Il Risveglio di Ithil

di itsrigel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1 ***
Capitolo 3: *** 2 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Gli occhi iniettati di sangue di Thennefrim si spostarono orgogliosi sull'apparente infinità di corpi inerti, immersi in luride pozze di sangue vermiglio ancora fresco, che occupavano il terreno della valle. Il puzzo dei corpi morti misto a quello del fumo gli riempivano le narici, facendolo tossire alle volte. Il profumo della vittoria, continuava a ripetersi. Alle sue spalle, i suoi uomini stavano finendi gli ultimi disperati che erano sopravvissuti alla battaglia di poco prima. Quelli ancora chiedevano pietà. Erano solo poveri illusi, se pensavano che li avrebbe risparmiati.

Nessun sopravvissuto, aveva detto. Nessun ripensamento.

La battaglia di quel giorno era stata particolarmente cruenta: uomini, elfi, ninfe e traditori avevano lottato fino allo stremo delle loro forze per proteggere l'ultima roccaforte del Regno Verde. I tentativi di guerriglia che continuavano a progettare e mettere in atto erano a dir poco patetici, anche se Thennefrim doveva ammettere che ammirava il coraggio di quegli esseri, seppur alimentato solo da stupidità e ignoranza. 

Ovviamente, tutti i loro sforzi si erano rivelati inutili, esattamente come Thennefrim voleva e aveva programmato. Nemmeno i draghi, da sempre conosciuti come portatori di paura e distruzione, erano riusciti a sottomettere i loro grifoni, che, nonostante la differenza di grandezza, li avevano distrutti senza pietà.

Thennefrim inspirò a pieni polmoni l'aria satura dell'odore ferroso del sangue versato. Un odore dolce, meglio di quello delle donne che aveva avuto, meglio di quello di tutte le monete d'oro che aveva mai posseduto.

Lanciò una rapida occhiata verso il basso. Tra quei corpi mutilati c'erano anche alcuni dei Maghi che avevano combattuto al suo fianco. Uomini e donne, di tutte le età, destinati ad un destino talmente crudele solo per aver creduto in un folle ideale di grandezza.

Il loro sacrificio non sarebbe stato inutile. Le loro gesta sarebbero state cantate da bardi e poeti, lodate dal Popolo Puro che sarebbe sopravvissuto a quello sterminio fino alla fine dei tempi.

Perché l'idea, per il Generale e i suoi seguaci, era quella. Solo la razza superiore dei Maghi meritava di vivere in quel mondo. Solo coloro che sapevano utilizzare la magia, beninteso. Gli altri... loro semplicemente avrebbero fatto meglio a non nascere, se non volevano soffrire le pene degli inferi.

Un movimento inaspettato alla sua destra lo distolse dai suoi pensieri di vanagloria. Senza rifletterci, si avviò verso un edificio mezzo crollato. Non estrasse lo spadone a due mani dal fodero: nessuno a quell'ora sarebbe stato in grado anche solo di difendersi, figurarsi di ucciderlo.

Nessuno poteva ucciderlo.

Fu difficile far passare le spalle larghe per la porta distrutta, ma alla fine fu dentro, al buio quasi completo. Accese una piccola sfera di fuoco fatuo, che andò a fluttuare sopra la sua testa. I suoi passi risuonarono forti e chiari tra le pareti in pietra rossa, quando cominciò ad avanzare.

Passò qualche minuto di ispezione prima che riuscisse a percepire nuovamente qualcosa: un fruscio di vesti, passetti che strisciavano leggeri sopra di lui. Lasciò trascorrere ancora pochi istanti prima di lanciare un incantesimo verso la fonte del suono e far crollare buona parte del soffitto.

Un gemito emesso da qualcuno attirò la sua attenzione. Riconobbe all'istante il tono caldo e femminile.

La sua voce venne moltiplicata dall'eco quando parlò: «Ithil» disse, sicuro di sé. Il sorriso spavaldo che aveva accompagnato gli anni della sua giovinezza, ormai da anni dimenticata, si fece largo sul suo volto, una fessura lattea tra sangue e polvere. «Perché non esci fuori e combatti? O forse quelli della tua razza sono tutti così codardi?»

Qualche secondo di silenzio, pesante sulle loro teste.

«La mia razza» rispose in seguito lei, gelida, emergendo pallida dalle tenebre che l'avvolgevano, «è anche la tua. Smettiamola di combatterci. Sono la prova vivente che maghi ed altre razze possono convivere in armonia.»

La risata fragorosa di Thennefrim quasi fece tremare le pareti instabili. «La mia razza è anche la tua?» ripeté, sprezzante. «Sei solo uno scherzo della natura, Ithil! Tu, come tutti gli elfi e umani e ninfe e bastardi mezzosangue!»

Gli occhi blu elettrico della mezz'elfo lo fissarono intensamente, fino a perforargli l'anima. A Thennefrim sembrò di vedere un lampo chiaro passarle nello sguardo, ma non avrebbe messo la mano sul fuoco per giurare su questo.

Ithil spostò gli occhi verso la parte di soffitto caduta. Al suo posto, uno squarcio di cielo roseo si estendeva sopra di loro. Un bel cielo, di quelli che ogni sera aveva visto alla finestra della sua camera fino a pochi anni prima, appena adolescente, prima che la guerra iniziasse e portasse via le belle giornate e i ricordi. Era presto per il tramonto, le giornate si stavano già accorciando. Thennefrim sapeva che l'inverno era alle porte, e avrebbe usato questo a suo vantaggio.

«Questa guerra dura da troppo tempo. Troppo a lungo la gente si è uccisa a vicenda, le famiglie si sono distrutte nel nome di ideali insensati. Uomini, elfi e ninfe arrivano da ogni dove nel Regno di Auron, e noi non sappiamo neanche più dove metterli. Hai vinto, ormai, ci siamo arresi da tempo. Perché continuare queste barbarie?»

Un sorriso malvagio increspò le labbra di Thennefrim. La schiena di Ithil fu scossa da un brivido di puro terrore nei confronti di quella creatura. Avrebbe dovuto agire presto, aveva tentennato abbastanza: era impossibile cercare un accordo con lui. Era un mostro. Forse le voci che giravano su di lui erano vere, pensò, forse aveva davvero venduto la sua anima agli dei. Ormai aveva abbastanza forza magica per evocare l'Incantesimo. Doveva solo tentare e sperare che tutto andasse per il verso giusto.

