Appuntamento all'inferno. di Robszeru (/viewuser.php?uid=978551)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La selva oscura ***
Capitolo 2: *** La spada di Leonida ***
Capitolo 3: *** Il cataclisma diabolico ***
Capitolo 4: *** Il disordine infernale ***
Capitolo 1 *** La selva oscura ***
Appuntamento all'inferno Capitolo 1. La selva oscura
"Il
mondo è caduto, le tenebre hanno preso il sopravvento, il
male
dell'inferno si rovescerà sulla terra. Catone mi ha tradito,
il
motivo ancora non lo scorgo ma qualcosa ha causato il suo folle gesto.
La distruzione del purgatorio comporterà eventi che non
siamo
ingrado di prevedere, che non siamo in grado di fronteggiare, e gli
uomini sono troppo deboli per capire da che parte schierarsi. Abbiamo
bisogno di un'idea, abbiamo bisogno di qualcosa che lui non ha, una
vita, solo una vita può sconfiggere la morte, solo un'anima
ancora nella sua casa fatta di carne ed ossa, solo un'anima
caratterizzata da onore e coraggio. Ciò che è
stato
è stato, ciò che succederà dipende da
noi. Ora,
miei angeli, andate e fermate per quanto potete il male nel suo cono di
tenebre e oscurità."
Nel mezzo del cammin di nostra
vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la dritta via era
smarrita
Sbaglierei
se iniziassi il mio racconto in questo modo, e non per un sol motivo.
Ma il motivo che più influenza questo punto del racconto
è un fatto temporale, ovvero che io non mi trovo nel mezzo
del
cammino della mia vita, ben si un decennio prima dell'età a
cui
si riferisce questo celebre verso. Tuttavia ricordo
solo il calar della notte fonda ed io segnato dalla serata, tornavo a
casa barcollando. Tanto era il sonno e la stanchezza che crollai per
terra senza neanche concepire come successe.
Mi
svegliai forse qualche ora dopo. Frastornato e confuso mi guardai le
mani, sporche di terreno umido e maleodorante. Alzai il capo verso
l'alto e mi accorsi che sopra di me i rami degli alberi s'intrecciavano
come a formare un tetto naturale, che mi impediva di scorgere il cielo.
Le radici monumentali si piantavano al suolo quasi con violenza, come
se quegli alberi fossero aggrappati al terreno viscido e irregolare. La
fitta rete di querce nascondeva la profondità di quella
foresta
putrida e copriva ogni squarcio di luce che per pochi attimi riuscivo a
cogliere. Mi sembrava quasi di non riuscire a respirare. Nel silenzio
spettrale potevo sentire di tanto in tanto degli strani versi
animaleschi, inquietanti e senza una precisa provenienza. Nell'aria era
visibile uno strato di umidità che pareva colorarsi di rosso
ogni volta che qualche raggio di sole riusciva a penetrare l'intreccio
di rami. La puzza nauseabonda di putrefazione mi provocava un certo
malessere, così decisi che dovevo trovare il modo di tornare
alla luce, alla salvezza.
Cominciai
a correre per quanto potevo, cercando di non affondare troppo i passi
nel terreno spesso e pesante, e di evitare le grosse radici che
sporgevano da quel che pareva un mare nero. Più volte
inciampai
e il mio viso toccò quel terreno in più
occasioni,
macchiandosi di paura. Ma non persi la speranza, mi alzavo e
ricominciavo a
correre, dovevo uscire da quel posto di cui ignoravo l'ingresso e il
modo con cui vi entrai. Finalmente dinanzi a me, un fascio di luce mi
colpì gli occhi, e prima che potessi perderlo mi fiondai
nella
direzione in cui nasceva. Più andavo avanti più
il fascio
cresceva, fino a che non riuscì a vedere una via d'uscita
che si
colorava della luce del sole. Mi lasciai alle spalle il buio pesto,
davanti avevo la salvezza e l'incoronazione della speranza mai persa, e
della tenacia.
Appena
misi il piede davanti all'ultimo arbusto che mi separava dalla luce,
balzò con una velocità sovrannaturale davanti a
me una
creatura selvaggia, una lince. L'animale con i piedi ben piantati per
terra puntava lo sguardo verso di me, la sua postura era quella di un
predatore che aveva in trappola la sua preda, e il suo manto era folto
e ben pulito pur essendo un animale selvaggio. I colori della bestia
erano sorprendentemente vivi, e nei suoi occhi riuscivo quasi a
scorgere la sete di sangue. Io caddi per terra tanto
era lo spavento, e con l'aiuto delle mani strisciavo indetro un
pò alla volta. La creatura mi fissava attenta pronta a
tendermi
un agguato, ma non mi attaccava, quasi sembrava che stesse cercando di
farmi ritornare nella foresta come in realtà stavo
già
facendo. Appena toccai il terreno viscido con le mani, ne strinsi un
pò in un pugno e senza neanche riflettere, glielo lanciai
sugli
occhi per poi cercare di dileguarmi. La bestia però non ci
cascò del tutto e prima che io potessi scappare, mi
afferrò il braccio destro con la bocca staccandomi brandelli
di
carne. La paura era tanta che anche il dolore venne meno, ma la
creatura accecata dal terreno non riuscì completamente a
fermarmi, e sanguinante scappai da quella delicata situazione.
Cercavo
di costeggiare i fianchi della foresta per non perdere la luce
seminascosta da una collina, che poggiava le sue pendici sui confini
della selva. Spaventato e ferito a un arto, avanzavo a fatica cercando
di trovare un posto famigliare che mi permetesse di orientarmi, e di
trovare la via di casa. Camminavo con la testa china strigendomi il
braccio ferito e fù li che udiì un rumore
violento, il
ruggito di un leone. Mi nascosi tempestivamente dietro ad un masso e
sporsi la testa per cercare la fonte di quel grido di battaglia.
Proprio un Leone uscì dalla selva, e la sua
maestosità
era tale che il suo corpo quasi illuminava la strada su cui poggiava le
grandi zampe. Quella reale bestia era così grande, troppo
per un
normale leone, e la sua criniera lucente non presentava imperfezioni.
Un esemplare perfetto. Non sembrava lì per caso, cercava
qualcosa,
annusava ruggiva anche a basse frequenze, ascoltava la terra con le sue
zampe, e manteneva la sua posizione come un soldato pronto a difendere
il suo re. Io affannato osservai la scena con stupore, il braccio mi
faceva davvero male, sentivo di diventare sempre più debole
e la
vista di un feroce predatore non mi aiutava.
Un
tonfo richiamò la mia attenzione, un grosso arbusto si
staccò dalle sue radici, e da sotto una lupa dall'aspetto
mal
concio e i denti macchiati di sangue, si scagliò con
disperazione contro il leone. La situazione mi era ormai chiara. Il
leone stava difendendo il suo territorio e attendeva il suo nemico
pronto a combattere, mentre la lupa affamata cercava qualcosa da
mangiare e si spinse troppo nel territorio del leone stesso. La
battaglia tra le due belve fù inevitabile. Le due bestie che
avevano dimensioni ben più grandi di quelle a cui noi umani
siamo abituati, si scontrarono a suon di graffi e morsi, attimi di
tregua utili a studiare l'avversario, e con movimenti ben coordinati si
attaccavano. Il suolo sotto di loro soffriva le numerose cadute che
capitavano ad entrambe le belve. Nel mezzo di quella lotta
sanguinolenta il leone, molto più possente della lupa,
l'afferrò per il collo con i suoi denti e la
gettò vicino
al masso dov'ero nascosto. Le due bestie erano talmente concentrate a
battersi tra di loro che non fiutarono la mia presenza. Dovevo mettermi
in salvo o lo scontro avrebbe coinvolto anche me con un finale tragico.
L'unica mia salvezza sarebbe stata quella di tornare
nell'oscurità della
selva e allontanarmi il più possibile. Così feci
dopo che
lo scontro portò le due belve ad allontanarsi un
pò,
accucciato e in silenzio sgattaiolai dal mio nascondiglio di nuovo
nella foresta, sperando che le due bestie non mi notassero.
Ero
disperato, spaventato, la mia speranza di ritrovare la strada di casa
si riduceva a vista d'occhio e come se non bastasse perdevo sangue. Mi
inginocchiai e cascai per terra, ancora. Cominciai a pensare,
perchè mi trovavo lì, dov'ero, avrei rivisto
ancora i
miei cari, i miei amici? Cominciai a crogiolarmi nel mio dolore e
chiusi
gli occhi sperando che tutto ciò fosse solo un brutto incubo.
Un
rumore metallico stuzzicò le mie orecchie, alzai la testa
lentamente e guardai di fronte a me. C'era una luce, non una luce
solare ma qualcosa di più mistico che in qualche modo
provocava
quel rumore. La luce si faceva sempre più viva tanto da
dovermi
coprire gli occhi ancora abituati al buio, e una figura prese forma al
centro del raggio. Una figura umana. Neanche quella vista mi
tranquillizzò dopo quello che avevo passato, ma mi alzai,
sempre
tenendomi il braccio dolorante, e mi preparai a ricevere quell'uomo che
pareva
camminare nella luce. Prima che potessi scoprire l'anatomia del suo
viso, lui Parlò "sono sorpreso, ma avrei dovuto
aspettarmelo,
tante cose sono cambiate, persino questa selva è diventata
più faticosa". Mentre farneticava la luce si riduceva e
riuscì a vederla, la sua faccia, una fisionomia non nuova ai
miei occhi ma che non riuscivo a ricollegare a nessuno che conoscessi
di persona. "Chi sei?" gli chiesi, "sono colui che venne prima, colui
che descrisse agli uomini le terre dopo il trapasso, colui che da vivo
vide la dannazione, la redenzione e la beatificazione, guidato dal
massimo poeta corressi il mio destino ma non quello del mondo.
Fallimentare fù il mio tentativo al cospetto della
volontà divina, ma colui che mi chiamò non si
arrese come
il sottoscritto, cercò il suo secondo tentativo, e lo
trovò. Ora giaci segnato al mio cospetto, ma non temere,
sono
qui per darti le risposte che cerchi" mi spiegò. Io
frastornato
gli chiesi ancora "perchè mi trovo qui? Cos'è
questo
posto?" e lui "tu conosci già la risposta ma non ne hai
scorto
il motivo, tu sai chi sono, ma non lo realizzi, tu hai appreso la via,
ma hai paura. Le risposte che cerchi sono nella tua tasca". Mi guardai
attorno ancora una volta, e poi mi toccai la
tasca destra, era piena. Ne tirai fuori il contenuto, e
scoprì una rosa di
spine, i petali emanavano una luce rossastra e le spine piangevano
gocce di sangue, come il veleno dal pungiglione di uno scorpione.
Improvvisamente tutto mi fù più chiaro. "Non sei
un folle
e non lo sei mai stato, ma sei stato ingannato. Tuttavia, la tua poca
fede non ti ha precluso dall'essere prescelto, l'inganno ai tuoi danni
è stato congeniato proprio per la tua sincera
umanità e
sensibilità" mi disse con tono da maestro, ed io replicai
"non ho
mai voluto che succedesse, ma non ho avuto scelta, la sofferenza era
tanta!" e lui mi rispose "sarà ancor di più se
non farai
niente per liberarti dall'oscurità".
