... come fa ad avercelo..?» balbettò, stupita.
«Ieri sono tornato nel vicolo. Era per terra» spiegò lui. «Sapevo che fosse tuo perché l’altra sera, quando sono intervenuto, stavi cercando di piantarglielo in corpo.»
Le orecchie della ragazza caddero in picchiata. Non ci credeva.
«Io... ecco, non lo so... magari ho pensato di azzopparlo e telare...»
Non se lo ricordava per nulla, in verità. Faceva parte di quel pezzo di serata che aveva rimosso dalla memoria.
«Non sto biasimando la tua mossa. Anzi: la logica è buona» la rassicurò Sikşaka. «Ma l’applicazione proprio no. Chi è il tuo maestro?»
Lilith impiegò un istante ad afferrare il senso della domanda. C’erano più palestre a Kyzil Plateau: immaginò che si riferisse agli istruttori.
«Nessuno» e si strinse nelle spalle. «Non faccio combattimento.»
«Ah no?» la voce del lombax salì di tono per la sorpresa. «Allora ci sei versata, signorina.»
Lilith tornò a fissare la vena sul legno, trovando quel complimento bizzarro ma gradevole.
«Allora sono io che dovrei chiederle chi è il suo maestro. Voglio dire, lei è piovuto dal nulla e ha rigirato quel bastardo come uno straccio sporco! Se imparassi quelle mosse poi non avrei problemi nella vita.»
Sikşaka drizzò le orecchie.
«Nel senso che elimineresti con la forza chi ti dicesse di no?»
Lilith si sentì avvampare e, di colpo, tutta l’aria intorno a lei si scaldò. L’altro, colto alla sprovvista, riparò il volto dietro gli avambracci.
Termoalterante!
Conosceva le potenzialità di un esper con quel dono. Apparentemente non erano nulla di che, ma nelle giuste condizioni potevano essere molto insidiose. E la ragazzina le aveva rilasciate senza pensarci due volte.
Lilith ritirò la sua abilità in fretta. «Cavoli, non volevo! Dico davvero! Mi è presa male e... e ‘sti giorni non lo controllo tanto bene» balbettò a mo’ di scusa.
«Non è niente...» si guardò rapidamente intorno per controllare. «Non è successo nulla. Dicevi?»
La ragazzina impiegò un istante per recuperare il filo del discorso. La figuraccia le stringeva lo stomaco peggio di un’interrogazione imminente; trovare le parole adatte a spiegarsi si fece più difficile.
«Io non dicevo in quel senso. Non le userei con chi dice no, ma con chi mi maltratta.»
“Maltrattare” era senza dubbio un concetto ambiguo, ma Sikşaka dubitò che intendesse il suo senso più manipolato. Poco prima s’era indignata veramente tanto.
«...è un’idea comune, la tua» concesse. «Ma, se la metti in termini di autodifesa, allora va bene.»
«Posso sapere che tipo di arti marziali fa?»
«Si chiama arte delle lame. Però so cosa stai pensando, e devo avvisarti che non fa per te.»
La voce della ragazzina si fece delusa. «Ha detto che ci sono portata, però.»
«Sei versata al combattimento» la corresse lui. «Ma per imparare l’arte delle lame bisogna conoscere a fondo le basi delle arti marziali. Se vuoi cominciare, parti con qualcosa di tradizionale come l’aikido o la nabla hai.»
Nella mente di Lilith si delineò subito una scala delle priorità. «Quanto ci vuole per imparare le basi?»
L’ingenuità della domanda strappò un sorriso al padrone di casa. «Mesi, o forse anni. Dipende dallo studente.»
Facciamo mesi. – decise Lilith fra sé. «E dopo dove posso andare?»
«Credo che la scuola più vicina sia ad Asteroid City. Intanto, però, comincia qui. So che hanno dei buoni corsi base.»
Asteroid? – pensò con sconforto la ragazzina. C’era un’ora di volo fra Kyzil Plateau e la città. Sarebbe stata una rottura di palle enorme. – Vabbé, c’è comunque il corso per le basi. Poi vedrò.
* * * * * *
La prima cosa che fece, una volta rientrata a casa, fu una ricerca in rete. Sikşaka le aveva consigliato l’aikido o la nabla hai, per cui puntò direttamente a quelli. Quando vide i prezzi della palestra, però, si sentì frenare. Tre lezioni a settimana costavano uno sproposito. Al massimo se ne sarebbe potuta permettere una, e comunque avrebbe dovuto parlarne a suo padre. Parlargliene e spiegargli il perché di una simile decisione.
Si sentì tornare al punto di partenza. Scoraggiata, si afflosciò davanti alla tastiera e strinse i denti.
Come poteva raccontargli cos’era successo? Con che parole? E dirgli che l’aveva fatto per una stupida sfida persa, per di più!
No, no, doveva puntare a una balla. Meglio convincerlo che aveva deciso di cominciare a fare sport sul serio. Sì, poteva funzionare.
Andò a prendere il chatter.

 

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Capitolo 4
*** | Capitolo 04 | Sospensione ***


[ 04 ]
Sospensione
 
Il giorno seguente, 22 Aprile 5396-PF, lunedì
Kyzil Plateau, settore sud
 
La scuola media “Jane Lynch” aveva i muri di carta velina, era risaputo. Per questo chiunque girasse nei pressi della segreteria riusciva a sentire tutti i discorsi della presidenza.
Sikşaka era proprio lì, appoggiato contro il bancone, in attesa che la segretaria finisse di timbrare le pratiche d’iscrizione, così da dargli la sua parte di copie affinché la riportasse alle elementari. Era un compito noioso, ma avendo pescato la pagliuzza corta era toccato a lui.
In quel momento, dalla presidenza, arrivavano urla belluine. Sikşaka non poté fare a meno di guardare la porta chiusa con aria incuriosita: erano quaranta minuti buoni che si udivano quegli strepiti.
«Che sta succedendo?» domandò alla segretaria, accennandole la dirigenza.
«Oh, guardi, l’inciviltà di questi marmocchi è indicibile. Oggi, a ricreazione, una primina ha tentato di annegare un compagno nei bagni.»
«...una primina?» il tono espresse tutto lo stupore. «Ero rimasto che queste smargiassate si facessero alle superiori.»
La segretaria si strinse velocemente nelle spalle. «Ogni tanto si trovano degli stronzetti precoci.»
 
Un quarto d’ora più tardi la porta della direzione si aprì. Ne uscì il preside, ma per qualche ragione non chiuse la porta. Sikşaka, incuriosito, guardò per scoprire il volto della terribile primina. Si ritrovò a incrociare gli occhi verdissimi di Lilith.
La ragazza si accorse di lui e sostenne il suo sguardo con una rabbia capace di incenerire. Sikşaka non disse nulla. Fece finta di non conoscerla, e si rimise in attesa delle sue scartoffie. Dentro di lui, però, i pensieri mutarono. Mise a confronto la ragazzina che aveva conosciuto in precedenza con quella che vedeva ora. Non c’era dubbio che almeno una di esse fosse un falso, una simulazione per stare fra la gente, ma quale?
Il primo incontro non contava: lui Dree non l’aveva mai sopportato, né prima né dopo la Rivolta Trirazziale. Al secondo incontro aveva pensato che fosse una ragazzina qualunque, ma con un accento in più sulla forza d’animo (dopotutto era andata a cercarlo nei bassifondi, a un nulla di distanza sia dal luogo che dal momento dell’aggressione). E adesso la vedeva così infuriata da annegare qualcuno in un water.
«Sarei curioso di conoscere i suoi genitori» concluse, sovrappensiero. La segretaria gli lanciò un’occhiata di sbieco.
«Provi a cercarli a Bogon. Sono lì da mesi; la madre addirittura da anni.»
«Lei li conosce?»
La donna gli lanciò una breve occhiata incisiva. «Chiacchiere tra colleghi, signor Talavara.»
L’altro si zittì.
* * * * * *
Arrivò il momento di raccogliere le carte e andarsene. Sikşaka aveva appena chiuso la porta della segreteria, ma questa si riaprì di scatto. Ne uscì Lilith, che lo fissò con aria truce.
«Allora, mi ha sputtanato a sufficienza?» domandò, incattivita.
«L’avrei fermata prima» si difese l’altro, pacato. «Ti va di dirmi cos’è successo?»
«A chi? Alla troia che ha fatto divorziare i miei o a me?» sputò, alludendo alla segretaria con lo sguardo.
«A te, mi sembra chiaro.»
Lilith affondò le mani in tasca. «Se proprio t’interessa...»
Si guardò intorno con aria circospetta, ma essendo ancora orario di lezione l’unica presenza sul piano era la bidella. S’incamminò con aria decisa e si fece seguire fino all’aula di musica, in fondo al piano. Era dismessa da tempo perché le finestre non tenevano bene: la pithil aveva riempito di sabbia il corridoio fra gli ultimi banchi e il muro, portando la polvere bianca a opacizzare i vetri. Una volta dentro si sedettero uno di fronte all’altra; lui sulla cattedra e lei su un banco.
«Conosci Cary Shinagan?» esordì Lilith, incrociando le gambe. Il nome colpì Sikşaka come un cazzotto in faccia. Lo conosceva eccome: c’era stato un periodo, anni indietro, in cui si incontravano regolarmente.
«So chi è» concesse, senza scendere nei dettagli. Si augurò che lei non glieli chiedesse.
«Bene; io parlerò del figlio, Cole.»
Gli raccontò della sfida, della scommessa e della gitarella nei bassifondi, fermandosi là dove la storia la conosceva anche lui. «In realtà l’autografo dovevo darglielo venerdì sera» spiegò, invece. «Mi ha aspettato un bel po’ di tempo, secondo lui. Però io non volevo vederlo, ecco perché ti ho chiesto di passare da un’altra parte.»
Sikşaka annuì. Ricordava.
Lilith andò avanti: «Sabato non sono venuta a scuola, ecco perché gliel’ho portato oggi. Gliel’ho sbattuto sotto il naso appena ho messo il piede in classe, però lui, a ricreazione, è venuto a cercarmi in bagno. Era incazzatissimo. Ha gridato che era un falso e che non devo permettermi di prenderlo in giro, e io gli ho risposto di stare a cuccia, perché ovviamente quel coso è vero, e che se vuole può andare lui alla SoftHouse a chiederne uno per conferma. Lui ha cacciato altri urli, perché gli rode che ce l’ho fatta, e così si è inventato di buttare la testa sotto l’acqua e andare a tremare dalla vicepreside, strillando che gli ho infilato la testa nel water. Nel water! Come se questi cosi avessero abbastanza acqua per farci una cosa simile!»
Si fermò a prendere fiato. Inspirò forte, mordendosi il labbro con tanta forza da far sbiancare la sottile linea di pelle brunita. Gli occhi, nonostante l’espressione truce, erano lucidi.
«E la vicepreside che fa?» riprese. Un ultimo barlume di pazienza prima di perdere il controllo: «Non è che mi fa dire la mia versione, no! Mi sbraita addosso come una pazza, mette a mezzo il preside e mi danno una settimana di sospensione! E poi sono io quella coi problemi!?»
L’aria si fece nuovamente calda, e questa volta non per un rilascio involontario. Era il modo per buttare fuori il grumo di emozioni che la bruciavano dentro, e lei sentiva di averne abbastanza da riscaldare la scuola per tutto il giorno. Come se la temperatura diurna non fosse abbastanza alta.
Sikşaka si sforzò di non coprirsi il viso, anche se la sensazione degli occhi che seccavano era fastidiosa. «Non hai problemi» si limitò a dire.
È che non si contraddice Shinagan senza le spalle coperte.
Lilith grugnì un ‘argh’ carico di frustrazione. «Lo so!»
L’altro le scoccò un’occhiata sorpresa, capendo in ritardo che quelle parole non erano la risposta al suo pensiero. Però ormai il danno era fatto: dentro lo stomaco si era formata l’inquietudine. Quella ragazzina era un gancio teso verso quella parte di popolazione che evitava accuratamente da anni. Afferrarlo era fuori discussione. Ma abbandonarla dov’era non sarebbe stato coerente.
L’ondata di calore cessò di avvolgerlo. Immediatamente la sua attenzione tornò sulla ragazzina, che lo fissava con aria incarognita.
«Ora che sai la storia pensi di darmi addosso anche te?»
Sikşaka incrociò le braccia. «Potrei rimproverarti per l’incoscienza, ma non sarebbe comunque utile a toglierti dai pasticci.»
La ragazzina provò a sorridere con sarcasmo: voleva mostrarsi forte, ma tutto ciò che uscì fu un ghigno carico di amarezza.
«Ecco, sì, parlando di pasticci: c’è anche mio padre. Mi ha promesso i soldi per il corso di arti marziali solo con un buona pagella, ma con la sospensione posso anche scordarmelo.»
Scese un breve silenzio. Non c’era molto da dire: la situazione era infelice.
 