Arretrò un poco nel buio, fingendo, ma nemmeno troppo, un moto di paura, e cominciò a mormorare la formula a mezza voce.

«Non mi pare che siate ancora morti tutti» ribatté Thennefrim. «Non mi pare che il mondo sia puro» aggiunse gridando, allargando le braccia per dare enfasi all'affermazione.

Si accorse troppo tardi della sua figura che scompariva. La pelle diventava man mano più chiara, diafana; le vesti sembravano indossate da un fantasma. Di Ithil, nessuna traccia visibile. Guardò sconvolto le sue mani dissolversi piano, l'armatura gravare sempre di meno sul suo corpo. Il suo odio riecheggiò sotto forma di urlo per l'ultima volta tra le pareti della Valle sotto le montagne di Khler, maledicendo Ithil, mentre tutto il suo essere scompariva nell'aria fredda del crepuscolo.

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Capitolo 2
*** 1 ***


Le tenebre stavano lentamente facendo spazio ai tenui toni dell’azzurro nel cielo. Erano trascorse già parecchie ore da quando le ombre avevano cominciato ad accorciarsi e l’aria stava diventando lentamente più tiepida; le giornate stavano cominciando ad allungarsi. Un vento delicato spazzava la città da sud, portando con sé la brezza del mare, distante poche miglia dalla cittadella fortificata.

Ladomne era l’ultimo centro abitato importante sul versante orientale di Flamek da centinaia di anni ormai, l’unica roccaforte rimasta prima della maestosa catena montuosa che separava il Regno Magico dagli altri. Era un luogo incantevole, a prima vista. Rintanata in una profonda valle verdissima, fra due ali di boschi secolari, era quasi completamente circondata da uno dei fiumi più lunghi di tutta Flamek, particolarità che l’aveva resa uno dei più attivi e floridi centri commerciali dell’intero paese.

Pareva decisamente un pezzo di paradiso rubato agli dei—o magari concesso da loro—soprattutto in mattine di inizio primavera come quella.

La villa del conte si affacciava sulla città dal punto più alto, come appollaiata sul culmine dell’altura su cui la città si sviluppava. Alta almeno quaranta piedi e larga il doppio, di un colore quasi perfettamente bianco, sembrava brillasse di luce propria sotto l’alone del sole, a tratti nascosto dietro una cortina di nuvole. Appena dentro le mura basse ricoperte dai rampicanti, il giardino si estendeva per una ventina di passi prima di arrivare al porticato. A destra e sinistra, cespugli simmetrici potati in modo identico sembravano aprire il passaggio a chi camminava sulla via centrale.

Nel cortile interno, Yera era seduta a terra, gambe incrociate e occhi chiusi.  Come sempre, le sue faccende giornaliere erano cominciate in quel giardino appena dopo l’alba, quando il mondo cominciava a svegliarsi e poteva stare a pieno contatto con la natura per le sue meditazioni.

Poteva percepire il lento movimento verso l’alto dei fili d’erba, lo strisciare silenzioso delle lumache, il respiro potente della Terra.  Era in grado di contare i battiti del suo cuore, tanto andavano lenti. Uno, due, tre. Perse lentamente il contatto col proprio corpo. Sentì gli arti gelare fino a sparire e il suo fisico alleggerirsi sempre di più. Quattro, cinque.


Era in un posto mai visto, vagamente simile come conformazione del terreno e vegetazione alla sua città natale. Si alzò in piedi, disorientata da ciò che vedeva intorno a sé. Rumore di armi che cozzavano fra loro; strani versi acuti di animali mai visti, simili a enormi serpenti alati; una forte puzza di bruciato; e rosso, rosso dappertutto. Ovunque spostasse lo sguardo, Yera vedeva solo sangue. Sui volti delle persone che lo circondavano–centinaia, migliaia– sui vestiti che indossava, nella fanghiglia che le copriva le scarpe. Indossava una pesante armatura in cuoio e metallo, in pugno stringeva una lunga lancia dall’impugnatura dorata, di una tonalità simile a quella del cielo in un tramonto senza nuvole. Sentì qualcuno spingerla, per poco non cadde a terra. Si guardò intorno. Alcuni la stavano guardando, come in cerca di approvazione o punti di riferimento; altri, più lontani, sembravano stare cantando inni di guerra in una lingua che non conosceva, ma riusciva a capire perfettamente, come se fosse sempre stata sua. Sentì un brivido correrle lungo la schiena e una scarica di adrenalina percorrerle il corpo. Alzò in alto la lancia, la cui lama rifletté la luce del sole nascente, illuminando il suo volto come un fascio di luce diretta. Guardò un’ultima volta i suoi compagni e, con un grido incitante, si lanciò sul campo di battaglia.

 

Si costrinse a tornare alla realtà. Riaprì gli occhi quanto più velocemente possibile, un paio di gemme di colori differenti: una scura come ossidiana, l’altra una brillante apatite. Aveva il viso rosso per lo sforzo, la vista appannata e il respiro affannoso. Con estrema cautela si alzò da terra e raggiunse la grande fontana posta al centro della struttura. Immerse entrambe le mani fino ai polsi nell’acqua fredda per poi strofinarle sulla faccia accaldata, nel tentativo di calmarsi.

Ormai erano settimane che visioni del genere la perseguitavano, insinuandosi nei suoi pensieri e impedendole di funzionare normalmente durante la giornata.

In realtà, era tutto iniziato anni prima. Aveva cominciato a sentire delle voci che la chiamavano durante i sogni quando era molto piccola, talmente tanto tempo prima che alla fine se n’era dimenticata. Poi, tutto insieme, le voci si erano ripresentate, accompagnate da immagini, sensazioni vive sulla pelle, emozioni forti come non ne aveva mai sentite.

Si guardò nel riflesso dell’acqua. Aveva uno sguardo spaesato, che sembrava quasi non appartenerle. Il volto aveva un’aria stressata, stanca, testimone delle ultime notti insonni che aveva passato nel tentativo di trovare un senso in ciò che le stava accadendo.

Mentre si riprendeva, qualcosa attirò la sua attenzione: una figura all’angolo del suo campo visivo. Era un ragazzo alto quanto lei, vestito di tutto punto con gilet di velluto e bracciali d’oro ai polsi. Yera si raddrizzò e, volgendosi verso di lui, gli sorrise. Lui ricambiò dolcemente e, stando attento a non infilare gli stivali nelle pozze di fango che il temporale della sera prima aveva lasciato a terra, le si avvicinò.

