Tutta la mia vita su un foglio di carta, storia di una schiava liberata

di irene_alice
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** venduta ***
Capitolo 2: *** la strada verso casa ***
Capitolo 3: *** La villa ***
Capitolo 4: *** Il padrone ***
Capitolo 5: *** Il riflesso di me stessa ***
Capitolo 6: *** una casa vuota ***
Capitolo 7: *** baratto ***
Capitolo 8: *** il giardino ***



Capitolo 1
*** venduta ***


Venduta

Catene alle mani, un foglio appeso al collo con un prezzo, intorno a me una massa disordinata di persone, odore di fumo, urla, uomini che che si contendono gli schiavi più decenti, la maggior parte di noi non lo è, siamo stanchi, sporchi, vestiti poveramente, magri e malati, solo pochi di noi sono vendibili ma i mercanti di schiavi si ostinano a mostrarci alla gente.

Un uomo con un mantello scuro e un ampio cappuccio che gli copre il volto si avvicina, mi indica e allunga il denaro al mercante di schiavi, quello prende i soldi senza preoccuparsi minimamente di chi ci sia sotto il cappuccio, gli fa firmare il contratto, una copia la tiene, l'altra gliela dà, in questa città è legale la vendita di schiavi. Allunga all'uomo la catena che mi stringe e si volta per mettere via i soldi.

L'uomo piega con cura il foglio del contratto e lo infila in una tasca interna del mantello, poi vengo trascinata dall'altra parte della piazza e poi lungo una strada, l'uomo non mi tiene dalla catena ma stringendomi il braccio, le sue mani sono calde, io ho freddo. Percorriamo un numero indeterminato di vicoli, senza fermarci, l'uomo cammina veloce e io penso solo a non inciampare. Attraversiamo una delle parti peggiori della città, un tratto di periferia dove è impossibile passare senza incontrare almeno un paio di delinquenti. Ho paura, questo posto non mi piace, lui mi stringe più forte il braccio e aumenta ulteriormente l'andatura.

Man mano che procediamo le case si diradano, ora infondo alla strada si comincia a vedere la campagna. Abbiamo percorso chilometri e io sono stanchissima. L'uomo se ne accorge e rallenta finalmente il passo, ma non si ferma e continua a camminare lungo la strada.

Quando finalmente arriviamo in fondo, la strada si trasforma in un sentiero di ghiaia e più avanti solo di terra battuta. Ora stiamo camminando piano, ha pietà di me. Ora che sono uscita dalla città, dal caos e dal grigio, ora che mi trovo circondata dal verde, che posso vedere le montagne all'orizzonte e respiro aria pulita, mi rendo finalmente conto che sono stata venduta, non appartengo più ai mercanti di schiavi, ma ho un padrone, per me è cominciata una nuova vita.

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Capitolo 2
*** la strada verso casa ***


Percorremmo il sentiero di campagna molto più lentamente e potei osservare più attentamente ciò che mi circondava. La campagna era un altro mondo rispetto alla città, c'era più pace e gli unici suoni che sentivo erano quelli dei nostri passi, il fruscio del vento tra le fronde di alberi lontani e il ronzio di qualche insetto di passaggio. Fin'ora nessuno di noi due aveva detto una parola, a me, come schiava, non era permesso parlare ma il suo silenzio, così prolungato suscitava in me due sensazioni opposte. Da una parte mi rassicurava, tra i mercanti di schiavi sembrava fosse d'obbligo urlare ordini e prezzi tutto il giorno e la folla faceva del suo meglio per peggiorare la situazione. Erano anni ormai che non sentivo un tale silenzio, se non di notte, e questo mi dava un enorme sollievo. Dall'altra parte però il suo mutismo non mi permetteva di capire chi potesse essere la persona che mi aveva cambiato la vita per sempre, non mi aveva rivolto nè parole di conforto nè di rimprovero, non potevo indovinare la sua età, anche se dalle sue mani, l'unica cosa che potevo vedere di lui, non sembrava vecchio. Spesso la voce di una persona può rivelare molte cose su di essa. Sarebbe cambiato molto se avesse avuto una voce dura e brusca o pacata. Avrei potuto anche solo supporre come avrebbe potuto essere il mio futuro.

