Insonnia

di KeyLimner
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Le notti del delirio ***
Capitolo 2: *** Il muro e il silenzio ***
Capitolo 3: *** Un altro sorso di camomilla ***
Capitolo 4: *** Carthago delenda est ***
Capitolo 5: *** La mia nuda verità sul mondo ***



Capitolo 1
*** Le notti del delirio ***


Anche il demonio
adesso
ha imparato a scrivere.
Mi scrive lunghe lettere,
le notti del delirio.
Il suo alfabeto è semplice,
ma non le sue parole.
Gelido il suo abbraccio.
Spietato
il suo criterio.

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Capitolo 2
*** Il muro e il silenzio ***


Ore 23:32.
Silvia lascia ricadere i suoi cinquantasei chili esausti sul materasso. Ha i capelli ancora umidi. Ha studiato fino alle 23:17 e si è infilata sotto la doccia alle 23:20. Non aveva neanche più le forze per finire di asciugarli.
Le coltri sembrano così soffici. Non le pare vero di potersi finalmente abbandonare al loro abbraccio. È stata una giornata stancante: se l’è meritato quel riposo. Domani finalmente si leverà di torno quella fottuta interrogazione di italiano, poi avrà tutto il pomeriggio per rilassarsi e per cominciare a studiare il copione che le ha dato Stefano, e la sera potrà andare al diciottesimo di Ilenia tranquilla e riposata. Non sa ancora cosa mettersi, ma non è un problema, troverà sicuramente qualcosa. Chissà, forse conoscerà anche un ragazzo interessante. Sta già immaginando la sua faccia. I suoi lineamenti, il suo sorriso… le sue braccia forti che le cingono la vita quando la invita a ballare…
Cullata da quei pensieri, sta per sprofondare nell’abbraccio di Morfeo, quando all’improvviso…
Sobbalza.
Un rumore sommesso, ma inconfondibile. Proviene dalla camera di Matteo, proprio accanto alla sua.
Suo padre che russa.
Che diamine ci fa lì? Poi si ricorda che suo fratello Matteo è rimasto a vedere Sanremo con la mamma in camera da letto. Deve essersi addormentato sul lettone.
Accidenti. Non ci voleva.
Cerca di ignorarlo. Si tira le coperte fin sopra le orecchie, sforzandosi di concentrare l’attenzione su qualcos’altro… Ma niente.
Alla fine si alza di scatto. Va in corridoio, chiude la porta della stanza e torna a ficcarsi sotto le coperte. Ma quel russare insopportabile continua a entrare prepotentemente attraverso la sottile parete di cartongesso che separa le due camere.
Chiude gli occhi, pensando che a un certo punto il sonno avrà la meglio e cesserà di sentirlo. Niente da fare: quel suono continua a trapanarle il cervello, e non c’è verso di escluderlo dalla mente. Si avvolge ancora di più il lenzuolo intorno al capo. Deve dormire, altrimenti domani sarà uno straccio. Deve dormire, deve dormire…
A un certo punto apre gli occhi e guarda la radiosveglia sul comodino. L’1:17.
Si sente invadere dalla rabbia. L’aveva detto lei, quando avevano fatto i lavori a casa, che mettere la sua camera e quella di Matteo vicine non era una buona idea. E infatti due sere su tre le toccava discutere con suo fratello perché spegnesse la televisione. E adesso ci si metteva pure suo padre. Ma perché diamine non era andato a dormire sul divano? Sapeva che lei aveva il sonno leggero.