La porta si aprì di scatto. La vicepreside, in bilico su un paio di tacchi quindici, portò la mano libera sul fianco e squadrò Sikşaka con aria contrariata. Lilith si accorse che nell’altra mano – quella occupata – stringeva la sua cartella. E s’incupì ancora di più.
«Beh? Lei per caso è un parente?» gracchiò la donna in direzione di Sikşaka. Era a corto di voce, con tutti i decibel che aveva scaricato addosso a Lilith.
«Un conoscente» la corresse lui, pacato.
«In ogni caso fine della ricreazione. Devo portare questa delinquente a casa.»
Lilith non rispose. Scese dal banco e, a testa bassa, raggiunse la vicepreside. La donna si concentrò su di lei, chiedendosi se fosse la volta buona che quella disgraziata si arrendesse all’autorità. Ma Lilith le strappò la tracolla di mano con un gesto brusco. Ne controllò sommariamente la superficie, dispiaciuta e irritata allo stesso tempo. Cole e qualcun altro gliel’avevano ricoperta di insulti e cazzetti.
Alzò la testa e fissò la donna. Arrendersi all’autorità? Lei era incazzata nera con l’autorità!
«Torna a piegar mutande a Shinagan, stronza.»
E corse via.

 

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Capitolo 5
*** | Capitolo 05 | Non facile, non impossibile ***


[ 05 ]
Non facile, non impossibile
 
Il giorno dopo
23 Aprile 5396-PF, martedì, ore 7:15
Kyzil Plateau, bassifondi ovest, casa Talavara
 
La vita è così: nulla è facile, ma niente è impossibile.
Ai tempi in cui Sikşaka frequentava la scuola di arti marziali quella frase era una massima del suo maestro. Gazda gliel’aveva ripetuta tante di quelle volte che si era marchiata a fuoco nei suoi pensieri. O, forse, gli era rimasta perché in qualche modo, quando le pronunciava, quelle parole diventavano assolute, profonde, vere.
O forse volevo solo crederci – pensò in tono mesto, girando meccanicamente il cucchiaino nel caffè.
Era andato a letto provando una sensazione terribile e, per quello, aveva dormito male. Per qualche ragione gli occhi rabbiosi di Lilith l’avevano fatto sentire in colpa. E quella colpa, quello sguardo, quel brivido provato al nome Shinagan lo avevano perseguitato anche nel sonno. Perché lui si definiva coerente, ma per esserlo davvero avrebbe dovuto rischiare la sua vita pacifica. Di nuovo. L’idea gli stringeva lo stomaco e il senso di responsabilità gli faceva provare disgusto per se stesso.
Ancora una volta si era messo fra due fuochi.
 
Uscì dalla cucina col caffè fra le mani, cercando sollievo per lo stallo che si era creato fra il pensiero logico e quello emotivo. Entrò nell’enorme sala che Lilith, qualche giorno prima, aveva trovato buia. L’odore misto di acciaio e parquet gli invase le narici, portando con sé un’eco di pace.
In quella sala aveva trovato amici, forgiato compagni, preso decisioni, sfogato dolori e frustrazioni. Quella sala aveva visto ogni sfaccettatura di lui, giorno dopo giorno dall’infanzia ai quarant’anni. L’attraversò a passo leggero, scivolando fra i deboli fasci di luce che le tende socchiuse lasciavano entrare. Lo sguardo vagò sulla grande parete di fronte, piena di lame affisse in bella mostra, poi virò sull’angolo, dove una serie di mensole giacevano vuote. Un tempo avevano sorretto premi e fotografie, ma ora c’era solo la targa che lui stesso aveva chinato due anni prima. Il retro era impolverato ma il fronte, quando la rialzò, era ancora lucido.
 
PALESTRA TALAVARA
Arti marziali
Arte delle lame
 
Il senso di inadeguatezza gli piovve addosso come un maglio, frantumando i suoi pensieri. Non ebbe bisogno di specchi per dirsi che era un vigliacco. Durante la conversazione avuta in quella stessa casa, non appena si era reso conto che la ragazzina gli avrebbe chiesto aiuto, l’aveva congelata dicendole di andare altrove. E il giorno prima, in quell’aula derelitta, davanti alla sua frustrazione aveva taciuto.
Era scappato. Era scappato e aveva cercato di far finire a qualcun altro ciò che lui aveva cominciato. Eppure la soluzione sarebbe stata semplice fin dal principio. Gli sarebbe bastato dire: “Sono un maestro; ti posso insegnare io”.
Abbassò lo sguardo.
Sarebbe stato semplice, sì, ma imprudente. Coerente ma sconsigliabile, a meno di desiderare una squadra di killer in casa.
La vita è così: nulla è facile.
* * * * * *
Cosa poteva fare?
Quella domanda lo perseguitò per tutta la mattina. Fece capolino in mezzo alle discussioni, fra le chiacchiere e persino mentr’era al bagno. Cosa poteva fare?
Tutto ciò che sapeva era che non poteva riaprire la palestra.
Ci aveva già provato. In un primo momento era pure andata bene. Certo: ogni tanto comparivano facce note (razziatori con cui lui, in precedenza, aveva lavorato). Alcuni si fermavano ad assistere alle lezioni; altri apparivano come ombre nell’oscurità, furtivi, convinti di non essere notati. Ma andava bene: era parte del Patto d’Uscita, quelle comparsate erano previste. Finché, una sera, cinque di quei vecchi amici erano entrati in palestra per ucciderlo.
Sikşaka non si era risparmiato. Aveva risposto, si era difeso. Aveva sfruttato ogni ambiente e ogni lama alla quale era arrivato vicino. Ma la partita si era chiusa nel momento in cui aveva impugnato Rakta.
A fine serata, con le mani sporche di sangue, s’era messo al tavolino per trattare con l’unico superstite. Si trattava di Dragan Koss, capobanda dei Razziatori di Kyzil Plateau e (nei tempi andati) suo diretto superiore.
Alla fine era parso chiaro che qualcuno avesse macchinato ai danni del maestro di spada, manipolando le informazioni affinché sembrasse che lui avesse violato il Patto. L’incidente, però, aveva portato a galla il pericolo che pendeva sugli allievi della palestra. Ragionandoci aveva capito di aver ottenuto quel risultato solo perché era l’unico presente. Sarebbe bastato uno solo dei suoi allievi, anche il più esperto, perché il risultato fosse drammaticamente diverso.
Così, due anni prima, la palestra aveva chiuso i battenti per l’ultima volta. E adesso, a due anni di distanza, non gli rimaneva che la certezza di non poter riaprire. Non finché la questione coi Razziatori fosse rimasta aperta. In caso contrario avrebbe trascinato qualcuno nella sua melma.
Dunque la domanda batteva impietosa: cosa poteva fare?
Coerenza uguale imprudenza. Prudenza uguale malessere.
Cosa poteva fare?
* * * * * *
«Maestro!»
La vocina garrula della bambina lo riscosse di colpo. Sikşaka tornò al presente: erano le undici, era a scuola, era a lezione con i bambini della quarta B. E la palestra era il solito campo di battaglia, da quando aveva insegnato loro a giocare a palla prigioniera.
Il maestro si ritrovò a poca distanza dal sorriso birbo di Daliah, che sembrava in attesa di qualcosa.
«È successo qualcosa?» le chiese.
«I maschi ci hanno buttato fuori subito. Dicono che non siamo buone a giocare alla guerra.»
In effetti le prigioni erano riempite solo dalle bambine della classe. Sikşaka sospirò: e dire che nel giro di qualche anno per i guerrieri le incapaci sarebbero diventate la cosa più attraente mai concepita...
«Possiamo bucare una regola?» domandò Daliah, innocente.
Il maestro alzò un sopracciglio.
«Lo sai che non si toccano le regole» ammonì.
«Sì ma non è proprio proprio scorretto... la cambiamo con una nuova. L’abbiamo inventata io e Colette e Alina» disse, indicando a braccio steso le sue amichette. «Così possiamo giocare anche noi femmine, dato che i maschi ci hanno cacciato apposta.»
Sikşaka si fece vedere pensieroso per un attimo, dopodiché allungò un sorriso gentile. «Una regola nuova, eh? Non prometto nulla, ma sentiamola.»
La bambina non se lo fece dire due volte: si avvicinò e, riparata la bocca dietro una mano, sussurrò la nuova regola all’orecchio del suo maestro.
* * * * * *
“Praticamente noi prendiamo un’altra palla e la chiamiamo Palla Magica, no? E questa palla la possono usare solo i prigionieri e se colpiscono uno degli avversari loro vanno in prigione e noi usciamo. E giochiamo anche noi!”
“Ma così come lo vedete chi vince e chi perde?”
“Quando diciamo basta contiamo quanti prigionieri ci sono per ogni squadra e chi ne ha di meno vince!”
 