La sua figura era terribilmente misteriosa, non potevo sentire la sua voce e non potevo vedere il suo viso. La trovavo una cosa insopportabile, nei lunghi anni del mio passato ero stata costretta a rimanere immobile per delle ore in attesa di qualcosa, questo mi aveva permesso di osservare con attenzione tutto ciò che mi circondava, soprattutto le persone, e cercavo di cogliere tutto il possibile su di loro soffermandomi ad osservarne i tratti. Era stato il mio passatempo per tutta una vita e ora non mi era permesso sapere nulla.

La solitudine non significa obbligatoriamente essere soli ma ci si può sentire soli anche in mezzo ad una folla, quando nessuno ti considera, o ti considera merce nel mio caso. Quando nessuno parla con te, ti passa davanti senza degnarti di uno sguardo, o ti passa di fianco urtandoti come se non ti avesse neanche visto e, senza scusarsi minimamente, va dritto per la sua strada come niente fosse. Quando qualcuno sorride, saluta o chiama nella tua direzione e tu non rispondi perché automaticamente sai che c'è qualcun altro dietro di te a cui è indirizzato il saluto. Allora la confusione intorno a te si fa omogenea, un forte ronzio continuo. E la nostra mente si chiude in se stessa e crea al proprio interno un altro mondo, un mondo creato dall'immaginazione, e quel mondo ti salva da tutto ciò che c'è fuori, la nostra mente diventa uno spettatore passivo del mondo esterno e si rifugia all'interno di se stessa. E ogni volta che vi ci si rifugia, quel mondo interno si allarga e si espande con nuove fantasie e nuovi sogni e in quei momenti il mondo reale diventa secondario.

Una volta che ci si abitua a questo stile di vita il pensiero soppianta completamente la parola e ci si ritrova invasi da discorsi, pensieri e domande mentali. In quel momento mi stava succedendo esattamente questo e la mia testa era invasa soprattutto da una miriade di domande e interrogativi. La sicurezza e il senso di protezione che l'uomo emanava sovrastavano però la mia soggezione e il mistero che lo circondava.

Immersa nei miei pensieri non avevo nemmeno fatto caso alla stanchezza e alla strada percorsa che in quel momento mi crollarono addosso e mi resi conto che esistevano anche le mie gambe indolenzite oltre alla moltitudine dei miei pensieri.

Eravamo nei pressi di un boschetto e il sentiero lo costeggiava. Sembrava che ci fosse ancora un bel pezzo di strada da fare ma per fortuna l'uomo cominciò a rallentare e, addentratosi un poco nel boschetto, mi fece segno di sedermi su una roccia lì accanto. Mentre io mi riposavo egli prese, con mia grande sorpresa, le chiavi che aprivano il lucchetto della catena e l'aprì lasciandola cadere alla base della roccia. Poi si allontanò un poco e guardò avanti, dandomi le spalle, una mano appoggiata ad un albero. Restò così, a guardare l'orizzonte, mentre io lo osservavo ancora stupita per ciò che aveva fatto. Non ero mai stata senza il peso della catena addosso e inoltre, se avessi voluto, avrei potuto fuggire quando volevo, ma evidentemente egli sapeva che non sarei fuggita dall'uomo che mi aveva appena liberata da un peso che mi aveva gravato addosso per tutta la vita. Si fidava di me. Mi sembrava impossibile.

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Capitolo 3
*** La villa ***


La villa

Dopo qualche minuto l'uomo si girò e mi fece cenno di alzarmi, io mi alzai e lo raggiunsi. Egli ricominciò a camminare senza voltarsi a vedere se lo seguissi e io mi avviai dietro di lui dopo aver gettato un ultimo sguardo alla catena che era rimasta a terra. Aveva ricominciato a camminare veloce ma io non avevo più la catena che mi teneva legata a lui e potevo guardarmi intorno anche camminando svelta senza la paura di inciampare. Sulla destra avevamo la campagna e alle spalle la città non si vedeva quasi più, davanti a noi il bosco, che il sentiero costeggiava sulla sinistra, creava una curva impedendo di scorgere cosa vi fosse oltre. Il bosco era ben curato, c'erano alberi grandi e antichi e alberi più giovani, poco più alti di noi, l'erba non era troppo alta e non c'erano piante infestanti che opprimessero le altre. Fiori di campo crescevano qua e là completando quel quadro.

