4A – A Shoot Spinoff: Untitled di Ghen (/viewuser.php?uid=13358)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno. Il suo corpo vibra ***
Capitolo 2: *** Capitolo due. Destino ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre. Chi l'avrebbe mai detto ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro. Cambiamento ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque. La verità ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei. Come può essere sbagliata una cosa tanto bella ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette. Grazie ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto. Svoltare e cambiare direzione ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove. Incendio colossale ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci. Forse un giorno ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici. Il suo posto sicuro ***
Capitolo 12: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Capitolo uno. Il suo corpo vibra ***
«Quando
sfioro la sua pelle, il suo corpo vibra. Ha come questa scarica
improvvisa, uno spasmo involontario… E lei se ne rende
conto, lo
sa, per quello mi guarda come un leone pronto a ruggire e fa qualcosa
subito, come se volesse… togliersi da quella situazione!
Perché le
piace, sono sicura che le piaccia, ma credo la faccia
sentire…
come-», prese una breve pausa, prendendo fiato,
«come indifesa,
impreparata; per un momento è senza armi e ha
paura», scosse la
testa. Si guardò attorno, osservando poi il movimento delle
automobili sotto il ponte. Sorrise. «Lei non è
abituata a lasciarsi
andare. È una vita che combatte e credo che una parte di lei
si
fosse arresa da tempo all'idea di non saper riuscire a fare
altro…
La capisco perché… beh, perché
è lo stesso per me. Sono sempre
scappata; ho dormito spesso con un occhio aperto e altre volte non ho
dormito affatto, con una pistola sempre pronta sotto il cuscino. Non
mi sono mai affidata né fidata di nessuno. È una
cosa nuova per
entrambe», sorrise di nuovo, alzando la testa verso il
traliccio,
alla telecamera. «Il suo corpo vibra perché non
è abituato a
niente di tutto questo. A essere toccata… beh, così,
con amore», incurvò la testa.
«È rimasta per così tanto tempo da
sola che il suo corpo reagisce a un contatto come se facesse i fuochi
d'artificio», rise, abbassando la testa. Finalmente
udì dei passi
alla sua destra e la vide arrivare. Root si voltò ancora una
volta
verso la telecamera e sussurrò un'ultima cosa: «A
chi non piacciono
i fuochi d'artificio?», sorrise. L'aspettò e,
appena le fu
abbastanza vicina, l'abbracciò, passandole le mani sulle
braccia nel
tentativo di riscaldarla.
Shaw
sorrise, abbassando lo sguardo. Il naso rosso per il freddo, le
guance rosa, le labbra screpolate. Si dissero qualcosa, una parola, e
la guardò, così si avvicinarono di più
e si baciarono, con in
sottofondo il traffico delle auto che sfrecciavano sotto di loro.
Iniziarono
a camminare sul ponte e Root lanciò un ultimo sguardo alla
telecamera, sorridendo, prima di baciare Shaw sulla cuffietta e
allontanarsi insieme, mano nella mano.
Lo
sguardo alla telecamera sul traliccio, il bacio, e Root e Shaw si
allontanavano insieme. La registrazione finì e lo schermo
diventò
nero. Molti applaudirono e si congratularono per la bella scena,
mentre altri ancora discutevano sulle luci e su quanta o meno
attenzione si desse alle automobili che passavano sotto il ponte. Amy
e Sarah applaudirono con i primi, sorridendo. Era venuta bene. Erano
fiere del risultato e di come tutto stava riprendendo vita. Era pur
vero che non si trattava ancora di una cosa certa, era solo una delle
scene che stavano girando per mettere alla prova un possibile spinoff
di Person of Interest
incentrato
sui loro personaggi,
ma era
un'opportunità
che si sarebbero godute al massimo.
Quando
Amy era stata contattata per discutere di un'eventuale spinoff per
poco non cascava per terra, se non ci fosse stata una sedia. Non
raccontava idiozie quando disse che avrebbe continuato a interpretare
Root per tutta la vita: sentiva che era una parte di lei; era
così
facile entrare nel personaggio, era così facile volerle
bene. Le
piaceva qualsiasi cosa le riguardasse. E Sarah, che non ci sperava
neppure, era rimasta con la bocca aperta. Aveva risposto che era
disponibile, certo
aveva detto, ma le pareva tutto così surreale che non ci
aveva
creduto davvero finché non si era diretta lì, in
studio, e le
avevano spiegato come avrebbero voluto girare delle scene per capire
se poteva o meno funzionare.
Root
e Shaw si sarebbero ritrovate grazie alle indicazioni date in
un'ultima telefonata della Macchina con la seconda. Root non era
morta. Aveva finto il suo decesso per spronare Harold a dare
più
potenza alla Macchina e poi si era nascosta; aveva sempre lavorato
con lei alle spalle degli altri, per proteggerli e, una volta che
tutto era finalmente finito, aveva espresso il desiderio di
ricongiungersi con Shaw. Non vedeva l'ora di riabbracciarla. La
Macchina era stata liberata e ognuno di loro poteva ora costruirsi
una vita e un futuro lontano dal lavoro a tempo pieno di
salvaguardare le vite degli altri. La trama del possibile spinoff si
sarebbe incentrata su una domanda: Root
avrà davvero smesso di lavorare con la Macchina?
Il
buon budget offerto da Netflix, unito all'esperienza di un'ottima
regista che già aveva lavorato ad altre produzioni originali
del
noto servizio di streaming, grandi produttori e scenografi,
scrittori, e all'intraprendenza e alla passione che dimostravano le
due attrici, oltre a un notevole seguito di base, erano gli
ingredienti che avrebbero potuto rendere la nuova serie un successo.
Al momento, il titolo provvisorio era 4A
– A Shoot Spinoff.
Nulla di troppo lontano dalle molte supposizioni online. Oh, online
non era ancora trapelato nulla, era solo la speranza di quei tanti
fan che firmavano la petizione e dedicavano intere giornate a
cinguettare per la causa su Twitter. Nessuno poteva dir nulla
finché
il nulla era ancora incerto, e di certo non Amy e Sarah, che non
vedevano l'ora di poter condividere la loro gioia su internet.
Uno
dei produttori, Mark Hadford, si alzò dalla sedia e
andò a
congratularsi con una stretta di mano con le due donne di persona.
«Questa scena finora è la mia
preferita», ammise sognante,
grattandosi la folta barba, «Se queste sono le
premesse… quando si
comincia a fare sul serio? Non vedo l'ora».
Entrambe
risero.
«È
quello che speriamo», disse subito Amy.
«Se
riusciamo a incantare i piani alti… Io sto già
firmando»,
proseguì Sarah, sotto lo sguardo d'intesa di Amy, che
annuiva.
«Sto
già firmando anch'io», rispose lui, per poi
allontanarsi.
Le
due si scambiarono un'occhiata e scoppiarono a ridere, felici di
quella nuova occasione di lavorare non solo nei panni di personaggi
che amavano, ma anche di farlo di nuovo insieme.
Lasciarono
lo studio e si allontanarono tutti per fare la pausa pranzo. Amy e
Sarah non si cambiarono, dopo avrebbero dovuto girare un'altra breve
scena, uno scambio di battute, e si portarono i copioni appresso
com'erano solite fare. Qualche telefonata alla famiglia, un breve
giro sui social per restare aggiornate sulle ultime novità
ed erano
di nuovo fuori, a fingere che ci fosse più freddo di quanto
ne
faceva, in un parco. Root e Shaw erano vicine, discutevano su
qualcosa, e un nuovo personaggio entrò in scena all'ultimo,
sparando
un colpo verso un passante. Il passante in realtà non c'era,
non
avevano ingaggiato nessuno se non il tiratore, ma le due dovevano
fingere ci fosse e correre verso di lui per soccorrerlo. Qualche
passo ancora e la regista fermò tutto, annunciando che
avrebbero
rigirato la stessa scena anche l'indomani. Molti avevano il sentore
che in ogni caso sarebbe stata una scena tagliata e che esisteva solo
per testare possibili svolgimenti di trama.
«Ho
bisogno di una doccia», rise Sarah, togliendosi la cuffietta
nera
dalla testa e liberando i capelli dalla coda. Era piccola rispetto a
quando aveva i capelli lunghi, e anche se era possibile che Shaw si
fosse tagliata i capelli, il suo look non avrebbe subìto una
grande
variazione e la coda era d'obbligo.
Amy
l'aveva guardata, annuendo e concordando. La vide sfilarsi la giacca
di pelle che da Root era passata a Shaw quando aveva finto la sua
morte, con attenzione, sorridendo. «Oh, cavolo, credo di
odiarti un
po'».
Sarah
rise: «E perché mai?».
«Adesso
hai tu la giacca di pelle. Mi manca», finse dispiacere con
una
smorfia e scoppiò a sorridere di nuovo, così
Sarah alzò le
braccia, le passò dietro, e cercò di mettergliela
sulle spalle.
«Così
va meglio?», le rispose nel tentativo, sporgendosi un po'.
Scese le
mani intanto che Amy alzava le sue per non farla cadere, sfiorandosi.
Oh, Sarah lo aveva sentito. Lo aveva sentito altre volte ma in
effetti non ci aveva mai fatto caso prima di allora, quando c'era
stato quel momento fra Root e la Macchina in attesa che arrivasse
Shaw, sul ponte: il corpo di Amy aveva vibrato. Sarah la
guardò non
nascondendo una certa curiosità e Amy sorrise, lasciandola
per
andare alla sua roulotte. Le avrebbe restituito la giacca di pelle
più tardi, dopo la doccia.
Ci
aveva riflettuto tutto il tempo, mentre l'acqua le scendeva copiosa
addosso e si insaponava: Amy non era per niente simile a Shaw,
né
aveva avuto le esperienze di Root, per fortuna, anche se lei e il suo
personaggio erano molto legate. Uno spasmo involontario
perché il
corpo non era abituato a essere toccato in quel modo. Era decisamente
da escludere, se non altro perché era felicemente sposata da
tredici
anni. Era strano. E voleva assolutamente saperne di più.
Si
era fatta portare del cibo da asporto e si era diretta alla roulotte
di Amy. Durante le riprese di Person
of Interest lo
avevano
fatto spesso: avevano passato le ore a parlare di quanto avevano in
comune e di quanto invece erano come due poli opposti. Sperava avesse
già finito la doccia e che, in special modo, non avesse
ancora
mangiato. Bussò. Attese un po' ma, non ricevendo risposta,
bussò di
nuovo, avvicinandosi alla portiera. Finalmente udì dei passi
e
attese che lei aprisse, scoprendo che aveva ancora i capelli bagnati
ed era in accappatoio. Sarah estrasse un sorriso e alzò i
sacchetti:
«Chi ha voglia di messicano?».
Amy
sorrise, lasciandola entrare.
Sarah
si sedette sul divanetto davanti al tavolino e poggiò i
sacchetti,
decidendo di sistemare tutto mentre Amy si metteva qualcosa addosso.
Prese due piattini dal pensile e delle forchette e coltelli. La
roulotte era uguale alla sua, sapeva già dov'era tutto il
necessario. Sistemò sul tavolino, poi si rialzò
per prendere delle
tovagliette, vedendo appesa sulla maniglia della porta del bagno la
giacca di pelle di Root. Le ritornò in mente il corpo che
vibrava e
pensò di essere stata una sciocca a pensare ad un
collegamento con
ciò che aveva detto Root su Shaw e non invece alla cosa
più logica:
il contatto era inaspettato e si era spaventata. Poteva essere, no?
Certo che poteva essere.
«È
pronto da mangiare?».
Sarah
si destò e voltò subito, scorgendo Amy: si era
messa un jeans e una
maglietta fine, con le maniche tirate verso il gomito. Sorrise con
qualche secondo di ritardo. «Sì, stavo appunto per
prendere le
tovagliette».
Si
accomodarono l'una accanto all'altra, sistemandosi sul divanetto.
Erano proprio eccitate all'idea di ricominciare un'avventura con Root
e Shaw, e in uno show solo loro, anche se nulla era certo. Affondando
i denti in un beef burrito, iniziarono a raccontarsi di scene tutte
loro, viaggiando con la fantasia, cosa avrebbero voluto che accadesse
e cosa si aspettavano dallo spinoff: da altre guide spericolate con i
piedi sul volante per sparare con fucili ad alta precisione a
sparatorie l'una a fianco dell'altra, mentre discutono sulla loro
relazione e, magari, di come finiscono di nuovo per riavere una vita
simile. E poi c'era Bear. Dovevano assolutamente riavere Bear, il
cane. Ridevano e si guardavano, per ridere di nuovo, finendo anche il
pollo arricchito di salsa barbecue. Finito anche l'ultimo anello di
cipolla fritto, si lasciarono andare sul divanetto, bevendo
dell'acqua. Le loro bocche erano in fiamme ma ne era valsa la pena.
«Pensi
davvero che faremo questo spinoff?», chiese Sarah a un certo
punto,
guardandola negli occhi.
Amy
sorrideva già. Annuì. «Sì.
Non saremo qui, altrimenti. Non è
ufficiale, ma sarà questione di poco… Ci fanno
girare queste scene
per avere un'idea di come svilupparlo, credo, ma anche già
solo il
fatto che le stiamo girando è-», s'interruppe per
dare più enfasi
alle sue parole, «Vuol dire tutto», disse con
eccitazione,
alzandosi il tanto per riprendere di nuovo il bicchiere d'acqua.
Sarah
la scrutò per un po', mantenendo il sorriso sulle labbra, e
poi
fissò il soffitto, pensandoci. Pensando alle scene e alla
vibrazione
del corpo di Amy quando si erano sfiorate, vedendo la giacca con la
coda dell'occhio. Si erano toccate spesso e si toccheranno ancora
più
spesso da quel momento in avanti, recitando come una coppia.
Ah…
era diventato di nuovo strano. Andava bene lo spavento, ma la
vibrazione era un'altra cosa. Girò gli occhi di nuovo verso
di lei e
la sorprese a guardarla. Lo faceva sempre. Poi bevve di nuovo,
appoggiando il bicchiere vuoto.
«Ti
ricordi la scena del ponte? Quando parlavi-», si corresse,
mordendosi un labbro, «Quando Root parlava con la
Macchina?». Si
accertò di continuare dopo averla vista annuire.
«Root parlava
della vibrazione del corpo di Shaw, perché lei non
è abituata a
essere toccata in un certo modo, è sociopatica,
eccetera…».
Aspettò che annuisse di nuovo. «È
strano», si lasciò scappare
una risata, avvicinandosi a Amy, che si mise composta con la schiena,
«Quando ti ho messo la giacca di Root addosso tu hai tremato,
hai
vibrato come Shaw».
«Davvero?».
«Sì».
«Non
me ne sono accorta».
«Io
subito! Ci ho pensato per tutto il tempo perché è
buffo… Io che
faccio Shaw non ho vibrato, mentre tu che fai Root sì: il
contrario».
«È
vero», rise e Sarah con lei. Si sporse verso il tavolo e si
gettò
di nuovo acqua nel bicchiere, ricominciando a bere, sotto lo sguardo
pensieroso di Sarah.
«Perché
hai vibrato?».
Inghiottì
l'acqua e poggiò il bicchiere sul tavolino, pur continuando
a
tenerlo stretto. «Non lo so», scrollò di
spalle, «Non ricordo
nemmeno di averlo fatto».