La partita, dopo l’introduzione della Palla Magica, era diventata molto più vivace. Era migliorata, col suo continuo passare da giocatori a prigionieri e viceversa.
In fondo Daliah e le sue amiche non avevano stravolto il regolamento. Avevano arricchito il gioco in modo originale. Avrebbe dovuto appropriarsi del loro ingegno e trovare analogamente una soluzione al suo problema.
 
L’idea gli venne quando, uscendo da scuola, lo sguardo cadde sul lampione. Un sacco di annunci lo ricoprivano: navette, hovermoto, affitti, sgomberi. E lezioni private. Quelli erano riconoscibili per l’immancabile frangetta coi contatti scritti di traverso.
Sikşaka si sentì fulminare da un’idea.
Eccola, la soluzione. Giusta, ingegnosa, non facile, non impossibile, ideale per sgusciare attraverso le restrizioni che lo legavano al suo stile dimesso. Già mentre la ponderava sentì che poteva funzionare.
Doveva solo controllare che la situazione scolastica della ragazzina fosse bassa come immaginava. Se si fosse sbrigato avrebbe fatto in tempo a trovare la segreteria aperta.
Aveva già in mente una certa signora adatta allo scopo...
* * * * * *
Venti minuti dopo, ore 16:30 circa
Settore sud, scuola media “Jane Lynch”
 
«Oh, è di nuovo lei.»
La segretaria del giorno prima era sempre lì, inossidabile, sempre dietro quel bancone pieno di carte e faldoni.
«Buonasera anche a lei»
«Porta altre scartoffie?»
«Cerco informazioni, a dire il vero.»
La donna gli scoccò un’occhiataccia. Sikşaka si affrettò a proseguire: «Non mi fraintenda, la prego. Devo fare ripetizioni a una certa ragazzina, però non sono riuscito a farmi un’idea del suo andamento... sa com’è, il padre dice una cosa e la figlia un’altra.»
«Non posso farle vedere i registri, se è questo che vuole.»
«No, certo, sono cosciente che altrimenti la metterei nei guai. Ma si tratta di Lilith Hardeyns, e mi è parso di capire che lei la conosca bene.»
La donna dietro il bancone smise di riordinare fogli. Alzò lo sguardo – caustico – e squadrò Sikşaka per un lungo istante. «Sì, conosco bene sia lei che la famiglia. Per cui mi dia retta e lasci perdere. Sarà un toccasana per la sua salute mentale.»
«Oh, ma ne andrebbe della mia credibilità.» replicò, serafico. «Dice quindi che il padre -»
«Il padre è solo un pover’uomo a cui sono toccate una moglie tiranna e una figlia disadattata. C’era anche lei ieri, no? Quello non è che un piccolo saggio della sua condotta indecente.»
«Dunque mi prospetta un lavoro difficile» concluse lui.
«Se vuole addolcirsi la pillola, allora dica pure così. Ma la demente ha tre materie sotto e un carattere asinino. Capirà a sue spese che difficile è un eufemismo.»
«Capisco. La ringrazio.»
Dentro di sé Sikşaka sorrise.
Missione compiuta.

 

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Capitolo 6
*** | Capitolo 06 | Lettera ***


[ 06 ]
Lettera
 
Il giorno dopo
24 Aprile 5396-PF, mercoledì
Kyzil Plateau, settore nord, casa Hardeyns
 
Niente di meglio delle pulizie per liberare la mente. Lo diceva un libro ingiallito che, con ogni probabilità, era appartenuto a sua madre. Lilith, in quel momento, non concordava. Sola, appoggiata allo struscino, si guardò intorno. C’erano volute quattro passate per pulire bene il pavimento. Quattro. Aveva la schiena a pezzi e i problemi continuavano a ronzare fra le orecchie. Decisamente: quel libro andava buttato.
 
All’improvviso si diffuse il suono del campanello. La ragazzina alzò di scatto la testa, chiedendosi chi fosse.
Fortuna che prima ho fatto il piano di sotto – pensò scendendo le scale. Aprì il portone e sulla sua faccia comparve un’espressione stupita.
«Lucky.» disse a mo’ di saluto, riconoscendo il suo coetaneo. «Che ci fai qui?»
«Ho... ho saputo cos’è successo.» rispose lui, muovendo nervosamente la coda. «Mi dispiaceva e... ho pensato di portarti gli appunti di oggi e i compiti.»
Non la guardava negli occhi. Era difficile che lo facesse: lei aveva sempre l’aria aggressiva e a lui incuteva un profondo timore. Però non si sforzava di tenere le orecchie basse. Era davvero dispiaciuto per lei. E Lilith per questo si sentì presa sinceramente in contropiede.
«Oh, beh, grazie.» borbottò. «Non eri obbligato a farlo.»
Poi, di colpo, le venne un dubbio. Mancava ancora un mucchio di tempo all’uscita da scuola, quindi... «Ehi, hai bigiato?»
La domanda a bruciapelo fece sobbalzare il ragazzino. Sgranò gli occhi, le orecchie ancora più basse. «No! No, c’è stata un’ora buca e siamo usciti tutti prima! Non ho bigiato!»
Breve silenzio. Lilith lo fissò: che razza di reazione era quella? Era così esagerata!
«Hm, sì. Era una domanda cretina.» borbottò. Le scuse, però, le rimasero aggrovigliate in gola.
«Allora... ehm... sì, ti lascio i quaderni e vado.» balbettò lui, facendo scivolare lo zaino sulla spalla. La sacca ruotò fluidamente sul davanti e il giovane lombax fu svelto a privarla di due taccuini. Li mise in mano alla ragazzina. «Passo a prenderli domani. Ci vediamo in giro, eh?»
«Sì. Sì, ci vediamo in giro. E grazie.» balbettò lei a sua volta, guardandolo allontanarsi lungo il vialetto.
Sparì in fretta dalla vista. Lilith si chiese se non avesse dei problemi. Proprio non riusciva a capirlo, quello.
* * * * * *
Aveva scannerizzato gli appunti di Lucky e li aveva letti una prima volta. Alcune parole sfioravano l’incomprensibile, ed era su quelle che si stava concentrando. Se le avesse addomesticate, allora, capire il senso sarebbe stato possibile. Ma, finché i concetti chiave delle scienze fossero rimasti dietro scarabocchi blu, sarebbe stato come se Lucky non fosse passato.
Fu mentre lottava con uno sgorbio in terza pagina che il campanello suonò di nuovo.
Mise da parte i fogli e, sebbene riluttante, andò ad aprire. Se fosse stato di nuovo quel venditore porta a porta lo avrebbe morso, poco ma sicuro.
Invece era il postino. Avvolto nella sua camicia gialla aspettava in fondo al vialetto. Si accorse di lei all’istante. «Raccomandata per il signor Hardeyns.» La sua voce sembrava carta accartocciata. «C’è da firmare.»
La guancia destra di Lilith si gonfiò mentre pensava rapidamente: raccomandata significava ingiunzioni, di solito. Aveva dimenticato qualche bolletta?
Non credeva, ma era meglio volare bassa. «Mio padre non c’è.»
«Puoi firmare te.»
«Scherzi? Ho dodici anni. Succede un casino se firmo io e quella è roba seria.» lo rimbeccò. Il postino grugnì una parolaccia, ma lei lo ignorò. Estrasse il chatter d’in tasca e lo sventolò ben bene. «Ehi, chi è che scrive? Almeno avviso il vecchio.»
La parolaccia si fece bestemmia e s’indirizzò alla ragazzina. Poi arrivò la risposta: «La compagnia dei rifiuti.»
Lilith tirò un impercettibile sospiro di sollievo. I rifiuti non rientravano fra i suoi pagamenti. Roba di suo padre, quindi.
«T’ho lasciato il resto in buca, vieni a prendertelo.» avvisò l’uomo smaterializzando la raccomandata. Poi, con gesti scazzati, montò in sella al suo mezzo e si allontanò.
Lilith si prese il tempo di aspettare che il postino si allontanasse prima di andare a prendere la cassetta delle lettere. Il contenitore era così malmesso che ormai era abituata a svellerlo dall’alloggiamento per portarlo dentro casa.
Lo rovesciò senza tanti complimenti sul tavolo della cucina, poco più in là degli appunti fotocopiati. Una mezza dozzina di buste color senape piovve sul piano di legno e si sparpagliò.
Vediamo... pubblicità dal concessionario, volantino del supermercato, comunicazioni dall’Ufficio per l’Ambiente... Vuoi vedere che la raccomandata viene da questi? Vabbé, dopo magari la leggo...huh?
Proprio sotto la busta dell’Ufficio per l’Ambiente si nascondeva una bustarella bianca, di quelle per i bigliettini d’auguri. Lilith la prese in mano. Era ben chiusa, senza mittente e come destinatario recitava solo “Per Lilith”. Dentro c’era un foglio intestato della scuola elementare. Era piegato tre volte.