Non sa che fare. In un primo momento è tentata di andarlo a svegliare, ma poi si sente in colpa: poverino, ha lavorato tutto il giorno, è stanco. Non è giusto che vada a disturbarlo. Il muro che li separa sembra una barriera invalicabile. Eppure il suo russare involontario la supera senza pudore, invadendo il suo spazio… la sua quiete…
Accende la luce. Si alza e va in camera da letto, ma - com’era prevedibile - sua madre e suo fratello dormono della grossa. Torna in camera. Si siede sul materasso.
L’1:41.
Sente che sta per avere una crisi isterica.
Alla fine agguanta il cuscino e la coperta e decide di andarsene in soggiorno. Si butta sul divano, e subito è pervasa da una calda sensazione di sollievo: non si sente più un fiato.
Appoggia la testa sul cuscino, pronta a riprendere il suo incontro ravvicinato con Morfeo da dove era stato interrotto. Ma non appena si è sistemata per bene e scende finalmente il silenzio… si accorge che non c’è affatto silenzio. Il ticchettio dell’orologio da parete le rimbomba nelle orecchie come un tamburo. Fa da sottofondo il ronzio del frigo. Normalmente quei rumori non le danno fastidio: c’è talmente abituata che non ci fa più neanche caso. Ma ormai è così vigile che anche il minimo fruscio le fa salire i nervi a fior di pelle.
Impreca. Torna in camera. Il russare di suo padre prosegue imperterrito, anzi, è anche aumentato di volume. Quando lo sente, lacrime di frustrazione iniziano a scorrerle lungo le guance.
Le 2:54.
Domani sarà uno zombie. L’interrogazione andrà di merda. Non riuscirà a concludere un tubo il pomeriggio, e lunedì Stefano la rimprovererà per non aver imparato la parte. Alla festa starà in trance per tutto il tempo. Avrà due brutte occhiaie violacee fino al mento e passerà il tempo a guardare l’orologio in attesa della fine dello strazio. In più, non troverà niente da mettersi. Non avrà mai tempo di andarsi a comprare qualcosa, e finirà per vestirsi come una barbona - al solito -, mentre tutti gli altri saranno sicuramente elegantissimi.
I capelli ormai si sono asciugati. Dall’altra parte del muro, suo padre continua a russare.
Basta.
Furibonda, si alza e spalanca la porta della camera. Nella penombra, vede il lenzuolo alzarsi e abbassarsi a tempo con quel rantolo fragoroso.
«Papà».
Risponde un grugnito inarticolato. Il lenzuolo non si muove.
«Papà», ripete Silvia, con più decisione.
L’uomo mugola con aria insofferente e si gira dall’altra parte.
«Che c’è?», risponde dopo un po’ con voce assonnata.
«O la pianti di russare o te ne vai. Vorrei dormire anch’io, se non ti dispiace».
Sbuffa.
Silvia resta in attesa sulla porta, a braccia conserte.
Dopo un po’ suo padre si alza di malavoglia e si trascina in cucina con la coperta e il cuscino sotto braccio.
Lei lo segue con lo sguardo, poi se ne torna in camera a grandi passi.
Finalmente.
Si butta sotto le coperte - per la centesima volta quella sera. Per la centesima volta, chiude gli occhi.
Ma non riesce a dormire.
Improvvisamente, il silenzio è diventato assordante. Le fischia nelle orecchie. Oltre il muro, la camera è spaventosamente vuota.
Accende di nuovo la luce. Guarda la sveglia.
Le 3:26.
L’interrogazione andrà di merda. Non riuscirà a combinare un tubo. La festa sarà un disastro.
La sua vita fa schifo.