«È
uno spasmo involontario», ripeté Sarah, accostando
la sua mano
sinistra sul braccio destro di Amy.
Quest'ultima
restò ferma, con la mano stretta al bicchiere, in attesa.
Sarah
passò i suoi polpastrelli velatamente sul braccio, facendole
entrare
i brividi. Amy dovette chiudere gli occhi in modo meccanico e Sarah
sorrise di nuovo.
«Cosa
hai sentito? Hai vibrato?», le domandò e Amy
scosse la testa.
«Dal
freddo», simulò i brividi con la voce, reggendosi
le braccia.
L'altra
si alzò dal divanetto e prese la giacca di pelle di Root,
riavvolgendogliela addosso. Risero ma si persero lentamente,
guardandosi negli occhi. «Allora non era frutto della mia
immaginazione…», sussurrò Sarah e Amy
aggrottò le sopracciglia.
«Cosa?».
Sarah
si sporse e le toccò una guancia. Il suo corpo
vibrò ancora. Amy lo
sapeva. «Il perché il tuo corpo vibra»,
rispose.
Si
fissarono ancora, vicinissime. Gli occhi e le labbra. La mano di
Sarah ancora sulla guancia sinistra di Amy, il cui pollice aveva
iniziato ad andare su e giù, in una dolce carezza. Si
guardarono
attentamente un'ultima volta, poi si avvicinarono e trovarono l'una
le labbra dell'altra. Premevano con forza, piano, poi più
forte,
approfondendo il bacio, e Sarah spostò la mano dalla guancia
alla
nuca, spingendola verso di lei. Le mani di Amy le presero le guance e
le accarezzarono il viso.
Era
diverso. Si erano baciate altre volte in favore di una telecamera, e
avevano riso, perfino con palese imbarazzo, per girare alcune scene.
Scene che, peraltro, la CBS aveva deciso di tagliare e avevano
cercato di renderle più sobrie possibili, lasciando che in
tv
passasse più l'idea di un bacio che un bacio reale. Sarah e
Amy
avevano cercato di baciarsi spesso senza baciarsi realmente, davanti
alla telecamera, mentre Shaw e Root si erano baciate tanto. Questa
volta non c'era alcuna telecamera davanti, non cercavano di baciarsi
senza baciarsi realmente per non far tagliare scene alla regia, non
fingevano, e non erano Shaw e Root: erano solo Sarah e Amy. Sarah e
Amy che si baciavano nella realtà, dov'erano entrambe
sposate, dove
avevano entrambe dei figli, dove non si amavano come si amavano Shaw
e Root ed eppure qualcosa era successo. Qualcosa che non doveva
succedere mai più.
E
con un giorno di anticipo, ecco la mia nuova fan fiction ^_^ Ci/Mi/Vi
farà compagnia per i prossimi nove lunedì
(escludiamo domani,
appunto che il capitolo è in anticipo), un capitolo a
settimana.
È
una fan fiction su Root e Shaw, è una fan fiction su un
possibile
spinoff, è una fan fiction su Amy e Sarah. È la
prima volta in
assoluto che scrivo una fan fiction usando persone realmente
esistenti: inizialmente non lo volevo nemmeno fare, ma l'ispirazione
ahimè non è stata clemente e ho deciso di
seguirla; spero di non
fare danni. Se mai Amy Acker o Sarah Shahi dovessero scoprire questa
fan fiction… la farò sparire dalla faccia della
Terra ^_^
Detto
questo, alcune note…
- Scrivendo di personaggi non miei e di
persone reali ho dovuto in un
qualche modo farle “mie” (non in quel senso,
aemh…); non le
conosco in ogni particolare e, in special modo per le seconde, delle
cose me le sono dovute inventare (ad esempio, non so neppure se a
loro piace mangiare messicano)
- Ho mantenuto il finale di Person
of Interest, pur avendo
volutamente modificato delle cose per rendermi il lavoro più
facile
(quindi se state pensando, in questo o nei capitoli futuri, “ma
è successo questo e non proprio quest'altro”
sappiate
anticipatamente che non m'importa, è fatto apposta!)
- Non so come si svolgono realmente le
cose dietro il set di un
telefilm, quindi la maggior parte delle scene che riguardano questo
aspetto sono inventate, idealizzate
- A parte Amy e Sarah (e Netflix, sia
mai gli fischiassero le
orecchie), gli altri nomi sono di personaggi inventati da me
- Il titolo di questa fan fiction
potrebbe (non ho ancora decisissimo, in realtà) cambiare
verso il penultimo/ultimo capitolo (non per niente, c'è
l'"Untitled")
- Nessun beef burrito è
stato sacrificato per la stesura di questo
capitolo
- Questo è il capitolo
più corto di tutti: non vi ci abituate ;)
Fatemi
sapere cosa ne pensate in recensione, se vi va!
Ci
rileggiamo lunedì (prossimo) con il capitolo due: Destino ^_^
|
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Capitolo 2 *** Capitolo due. Destino ***
Dicono
che il destino non esista. E forse è così. Le
cose capitano perché
semplicemente capitano, come potrebbero non accadere con la stessa
semplicità e casualità; eppure a volte succede
quel qualcosa che
mette in dubbio ogni tua idea a riguardo perché quel
qualcosa, oh,
quel qualcosa è così strano e sorprendente che
non riesci a non
chiederti se è successo perché doveva succedere,
perché così
doveva andare, invece che puro artificio della coincidenza. Molti,
d'altronde, sono convinti che la coincidenza non esista.
Si
erano incontrate la prima volta in quella che considererebbero una
vita fa, in un largo corridoio di un luogo che trattiene i giovani
per degli anni mentre prosciuga loro le energie vitali:
l'università.
Una delle due era una matricola, bassa, capelli disordinati, scarpe
più larghe della sua misura. L'altra era all'ultimo anno,
alta, con
la riga in mezzo e la coroncina, una camicetta con un filo di pizzo.
Opposte proprio come la direzione che stavano percorrendo e,
nonostante ci fosse tanto spazio dove camminare, si erano lo stesso
ritrovate a sbattere. Le loro braccia si erano toccate ed entrambe si
erano girate d'istinto ma, come è facile pensare, non si
erano
viste. La porta davanti si era aperta proprio in quell'istante e un
numeroso gruppo di chiassosi studenti si era frapposto intorno a loro
e così avevano ripreso a camminare ognuna per la sua strada.
E
così avevano continuato: entrambe avevano iniziato la
carriera da
attrici con ruoli minori, con un po' di fortuna riuscendo a
ritagliarsi uno spazio sempre maggiore sul piccolo schermo, entrambe
si erano sposate giovanissime con dei loro colleghi conosciuti sul
set, entrambe avevano avuto dei figli e, infine, entrambe avevano
passato la selezione per un telefilm che avrebbero amato, Person
of Interest.
La seconda fin dalla prima stagione, la prima dalla seconda. Si erano
incontrate e si erano conosciute come se già si conoscessero
da
sempre. Entrambe nate in Texas, entrambe avevano avuto un Jack
Russell, entrambe avevano frequentato la stessa università.
La loro
chimica era esplosa e i loro personaggi si erano avvicinati fino al
punto da spingere gli scrittori a creare per loro qualcosa che non
era minimamente nei piani: una storia d'amore. Più Root
flirtava con
Shaw e più tutto sembrava evidente, sensato, giusto.
Perfetto.
Allungò
la mano sinistra verso l'altro lato del letto, tastando fuori dal
lenzuolo, ma non c'era niente. Shaw si scoprì gli occhi,
spostando i
capelli, ma l'unica cosa che vedeva era la pioggia che faceva tanto
baccano per tutto l'appartamento; la finestra a tratti diventava
completamente bianca: stava tuonando e la luce improvvisa e veloce
illuminava tutta la stanza, permettendole di capire che Root non
c'era. Non era sul letto ma non era neppure nel resto della stanza.
«Root?», borbottò con la faccia
schiacciata sul materasso. Mise
forza sulle braccia per alzarsi il tanto di guardarsi meglio attorno.
La giacca di Root era appesa sul muro tenuta con una stampella su un
chiodo: i lampi la illuminavano. Non capiva: dove poteva essere
andata a notte fonda, per di più sotto un temporale? Era a
pancia
contro il materasso così si girò verso la
finestra, ricoprendo il
corpo nudo con il lenzuolo, capendo di avere qualche brivido di
freddo. Fissò le gocce di pioggia che si schiantavano contro
il
vetro per un po', fino a riaddormentarsi.
«Ehi,
tesoro».
Shaw
udì la sua voce appena, era ancora troppo assonnata,
finché non si
sentì ballonzolare sul materasso e allora si
sforzò di aprire gli
occhi, infastidita: Root era già vestita e si era gettata
sul letto.
Era mattina.
«Ho
comprato la colazione nel localino sotto casa: ho preso del succo
d'arancia, delle brioche e dei pancake, tanti pancake», le
sorrise,
«Alzati finché sono ancora caldi».
«Dove
sei stata stanotte?».
Root
incurvò la testa, sorpresa, sdraiandosi il tanto giusto per
allungarle una mano verso il viso, spostandole i capelli dagli occhi.
«Ero qui con te, stanotte».
All'improvviso
le venne il dubbio e le immagini si ripresentarono prepotentemente
nella sua testa: la finestra che diventava bianca, il rumore della
pioggia e le gocce che precipitavano sul vetro, lei sul materasso,
con solo il lenzuolo addosso. Era sola. La giacca di Root appesa con
una stampella su un chiodo nel muro. Deglutì. La notte stava
sognando o quello era un sogno e Root era morta? No.
Strizzò gli occhi con le dita. Root era lì
davanti a lei. Non
poteva credere di stare confondendo ancora la realtà a causa
delle
simulazioni della sua prigionia nelle mani di Samaritan. Credeva di
esserci già passata: avevano vinto; Root era morta, John era
morto,
Harold era morto, la Macchina era stata liberata. Poi Root era
tornata da lei. Era tornata da lei. «Mi sono svegliata e non
c'eri»,
le fece notare.
«Forse
ero andata in bagno?», le sorrise ancora, scuotendo la testa.
Ammise
che poteva essere vero, per quanto ne sapeva. Si mise seduta e i
capelli più corti le scesero lungo il seno scoperto. A Root
cadde
l'occhio e le portò una mano dietro la nuca. Stavano per
baciarsi
quando il viso addormentato di Shaw si accese di scatto, guardando
l'altra negli occhi: «Hai detto pancake?». Si
allontanò e ricercò
i suoi slip, alzandosi dal letto per correre a fare colazione. Anche
Bear le corse dietro lasciando il suo materassino, scodinzolando.
Root
alzò gli occhi al soffitto e dopo sorrise, rimettendosi in
piedi per
raggiungerla.
Si
svegliò di nuovo, scoprendosi fino alla vita, lasciando
scivolare
una mano lungo la vestaglietta fine. Non c'era verso: non riusciva
proprio a prendere sonno. Allungò una mano e diede
un'occhiata alla
sveglia sul comodino: le 17:44. Amy sospirò. Se non dormiva
ancora
un po' le sarebbe certo venuto sonno quando avrebbe dovuto girare fra
qualche ora. Si spostò, mettendosi schiena contro il
materasso e
fissò il soffitto della roulotte, ripensando a
ciò che era
successo. E a ciò che non era successo. Lei e Sarah si erano
baciate
veramente, si erano baciate con le bocche che bruciavano per la
cucina messicana, si erano baciate a lungo, si erano toccate,
sentite, respirate, si erano… Si fermò. Si erano
separate e
avevano deciso che non sarebbe successo mai più. Oh,
accidenti, era
sposata! E anche Sarah era sposata! Rischiare di mandare a monte il
suo matrimonio, no,
quello di entrambe,
per una cotta… era impensabile, faceva paura persino a
pensarlo!
Anche James era un attore e non aveva mai avuto problemi quando sua
moglie si era ritrovata a baciare un altro, e un'altra in quel caso,
ma un bacio sotto i riflettori era una cosa molto diversa da quello
che era successo nella sua roulotte. Era stato uno sbaglio. Un
terribile sbaglio.
Si
portò una mano sulla fronte, sospirando. Erano
già passati dei
giorni e stavano provando a fare finta di niente, naturalmente,
dovevano di continuo stare l'una con l'altra e non c'era tempo per
imbarazzarsi e fare le ragazzine, ma accidenti se l'aria era
diventata pesante. Tanto che l'unico momento in cui avrebbe dovuto
dormire continuava a pensarci senza sosta, da sola, nell'ombra data
dalle tende chiuse.
Quanto
avrebbe dato per sapere cosa passava per la testa di Sarah.
Prese
il cellulare e premette un pulsante, socchiudendo gli occhi per la
luminosità troppo alta. Sospirò di nuovo,
accennando un sorriso,
provando a fare una telefonata. «Ciao, amore»,
sorrise e si
imbronciò di colpo, sentendo dall'altra parte una vocina
stizzita.
«Davvero? E cosa è succe- Oh, al solito. Passami
tuo fratello», si
grattò la fronte, «Ava, passami tuo fratello!
No… e va bene, ci
sentiamo domani! Non litigate, per favore». Diede la
buonanotte per
errore e riattaccò. Quando se ne accorse rise da sola. Ah,
ripensò
che i figli di Sarah erano ancora troppo piccoli per litigare come
facevano i suoi. Appoggiò il telefono sul comodino con uno
sbuffo
quando si accorse di aver di nuovo pensato a Sarah, che nemmeno
parlare con sua figlia l'aveva fatta tornare alla realtà.
Si
ricoprì fino al collo e sorrise, ripensando a vecchi
momenti…
Appena glielo aveva detto, era saltata di gioia:
«Incinta?
Sei incinta?», le aveva ripetuto col cuore in gola, mentre
Sarah
annuiva, sorridendo. Le aveva toccato la pancia d'istinto ma era
ancora troppo piccola affinché si sentisse qualcosa e si era
tirata
indietro chiedendole scusa, sorridendo, intanto che Sarah si piegava
dal ridere.
«Tra
un mese e mezzo o due sarà tutta tua», le aveva
detto Sarah,
dandole una pacca sulla spalla.
E
lo era stata: appena finivano di girare una scena, a ogni pausa, Amy
portava le sue mani alla pancia di Sarah che cresceva a vista
d'occhio. Le era stata così vicina che, per una qualche
strana
combinazione delle cose, aveva sentito quei due gemelli anche un po'
suoi. E lo aveva dimostrato, rendendosene conto solo a danno ormai
fatto, quando in un'intervista aveva parlato del finale felici e
contenti che sperava per Root e Shaw includendo il cane Bear e i
gemellini di Shaw.
I gemellini di Shaw. Aveva detto proprio così, non ci poteva
credere, confondendo non solo la realtà e la fiction, non
aveva
nemmeno distinto Sarah da Shaw. E non che fossero proprio uguali, se
non l'aspetto. L'aveva presa a ridere e Sarah aveva riso lo stesso,
quando l'aveva saputo. Perfino James. Era stata l'ingenuità
del
momento, un piccolo lapsus, eppure lei ci aveva rimuginato per
giorni: che sentisse davvero tanto di essere in sintonia con Root da
percepire il suo amore verso Shaw così reale da trasmetterlo
a se
stessa per Sarah? Era una sciocchezza. Aveva sepolto questi pensieri
allora e poteva farlo di nuovo. Anche se c'era stato un bacio.