 

Era davvero tanto che non trovavo qualcuno arrabbiato come te. Forse, dopotutto, consigliarti di andare alla scuola qui in città è stato un errore. I maestri che troveresti non sono adatti a qualcuno della tua tempra.
Io sono stato un maestro. Potrei insegnarti quelle famose basi, anche se ufficialmente non ho più l’abilitazione.
 
Immagino che tu sia diffidente, è più che normale. Ma, se sei interessata, vediamoci per discuterne alle 17 di giovedì 25 aprile. Sarò al belvedere.
 
- Sikşaka Talavara -

 

Per sicurezza rilesse il biglietto. Dopo le pulizie ed i geroglifici di Lucky si sentiva così sbalestrata che poteva aver saltato una doppia negazione, o magari uno di quei giochetti usati per fregare gli esaminandi al brevetto di volo.
Invece no. Aveva letto per bene. Quando alzò il naso dal foglio la sua faccia era qualcosa di rara visione: la bocca aperta, le narici appena dilatate, gli occhi luminosi perché – cazzo sì! – quella era la notizia più bella dell’ultimo mese. Non ci poteva credere!
(E infatti frena, cocca. È troppo bella per essere vera.)
Lilith riportò lo sguardo sul foglio spiegazzato.
(Qualcosa non va, guarda per bene. Perché farti informare sulla palestra? Se davvero è un maestro perché non l’ha detto subito?)
Perché non ha più l’abilitazione. Ha scritto così.
(Appunto: ha scritto. Sai una sega se è vero o no.)
La ragazzina adocchiò il foglio. Adocchiò le altre lettere e adocchiò la busta piccola che aveva contenuto la lettera firmata col nome di Sikşaka. All’improvviso le parve tutto molto strano: la carta intestata alla scuola elementare, la busta così piccola, l’indirizzo che mancava. All’improvviso quel foglio che l’aveva illuminata si tramutò in qualcosa di più oscuro e imprevedibile. Qualcosa da cui guardarsi.
La coscienza tutti i torti non li aveva. Quell’uomo faceva troppa beneficienza per essere un onesto sconosciuto.
A me il computer. Mi serve Blabbook.
(Giusto! Lì lo becchi sicuro! E ‘fanculo a scienze e tutto il resto!)
* * * * * *
Lo schermo si rifletteva sugli occhi di Lilith, disegnando linee bianche nelle iridi verdi. Era passata una buona mezz’ora da quando aveva interpellato il social network, e stava considerando l’idea di erigere un altare a Murphy.
Sikşaka Talavara, a Kyzil Plateau, sembrava non esistere.
Ma chiunque è su Blabbook! Ho beccato l’unico stronzo di tutto l’universo che non ha un profilo?!
(Semplice: niente profilo uguale niente fiducia. Smettila di affannarti.)
L’occhio cadde su una foto. Il profilo era quello di un certo Matej Zimmler e l’immagine era vecchiotta, ma non c’era dubbio che il lombax sulla destra fosse quello che cercava. E non c’era dubbio che quella roba dotata di alamari e maniche larghe fosse una divisa da marzialista.
La didascalia della foto era insignificante, ma rimandava all’album “Bei tempi andati”. Lilith ci cliccò sopra senza pensarci due volte.
L’album non era molto ricco. Conteneva una cinquantina di foto, e di queste quarantotto erano totalmente inutili. La quarantanovesima era quella che l’aveva portata lì. Mentre la cinquantesima... la cinquantesima era il tesoro alla fine della caccia.
Raffigurava tre lombax, e l’unico che la ragazzina non sapeva riconoscere era il vecchio al centro. A sinistra c’era il lombax grigio che aveva postato la foto; a destra c’era Sikşaka. I due giovani mostravano con fierezza dei fogli. La didascalia recitava: Maggio ’84-PF. Non ho mai visto Gazda felice come in quest’occasione. Io ero stato accettato alla scuola della Polizia e Sik aveva appena ottenuto l’abilitazione come maestro d’arte delle lame. Il nostro canto del cigno.
 
Bla bla bla. Melodrammi da quattro soldi. – si disse Lilith, riportando lo sguardo sul Sikşaka della foto. La versione di dodici anni prima non aveva le rughe sotto gli occhi, si ritrovò a pensare. Ma cosa importava, in fondo? Niente. Importava che il tizio della foto era colui che aveva incontrato; ma ancora di più importava che colui che aveva incontrato aveva avuto una licenza d’insegnamento, quindi aveva scritto la verità.
Poteva andare all’incontro. Non si fidava, ma il belvedere era un posto abbastanza neutrale da permettere di ascoltare cosa l’altro voleva proporle.

 

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Capitolo 7
*** | Finale | Accordo ***