Finalmente oltre la curva apparve una villetta e il mio padrone vi si diresse, i suoi passi rallentarono e così parve fare il tempo. Il davanti della villa, rivolto verso di noi, dava sulla campagna, come anche il suo lato destro, mentre l'altro lato era separato dal bosco solo da un tratto d'erba, sul retro invece si scorgeva un giardino molto grande e pieno di fiori di tutti i tipi. Poi il mio sguardo si soffermò sulla villa, era grande ma non enorme, era color rosa antico ma affreschi floreali la adornavano ai lati e in alto. C'era un portone centrale di legno scuro, intarsiato anch'esso con motivi floreali, era affiancato ad una certa distanza da altre due porte in legno più piccole e semplici. Ai lati del portone c'erano due grandi vasi da cui nascevano due piante rampicanti che formavano elegantemente un arco attorno al portone e grandi fiori rosa spuntavano tra le lucide foglie verde scuro.

Ai lati della villa vi erano due piccole aiuole circolari colme di fiori colorati e delimitate da grandi ciottoli chiari.

Man mano che osservavo i vari particolari cresceva in me la certezza che in quella casa sarei stata bene, qualunque fosse stato il mio lavoro.

Mi accorsi però che in quel luogo non si vedeva nessuno, nessun servitore al lavoro, nessuno che ci venisse incontro, non si vedeva anima viva, e quel silenzio tipico della campagna che mi aveva tanto rincuorata, adesso cominciava a pesarmi.

Ci avvicinammo a una delle due porte laterali, l'uomo tirò fuori da dentro il mantello un grande mazzo di chiavi e giunto davanti alla porta ne infilò una nella toppa ed entrò scomparendo nel buio dell'interno. Mi avviai lentamente dietro di lui e quando varcai la soglia il buio mi avvolse, feci qualche passo avanti e sbattendo gli occhi cercai di abituarmi all'oscurità. La porta si chiuse piano dietro di me e poco dopo una fioca luce proveniente da una lampada si diffuse dolcemente nella stanza. Io rimasi immobile davanti alla soglia mentre il mio padrone si avvicinava al mobile dove era appoggiata la lampada, prese da dentro il mantello degli oggetti e li ripose in un cassetto del mobile, poi sfilò da una tasca interna il contratto dei mercanti di schiavi e lo pose bene in vista sul ripiano. Si allontanò poi verso una delle due finestre della stanza e aprì gli scuri lasciando finalmente entrare un po' di luce. L'altra finestra rimase chiusa.

Venne lentamente verso l'armadio che c'era vicino alla porta, lo aprì con la chiave che era già inserita e si tolse il mantello, lo appese con cura e richiuse l'armadio. Poi finalmente si volse verso di me.

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Capitolo 4
*** Il padrone ***


Tutto quello che avevo pensato di lui in precedenza in quel momento crollò. Avevo provato a immaginare un uomo di mezza età vestito elegantemente e un viso severo che mi scrutava dall'alto, avevo pensato ad un padrone con uno sguardo dolce che mi avrebbe trattata bene, avevo messo in conto anche la possibilità di trovarmi difronte un uomo cattivo che mi avrebbe sfruttata per i lavori più duri. Ma colui che mi trovavo davanti non incuteva alcun timore né mi faceva sorridere dal sollievo. Mi trovavo davanti a un ragazzo, un ragazzo che poteva avere al massimo diciotto anni, era alto, magro, indossava un paio di pantaloni sgualciti e una camicia di un azzurro chiarissimo, con le maniche larghe che si restringevano sui polsi. Aveva i capelli biondi, mossi, che gli ricadevano sul viso, un viso magro, scarno, ma con dei bei lineamenti, ciò che mi colpì maggiormente però furono i suoi occhi, aveva gli occhi verdi, ma la sua espressione era triste e malinconica, sembrava che non avesse mai sorriso in vita sua, e che avesse sempre vissuto solo in quella grande casa vuota e solitaria.