Chissà
cosa passava per la testa di Sarah…
Qualcuno
bussò alla sua roulotte e Amy si spaventò,
scoprendo di essersi
addormentata, anche se per poco. Si alzò dal letto in fretta
e si
rivestì; avrebbe avuto del tempo mentre le sistemavano il
trucco e i
capelli per svegliarsi decentemente.
Il
tre, il due, l'uno. Amy, in veste di Root, si era fermata di scatto.
Secondo il copione doveva aver sentito dei passi a poco da lei ma,
guardando indietro, non c'era e non doveva esserci nessuno. I ragazzi
con la luce si avvicinarono tanto che le stavano quasi sui piedi,
puntando al suo viso, mentre lei, dopo aver salito qualche scalino,
si fermava davanti alla porta di un immenso hotel. I ragazzi delle
luci erano vicini e così le telecamere, ma le bastava sapere
di
essere Root di nuovo per non farci caso. Guardò verso la
strada,
alle telecamere che stavano riprendendo, e tirò la maniglia
verso di
lei. Entrò nell'edificio e staccarono la scena,
così ritornò Amy.
Qualche operatore dentro l'hotel corse loro incontro, mettendosi al
lavoro per sistemare cavi elettrici, microfoni, telecamere e pannelli
della luce.
«Okay,
abbiamo il permesso di girare anche all'interno, ma abbiamo firmato
per questa notte soltanto», enunciò a gran voce
Sandra Mollier, la
regista.
La
truccatrice si avvicinò a Amy e le controllò se
il viso era ancora
perfetto per le telecamere e poi le sollevò un poco i
capelli, prima
di lasciarla. Dopo che erano finite le riprese di Person
of Interest
anche lei, come Sarah, aveva tagliato i capelli. Root aveva i capelli
così lunghi nella quinta stagione che ora le faceva quasi
strano
interpretare lo stesso personaggio con i capelli solo alla
metà di
come li aveva prima, come se avesse fatto un torto a Root,
tagliandoglieli senza averla prima avvertita. O preparata. Se li
sfiorò, nelle punte, ricordando che lo aveva fatto
soprattutto
perché pensava che non avrebbe più interpretato
quel personaggio,
anche se a malincuore: era un capitolo della sua vita che si
chiudeva, e forse doveva averlo pensato anche Sarah.
Si
girò e guardò al cielo, scoprendo che aveva
iniziato a piovere.
Qualcuno disse che lo avevano previsto e tutti si munirono di
ombrelli, coprendo anche le attrezzature.
«Forza»,
Sandra Mollier batté le mani, «Si
ricomincia».
Amy
si riconcentrò, guardando attentamente il salone e facendo
memoria.
Tutti ritornarono al proprio posto ed era di nuovo sola anche se sola
non lo era mai, diventando ancora Root. Entrò nell'hotel e
si chiuse
la porta alle spalle, camminando con sicurezza fino al portiere,
poggiando i gomiti sul bancone. Gli sorrise.
«Ha
prenotato?», domandò lui dopo averle dato il
benvenuto. La
telecamera aveva zumato sull'uomo, catturando nel vivo il sonno e il
disinteresse del portiere.
«Numero
quarantuno, Cassandra Hodges».
Lui
controllò rapidamente al computer e sorrise appena, con
sforzo,
allungando una mano per prendere la chiave elettrica. Le telecamere
si allontanarono intanto che lei le afferrava e salutava il portiere.
«Buonanotte,
signorina Hodges».
Secondo
piano, quarantadue. Non c'era tempo per fare altrimenti: Root
scoperchiò il pannello elettrico accanto e spezzò
due cavi,
permettendo alla porta della camera di aprirsi, chiudendo di nuovo.
Entrò, prima che passasse qualcuno per il corridoio. Si
ritrovò
davanti a una camera costosa ma completamente sottosopra. Amy aveva
letto nel copione che la stanza era stata noleggiata da un certo
Marshall Mason e che quella notte non ci sarebbe stato. Root pensava
a un probabile alias e doveva assolutamente scoprire la sua reale
identità. Era stata la Macchina a fornirle l'indirizzo. Dopo
aver
fatto un'altra pausa, ricominciarono a girare quando Root aveva
già
messo le mani un po' ovunque, frugando fra i cassetti della
biancheria a quelli delle caramelle, sotto il materasso e i cuscini,
il divano, nel frigo, nel mobile del televisore. Infine
trovò
qualcosa semiaccartocciato su una poltrona davanti alla televisione,
in mezzo a briciole di patatine: aprì ed era una foto, il
soggetto
Caroline Turing. Root fissò la foto con attenzione. Caroline
Turing
era l'alias che aveva usato anni prima per incontrare Harold e farsi
dire dove si trovava la Macchina. Rimise tutto com'era e
uscì dalla
stanza, trovando quasi sui suoi piedi un facchino che spazzava
l'andito, cogliendola di sorpresa. Il ragazzo trattenne il respiro.
«Uff,
credo proprio di aver sbagliato stanza», gli
mostrò la chiave
magnetica ma lui non fece in tempo a dirle che con quella avrebbe
dovuto aprire solo la sua poiché si immobilizzò,
guardando alle
spalle di lei, lontano. Root si voltò e, ancor prima di
esserne
certa, sfilò la pistola che teneva in vita nascosta dalla
sua nuova
giacca e tirò indietro il facchino, prendendo anche un'altra
pistola, con l'altra mano. Le puntò all'uomo velocemente e
lui aveva
fatto lo stesso. Lo straniero sorrise, prima di aprire il fuoco.
«Stooop»,
gridò Sandra Mollier, fermando tutto.
«Spero
che il progetto vada in porto, signora Acker! Auguri», disse
il
ragazzo che interpretava il facchino, stringendo la mano a Amy, prima
di raggiungere il resto degli addetti ai lavori e iniziare a chiedere
in giro se sapevano se il suo personaggio sarebbe stato ucciso,
ferito o se se la sarebbe scampata.
E
anche quella scena era finita, pensò Amy. Vide avvicinarsi
anche il
grosso uomo che fino a poco prima aveva tentato di sparare a Root:
ogni volta che avanzava un passo i suoi stivali facevano rumore
contro la bassa moquette del corridoio. Era simpatico, lo aveva
conosciuto prima delle riprese e anche lui le strinse la mano,
dicendole che sperava proprio di rivederla, anche se forse avrebbe
tentato di ucciderla.
«In
quanti ci hanno provato», ridacchiò lei. Poi le
chiese una foto e
accettò, prima che il set smontasse.
Avevano
finito. Quella sarebbe stata l'ultima scena per testare il possibile
spinoff, dopo aver lasciato a Sarah interpretare la scena da sola sul
letto. Avevano del materiale e avrebbero accostato il tutto per
sapere se avrebbe o meno funzionato. Il futuro di Root e Shaw era
nelle loro mani e in quelle poche scene.
In
realtà, di tempo prima del responso non ne passò
molto. Il set
aveva chiuso e avevano mandato tutti a casa ma passò meno di
una
settimana che su alcuni giornali online erano apparse alcune foto
sfocate di Amy Acker in abbigliamento da Root entrare in un hotel,
circondata da telecamere. Non poteva essere una vecchia foto di
Person
of Interest:
Root non era mai stata in quell'hotel prima e non poteva essere una
scena tagliata, poiché a essere tagliati erano chiaramente i
capelli
dell'attrice.
ROOT
IS ALIVE. ROOT IS BACK? SHOOT SPIN-OFF ARE COMING?
Citavano alcuni articoli sopra le foto. Dopo poco, altre foto ancora
apparvero in rete e furono distribuite: ritraevano Root e Shaw che
passeggiavano sopra un ponte. L'idea che potesse accadere sul serio
una cosa del genere mandò in visibilio i fans e le foto
circolarono
in ogni angolo del web. Era il prezzo di girare all'aperto, lo
conoscevano tutti, e i profili Twitter delle attrici furono
bombardati fra domande e segnali di aiuto per capirci di
più. Non
accettavano il loro silenzio, ma nessuna delle due poteva dire
niente, anche perché in realtà loro stesse
sapevano molto poco:
erano tornate a casa e avevano ripreso contatto con la loro vita
fuori dagli impegni lavorativi, fra figli, spesa, compiti, amici.
Entrambi i loro mariti erano impegnati a girare per altri show
televisivi e così le due avevano preso l'abitudine di
sentirsi ogni
sera dopo aver cenato, magari dopo aver parlato con loro.
Era
una sera piovosa come quella notte quando sul profilo ufficiale di
Netflix su Twitter comparve un messaggio ben chiaro che diede il via
a liste chilometriche di cinguettii del famoso social di fan
esaltati: lo spinoff Shoot si sarebbe fatto. Sì, ci stavano
lavorando. Era realtà. Amy e Sarah erano state avvertite la
notte
prima e non avevano dormito dall'eccitazione, ritwittando il
messaggio di Netflix sui propri profili appena videro che era stato
annunciato. Avrebbero avuto ancora due settimane e poi il set avrebbe
riaperto: gli scrittori avevano già pronti sui cinque
episodi e
avrebbero cominciato da quello, proseguendo da dove si erano
interrotte le scene di prova che, con molta probabilità,
sarebbero
state usate quasi tutte.
Ancora
due settimane e tutto poteva cominciare di nuovo.
Il
cellulare vibrò, muovendosi sul tavolino di vetro. Un altro
messaggio. Era tardi e non ne arrivavano da un po', così
Sarah
s'incuriosì, sporgendosi per fermare con il telecomando una
delle
partite di baseball che le avevano salvato, afferrando il cellulare e
sistemando la piccola ciotola di popcorn in mezzo alle gambe
incrociate, sulla larga maglietta con una palla da baseball
disegnata sopra, che indossava. Accese e rise, portandosi un popcorn
in bocca, spostando i capelli sciolti da un lato.
Sono
troppo emozionata, non riesco a dormire! Ti avevo dato la buonanotte
due ore fa e sono ancora sveglia sul letto che ci penso… Tu
dormi??
(:
Nooo!
Sto guardando il baseball. Amy dormi!! :P
Ma
non riesco a dormire :(
Vieni
qua! ;P Ho anche i popcorn e qualcosa da bere!
Non
sfidarmi!! Ci riprovo! Buonanotte Sarah (:
Buonanotte,
ti mando un messaggio domattina per sapere se hai dormito :D
Appoggiò
di nuovo il cellulare sul tavolo di vetro e sorrise, portandosi altri
porcorn alla bocca.
Scivolò
giù dal letto e si rivestì in fretta, dando un
biscottino a Bear
per non fargli fare chiasso. S'infilò la giacca sopra la
maglia a
collo alto guardando Shaw che dormiva. Sarebbe rimasta lì a
vederla
dormire per sempre. Aveva fatto così tanto per ritrovarla,
per
inviarle un messaggio e ridarle speranza quando era nelle mani di
Samaritan che ora quasi stentava a credere che fosse tutto vero, che
lei era lì e che erano insieme. Poggiò un
ginocchio sul materasso e
si allungò per farle una carezza e darle un bacio. Un altro
biscotto
a Bear per comprare il suo silenzio e uscì.
Si
mise in marcia guardandosi intorno, notando qualche passante. Anche
se era tarda notte, sapeva che c'era una festicciola ed era diretta
proprio lì. La Macchina le aveva fatto sapere che Marshall
Mason era
nelle sue tracce e che presto o tardi l'avrebbe trovata,
così
sarebbe stato meglio anticipare i tempi e coglierlo di sorpresa:
sembrava che dovesse intrattenersi con qualcuno alla festa, la
Macchina aveva intercettato una chiamata. Non era riuscita a sapere
altro se non il nome del locale, poi la connessione con lei si era
interrotta, ma era un buon punto di partenza. Camminò con
sicurezza
fino ad avvicinarsi a un'automobile parcheggiata: aprì il
cofano
anteriore e si accertò che il motore si accendesse,
così richiuse
e, appoggiandosi allo sportello del guidatore, lo aprì,
partendo
verso la festa. Capì di essere arrivata quando le luci
colorate
inondarono le strade, e i palloncini, gli striscioni, le urla dei
bambini, le risate sotto la musica ad alto volume. Lasciò
l'automobile e proseguì a piedi, mescolandosi nella folla.
Per
un attimo, vedendo le famiglie con bambini che si divertivano, le
passò per la testa di volere realmente una vita
così, una vita
normale. Credeva di stare combattendo per quello eppure, ancora una
volta, si era ritrovata a stringere le sue pistole e a sparare.
Cominciava a credere di non essere semplicemente capace di essere una
persona normale. Fuggiva e si nascondeva da quando aveva dodici anni,
dopotutto, e il suo rapporto con la Macchina era importante per
entrambe, non sarebbe riuscita a smettere all'improvviso e basta,
anche se non era stata capace di essere sincera con Shaw e dirglielo.
Le aveva fatto credere di stare cercando un lavoro e di stare
tranquilla, che avrebbe pensato lei a tutto perché era
ancora
provata da ciò che era successo nei mesi di prigionia con
Samaritan
e aveva bisogno di riposo, ma in realtà aveva provato una
sola volta
ad approcciarsi nel mondo del lavoro vero e aveva mollato. Sapeva
fare di tutto perché aveva sempre fatto di tutto, ma era una
cosa
diversa se si trattava di farlo a lungo termine.
Udì
che la Macchina stava cercando di mettersi in contatto con lei e si
girò, trovando la telecamera di sorveglianza accesa di un
negozio.
Restò in ascolto per decifrare il codice morse ma
sentì un fischio
all'orecchio buono e si mantenne la testa fino a quando non lo
sentì
più. Si guardò attorno e, scoprendo che il locale
che le aveva
indicato era appena dall'altra parte della strada, andò
spedita. A
causa della musica troppo alta non poteva certo sentire lo squillo di
un telefono pubblico non troppo lontano da dov'era. La Macchina
probabilmente aveva saputo delle novità e voleva metterla in
guardia, perché ciò che successe dopo non se lo
aspettava, anche se
forse avrebbe dovuto: il locale era pieno di coppie e giovani che si
divertivano e bevevano intorno ai tavoli, ma nessuno appariva come
sospetto, così uscì ma ancor prima di
allontanarsi qualcosa si
appoggiò contro la sua schiena, una pistola, e Root sorrise
d'istinto. C'era troppa gente per improvvisare qualcosa lì
in mezzo,
così si mantenne ferma.
«Samantha
Groves», sussurrò quella voce maschile e gutturale
dietro di lei.
«Finalmente siamo faccia a faccia; non sai per quanto tempo ho
desiderato questo momento».
«Marshall
Mason, presumo. Non sei l'uomo dell'hotel».
«Bisogna
sapersi muovere preparati, soprattutto con te».
Le
disse di camminare e lei obbedì, fermandosi nello spiazzo
verde di
un parco adiacente alle vie dove si consumava la festa.
«Ho
saputo che mi cercavi», gli disse.
«Da
anni», rispose, «Sei un camaleonte… Root.
Ti fai chiamare così, no? Io ti conoscevo come Marguerite
Yves».
Root
spalancò gli occhi, spegnendo il suo sorriso.
«Hai
perso la lingua, adesso?», incitò lui, battendole
la pistola contro
la schiena.