«Anche oggi allenamenti di prima mattina, sorella?»

Yera sbuffò divertita, dandogli un leggero colpetto sulla spalla non appena fu abbastanza vicino. «Non ho neppure ancora cominciato, Neil. E tu, anche oggi studi di prima mattina?»

«Almeno non sono già tutto sudato. O no?».

Si poteva dire che il ragazzo fosse la perfetta antitesi di Yera: capelli corti, appena ondulati; occhi di un comune color nocciola; fisico esile; carattere quieto e sottomissivo; nulla di speciale, niente che potesse attirare l’interesse di qualcuno. 

Erano poche cose che li accomunavano, due in particolare. Una di queste erano le lentiggini: i due gemelli avevano guance, collo, spalle e braccia ricoperte da centinaia di macchioline castane, che donavano a entrambi un'aria a dir poco infantile. La seconda era un piccolo tatuaggio, che Yera aveva in fondo alla schiena e Neil proprio al centro, fra le scapole: un vortice, nel quale era raffigurato un'elegante rosa dal bordo frastagliato. Lo stemma della loro nobile famiglia. 

Anche a parlare di atteggiamenti e carattere, Neil e Yera sembravano appartenere a due mondi diversi. A conoscerli, nessuno avrebbe mai detto che anche lui fosse il figlio del Conte di Ladomne. Insomma, Neil? Il ragazzino che passava le giornate a leggere libri, chiuso in casa perché se solo avesse osato mettere il naso di fuori sarebbe riuscito a farsi mettere i piedi in testa anche da un bambino? No, di sicuro non era un’idea molto accattivante; nemmeno lui ci credeva troppo.

Yera, lei sì che sarebbe stata un’ottima leader. Già dall’aspetto sembrava molto più regale e minacciosa del fratello. Tutti in città sapevano perfettamente che era l’orgoglio del padre, la luce dei suoi occhi. Era un vero e proprio uragano, che arrivava e travolgeva tutti e tutto ciò che trovava per la sua strada. Un’ottima maga, tra le altre cose, una promessa di grandezza. Neil la ammirava, a tratti gli era capitato di vederla come una sorta di divinità. Il portamento che aveva in ogni occasione e la sicurezza dentro i suoi occhi solo quello riuscivano a ricordargli: un dio dell’antico pantheon, una di quelle divinità che nei regni adiacenti ancora si veneravano.

Peccato per quella piccola macchia sul suo onore, mezzosangue. La gente storceva il naso quando sentiva i loro nomi, faceva segni di scongiura nel vederli passare per strada.

Le leggi razziali erano state introdotte a Flamek quasi cento anni prima della loro nascita e da allora in pochi si erano azzardati a sfidarle. Uno fra questi, in tempi relativamente recenti, era stato loro padre, Barahel, nel momento in cui aveva deciso di andare contro le convenzioni sociali e sposare una ninfa. Per amore aveva accettato che il suo titolo nobiliare fosse declassato da principe a conte, la sua esclusione quasi completa dalla vita politica e, indirettamente, l’esclusione dei suoi figli da essa. Tecnicamente, in quella famiglia nessuno aveva diritto di vivere. La loro sola esistenza era un affronto alle leggi del paese, di questo erano tutti consapevoli. Era solo in nome di una profonda amicizia che il re aveva concesso a Barahel la possibilità di diventare conte di quell’appendice lontana del Regno Magico, adiacente a quello di umani ed elfi.

Yera sorrise, il volto tirato dalla spossatezza che la meditazione di poco prima le aveva lasciato addosso. «Già, credo che per adesso in realtà mi fermerò qui. Ho delle commissioni da sbrigare in città per conto del mio tutore e non ho voglia di arrivare tardi a pranzo». 

Neil rise divertito e le diede una pacca sulla schiena prima di allontanarsi. «Faresti meglio ad andare a cambiarti allora, non manca così tanto».


Dopo una corsa fino alla sua camera—su per due rampe di scale, a destra fino al termine del corridoio e poi di nuovo giù, fino agli alloggi riservati  alla famiglia del Conte— e una sciacquata con acqua di rose e lavanda per pulirsi dal sudore, come sempre le ci vollero ore, o almeno le sembrò così, per riuscire a districare quella matassa informe di capelli che si ritrovava in testa, ma alla fine, dopo un enorme sforzo e tanta buona volontà, riuscì a sistemarli in un'elegante treccia che cadeva sulla spalla sinistra. Si vestì con abiti ricchi, in seta e fili d’oro, come era tradizione che una donna d’alto rango si vestisse, prese la borsa di tela poggiata sulla console al centro della sua camera da letto e uscì silenziosamente fuori. 

Solitamente, Yera non prendeva la strada principale per arrivare in città. Le piaceva perdersi nella natura, allungare il tragitto di qualche centinaio di metri giusto per godersi la solitudine e il contatto col verde. Il bosco non si trovava troppo distante dalla villa. Yera ci arrivò con poco, prese il sentiero dove solitamente passavano i carretti dei contadini che abitavano l'area circostante e si inoltrò nel fitto. In poco tempo, le farnie la circondarono completamente. Il terreno argilloso era ricoperto di ghiande e impronte dei cinghiali. L'aria era piena degli stridii aspri delle ghiandaie, che, sentendola arrivare, alzavano le loro grida d'allarme; oltre ciò, l'unico rumore che Yera poteva sentire era quello delle foglie secche che calpestava.

A Yera piaceva starsene lì in solitudine. D'estate, era solita sedersi fra gli alberi a gambe incrociate, con gli occhi chiusi e qualche cristallo al suo fianco. La pace era quasi assoluta, meravigliosa. Si fermò in mezzo al sentiero e inspirò a pieni polmoni l'aria che sapeva di muschio. Poteva sentire gli alberi parlarle, la terra darle la sua energia. Nel suo sangue c'era qualcosa che le sussurrava che quella era casa, che lì era sicuro. I pericoli della foresta sarebbero stati protezione per lei, le tempeste carezze, gli animali compagnia. Avrebbe potuto nascondersi lì, per oggi, per un anno, per sempre; vivere in solitudine come l'istinto le dettava. 