Mi vergognai per la mia espressione incredula e abbassai lo sguardo, ma probabilmente egli aveva già immaginato come sarebbe stata la mia reazione e senza scomporsi mi ordinò: “vieni”. Era la prima volta che udivo la sua voce, aveva un tono per nulla autoritario, come se non avesse bisogno di dimostrare a nessuno di essere il capo, io ero una schiava, era naturale che avrebbe comandato lui e in effetti oltre a me non c'era nessun altro a cui dimostrare qualunque cosa. Ne fui definitivamente certa quando lo seguii nel grande atrio nel quale entrammo uscendo dalla piccola stanza, non si sentiva un solo scricchiolio, tutta la casa era avvolta nel silenzio più totale. “mi ci sono appena trasferito” spiegò. Ci fermammo davanti a una grande rampa di scale. Poi si volse verso di me: “mi puoi parlare per chiamarmi, per rispondere alle mie domande e per chiedermi cose importanti, se non lo sono, non aspettarti una risposta. Salendo questa scala si arriva alle camere, la tua è l'ultima a destra, la penultima a sinistra è la mia e l'ultimo è il mio studio, dentro a queste due ci puoi entrare solo con il mio permesso”. Poi ci spostammo al centro della sala. Da una parte c'era il grande portone centrale che si vedeva anche dall'esterno e difronte, dall'altra parte della sala, c'era un altra grande porta che il padrone mi indicò “da quella porta si accede all'ala nord dove tu non puoi entrare mai. Là invece,” disse indicando una terza porta “ci sono i salotti, la biblioteca, la sala da pranzo e la cucina, tutte stanze dove puoi entrare quando vuoi, se però entri nella biblioteca ricordati di mantenere l'ordine, non voglio vedere un solo volume fuori posto”. Ci avvicinammo nuovamente alla scala, “ora vai in camera tua, quando entri, sulla destra troverai la porta del bagno”. Il padrone si allontanò, ma io avevo una domanda importante da fargli: “mi sarà possibile avere dei vestiti puliti?” chiesi, lui si voltò a guardarmi, poi, senza rispondere, uscì dalla stanza chiudendo piano la porta.

Allora salii le scale e raggiunsi la mia stanza, dopo un momento di esitazione aprii la porta ed entrai. Era abbastanza spaziosa con una grande finestra coperta da due graziose tendine azzurre, ma era spoglia, quasi vuota, c'era solo un letto sulla sinistra un tavolino con una sedia accanto alla finestra e una cassettiera vicino alla porta del bagno. Mi avviai da quella parte per risciacquarmi un po' dopo tutta quella strada a piedi. Quando entrai vidi su una sedia vicino al lavandino dei vestiti puliti. Contro l'altra parete c'era una specchiera, all'interno c'erano dei morbidi asciugamani rosa, sopra invece vi erano appoggiati una spazzola, un pettine e dei colorati nastri per capelli. Sorrisi, sorrisi per la prima volta dopo tanto tempo.

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Capitolo 5
*** Il riflesso di me stessa ***


Avvicinandomi alla specchiera scorsi con la coda dell'occhio la mia immagine riflessa ma distolsi subito lo sguardo, non volevo vedermi.