Non
era solo. Sentiva la presenza di almeno altri quattro uomini che la
tenevano sotto tiro, erano preparati, e si muovevano fra la
vegetazione del parco. A quel punto doveva solo capire cosa voleva da
lei quell'individuo: se portarla via o ucciderla. In ogni caso, lo
avrebbe fatto sudare.
Riprese
il suo sorriso e alzò le braccia, girandosi. Lui era alto,
emaciato,
con i capelli così corti da sembrare pelato, e aveva il
segno scuro
della barba. Non lo aveva mai visto prima. «Ti ha pagato
bene?»,
domandò incurvando la testa, sorridendo.
«Non
sai quanto». Alzò la pistola e gliela
puntò alla tempia, a quel
punto capì che era arrivato il momento di agire.
Alzò
un braccio in fretta e gli spinse la pistola verso l'alto,
lasciandogli sparare un colpo, che mise la gente della festa subito
in fuga, in urla, mentre con l'altra prese una delle pistole che
aveva dietro la giacca e sparò verso un cespuglio, colpendo
un uomo
che finì a terra. Si girò in fretta e
sparò un altro colpo verso
un lampione e ne colpì un altro, e così un altro
ancora,
velocemente, e per poco non sbagliava e prendeva un albero. Marshall
Mason tentò di difendersi e la colpì con uno
strattone; le puntò
la pistola contro ma lei lo fece cadere a terra con uno sgambetto e
lo colpì a un fianco con un calcio. Un uomo con la pistola
sbucò
alla sua destra all'ultimo e, per girarsi e colpirlo, non
badò a
Marshall Mason, che riprese la sua pistola e gliela puntò
contro di
nuovo. Sparò. Ma anche qualcun altro. Root cadde a terra e
lo stesso
la pistola dell'avversario, intanto che una macchia scura sbucava
fuori all'improvviso dalle vie della festa e si gettava su Mason,
afferrandolo al collo. Lui cercò di dimenarsi e
buttò Shaw
sull'erba, così lei riprese la sua pistola e
sparò a un altro, a un
altro ancora, finché tutti batterono in ritirata.
Mirò all'uomo
pelato ma era già lontano e non aveva tempo da perdere,
preferendo
aiutare Root.
Rientrò
a casa reggendola su di lei. Il fianco aveva perso molto sangue
durante la corsa in auto, sicuramente il proprietario non ne sarebbe
stato felice, ma non aveva colpito nessun organo vitale. Root si
sdraiò sul letto, Bear salì e si
sdraiò accanto a lei come se
sapesse e Shaw portò il kit di pronto soccorso,
rimproverandosi di
averla persa nella folla, alla festa.
Root
la fissava con attenzione mentre lavorava con estrema precisione per
estrarle il proiettile.
L'aveva
seguita. Aveva finto di dormire e poi l'aveva seguita.
«Cosa
sta succedendo?», le chiese finalmente, gettando il
proiettile in un
contenitore, prendendo dell'alcol: ne bevve un sorso e poi gliene
gettò un po' sulla ferita, per aiutarla a cicatrizzare. Root
strinse
i denti ma non perse il sorriso. «Potevi farti
uccidere». Shaw
ripensò al sangue che perdeva sul sedile dell'auto e strinse
gli
occhi, ricordando che l'ultima volta che l'aveva vista, prima di
sapere della sua morte, stava salendo su un'automobile simile a
quella, con Harold. Ma lei non era morta, allora. Non era morta.
«Quegli
uomini sono stati pagati per trovarmi e uccidermi»,
confessò, «La
Macchina mi aveva messa in guardia. Volevo trovarli prima che
trovassero me, ma a quanto pare era una trappola».
Shaw
non mosse nemmeno un muscolo facciale, come se sapere di Root che era
ancora in contatto con la Macchina non la sorprendesse affatto.
«Perché non mi hai detto niente?».
«Perché
hai bisogno di riposo».
«Root»,
la richiamò, guardandola in faccia, «La
verità».
Lei
roteò gli occhi. «Non voglio perderti di nuovo,
Sameen», scosse la
testa, «Per mesi ti hanno trattenuta lontano da me e non
sapevo se
eri morta o se eri viva, cercando-», si fermò un
secondo; tentò di
trattenere il sorriso ma le venne difficile con gli occhi lucidi,
così formò una smorfia con la bocca,
«cercando un modo per andare
avanti, per non impazzire… E adesso che sei qui, farei di
tutto per
tenerti al sicuro». Shaw la fissava senza dire una parola.
«Dovevamo
andare avanti, dovevamo costruirci una nuova vita e non volevo in
alcun modo che tu tornassi a rischiarla là fuori, in special
modo
per me».
«Sei
un'egoista. Non puoi decidere per me quello che devo fare».
Lei
rise, con le lacrime che le rigavano il viso. Alzò una mano
e le
carezzò una guancia, scorgendo un luccichio negli occhi di
Shaw.
Stava per dire qualcosa ma l'altra la fermò, avvicinandosi:
le prese
il viso e la baciò. Piano, le portò via un
labbro. La lasciò
andare solo quando si accorse che si stava lamentando troppo dal
dolore. Root allungò le braccia per farla avvicinare e Shaw
si
appoggiò su una spalla, portando una mano vicino alla
ferita, senza
premere né accarezzare, perché avrebbe potuto
farle male.
«Sono
rotta, Sam», confidò a un certo punto, nel
silenzio.
Shaw
la guardò con la coda dell'occhio, cercando di capire cosa
volesse
dire.
«Quando
mi sono risvegliata dalla morte, non mi ero resa conto subito del
danno che mi ha
causato stare sotto farmaci per così tanto tempo. Mi sono
dovuta
staccare l'impianto cocleare perché mi dava problemi, ma
adesso
anche l'altro orecchio ha difficoltà ad ascoltare la
Macchina». Il
suo viso si ricoprì di nuovo di lacrime, riuscendo di nuovo
a
sorridere. Marguerite Yves, pensò. L'alias che
usò quando aveva
solo diciotto anni. «Se ci penso, è buffo
perché fin da quando ero
ragazzina ho sempre preferito le macchine alle persone e parlare con
la Macchina, per me, era un sogno che si avverava. Era più
di quanto
mai avessi potuto sperare per la mia vita. Ma un giorno ho inscenato
la mia morte per proteggere i miei amici. E te», la
guardò, «Ho
preferito le persone e, facendo quella scelta, ho messo a rischio la
mia connessione con la Macchina».
Shaw
sorrise, infine. Era così bello vederle fare quel sorriso,
per Root.
«Io sono stata ritenuta inadatta a diventare medico per
scarsità di
empatia. Le persone non sono mai state il mio forte. Eppure sono qui,
adesso».
Root
sorrise a sua volta. «Siamo proprio fatte l'una per l'altra,
Sameen.
Finalmente lo hai capito. Era destino che ci incontrassimo».
Shaw
la baciò di nuovo e Root ricambiò, trattenendo il
dolore. Quello
poteva aspettare.
Bentornate/i!
Cosa ne pensate al momento della storia? Passare da Amy e Sarah a
Root e Shaw è complicato o vi ci trovate? Spero la seconda!
Lo
spinoff è ufficiale, Amy ripensa al bacio che si sono
scambiate lei
e Sarah nello scorso capitolo e, dall'altra parte, Shaw aiuta Root a
scappare da uomini che sono stati pagati per ucciderla. Pagati da chi,
perché? E Marguerite
Yves? La trama
comincia a prendere forma.
Le
solite note…
- L'università:
sì, Amy e Sarah hanno frequentato davvero la stessa
università ma
non so se si sono o meno incontrate come nella fan fiction.
- Ho
scritto che entrambe hanno conosciuto i propri mariti sul set: in
verità lo so per certo solo di Sarah, ma era comodo che
fosse così
per tutte e due.
- Tutte
quelle cose in comune fra loro sono vere. Hanno vissuto una vita in
parallelo e fa un po' ridere!
- Ho
scritto che Harold è morto perché Shaw sa che lo
è ed è una parte
scritta dal suo punto di vista.
- Amy
e 'i gemellini di Shaw' è un riferimento a una vera
intervista! Ma
Amy quanto è tenera? ♥
- Dopo
tanto rimuginarci, ho deciso di usare i reali nomi dei figli di Amy e
Sarah, che comunque non appariranno spesso.
- Da
che so, il
baseball a Sarah
piace particolarmente.
Ringrazio
chi ha inserito la fan fiction nelle varie liste e, anche qui, chi mi
ha lasciato una recensione allo scorso capitolo: spero di risentirvi
e che questo secondo capitolo vi sia piaciuto :)
Ci
rileggiamo la settimana prossima con il capitolo tre: Chi
l'avrebbe mai detto!
~♥
|
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Capitolo 3 *** Capitolo tre. Chi l'avrebbe mai detto ***
Cap3
«Sarah
è così forte… È molto
talentuosa ed è sempre un piacere
lavorare con lei. Siamo entrambe molto felici e grate di prendere
parte insieme a questa nuova opportunità e che-»,
si fermò il
tempo di mordersi un labbro e sorridere di nuovo, «possiamo
riprendere da dove avevamo lasciato la storia d'amore fra Root e
Shaw».
«Un'altra
domanda, Amy», disse l'intervistatore dietro la telecamera:
«Eri
soddisfatta di come si era concluso Person
of Interest
per il tuo personaggio? Hai sempre creduto in questo progetto o
credevi di aver terminato con Root?».
Lei
guardò in alto, cercando le parole. «Credevo di
aver terminato con
Root… sì», annuì,
«Ma speravo non fosse così per sempre»,
scoppiò a ridere, portandosi una mano sul viso. Era
diventata rossa.
«Ho creduto in questo progetto ma avevo paura non si
realizzasse…
Sentivo di avere ancora molto da raccontare su di lei, con lei, al
suo fianco. Soprattutto nella sua relazione con Shaw che si era come
fermata», sorrise, gesticolando, «bloccata quando
proprio si erano
appena ritrovate! Per poi separarsi ancora».
«È
un po' triste».
«Sì»,
annuì, stringendo le labbra, «Era un po'
triste».
«Amy
è un'attrice straordinaria! Siamo molto amiche e non vedevo
l'ora di
lavorare di nuovo con lei! Penso che questa sia
un'opportunità più
unica che rara. Ci stanno dando altro spazio per interpretare
personaggi che amiamo e che si sono visti troncare un futuro, dopo un
passato di ingiustizie…», prese fiato, accennando
un sorriso,
«Credo che Shaw e Root possano ancora raccontare tanto e che
più
che mai adesso possano farlo al meglio, in uno show completamente
dedicato a loro». Si fermò, spostando i suoi
capelli da un lato.
«Root era morta e Shaw era appena tornata dopo aver passato
dei mesi
a sognare di loro due, nelle simulazioni… Non era giusto!
All'inizio, Shaw non era ancora convinta si trattasse della
realtà,
non poteva credere a quello che stava succedendo e da un momento
all'altro pensava di potersi risvegliare su quel letto ma una parte
di lei sapeva, sapeva che era diverso, e ci stava male. Si erano
appena ritrovate e», scosse la testa, ripassandosi una mano
sui
capelli, «Era come se aver salvato Root in settemila
simulazioni non
avesse contato niente perché lei era destinata ad altro
quando in
quattro anni di PoI
il suo personaggio era cambiato, cresciuto»,
deglutì, «Sono felice
che Shaw e Root possano avere un'altra occasione».
«Mi
pare di capire…», esclamò
l'intervistatore e Sarah annuì,
aspettando, «che non sei, o eri soddisfatta di come sia
finito
Person
of Interest
per il tuo personaggio».
Lei
per poco non lo bloccò, accennando un sorriso, guardando
altrove:
«Person
of Interest
era uno show basato su Harold e la Macchina, mentre Shaw e Root erano
personaggi creati con uno scopo ben preciso, importanti, ma sempre di
fondo. Harold e la Macchina hanno avuto una fine forse
più…»,
inclinò la testa, giocando con i capelli,
«completa?! La Macchina è
stata liberata grazie al sacrificio di Root e, sempre per lei, Harold
è sopravvissuto, aiutato da Reese, Shaw e Fusco. E ha potuto
avere
il suo lieto fine. Non era possibile averlo per Shaw perché
sarebbe
stato con Root».
«Hai
sempre creduto nel progetto sullo spinoff o sapevi di aver finito con
Shaw?», domandò ancora l'intervistatore.
«No»,
rise, «Credevo assolutamente di aver finito»,
annuì, «Non credevo
davvero sarebbero riusciti a ottenere uno spinoff, era fuori
discussione! È ancora tutto così
strano… Ma è successo
davvero?», chiese alla telecamera, ridendo.
L'intervistatore
rise con lei e il cameraman gli diede l'okay. «Va bene,
Sarah,
grazie per essere stata qui con noi! Spero che lo spinoff, di cui
ancora non abbiamo un titolo, vada a gonfie vele».
Lei
sperò lo stesso e salutò la telecamera muovendo
le mani, inviando
poi un bacio. A riprese finite, l'intervistatore le diede le
congratulazioni, poi Sarah uscì, richiudendo la porta alle
spalle.
Nel salottino davanti c'era un piccolo tavolino con dei dolcetti e
intravide Amy assaggiarne uno, mentre l'aspettava.
Appena
la vide venire verso di lei, Amy sorrise con una guancia gonfia e una
mano davanti, facendole cenno di avvicinarsi. Ingoiò, prima
di
parlare. «Devi assolutamente assaggiarli, sono buonissimi!
Hanno
detto che possiamo mangiarli anche tutti», le fece presente,
prendendo un altro dolcetto con la mano già sporca di
zucchero a
velo. Glielo avvicinò e Sarah aprì la bocca; con
un morso lo prese
quasi tutto.
«Oddio»,
chiuse gli occhi, assaporando, «È la fine del
mondo». Amy le
avvicinò anche il resto e Sarah si lasciò
imboccare di nuovo. La
prima iniziò a ridere, cercando un fazzolettino di carta, e
Sarah si
avvicinò allo specchio, scoprendo di avere il naso sporco di
zucchero a velo. Rise anche lei, con la bocca piena, ma, invece di
pulirsi, passò un dito sul vassoio e si accostò
all'altra,
sporcandole il naso.
Risero
insieme con il rischio di ingozzarsi, riempendosi le dita di
zucchero, fino a quando non furono interrotte da un finto colpo di
tosse ed entrambe si girarono, scoprendo all'ingresso un uomo alto e
grosso con un pass come il loro sotto la spalla sinistra. Sarah si
accese e Amy si ripulì con il fazzolettino, abbassando lo
sguardo.
«Ho
interrotto qualcosa?».
«Steve»,
urlò Sarah, correndogli incontro. Probabilmente gli sarebbe
saltata
addosso se non avesse avuto la minigonna. Si apprese intorno al collo
di lui, intanto che la circondava con le braccia e la baciava sui
capelli, fino a quando lei non si spostò un poco e si
baciarono
sulla bocca. «Cosa ci fai qui?».
«Sono
al secondo piano con il cast, abbiamo un servizio fotografico. Non ti
ho detto niente per farti una sorpresa», rise, baciandola di
nuovo,
«Mi hanno detto che eravate qui». Finalmente
alzò la testa e fece
un cenno a Amy, salutandola.