Eppure, non si era mai fermata più di qualche ora lì dentro. La paura dell'ignoto, in qualche modo, era sempre riuscita a trattenerla da quei pensieri malsani. E anche quella volta si rimise in cammino. 


Arrivò al paese che non era ancora passata l’ottava ora: un agglomerato di casette modeste, povere, anonime. Se non fosse stato per le grandi magioni del posto, un tempo usate solo per villeggiatura dai nobili, Ladomne avrebbe potuto anche non esistere. Le strade lastricate erano quasi completamente vuote: probabilmente la gente aveva rincasato in vista del temporale che sarebbe venuto giù di lì a poco. Il cielo era livido, gonfio, e incombeva minaccioso sulla teste. La poca gente rimasta si scansava al passaggio di Yera, il cui andamento fiero sembrava andare d'accordo con quello intimidatorio delle nuvole.

Il mercato si trovava ogni mattina nella piazza principale della città, poco distante dalla scuola di magia che da poco, sotto ordine del re, era stata aperta in tutte le più importanti città di Flamek. Sotto il grande capannone di legno erano accalcate decine di persone, che si trovavano lì un po' per comprare il cibo della giornata, un po' per ripararsi dal maltempo. Yera lo aggirò, tenendosi a debita distanza  .

Tra le persone comuni, quelle che non avevano l’onore di vivere sotto la protezione di Barahel a corte, gli sguardi erano più crudeli. Ridacchiavano fra di loro e si aprivano al suo passaggio, ironici, facendole cenno di passare e inchinandosi, come se lei fosse stata più importante di loro. 

Sii fiera, le disse una voce nella testa. In fondo, le sarebbe bastato fare qualche giro e tornare a casa, dove sicuramente i genitori si erano svegliati e la aspettavano. Ricorda chi sei

Non si scompose nemmeno quando le sputarono addosso.                                                                                                                                                                                                                                                         


La biblioteca di Ladomne era un edificio basso e lungo, intricato come un labirinto e, a primo impatto, immenso.  Realizzato in pietra massiccia per poter resistere il più possibile alle forze della natura, decorato con stucchi elaborati e vetrate finissime, era sotto la tutela del Santuario di Shaar locale.

Dopo aver aggirato il mercato ed essersi addentrata in una via secondaria poco conosciuta, Yera si era ritrovata davanti al portone della costruzione. Spinse una delle due pesanti porte in legno rinforzato ed entrò. Subito, ad accoglierla, si avvicinò un Serviente, un sacerdote minore del dio. Indossava gli abiti tradizionali del Clero: una tunica scura stretta in vita da un’alta fascia rossa, una camicia troppo grande per lui e sandali aperti.

«Posso esservi utile, mia signora?» La sua voce era gentile, ma Yera poteva leggere nel suo sguardo freddo il disprezzo che provava nei suoi confronti. In fondo, sembrava logico: avere rapporti con altre razze era considerato abominio dalla religione.

Yera raddrizzò la schiena e superò l’uomo, guardandosi intorno con fare superiore. «Cercavo un manuale di teologia antica, un anonimo dalla biblioteca di Daham. Mio padre è venuto in persona a richiederne una copia mesi fa». Rivolse lo sguardo verso il Serviente, in attesa di una risposta, ma trovò solo un volto spaesato.

«Mia signora, forse sarebbe il caso che vostro padre venga a ritirare il volume, non vorrei che...»

«Io sono qui adesso». Yera lo squadrò innervosita: a guardarlo, non gli avrebbe dato più di quattordici anni, un bambino del popolo. Lo vide farsi piccolo sotto il suo sguardo, quasi imbarazzato avrebbe detto. «Non amo aspettare. Portami quel volume, adesso».

Il ragazzo fece un inchino goffo prima di sparire tra gli scaffali e ricomparire pochi minuti dopo con un tomo rilegato in cuoio tra le braccia. Yera lo prese senza troppe cerimonie e lo infilò nella sacca che portava a tracolla, senza allontanare i suoi occhi dal giovane.

«Barahel è la persona che più di tutte in questa città si dà da fare per tenere in piedi questo posto». La voce di Yera sembrava calma, ma i suoi occhi tradivano l’orgoglio ferito. «Vi consiglio di fare in modo di non indispettire i figli del Conte». 

Neil non avrebbe mai potuto descrivere la sua vita in alcun modo se non monotona. Gli sembrava di vivere lo stesso giorno in eterno, ora dopo ora, all'infinito. Non usciva di casa se non per degli imprevisti, non parlava con nessuno se non con i suoi parenti, non faceva nulla se non ripetere le stesse cose del giorno prima. E di quello prima, e di quello prima ancora.

A casa, aveva cominciato le sue faccende giornaliere seguendo la routine di sempre: appena sveglio aveva innaffiato le piante nella sua stanza. Poi si era vestito, sistemato i capelli e infine era uscito dalla camera, diretto gli dei sapevano dove. Aveva incontrato Yera nel cortile, ci aveva chiacchierato per un po’, e poi?

Poi era tornato di corsa alla sua noiosa, patetica routine. Uscito dalla magione, si era messo a passeggiare per l’enorme giardino della famiglia. 

Aveva deciso di uscire quando Yera gli era passata accanto, diretta veloce verso il paese. Si era avvicinato al muro di cinta con calma, pensando bene alla sua scelta. Uscire di lì avrebbe significato esporsi ai pericoli della città. Era disposto a tentare la sorte per qualche ora differente dal solito?

Più tardi, una volta in paese, si sarebbe accorto di aver preso la decisione sbagliata.


Risate di scherno e grida di sporadici incantesimi risuonavano nella piazzola al centro della città, dove i giovani erano soliti incontrarsi da un tempo talmente lontano che tutti i maghi delle generazioni precedenti potevano affermare che anche loro, durante la giovinezza, avevano passato giornate lì a scherzare con i compagni.

Con Neil, gli scherzi andavano troppo spesso oltre il limite di ogni normale sopportazione. Il ragazzo era sdraiato a terra, con il naso che grondava sangue al punto di impedirgli la respirazione. Avrebbe voluto chiamare aiuto, o per lo meno riuscire ad urlare per il dolore, ma qualcuno, a quanto pareva, gli aveva chiuso la bocca con un incantesimo di uso fin troppo comune per i suoi gusti. I capelli castani erano sparsi intorno al viso, dentro gli occhi, alcune ciocche che gli erano state strappate giacevano per terra, calpestate dai numerosi piedi che passavano di lì. Era una scena talmente frequente che, ormai, nessuno dei passanti se ne curava più.