[ Finale ]
Accordo
 
Il giorno seguente, 25 aprile 5396-PF
Kyzil Plateau, belvedere
 
Mancava ancora un po’ alle cinque. Il belvedere, come ogni pomeriggio, era piacevolmente ombreggiato dai teli bianchi che, simili a grandi vele, proteggevano la fila delle panchine. Così non fosse stato nessuno sarebbe andato a godere della vista del deserto.
Sikşaka era seduto su una di quelle panchine. Appoggiato coi gomiti sulle ginocchia e con le mani giunte sotto il mento, guardava l’orizzonte e attendeva l’orario. E intanto pensava. Aveva scelto di essere coerente, quindi aveva l’obbligo di essere prudente; molto più di quant’era stato fino a quel momento.
Il primo grande dubbio era: lo sorvegliavano ancora?
Probabile. Dopotutto erano passati solo due anni dal massacro compiuto in palestra, e Dragan conosceva meglio di chiunque altro quanto fosse abile con le lame. Se lui fosse stato al posto del capobanda avrebbe continuato a mandare qualcuno saltuariamente; poco importava quanto tempo fosse passato.
Quindi doveva presumere che quanto stava per fare non sarebbe passato né inudito né inosservato.
Il secondo grande dubbio sorgeva di conseguenza: si sarebbe potuto ripetere il raid?
Be’, Belvard non è un cretino. Non credo che cercherebbe di fregare Dragan un’altra volta. E non credo nemmeno che Dragan partirebbe senza controllare due volte le accuse.
Però la possibilità non poteva essere esclusa a priori. Dopotutto, ai tempi, tre su sette avevano votato contro la sua uscita. Di positivo c’era che il più pericoloso si era già fatto avanti e aveva già perso la credibilità; quindi per gli altri due fabbricare delle prove sarebbe stato più difficile.
Pianificherò delle strategie e terrò la guardia alta. Se la ragazzina accetterà dovrà essere al sicuro.
E quella era la terza grande incognita: la ragazzina avrebbe accettato?
Scoprì, con sua sorpresa, di sperarci. Ma non sarebbe stato strano se non l’avesse fatto. Innanzi tutto avrebbe potuto evitare di usare la carta della scuola, anche se alla stesura gli era parsa una credenziale a suo favore. E poi avrebbe potuto spedirgliela normalmente, invece di imbucargliela nella cassetta delle lettere. In quel modo si era reso più sospetto che affidabile.
Chiuse gli occhi e si rimproverò in silenzio.
* * * * * *
Lilith arrivò in ritardo. Giunse dal settore nord correndo con falcate ampie. Entrò nella piazza come una furia, si riparò gli occhi con una mano e si guardò intorno. Dal bar non c’era. Alla fontana neppure.
Eccolo!
Puntò alle panchine che, riparate dalle vele, guardavano verso gli altipiani.
«Ciao.» salutò, comparendo al suo fianco.
L’altro spostò lo sguardo su di lei, sulla sua espressione, e la studiò coi suoi occhi color mogano. La ragazza pensò che fosse caduto dalle nuvole o che non si aspettasse la sua visita, così tirò fuori di tasca la lettera ripiegata.
«Sono qui per questa. È tua, no?» chiese tendendogli il foglio.
Sikşaka prese il foglio e l’aprì con garbo. «Sì, è proprio la mia.» confermò dopo un istante. «Ti va di parlarne?»
«Certo che mi va. Non sarei venuta sennò.»
«Heh.» ghignò l’adulto. «Acuta osservazione.»
Lei gli scoccò un’occhiataccia e lui, per tutta risposta, accennò alle tavole di pietra levigata. «Siediti, dai. Da dove vogliamo cominciare?»
La sabbia sulla panchina scricchiolò quando Lilith si sedette, ma era un rumore tanto abituale che nessuno vi badò. La questione sulla quale si era scervellata era un’altra, e la buttò fuori nella maniera più veloce e diretta esistente: «Se volevi aiutarmi, perché non l’hai fatto subito?»
Sikşaka si aspettava la domanda. Tuttavia non aveva bisogno né di rivelarle la verità né di inventarsi balle. «Perché non ho più l’abilitazione.» spiegò nuovamente. «Non credo che i tuoi genitori ti manderebbero da un maestro senza qualifiche.»
Di nuovo quel discorso, si disse la ragazzina. Però, se insisteva sul punto, magari era davvero per quello.
«Be’, mio padre non mi manderebbe da nessuno, se potesse. Già tanto che mi vedo con l’Arpia per studiare.»
«L’Arpia?» ripeté lui, senza capire.
«La segretaria. Hai presente quel sacco di diarrea acida ch’era al bancone l’altro giorno?»
Le sopracciglia di Sikşaka si inarcarono. Dunque aveva chiesto della situazione scolastica di Lilith alla persona sbagliata. Se non altro, però, spiegava il tentativo di farlo desistere.
«La detesti proprio, eh?»
«La odio.» confermò a denti stretti. «Non le va mai bene niente, e ha pure il coraggio di farsi pagare! Mio padre sborsa cinquanta bolt alla settimana per lei.»
«E tu raccontagli di come lei non sia una tutrice adatta.»
«L’ho fatto, che credi? Ma mio padre non sente ragioni. Lui la conosce, dice. Lo sa com’è fatta. Sono io che sbaglio.»
L’altro stette in silenzio per qualche attimo. Aveva sentito abbastanza da entrambe per decretare che non si piacessero per nulla. Però questa cosa delle ripetizioni non la sapeva, ed era un’indubbia botta di fortuna per lui. Decise di coglierla al volo.
«Perché non vieni da me, allora?» disse. «Insegno alle elementari e ogni tanto do ripetizioni ai ragazzi un po’ più grandi. Potremmo accordarci. Il programma che ti propongo è questo: due ore di compiti e due di allenamento, per lo stesso numero di volte che vedi la tua insegnante.»
«...e il prezzo?»
«Lo stesso che paghi ora.»
Lilith non rispose per un po’. Era una proposta buona, forse troppo.
«Devo parlarne con mio padre, prima.»
«Mi sembra giusto.» convenne lui. «Però devo avvisarti fin da ora: le arti marziali fanno male. E intendo che avrai lividi a non finire.»
«Ci credo. Ma la danza non mi aiuterebbe se...» sentì le parole morirle in gola. Non riuscì a tirarle fuori; non importò lo sforzo. Alla fine tamponò con un ben più timido: «Se succedesse ancora.»
Sikşaka la osservò. «Sì, be’, non è che le aggressioni si subiscano tutti i giorni.» disse, cercando di tirarla su di morale. «Però sarebbe saggio se tu non accettassi più scommesse come quella.»
Lilith gli scoccò un’occhiataccia, ma poi dovette abbassare lo sguardo. «Ci puoi giurare.» rispose a voce bassa.
Meglio cambiare argomento, si disse il maestro di spada.
«Se vuoi prima parlarne a tuo padre ti serviranno un po’ di informazioni. Chiedi pure tutto quello che ti viene in mente. E ricordami di darti il numero di chatter.»
* * * * * *
La ragazzina affrontò la questione la sera stessa. Si sedette in cucina, mise il chatter in vivavoce e chiamò.
Non si aspettava una chiamata facile, e non la fu. Suo padre inizialmente lo prese come un capriccio, e ci volle tutta per fargli intendere che lo faceva perché lei davvero voleva migliorare i suoi voti, ma che con la sua insegnante attuale non ci sarebbe mai riuscita. Spiegò per l’ennesima volta che non riusciva a concentrarsi con qualcuno che sbottava in continuo, e per l’ennesima volta si sentì opporre che la donna era gentile, che era lei che la esasperava.
(Cosa?! Ma non dir cagate!)
Allora gli disse di aver trovato qualcuno disposto a farlo lo stesso numero di volte per lo stesso prezzo. Gli disse che era decisa a provare, e che poteva sempre e comunque tornare indietro.
A quel punto silenzio. Aaron Hardeyns, all’altro capo, stava valutando la questione. Lilith si sentì come se avesse ottenuto una vittoria.
«Ridimmi un po’ da chi vorresti andare?»
Domanda dopo domanda, la ragazza sciorinò quello che sapeva. Ottenne un nuovo silenzio. E una confessione inaspettata.
«Mi ricordo di lui. Eravamo alle medie insieme. Un tipo tranquillo.»
È un sì, questo?
«Dammi il suo numero. Voglio parlargli.»
* * * * * *
Quella che seguì fu un’attesa che torse lo stomaco di Lilith. Lei gli aveva dato il numero, ma se a suo padre non fosse piaciuto? O peggio, se avesse cominciato ad urlargli addosso?
(Bah. Ha detto che lo conosce, no? Sta’ buona.)
Lilith lanciò un’occhiata all’orologio.
(E piantala di guardare l’ora ogni cinque secondi! Ma ti pare? Dov’è la tua dignità?!)
Quanto ci mette? Odio aspettare.
(Perché non ti fai due goccine di antistress? O un giro dei canali tivù?)
Tivù. Magari mi aiuta a passare il tempo.
(Oh, bene, brava. Il telecomando è qui vicino, guarda!)
 
Ma la chiamata tardava ad arrivare, e finì che la ragazzina si addormentò col viso sul tavolo. Quando il chatter squillò era mezzanotte passata.
«P-pronto?» rispose, la voce flautata dal sonno.
«Ho fatto una bella chiacchierata con quel tipo.» esordì suo padre. «Mi ha raccontato che vi siete incontrati in presidenza, mentre venivi sgridata.»
Il sonno se ne andò di colpo. Lilith si ritrovò a sudare freddo.
«È vero.» si limitò a rispondere.
«E mi ha raccontato di come la vicepreside si sia comportata in maniera poco professionale nei tuoi confronti.»
Lilith tacque.
«Perché non mi hai avvisato subito? Magari avrei impugnato la sospensione!»
(Non rispondere. Non dirgli cosa pensi. Sarebbe come pisciare su un ventilatore.)
«Comunque mi sembra un tipo a posto. Dato che sei così decisa, abbiamo concordato un periodo di prova. Se alla fine del mese prossimo avrai voti migliori di quelli di adesso, allora continuerai con lui. Sennò andrai da Karen e le dirai che ricominci con lei.»
Le iridi si allargarono per un istante. «Che cos-?»
«Proprio così, andrai tu a parlarle. Anche domani, e le spiegherai come mai hai deciso di cambiare.»
«Oh, andiamo! Lo sai che non ci possiamo vedere! Non lo puoi fare tu, che ti dà retta?»
«No cara. Troppo facile così. È ora di crescere un po’, e spero che in questo passo tu non faccia troppe figure di merda.»
«Certo pa’.» rispose, la voce liquida per il disappunto.
«E ricordati di parlare per bene!»
«Certo pa’. Grazie pa’.»
«Bene. Siamo d’accordo che comincerai domani, alle quindici e trenta precise. Andrai tu da lui; in questo modo le nostre bollette saranno più basse. Adesso prendi carta e penna che ti dico dove andare.»
 
L’indirizzo che le diede era quello dei bassifondi. Lilith si guardò bene dal dirgli che c’era già stata, non sapendo come giustificarsi. Ascoltò le ultime raccomandazioni e alla fine riagganciò guardando istupidita la cornetta. Con la stessa espressione fissò il foglio su cui aveva annotato l’ora e le indicazioni.
Ce l’aveva fatta sul serio. Aveva guadagnato le agognate lezioni. E – ancora meglio! – si era anche liberata della strega!
Al pensiero le labbra si alzarono, in un sorriso accompagnato dallo sbocciare di una risata sincera. La voce leggera, pur senza parole, parlava di una liberazione.
«Ce l’ho fatta!» esclamò, stringendo i pugni chiusi contro il petto. «Ce l’ho fatta!!!»
 
A fanculo la strega, il preside e quello stronzo di Cole Shinagan: da quel momento le cose avrebbero cambiato piega. In caso contrario gliel’avrebbe fatta cambiare lei. Drasticamente.

Salve a tutti!
Sto conducendo un esperimento sui css della storia. Risulta graficamente come prima? Si sono sballate le dimensioni dei caratteri o cose simili?
Finora ho verificato con firefox e il tremendissimo internet explorer, ma non riesco a provare altri browser. Vi chiedo, per favore, di avvisarmi nel caso in cui qualcosa non andasse. Grazie in anticipo.
 