Lei
sorrise, afferrando un altro dolcetto. «Prendine uno, sono
buonissimi».
«Sì»,
esclamò anche Sarah, prendendo per mano suo marito per farlo
avvicinare, «Devi assaggiarli». Guardò
Amy e lei ricambiò, prima
che si allontanasse verso un altro tavolino per controllare il suo
cellulare, con il dolcetto fra le dita. Lui la interruppe dicendo che
non ne voleva e allora lei si fermò.
«Devo
tornare giù, non ho molto tempo», la
baciò ancora. «E i
bambini?».
«Ieri
hanno chiesto di te, ma erano stanchi e ho mandato tutti a letto
presto; stasera te li passo per telefono».
Le
chiese ancora quanto tempo avesse prima di ritornare sul set e poi se
aveva finito, così si baciarono di nuovo, più a
lungo, prima di
lasciarla andare e salutarla con un altro abbraccio. «Ciao,
Amy»,
salutò.
Lei
gli fece la mano, sorridendo, alzando un attimo gli occhi dallo
schermo del telefono.
Sarah
lo accompagnò fino all'ascensore. «Non me lo
aspettavo proprio»,
rise, tornando all'interno del salottino. «Cosa
guardi?», domandò
poi, avvicinandosi.
«Jackson
e Ava ieri sera hanno fatto un castello di carte e sono riuscita a
fare un video», rise, mostrandoglielo. I bambini presentavano
con
orgoglio alla telecamera il proprio castello ma uno spostamento
d'aria ne fece tremare una e in meno di un secondo cadde tutto a
terra. In un primo momento Amy rise, poi cercò di consolare
i figli
disperati.
«Ma
quanto sono cresciuti», commentò Sarah,
«Jackson è diventato
altissimo».
«Sta
crescendo in fretta».
«Diventerà
alto come la madre». Amy sorrise, vedendola tirare fuori
dalla
borsetta anche il suo cellulare. «Ecco i miei
mostriciattoli»,
disse, passandole il cellulare, «Mi sa che è da
tanto che non li
vedi».
Amy
sorrise, vedendo quei bimbi paciocconi che camminavano stretti alle
mani del fratello maggiore. «Non ci credo, camminano
già».
«Oh,
se non ci stai attenta lo fanno anche talmente in fretta che
spariscono», rise, «Non ci si può
distrarre, credimi. Vieni a
casa, stasera: li vedrai con i tuoi occhi».
Amy
si perse con lo sguardo per un momento, guardando dietro Sarah di
sfuggita, trattenendo un sorriso incerto, fino a scuotere la testa.
«Meglio di no».
Sarah
stava per insistere ma decise di lasciar perdere e accettare il
rifiuto. Sapeva cosa stava succedendo: anche se non ne parlavano,
entrambe stavano ancora pensando a ciò che era accaduto
nella
roulotte. Al di là dello sbaglio, pensava che le cose
sarebbero
potute tornare a essere quelle di prima, ma forse Amy non la pensava
ancora in quel modo. Non era frutto della sua immaginazione, Amy
aveva una cotta per lei, ne aveva avuto la certezza, e pensare che
aveva rischiato spesso il litigio con Steve che era pronto a giurare
lo stesso, reputandolo solo geloso. Se Amy pensava che stare lontana
da lei a parte nel lavoro l'avrebbe aiutata a staccarsi da quel
pensiero, allora non poteva fare altro che acconsentire e non
ostacolarla.
«Chi
l'avrebbe mai detto…», sussurrò per
sé.
«Cosa?»,
«Nulla,
pensavo a voce». Riflettendoci, per una volta Steve aveva
ragione. E
non lo avrebbe mai saputo.
Ricordò
che ci aveva messo un po' a farsi piacere quel nome: Marguerite Yves.
Si era già abituata a cambiare identità spesso,
ma quello specifico
nome rappresentava una svolta per la sua carriera, e ogni volta che
qualcuno la chiamava sentiva un brivido di freddo, anche se cercava
di nasconderlo. Nonostante avesse già avuto modo di testare
le sue
abilità, quella era la prima volta che faceva una cosa del
genere a
pagamento e una parte di lei temeva di sbagliare. Come se quello
sarebbe potuto essere l'unico vero errore.
Era
ancora una ragazzina, appena diciotto anni ma, per la nuova carta
d'identità, Marguerite ne aveva già ventuno anche
se non li
dimostrava. Si era fatta assumere come segretaria in un reparto
ospedaliero: il suo compito era ufficialmente quello di ricevere le
chiamate e segnare gli appuntamenti, ma in realtà doveva
essere
pagata per uccidere Gustavo Portes, un ragazzo emigrato dal Brasile
addetto alle pulizie. Doveva essere un lavoro facile e veloce:
restare fino a tardi una notte in cui lui era di turno per sistemare
dei fascicoli, coglierlo di sorpresa e togliere dalla borsetta la sua
pistola. Sparargli alla testa e andarsene. Si sarebbe ripresentata il
mattina dopo per assicurarsi che il cadavere fosse stato trovato e,
poi, si sarebbe fatta licenziare perché tragicamente scossa.
Nessuno
avrebbe sospettato della ragazzina dal viso innocente da angelo e, se
mai qualcuno avesse provato a farlo davvero, in ogni caso non avrebbe
trovato niente perché la Marguerite Yves che sarebbero
andati a
cercare non era altro se non un cumulo di dati senza storia
depositati su internet. Sarebbe diventata un fantasma, un'idea, fino
alla prossima identità.
Era
la prima volta che doveva uccidere qualcuno di persona e la
tentazione di farlo fare ad altri era forte, se non che il
committente aveva chiesto un omicidio pulito e non doveva creare
caos, così decise che ci avrebbe pensato da sola. Ma
Samantha
Groves, che ancora non era Root, di tutto si aspettava ma non che
all'ultimo provasse paura.
Si
era sistemata i capelli lisci dietro la coroncina, guardandosi allo
specchietto portatile, e poi aveva spento la sua postazione,
richiudendo tutto con le chiavi del reparto. Aveva rimesso lo
specchietto in borsa e toccato la pistola al suo interno. Entrando di
turno, quel ragazzo l'aveva salutata e poi si era sistemato le cuffie
per ascoltare la musica; lo aveva trovato assorto in un
corridoio, lavando il pavimento. Le camere erano tutte chiuse, non
c'era nessuno al secondo piano, e la pistola aveva il silenziatore
già pronto. Si era posizionata dietro di lui, a pochi metri,
e aveva
preso la pistola dalla borsa, puntandogliela alla nuca. Lui dondolava
con lento ritmo, ignaro di ciò che poteva capitargli di
lì a poco.
Samantha Groves stava tremando e la pistola con lei. Poi un colpo di
tosse improvviso, lontano, e le era parso di ingoiare il suo cuore,
riponendo la pistola in borsetta e andandosene.
Il
committente non l'aveva presa molto bene, chiedendo esplicitamente
per email la testa del ragazzo entro tre giorni. Era giovane e forse
ancora inesperta, ma non avrebbe permesso a nessuno di farla sentire
debole o inadeguata, così aveva deciso di prendere qualche
precauzione. Del suo committente sapeva solo che doveva essere molto
ricco e che si firmava con L.P..
Aveva pagato metà di quanto pattuito subito, ventimila
dollari.
Entrando in rete, era passata dalla sua email al suo conto bancario
in fretta, avendo accesso a ogni suo dato. Si chiamava Philip Lars ed
era nientemeno che il direttore di una catena di ospedali, compreso
quello dove era andata a lavorare. Si era domandata perché
un
direttore di ospedale avrebbe voluto pagare qualcuno per uccidere un
ragazzo delle pulizie mentre, con qualche trucco, accedeva ai suoi
soldi e si assicurava una cospicua ricompensa extra per quando
sarebbe sparita.
Il
giorno dopo, il direttore l'aveva incitata a fare la sua mossa,
chiedendole se avesse cambiato idea, minacciandola, dicendo che
avrebbe raccontato tutto alla polizia inventandosi una storia, se non
era una codarda. Lui non sapeva chi si celava dietro quell'email, non
sapeva che il killer si nascondeva in quella piccola nuova segretaria
che, per essere stata ripresa un po' troppo, aveva deciso di dargli
una lezione. Aveva visto il ragazzo delle pulizie entrare
nell'ospedale di giorno, senza camice, e l'aveva seguito. L'idea le
era balenata proprio in quel momento. Lo aveva visto in compagnia di
una ragazza ma non si era lasciata intimidire, quella volta. Il
committente l'aveva spronata a fare presto e lei voleva abbandonare
l'identità di Marguerite Yves il prima possibile; Philip
Lars doveva
pagare la sua strafottenza.
Aveva
puntato la pistola alla schiena del ragazzo e aveva spinto entrambi a
prendere l'ascensore fino all'ultimo piano, diretti all'ufficio del
direttore. Lei sapeva che lui era lì. Una volta arrivati, li
aveva
fatti entrare e l'uomo era sobbalzato dalla sua sedia, chiedendo
spiegazioni.
«Ventimila
prima e ventimila dopo», Samantha Groves ripeté le
parole che lui
le aveva scritto per email e gli mostrò la pistola,
puntandogliela
contro.
Lui
era impallidito.
«Papà,
di cosa parla? Chi è questa pazza?», aveva gridato
la ragazza. Il
ragazzo si era messo a farle scudo per proteggerla; non poteva certo
sapere di essere il bersaglio.
«Marguerite
Yves?»:
Philip Lars aveva sussurrato quel nome con così tanta
incredulità
da darle fastidio.
Samantha
Groves cambiò obiettivo e puntando la pistola al petto del
giovane
premette il grilletto due volte senza pensarci. Lo aveva visto
accasciarsi sulla ragazza, ormai in lacrime. La Samantha Groves
diciottenne aveva sentito il suo cuore in gola, che era asciutta, e
aveva guardato quel corpo crollare a terra senza vita. Ed era stata
lei a farlo. Troppo distratta per non accorgersi subito che Philip
Lars aveva nascosto una mano dietro la scrivania e aveva tirato fuori
una pistola. Schivò il primo colpo per un soffio e
nell'istinto
aveva reagito, sparando a sua volta, ferendolo alla spalla. Tre
guardie dell'ospedale erano accorse a poco da lì sentendo lo
sparo
della pistola senza silenziatore di Lars e per colpirla avevano
sparato anche loro. Samantha Groves si era nascosta dietro lo
schienale di una poltrona e dopo era corsa fuori facendosi scudo con
la pistola, sparando ancora. Immaginava avrebbe avuto la polizia alle
calcagna, invece aveva nascosto la pistola nella borsetta e se n'era
andata come nulla fosse, mentre tutto l'ospedale si era accalcato per
paura degli spari.
Allora
non sapeva che la polizia non l'aveva inseguita solo per ordine
diretto di Lars che, prima della killer, doveva pensare alla sua
bambina, lì, stesa a terra esanime accanto al cadavere
ancora fresco
del suo fidanzato che lui voleva morto. Era stata colpita da un
proiettile vagante ed era stato fatale.
Samantha
Groves si era fatta accreditare il denaro dal conto bancario di Lars
ed era sparita, con solo qualche graffio e tanta paura. Forse l'uomo
aveva pensato sarebbe stato facile ritrovarla, chi l'avrebbe mai
detto che era solo una ragazzina, ma ogni suo dato era scomparso da
internet e Marguerite Yves non esisteva.
Lei
ce l'aveva fatta. O così fino a quel momento aveva creduto.
Shaw
era stata a sentirla raccontare quella storia con attenzione,
rimanendo impassibile per gran parte del tempo, fino a quel sorriso.
«Quindi, da ragazzina… eri stronza come
adesso».
Root
roteò gli occhi, pur non nascondendo un sorriso malizioso.
«Solo
molto più impreparata», sventolò la
mitraglietta che aveva in
mano, sistemandola dentro un borsone.
Anche
Shaw ne prese una, assicurandosi che ci fosse la sicura e mettendola
al suo interno, in mezzo alle altre. «Sei certa che non
possiamo
portarci dietro tutta questa roba? Potrebbe tornarci utile».
«Potrebbe,
ma se la facciamo viaggiare con noi stiamo scomode… Ci
prendiamo il
necessario», le fece notare, infilando dentro anche due
fucili.
«Invece… queste bellezze ci aspetteranno dentro un
box che
viaggerà quando saprò dove saremo e ci saranno
più utili». Scorse
Shaw annuire. «Mi spiace se dobbiamo rimandare la nostra vita
normale e tranquilla a quando avremo trovato Lars».
Lei
alzò la testa, guardandola in faccia. «A me no. Un
po' di
divertimento».
Root
le sorrise.
Erano
pronte per partire, Marshall Mason le avrebbe trovate se fossero
rimaste ancora nel vecchio appartamento di Root. Amy cambiò
pagina,
interessandosi. Purtroppo, dopo quello che stava leggendo, aveva
ancora il copione di un solo altro episodio e poi avrebbe dovuto
aspettare per sapere cosa sarebbe successo. Lo spinoff era stato
accettato con una prima stagione di dodici episodi e stavano ancora
lavorando sulla scrittura. Interessante era il punto in cui Root e
Shaw, discutendo su Marshall Mason, si erano accorte che il nome non
era altro che un anagramma.
Dividendo
le lettere di quel nome avevano ottenuto Mona Shalm Lars, la figlia
di Philip Lars morta nella sparatoria di quel giorno. Marshall Mason
non era una persona ma un'operazione che profumava di vendetta. Stava
per scrivere un messaggio sul telefono a Sarah per chiederle fin dove
aveva letto la sceneggiatura quando si fermò con quello in
mano,
nascondendoselo poi su un fianco, sul divano su cui era sdraiata.
Aveva rifiutato di andare da lei, che figura ci avrebbe fatto a
cercarla ora? Oh, non che cambiasse qualcosa con Sarah, pensando che
in ogni caso doveva aver capito il perché del suo rifiuto.
Temeva
sarebbe stato così palese anche con suo marito e ringraziava
che non
avessero l'abitudine di videochiamarsi. James le aveva sempre
ripetuto che per lui era come un libro aperto e in quel momento si
preoccupava di esserlo davvero. Amava James. Amava ciò che
insieme
avevano costruito, amava i loro splendidi bambini, amava ciò
che
avevano insieme e condividevano, amava ciò che avevano in
comune e
ogni tanto anche ciò che non avevano in comune, amava come
si
sentiva in sua compagnia e amava esserlo. Amava davvero tutto di lui.
E allora non capiva perché dovesse provare quelle cose e
pensare ciò
che non doveva pensare. A volte l'amore di Root per Shaw le era
sembrato così vero da sfociare nella realtà, ma
quello era
esagerato. Stava andando al di là della finzione, dello
scherzo, del
gioco. Al di là di tut- il telefono vibrò. Lo
riprese e la foto dei
gemellini di Sarah che mangiavano una merendina con le manine e la
bocca completamente sporche di cacao la fece ridere. Non fece in
tempo a salvarla che le arrivò un'altra foto: stavolta, in
compagnia
di Violet e Knox c'erano sia Sarah che William, il primogenito, tutti
sporchi di cacao mentre facevano le linguacce. Rise più
forte,
accorgendosi di amare anche Sarah. Amava anche Sarah.
Ed
ecco a voi il terzo capitolo!