L'acqua della doccia era calda, il sapone profumato, mi ripromisi di bruciare i miei vecchi abiti da schiava il prima possibile. Mi insaponai e mi risciacquai più volte, sia il corpo che i capelli. Mi sentivo una principessa, scendendo dalla doccia appoggiai i piedi sul morbido tappetino e mi avvolsi nell'asciugamano rosa. Mi sforzai di non pensare alle rare volte che mi ero lavata prima di arrivare in quella casa, non c'erano paragoni, e io non ne feci, avevo altro a cui pensare, degli abiti nuovi, i primi abiti nuovi di tutta la mia vita, mi aspettavano sulla sedia accanto. La biancheria era comoda, pulita e esattamente della mia misura, la indossai. La canottiera era un po' più lunga del necessario, ma a me andava benissimo, sembrava che mi accarezzasse la pelle, riscaldandomi. Poi presi tra le mani una camicetta rosa con le maniche lunghe fino ai gomiti e dei fiorellini ricamati sui bordi. Mi sembrava elegantissima dopo essermi dovuta mettere gli abiti sporchi e rovinati da schiava, in effetti anche adesso lo ero ma evidentemente il mio padrone desiderava che fossi decorosa come ogni altra cosa nella sua casa elegante. La gonna era lunga e blu e infondo vi erano alcuni fiorellini rosa che riprendevano il colore della camicetta. Non avevo nulla da mettere ai piedi ma guardando i miei vecchi e sporchi scarponi preferii rimanere scalza. Mi pettinai i capelli, erano pieni di nodi, e ci misi molto tempo prima di poter passare la spazzola senza che si incastrasse dopo solo qualche centimetro. Poi presi un fiocco blu e mi feci una coda, ma subito dopo la disfai, mi piaceva sentirmi i capelli profumati e morbidi intorno al viso. Finalmente mi guardai allo specchio, mi ero quasi dimenticata di come fossi realmente, probabilmente non ero mai stata pulita e vestita in modo accettabile. Non ero quasi in grado di riconoscere la mia immagine riflessa nello specchio. Incorniciata dal legno della specchiera vi era una ragazza che dimostrava finalmente i suoi quindici anni senza quelle treccine obbligatorie per tenere a posto i capelli e sembrare più carina ai compratori, senza quei vestitini infantili smessi da chissà quante altre ragazzine e soprattutto senza quel perenne visino triste che avevo sempre intravisto nella serie di pentole appena lucidate dalle mie mani stanche. Ora vedevo un viso disteso e calmo, due occhi azzurri che sembravano brillare, dei morbidi capelli biondi che mi sfioravano le spalle, volevo farli crescere, non mi era mai stato permesso, ma ora sapevo che al mio padrone non importava cosa ne facessi, mi sentivo finalmente padrona della mia vita. O quasi. Ricordai d'un tratto quel foglio messo in bella mostra sul mobile nell'entrata. Lì sopra c'era scritto che io ero una schiava. Mi riscossi subito e scostando il viso dallo specchio corsi a piedi nudi fuori dal bagno in preda alla paura, avevo perso troppo tempo? Avrei dovuto lavorare? Forse si aspettava che mi facessi trovare pronta dopo pochi minuti.

Due ballerine rosa mi aspettavano davanti alla porta del bagno, le presi tra le mani mentre udivo dei passi che si allontanavano scendendo le scale. Non avevo motivo di essere in ansia, quella giornata era tutta per me.

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Capitolo 6
*** una casa vuota ***


Dopo aver indossato le scarpe nuove mi guardai attorno, avrei voluto stendermi un poco a letto per riposare ma dopo tutte le gentilezze che avevo ricevuto decisi di uscire in cerca del padrone per chiedergli che cosa avrei dovuto fare. Quella era una domanda sensata e speravo che questa volta mi avrebbe risposto anche se non mi sembrava la persona più loquace che avessi conosciuto. Uscii dalla mia stanza e mi avviai verso le scale, una volta scesa al piano di sotto cominciai a cercarlo ma evidentemente non si aspettava che io avessi bisogno di parlargli, non era nell'atrio, non era in salotto né in biblioteca. Così tornai sui miei passi ed entrai in cucina, era una stanza molto grande e tutto era pulito e in ordine. Passai un po' di tempo ad aprire i vari sportelli e cassetti dei mobili per cominciare ad orientarmi, probabilmente avrei passato in quella stanza gran parte delle mie giornate. Passò del tempo e ancora non sentivo i passi del padrone, così decisi di andare a vedere le altre stanze e se l'avessi sentito avvicinarsi gli avrei chiesto quello che gli dovevo chiedere, sempre che non si arrabbiasse perché ero uscita dalla mia stanza. Ma non riuscivo proprio ad immaginarlo con un viso diverso da quello triste che gli avevo visto le prime volte. Entrai nel salotto. Era la stanza più elegante che avessi mai visto, non che ne avessi viste molte, ma quella sicuramente lo era. Vi era un grande divano e varie poltroncine ricoperti di un'elegante stoffa a motivi floreali, su un tavolo erano posati alcuni libri e su altri mobili appoggiati alle pareti erano posati oggetti d'argento che donavano alla sala un aspetto nobile. Mi avvicinai ad una poltrona e sfiorai la morbida stoffa, poi mi accostai alle grandi finestre, erano avvolte in enormi tende che ricadevano morbide su un gradone sottostante dove erano sparsi dei grossi cuscini. Stavo per scostare la tenda quando due battiti alla porta mi riportarono alla realtà, mi voltai velocemente e spostandomi dalla finestra mi addossai al muro abbassando gli occhi per l'imbarazzo di essere stata sorpresa in quell'atteggiamento. Il padrone si sedette su una delle poltrone, quella vicino al tavolo e, cosa che non potei fare a meno di notare, la più grande. Sfiorando con una mano i libri posati accanto a lui, tenne per un momento lo sguardo perso in basso, poi parve destarsi e mi guardò con grande serietà “come ti chiami?” mi chiese, in quel momento mi sentii come persa, ed egli stesso sembrava aver formulato con fatica quella che in realtà poteva essere la domanda più banale, ma non pronunciavo il mio nome né era stato pronunciato da altri forse da anni, era quasi scomparso dalla mia memoria, ma era pur sempre il mio nome e non ci mise molto a tornare a galla. Passò un momento di silenzio nel quale i suoi occhi verdi erano puntati su di me. “Elisa” risposi finalmente.