Alla prossima!
Iryael

 

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Capitolo 8
*** | Epilogo | Primi passi ***


[ Epilogo ]
Primi passi
Il giorno dopo, 26 aprile 5396-PF
Ore 9:30 circa
Settore sud, scuola media “Jane Lynch”, segreteria
 
«Tu...cosa?!»
Le orecchie di Karen si abbassarono vistosamente. Lo sapeva. Lo sapeva! Quando la ragazzina arrivava in segreteria erano rogne in più da sistemare. E quella mattina era entrata dritta sparata (in un giorno di sospensione!) con il piglio strafottente che di lei tanto detestava.
«Ho detto che ti licenzio.» scandì ancora Lilith, candida come un agnellino. «Significa niente più ripetizioni.»
E quell’idea, poi!
«Oh, non dire stupidate! Tu hai bisogno di qualcuno che ti faccia studiare.»
«L’ho già trovato. Ho già l’appuntamento.»
Ah, quindi è di nuovo questa storia. «Sicuramente tuo padre non approverà. Sa benissimo che quel po’ che rendi è merito mio, perciò non farmi perdere tempo. Verrò oggi alla stessa ora.»
Credeva di aver sistemato la faccenda; che quello fosse solo un bluff. Lilith, sentendosi sminuita da quel tono, sentì venire meno il proposito di essere gentile. Mormorò un «Vaffanculo» a denti stretti, dopodiché si costrinse a ritentare.
«Guarda che non scherzo.» avvisò, senza più traccia di leggerezza nella voce. A quel punto allungò la mano, aperta verso l’alto, oltre il bancone. «Ridammi le chiavi di casa.»
La donna, finalmente, capì che quello non era un tentativo a vuoto. Collegò le sue frasi alla visita di quell’insegnante delle elementari, ed allora esplose in tutto il suo disprezzo. «Credi sul serio che quel povero diavolo avrà la mia pazienza? Ti pianterà in asso fra una settimana, come tutti gli altri.»
Lilith sorresse il suo sguardo, rendendogliene uno altrettanto sprezzante. «O magari i miei voti miglioreranno, e finalmente anche papà capirà che non vali niente.»
«Lascia perdere Aaron.»
«È mio padre; ne parlo quanto mi pare.» la rimbeccò. Poi rinnovò il cenno con la mano aperta. «Mi ridai le chiavi? O vuoi farmi stare qui ancora tanto?»
La donna, palesemente irritata, afferrò la borsa da passeggio che teneva sotto il bancone. Vi frugò per qualche istante, ma con disappunto di Lilith ne tirò fuori un chatter.
La chiamata fu breve ma intensa. Alla fine, tuttavia, il palmo di Lilith rimase vuoto.
«Le devo tenere.» asserì Karen, lapidaria. «Per quando tornerai a chiedere aiuto.»
La ragazzina ritirò la mano e la mise in tasca. «Non tornerò a chiederti aiuto.» rispose a denti stretti. Poi, senza aggiungere altro, girò i tacchi e se ne andò. La campanella risuonò in tutto l’edificio nel momento in cui uscì.
«Col cazzo che tornerò da lei.» promise a se stessa. «Piuttosto smetto di studiare.»
* * * * * *
Il pomeriggio arrivò presto, tutto sommato. Venne il momento di riprendere in mano la cartella e riempirla coi libri per la prima lezione. Erano già impilati sulla scrivania; bastava solo metterli dentro. Solo che, come impugnò lo spallaccio, non poté fare a meno di guardare gli aloni grigio fumo che ne deturpavano i colori. Quattro giorni prima, al posto degli aloni, c’erano stati cazzetti ed insulti. Se osservava con un po’ di attenzione poteva ancora leggere la parola “perdente”, che qualcuno aveva scritto in bella vista sopra la fibbia.
Strinse i denti, sentendo la rabbia riaccendersi in un soffio. La sentì infiammarle i visceri ed esplodere, totalmente indomabile. Non era solo per la cartella, nuova e irrimediabilmente rovinata, ma per l’offesa: ognuno di quegli aloni era una cicatrice fresca, il marchio indelebile di una beffa alle sue spalle. Tratti diversi significavano persone diverse; dunque almeno sei dei suoi compagni si erano presi gioco di lei. E lei odiava terribilmente essere derisa.
«BASTARDI!»
Scagliò la cartella fuori dalla stanza, la guardò sbattere a terra e strusciare poco più in là. Continuò a fissarla per qualche istante, prima di andare a gettarsi faccia in giù sul letto. Cercò di calmarsi controllando la respirazione, come le aveva insegnato suo padre.
Un minuto più tardi, quando riemerse dal riposo forzato, si limitò a portare una sedia davanti all’armadio. Spalancò le ante e rovistò sul ripiano più alto, là dove stipava gli abiti che non indossava più. Ne tirò fuori una vecchia sacca, dai colori non più brillanti e dall’aria vissuta. L’aveva usata fino a qualche mese prima, prima di farsi regalare quella che ora giaceva in mezzo al corridoio. Era infantile, ma almeno guardarla non la faceva incazzare.
Scese dalla sedia e lanciò un’occhiata alla sveglia sul comodino. Karen aveva detto che sarebbe passata, no? Quindi non aveva più tempo di mettere a posto se voleva evitarla.
Riempì la sacca in fretta e furia, arraffò le chiavi e lasciò l’abitazione.
* * * * * *
Quella visita nei bassifondi fu ancora diversa dalle due che l’avevano preceduta. La prima, notturna, l’aveva lasciata con tante emozioni negative. La seconda, sebbene diurna, era stata dominata dalla lotta interiore fra “vado avanti” e “torno a casa”. In nessuna delle due Lilith si era presa la briga di alzare lo sguardo dal piano strada, ma quella volta lo fece. La sequela di insegne non le lasciò altro che l’idea che i bassifondi fossero una cittadina nella cittadina. Non c’erano negozi di lusso né vetrine luccicanti per l’eccessiva pulizia, ma c’era di tutto. Nella via centrale oltrepassò le porte di una fumetteria, due edicole, un’armeria, tre minimarket, una lavanderia automatica, un centro per le analisi mediche, una profumeria, un negozio di articoli pirotecnici, uno specializzato negli articoli Gadgetron, una libreria, due caffè e un sexy shop. Poi dovette svoltare, ed allora i negozi lasciarono posto ad abitazioni piccole e anonime. Il mattonato, come parte degli intonaci, era sbreccato qui e là. Vecchi manifesti riempivano i muri assieme alle opere di qualche writer e l’odore in certi punti era acre. In quei tratti accelerava il passo, chiedendosi cosa diamine producesse un tanfo del genere.
Era quasi arrivata quando, all’improvviso, le saltò all’occhio un angolo formato da vetrate a scaglie rosse e gialle. La riconobbe all’istante, ancora prima di notare il tizio che – con lo strofinaccio su una spalla – fumava indolentemente su una sedia approntata nel vicolo.
Urgh. Il Guercio. Non voglio parlarci. – realizzò storcendo il naso. Senza pensarci due volte svoltò nel primo vicolo laterale e s’infilò in una viuzza parallela a quella bloccata dal barista.
Camminò per una trentina di passi, guardandosi intorno come una turista, quando un dettaglio sul muro attirò di prepotenza la sua attenzione. Su un manifesto sbiadito c’era una traccia nera, quasi una macchia, sputata intorno ad un foro grosso come il quadrante di un orologio. C’era una cosa simile anche sul bordo del manifesto e, guardando con attenzione, se ne vedevano diverse lungo il muro, ciascuna a distanza sempre più ampia dalla precedente.
La ragazzina si bloccò. Aveva visto abbastanza telefilm da saperli riconoscere per quello che erano: fori di proiettile. Rimase immobile, incapace di reagire per alcuni istanti. Se quella era la dimensione del proiettile, l’arma doveva essere grande almeno quanto lei. E chiunque l’avesse usata l’aveva fatto in un posto largo appena quanto una vettura.
All’improvviso l’idea di incrociare il Guercio non la scazzò più di tanto.
Tornò sui suoi passi.
* * * * * *
Fu così che per la seconda volta scese i gradini che portavano al portoncino sottostrada. Quella volta, però, non era divorata dal dubbio e dall’imbarazzo. Era decisa a cacciare Karen dalla sua vita ed era sicura che quella fosse l’occasione da cogliere.
Suonò il campanello ed attese. Sikşaka l’accolse con gentilezza e l’accompagnò nuovamente in cucina.
«Ebbene ci siamo.» esordì. «Il primo giorno di ripetizioni.»
«E il primo di allenamento. Senti: come l’hai convinto mio padre?»
«Be’, è stato semplice. Nessuno dei due ha parlato di allenamenti.»
«Cosa? Non gliel’hai detto?!»
Cominciavano proprio bene, si disse il maestro di spada.
«No.» asserì ancora. «Gli ho assicurato che ti avrei aiutato a recuperare i voti a scuola, ed è quello che faremo. È questo che conta. Il resto viene dopo.»
Lilith non rispose. Storse la bocca e si diede della scema.
«Mi sembra ovvio.» borbottò. E lo era. Se suo padre avesse saputo, col cavolo che non avrebbe detto nulla. L’avrebbe torchiata in maniera insopportabile, ecco cos’avrebbe fatto.
Sikşaka assistette alla metamorfosi espressiva con una certa perplessità. Aveva già testato la sua velocità nelle reazioni emotive, ma quel passaggio dall’euforia alla depressione lo colse comunque di sorpresa.
«Lilith, capisci che non potevo parlargli a ruota libera di come avrei associato ad ogni ripetizione una caterva di lividi sotto il tuo pelo. Perché un allenamento alle prime armi comporta esattamente questo: lividi e dolori muscolari.»
«Me l’hai detto. E poi guarda che non ce l’ho con te. Neanch’io gli ho detto dell’allenamento. È solo... ce l’ho con lui. Con papà.»
Il maestro abbassò leggermente le orecchie, irrigidendosi all’improvviso. L’attimo dopo rise di se stesso: sapeva combattere, usare le spade, uccidere e trattare coi peggiori delinquenti della galassia... e una ragazzina con le sue pene da preadolescente lo metteva in difficoltà.
Urgeva allontanarsi da quel campo minato.
«Che ne dici di dimenticarci di tuo padre?» propose. «Se tutto ciò che conta per lui è il risultato scolastico, noi occupiamoci di quello. Un mese è poco tempo, e a quanto so la tua situazione non è proprio rosea. Parliamo di quella.»
La ragazzina spostò lo sguardo. “Non è rosea” era una definizione molto zuccherosa.
«Ho tre materie sotto. Matematica, scienze e lingue.» ammise. «Ma sono insufficienze lievi.»
«Va bene, noi cercheremo di portarle a sufficienze. Hai ancora i saggi e le interrogazioni di maggio... quelli di aprile li hai già dati?»
«Ho dato solo il test di lingue. Il resto deve ancora venire.»
«Quando? Sai le date precise?»
«Nelle prossime due settimane, immagino.»
Sikşaka la guardò scrollare le spalle e sospirò silenziosamente. Be’, salvare aprile si presentava come un’impresa bella ardua. Però potevano tentare.
«Oggi cosa ti sei portata?»
«Scienze.»
«E allora parliamo di scienze. Quale argomento state trattando?»
 