Era tutto iniziato con dei piccoli insulti, quando erano poco più che bambini. All’inizio, non se n’era curato. In fondo, aveva sempre saputo che, in una comunità chiusa su se stessa come quella magica, il figlio di una ninfa non sarebbe mai stato visto di buon occhio. Per quanta importanza suo padre avesse mai potuto avere, aveva sempre saputo in cuor suo che farsi accettare sarebbe stato un problema.

Dalle parole si era passati alle mani, nel giro di poco tempo. Un braccio rotto, un dente perso, sangue versato a terra. Dalle mani, i suoi tormentatori si erano evoluti, passando alla magia. Era stato a quel punto che erano apparse le visioni. Lampi di esistenze lontane dalla sua, scene quasi sempre identiche a sé stesse, che riuscivano solo a lasciargli addosso un’angoscia maggiore di prima. Ricordi che non sapeva di aver mai vissuto, pensieri che gli appartenevano ma che non sapeva di aver elaborato. Sensazioni vive sulla pelle, dolorose quasi quanto i pugni che incassava.

Neil era stato costretto a lasciare la scuola quando aveva appena dieci anni. Aveva pensato che, andando via da quello scenario, le cose sarebbero migliorate.

Eppure adesso era lì, a terra, coperto di ridicolo e col volto inzuppato dalle sue stesse lacrime.

Sentì distrattamente qualcuno, oltre il limite del suo campo visivo, alzare la voce sopra tutte le altre. Il dolore si alleggerì d’improvviso, lasciandogli la possibilità di respirare. Aprì affannosamente le labbra, permettendo all’aria di riempirgli i polmoni. Qualcuno gli si parò davanti, di spalle. Aveva lunghi capelli ricci e la voce forte come il fragore di un tuono. Allontanò il capannello di gente che si era radunato per ammirare la scena, lanciando occhiate di fuoco intorno e insulti non poco coloriti.

La figura portava sulle spalle una giacca lunga fino ai piedi, di un viola argenteo su cui spiccava, al centro, un emblema ben preciso: una rosa in fiore di colore bianco, inscritta in un cerchio del medesimo colore decorato con fregi dorati che riportavano una scritta nella loro lingua natale, Kaishior ash ssi resi kaliva, “il protettore non abbandona”. 

Si voltò verso il ragazzo, e Neil poté finalmente guardarla in volto. Per qualche istante, ancora immerso nelle immagini di poco prima, non riuscì a riconoscerla. La ragione sembrava andare e tornare, lo abbandonava per lunghi, terrificanti momenti e subito dopo, come se nulla fosse, tornava a renderlo consapevole di cosa stesse succedendo.

Gli occhi della giovane donna lo fissavano con il fuoco dentro, uno sguardo che terrorizzava; Neil era sicuro che avrebbe potuto incendiare l’intera città solo con quello. 

«Alzati», comandò, tirandolo su per un braccio. Il ragazzo gemette per il dolore, ma non se lo fece ripetere sue volte. Si appoggiò alla spalla della sua salvezza, tossendo per liberare le vie respiratorie dai grumi di sangue. 

«Grazie» mormorò, ma a quel punto nessuno lo stava più ascoltando. Si sentì tirato via dalla folla, mentre dietro di loro gli insulti e le minacce per entrambi si sprecavano. Faticava a tenersi in piedi, le ginocchia sembravano troppo deboli per sorreggere il caos dentro di lui, ma la paura di restare indietro fu abbastanza convincente per farlo sforzare ad andare avanti.

Neil alzò lo sguardo, incontrando il volto di Yera. Era contratto nello sforzo di trascinarlo, distorto dalla rabbia e dalla vergogna. La grande massa di ricci continuava a caderle davanti gli occhi e lei doveva continuamente soffiarli via, sbuffando esasperata.

«Grazie» ripeté, una volta riuscito a riprendere piena coscienza di sé stesso ed essere riuscito finalmente a riconoscere la sorella. Yera lanciò uno sguardo alle sue spalle, per assicurarsi che nessuno li stesse seguendo.

«Non ringraziarmi».

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Capitolo 3
*** 2 ***


Yera e Thaik procedevano a passi veloci sotto il cielo carico d'acqua. Il vento era teso, l'odore della pioggia si poteva già sentire e a nessuno dei due andava di prendersi un raffreddore. In una ventina di minuti erano riusciti ad allontanarsi dal paesino, cercando di passare nelle le vie meno frequentate per non farsi vedere da anima viva. Barahel aveva già abbastanza problemi senza che i suoi figli gettassero altra vergogna sul nome della loro famiglia.

«Mi stai ascoltando, Neil?»

Lei camminava tenendo un braccio stretto alla vita del gemello, cercando di non fargli troppo male. Il ragazzo sbatté le palpebre, raddrizzandosi, per quanto poteva, sulla schiena. Gli faceva male tutto. «Scusa, stavo pensando».

Yera sospirò, cercando di nascondere la rabbia che la riempiva. Capendo di essersi allontanati abbastanza dalle strade principali del paese, Yera si fermò, sorreggendo dolcemente Neil: suo fratello era ferito e lei lo stava trascinando a forza. Aveva bisogno di cure.

«Nostro padre non sarà felice di questo. Ti sei fatto fare a pezzi. Si può sapere come fai a finire nei guai ogni volta che non ci sono?»

Neil si strofinò una mano sotto il naso, scuotendo la testa. «Voglio solo tornare a casa adesso».

Yera lo fece sedere a terra senza troppe cerimonie e senza dargli nemmeno il tempo di lamentarsi. Per un terrificante momento, Neil sentì la terra sparire sotto di lui e gli sembrò di precipitare. Strinse con forza gli occhi, aspettando che le vertigini passassero.

Yera gli impose una mano sul petto, premendola con leggerezza. Chiuse gli occhi, prese un respiro profondo e sgombrò la mente dai pensieri. Una fioca luce verde si accese sotto le palpebre chiuse e, dolcemente, cominciò a diffondersi sulle sue braccia fino ad arrivare alla punta delle dita. Un calore piacevole si irradiò per tutto il  corpo stanco di Neil, che tirò un sospiro di sollievo. Magia. Oh, Yera era decisamente la migliore maga che avesse mai messo piede a Ladomne—e lei stessa lo sapeva, fin troppo bene.