Abbiamo
scoperto una parte del passato di Root quando ancora non era Root e
stava facendo i primi passi verso una vita pericolosa, Sarah si
è
resa conto che suo marito su qualcosa aveva ragione e Amy di amare
sì
suo marito, ma di amare anche Sarah. Dal canto suo, quest'ultima cosa
pensa davvero?
Sono
contenta che questo capitolo sia passato, perché il prossimo
sarà
decisamente più lungo e ci sarà molto
più spazio per il punto di
vista di Sarah :D
Credo
di non aver note da fare per questa volta, non mi viene in mente
niente! Dunque i soliti ringraziamenti a ha inserito la storia nelle
liste e a chi mi ha lasciato una recensione e… a presto con
il
quarto capitolo: Cambiamento :)
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Capitolo 4 *** Capitolo quattro. Cambiamento ***
Il
cambiamento fa sempre paura, eppure mai niente resta per sempre
com'è. È questione di solo un secondo e noi non
siamo già più
quelli che eravamo un secondo prima, ma non ce ne rendiamo conto.
Quello che c'era prima non è detto che resti poi. Le persone
crescono e diventano altre. Le situazioni mutano con noi. La vita
cambia per noi.
E
così, mentre Root, il cane Bear con Shaw alla guida di una
macchina
iniziavano un viaggio per incontrare il passato, Amy pensava al suo
futuro con James e i loro figli. Con una foto di Sarah e dei suoi
figli davanti. Sarah, dal canto suo, era convinta di sapere
già
tutto ciò che c'era da sapere, rinnegando che qualcosa era
cambiato,
che lei era cambiata, convinta di non aver bisogno di rivedere la sua
vita da un punto di vista diverso perché la sua vita era
proprio
così come la voleva.
Benvenuti
ad Anemone
Valley!
Era bastato il nome a far entrare i brividi a Shaw, le case a schiera
con i loro cortili e i cancelli bianchi, il silenzio del pomeriggio e
gli uccellini che cinguettavano erano decisamente troppo.
«Questo
posto sembra una cartolina… Ripetimi cosa ci facciamo
qui»,
sussurrò.
«Calmati,
Sameen, siamo qui solo di passaggio. Stando qui rallenteremo i
Marshall Mason, e la Macchina ci ha dato un compito: abbiamo un
numero».
Finse
una risata sarcastica: «Non avevamo finito con i
numeri?».
«Abbiamo
finito», prese una pausa, «Maaa considerando che
siamo qui…».
«Ho
capito! Abbiamo finito ma è una di quelle cose che non
finiscono
mai…», brontolò a bassa voce, per
sé. «Comunque mi stupisce un
po': un numero qui? Senti, ti avverto: se la vittima è una
donna di
mezza età che sta per venire strozzata da un'altra donna di
mezza
età perché non concordano sulla recensione di un
libro al club del
libro, ci vai tu… O finirei per ammazzarle io
entrambe».
Parcheggiarono
nel vialetto e Root rimarcò che sarebbero rimaste in quella
casa ad
Anemone Valley per un massimo di una settimana, ma per Shaw,
impegnata a portare dentro i bagagli, una settimana sembrava
già
passata. La casa non era grandissima ma a Bear sembrava piacere
molto, mettendosi a correre fra l'esterno e l'interno. Cominciarono a
sistemare pc e qualche pistola nascosta per casa che suonò
il
campanello. Si scambiarono uno sguardo ed entrambe si armarono,
avvicinandosi all'ingresso, quando videro un bimbo all'uscio dalla
porta socchiusa allora le nascosero, aprendo. Una donna con il bimbo
piccolo accanto porgeva loro un fagotto avvolto in un vassoio e le
guardava estasiata, con il sorriso sulle labbra.
«Benvenute
ad Anemone Valley», esordì, mostrando i denti
bianchissimi. Spinse
il fagotto e Root lo prese con sé, sorridendo e
ringraziando. «Oh,
sono così felice di conoscervi! Appena ho saputo che
finalmente la
vecchia casa degli Harrison era stata acquistata non ho chiuso occhio
e vi ho fatto una crostata! Spero la gradiate! Ah, sì, io
sono
Melany Backary e lui è mio figlio Jack»,
proseguì senza riprendere
fiato, abbracciando il bimbo che, timido, si nascondeva dietro la sua
gonna. «Abitiamo davanti a voi! Mi sono fatta dire chi siete
dall'agente immobiliare che ieri è passato a togliere il
cartello
“vendesi”, quindi non preoccupatevi, non avete
bisogno di
presentarvi, so già tutto su di voi».
Le
due si scambiarono uno sguardo d'intesa.
«Magari
ad alcune famiglie farà strano avere una coppia lesbica nel
quartiere, ma non a me, potete starne certe», rise, guardando
prima
una e poi l'altra. «E, per qualsiasi cosa, sarò a
vostra
disposizione! Ma allora, ditemi un po' di voi, sto parlando solo
io».
«Ma
no…», mormorò Shaw.
«Siete
sposate? State già pensando di avere dei
bambini?».
Shaw
spalancò gli occhi e stava per rispondere con sarcasmo,
quando Root
iniziò per prima, ridendo: «Oh, magari! Ci
piacerebbe».
«No»,
tuonò quasi sulla sua voce.
La
vicina guardò prima Shaw e poi Root, scoppiando a ridere
insieme
alla seconda.
«Ci
stiamo ancora pensando…», allungò una
mano, accarezzando un
braccio di Shaw, che aveva alzato gli occhi al cielo. «Sai,
si tira
indietro, ma la mia Lena è così capace con i
bambini».
Shaw
corrugò le sopracciglia, abbassando lo sguardo e scoprendo
che il
bimbo la fissava. In quel momento passò Bear per entrare in
casa e
Melany Backary per poco non saltò, prendendo Jack per le
spalle e
allontanandolo. «Ecco, lui è il nostro
bambino», Shaw prese il
cane e lo abbracciò con fierezza, mentre la vicina la
guardava
stizzita e Root scuoteva la testa.
A
quanto sembrava, erano arrivate ad Anemone Valley nella settimana
giusta: la sera dopo avrebbero festeggiato la patrona e tutto il
paese si sarebbe riversato in piazza, con palloncini, stelle filanti,
fuochi d'artificio, giochi e banchetti stuzzicanti. Melany Backary
aveva promesso alle due che avrebbe fatto conoscere loro un po' tutto
il paese in quell'occasione e non che sembrasse divertente, ma
potevano cogliere l'occasione per tenere d'occhio il loro numero.
«Abbiamo
appena conosciuto il nostro numero», sorrise Root, infatti,
mettendo
la crostata in frigo, senza neppure aprirla. Si appoggiò a
un mobile
della cucina e aspettò di avere l'attenzione di Shaw.
«Lo
sapevo… mi toccherà uccidere due donne al club
del libro», la
sentì borbottare.
«Non
Melany. Il bambino: Jack Backary è il nostro
numero».
Shaw
spalancò la bocca dalla sorpresa, ma poi scrollò
di spalle. «Almeno
sappiamo che non è il carnefice. Ma chi farebbe del male a
un
bambino?».
«Ci
sto lavorando. A parte il suo certificato di nascita e qualche visita
medica, non si trova altro su di lui».
Shaw
si avvicinò piano, mentre l'altra la fissava. «La
Macchina che
dice?».
Root
strinse le labbra, vagamente infastidita. «Non lo so. Non
sono
riuscita a sentirla e non mi vuole chiamare».
«Può
chiamare me».
Shaw
era tanto vicina che Root allungò la schiena per appiattirsi
meglio
sul mobile della cucina, aspettandola. Le venne da sorridere ad
averla quasi su di lei. «Lo sai», scosse la testa,
«Ti ha detto
addio, non ti chiamerà più».
«Ha
ancora la tua voce?», le chiese a un certo punto.
«No.
Era solo un prestito». Alzò la mano destra e stava
per accarezzarla
e poi baciarla, quando Shaw si spostò all'improvviso, senza
neppure
guardarla. La vide aprire il frigo e prendere la crostata,
svolgendola dalla carta stagnola. «La mangi
davvero?».
«È
cibo, no?». Si sedette davanti al tavolo e si
tagliò una fetta con
le mani, iniziando a mangiare, lanciando dei pezzi a Bear che li
acchiappava al volo.
Root
scosse la testa e le arrivò accanto, pizzicandole una
guancia.
Con
la bocca piena, Shaw alzò gli occhi al soffitto e poi
accennò un
sorriso, seguendola con lo sguardo mentre si allontanava.
Scoppiò
a ridere, con le briciole della crostata che le cadevano dalle
labbra. Amy rise a sua volta, poco dopo, tornando indietro.
«Piccola
pausa», gridò qualcuno in fondo e lo staff
abbandonò tutto ciò
che aveva fra le mani, riempendo una zona della casa. Il produttore
Mark Hadford si avvicinò e prese un pezzo della crostata,
sbriciolando sulla sua folta barba. Guardò le due con
fierezza, che
erano ai lati opposti del tavolo.
«Fantastiche»,
borbottò con la bocca piena, «La chimica che
emanate, in special
modo quando siete vicine, credo sia la miglior cosa dello
show». Le
due si guardarono, sorridendosi a vicenda.
Erano
passati già due mesi da quando avevano ripreso a lavorare
sul set e
tra una risata e l'altra sembrava essere tornato tutto com'era un
tempo fra loro e Sarah ne era felice. Non che non ne fosse lusingata,
anche se era difficile da ammettere, ma lavorare al suo fianco
sapendo una cosa del genere l'aveva messa un po' sotto pressione
quando erano ritornate e non poteva permettersi distrazioni. Non ne
avevano più parlato e Amy si comportava come suo solito. Di
tanto in
tanto, Sarah la sorprendeva a fissarla, ma non era certo una
novità
e non ci dava peso.
Il
piccolo che interpretava Jack le arrivo accanto e Sarah lo prese in
braccio quando la madre del bambino, avvicinatasi, le chiese se
potesse farle una foto con lui. Ne fecero una con il bambino che le
baciava una guancia e, prima di andare, ne approfittò per
rubare un
pezzo di crostata. Ne prese un altro anche lei e si girò
alla
ricerca di Amy, ma era scomparsa. Voleva fare una foto con lei da
mettere su Instagram. La chiamò e chiese a una ragazza della
crew se
l'avesse vista. Le indicò l'esterno e, prendendo il suo
cellulare
dalla sua sedia pieghevole lasciata in soggiorno con quelle del resto
del cast, si avvicinò fuori, sentendo la sua voce. Parlava
al
telefono, sembrava. Non voleva origliare, ma era troppo vicina.
Amy
rise. «Hai ragione, sì… Hai sempre
ragione», prese una pausa,
«Lo sai! Sì, ci sentiamo stanotte, ti chiamo io.
Ti amo», rise di
nuovo, poi il silenzio.
Sarah
cercò di tornare indietro in fretta, più di ogni
altra cosa al
mondo non avrebbe voluto che la trovasse lì, ma successe:
Amy riaprì
la porta socchiusa e le sorrise, trovandosela davanti. «Ah,
eccoti,
ti stavo cercando», le mostrò il cellulare; ormai
non aveva
importanza. «Ci facciamo una foto per Instagram?».
«Certo».
Era
meglio così, si disse più tardi, ripensandoci.
Amy amava suo marito
esattamente come lei amava Steve e una cotta per lei non lo avrebbe
minato in alcun modo. La loro vita stava riprendendo proprio laddove
aveva tentato di cambiare, perché era proprio
così che doveva
andare.
Allora
perché le aveva fatto una strana sensazione?
Un
gruppo di donne di mezza età entrò in casa e si
misero a parlare
con gli addetti della crew: dovevano essere le vicine, avevano un
copione in mano. Sarah sorrise, scuotendo la testa: Shaw non ne
sarà
stata felice.
Avevano
continuato a girare finché non si era fatto buio, fra
errori,
sviste, scene da rifare, risate e qualche incomprensione sul copione.
In veste di Shaw, Sarah si era seduta sul divano e si era messa a
guardare la televisione, chiamando Bear che le si era sdraiato
accanto. Come Root, anche Amy si era avvicinata, appoggiando la testa
sulle gambe piegate dell'altra, cercando al portatile qualcosa che le
potesse essere utile con il loro nuovo numero. Sul sito del comune di
Anemone Valley erano state depositate le foto dei bambini nel giorno
della loro nascita catalogandoli in anni e, guardando la foto di
Jack, le era parsa piuttosto strana: il copione diceva che la foto
del bimbo era stata tagliata e ritoccata con un programma di grafica.
Root aveva salvato la foto e, facendo una breve ricerca, aveva
trovato la fonte, constatando che il bimbo sulla foto non era Jack
Backary.
«Perché
rubare una foto e postarla come se fosse sua?», si era
domandata,
come da copione.
C'era
qualcosa di strano su quella Melany e suo figlio, come se non fossero
mai esistiti prima del loro arrivo ad Anemone Valley un annetto
prima. Doveva vederci chiaro.
Il
giorno dopo, con la luce del sole alta, avevano girato la scena con
le vicine di mezza età, che erano andate a trovare le due in
compagnia di Melany Backary e il figlioletto. La coppia doveva tenere
d'occhio il bambino, constatando quanto non ci fosse nulla di strano
in lui.
«E
così voi due state insieme?», aveva domandato una
delle signore,
guardando Shaw dalla testa ai piedi. «Lo sapete che
Gesù non
vuole?».
«Che
strano…», aveva bofonchiato l'altra, masticando il
boccone di un
panino, «Eppure non me ne ha mai parlato».
La
signora l'aveva guardata con la faccia tanto corrucciata da
andarsene, lasciando la porta di casa aperta mentre usciva. Jack si
era allontanato ed era uscito fuori. Shaw lo aveva seguito. Era
questione di un attimo e un uomo si era avvicinato e aveva iniziato a
parlare con lui ma, appena vista lei sull'uscio della porta, lo
sconosciuto se n'era andato. Lei aveva preso il piccolo per mano e lo
aveva riportato dentro.
«Jack!»,
aveva gridato Melany, prendendolo fra le sue braccia. Doveva essere
preoccupata oltre ogni misura e lo aveva dimostrato bene.
«Il
bambino stava parlando con un adulto sconosciuto, fuori»,
aveva
detto Shaw a Root, a bassa voce. «Gli ho chiesto chi
era… non mi
ha risposto».
Lei
aveva guardato attentamente entrambi, prima di parlare:
«Stasera,
alla festa della patrona, non dovremo togliergli occhio di
dosso».
«Che
qualcuno possa avercela con lei tanto da fare del male al
figlio?»,
aveva accennato Shaw in una risata sarcastica, «Non mi
stupirebbe».
La voce di Melany infastidiva Shaw anche quando non parlava con lei.
«Dobbiamo
scoprirlo».
La
festa avrebbe coinvolto l'intero paese e sia Amy che Sarah si erano
innamorate di come erano riusciti a sistemare le luci e i colori, le
bancarelle, gli abiti che ogni cittadino coinvolto nel progetto
indossava, eleganti ma non pomposi. Stavano provando la musica da
suonare su un palco con gli addetti ai suoni, intanto che faceva
buio; sotto ci sarebbe stata la pista da ballo.