Riconobbi
l'uomo che mi parlava, era Dante Alighieri, e il destino e le mie
azioni in qualche modo, mi portarono dove lui mosse i suoi primi passi
verso la sua celebre impresa, la selva oscura. Lui era molto
più
alto di me e i suoi vestiti erano proprio come tutti i dipinti lo
ricordano. In qualche modo le sue parole enigmatiche mi portarono a
cogliere il significato di tutto quello che mi era accaduto. La rosa
che portavo nella mia tasca ne era una prova, e osservandola, tutto mi
tornò nella mente come un lampo di luce negli occhi. Mi ero
liberato del sentimento più forte che un uomo possa provare,
l'amore, e lo avevo riversato in forma di sangue in quella rosa,
l'unico oggetto che tenevo
in mano quando successe. "E' stato per colpa di una ragazza, soffrivo
troppo per lei" dissi io, e prima che potessi continuare il sommo mi
interruppe e disse, "non una ragazza ha mai avuto tale potere,
poichè solo un essere può nutrirsi di tanta
sofferenza e
non rigurgitarla. Ciò che ti ha fatto perdere la strada
è
stato un artifizio diabolico, una creatura infernale, un demone del re
dei dannati, che ha preso sembianze umane servendosi di una ragazza e
ha corrotto i tuoi sentimenti". La ragazza di cui raccontava Dante e
che io prima di lui citai,
riuscì ad aprirmi il cuore con la sua dolcezza e con la sua
bellezza. La sua chioma rosso splendente era sintomo del potere che
risedeva nella sua anima e pian piano, cominciò a nutrirsi
del
mio amore e della mia energia positiva. Il nome della ragazza era
Giorgia. "Aprire il cuore per buttarci
dentro il veleno!" esclamò il poeta. L'artifizio di cui
parlava
Dante una volta compiuto il suo volere, abbandonò il suo
ospite
inacidendo il suo animo, e il suo aspetto. "Ora nella città
dannata pieno di potere risiede, con tutto ciò che di buono
ti
apparteneva" Disse il sommo rivolgendosi al demone, e
continuò
"così come il mondo che ha perso i suoi martiri vanamente e
ora
risiedono tra i dannati sperando che l'umanità risponda ai
loro
insegnamenti, per rovesciare il giudizio divino" e io gli chiesi "cosa
devo fare sommo?", e lui mi rispose posandomi la mano sulla spalla
"devi prima
salvare te stesso. L'inganno diabolico ti ha oscurato l'anima ma
finchè terrai la rosa con te, avrai speranza". Il sommo mi
spiegò che nella rosa c'era il mio amore caricato di energia
negativa, un sentimento molto forte che può causare
sofferenza a
chi lo prova, ma che in qualche modo spaventa le creature
più
ripugnanti. "Se quella rosa dovesse finire nelle luride mani del
demone, o del suo creatore in persona, per te non ci sarebbe
più
nulla da fare, continuerai a vivere dimenticando l'amore, e un'altra
divina impresa fallirà" mi spiegò il sommo, "come
posso
rimediare?" gli chiesi scoraggiato e lui fece un sospiro e
cominciò "ancora una volta sentirò i loro
lamenti, ancora
una volta dovrò assaporare la paura della dannazione, ancora
una
volta sarò al cospetto delle atrocità di cui si
serve la
giustizia divina, ancora una volta dovrò guardare negli
occhi
l'oscurità incarnata in un essere maledetto e dannato dalla
mano
di Dio in persona, ma che non smette ancor di portare terrore. Ti
aiuterò ragazzo, e ti guiderò nella
città dolente,
ti traccerò la strada nelle viscere dell'inferno,
perchè
tu possa vedere e toccar con mano la giustizia divina, e quanto questa
possa essere spietata ma giusta! Ti mostrerò i nove cerchi
della
dannazione, inversamente proporzionali tra grandezza e
gravità
dei peccati, arriveremo nel cerchio più basso e costringerai
Lucifero a mostrare il suo demone, così che tu possa mettere
fine ai suoi respiri e riprenderti ciò che è
tuo!". Io
fui per un attimo spaventato e affascinato, ma l'impresa pareva assai
ardua, e come la nascita di un campo di grano in una ripresa ad alta
velocità, così le domande mi sovrastarono la
mente;
"sommo, come farò a convincere Lucifero a mostrare il suo
demone? Come ucciderò il demone?" e lui che
cominciò a
mostrarmi la direzione, si voltò ancora verso di me e mi
disse
con aria speranzosa "Te lo mostrerò", e poi dalla sua veste
estraette un libro il quale mi porse con genitilezza, e
continuò
a dire, "Questo è il tuo diario, nel quale racconterai la
tua
impresa, e se vorrai potrai scriverci le tue memorie di vita passata".
Fui lusingato del dono che il poeta mi avanzò,
poichè
quel diario simboleggiava l'esortazione del sommo nei miei confronti, a
raccontare di un'altra divina impresa, come lui stesso fece a suo
tempo. Quasi non mi sentivo degno di questa sorta di staffetta passata
proprio tra le mie mani, e mi domandavo se anche Dante prima di me,
avesse provato gli stessi sentimenti, la stessa sensazione di non
essere pronto per un'avventura simile, non per paura, ma per
rispetto a chi ancora in vita merita tale onore. Il fardello del
destino dell'umanità, o ciò che di buono era
rimasto, ora
era nelle mie mani.
Io ero fermo ad ammirare il diario donatomi che aveva la copertina di
pelle nera, fino a quando Dante attirò la mia attenzione
dicendomi "avanza ragazzo, la strada è lunga!".
Dante mosse i suoi passi nella direzione opposta alla
collina dove vi trovai le bestie, ed io diedi uno sguardo indietro
un'altra volta,
come a voler vedere la luce del sole prima di scendere
nell'oscurità, poi seguì il sommo.
Mi
affiancai a lui sempre tenendomi il braccio ferito. Dante si
fermò, mi strappò la manica destra della felpa e
me
l'avvolse attorno alla ferita per cercare di fermare il sangue, e disse
"la mia guida arrivò prima a prendermi, fui più
fortunato" io lo guardai grato e lui continuò "dovrai
guarirla
se dovrai brandire una spada".
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Capitolo 2 *** La spada di Leonida ***
Un
sogno o un incubo? Verità o realtà? Lungo il
cammino tortuoso della selva, Dante mi illuminò su alcuni
argomenti filosofici che aveva maturato dall'aldilà
osservando il mio mondo. Una discussione nata alla vista di una strana
creatura, non pericolosa o agressiva, ma simbolica e singolare, e
dall'aspetto piuttosto malconcio. "Dimmi sommo, cos'è quella
creatura?" chiesi al poeta, e lui con lo sguardo colmo di rancore mi
spiegò "era un bradipo una volta, il suo prezioso sapere lo
ha consumato. Vedi, lui vedeva ciò che ad altri sfugge, la
cosidetta verità, quel mondo che si cela dietro la
realtà, quel momento in cui ci troviamo soli con noi stessi
e ci chiediamo se abbiamo risposto bene a delle domande, se fossimo ben
vestiti, se avessimo potuto fare di più per apparire come
ciò che vorremmo che la gente vedesse in noi, una
realtà costruita sul nostro viso che ha fatto di noi degli
attori in questo mondo. Molti sono vittime di questo circolo vizioso
ignorando che le cose più importanti sono ben altre, alcuni
provano piacere nel celarsi dietro la realtà
perchè si vergognano della verità o la temono, e
altri conoscono il vero ma non lo vivono. Quei pochi come te che hanno
abbandonato le abitudini futili della realtà, non fanno
molto per istruire gli altri a fare lo stesso perchè credono
che non capirebbero o semplicemente per pigrizia, anzi, spesso vi
immedesimate in loro per il timore di essere presi per emarginati.
Quella creatura simboleggia la tua colpa, il tuo peccato, l'errore di
aver avuto paura di mostrare ad altri il tuo sapere ed il tuo esserti
crogiolato in esso con la stessa pigrizia di quel che resta di quel
bradipo, finendo poi per amare la tua solitudine".
Ecco,
ora sapevo perchè il sommo quando ha mosso prima di me i
suoi passi nel mare nero riempì il suo cuore di dubbi, ma
lui fù un uomo importante in vita, poeta, filosofo, politico
non chè cavaliere, tuttavia i suoi dubbi erano fondati. Chi
prima di lui attraversò l'aldilà da vivo
compì in vita azioni memorabili. "Dimmi sommo, non intendo
offendere la volontà divina, ma una domanda mi punzecchia la
mente, se tu uomo politico e filosofo fosti scelto, perchè
ora l'onnipotente sceglie me, infedele, peccatore e senza nessun titolo
onorevole?" e lui mi rispose ancora una volta fermando la nostra
marcia, "fui sorpreso al nostro incontro, io mi ritrovai in queste
terre in un'età matura e piena di esperienza, eppur il mio
animo non fù pronto per intraprendere il viaggio. I tuoi
dubbi sono umani ma non esistono contrapposizioni alla
volontà divina, poichè egli scioglie un nodo oggi
per ricomporne due domani. Il male si è diffuso tra la tua
gente, nel tuo mondo. Le cariche che siedono al dì sopra non
agiscono come benefattori e la corruzione ha raggiunto il limite. La
grazia divina ha dovuto cercare nei meandri del mondo per trovare
qualcuno che ancora avesse il cuor puro e spinto da una motivazione
personale. Egli vide in te un'anima pura ma macchiata
dall'oscurità e decise, combattermo il fuoco con il fuoco".
Concentrai
ancora una volta il mio sguardo verso il bradipo che ancora giaceva
lì sofferente, e dissi "sommo, non mi coprirò di
vergogna come quella creatura, non sceglierò la
neutralità, ora che l'onnipotente mi chiama devo rispondere,
e se servirà a salvare il mondo, darò la mia
stessa vita". Dante accennò un sorriso e riavviò
la nostra marcia. La mia mente pian piano ragionava su alcune parole e
frasi costruite dalla mia guida, e con alcune domane cercai di
congiungere i punti, "sommo, mi hai parlato di una spada" e lui disse
"non così in fretta ragazzo, chi vivrà
vedrà". Deluso dalla sua risposta formulai un'altra domanda,
"sommo, cosa intendevi quando dicevi che le cariche che stanno al
dì sopra nel mio mondo non agiscono per il bene?" e lui "la
curiosità non è peccato, tuttavia ci
può portare a destini crudeli, e alle volte le cose vanno
scoperte al momento giusto". A quel punto non mi permisi di formulare
altri quesiti dato che la sua ultima risposta l'avrebbe potuta
utilizzare per qualsiasi altra domanda.
Improvvisamente
la selva si fece meno aspra e fitta e il terreno più secco e
praticabile. Una luce attirò l'attenzione della mia guida
che si voltò verso di me e mi disse "eccola! Siamo
arrivati". Lui con la sua mano mi aprì la strada verso la
luce e io la raggiunsi. Era una teca di vetro e la luce nasceva dal suo
contenuto, una spada con delle incisioni quasi incomprensibili sulla
lama. Poggiai la mano sul vetro della teca e questo si
tramutò in cenere. Quei finissimi filamenti di cristallo si
riunirono tutti sulle incisioni sulla lama, fino a che quest'ultime si
ravvivarono di un'intensa luce bluastra. Presi il manico della spada e
la sollevai, contemplai quelle strane incisioni che ora parevano
più chiare, e notai che in realtà era greco
antico. Dante mi disse a gran voce "quella spada si presenta con le
gesta che ha compiuto!", io replicai "è già stata
brandita quindi" e lui mi confermò facendomi un gesto con il
capo e assumendo una strana espressione soddisfatta. Chiesi ancora al
poeta "cosa dicono le scritte?" e lui cominciò "la mano di
un re mi ha agitato, la stessa mano che guidò i trecento
verso la morte, e che per questo divenne leggenda, la stessa mano che
non ha tradito il suo onore pur essendo stato costretto a farlo, la
stessa mano che diede la vita per la sua patria". Io riflettei sulle
sue parole "re, leggenda, trecento, greco antico", conoscevo
già il suo precedente possessore ma faticavo a crederci, e
prima che potessi sollevare ogni dubbio Dante mi disse, "questa spada
è stata brandita da Leonida I, re spartano che condusse i
suoi trecento uomini nella battaglia delle Termopili contro il vasto
esercito persiano di Serse. Egli sapeva bene di andare incontro a morte
certa, ma ciò non lo fermò convinto che il suo
gesto avrebbe dato la forza e il coraggio alla Grecia per respingere
l'invasione persiana. Non vendette mai la sua patria nonostante le
promesse lusinghiere di Serse, e impugnando la sua spada, Leonida gli
dichiarò guerra. Quando il re spartano morì il
suo spirito si avvinghiò alla spada che teneva in mano, e
questa ne assorbì il potere, un potere fatto della stessa
materia di cui sono fatti onore e coraggio, forza e dolore,
così da quel momento la spada divenne una sacra reliquia".