Neil riaprì gli occhi. Iniziò a guardare la fronte corrucciata della sorella come un malato che guarda la medicina che lo potrebbe salvare. Iniziò a sentirsi meglio dopo pochi istanti. Le ferite superficiali si chiusero, le costole smisero di dolere così tanto, i muscoli si rilassarono un minimo. Yera allontanò le mani nel momento in cui sentì la testa leggera, per evitare di perdere conoscenza per la strada. Alla fine, dopo pochi minuti di sforzi da parte di entrambi, rimasero seduti l’uno di fronte l’altro, senza parlarsi, riprendendo le forze.

La prima a tirarsi nuovamente in piedi fu Yera. Neil si lasciò scappare un sorriso tenero mentre la ragazza si rialzava e gli porgeva la mano, invitandolo a seguirla. Gli venne in mente quando erano ancora bambini ed era ancora lui a proteggerla quando giocavano. Yera era talmente scalmanata che riusciva a cadere anche da ferma, a farsi male anche quando non era lei a giocare. A quei tempi era lui a controllarla, a doverla tenere d’occhio per evitare di farla finire nei guai. Allora, gli era sembrato di essere in grado di capire cosa sarebbe successo. Gli era parso di riuscire a vedere le azioni della sorellina e le conseguenze che avrebbero portato prima che succedessero. 

Gli avevano dimostrato che non era così.

 

Il resto del tragitto lo percorsero in completo silenzio. Con quel brutto tempo, l’antica strada lastricata che, da est a nord, attraversava Ladomne e la collegava alle principali città di Flamek era praticamente deserta. I mercanti, che normalmente erano soliti attraversarla, sembravano già essere rintanati nelle loro case, al sicuro sotto un tetto accogliente, probabilmente con una buona ciotola di cibo caldo e un compagno amorevole con cui condividere lo spazio sotto le coperte per il resto della giornata.

Yera, un po’, di queste cose era gelosa. Non che loro non avessero cose del genere, anzi, ma le restava difficile riuscire ad apprezzare appieno la loro vita quando una buona parte di essa l’avevano passata a lottare con le unghie e coi denti per farsi rispettare.

 

Arrivarono nei pressi di casa a tarda mattinata, avendo rallentato di loro spontanea volontà per evitare di farsi vedere dal padre, che solitamente a quell’ora era chiuso nel suo ufficio a leggere: nonostante Yera avesse curato superficialmente le ferite di Neil, i vestiti del ragazzo erano comunque intrisi di terra e lacrime e macchiati dal sangue che aveva perso. Senza contare il fatto che lui, effettivamente, poteva ancora percepire il dolore causato dalle percosse, anche se da fuori i segni potevano non venire notati. Il Conte non avrebbe preso bene una mancanza di rispetto tale verso il proprio figlio, sangue del suo sangue, come era solito dire. E in quel momento, una scenata del padre era l’ultima cosa di cui i gemelli sentivano il bisogno.

L’imponente villa a tre piani sembrava giudicarli dalla strada, circondata da quella schiera di rovi di rose che loro madre aveva piantato quando lei e il marito avevano convolato a nozze. 

Yera si era sempre sentita piccola, di fronte alla maestosità del luogo. Soprattutto se pensava che quello era niente, confrontato a come immaginava essere il palazzo dove alloggiava l’Imperatore e la sua famiglia, o alle leggende che aveva sentito raccontare su come fosse la reggia regale di Auron, al di là della pesante catena montuosa che divideva i due regni.

Attraversarono in silenzio la lunga passeggiata di quasi mezzo miglio prima di arrivare ai piedi dell’abitazione. Entrarono senza dire una parola nella villa, cercando di fare il meno rumore possibile mentre salivano le scale di marmo bianco, tentando disperatamente di non ridere mentre si guardavano camminare in modo ridicolo ed estremamente lento. Appena entrati nell’androne, i fratelli si sentirono pieni di una pace che, fino a pochi istanti prima, non sembrava appartenere al loro mondo. Nonostante il senso di vergogna che ancora bruciava nel petto, quel posto era casa. Avevano sempre insegnato loro che lì sarebbero stati al sicuro, circondati da volti amici; ed era stato vero. Non c’era un solo luogo in quel crudele posto che li facesse sentire più sicuri, più protetti.

Si avviarono verso le loro camere cercando di evitare anche la servitù che, a quell’ora, era impegnata a fare avanti e indietro dalle cucine alla sala da pranzo.

Dopo aver percorso al contrario la strada che Yera aveva fatto di corsa poche ore prima, i gemelli arrivarono nei loro alloggi privati. Entrarono alla svelta nella camera di lei, dove Yera si assicurò che il fratello stesse abbastanza bene da poter presentarsi di fronte ai loro genitori senza troppi dolori. Ricontrollò le ferite aperte, i lividi, i punti gonfi, qualsiasi cosa. Neil per ringraziarla le passò una mano delicata fra i capelli.

«Mi dispiace, non sarei mai dovuto uscire».

Yera sentì il cuore sprofondare nel petto, come risucchiato da una forza che sembrava volerla prosciugare. Si sforzò di sorridergli, celando l’amarezza sotto un velo di compassione. «Non è colpa tua» ribatté, stringendo una mano di lui tra le sue. «Non sei tu ad aver sbagliato. Ti giuro che la pagheranno, tutti quanti».
 



C'era un ragazzo a casa che Yera amava quasi quanto Neil. Si chiamava Thaik, era un senza-poteri e faceva parte della servitù della famiglia. Yera gli fu affidata quando aveva appena compiuto nove anni, periodo che corrispondeva a quando Neil dovette andarsene di casa per gli studi obbligatori in collegio. La sua lontananza era stata talmente straziante che il padre aveva dovuto metterle accanto gente della servitù per non farla cadere a pezzi.

A quasi nove anni di distanza, Yera poteva affermare con certezza assoluta che Thaik era stato l'unica persona al di fuori della sua famiglia di cui si fosse mai fidata. Il fatto che ci fosse stata così tanto a contatto aiutava naturalmente, ma la complicità che c'era fra i due non si poteva minimizzare a una mera conoscenza. Si volevano bene, da morire. L'uno accanto all'altro avrebbero potuto affrontare qualsiasi cosa, di questo erano certi entrambi.