Sarah
aveva inquadrato Amy da lontano che parlava con Garrett della crew e
si era avvicinata, camminando con sicurezza nonostante avesse i
tacchi alti. Fermandosi la chiamò ed entrambi si girarono,
restando
senza fiato.
«Oh,
wow», emise Amy con un filo di voce, sorridendo.
Indossava
un abito nero scollato e stretto sulle cosce. Tanto scollato: Garrett
non riusciva a guardarla negli occhi.
«È
un commento di Amy o è quello che dirà Root in
scena?».
«Mh…
Entrambe», rispose prontamente Amy, ridendo, «Credo
che Root non
vedrà l'ora di metterci le mani», rise e
così Sarah.
Anche
Garrett rise e le due lo guardarono. «Garrett, sai cosa
direbbe Shaw
in questo momento?».
«Vado,
signora Shahi! A dopo», le fece un cenno di saluto,
«E comunque
complimenti».
Le
due risero di nuovo. «E tu non vai a cambiarti?»,
le chiese,
vedendo che stava ancora indossando i jeans del pomeriggio.
«Fra
poco».
Sarebbe
stata una bella scena e Sarah non vedeva l'ora di girarla. Tutto era
in posizione, le luci, le telecamere, i cittadini, Melany Backary e
il piccolo Jack, vestito elegante con tanto di farfallino, le altre
vicine di mezza età con i loro mariti, mancava solo Root.
Sarah ogni
tanto si guardava intorno ma Amy non era ancora arrivata.
Immaginò
stesse ancora parlando al telefono con James. Magari parlavano dei
bambini o di quello che stavano girando in questo periodo,
scambiandosi suggerimenti e idee. Forse si stavano ripetendo ti
amo
perché la lontananza cominciava a farsi sentire e dovevano
ricordarselo. In ogni caso, li aveva sempre ritenuti una bella
coppia, lei e James. Erano usciti tutti e quattro una sera e le erano
sembrati così innamorati, così affiatati,
così intimi da farle
provare imbarazzo. Per fortuna c'era Steve e non aveva dovuto provare
a interessarsi ai loro discorsi, quando parlavano a voce bassa,
abbracciati, chiusi in quel mondo solo loro. E perché
avrebbe
dovuto, dopotutto: interromperli solo perché la mettevano in
imbarazzo? Sarebbe stato assurdo, comunque. Forse avrebbe dovuto
allontanarsi anche lei, ora, prima di iniziare a girare e parlare con
Steve almeno cinque minuti, se avesse risposto al cellulare. Avrebbe
dovuto. Sì, sarebbe stato meglio e doveva fare in fretta.
Mosse
appena un piede e sentì dire a tutti che era ora di
ripartire, che
era arrivata. Allora si girò e, vedendola con quel lungo e
stretto
vestito, quasi le mancò il fiato. Le risaltava le forme e la
facevano sembrare ancora più alta, se non fossero stati
abbastanza i
tacchi sulle scarpe.
«Accidenti,
scusa, la truccatrice era al telefono e ha fatto un po'
tardi»,
disse Amy, sistemandosi un orecchino e lamentandosi che le prudeva.
Sarah
deglutì e l'aiutò, abbassandole le mani.
«Grazie».
Si
sorrisero e aspettarono il ciak per cominciare.
Krystal,
che interpretava Melany, si resse le braccia fingendo di avere i
brividi. «Con queste belle giornate di sole mi aspettavo
anche una
sera un po' più calda, e invece…»,
guardò il bambino abbracciato
al suo vestito, «Per fortuna ho messo la giacchetta a
Jack».
Root
guardò Shaw con aria maliziosa, prendendole poi la mano. Era
così
calda. «Ehi, dolcezza», la chiamò,
«Che ne dici di un ballo?».
«Io
non ballo», sorrise con sforzo, digrignando i denti.
Amy
fece ridere Root, guardata da Melany. «Non essere
timida», insisté,
«Ti vedo un po' stressata e hai bisogno di rilassarti un
po'».
Un
attimo e Root trascinò Shaw sulla pista da ballo,
prendendola per un
braccio. L'aveva avvicinata a sé ma lo aveva fatto con un
po'
troppa forza, mettendosi a ridere e così avevano dovuto
rigirare il
momento. E di nuovo. Poi si erano messe d'impegno e Amy l'aveva presa
con sé, così Sarah si era lasciata trasportare.
Avevano dei
fotografi vicino, i ragazzi delle luci, quelli dell'audio, le
telecamere, ma i paesani intorno a loro che fingevano di ballare
davvero e la musica lenta le aveva aiutate a calmarsi. Cosa c'era da
calmarsi, poi, Sarah non lo sapeva. Amy amava suo marito, magari la
cotta per lei le era passata. Eppure il suo corpo vibrava ancora, di
tanto in tanto.
«Melany
ha una cicatrice sul braccio destro».
«Cosa?»,
rispose Sarah, destata all'improvviso dai suoi pensieri.
Amy
scoppiò a ridere e presto si ritrovarono a girare la scena
per
l'ennesima volta.
«Melany
ha una cicatrice sul braccio destro», ripeté e
Sarah era ritornata
a essere Shaw, guardando un punto distante. Secondo il copione, Shaw
avrebbe guardato Melany che, inchinata, puliva la bocca del piccolo
Jack che si era sporcato di sugo con una pizzetta. Avrebbero girato
la scena in un secondo momento.
«Non
ce n'eravamo rese conto ieri e stasera perché indossava le
maniche
lunghe», disse quest'ultima, «Tenta di coprirsela.
Hai notato?».
«Non
sembra a suo agio», annuì Root, prima di girarsi e
guardare Shaw
con attenzione, sorridendo con soddisfazione, «Ma non
è la sola a
esserlo».
Shaw
accennò un sorriso, guardandola negli occhi. «Te
l'avevo detto che
non ballo».
Root
le circondò il collo e alzò lo sguardo, lasciando
che il viso le si
illuminasse delle lucette colorate intorno alla pista da ballo. Shaw
doveva fissarla con incanto. Doveva vederla felice. E esserlo anche
lei. Nonostante tutto erano insieme ed erano entrambe vive.
Però non
era solo Shaw quella che la guardava. Era strano, ma quelle luci,
quello sguardo, quel quasi sorriso, il suo viso pulito e dolce, quasi
più da Amy che da Root, avevano incantato anche Sarah. Era
come
averla scoperta di nuovo ma come una prima volta, ricordando quando
era accaduto davvero: conosceva Amy Acker solo dalla televisione e
anche se si erano già viste in passato non avevano mai avuto
l'occasione di parlarsi, così quando gliel'avevano
presentata, una
volta sul set di Person
of Interest,
era un po' sotto pressione; doveva girare con lei una scena
importante proprio per il primo episodio in cui sarebbe apparsa e
temeva di fare una brutta figura, ma quando se l'era trovata davanti,
le aveva come dato la sensazione di conoscersi da sempre e avevano
legato all'istante.
«Sono
felice di conoscerti», le aveva detto Amy quel pomeriggio di
anni
fa.
«Piacere!
Sai, mi sembra di averti già incrociata o mi
sbaglio?».
«Probabilmente.
Magari a un evento».
Le
aveva sorriso; era così dolce, tanto diversa dalla Root dei
primi
tempi, che l'aveva colpita subito e Sarah aveva capito che tutto
sarebbe andato a gonfie vele. Allora ancora non sapevano come
sarebbero cambiate le cose per i loro personaggi, quello stesso
cambiamento che poi le aveva portate fino a lì, quella sera,
a
ballare o a fingere di farlo non lo sapeva neanche più,
l'una
davanti all'altra.
Amy
era davvero bella. Lo sapeva, se n'era resa conto varie volte, ma in
quel momento lo era di più, lo era come non lo era mai stata
e lo
era più di ogni altra persona sulla Terra. Lo era tanto che,
a
fissarla, le era venuto da sussultare e lei doveva esserne accorta,
poiché la guardò come sorpresa e poi le sorrise.
Sapevano cosa
dovevano fare adesso e Sarah capì che non era il momento,
che non ce
l'avrebbe fatta: rise di colpo e Sandra Mollier, la regista, fece
fermare tutto.
Lo
aveva fatto apposta? Si era chiesta Sarah. Lo aveva fatto apposta per
interrompersi? Oh,
no.
«Tutto
bene?», chiese Amy, poggiandole una mano sulla spalla,
«Hai fatto
un movimento strano, prima».
Sarah
annuì, abbassando lo sguardo. Doveva andare a lavarsi la
faccia.
Adesso.
«Tutto
a posto?», domandò anche la regista,
«Possiamo riprendere? Andava
bene».
«S-Sì!
Devo solo… Devo solo andare a risciacquarmi la faccia un
attimo»,
disse Sarah in fretta, cercando di allontanarsi il più
possibile da
Amy, «Sto attenta al trucco».
La
truccatrice la seguì lo stesso.
Oh,
no.
No. No. Non poteva essere vero, continuava a ripetersi mentre si
tamponava il viso rosso, guardandosi allo specchio. Amy era
affascinante, bella, dolce, così adorabile che a volte aveva
faticato a trattenersi dall'abbracciarla, ma a tutto c'era un limite.
Lei amava Steve. E Amy amava James. Ed era tutto.
La
truccatrice le sistemò il viso un attimo e dopo la
riaccompagnò sul
set. Sarah si rese conto di aver sospirato e non era un buon segno.
Le due ripresero la posizione e così si ritrovò
di nuovo a
guardarla e a immaginare che, di lì a poco, avrebbe dovuto
baciarla.
«A
cosa pensi?», le domandò come Shaw.
«Che
è bellissimo qui. Che è bellissimo stare
così», le rispose Root,
«E che darei qualunque cosa perché tutto questo
non finisse mai».
Shaw
piegò la bocca in un sorrisetto dei suoi, scuotendo
brevemente la
testa. «Allora diamoci qualcosa per cui rendere questo
momento
immortale». Si avvicinò, dapprima lenta e poi
veloce, ma mancò la
bocca ed entrambe scoppiarono a ridere.
Il
ciak scattò e ricominciarono.
«…
questo momento immortale». Si avvicinò ma risero
di nuovo tutte e
due.
Il
ciak scattò e ricominciarono.
«…
questo momen- okay, no, non va bene».
Presero
un bicchiere d'acqua entrambe, il ciak scattò e
ricominciarono.
«…
questo momento immortale». Si guardarono e Sarah si
avvicinò ma
questa volta Amy rise per prima, contagiando l'altra.
Riprovarono
altre due volte senza successo, mancavano la bocca e ridevano,
così
tutti fecero una breve pausa per dare il tempo alle due di riprendere
fiato. Mark Hadford si era avvicinato dicendo che, se avessero
continuato in quel modo, avrebbero reso davvero quel momento
immortale.
«Vi
vedo agitate», disse, «Ma tranquillizzatevi, non
siete più con la
CBS; lo so che dovevate stare attente a ogni vostra mossa, che
dovevate coprirvi e fare senza fare… ma qui potete
fare», rise,
«Potete fare e strafare, renderlo reale senza preoccuparvi di
nascondervi. Okay?».
Le
aveva lasciate dopo due pacche sulle braccia di entrambe e Amy e
Sarah si erano guardate.
«Quante
volte ti sei lamentata che dovevamo coprirci davanti alla
telecamera?», rise Amy, ritornando sulla pista da ballo.
«Oh,
ero abituata con The
L Word…
per questo».
«Va
bene, allora pensa a me come Shane».
Si
fermarono. L'una davanti all'altra.
Il
ciak scattò e ricominciarono.
Come
Shane?
A Sarah veniva da ridere nel pensarci, probabilmente Amy lo aveva
detto senza pensarci, una trovata delle sue; ma non poteva
permettersi di ridere davvero di nuovo o non sarebbero più
riuscite
ad andare avanti. «Allora diamoci qualcosa per cui rendere
questo
momento immortale», si accostò a lei. Oh,
cavolo. Amy non era affatto come Shane.
Spalancò la bocca per accogliere la sua e piano si
trovarono.
Socchiusero le labbra lentamente, accompagnate dai loro occhi,
assaporandosi senza fretta. Sarah e Shaw alzarono la mano destra e la
poggiarono su una guancia di Amy e Root. Era una mano che tremava un
po', toccandole la guancia e poi i capelli, raccogliendoli dietro
l'orecchia. Anche Amy e Root socchiusero le braccia intorno al collo
dell'altra e si avvicinarono di più, aprendo la bocca e
riprendendo
fiato, lasciando che le loro lingue si toccassero, si gustassero con
desiderio. Respiravano a fatica, sentendosi, lasciandosi trasportare
l'una dall'altra con fervore, socchiudendo le labbra e infine
staccandosi piano, guardandosi. Non erano state solo Root e Shaw a
baciarsi in quel momento immortale, lo avevano fatto anche Amy e
Sarah e i loro occhi spaventati e al contempo sorpresi lo
confermavano. Si erano fissate a lungo, forse molto più di
quanto
era parso agli altri, prima che riuscissero a interromperle.
Mark
Hadford e altri avevano applaudito, perfino imbarazzati, ricordando
però che il bacio avrebbe dovuto interrompersi, a un certo
punto.
Shaw
le premette sulla guancia sinistra e Root spinse la testa di lei su
di sé con le braccia intorno al collo. Non si erano mai
baciate così
prima d'ora. Ripresero fiato per poco e si unirono di nuovo,
finché
un urlo spezzò la scena e il loro bacio, voltandosi alla
ricerca di
Melany Backary: era stata lei a urlare. Accorsero e la ritrovarono
singhiozzante che si guardava intorno; anche le signore di mezza
età
e i loro mariti sembravano piuttosto scossi. Il bambino non c'era.
Root
e Shaw si scambiarono un'occhiata complice e quest'ultima
tirò fuori
dalla borsetta una pistola, caricandola davanti a loro, che urlarono,
allontanandosi.
«Non
devono essere andati lontani», mormorò Root.
«Vado
a sinistra».
Shaw
sparì di corsa in mezzo alla folla, togliendosi le scarpe, e
lei
restò lì per parlare con Melany ma, appena la
chiamò, si rese
conto che era sparita anche lei. «Dov'è andata
Melany?», domandò
alle vicine; loro però erano ancora spaventate per la
pistola e
temevano che anche lei avesse potuto far loro del male, così
la
ignorarono, iniziando a cercare il piccolo. Root decise di lasciar
perdere, vedendo una telecamera di sorveglianza.
«Dov'è Jack?»,
chiese, «Aiutaci a ritrovarlo». La Macchina stava
parlando con lei,
riusciva a sentirla anche in tutto quel trambusto e senza apparecchio
auricolare se si concentrava, fino a risentire quel fischio e si
resse la testa.
Shaw
vide un uomo sospetto e lo seguì. Quando vide che il bambino
era in
braccio a lui mirò alle gambe ma sparò una sola
volta e tutta la
gente alla festa iniziò a urlare e a scappare, impedendole
di
prendere la mira di nuovo. L'uomo passò Jack a un altro e,
non
facendosi la stessa premura, cominciò a sparare contro la
folla per
colpirla. Shaw mise al sicuro due persone in traiettoria e si nascose
qualche secondo dietro un cassonetto; quando si rialzò era
però
troppo tardi e i due uomini e il bambino erano scappati su di un
furgone.