“E quanti anni hai?”

“Quindici, signore” la mia curiosità mi spingeva a porgli la stessa domanda ma sapevo perfettamente che non era il caso.

Venni poi a sapere che la domanda riguardante i miei doveri che poco prima avrei voluto fargli era abbastanza importante da meritare una risposta perchè fu egli stesso che decise, con mio grande sollievo, di parlarne. Seguì infatti una dettagliata descrizione di ciò che da quel giorno in poi mi avrebbe riempito le giornate, vi erano delle particolari mansioni che avrei avuto tutti i giorni, altre invece che mi sarebbero state comunicate di giorno in giorno. Non osai fare domande limitandomi ad appuntarmi mentalmente gli orari che dovevo ricordare.

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Capitolo 7
*** baratto ***


Ci fu un momento di pausa in cui il padrone sembrò riflettere su qualcosa, alla fine decise di parlare e ciò che disse mi stupì tanto che non fui nemmeno in grado di aprire bocca per ringraziare. Cominciai a pensare che avrei dovuto cominciare ad abituarmi alle gentilezze di cui mi circondava, anche se mi facevano sentire in imbarazzo. La proposta che mi aveva appena fatto era infatti una sorta di paga settimanale, anche se la mia condizione di schiavitù non me lo avrebbe permesso ma il padrone era lui e, in effetti, non mi avrebbe dato del denaro. La sua proposta infatti era quella di un baratto, in cambio dei miei lavori lui mi avrebbe dato un oggetto ogni settimana, non aveva specificato di cosa si sarebbe trattato ma io ero felice comunque, non avevo mai posseduto nulla e ora anche solo un mozzicone di matita mi avrebbe fatta sentire una principessa. L'unica cosa che gli sembrò necessario specificare, e io non feci obiezioni, fu che per un mese non avrei ricevuto nulla a causa dei vestiti che già indossavo e degli altri oggetti che avevo a disposizione.

Alla fine di questo lungo colloquio il padrone si alzò e lasciò la stanza senza aggiungere altro e non ricomparve fino alla sera.

Io avevo ricevuto l'ordine di preparare una cena, dopo avergli assicurato che sapevo cucinare, così mi spostai in cucina e, poiché avevo molto tempo a disposizione, feci le cose con calma e meglio che potevo, apparecchiando nella sala da pranzo e mettendo l'unico posto a capo tavola come mi era stato ordinato. La sala era molto elegante ma un elemento stonava nell'armonia del luogo: nel centro della tavola vi era un grande vaso di vetro vuoto, sembrava che dovesse contenere dei fiori che però non c'erano, mi dava un senso di solitudine e tristezza che aleggiava in tutta la casa ma solitamente era ben simulata dall'eleganza delle sale e dai colori gradevoli. Rimasi ferma a guardarlo per qualche momento, poi mi ridestai e tornai in cucina per preparare la cena.

Quella sera mangiai gli avanzi, scoprii che il padrone mangiava molto poco e imparai che le volte successive avrei dovuto preparare molto meno perchè non avanzasse anche a me.

Dopo cena il padrone sparì ancora ma, dopo aver riordinato la cucina e la sala da pranzo, scoprii dal rumore di una sedia che si era rifugiato in biblioteca, non avendo altro da fare decisi di andare in camera mia e provare a riposare. Addormentarmi quella sera non fu semplice come pensavo, mille pensieri mi affollavano la mente e mi ci vollero almenno un paio d'ore per esaurirli e riuscire, finalmente, a scivolare nel sonno.