Io stentavo a credere a tutto ciò, tenevo nella mia mano
un'oggetto pregiato, secolare, che racchiudeva in sè la
storia, se ci avvicinavo l'orecchio potevo quasi sentire le urla di
Leonida. Chiesi al poeta "sommo, ma come mai ora si trova qui?" e lui a
me "è un dono della grazia divina con il quale potrai ferire
l'artifizio diabolico, e magari ucciderlo". Alla sua risposta fui
pervaso da vari sentimenti contrastanti, ma la mia mente dubbiosa non
venne meno neanche questa volta, così dissi alla mia guida
"sommo, nella mia epoca non è diffusa la scherma, non ho mai
preso in mano una spada fin ora, non so utilizzarla" e lui con sguardo
rassicurante replicò "lo ben so ragazzo, tuttavia io so come
si brandisce una spada e ti insegnerò. Durante il viaggio
nella città dolente saremo costretti a fermarci e in quei
momenti ci alleneremo", così io lo ringraziai con sincera
gratitudine. Non vedevo l'ora di apprendere la scherma dalla mia guida
che sarebbe diventata il mio maestro, non stavo nella pelle al pensiero
di vedere Dante duellare, così gli chiesi ancora "dimmi
sommo, come hai imparato a duellare?" e lui mi rispose "nella mia epoca
era quasi una tradizione di famiglia la scherma, e quando mi esiliarono
ebbi tempo per affinare la mia tecnica". Mi immaginavo che Dante
essendo un uomo intelligente e paziente, preferisse una tecnica
più attendista, con pochi colpi ma giusti. Accanto al
piedistallo dove sedeva la spada, c'era il suo fodero, lo presi, riposi
la reliquia all'interno e proseguimmo il cammino.
Mentre
camminavo la mia mente cominciò a formulare nuovamente
dubbi, mi chiedevo se fossi stato pronto al momento giusto, se la spada
mi sarebbe davvero servita per compiere la volontà divina,
se io fossi stato degno della reliquia donatami. Pensavo al fallimento
e ciò che avrebbe scatenato, mi sarei perso, il mondo intero
si sarebbe perso... tutto in totale anarchia.
Oltre
ai dubbi e pensieri, cominciai a sentire la stanchezza, spesso avevo
fitte alla mano ferita, mi capitava di sentire un bruciante dolore al
petto che si faceva sempre più forte man mano che ci
avvicinavamo alle porte dell'inferno. Improvvisamente però,
il dolore al petto divenne insopportabile, tanto che richiamai
l'attenzione del poeta " sommo, ho bisogno di fermarmi", mi accasciai
per terra, la vista cominciò a scarseggiare e l'udito a
venir meno. Per un momento fui convinto che stessi per perdere i sensi,
quando ad un battito di palpebre mi ritrovai in un altro posto, casa
mia. Ero nel mio letto completamente nudo, i muri della mia stanza
pareva che ondeggiassero e c'era un intenso profumo di rose. Nel letto
coperto di petali rossi, c'era una ragazza dalla chioma anch'essa rossa
e splendente, la stessa ragazza scelta dall'artifizio diabolico per
ingannarmi, bellissima con una carnagione chiara e le forme del corpo
attraenti. Lei, nuda come me stesa sul fianco dandomi le spalle, si
voltò guardandomi con espressione dolce e mi disse "cosa
c'è amore mio?". La sua voce era flautesca, incantevole,
tanto che per un attimo dimenticai la selva, Dante e la mia impresa. La
ragazza mise la sua mano dietro la mia testa e mi baciò, in
un modo che non si dimentica facilmente, un bacio che ha il sapore
dell'amore, un sentimento di cui ne avevo dimenticato l'essenza. Mi
guardò ancora e io gli sorrisi, il mio cuore sperava che
tutto ciò fosse realtà, che non stavo sognando e
che la selva fosse solo un brutto ricordo. Ma improvvisamente sul viso
della ragazza apparvero dei tribali, i suoi occhi diventarono
completamente neri e le sue labbra si trasformarono in denti aguzzi, le
sue mani si riempirono di squame e mi disse con voce stridula e non
più dolce "non mi ami più? Non mi ami
più!?". La stanza cominciò ad oscurarsi e la
ragazza trasformata ormai in un mostro orrendo, sedeva sopra di me
bloccandomi le spalle e gridandomi contro, finchè non
sentì una voce che mi gridava "ragazzo! Ragazzo!!". Mi
svegliai ancora nella selva con Dante, che mi stava tenendo la testa.
"Cosa è successo sommo?" gli chiesi io agitato e sudato, e
lui a me "non ne sono sicuro, ho visto la tua rosa che splendeva
più del solito mentre avevi perso i sensi, forse lui
sà", ed io che cercavo di riprendere il respiro gli chiesi
"lui chi? Cosa sa? Cosa stai dicendo?". Dante che era sulle ginocchia
vicino a me, si alzò e disse "ragazzo dobbiamo andare, non
possiamo più perdere tempo", così mi
aiutò ad alzarmi e supportandomi ricominciammo a camminare a
passo svelto.
Ora
i possenti alberi della foresta sembravano senza vita, spogli e
scoloriti, e la mia mano che mi pulsava dolorosamente non mi dava pace.
Aggrappato alla mia guida, gli domandai "sommo, non posso farcela
così, non riesco ad andare oltre" e lui determinato non mi
ascoltò e senza rispondermi continuò a camminare
e a trascinarmi. Ormai muovevo le gambe per inerzia e sentivo di avere
la testa pesante, camminavo con lo sguardo inchiodato a terra e notai
che il sangue che perdevo tracciava la nostra via. Alzai lo sguardo per
un attimo e fù li che le vidi, delle ombre, sagome scure
incappucciate che si muovevano velocemente da albero ad albero. Mi
guardai attorno e notai che eravamo circondati da questi strani esseri,
così cercai di avvisare il poeta "sommo, le ombre ci stanno
inseguendo!!" e lui mi lasciò per terra tempestivamente,
sguainò la mia spada e con un coordinato movimento,
parò l'attacco di un'ombra che brandiva anch'essa una spada.
Dante duellò agevolmente con quell'essere di cui riuscivo a
scorgere chiaramente solo le sue mani nere e putride che agitavano la
spada, il resto del corpo era quasi areiforme e alle volte intravedevo
il suo viso che assomigliava ad un teschio senza pelle. Dante
riuscì a scacciare l'ombra ma altre si fecero avanti,
praticamente ad accerchiare il poeta che si muoveva accanto a me per
difendermi. La situazione si fece tragica, le ombre si avvicinavano
sempre di più, eravamo spacciati, quando senza preavviso un
cavallo bianco che emanava una luce accecante, saltò le
schiere di ombre e con la sua scia luimosa le allontanò.
L'animale si fermò vicino a noi e Dante mi alzò e
mi aiutò a montarlo, poi montò anche lui in
groppa dietro di me e cominciammo a cavalcare velocemente. La vista di
quel bellissimo cavallo servì a ridarmi un pò di
vigore, la sua chioma bianca odorava di buono e il suo pelo era
vellutato. Il mio malessere però, era così
pesante da non riuscire subito a notare che sulle spalle il cavallo
aveva delle ali, e dopo aver preso la giusta velocità, le
spiegò e ci innalzammo velocemente verso il cielo. In volo
ripresi un pò d'aria che allungo mi mancò
giù nella selva, e la vista di quest'ultima dall'alto era
spettrale. C'era il sole, eppure i suoi raggi non penetravano la fitte
rete di rami che copriva la selva, tranne che per la parte spoglia.
Dante mi stringeva forte per evitare che cadessi, ed io non potevo
credere a ciò che stavo vedendo dall'altezza che occupavamo.
Dall'alto quella terra sembrava così affascinante e magica,
un posto che non mi era per niente famigliare. Anche se fossi riuscito
ad uscire dalla selva non sarei mai arrivato a casa, dato che non mi
trovavo più nella mia città. Ragionai e conclusi
che probabilmente mi trovavo da qualche parte proprio a Gerusalemme, se
i miei studi mi avessero correttamente istruito sulla posizione della
selva oscura.
Il
cavallo alato atterrò finalmente in una zona apparentemente
più sicura e meno fitta di arbusti, una pianura circondata
da alti colli, ma carente di vegetazione. Dante smontò e mi
aiutò successivamente a scendere. Il poeta ripose la spada
nella mio fodero e mi chiese "stai bene?" ed io un pò scosso
risposi "credo di si". Dante poi si avvicinò al cavallo e lo
accarezzò quasi per ringraziarlo, così chiesi
alla mia guida "sommo, chi è lui?", e Dante mi rispose
"Pegaso, in una forma angelica però. La grazia divina deve
averci mandato un'aiuto". Ripensai a ciò che successe e
chiesi ancora "sommo cosa erano quelle ombre?" "sentinelle" mi rispose
e continuò "a guardia della selva per volontà
divina, purtroppo queste creature sono oscure e non fanno differenza
tra bene e male, tuttavia nessuno dovrebbe trovarsi in queste terre se
non da spirito, per questo ci hanno attaccato" ed io replicai "a cosa
servono delle sentinelle mandate dall'onnipotente, se in queste terre
non cammina anima viva?", e il sommo ci mise un pò per
formulare la sua risposta ma venne interrotto da una curiosa scena, un
cavaliere in sella ad un cavallo nero che portava un vessillo senza
alcun simbolo o stemma.
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Capitolo 3 *** Il cataclisma diabolico ***
Capitolo 3. Caronte
Memorie...
"Correva
l'anno 2011, la mia vita era piuttosto strana in quel periodo ma avevo
le mie soddisfazioni. La mia carriera musicale andava bene e il mio
gruppo divenne la mia passione. Purtroppo però, la mia
famiglia stava trascorrendo
un periodo alquanto difficile, il mio amato zio malato di cancro, si
avviava verso il suo ultimo respiro, tutti i miei parenti cominciarono
a prepararsi al peggio. Certo, niente può preparati alla
morte
di un tuo caro, soprattutto quando questo è una figura
importante all'interno della famiglia, e mio zio era più che
importante, era un fedele marito, un ottimo padre, la guida di tante
persone, era la mia fortuna, in lui riuscivo sempre a scorgere
l'essenza della figura paterna, una figura che nel mio nucleo
famigliare è sempre mancata.
Purtroppo però a volte la vita può riservarti
sorprese
agghiaccianti. E' una cosa che dicono tutti, ma quando capita a
te, ne scopri il significato solo in quel momento. Ricordo bene il suo
ultimo giorno tra noi, una giornata che vorrei dimenticare e
contemporaneamente averla impressa nella testa, perchè
quando
capitano queste cose, l'ingiustizia è tanta che cerchi di
trovare spiegazioni logiche proprio lì dove non esistono, e
una
volta che lo realizzi non puoi far altro che apprendere il meglio da
chi ci ha lasciato."
Alla vista di quella curiosa scena, Dante esclamò "ci siamo
quasi!", ed io chiesi lui "sommo, chi è quello?" e lui
"ragazzo,
quel cavaliere è la dannazione di chi non prova orgoglio per
se
stesso, coloro che soffrono ai margini della città dolente.