Forse era per questo che, ogni giorno, dopo aver sbrigato le faccende mattutine che gli venivano affidate, Thaik raggiungeva Yera ovunque fosse per farle compagnia prima del pranzo.

 

Quel giorno, non riuscendo a trovarla da nessuna parte, dopo una scrupolosa ricerca per l’intera magione, decise di andarle a bussare in camera. Intuì quasi istantaneamente che doveva esserci qualcosa che non andava: non era frequente che Yera si fermasse in camera sua se non per dormire e vestirsi. Quando Yera gli aprì la porta davanti e i loro sguardi si incontrarono, potè vedere chiaramente la sua espressione cambiare da tranquilla a preoccupata in pochi attimi.

«Va tutto bene, mia signora?»

Yera si strinse nelle spalle, incerta su come rispondere. «Neil sta poco bene, ti spiegherò tutto più tardi».

Thaik si prese un lungo istante per pensare al guaio in cui i gemelli avevano potuto infilarsi quel giorno, ma alla fine decise di rimandare i pensieri ad un momento più consono.

«I vostri genitori vi stanno aspettando. Vostro padre mi ha chiesto questa mattina di fare in modo che la contessina non mancasse al pasto».

Yera lanciò un’occhiata al fratello, ancora steso sul letto, che le fece cenno di andare. Si mordicchiò l’interno della guancia prima di aprire definitivamente la porta ed uscire dalla camera.

«Meglio non farli aspettare. Accompagnami da loro, per favore».

 

Thaik non era uno di quei ragazzi meravigliosi di cui si legge nei libri, ma, di sicuro, sotto le zazzera mal tagliata di capelli color oro sporco, c'era un fascino che non poteva sfuggire agli occhi di una persona attenta. Alto e magro, aveva circa sei di anni in più dei gemelli e lavorava lì da quando ne avevano memoria. Molte delle persone che andavano a far visita al Conte restavano impressionati dalla semplice bellezza del servo. Soprattutto, erano molte le giovani ragazze che chiedevano ai padri o ai mariti di comprarlo, ostentando ragioni assurde e palesemente false per quelle voglie improvvise. Yera aveva sempre rifiutato di mandarlo via, fiera non solo di ciò che lui era, ma anche di ciò che significava per lei.

«Se c’è bisogno di qualcuno che faccia compagnia a Neil posso pensarci io per il momento». Yera alzò lo sguardo su Thaik mentre si allontanavano dalla stanza. «Sapete di poter contare su di me se ne avete bisogno».

Yera gli sorrise dolcemente: era grata all’atteggiamento paterno che quel ragazzo aveva nei confronti di Neil. «Potresti andarlo a controllare durante il pranzo? Credo abbia bisogno di aiuto per cambiarsi d’abito».

Thaik annuì, stringendo le labbra in un’espressione buffa. «Non dovete nemmeno chiedermelo, mia signora. Sarà fatto senza che nessun altro venga a saperlo».

Yera si sentì immediatamente sollevata. Non voleva che si spargesse per la casa la voce che Neil si facesse mettere i piedi in testa. E, soprattutto, non voleva che il padre lo venisse a sapere.

Barahel non era un uomo cattivo, anzi. Amava i suoi figli più di ogni altra cosa, ma era una persona severa come poche. Non avrebbe fatto correre un oltraggio del genere; non avrebbe avuto problemi a rimproverare crudelmente i figli e a farla pagare a chi aveva causato quel dolore a Neil.

Non era questo ciò di cui avevano bisogno.

 

La tranquillità apparente di Yera andò via via scemando ogni passo che faceva verso la camera da pranzo. Già da lontano, appena a metà della scalinata che portava al piano terra, Yera era riuscita a vedere qualcuno in piedi proprio accanto alle colonne te che sorreggevano il corrimano della scala.

Barahel stava cercando sua figlia praticamente da due sere prima. Non essendo riuscito a trovarla né il primo giorno né il secondo, l’aveva mandata a chiamare e ora si era messo lì davanti, appena appoggiato con la schiena ad una colonnina. Non che gli servisse sostegno: quell'uomo, nonostante avesse ormai superato da qualche anno la quarantina, era in forma smagliante. Le prime ciocche di capelli grigi e le rughe ai lati della bocca non avevano deturpato la bellezza severa di quel viso tagliente, molto più scolpito e duro rispetto a quello dei figli. Yera rallentò il passo alla sola vista dell'uomo e il sorriso che fino a pochi attimi prima aveva occupato le sue labbra lasciò il posto ad un'espressione vagamente preoccupata.

Congedò Thaik appena vide suo padre. Raggiunse Barahel col mento in alto e il passo di chi sarebbe pronto a conquistare il mondo, mascherando il disagio che provava in quel momento con un atteggiamento fiero. Alla sola vista di quello spettacolo, Barahel rise, allargando le braccia per accogliere Yera in un affettuoso abbraccio. Nulla che promettesse buono, contando il fatto che quelle scenette solitamente conducevano ad un compito non poco gravoso per chi si fosse trovato al posto della ragazza, ma almeno era sicura che non avesse scoperto nulla di ciò che era accaduto in città poco prima.

«Figlia mia» esordì con un sorriso fiero. Yera ricambiò, chinando leggermente il capo in segno di rispetto. I capelli erano gonfi per l'umidità che avevano catturato all’esterno, ma Barahel sembrò non darci peso quando poggiò un braccio intorno alle spalle della ragazza e iniziò a condurla per il lungo corridoio che conduceva all’entrata della sala da pranzo. «Come è andata, oggi?»

Yera sorrise imbarazzata, cercando di tenere il passo del padre. La differenza di altezza, in fondo, non era molta, ma lì per lì la giovane si trovò in difficoltà. «Una giornata come tante altre, non ho nulla di cui potermi lamentare. La vostra, padre?»

Il sorriso sul volto di Barahel si allargò e Yera sentì un senso di irrequietezza nello stomaco. Nulla di buono arriva, pensò mentre lui si fermava e le si poneva di fronte. «Un ottima giornata, grazie per il tuo interessamento. Ho delle buone notizie per la famiglia, speravo tu volessi ascoltarle». Yera si costrinse a elargire un sorriso di circostanza e ad annuire sotto gli occhi fiduciosi del padre. «Bene! Ho proprio bisogno di un aiuto nell'organizzazione di una serata molto importante. Vieni con me, abbiamo molto di cui parlare».