Seguirono due ore abbondanti di spiegazioni, appunti e schemi. Fu per lo più l’imitazione di una lezione frontale, in cui Sikşaka dovette stuzzicare Lilith con domande come “hai capito?” o “mi segui?” per farsi un’idea accettabile delle nozioni della ragazzina.
Le lacune di lei emersero impietosamente; soprattutto nei momenti in cui il maestro, cercando di coinvolgerla, le chiese di anticipare le reazioni che l’applicazione di questo o quel concetto avrebbero generato nella realtà. Alcune risposte si rivelarono semplicemente incomplete; altre invece completamente sbagliate fin dalle fondamenta.
Alla fine il maestro dovette ammettere a se stesso che le parole della segretaria, per quanto acide, non erano proprio campate per aria. Lilith era sicuramente un’alunna che aveva bisogno di apprendere meglio le nozioni insegnate e, al contempo, moderare quell’aria di perenne scazzo che aveva in faccia. Non era irreparabile ma, allo stesso tempo, si prospettava un mese di lavoro senza tregua.
In quel momento, però, il parquet attendeva. E, in fondo, anche lui aveva voglia di ricominciare a insegnare l’arte delle lame.
A pianificare le lezioni ci avrebbe pensato dopo.
* * * * * *
La prima cosa che saltò agli occhi di Lilith, entrando in palestra, fu la parete tappezzata di armi bianche. Sull’intonaco c’erano affisse spade, lance, archi, coltelli e asce. C’erano metalli variopinti, c’erano lame dalle fogge assurde e impugnature che spaziavano dal pratico al barocco andante.
Al centro, però, c’era un’arma che risaltava per la sua semplicità. Una spada a un filo solo. La lama scintillava come uno specchio, l’impugnatura era senza fronzoli e dal pomolo scendeva elegantemente un drappo rosso. Per qualche motivo la ragazzina provò l’impulso di impugnarla.
«Ah, vedo che Rakta ha già compiuto l’incantesimo.» commentò Sikşaka, entrando in palestra in quel momento. La sua voce conteneva una nota di divertimento.
La ragazzina s’irrigidì e la sua espressione, dopo un primo momento, si fece stranita. «Hai dato un nome alla spada?» domandò, indicandola.
«Anzitutto quella è una scimitarra.» puntualizzò. «E poi ogni arma ha un nome; glielo assegna l’armaiolo. Il bello di quelle forgiate a mano è che hanno nomi più poetici di una sigla serigrafata in fabbrica.»
Lilith, allora, gli indicò un’altra arma: un’alabarda dalla lama forata e dal metallo verdolino. «Quella come si chiama?»
«Narni’i’tbal. Una parola che si traduce grossomodo come Foglia che Danza.»
«E quel nome di prima, Rakta, che significa?»
Sikşaka portò lo sguardo sul filo curvo della scimitarra. La voce gli uscì addolcita da un qualche ricordo. «Il mio maestro ha sempre detto che significa Sangue.»
La ragazzina storse la bocca. «Alla faccia della poesia.»
L’altro scrollò le spalle e alzò le mani, come per dire “e io che posso farci?”. «Si vede che il suo armaiolo era un ermetico. Chi lo sa.»
* * * * * *
«Va bene, ripercorriamo quello che è successo.» asserì Sikşaka dopo un breve riscaldamento. «Adesso io fingerò di essere te, e tu farai finta di essere l’aggressore. Descrivimi quello che ricordi.»
Lilith inghiottì un bolo di saliva. Avrebbe preferito di gran lunga partire da un caso generico. L’idea di ripercorrere quei momenti le riempiva lo stomaco di sassi e le rammolliva le gambe. Tuttavia si fece coraggio, e questo fu visibile dal modo in cui strinse i pugni.
«Camminavo.» esordì. «Ero uscita dalla SoftHouse e tornavo indietro. Ero nella via con il negozio di strumenti musicali. Lui è arrivato da dietro e mi ha afferrato.»
Sikşaka annuì. «Okay. Fammi vedere come.» E le diede le spalle.
Lilith, seppur titubante, si avvicinò alla sua schiena. Gli abbracciò la vita facendo passare il braccio destro fra il torso e il braccio di Sikşaka, mentre con la mano sinistra gli avvolse la parte inferiore del volto.
«Hn. E tu camminavi normalmente?»
Sentendo il fiato contro il palmo, la ragazzina lasciò subito la presa. «Io...sì, normale.» replicò, senza capire davvero il punto della domanda. Forse intendeva la velocità di andatura?
«È strano. Se avesse voluto impedirti i movimenti avrebbe dovuto evitare di lasciare libero il braccio.» obiettò lui. «Avrebbe dovuto afferrarti così.» La fece girare e poi chiuse le braccia attorno al suo torso, includendo nella presa gli arti della ragazzina. «Anche se ubriaco questa è la base. Anzi, il modo più immediato. Proprio perché ubriaco avrebbe dovuto usare questo.»
Lilith capì, finalmente, il senso della domanda che le aveva posto poco prima.
«Io... ehm... cammino con le mani in tasca.» ammise, imbarazzata.
«Ah!» esclamò, sorpreso. «Questo spiega tutto!»
La lasciò andare, quindi rimise un passo di distanza fra di loro. «Tu camminavi per la tua strada, mani in tasca, pensando ai fatti tuoi. Lui è arrivato da dietro e ti ha afferrato come mi hai fatto vedere prima. E poi?»
«Mi ha trascinato là.»
Il maestro di spada immaginò che l’avesse fatto camminando all’indietro: in questo modo la ragazzina sarebbe stata sbilanciata e non avrebbe potuto fare resistenza, braccia libere o no.
 