L'indifferenza e il disprezzo nutriti nei loro confronti, gli ricorda
di come l'inutilità sia stata la loro condanna".
Così
c'eravamo, dopo l'ardua e sconvolgente passeggiata nella selva
arrivammo finalmente sul sentiero che ci avrebbe condotto alle porte
dell'inferno. Durante i miei studi, non trovai nell'opera di Dante la
descrizione precisa sull'ingresso della città dolente
(apparte
la scritta scalfita sopra), non so cosa mi sarei trovato davanti, se un
arco, se una porta ricamata con simboli diabolici, se un'apertura in
una caverna. Ora che ci riflettevo, molte cose vengono omesse, come la
pena degli ignavi che sono costretti a seguire insignificanti bandiere.
Bene, ora spaevo chi portava questi vessilli neutri, e cioè
dei
cavalieri di cui pareva che all'interno della loro armatura, non ci
fosse nessuno, quasi un'illusione. Forse anche questo va ricollegato
alla pena del contrappasso per gli ignavi, non solo rincorrere insulse
bandiere, ma anche dei cavalieri senza volto o personalità.
Vederlo lì mi sembrò curioso, così
chiesi al poeta
"sommo, non dovrebbe trovarsi nell'antinferno a fare il suo dovere?", e
lui senza proferire parola salì in groppa a Pegaso e mi
invitò a fare lo stesso.
Quell'atteggiamento
che a sprazzi Dante assumeva cominciò ad
insospettirmi, ma non mi azzardavo ad accendere una discussione dato
che era l'unico a cui mi potevo affidare, nonostante i suoi strani
comportamenti. Tuttavia, la
vista di quel cavaliere fuori dall'inferno non fece che colmarmi di
pensieri, così cominciai a maturare un brutto presentimento.
La cosa
però non mi preoccupava più di tanto in quel
momento
poichè ne avevo passate tante nella selva, e qualche altro
spiacevole
inconveniente mi spaventava meno. In più la grazia divina
era
dalla mia parte, e me lo dimostrò dandomi due preziosissimi
doni, la spada e Pegaso.
La
zona dove ora galoppavamo era una terra collinare, polverosa, senza
un minimo di vegetazione, pareva un paesaggio vulcanico, e
più
andavamo avanti più il suolo si faceva irregolare. Riuscimmo
a
trovare di nuovo il cavaliere, così Dante decise di seguirlo
sicuro che ci avrebbe portato nella giusta direzione. Quella landa
desolata probabilmente fù resa tale proprio durante la
creazione
dell'inferno stesso, quando Lucifero venne scagliato verso la terra, e
probabilmente l'avvenimento causò un incendio o la
fuoriuscita
di magma. Chiesi al poeta "sommo, cos'è questo
posto?","siamo sul
tetto della città dolente, vedi ragazzo, questa zona
confluisce
tutta nel suo centro, dove risiede l'occhio di Sirio" disse il poeta,
ed io chiesi ancora "l'occhio di Sirio?","é la rampa che ci
porterà nell'atrio della porta dell'inferno" rispose Dante.
Durante la corsa, il braccio ricominciò a farmi male e a
pulsare, temevo che stesse andando in cancrena e che prima o poi sarei
stato costretto ad amputarlo. Tolsi la manica che avvolgeva la ferita
per darci un'occhiata e vidi qualcosa di sconcertante. Le ferite che
avevano la forma dei denti della lince, erano bagnate dal mio sangue
che si presentava di colore nero, come il petrolio. Quella
visione
fu un pugno nello stomaco, non sapevo dare una spiegazione, non capivo
cosa mi stesse capitando. Diedi ancora un'altra occhiata e notai che la
mia pelle era diversa, come se avesse dei segni regolari quasi
impercettibili. Al momento pensai che fosse a causa
della manica legata stretta, ma quando guardai il braccio sinistro
notai che quei segni erano presenti anche lì. Cosa poteva
significare, forse la visione avuta nella selva c'entrava qualcosa?
Questo non lo sapevo ma tutto ciò mi spaventava, e il non
sapere
cosa mi stesse accadendo mi rese irritabile.
Più avanzavamo più la polvere aumentava tanto da
formare
un muro che ci limitò la visuale, abbastanza da perdere il
cavaliere, così ci fermammo. "Dobbiamo aspettare" disse
Dante,"aspettare cosa?" chiesi, e lui rispose sogghignando "lo vedrai".
Nell'attesa Dante mi suggerì di estrarre la spada e di
cominciare ad allenarmi", e senza perdere tempo, estraetti la lama
e mi preparai ad assimilare gli insegnamenti del sommo. Il poeta
iniziò a spiegarmi le basi
della scherma, la postura, come tenere la spada, come agitarla e come
muovermi. Mi illuminò su alcune tattiche e sul giusto metodo
per affrontare
psicologicamente vari tipi di avversari. Devo essere sincero, non ero
proprio un campione o uno nato per praticare la scherma, ma Dante mi
ripeteva spesso che non esistono esclusioni quando si tratta di vivere
o morire. In particolari situazioni i nostri sensi involontariamente
migliorano il loro operato, il nostro cervello trasmette azioni e
comandi che pensavamo non fossimo in grado di compiere, e in questo
gioco quasi sempre vince chi ha il sangue freddo. Non so se Dante mi
diceva certe cose per incoraggiarmi o se le pensava sul serio, ma in
entrambi i casi, riuscì comunque a rinvigorirmi. Il suo modo
di
brandire la spada era molto elegante, e i suoi movimenti erano
chiaramente combinazioni tecniche apprese grazie all'esperienza. Potevo
essere fiero di avere un maestro e una guida così eccelsa,
ed io
ero lusingato di essere un suo allievo. Cominciai ad affezionarmi al
poeta.
La notte calò, io stavo seduto con la schiena poggiato sulle
gambe di Pegaso, e avevo sete, tanta sete. Dante stava in piedi che si
guardava attorno, e per un attimo pensai che si fosse perso, anche
perchè spesso guardava il cielo come a cercare
l'orientamento
attraverso le stelle. Guardava in alto e poi guardava di fronte a
sè, e il sommo andò avanti così per un
paio d'ore.
Io intanto contemplavo il cielo, per cercare di tenere la mente lontana
da brutti ricordi. L'atmosfera era magica, la landa desolata era
debolmente illuminata solo dalla luce delle stelle, e nel buio pesto
lontano dalle luci della città, io riuscivo a scorgere ogni
genere di astro o costellazione. Mi persi completamente nella
magnificenza dell'universo, nella strana casualità del
cosmo. Mi
riguardai da ciò in cui avevo sempre creduto sulla
creazione,
ora che avevo la prova dell'esistenza di un creatore,
un'entità
molto lontana da quella che ci indottrinano da ragazzi. Ora vedevo il
creatore come un architetto dei destini, uno scrittore di una trama
intricata, un burattinaio che conosce il futuro delle sue marionette,
un essere superiore che agisce comunque per il bene del suo operato.
Stavo quasi per chiudere gli occhi quando Dante
esclamò
"eccolo!", ed io spalancai gli occhi verso di lui, che stava indicando
qualcosa, un fascio di luce che proveniva dal cielo verso un punto
preciso in quel deserto. "Cos'è quella luce sommo?" chiesi a
Dante, "è la nostra via" rispose lui, e continuò
aiutandomi ad rimettermi in piedi "dobbiamo seguire quella luce".
Cavalcammo
velocemente verso quello splendido fascio, che si faceva sempre
più splendente man mano che ci avvicinavamo. Improvvisamente
uscimmo dal muro di polvere e Dante frenò Pegaso. Il poeta
disarcionò e si avvicinò per vedere meglio il
fascio, che
si spostava lentamente, fino a che non illuminò un grosso
cunicolo nella terra. "L'occhio di Sirio!" esclamò Dante. Io
su
Pegaso mi avvicinai a tentoni per osservare. La scena era
mozzafiato, una magica luce che proveniva dal cielo illuminava uno
squarcio nella terra, il quale sarebbe stato completamente celato se
non fosse stato scorto dal fascio splendente. "Questa è la
via
che ci porterà alle porte dell'inferno, e solo grazie alla
splendente luce di una stella noi siamo in grado di vedere l'occhio"
disse Dante, ed io replicai "Sirio, la stella è Sirio,
l'astro
più brillante di tutti", e il poeta ancora "Andiamo ragazzo,
non
possiamo permetterci di perdere la luce".
Misi i piedi per terra e mi avvicinai lentamente al bordo del cunicolo
che era perfettamente circolare, e notai che all'interno c'era una
sorta di rampa che scendeva a chiocciola lungo tutto il foro, il quale
poteva avere un diametro di quattro metri circa. La luce
di Sirio ci permetteva di vedere la profondità dell'occhio,
e
senza perdere tempo cominciammo ad avanzare lungo la rampa. C'era un
forte odore di umido e più si scendeva, più
riuscivamo a
udire dei rumore seguiti da lunghissimi echi. Mi accorsi che sulle mura
fatte di pietra c'erano delle scritte, ma la poca luce non mi
permetteva di leggerle con accuratezza, così utilizzai la
lucentezza della mia spada per riuscire a decifarle. Erano delle frasi
scritte in Latino, una lingua che capivo in parte.
Semita magnitudo non est inventus in euis possessori, sed in
sè. Volo quod vos non potestis quia in aeternum tenebrarum.
" La via della grandezza non si cerca in chi la possiede,
ma
dentro se stessi. Chi desidera ciò che non si può
desiserare, avrà eterna oscurità" mi tradusse
Dante
notando che stavo contemplando la frase, e poi continuò
"Quando
il creatore scacciò Lucifero dal Paradiso,
utilizzò
queste parole, quasi per maledirlo. Oggi queste parole sono scolpite
qui come insegnamento". Rimasi per un attimo sconcertato, in un secondo
momento quasi provai compassione per la sorte del maligno, l'eterna
oscurità faceva più paura della morte stessa.
D'altro
canto ciò che spaventa di più l'uomo non
è la
morte in sè per sè, ma il non sapere cosa gli
attende
dopo, il dubbio sull'esistenza dell'oltretomba, la paura della
dannazione e la speranza della beatificazione. Ma molti sono
più
preoccupati di risultare perfetti agli occhi delle altre persone,
più che ai propri occhi, gli unici che ci conoscono sul
serio,
gli unici che ci possono guardare per come siamo veramente. "Il primo
passo verso la grandezza è riconoscere sè stessi
per
sè stessi, e poi per gli altri" disse Dante, e io ripensando
alle sue parole capì che spesso in vita avevo desiderato
quasi
essere un altro, soprattutto quando si trattava della mia carriera
musicale. Cercavo la grandezza in una dimensione che il mio cervello
aveva creato, un prototipo che secondo il mio ideale, sarebbe stato
perfetto. Avevo realizzato un prodotto che non era dentro di me, un
individuo che cercavo di imitare ma che nel profondo, sapevo di non
poter essere. E come disse il sommo, il primo step verso la
serenità, è riconoscere sè stessi.
Giungemmo a metà del cunicolo dove riuscivamo finalmente a
scorgere la fine, quando senza alcuna spiegazione, Pegaso
spiccò
il volo e tornò in superficie, lasciando dietro di
sè, la
scia della sua luminescenza. Forse gli mancava l'aria o si era
impaurito, fatto stà che ci abbandonò e fummo
costretti a
proseguire da soli. Dante mi disse "non ti preoccupare, Pegaso ha il
potere di apparire in qualsiasi luogo nel momento del bisogno, lo
rivedremo ancora, ne sono certo". Le parole del poeta mi confortarono,
come sempre. Pegaso ci aveva salvato da situazioni delicate, e non
potevo assolutamente pensare di proseguire il cammino senza di lui. Che
creatura fantastica! Il poco tempo passato con lui mi sembrava una
vita, e ovviamente mi ci affezionai.