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Capitolo 8
*** il giardino ***


Le due settimane successive passarono in modo molto monotono, la mattina mi svegliavo molto presto, essendovi stata abituata in quella vita che consideravo ormai passata e lontanissima, poi dopo aver mangiato e preparato la colazione al padrone, trascorrevo la mattinata a mantenere pulite tutte le stanze, che pulivo a rotazione nelle varie giornate. Poi, dopo aver preparato il pranzo e riordinato quel che c'era da riordinare, non essendoci più nulla da fare passavo i miei pomeriggi o davanti alla finestra del salotto o in biblioteca dove sfogliavo quei pochi libri con le figure tra tutti quelli che erano poggiati sugli scaffali, ricordandomi di volta in volta da dove li avevo presi per poterli rimettere esattamente nello stesso posto. Dalla finestra del salotto invece vedevo un grande prato e alcuni alberi in lontananza, seguivo i movimemti degli uccellini o delle formiche sul davanzale e passavo così anche pomeriggi interi. Sembrava che il padrone, che la mattina scompariva chissà dove per riapparire solo per ora di pranzo, volesse mettere alla prova la mia pazienza di schiava abituata a lavorare di continuo, e io speravo che questa prova non durasse molto e che i primi oggetti che arei ricevuto sarebbero serviti a passare il tempo in modo più utile.

Una mattina, mentre stavo spolverando gli scaffali della biblioteca il padrone entrò e mi ordinò di seguirlo. Mi condusse alla porta laterale, non quella da dove eravamo entrati il primo giorno ma quella dall'altra parte del portone. Appena uscii fui accecata dalla luce del sole ma poi poco a poco mi abituai e cominciai a guardarmi attorno, era una bella giornata e sentivo il calore del sole che mi accarezzava la pelle e mi scaldava i capelli mentre camminavamo per raggiungere l'altro lato della casa. Appena girammo l'angolo rimasi a bocca aperta, fui improvvisamente sommersa da un'ondata di colori e profumi, si estendeva davanti a me un vastissimo giardino, sulla sinistra due enormi alberi secolari delimitavano il bosco e alla loro base erano circondati da due aiuole ridondanti di fiori colorati, e tra le due vi era un lungo filare di rose di varietà differenti e colme di boccioli dei colori più diversi, dal rosso intenso, al giallo, al rosa, al bianco candido e tutte le tonalità che stavano tra questi. Altre aiuole di forme diverse formavano dei piccoli sentieri ed erano delimitate da piccole siepi basse e verde scuro. Al centro di alcune di esse vi erano alberi da frutta ricoperti di fiori bianchi e rosa i cui petali cadendo andavano a variegare ulteriormente i colori delle aiuole. Il tutto era tenuto perfettamente e l'erba che cresceva nei sentieri era perfettamente tagliata e di un verde brillante come se nessun vi avesse mai camminato. Quest ultima constatazione mi mise un poco di malinconia ma la scordai subito quando il padrone si girò verso di me e mi fece segno di seguirlo fio ad una panchina di pietra che prima non avevo notato e che stava nascosta diertro un'enorme pianta di ortensie.

“puoi venirci quando vuoi” disse e tornò poi a passo veloce alla porta laterale, come se volesse fare in modo che io rimanessi dov'ero, ed entrando socchiuse la porta. Io mi sedetti sulla panchina scaldata dal sole e vi rimasi ad guardare ciò che mi circondava, sorridendo per la bellezza dei colori. Non mi accorgevo dello scorrere del tempo e restavo accoccolata lì ad osservare ogni minimo particoare. Ad un certo punto però fui risvegliata dai miei sogni dal cigolio della porta che si apriva, mi voltai subito e corsi dentro appena in tempo perscorgere l'ombra del padrone che scompariva in un corridoio. Mi affrettai verso la cucina e scoprii che mi aveva chiamata appena in tempo per preparare il pranzo. Allora mi misi subito al lavoro e infine riuscii a fare tutto per tempo e quel giorno gli avanzi furono particolarmente buoni, perchè avevano in se il sapore della gratitudine.

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