Yera seguì il padre per una serie di corridoi e passaggi che, in preda all'ansia, le sembrarono infiniti. Lui le parlava di feste, balli, divertimento e musica, ma la sua testa traduceva tutte queste nozioni in un'unica, tragica parola: guai.

Camminarono fino ad arrivare all'ufficio di Barahel, dove il conte usava incontrare le persone che gli chiedevano udienza. Era una stanza con una forma singolarmente ottagonale, con pareti stondate che davano l'idea di essere chiusi dentro una specie di uovo deformato. Le pareti altissime, decorate con affreschi su sfondi damascati, culminavano con una volta a cassettoni, dentro i quali era raffigurato lo stemma di famiglia. Sopra il raffinato tappeto esotico era appoggiata una massiccia scrivania di quercia, circondata da tre poltrone dallo schienale alto, tappezzate in pelle. 

Ad un segno del padre, Yera si sedette su una delle due sedie che davano la schiena alla porta, proprio di fronte a quella del Conte. Lui appoggiò i gomiti sul tavolo, guardando per qualche istante la figlia negli occhi. Yera si sentì perforata dall'intensità di quello sguardo e dovette abbassare il suo.

«Non sono mai stato un uomo superstizioso» esordì, tirandosi indietro sulla poltrona e appoggiando la schiena. «Ma ultimamente non riesco a far a meno di pensare a cosa sarebbe della nostra casata se mai dovesse succedermi qualcosa». Yera adesso lo stava guardando con sospetto, di sottecchi, mentre con le mani giocava con i numerosi anelli che aveva alle dita. «Presto ci sarà la festa annuale in onore di Rajas alla Capitale. Come consuetudine, il re ha indetto un ballo e invitato i nobili. Vorrei che tu venissi in modo da poter trovare insieme un buon partito per maritarti».

Yera quasi saltò sulla sedia, sconvolta dalla notizia appena ricevuta. Rimase per qualche secondo a fissarlo senza saper bene cosa dire o fare, balbettando qualche risposta che lasciava intendere quanto la cosa non la entusiasmasse minimamente.

Barahel alzò una mano per fermarla e scosse la testa. «Non pensare che la mia fosse una richiesta. Ho già preso la mia decisione. Avresti dovuto essere promessa a qualcuno già da anni ormai. Ti ho messo al corrente della mia scelta solo per rispetto nei tuoi confronti. Che tu voglia venire o meno, al mio ritorno avresti comunque uno sposo».

Yera rimase a bocca aperta. Aveva sempre pensato di avere una specie di controllo sulla sua vita, che da adulta come da bambina avrebbe avuto la possibilità di scegliere da sé ciò che la riguardasse.

«Potrei chiedere qual è il motivo di tale decisione?» domandò cercando di ricomporsi.

Barahel si alzò in piedi e prese a percorrere la lunghezza della stanza in avanti e indietro, facendo respiri profondi. La verità era che, in fondo, nemmeno lui avrebbe mai voluto prendere una decisione del genere. Yera era la sua bambina, il solo pensiero di vederla andar via dal nido che con tanta cura aveva costruito per i suoi figli gli spezzava il cuore. Qualche mese prima, però, una donna che avevano accolto a palazzo per una notte gli aveva rivelato una profezia riguardante il futuro della famiglia che l'aveva turbato non poco. A lungo aveva maledetto la sera in cui aveva accettato di far entrare quell'indovina, che aveva portato cattive notizie in quel piccolo paradiso che si era creato con le sue stesse mani in anni di duro lavoro, e che prima di lui suo padre aveva duramente mantenuto, e suo padre ancor prima. Aveva passato lunghi giorni a pensare e ripensare a quanto quella donna gli avesse detto, a come la sua vita stesse inesorabilmente arrivando ad un termine.

«Sarò sincero con te, figlia mia. Voglio che tutto questo sia tuo». Si fermò davanti ad una finestrella che dava sul giardino della magione, dalla quale si poteva ammirare una buona parte dei terreni della famiglia. «Non fraintendermi: amo te quanto amo tuo fratello. Ma so che con te i nostri averi saranno in mani sicure e ho bisogno di un erede a cui destinare il titolo nobiliare».

Yera abbassò lo sguardo, vinta dalla rabbia. Non poteva dire di non capire le ragioni del padre, ma di sicuro poteva odiarle. In tutta la sua vita non aveva mai sentito la necessità di affiancarsi a qualcuno, aveva sempre pensato che se prima o poi si sarebbe mai sposata sarebbe stato con la persona che avrebbe amato.

«Verrò con Voi, padre, ma alla condizione che Neil possa accompagnarci. Non ho intenzione di spostarmi da Ladomne senza di lui». 

Barahel sembrò valutare attentamente la risposta. Yera sapeva di averlo messo di fronte ad una scelta difficile: portare con sé Neil era sempre una scommessa con la fortuna. Nessuno avrebbe potuto prevedere come le cose per il suo animo ingenuo sarebbero andate.

Alla fine, comunque, Barahel accettò. Un poco la cosa servì a rassicurare Yera, ma non la aiutò a ingoiare l’ansia che quella notizia le aveva provocato. Dopo un lungo attimo di silenzio, Yera si alzò in piedi e si esibì in un mezzo inchino di rispetto.

«Col Vostro permesso, credo che mia madre ci stia aspettando. Vorrei andare da lei».

Barahel guardò attentamente sua figlia prima di avvicinarlesi. Le poggiò i palmi delle mani sul volto, fissando i suoi occhi scuri in quelli eterocromi della figlia. «Sei l'orgoglio della famiglia. Non dimenticarlo».

Yera accennò un sorriso, ricambiando lo sguardo del padre. Sapeva quanto lui tenesse ai progressi che aveva fatto in quegli anni, e sapeva quanto fosse fiero di poter chiamare quel fuoco vivo racchiuso in corpo umano sua figlia.

Barahel guardò uscire dalla stanza immobile al suo posto, mentre con la mente ritornava alla misteriosa donna che si era presentata al palazzo e alla profezia che gli aveva donato. Prese un respiro profondo e una pallina di oppio da masticare, per poi seguire l’esempio della figlia e raggiungerla in sala da pranzo. 

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