La rampa a chiocciola giunse al termine, e noi finalmente mettemmo i
piedi sul fondo del cunicolo, che proseguiva in uno stretto corridoio
fatto di pietra, il quale culminava con un'arcata. Superata l'arcata,
mi ritrovai spiazzato dal vasto atrio della porta dell'inferno, che
pareva l'interno di una cattedrale in stile gotico. L'atmosfera
all'interno era mistica e i colori che rivestivano il pavimento di
marmo, erano in continuo cambiamento, ma mantenevano sempre colori
freddi sfumando dal nero al verde scuro, a seconda del tuo punto di
vista. Il tetto era paricolarmente alto e fatto di pietra, attaccato ad
esso c'erano tre grandi candelabri uno equidistante dall'altro, e al
centro
c'era un affresco che ritraeva la struttura del paradiso, come se
fosse una prima afflizione ai dannati che passavano da lì,
un'occhiata a ciò che non avrebbero mai vissuto. L'atrio era
diviso in tre parti; c'era il corridoio centrale che portava
all'ingresso dell'inferno, delimitato sui fianchi da dieci possenti
pilastri
circolari con la base cubica, tutti dello stesso colore del pavimento,
cinque sulla destra e cinque sulla sinistra. Mentre agli estremi dei
corridoi
esterni ergevano
delle mura dove c'erano le rappresentazioni di otto cerchi infernali,
con tutte le pene inflitte ai dannati, dal secondo al quinto sul muro
di sinistra, e dal sesto al nono su quello di destra. Chiesi a Dante
"sommo per quale motivo non è ritratto il vestibolo", e lui
rispose "la dannazione è più onorevole del
destino degli
ignavi. Loro soffrono senza essere ricordati". La porta dell'inferno
era un
maestoso arco gotico che si presentava di colore rosso carminio, avente
otto piccole spalle semicircolari divise in entrambi i lati, che
confluivano tutte nella sua chiave d'arco a punta. Sul rifianco,
seguendo l'arco, c'era la famigerata frase di ben venuto, scalfita nel
marmo.
"Per me si va ne la
città
dolente, per me si va nell'etterno dolore, per me si va tra la perduta
gente. Giustizia mosse il mio alto fattore: fecemi la divina podestate,
la somma sapienza e 'l primo amore. Dinanzi a me non fuor cose create,
se non etterne e io etterno duro. Lasciate ogne speranza, voi
ch'intrate"
Leggere
quei versi al
cospetto dell'arco infernale mi terrorizzava i sensi, ed io ero ancora
vivo. Non potevo immaginare cosa potesse provare un'anima dannata al
cospetto di parole che ti demoliscono ogni forma di speranza. Parole
che ti fanno desiderare una seconda morte non appena finisci di
leggerle. Il modo più crudele che il creatore ha ideato per
forzare le anime a inchinarsi al suo cospetto, anche se ormai queste
sanno di essere già perdute, ma alle quali non resta altro
da
fare.
Dante guardandosi intorno, mi spiegò "ragazzo, da qui non si
torna più indietro. Poggi i piedi sul pavimento della
cappella
di Mefistofele. Qui, proprio l'angelo caduto Mefistofele, aveva il
compito obbligato di accompagnare le anime dall'occhio di Sirio fino
all'arcata infernale, con l'aiuto dei rimorchiatori", ed io gli chiesi
"i rimorchiatori?","creature infernali che utilizzano delle fruste per
guidare i dannati verso l'atrio", mi rispose il poeta. Fui impietrito
dalla scena che mi immaginai all'ultima frase di Dante, in quanto
realizzai che le anime dannate cominciano a soffrire non appena
abbandonano la loro case fatta di carne ed ossa. Chi potrebbe mai
reggere una sorte simile!?
A un certo punto, mentre ammiravo la cappella, qualcosa
attirò
la mia attenzione, un particolare alquanto curioso. Notai che la porta
dell'arcata infernale, era semiaperta da un'anta, ma in quel momento
non
c'era nessuno che doveva entrare, se non io e il poeta. Mi pareva
troppo semplice aver trovato già la porta aperta per
facilitare
il nostro passaggio. Non potevo credere che nessuno avrebbe opposto
resistenza al passaggio di un vivente in un regno dell'oltretomba. La
cosa non mi convinceva più di tanto.
Cominciai a ragionarci su quando udiì una voce che chiamava
"Dante!", e il poeta si girò dando le spalle all'arcata
nella
direzione da cui proveniva la voce, e disse "Minosse, eccoci! Siamo
giunti". Io sconcertato mi intromisi nel discorso chiedendo al poeta
"Minosse? Intendi quel Minosse? Il giudice delle anime dannate?", e
l'uomo che richiamò l'attenzione del poeta, rispose "sono
proprio io, il giudice dei dannati, ragazzo!". Lo
guardai bene, aveva l'aspetto di un cinquantenne magro, con pochi
capelli brizzolati, un'espressione misteriosa ma allo stesso tempo
rassicurante, e il suo viso si presentava completamente liscio senza un
pelo di barba, portava un vestito tutto nero con giacca camicia e
pantaolni, sul fianco destro presentava una spada e sul sinstro un
grosso
coltello ricurvo, e alle sue spalle potetti intravedere la celebre
coda.
"Sommo, ma Minosse.. qui? Lui non dovrebbe essere qui! Cosa.. cosa sta
succedendo?" chiesi totalmente confuso al poeta, ma prima che egli
potè aprire bocca, Minosse parlò con una certa
delusione "ooh Dante! non glielo
hai ancora detto vero?","non volevo spaventarlo, l'ho trovato nella
selva che giaceva al suolo, non potevo rischiare che scappasse!"
disse il poeta. Ancora una volta mi intromisi, e dissi "Cosa? Di cosa
state parlando? Cosa dovrei sapere?", così Minosse
lentamente si
avvicinò verso di me buttando un'occhiataccia al poeta con i
suoi occhi rosso scuro da demone, e poi cominciò a parlare
"ragazzo, ciò che ti sto per rivelare non sarà di
tuo
gradimento, d'altronde è una verità che non piace
a
nessuno, ma come ha detto Dante, da qui non si torna più
indietro. Circa cinquecento anni fà, quando gli uomini
cominciarono a superare le colonne d'Ercole, Catone l'uticense
compì un atto che causò una tragedia, la quale
è
conosciuta oggi come cataclisma diabolico!! Il guardiano del secondo
regno dell'oltretomba, distrusse il purgatorio condannando tutti i
pentinenti alla dannazione eterna, compreso Dante stesso. Ma il peggio
è stato in seguito all'evento, quando l'equilibrio naturale
che
esisteva tra gli inferi e il purgatorio si ruppe. In seguito alla
distruzione del monte dei pentinenti, il lago ghiacciato di Cocito si
sgretolò, provocando inevitabilmente la liberazione di
Lucifero
dalla sua dannazione.
Il maligno ormai libero, radunò sotto la sua ombra tutte le
creature infernali, demoni, guardiani e anche i dannati più
cattivi. Lucifero liberò anche i giganti e con la sua
armata,
cominciò a risalire la voragine infernale per arrivare sino
alla
via d'uscita, dal momento che la natural burella era ostruita dalle
macerie. Il creatore ovviamente, spedì in maniera tempestiva
gli
angeli e le milizie celesti per fronteggiare l'armata di Lucifero, che
si barricò dietro la città di Dite, e ancora oggi
lì combatte contro gli angeli del creatore, in una guerra
che
dura da più di cinquecento anni. L'angelo oscuro non molla e
non
mollerà neanche un centimetro, finchè non
riverserà l'inferno sulla terra, e l'apocalisse
avrà
inizio". Io fui completamente impietrito dalle parole agghiaccianti di
Minosse, potevo vedere il terrore nei suoi occhi mentre mi parlava.
Volsi il mio sguardo verso Dante che aveva un'espressione addolorata, e
poi chiesi al giudice dei dannati "Non posso crederci! Tutto
ciò
è davvero incredibile. Ed io... io cosa centro in tutto
questo?"
e lui mi rispose "Tu sei stato ingannato da un'artifizio Diabolico, tu
hai perso il tuo amore. Lo vedo sai, il tuo sangue.. è nero
giusto? Solo le anime che vivono senza amore hanno il colore del sangue
nero, e solo delle creaure nascono così, i demoni. Si
può
dire che adesso tu sia quasi un demone, con la differenza che sei
ancora un mortale, un particolare da non sottovalutare. Così
il
creatore decise com..","combatteremo il fuoco con il fuoco!" lo
interruppi io continuando la sua frase.
Cominciai a capire i silenzi misteriosi di Dante, la vista del
cavalliere con l'insulsa bandiera fuori dall'inferno, la porta della
città dolente semiaperta e le sentinelle nella selva oscura.
Ora
avevo la situazione chiara ma ciò mi intimoriva il doppio di
quello che già ero. Però ancora non capivo
qualcosa,
così chiesi un'altra volta a Minosse "Perchè mai
Catone
ha compiuto un tale gesto? Proprio lui che aveva il compito di vegliare
sul purgatorio" e lui rispose "Non è ancora chiaro il motivo
della sua scelta, ma a mio parere, sperava di accelerare i tempi fino
al giorno del giudizio, dove sarebbe finalmente salito in cielo.
Ovviamente non sapeva che avrebbe causato tutto questo","E ora
dov'é lui.. Catone?" chiesi al giudice, e lui mi
illuminò
"dopo il cataclisma fù spedito dagli angeli direttamente
negli
inferi, tra i traditori dei benefattori. Egli non ebbe il tempo neanche
di proferire parola".
Mi girai verso l'arcata infernale contemplandola, poi mi guardai il
braccio ferito, e provai quasi un desiderio di voler un'altra sorte, un
altro destino, e dissi "dunque è deciso. Il creatore mi ha
scelto per vincere la guerra... sono il suo prescelto". Realizzai che
dentro di me avevo creato involontariamente un mostro, un essere che
non è capace di provare amore, una sorte ancor peggiore
della
dannazione. Fortunatamente però, come disse Minosse ero
ancora
un mortale, e che la mia maledizione non sarebbe stata
eterna, quindi non ero un dannato.
Dante mi poggiò la mano sulla spalla, e disse "ragazzo, il
creatore non ti ha solo scelto per vincere la guerra, ma anche
perchè la tua vita passata e la tua avventura futura,
simboleggiano la seconda possibilità che il creatore
dà
agli uomini. Un atto che purificherà il tuo destino, e
quello
dell'umanità!". Come sempre le parole del poeta riuscirono a
confortarmi e a darmi coraggio, anche dopo aver appreso la dura
verità.
Mi girai ancora verso Minosse e gli chiesi "Perchè tu ora
sei
dalla parte del creatore?" e lui accennando un sorriso, mi rispose
"è stato il creatore a onorarmi con il mio incarico di
giudice.
Non devo assolutamente niente a Lucifero. E poi il mio ruolo
nell'inferno, è tutto ciò che ho!"
Minosse stava per aprirmi la via verso l'ingresso infernale, quando un
rumore agghiacciante che proveniva dall'arco dell'occhio di Sirio,
attirò la nostra attenzione. Preoccupati ci girammo verso
l'arco
di pietra e Minosse subito estraette la spada che diede a Dante, mentre
lui si armò del coltello ricurvo. Anche io estratti la spada
ma
subito Dante mi suggerì di nascondermi. Non lo ascoltai
perchè volevo
lottare dal momento che avevo realizzato che ci saremmo trovati
più volte in queste situazioni, quindi avevo bisogno di
trovare
il mio coraggio, così ignorai il poeta e rimasi
lì. In un
batter d'occhio dall'arco di pietra sbucarono degli esseri che
purtroppo avevo già incontrato nella selva, le sentinelle.