«Bene, rimaniamo sulla stretta.» disse. «Rifammela, ma stavolta più convinta. Cerca proprio di bloccarmi.»
Le diede di nuovo le spalle. Lilith, incerta ma desiderosa di apprendere, lo strinse di nuovo; stavolta mettendoci più forza.
«Ovviamente il rapporto di altezze è invertito.» asserì il maestro, piegandosi sulle ginocchia fino ad arrivare all’altezza del naso della ragazzina. «È più corretto così?»
«Credo di sì.»
«Benissimo. Allora fingi di essere quel tipo e di volermi trascinare via.»
Lilith ci provò. Spostò la gamba, poi il maestro di spada diede un violento strattone verso sinistra, trascinandola con sé. L’istante dopo il braccio destro aveva compiuto la rotazione necessaria ad affibbiarle una gomitata sulla mascella, causandole più sorpresa che dolore. Allentò la presa, e lui sfruttò il momento per allontanarsi di qualche passo.
«Ecco, questa è una possibilità. Lo cogli di sorpresa, lui allenta la presa e tu fuggi.» spiegò. La ragazzina, istupidita dalla velocità dell’azione, si massaggiò la guancia.
Era stato fulmineo.
«Il tuo obiettivo è mettere quanta più distanza possibile fra te e lui prima che lui si riprenda. Quindi.» spiegò ancora. «Io mi sono regolato, ma quella gomitata deve fare male. Non può essere debole, perché più è debole e prima l’aggressore si riprenderà. Senza contare che una preda che si ribella generalmente fa arrabbiare.»
La ragazzina annuì più volte. Doveva fare male, capito.
«Adesso ti faccio rivedere la tecnica al rallentatore. Tu guarda nello specchio.» E indicò a lato. Lilith si concentrò per la prima volta sulla parete che divideva la palestra dal corridoio e incrociò la propria immagine.
«C’è sempre stato?» domandò, incerta. Era una domanda stupida, ma avrebbe giurato che lì ci fosse del comune vetro.
«Oh, è unidirezionale.» spiegò Sikşaka. Poi, con un misto di nostalgia e orgoglio aggiunse: «Il mio maestro era un perfezionista e un maniaco del controllo. Era il suo segreto: così poteva controllarci dal corridoio quando pensavamo che stesse facendo i fatti suoi.»
L’attimo di nostalgia finì lì. Subito dopo la incitò a riprendere il lavoro e Lilith, stavolta guardando nel riflesso, afferrò nuovamente l’adulto intorno alla vita e al volto.
«Prima pieghi leggermente le ginocchia.» E batté due pacche lievi sulla coscia. «Non tenere le gambe né troppo rigide né troppo piegate, come me adesso, sennò non riuscirai a reagire in maniera ottimale. Poi afferri la mano che copre la faccia. Se è la sinistra usi la sinistra, se è la destra usi la destra.» E agganciò la mano sinistra su quella della ragazzina, esattamente a metà fra l’attaccatura del pollice ed il polso. «Vedi? Non è semplicemente appoggiata, ma è semichiusa. Poi fai due movimenti insieme: tiri verso il basso la mano che hai afferrato e meni la gomitata. Un braccio va giù e l’altro va su, e intanto ruoti il torso.»
Si mosse lentamente, eppure a Lilith parve lo stesso troppo veloce. Si sentì tirare verso sinistra, poi sbilanciare definitivamente dal tocco del gomito che – era fuor di dubbio – se l’avesse presa a piena velocità l’avrebbe quantomeno rintronata.
Mimarono quel punto alcune volte; poi, quando Lilith si abituò e credette che la pantomima sarebbe continuata ancora una volta, Sikşaka la sorprese scattando in avanti. Saltellò per un paio di passi – imitazione anch’essa al rallentatore di una corsa – e concluse: «Infine approfitti dell’allentamento della presa per allontanarti e scappare. Dato che il tuo avversario è solo stordito è essenziale che la fuga avvenga a tutta velocità e senza perdere tempo a guardarti alle spalle.»
Lilith arricciò il naso. Non guardarsi alle spalle le suonava giustissimo e, allo stesso tempo, sbagliato nella più assoluta delle maniere.
«Ma se quello materializza un’arma mentre scappo...» obiettò. «Mi spara fra le spalle e buonanotte.»
Sikşaka rimase silenzioso per un istante. Vero: ciò che la ragazzina aveva appena detto era vero. In certi ambienti era il minimo che potesse capitare.
«Infatti non ho detto che questo è l’unico metodo. È una possibilità, ma sta a te valutare l’aggressore. Se è un tuo coetaneo può andare, se è un omaccione grande e grosso è difficile che sia sufficiente.»
«E se è un omaccione grande e grosso?»
Sikşaka la squadrò con un’occhiata. “Grande e grosso”, per la stazza della ragazzina, poteva essere una qualunque corporatura media.
«In questo caso ci vuole qualcosa di più aggressivo. Ti faccio vedere: avanti, ricominciamo.»
Di nuovo davanti allo specchio, di nuovo piegato in modo da apparire più basso, di nuovo con le mani in tasca, Sikşaka si lasciò afferrare da Lilith, che strinse con convinzione. Allora, proprio come prima, il maestro tirò fuori le mani d’in tasca e con la sinistra agganciò il carpo della ragazzina. L’istante dopo cercò di sgusciare da quella parte, ma non forzò la fuga: si fermò repentinamente e aprì come un colpo di frusta il gomito destro, assestando di fatto un pugno sui genitali di Lilith. La ragazzina si piegò istintivamente in avanti e, allora, l’adulto scalciò colpendole il ginocchio destro. La presa andò a farsi benedire e Sikşaka balzellò in avanti, mentre Lilith – orribilmente vicina a battere una panciata per terra – recuperò l’equilibrio sbracciando.
Il maestro di spada si fermò e voltò verso la sua allieva con un sorriso bonario. «Ovviamente, se ci metti la dovuta forza, il tuo aggressore si ritrova con la faccia per terra. Prima che finisca di vedere le stelle e che si rialzi tu avrai tutto il tempo di correre via.»
Lilith tirò le labbra. Questa soluzione le piaceva molto di più della prima. Le dava l’idea di qualcosa di più sicuro.
«Possiamo provare solo questa?»
Sikşaka non rispose subito. «Ne sei sicura?» chiese, volendo vedere in che modo la sua allieva ragionava.
Lilith storse il naso. «Andiamo, mi hai guardato bene? Non arrivo a cinquanta chili. Posso metterci tutta la forza che voglio, ma con la gomitata da sola quello mi riprende in un attimo. E poi anche il mio coetaneo può essere armato.»
Vabbé, forse di pistola a pallini. – pensò scetticamente l’altro, bollandola come sparata grossa. Faceva la prima media, aveva undici o dodici anni. A quell’età era difficile che sparassero già.
Però quel ragionamento pratico era buono. Gli piacque.
«Molto bene: proviamo.»
Si rimisero davanti allo specchio e Lilith si concentrò sui movimenti del maestro. Lo vide afferrarle la mano proprio come aveva spiegato prima: mano sinistra sulla mano sinistra, in quella presa fatta come un gancio.
«Questo è il primo passo, proprio come prima.» spiegò lui. «Poi: strattone nella stessa direzione.» E mimò, trascinando Lilith sulla gamba sinistra. «Poi: frusta col braccio libero; in questo caso il destro.» E mimò, aprendo di nuovo il gomito e assestando un colpo ai genitali della ragazzina, che di nuovo, istintivamente, si piegò in avanti. «E infine: calcio del mulo per spingerti via dalla sua presa.» e, poggiato il piede al ginocchio della ragazzina, spinse forte. Lilith se lo sentì scivolare via dalle mani e, al contempo, sentì di star perdendo l’equilibrio. Fu solo grazie alla lentezza della dimostrazione che lei poté aggrapparsi alle spalle di lui e rimanere in piedi dopo il calcio.
«Ricordatelo: il calcio ha due funzioni. La prima è darti la spinta e la seconda è togliere equilibrio.»
«Dare la spinta. Forte. Capito.» riassunse lei.
«Ripetimi a voce il processo e intanto mimalo. Aiutati con lo specchio, se serve.»
La ragazzina storse la bocca. Che senso ha liberarsi dal vuoto?
In realtà la domanda non era quella. Non era neanche una domanda, a ben guardare. Era più un agglomerato di ridicolo e di vergogna che attendeva in fondo allo stomaco. Lilith avvertiva la sua presenza come avvertiva l’odore del parquet: costante, di sfondo e – se fosse stata una cosa viva – in agguato.
Nonostante questo, però, si mise in posizione. Quella era la consegna e quello avrebbe fatto (o, almeno, avrebbe provato a fare).
Inchiodò gli occhi sul suo riflesso, agganciò con la mano sinistra l’invisibile polso dell’aggressore inesistente e... la bestia sul fondo dello stomaco scattò. La pervase all’istante, accalorandole le guance e rendendo legnosi i movimenti.
Sikşaka la osservò attraverso lo specchio, in silenzio, senza fermarla o correggerla. Lo strattone fu un passo laterale. La frusta di braccio fu un movimento lento e molle, privo di qualsiasi spirito. Quanto al calcio del mulo: per come il peso del corpo rimase sul piede d’appoggio somigliò più ad un esercizio di corpo libero che al gesto tonico e repentino che doveva essere.
«Cosa ti blocca?» domandò alla fine, dopo quella che giudicò una tra le mimiche più brutte della sua vita.
La ragazzina lo sorprese con la sua schiettezza. «Non ce la faccio. Mi sento troppo stupida.» ammise guardandolo dritto negli occhi.
Occhi che il maestro aveva già visto in adulti grandi e grossi. Occhi che dicevano “non voglio essere giudicata pazza”.
Riconobbe l’essenza del problema e raccolse la pazienza. Serviva tempo per passare quella fase.
«Non sei stupida. E nessuno qui ti giudica pazza: né io né, tanto meno, il tuo riflesso.» Insieme a quell’ultima parola accennò con un gesto allo specchio unidirezionale.
La ragazzina portò gli occhi sul suo ritratto. Sulle mani che si spostavano leggermente per via della respirazione, sulle spalle ossute e, in ultimo, sullo sguardo incerto. Forse il suo riflesso non la giudicava, ma lei giudicava se stessa. E il giudizio era tanto aspro quanto impietoso.
«Vedi: lottare con un nemico immaginario ti permette di interiorizzare i movimenti. E questo è fondamentale.» spiegò Sikşaka. «Quanto all’essere giudicati credimi: nessuno guarda all’estetica quando deve salvarsi la coda.»
Lilith strinse le labbra, raggrinzendole in una smorfia pensierosa. Lo sguardo e le orecchie si abbassarono sensibilmente. Era tutta una bella teoria, ma non le levava di dentro il fatto di sentirsi una povera idiota.
Sikşaka, guardandola, capì che il suo discorso non era penetrato. E allora ripiegò sul metodo da maestro elementare. Si posizionò di fianco a Lilith, a qualche passo di distanza, e osservò il proprio riflesso per un istante. Poi si batté le mani sulle cosce.
«Lo rifacciamo, dai. Stavolta in sincrono.­­»
Le orecchie di Lilith tentennarono. Le sopracciglia si alzarono in un’arcata piena di stupore. Sul serio lui, il maestro, si stava abbassando al suo livello?
«Mi raccomando: se hai difficoltà segui i miei movimenti allo specchio.»
Si rispose che sì, lo stava facendo davvero. Era al suo fianco, davanti allo specchio, a fare il cretino – o interiorizzare i movimenti che dir si volesse. E allora, fra le costole, sentì germogliare qualcosa di benefico. Qualcosa che cancellò lo stupore e portò un lieve sorriso. Qualcosa che bruciò i freni interiori e le infuse la voglia di riprovarci; non più osservata dall’alto in basso, ma da pari.
Sentendo silenzio, il maestro la scrutò attraverso lo specchio. Il cambio d’atteggiamento era ben visibile sui suoi lineamenti.
«Cominciamo?» domandò con gentilezza.
«Sì. Sono pronta.»
 
Era il 26 aprile 5396 quando cominciarono il primo allenamento. Entrambi pensavano che non sarebbe stata una cosa duratura: qualche mese, forse, non di più. Eppure non avrebbero smesso che anni dopo, quando Lilith si imbarcò sulla USS Ferox.
Ma ciò che portò la giovane lombax sull’incrociatore stellare è un’altra storia. Una storia di ladri e magie, di dèi, di controllo mentale, di rivincita e di vendetta. Incredibile, avrebbe detto anni più tardi, riferendosi a quello e a ciò che sarebbe venuto dopo.
Al momento, tuttavia, faceva la cretina davanti a uno specchio.

...Fine *sniff*
Okay, ora mi riprendo, non temete. È solo che mettere la parola fine ad un racconto mi commuove sempre un po’.
 
Un ringraziamento speciale va a Mattia, che ha avuto la pazienza di mettersi nei panni di Sik e di farmi sperimentare le tecniche che il maestro di spada propone a Lilith in questo capitolo. E non solo queste, ma anche quelle adoperate contro l’ubriaco nel capitolo due. Mi sono divertita un sacco. Non vedo l’ora di riprovarci.
Un ringraziamento, poi, va a tutti coloro che hanno trovato il tempo di recensire i vari capitoli.
Infine – ultimi ma non ultimi – un ringraziamento va anche a voi che avete soltanto letto.
A tutti: grazie di cuore.
 
Spero vogliate seguirmi ancora, in futuro. Nel frattempo vi auguro ogni bene.
Alla prossima!
 
Iryael

 

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