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Capitolo 3
*** Un altro sorso di camomilla ***


“Lei era imperdonabile”.
Una frase insignificante. Imbarazzantemente insignificante. Imperdonabilmente insignificante - se consentite il gioco di parole.
Ogni sillaba di quei tre insulsi vocaboli le infondeva un profondo senso di fastidio. Per non parlare del tratto irregolare, sbilenco che le sottolineava, così diverso dalla striscia netta con cui lei soleva marcare tutti i suoi libri…
Un sorso di camomilla.
Poteva scorgere con tutta la precisione di un ricordo mai avuto la sagoma della sua mano mentre si avvicinava alla pagina, il polso esile che accompagnava il movimento delle dita serrate con insufficiente saldezza attorno alla penna blu. Una penna.
Una penna, maledizione!
Mai… mai Cristina avrebbe osato avvicinare la punta di una penna alle sacre pagine di un libro. E la cosa peggiore non era la portata del sacrilegio in sé, ma la leggerezza, l’imperdonabile leggerezza con cui esso doveva essere stato commesso. Sapeva che, se le avesse detto una cosa del genere, lei avrebbe probabilmente alzato gli occhi al cielo, liquidando in tal modo quella che non avrebbe avuto difficoltà a considerare una semplice stravaganza dell’amica.
“Quanto la fai lunga…”.
Il tratto incerto della penna aveva lo stesso colore di quella voce: acuto, squillante. Un po’ stridulo.
Insopportabile.
Un altro sorso di camomilla.
Era davvero incredibile, pensò Cristina. Era incredibile la sua capacità di soffermarsi proprio sulla cosa più futile, quando aveva a disposizione un così vasto ventaglio di possibilità. Sfogliando le pagine del romanzo, più volte Cristina aveva dovuto resistere all’impulso di immortalare un prezioso frammento di una spettacolare descrizione, di un raffinato ritratto psicologico. Tutte quelle frasi meravigliose erano state brutalmente ignorate da lei. Poteva vedere con dolorosa precisione i suoi occhi scorrere rapidamente attraverso intere sezioni dal sapore indimenticabile, e infine fermarsi proprio lì, dove campeggiava con fierezza sorniona una frase che conteneva in modo sintetico… scarno… privo di qualunque valore artistico… il concetto così mirabilmente espresso nelle pagine precedenti.
Emily era così.
Non è che non cogliesse la bellezza: ma la coglieva sempre in ritardo, quando era già finita. Si perdeva tutto il preambolo. Quello senza il quale il resto non aveva alcun senso.
Come quella frase. “Lei era imperdonabile”.
Ciò che la mandava in bestia era… che era proprio quello il punto! Quella frase era un riassunto perfetto di pagine e pagine di narrazione appassionata. Ma per uno sfortunato caso, era anche quella che sicuramente lei non avrebbe mai scritto, e men che meno sottolineato. Perché se nello scrivere c’era qualcosa di inconsapevole - un po’ meno colpevole, insomma… che poteva essere facilmente perdonato -, sottolineare quella piccola rozzezza era infinitamente peggio: era una deliberata mancanza di buon gusto.
Un altro sorso di camomilla.
Era già abbastanza brutto, per Cristina, essere costretta a leggere un libro non suo, su cui non poteva fare orecchie, non poteva lasciare un proprio segno da recuperare in seguito per rintracciare la parte di lei che ve l’aveva lasciato. Ma peggio ancora era dover vedere il segno indecente del passaggio di qualcun altro.
Perché aveva chiesto ad Emily di prestarle il libro? Sarebbe stato di gran lunga meglio andare in libreria e comprarselo. Molto più pulito e indolore. Il suo atto doveva essere stato dettato da una forma di insano masochismo.
Un altro sorso di camomilla.
Il liquido caldo le scese faticosamente giù lungo la gola, come uno stuolo di rospi viscidi.
Era davvero disgustoso.
Lanciò un’occhiata alla tisana, e constatò ancora una volta, quasi divertita, il contrasto che esisteva tra il suo colore vivace, giallognolo, lievemente aranciato quando era particolarmente forte, ma che sul fondo assumeva una sfumatura vicina al verde… e il suo sapore intollerabile.
Ogni sorso le appariva come una sorta di autopunizione. Poteva ripercorrerne il cammino giù lungo l’esofago fino alla bocca dello stomaco, dove lo sentiva espandersi per raggiungere tutti i suoi più remoti anfratti. Come si muoveva, avvertiva gli spostamenti di quella massa gorgogliante che la colmava interamente. Quella sensazione accresceva il suo ribrezzo.
Tutto, pur di riuscire ad addormentarsi.
Era disposta a trangugiare litri di quell’orrida brodaglia nella speranza di conquistare un solo brandello del tanto agognato sonno. Non l’aveva neanche zuccherata per cercare di migliorarne il sapore: sarebbe stato ridicolo. Una presa per i fondelli.
Ma non stava funzionando.
Aveva preso fra le mani il libro sperando di suscitare in sé stessa un po’ di stanchezza tramite la lettura, così aveva lasciato scorrere pigramente gli occhi attraverso le righe di testo, senza un reale interesse per ciò che leggeva. Ma ad ogni minuto che passava, cresceva la sua irritazione. I suoi pensieri vagavano, sfuggendo impertinenti al tracciato in cui cercava di costringerli. Giungeva in fondo a una pagina rendendosi conto di non aver afferrato un accidente del suo contenuto. Quando poi si trovò di fronte a quella frase maledetta, i suoi occhi vi si inchiodarono e parvero non essere più in grado di andare avanti. L’insofferenza aveva ormai raggiunto l’apice.
Un altro sorso di camomilla.
Al diavolo.
Cristina abbandonò il libro sul comodino. Non si preoccupò di segnare il punto dove era arrivata. Tanto era inutile.
Fissò il soffitto senza più cercare di ingannarsi. Ormai rassegnata, lasciò che il tempo fatto scorrere inutilmente le penetrasse sotto la pelle come un morbo silenzioso, colmandola del suo aroma pestilenziale, del suo soffocante senso di impotenza.
Un’altra notte insonne.