Le
ombre spettrali armate di spade, si lanciarono a gran
velocità
verso di noi, e subito il poeta e Minosse cominciarono a duellare. Il
giudice pur parendo un uomo segnato dall'età, era molto
abile
con il suo coltello, veloce, tattico, in poche mosse riusciva a
liberarsi dei suoi avversari. La sua tecnica era sopraffina e il
coltello che brandiva era perfetto per il stile di combattimento. Dante
duellava con ogni sentinella che provava ad avvicinarsi a me, mentre io
rimanevo in posizione di guardia alle spalle del poeta impaurito.
Improvvisamente una sentinella riuscì a raggiungermi e a
sferrarmi un colpo, che però a fortuna riuscì a
parare,
solo che la potenza della mazzata ricevuta mi fece precipitare al
suolo. La sentinella si avvicinò verso di me per darmi il
colpo
di grazia, ma venne tempestivamente colpito alle spalle dal coltello di
Minosse, lanciato con abilità proprio da quest'ultimo.
Io terrorizzato strisciai dietro una colonna per proteggermi,
perchè sapevo di non essere ancora pronto ad una cosa
simile,
non lo ero decisamente. La battaglia avanzava quando io cominciai a
sentire delle fitte lancinanti al mio braccio ferito. Mi stavo sentendo
improvvisamente debole, la stessa sensazione che avevo provato nella
selva. Sporsi la testa per osservare la battaglia ma il dolore non mi
permetteva di essere lucido, in più cominciai a vedere
ombrato e
a respirare a fatica, fino a quando mi ritrovai in un altro posto.
Ero sotto un'impalcatura, probabilmente nella piazza della
città
in cui vivevo. Mi stavo proteggendo dalla forte pioggia e per strada
non c'era nessuno. Le gocce di pioggia avevano un sorprendente colore
rosso amaranto, e le carreggiate erano quasi allagate. Sotto
quell'impalcatura al mio fianco c'era lei, Giorgia, la ragazza dai
capelli rosso splendenti. Ciò che stavo vedendo era un
ricordo,
ovvero il primo bacio che io e Giorgia ci scambiammo. Un'appuntamento
sotto la
pioggia, una cosa troppo romantica per essere autentica. Tutte le
circostanze mi portarono a credere che Giorgia potesse essere la
ragazza giusta, e ogni pensiero di questo genere non lasciò
scampo al mio cuore, ormai perso. Ricordo che quella sera, Giorgia mi
raccontò dei suoi problemi di autostima, della sua orribile
esprienza d'amore precedente, di come il suo ex ragazzo la picchiava e
di come lei si provocava dolore fisico per metabolizzare le sofferenze
morali. Ricordo che mi disse che aveva il timore che il suo passato
potesse condizionare il nostro rapporto, ma io la tranquilizzai subito
dicendole che in realtà, dopo quello che mi aveva raccontato
sulla sua vita, io mi sentivo ancora più vicino a lei.
Poi improvvisamente si mise a piovere e fummo costretti a ripararci
sotto un'impalcatura. La situazione era perfetta e non persi neanche un
secondo per approfittarne, così le presi le mani, e la
baciai.
Nella visione che stavo avendo, l'atmosfera che c'era intorno a noi era
praticamente lo specchio delle sensazioni che provai non appena le mie
labbra toccarono le sue, e lei brillava, brillava di potere, e
più il nostro bacio si intensificava più l'odore
di rose
che c'era nell'aria aumentava. Ancora una volta dimenticai che in
realtà mi trovavo al cospetto dell'arcata infernale con
Dante,
poichè il mio unico desiderio era quella di concedermi
completamente a quel ricordo, sperando che si potesse rivelare
veritiero. Con la mia mano dietro la sua schiena, potevo sentire il suo
respiro pesante, come quello di qualcuno a cui gli batte forte il cuore
a causa della troppa euforia che sta provando, tutte cose a cui io sono
vulnerabile. La sua caratteristica di mostrare fisicamente
ciò
che aveva dentro era una cosa che amavo particolarmente. Era come se io
avessi il potere di percepire le sue sensazioni, le sue emozioni, i
suoi piaceri.
Quando le nostre labbra si staccarono la guardai intensamente negli
occhi lucidi. Ci guardavamo sorridenti senza dire una parola, e insime
pregammo perchè la pioggia non fosse mai cessata. Ad un
certo
punto però dal cielo cominciarono a cadere fiamme che si
sostituirono alle gocce d'acqua, sempre
più frequentemente, le quali non appena toccavano terra,
si tramutavano in figure umane prive di vesti e mal ridotte, come
quelle
dei dannati all'inferno. La strada si riempì di queste
figure
che pian piano, alzandosi a fatica da terra e gridando di dolore,
avanzarono verso di noi. Spaventato strinsi Giorgia a me per
proteggerla, ma notai che il suo corpo aveva qualcosa che di strano.
Poco alla volta si stava trasformando in una sostanza che pareva pece
bollente, il quale si stava riversando su di me bruciandomi le braccia.
Il dolore era davvero lancinante che cominciai a gridare e a correre
fuori dall'impalcatura per strada, esponendomi alla pioggia di fuoco.
Avevo le braccia e il petto completamente sciolti e il fuoco dal cielo
cadeva su di me provocandomi una forte agonia. La mandria di dannati
che si riversava nelle strade ore mi circondava, e con cattiveria e
terrore cominciarono ad ammassarsi su di me non lasciandomi via di
scampo o modo per respirare. Nel panico totale e nell'agonia, mi
risvegliai improvvisamente nella cappella di Mefistofele, con una
strana sensazione di bruciore alla gola, come se avessi respirato del
fumo da un incendio. Forse quelle visioni non erano poi tanto solo
delle proiezioni celebrali. Cosa poteva mai significare, che cosa mi
stava accadendo?
Stavo cercando di rialzarmi quando Dante venne verso di me e mi chiese
"tutto bene ragazzo?", ed io "sono un pò sconvolto. Ma dove
sono
le sentinelle?", e lui "sono riuscito ad opporre resistenza e le ho
mandate via, ma torneranno quindi dobbiamo muoverci". Guardai
casualmete verso il centro dell'atrio, e vidi Minosse che giaceva al
suolo, privo di vita, così chiesi al poeta "sommo...
Minosse!!
Cos'è successo?","ho cercato di salvarlo, ma prima che
riuscissi
a estrarre la tua rosa per spaventare le sentinelle, loro lo avevano
già accerchiato. Non ho potuto fare niente". Mi avvicinai al
corpo di Minosse lacerato dai colpi inflitti. Lo ringraziai per avermi
difeso con la vita, per avermi mostrato la giusta via e per essere
stato schietto con me al momento opportuno. "Sono onorato di essere
stato prezioso per un individuo di alto rango come il giudice dei
dannati. Possa il creatore accoglierti per essergli stato fedele,
sempre" dissi inginocchiato davanti al corpo del giudice dei dannati.
Chiusi gli occhi di Minosse e mi girai verso Dante, che aveva ancora la
mia rosa tra le mani, e gli chiesi "perchè le sentinelle
sono
scappate quando hai estratto la mia rosa?" e lui "la rosa contiene il
tuo amore
maligno, un forma d'amore molto potente che ha effetto sugli umani come
su altri esseri. Le sentinelle o le creature infernali, nate
senza amore, hanno il terrore del sentimento stesso poichè
è opera del creatore, e tutto ciò che egli tocca
inquieta
il male".
Vedere Minosse morto mi provocò una sensazione di
ingiustizia.
Non desideravo che altri dessero la vita per me, non volevo che la mia
incapacità di difendermi da solo potesse essere la causa di
morte di coloro che avrebbero deciso di guardarmi le spalle. Non sarei
più riuscito a vivere sereno, se fossi mai uscito vivo
dall'inferno.
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Capitolo 4 *** Il disordine infernale ***
4. Il disordine infernale
Ancora
una volta sentimmo lo stesso rumore lancinante provenire dall'arcata
dell'occhio di Sirio. Dante mi incitò "ragazzo ora dobbiamo
davvero andare! Le sentinelle stanno per tornare", ed io spaventato gli
chiesi
"come sono arrivate fin qui?","ci hanno inseguito, è ovvio!!
Siamo stati gli unici che abbiamo incrociato il loro cammino" rispose
il poeta.
Dopo un trambusto lancinante, le sentinelle sbucarono un'altra volta
dall'arcata,
così noi tempestivamente fuggimmo verso la porta infernale e
la
varcammo. Ci trovammo in un tunnel fatto di pietra che seguiva la forma
ad arco dell'ingresso dell'inferno, mentre le sentinelle erano alle
nostre spalle che ci inseguivano muovendosi agevolmente nell'aria. Io e
il poeta corremmo più forte che potevamo ma le sentinelle ci
stavano alle calcagne, così decisi di estrarre ancora una
volta
la mia rosa di spine, come fece il poeta prima di me. Non appena tesi
il braccio per mostrare la rosa, le sentinelle si fermarono impaurite,
quindi noi continuammo a proseguire momentaneamente indisturbati.
Riuscivo a vedere davanti a me un altro arco da cui proveniva una luce,
che probabilmente dava fine a quel lungo corridoio. Non appena varcai
velocemente l'uscita, Dante con forza mi tirò a
sè, e mi
disse "Ragazzo stai attento! Non vorrai morire così". Appena
fuori dal corridoio di pietra, c'era uno strapiombo vertiginoso che si
affacciava probabilmente sul vasto vestibolo. Se Dante non avesse
fermato la mia corsa, probabilmente mi sarei lanciato dallo strapiombo
con un ovvio finale tragico. "Una volta che i dannati giungono su
questo strapiombo, vengono gettati come se fossero rifiuti. Le anime
private della morte, soffrono il dolore di quest'ultima, non appena si
schiantano al suolo!" disse Dante, ed io inquietato dalla scena
immaginata, mi sporsi per osservare il vestibolo, rimanendo
praticamente senza parole. L'antinferno era una vasta campagna
bruciata, che presentava una vegetazione ormai morta colmata da grossi
tracciati, probabilmente formati dalla corsa eterna dei dannati che
inseguono le insulse bandiere. Io mi trovavo forse a cinquecento metri
dal suolo, e sopra di me per altri cinquecento metri, c'era un immenso
tetto di terra e pietra che copriva interamente il girone degli ignavi.
Guardando meglio, notai che nella campagna si stava consumando una
battaglia, così chiesi al poeta "sommo, cosa sta accadendo
lì giù?" e Dante rispose,"ragazzo, questa
è la
prima resistenza che oppone il creatore agli esseri infernali, e la
stessa cosa la fà Lucifero qui. In questo girone ci sono i
dannati dell'antiferno che combattono contro i necrofagi","i
necrofagi?" chiesi io, e il poeta "mostruose creature con sambianze
umane che si presentano con il corpo putrafatto, e camminano a quattro
zampe. Anche se sembrano molto simili a noi, queste creature in comune
con le persone
hanno ben poco, e il loro unico desiderio è cibarsi di carne
umana!". La descrizione dettagliata che mi fece il poeta sui necrogagi
mi mise i brividi, ma non più di quando realzzai che il
sistema
ordinario dell'inferno era ormai perso. Osservando ancora il vestibolo,
notai che c'erano i cavalieri con i vessilli neutri, che galoppavano
senza meta per tutta la campagna dell'antinferno, ma nessun dannato gli
seguiva. Anche i fastidiosissimi insetti che pungevano ripetutamente i
dannati, ora vagavano per il vestibolo in maniera totalmente
sparpagliata. La guerra aveva causato inevitabilmente la rottura
dell'ordine delle cose nella città dolente, così
capì subito che il creatore aveva perso il suo totale
controllo
nel regno dei dannati, lasciando questi ultimi nel disordine bellico.
Una situazione delicata che però favoreggiava Lucifero
giorno
per giorno.
Dallo strapiombo, notai che le fazioni che combattevano contro i
necrofagi arrancavano parecchio. Dante mi fece notare che a capo di una
di queste fazioni, c'era Ponzio Pilato. Come gli altri ignavi, Pilato
si destreggiava bene nella battaglia, ma era circondato da quelle
creature mostruose che pian piano stavano per prendere il sopravvento.
Vedendo la scena io sentì il bisogno di unirmi alla
battaglia,
così incitai il poeta "sommo, dobbiamo scendere! Dobbiamo
aiutarli!". Dante acconsentì, ma non appena ci mettemo alla
ricerca di un modo per scendere nel vestibolo, alle nostre spalle
sbucarono le sentinelle che si avventarono con violenza su di noi. Io
caddi per terra ad un passo dal bordo del precipizio, mentre Dante con
la sua spada cercava con disperazione di fare resistenza. Le sentinelle
questa volta erano tre, due delle quali cercavano di spingere Dante
giù dallo strapiombo, mentre l'altra si avvicinava
minacciosa
verso di me. La situazione era davvero delicata. Io mi alzai
velocemente e sguainai prontamente la mia spada, ma la sentinella con
un
attacco rapido, mi disarmò facendo cadere la mia lama
giù
nel vestibolo. Non mi rimase che estrarre la rosa per cercare di
allontanare di nuovo le creature oscure, quando senza preavviso,
dall'arco dal quale uscimmo io e il poeta, sbucò Pegaso con
tutta la sua lucentezza. Così Io e Dante vedendo arrivare
per nostra fortuna
il cavallo alato, ci buttammo a capofitto su di lui, il quale si
sollevò con destrezza in aria portandoci lontano dalle
creature
oscure, lontano dal pericolo. Ancora una volta Pegaso ci
salvò
la vita, e proprio come disse Dante, apparve nel momento del bisogno.
In volo dove quasi taccavamo il tetto di pietra, riuscii a notare che
le sentinelle, incapaci di inseguire me e Dante, tornarono indietro da
dove erano venute. Ora dall'alto avevo una dinamica migliore della
battaglia che si stava consumando nell'antinferno, e sapevo che con
Pegaso al nostro fianco, avremmo potuto dare un notevole manforte alle
anime del vestibolo, i quali continuavano a battersi a fatica contro i
necrofagi. Tra gli ignavi in battaglia potevo facilmente distinguere
gli umani dagli angeli, per il semplice fatto che questi ultimi, a
differenza degli umani, presentavano delle ali mutilate dietro la
schiena, e tutti combattevano a torso nudo, mostrando una fisionomia
perfetta. Gli umani invece portavano quasi tutti dei vestiti e si
mostravano notevolmente meno eleganti degli angeli nel combattere, ma
essendo in maggioranza nella loro fazione, costiuivano una grande
potenza.
Un duello in particolare attirò la mia attenzione, una
creatura
molto simile ad un grosso caprone che camminava su due zoccoli e
brandiva tra le mani una lunga ascia, il quale combatteva contro un
angelo dai capelli lunghi castani che lottava con una spada. Sorvolando
l'area della battaglia, chiesi al poeta "sommo, cos'è quel
mostro?" ed egli rispose "quello, ragazzo, è un demone.
Queste
creature hanno il potere di comandare altre mostruosità come
appunto i necrofagi. Sono possenti e dotati di poteri mistici, e
possono essere sconfitti solo dagli angeli ancora beati, o con delle
sacre reliquie","quindi quell'angelo dannato che lo combatte non ha
speranze", replicai io, e il poeta rispose "no, se non facciamo niente
per aiutarlo".
La lotta tra i due si stava consumando nettamente a favore del demone,
anche se l'angelo era dotato di una grande abilità. Con un
colpo
micidiale, il demone fece volteggiare l'angelo per poi farlo finire al
suolo, disarmandolo e rendendolo vulnerabile. Il demone si stava
avvicinando all'angelo per infliggergli il colpo di grazia, quando io e
il poeta scendemmo vertiginosamente in picchiata per rovesciare la
situazione. Pegaso
colpì con gli zoccoli il demone disarmandolo, dando
così
tempo all'angelo per rialzarsi e riprendersi la spada. Io e il poeta
ora eravamo nel bel mezzo della battaglia, tra le grida di dolore dei
feriti e gli inquietanti gemiti delle creature infernali.
Galoppavamo
tra i necrofagi da i quali traspirava una nauseabonda puzza di
putrefazione, mentre Dante colpiva questi ultimi da i lati di Pegaso.
Io diasarmato cercavo di ripararmi quando il demone, che colpimmo
attimi prima, si rivoltò violentemente contro di noi
caricando
Pegaso a un fianco. Io precipitai al suolo e ormai vulnerabile, stavo
per essere assalito dai necrofagi, i quali mi avrebbero divorato in
pochi secondi. Per mia fortuna, l'angelo che avevamo salvato si mise
davanti a me proteggendomi, e respingendo quelle ripugnanti creature
con
disarmante destrezza.
Ma alle nostre spalle il demone con spirito vendicativo, si avvicinava
verso di noi tenendo la sua ascia tra le grosse mani. Sulla fronte la
creature presentava una specie di occhio rosso che notai solo in quel
momento, quando cominciò a brillare. Improvvisamente tutto
divenne buio e sfocato. Le urla della battaglia erano inspiegabilmente
sparite e io mi sentì disorientato, come se fossi stato
abbandonato. Riuscivo solo a vedere l'occhio rosso del demone sulla sua
fronte. Cominciai a sentirmi debole, e le orecchie inziarono a
fischiarmi fastidiosamente, come se mi stesse esplodendo il cervello.
Poi mi tornò in mente che Dante mi illuminò sui
poteri
mistici dei demoni, e capì che quella creatura mi stava come
ipnotizzando, provocandomi dolore dall'interno per tenermi fermo al
suolo e risucchiarmi ogni tipo di enregia. Decisi di tirare fuori la
mia rosa per tentare di salvarmi, e così feci. Sventolai il
fiore con il braccio teso verso l'alto e riusciì a fare
più che salvarmi. Cominciai a rivedere la luce e a sentirmi
meglio, mi accorsi che il demone emettendo versi di dolore
cominciò ad allontanarsi da me, insieme a tutti i necrofagi.
Il
grosso demone in un lampo si dissolse nel nulla, mentre le altre
ripugnanti
creature scavarono delle fosse nel suolo e ci entrarono, svanendo
tempestivamente. Tutti si fermarono ad osservare la scena esterrefatti,
mentre la
mia rosa ancora brillava di potere. L'angelo che cercò di
proteggermi si avvicinò verso me e mi chiese "Chi sei tu?",
ed
io rimasi in silenzio, cercando di trovare le parole giuste per esporre
a quella meravigliosa creatura il motivo della mia presenza.
Quell'angelo era alto e possente, con un corpo scolpito e lunghi
capelli neri, e un viso giovane fermo all'età di trent'anni
circa.
Nella mia incapacità di comunicare, Dante si
avvicinò per
prendere parola, e rispose all'angelo "lui è qui per
volontà divina, lui è qui per salvarci tutti, per
porre
fine alla guerra, per portare tutto all'ordine come all'inizio dei
tempi. La sua anima ancora in vita, porterà alla morte il
maligno".
Alle parole del poeta, le legioni di ignavi si riunirono intorno
a noi, e con mio grande stupore le anime dannate si inchinarono tutte
al mio cospetto, come se sapessero del mio imminente arrivo, e
combattessero con la speranza di vedermi presto.
Improvvisamente qualcuno con un grido di battaglia disse "Il creatore
ci ha mandato il suo prescelto! E' il momento di combattere!", e alle
sue parole tutti emisero un grido di guerra per caricarsi. Uno scenario
da brividi. Chi urlò fù Pilato che sucessivamente
mi
raggiunse sorridente, e notai che nella sua mano possedeva la mia
spada. Pilato mi porse la lama dicendomi "questa dev'essere tua
ragazzo! E' molto bella!" ed io lo ringraziai. Il prefetto romano mi
chiese ancora "e adesso cosa si fà?" ed io farfugliando
cercavo
le parole per rispondergli, evitando di sembrare impacciato o ignorante
sul da farsi. Fortunatamente, come un angelo custode, Dante accorse in
mio aiuto come sempre, e prese parola per soddisfare la domanda di
Pilato, e gli disse "dobbiamo raggiungere la città di Dite,
e
abbiamo bisogno di tutto l'aiuto possibile" e Pilato rispose "avrete
tutto l'aiuto di cui avete bisogno, anche dal sottoscritto. Se volete
raggiungere Dite, dobbiamo prima raggiungere la riva dell'Acheronte, ma
dovrete convincere il barcaiolo a trasportarvi dall'altra
parte","convincere il barcaiolo? Intendi Caronte?" chiesi io, e Pilato
annuì. Il poeta confuso chiese al prefetto "di cosa dovremmo
convincere il traghettatore?","bè... a traghettare" rispose
Pilato a tentoni, e continuò "ormai è fermo alla
riva del
vestibolo da secoli, e tutte le anime dannate sono ferme lì
ad
aspettare che si decida a partire" ed io chiesi ancora "ma
perchè è fermo lì? E soprattutto da
che parte
sta?","si dice che abbia paura, e che il suo terrore lo tiene fermo
lì nella totale neutralità. E' rinchiuso nella
sua
plancia ormai da un pò" rispose Pilato.
Le parole del prefetto romano mi fecero capire che la barca di Caronte
non era una semplice bagnarola, come avevo sempre creduto studiando
l'opera di Dante, ma si trattava di un vero e proprio traghetto. Mi
sembrò fisicamente più logico dal momento che in
ogni
viaggio Caronte avrebbe dovuto traghettare migliaia di anime dannate.
Avevo sempre avuto un debole per la figura del traghettatore, e l'idea
di doverlo conoscere mi entusiasmava molto. Non so che tipo di
personaggio mi sarei trovato davanti, forse davvero un vecchio bianco
per antico pelo.
"Approposito, non mi sono presentato. Io sono Ponzio Pilato", disse il
prefetto "si lo avevo intuito!" risposi, e continuai chiedendo a Pilato
indicando l'angelo che mi aveva salvato "puoi dirmi chi
è
quello? Quell'angelo?","Lui è Clion, meglio noto un tempo
come
angelo della protezione, prima di essere stato giudicato dal creatore
per la sua neutralità". Dopo aver preso sapienza del nome
dell'angelo, mi avvicinai a lui per parlargli "ti ringrazio!", gli
dissi e lui "sono io che devo ringraziare te ragazzo. Se non fosse
stato per te a quest'ora sarei spacciato. Saremmo tutti spacciati".
Ripensai alla battaglia del vestibolo e nella
mia curiosità chiesi a Clion, "cosa ci facevano quelle
creature
qui?" e l'angelo rispose "sono secoli che ormai Lucifero manda le sue
mistiche creature per rovesciare l'inferno sulla terra. Dopo il
cataclisma diabolico il creatore ha dato una scelta a tutti gli ignavi
del vestibolo. La guerra incombeva e serviva tutto l'aiuto possibile
per tenere le tenebre nel suo buco. Quando tutto sarà
finito,
noi saremo giudicati, ancora. La vittoria significherebbe per noi la
beatificazione, il ritorno nel regno dei cieli". Fui commosso dalle
parole dell'angelo. Lui mi parlava mentre ripuliva la sua lunga spada
dal sangue delle ripugnanti creature, e nella sua voce potetti
riconoscere un barlume di speranza, che cresceva sempre di
più
ogni volta che incrociava il mio sguardo.