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Capitolo 4
*** Carthago delenda est ***


Se fosse in grado di offrirmi il lusso di qualche prodotto raffinato, se potesse donarmi anche una sola goccia del succo degli incantevoli frutti che crescono nel giardino dell’Arte… allora forse accetterei come un dono gradito quest’ansia che mi attanaglia.
Allora forse potrei sentirmi in qualche modo purificata dalla morsa che mi serra le viscere, dissipando i pochi stralci di sonno che la mia mente aveva trattenuto per coprire la tremenda nudità della notte. Purificata da quella stessa morsa che mi costringe - senza possibilità di svicolare - a guardare dritto in faccia le mostruose fattezze del buio. Il suo orribile ghigno.
Ma le ore si dipanano come un maglione sfilacciato, tirato pigramente per un capo. Sono costretta ad assistere allo svolgersi di ogni singolo minuto. Anche se cerco di ignorarne il passaggio, le ore mi sfilano sotto il naso in una sfacciata processione di scherno. E da quelle ore, da quei minuti, niente germoglia se non un irrimediabile tedio.
Il tempo della mia insonnia è sterile come il suolo di Cartagine.
“Carthago delenda est”.
Cartagine deve essere distrutta.
Così queste mura. Questi macigni inutili, che sbarrano il passo a tutti gli eserciti venuti a portare promesse di un futuro migliore e più prospero.
Non ho più niente da proteggere. Oltre le mura, solo un giardino di ortiche, e una terra coperta di sale.
Ma non sono ancora pronta a lasciarmi conquistare. Non posso permettere che la terra che ho saturato del mio seme fino a farle perdere del tutto la fertilità venga coltivata da altre mani, da altre braccia. Già mi vedo, nell’angolo, intenta a raccogliere i cardi della mia sconfitta. E la loro immagine fa male… perché so che sono molto più belli del mazzo avvizzito che ho fra le mani adesso.

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Capitolo 5
*** La mia nuda verità sul mondo ***


Ore 4:48 del mattino.
Non c’è luce, men che meno tra i miei pensieri. Il sonno che dovrebbe curarmi non arriva… Il sonno ristoratore, che lava le ferite del passato e trascina il dolore lungo il suo corso, fino alla foce.
Forse è per questo che non dimentico. E non smetto mai di pensarci, qualunque sia l’oggetto di questo pensare. Perché la gente dorme e dimentica, e smette di soffrire: io non dormo e ricordo, e sto male per tutto il male dell’umanità, per tutti quelli che non ho potuto aiutare, e per tutti quelli che non ho aiutato pur potendo. Allora devo raccontarmi la favola che odio l’umanità e la sua ridicola parata di ipocrisie, e devo raccontarmi che è una folla piena di maschere indifferenti, solo perché in realtà ricordo tutte le facce con dolorosa precisione.
Ogni sguardo mi ferisce il volto. Ogni schiena mi respinge.
E il buio non mi abbraccia: mi stritola fra le sue spire. Mi porta via le illusioni del giorno, e non ci sono sogni felici a rimpiazzarle, ma solo quella nuda verità distorta che mi distrugge.
Nel buio svanisce il tepore di quelle braccia amiche. Nel buio non credi e non puoi credere, e odi chi crede perché può sperare anche nel buio. Dov’è la luce di Dio? Non ho bisogno di lui all’alba, quando posso ancora raccontarmi che tutto ha un senso, ma nelle tenebre in cui non esistono Dio né il demonio.
Nelle tenebre in cui sono sola, con la mia nuda verità sul mondo.

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