Alle nostre spalle, Dante e Pilato stavano pianificando il cammino
verso l'Ancheronte, e il poeta ribadiva al prefetto che io, essendo
ancora un mortale, avevo necessità di acqua e cibo. Pilato
rassicurò il sommo dicendogli che con un pò di
fortuna,
avremmo trovato quello di cui avevamo bisogno nel traghetto di Caronte.
Il prefetto ribadì che se fossimo riusciti a persuadere il
traghettatore, egli avrebbe non solo acconsentito a traghettarci, ma
anche a darci manforte per continuare il viaggio.
Clion richiamò di nuovo la mia attenzione, e mi disse
"ragazzo
ho un dono per te! In qualità di angelo della protezione ti
offro un oggetto molto particolare". L'angelo mi porse una sorta di
spilla d'argento circolare con al centro una ricostruzione di un'ala, e
mi disse "questo amuleto ha il potere di sopperire al dolore di ferite
di guerra e rimarginarle velocemente. Se ti trovassi in situazioni
complicate, ti basterà stringerlo tra le mani e subito
qualcuno
verrà per soccorrerti". Tenevo in mano l'amuleto quando
notai
che le ferite sul mio braccio destro, provocate dal morso della lince,
si rimarginarono e divennero cicatrici, certo ben visibili ma meglio
delle grosse lacerazioni. Sorpreso dall'accaduto, ringraziai Clion con
un abbraccio prolungato, e mi rattristai al pensiero che una creatura
così gentile e meravigliosa come Clion, possa essere stata
dannata dal creatore. Pensai, forse l'angelo non è sempre
stato
così, forse l'inferno lo aveva cambiato dentro, forse aveva
assaggiato il male e come tutti i dannati ora bramava la beatificazione.
Sentì la voce del poeta che mi chiamava "forza ragazzo,
siamo pronti,
dobbiamo andare!". Salutai Clion con affetto e lui mi giurò
fedeltà promettendomi che avrebbe difeso il vestibolo con la
sua
stessa vita. Pilato decise di proseguire il cammino al nostro fianco, e
così decidemmo di rimetterci in marcia.
Passammo in mezzo alle legioni di ignavi che stavano tutti togliendosi
di dosso i postumi della battaglia. Gli sguardi dei dannati erano
rivolti verso di noi, colmi di speranza e gratitudine, pronti ad
attendere buone notizie dai piani inferiori della città
dolente.
Eravamo solo in tre, anzi in quattro con Pegaso che ci seguiva e ci
metteva un pizzico di buon umore in quella campagna devastata dalla
guerra.
Incuriosito da me, Pilato cominciò a farmi delle domande
"allora
ragazzo, di te so solo che sei il prescelto, ma chi eri prima che
venissi coinvolto in questo disordine", ed io facendo una piccola pausa
prima di parlare, gli risposi "sono un musicista. Sulla terra ho avuto
la fortuna di imparare l'arte della manipolazione del suono, e mi
guadagno il mio posto nella società in questo modo. O almeno
ci
provo". Pilato visibilmente compiaciuto dalla mia risposta, mi disse
"non ho conosciuto molti musicisti in vita, ma credo che il fatto che
tu lo sia, non è una coincidenza. Al giorno d'oggi voi siete
i
nuovi poeti e come il creatore fece con Dante, ha scelto la via
dell'arte per illuminare il mondo sulle conseguenze della vita sulla
terra","suppongo di si, anche se ora è diverso.
C'è
una guerra" risposi, e Pilato ribattè "hai ragione, ma vedi,
la
tua qualità è quasi una magia, l'unica magia di
cui
l'uomo è capace, la musica". Le parole del prefetto mi
riempirono di orgoglio e sicurezza, e in parte aveva anche ragione. La
musica è una cosa tanto astratta quanto concreta, proprio
come
la magia.
Poi anche io incuriosito dalla figura di Pilato, che portava
un'armatura medioevale, gli chiesi "cosa... cosa hai provato a stare al
suo cospetto? Al cospetto di Cristo intendo?", e lui "la
verità?
Nulla! Non ho provato assolutamente niente, se non la pena di quando
guardi negli occhi chi ha paura del dolore, che in realtà
era la
sua unica paura. La singola cosa che lo distinse dagli altri,
fù il
fatto che non implorò pietà, non si
inginocchiò ai
miei piedi nella speranza della salvezza. Lo avrei anche salvato se non
fosse stato per la mia difficile posizione politica. Però
avrei
dovuto capire chi era veramente quell'uomo, e ora mi trovo qui,
com'è giusto che sia!". C'era davvero tanto rimorso nella
voce
di Pilato, ed intuì che dopo la sua dannazione lui
ripercorse
l'incontro con Cristo per cercare nelle sue parole qualunque cosa che
gli avrebbe potuto far capire chi fosse veramente quell'uomo, segnato
dalle percosse e dalla flagellazione. "ma dopotutto il mio destino
è stato un disegno divino, e non ho potuto fare altro che
inchinarmi al creatore" disse Pilato, e le sue parole mi spararono in
mente ricordi della mia vita, in particolare del mio povero zio
defunto. Ho sempre voluto pensare che la sua morte fosse un disegno
divino che io adesso ancora ignoro, l'unico modo che ho per trovare una
logica a quello spiacevole evento.
Dopo una lunga ed estenuante camminata nel nulla della vasta campagna
secca dell'antinferno, giungemmo finalmente alla riva dell'Acheronte.
Eravamo su una collina le cui pendici toccavano il bagnasciuga del
fiume, quando assistì ad uno scenario che toglie il fiato.
Migliaia di anime dannate denudate e maltrattate, che attendevano il
loro turno per essere traghettate, e raggiungere finalmente il proprio
cerchio
della dannazione. A circa cinquecento mentri dalla riva c'era il
mastodontico traghetto di Caronte. Non so descrivere cosa provai nel
momento in cui vidi quel maestosto veliero, so solo che rimasi
affascinato dalla bellezza del paesaggio. Sentimenti constrastanti mi
invasero il cuore, da una parte il terrore per la brutalità
con
il quale le anime venivano gettate come profughi sulla riva del fiume,
dall'altra lo stupore per la maestosità del traghetto e del
fiume
stesso. Pilato mi disse "ragazzo, benvenuto al cospetto della crociera
dei dannati! Una delle meraviglie della città dolente.
Nonostante rappresenti l'ultimo viaggio di un'anima dannata, il
traghetto toglie sempre il fiato per la sua bellezza", ed io pensai che
il prefetto non poteva avere più ragione di così.
Capì che a prescindere dal fatto che l'inferno dovesse
essere un
posto sadico e brutale, il creatore non riuscì a venir meno
alla
bellezza e alla perfezione della sua mente creativa, plasmando la
città dolente in maniera strategicamente elegante e
mozzafiato.
Forse un altro tipo di dannazione per le anime dell'inferno, le quali
non avrebbero mai assaporato neanche lontanamente la
creatività
benevola del creatore.
Scendemmo lungo l'altopiano e passammo in mezzo alle anime attendenti,
le quali avevano lo sguardo inchiodato sul nostro passaggio tra loro.
Potevo sentire domande tra i dannati come "chi sono quelli?" o "ma
quello è il sommo poeta?" o ancora "cosa ci fà
qui un
mortale?", così capì che quelle anime erano
ignare di
tutto ciò che stava accadendo nei piani più bassi
dell'inferno, privati della sapienza di un destino ancor più
tragico della dannazione stessa. Arrivati al bagnasciuga ci accorgemmo
che avevamo bisogno di un modo per raggiungere il traghetto, una cosa
che forse avremmo potuto fare in volo con Pegaso, solo che non ci
saremmo mai
stati in tre in groppa al cavallo alato. Pilato stava cercando qualcosa
simile ad un bagnarola che ricordava di aver già visto,
quando
Dante trovò una corda che finiva dritta nell'acqua, e
cominciò a tirarla. Pian piano la bagnarola che Pilato
cercava
venne fuori dalle acque intatta, come se non fosse mai affondata. Io
Dante e il prefetto salimmo a bordo, mentre Pegaso ci avrebbe seguito
volando, e così cominciammo a navigare per raggiungere la
crociera dei dannati.
L' acqua del fiume era salmastra e scura, tanto da renderci impossibile
riuscire a vedere il fondale. Ricordo che il fiume emanava uno strano
odore simile allo zolfo. La presenza di quell'odore era piuttosto
strana, dato che proveniva dall'acqua.
Più ci avvicinavamo al traghetto più potetti
ammirare la bellezza
disarmante del veliero di Caronte, illuminata a sprazzi da mistiche
luci verdi. Lo scafo si presentava insellato e aveva l'aspetto di un
relitto abbandonato segnato dal tempo, ma stava perfettamente a galla.
Le vele erano chiuse e l'ancora gettata sulla dritta dello scafo, il
tutto a confermare che il veliero era evidentemente inchiodato in quel
punto. Quando arrivammo a pochi metri dalla dritta del traghetto, un
portellone che stava sul pelo dell'acqua si aprì, e una
strana
figura apparse sull'uscio. Una creatura vestita da marinaio che
presentava il viso
di uno scheletro con brandelli di carne putrefatta attaccati al
teschio. La creatura inquietante parlò e ci chiese"chi siete
voi?" e il sommo rispose "vogliamo vedere il capitano!","il capitano
non riceve ospiti!" ribattè la creatura, e Pilato
esclamò
"neanche un mortale!?". Ci fù un momento di silenzio, e poi
la
creatura ci invitò a salire a bordo. Mentre guadagnavo
l'ingresso del veliero, notai che Pegaso non era più con
noi, ma
probabilmente ci avrebbe raggiunto più tardi.
L'interno di quel primo ponte era molto simile ad un carcere a due
piani
tetro e poco illuminato, ed era pieno di marinai spettri che svolgevano
classici lavori da uomini di mare. Le celle erano vuote malconce e
piene di ragnatele e le sbarre erano arruginite e in parte
completamente rotte. Riuscì a captare un rumore
simile ad una corda di una chitarra elettrica pizzicata più
volte e irregolarmente, che si faceva sempre più intenso man
mano che percorrevamo il ponte più basso. Stavamo salendo
lungo
una scala a chiocciola pericolante per raggiungere il ponte dove c'era
la cabina del capitano, quando riconobbi che quel rumore che sentivo
era molto simile alla nota Sol, ma era suonata male, pizzicata con
troppa violenza e frustazione.
Raggiunto il ponte più in alto, notai che stavamo dinanzi ad
una
specie di sala di ricevimento con un lungo tavolo da banchetto al
centro, sovrastato da un enorme lampadario attaccato al tetto
pericolante con un aggancio di fortuna. Le mura sembravano vecchie
colme di muffa e ragnatele, e il pavimento era ricamato con grandi
rombi bianchi e neri, anche quest'ultimo abbastanza disastrato. In
fondo alla sala c'era l'ingresso ad arco per la cabina del capitano
fatto di legno ormai marcio. Il marinaio ci disse "il capitano vi sta
aspettando" indicandoci l'ingresso della cabina. Il sommo senza perdere
tempo strinse il pomello a forma di teschio con la mano destra, e
aprì la porta. Non appena questa si spalancò, il
suono
che sentivo lungo i primi due ponti divenne decisamente più
limpido, così capì che quella nota pizzicata
proveniva
proprio dalla plancia di Caronte. Varcammo la soglia arcale e una
figura vestita da pirata capitano con la stessa faccia da spettro come
tutti gli altri marinai, che teneva tra le mani una chitarra elettrica
mal ridotta, ci accolse. La creatura che stava seduta con le gambe
poggiate su un tavolo di legno e la chitarra posata sul suo addome, ci
disse "benvenuti sulla mia nave. Io sono Caronte!".
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