Root
caricò la pistola e aspettò. Dietro quel
parapetto la visuale era
libera, illuminata dai lampioni accesi. Il furgoncino
sfrecciò
velocemente, la strada era deserta, e Root si accertò di
aver preso
bene la mira. Sparò verso l'autista e, dopo qualche colpo
per
rompere il vetro, lo ferì al petto, impedendogli di
continuare la
sua corsa. L'altro uomo uscì dalla vettura e stava per
correre ad
aprire il portello e prendere il bambino: lo fermò con un
colpo alla
schiena, così abbassò la pistola. Se la Macchina
non l'avesse
chiamata non ci sarebbe riuscita, pensò.
Udì
in ritardo che qualcuno dietro di lei aveva caricato una pistola,
così alzò le mani.
«Chi
sei?», domandò Melany Backary con affanno,
avvicinandosi con la
pistola puntata alla nuca, «Chi siete veramente voi
due?».
«Buffo,
stavo per farti la stessa domanda», intervenne Shaw,
puntandole una
pistola a sua volta.
L'altra
si vide costretta ad abbassare la sua arma, intanto che Root si
girava e sorrideva a Shaw.
Riportarono
il bambino a casa. Jack aveva un po' di tachicardia ma nel complesso
stava bene, dicendo che non conosceva quegli uomini. Fortunatamente,
Melany Backary sembrava avere un'idea.
Le
fece accomodare sul divano di casa sua ma solo Root prese posto, Shaw
preferì restare in piedi. La guardarono con concentrazione,
mentre
il piccolo era davanti alla tv e ai cartoni animati, con le cuffie
nelle orecchie.
«Dov'è
la vera madre di Jack?», domandò Root prima che
l'altra riuscisse a
proferire parola. Shaw guardò con curiosità
entrambe, capendo di
essersi persa qualcosa.
Melany
deglutì, sedendo sulla poltrona, portandosi le mani alle
tempie. «È
morta», confessò, «Era mia sorella. La
mia sorella gemella.
Pensavo che nessuno lo avrebbe mai scoperto».
Nessuno
a parte la Macchina, pensò Root. Ma di certo non glielo
avrebbe
detto.
«Gli
uomini che hanno cercato di portare via Jack sono stati sicuramente
assoldati da suo padre: da quando è nato ci dà la
caccia. Pensavo
che Anemone Valley sarebbe stato un luogo sicuro, in questi posti non
succede mai niente…».
Shaw
concordò e finalmente prese posto accanto a Root,
interessata a
sentire la sua storia.
«Mia
sorella è morta dando alla luce Jack. Suo padre è
un signore della
droga e appena ho saputo che lui avrebbe ottenuto la custodia di mio
nipote sono corsa a portarlo via».
«Lo
hai rapito», esclamò Shaw.
Melany
annuì, con sguardo duro. «Ero una spia, nessuno si
era accorto di
me quando sono entrata, né quando sono uscita con lui. Ma ho
sottovalutato le risorse di quell'uomo e ci sta rendendo la vita un
inferno. Non si arrenderà finché non
avrà riottenuto Jack. Non
posso permetterglielo. Ho cercato di affrontarlo, ma da sola, con lui
così piccolo…», si voltò,
guardandolo muoversi, cantando a bassa
voce una canzoncina dei cartoni animati. «Quando ho visto la
pistola
ho pensato foste state assoldate anche voi da
quell'uomo…»,
sospirò. «Anche voi delle spie? CIA,
FBI?», guardò le due.
«Niente
del genere», rispose Root.
«Freelance»,
aggiunse Shaw.
Melany
guardò ancora il bimbo, sorridendo. «Quante cose
ho fatto per lui…
Ero l'ultima persona a cui io stessa avrei affidato un bambino, ma
Jack… appena l'ho visto… Non ci rendiamo conto di
come siamo
cambiati finché non guardiamo quanto è cambiata
la nostra vita.
Cambiamo sempre per le persone che amiamo, eh?»,
guardò le due.
In
quel momento, Root si sentì in colpa: dovevano cambiare vita
e
invece avevano ricominciato ad avere a che fare con i numeri. Shaw
sembrava averla capita poiché la fissò per un
istante, ma non disse
nulla.
Avevano
dormito con un occhio aperto quella notte, aspettando da un momento
all'altro una rappresaglia da parte degli uomini assoldati dal padre
di Jack, che non arrivò. Grazie alla sua telefonata con la
Macchina,
seppur breve, Root era riuscita a risalire alla vita di Melany
Backary prima che diventasse Melany Backary e una spia, di cui era
difficile reperire materiale. Aveva un altro nome e una gemella,
proprio come aveva raccontato. Per il resto, sembrava essere stata
brava a far sparire i dati sconvenienti e a ricrearsi una vita, anche
se aveva trovato delle falle: decise di sistemargliele e dare una
maggiore copertura a lei e a Jack.
La
mattina seguente decisero di pranzare insieme a casa di Melany,
aspettando l'arrivo dei rapitori. Shaw aveva notato subito, alzandosi
dal letto, che intorno alle case passeggiavano dei volti sospetti.
Ispezionavano il territorio, probabilmente, poiché dovevano
aver
capito che Melany non era sola a proteggere il bambino da loro. Forse
in una città avrebbero potuto nascondersi meglio, ma in un
paese
come quello, dove non accadeva mai niente, erano un punto nero su un
foglio bianco. Shaw aveva sistemato un fucile dalla finestra della
camera da letto e Root non era uscita di casa senza le sue due
pistole. Anche Melany aveva la sua sotto un maglioncino, anche se
sperava di non doverla usare.
Alla
fine, era successo tutto molto in fretta: delle persone avevano
circondato la casa e avevano cercato di entrare con la forza; Shaw
aveva iniziato a sparare colpendo qualcuno di loro dall'alto e, una
volta accorti di lei, avevano iniziato a sparare a loro volta.
Sembravano stare particolarmente attenti a dove rivolgevano le loro
armi, non dovevano colpire Jack, ma se spronati rispondevano per
rabbia.
«Non
siete dei professionisti», sussurrò Shaw mentre
ricaricava il
fucile e prendeva la mira, attenta che gli spari non la colpissero.
Al
piano di sotto qualcuno riuscì a entrare e, intanto che
Melany
nascondeva Jack in un ripostiglio per tenerlo al sicuro, Root sparava
agli invasori. Il loro punto forte era sicuramente il numero,
così
anche loro due si ripararono dietro un tavolo rovesciato e il divano,
sparando. Melany sembrava preoccuparsi per dove finivano i
proiettili, tutta la casa stava andando distrutta e forse avrebbe
dovuto traslocare ancora. Scorsero alcuni uomini andare verso il
ripostiglio e tentarono di fermarli, ma gli spari contro di loro
erano troppi e non avevano copertura. Shaw scese dal piano superiore
e li mise k.o., aprendo la porticina e prendendo il bambino con
sé.
Vedendo che la donna aveva in braccio il piccolo, gli uomini si
distrassero e Root e Melany ne approfittarono per colpirli meglio,
davanti a Shaw, che teneva Jack stretto a sé.
Prima
che potessero battere in ritirata, riuscirono a trattenere uno degli
uomini ferendolo a una gamba, decidendo di porre fine a quella storia
una volta per tutte.
«Adesso
noi ci facciamo una chiacchierata», gli sorrise Shaw, una
volta che
Root aveva finito di legarlo contro una sedia.
«Chi
diavolo siete?».
«Il
tuo peggiore incubo», rispose Root in un sorriso, battendogli
una
pacca su una spalla.
Sembrava
che l'uomo fosse stato pagato per rapire il bambino e uccidere
chiunque si mettesse in mezzo, ma non abbastanza da non tradire chi
aveva commissionato i servigi suoi e dei suoi amici. Melany strinse
Jack contro il suo petto con un po' più forza quando
sentì dire dal
rapitore che il padre del piccolo era a una sola città di
distanza,
in un albergo, che aspettava gli riportassero il bambino.
Era
ora di entrare in scena: collegata tramite un'auricolare con Root e
in compagnia dell'uomo che zoppicava, Shaw entrò
nell'albergo con in
braccio quello che sembrava il bimbo addormentato, coperto fin sulla
testa dalla sua giacchetta. La telecamera di sorveglianza aveva
momentaneamente smesso di registrare. I due uomini di guardia davanti
alla camera del signore della droga li fecero passare e Shaw
sparò a
entrambi, con il silenziatore, intanto che il rapitore con lei
bussava alla porta usando un codice particolare.
«Finalmente»,
rise l'uomo, che si spostò per farli entrare. Non si
avvicinò
neppure per controllare come stesse il piccolo e si sfregò
semplicemente le mani dall'emozione. «La strega che ha rapito
mio
figlio è morta? Dove sono tutti gli altri?». Era
cicciotto e con i
capelli spettinati.
Il
rapitore, impallidito, indietreggiò. Shaw lanciò
il bambolotto
contro il signore, che si era spaventato, e dopo lo servì
con un
pugno in pieno volto, entrando nella camera con lui e richiudendo
dietro di lei.
Portò
il rubinetto dalla parte dell'acqua calda al massimo e
lasciò che la
sentisse sulla pelle, gocciolando lungo le curve del suo corpo,
all'interno della doccia della roulotte. Accaldandosi, la pelle
bruciava. Sarah si passò le mani sul viso e
aspettò di nuovo di
avere l'acqua in faccia, respirando a pieni polmoni, ripassandosele
di nuovo. Non poteva fare a meno di pensare a ciò che era
successo.
Non era neppure riuscita a parlare con Steve al telefono e aveva
finto di non sentirlo suonare. Lo avrebbe richiamato più
tardi,
pensava, quando ne sarebbe stata in grado. Uscì e si
coprì con
l'accappatoio, poi si nascose il viso con le maniche ed emise un
grido sommesso, lasciandosi andare solo quando era pronta a
riprendere aria, sventolandosi. Uscì dal bagnetto e richiuse
la
porta a scomparsa, decidendo di prendersi qualcosa da bere dal frigo.
Il copione era aperto, sul divano: nella camera d'albergo del signore
della droga, Shaw aveva trovato una fotografia di Root accompagnata
da indicazioni su di lei. E una taglia.
Sarah
si sedette sul divano e spostò il copione, dando un sorso al
suo
bicchiere di tè. Prese un grande respiro e
appoggiò il bicchiere
sul tavolino, abbandonando la testa contro il divano.
Era
confusa, forse un po' sorpresa da se stessa ma pensandoci nemmeno
troppo. L'aveva baciata di nuovo e non era un bacio da set. L'aveva
baciata perché voleva baciarla e aveva sentito qualcosa; era
inutile
e deleterio negarlo. Era chiaro: la cotta di Amy per lei era
ricambiata. Qualcosa era cambiato: tutto.
Eccomi
di ritorno con il capitolo quattro :)
La
settimana scorsa c'è stato un po' di pasticcio qui su EFP:
inizialmente, il terzo capitolo svaniva e poi riappariva, non si
riusciva a copiare e incollare il link per condividere, ho visto che
ad altri sparivano commenti e messaggi… Sperando che tutto
sia
tornato alla normalità, ringrazio chi sta dietro al sito e
si muove
sempre per trovare una soluzione a ogni problema!
Tornando
a noi… Sarah si è svegliata dal torpore e lei e
Amy si sono
baciate ancora mentre lo facevano Shaw e Root e, dall'altra parte,
nella camera d'albergo del padre del piccolo Jack, Shaw ha trovato
una foto di Root con taglia a seguito. Cosa accadrà ora che
Sarah ha
capito di provare qualcosa per Amy? Riuscirà (e
vorrà) a fare finta
di niente? E Shaw come prenderà il fatto che Root le abbia
di nuovo
nascosto qualcosa?
Una
piccola nota:
- Sembra
che io ce l'abbia con la CBS (e forse un po' è vero, nel
senso che
per delle cose mi è rimasta
“antipatica”, al di là di Person
of Interest), però ci tengo a precisare che non so
realmente
come siano andate le cose per quanto riguarda i baci di Shaw e Root,
solo mi serviva una scusa per spingere sul discorso e la CBS cadeva a
fagiolo :>
Ringrazio
ancora Scottie23
che mi ha lasciato una recensione al capitolo tre e chi ha inserito
la storia nei preferiti! Se vi va lasciate un commento e ci
rileggiamo la settimana prossima con il capitolo cinque: la
verità
~♥
|
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Capitolo 5 *** Capitolo cinque. La verità ***
La
gente correva impazzita per cercare riparo il prima possibile dalla
sparatoria. Root camminava nel parco fianco a fianco con il loro
nuovo numero che tremava come una foglia, stringendo le sue cartelle
piene di documenti fra le braccia, trascinandolo; urlava ogni qual
volta lei ricambiava gli spari di chi cercava di inseguirli. Shaw era
dietro di loro e sparava a sua volta, esortandoli a camminare
più in
fretta. Si ripararono dietro un monumento e Shaw non perse tempo per
ricaricare la sua pistola e provare a sparare ancora.
«Certo
che devi averli fatti incazzare proprio tanto»,
sbottò
quest'ultima, stringendo i denti.
Lui
strizzò gli occhi e iniziò a pregare,
così Root scosse la testa,
sbilanciandosi e sparando anche lei. «Ehi, amore»,
la chiamò, «Che
ne dici se dopo tutto questo ce ne andassimo in un posto esotico per
una vacanza?».
Shaw
parve pensarci, fissandola. «Non credo sia il momento
migliore per
parlarne, ma… sì. Andiamo a farci una vacanza,
Root».
Spararono
dietro la scultura, ferendo qualcuno.
«Sono
emozionata», rispose, «Credo sia la prima volta che
accetti una mia
richiesta subito».
Shaw
sorrise, scuotendo la testa: «Non ti ci abituare».
Si diede lo
slancio per sparare ancora ma sentì che qualcosa era
cambiato nei
loro inseguitori: restò in attesa e, appena udì
il rumore di una
pistola che veniva caricata, si voltò, scoprendo che
quell'uomo era
a poco da loro e puntava una pistola contro di lei.
«Root!», la
chiamò con un grido.
Lei
si voltò solo in un secondo momento, troppo tardi, per
fortuna Shaw
aveva già sparato e l'uomo era caduto a terra esanime.
Si
erano guardate e Shaw aveva letto nel viso dell'altra la paura di
aver rischiato seriamente di morire, con gli occhi spaventati e il
fiato corto, prima di riprendere il suo sorriso e tentare di fare
finta di niente, continuando a sparare a quelli che restavano.
Non
aveva sentito che c'era un uomo a poco da lei, pensava Shaw. Non
aveva sentito l'uomo e non aveva sentito la pistola. Ancora un attimo
e le sarebbe stato fatale. Era arrivato il momento di far sistemare
l'orecchia sorda.
«Credo
sia la prima volta che accetti una mia richiesta subito».
«Non
ti ci abituare». Sarah scosse la testa, agitando una mano ed
estraendo un sorriso: «No, no, okay, okay, deve essere
così: non
ti ci abituare»,
cambiò la tonalità della voce, risultando
più cupa. Vide Amy
annuire e poi ricontrollare il copione. «Facciamo una pausa,
dai,
tanto non è che dopo si dicono molto, devono sparare e
correre»,
gettò il copione sul tavolino, sedendo sul divanetto con
pesantezza.
Stavano
provando quelle battute da un'ora, in modo che fossero pronte a
girarle al meglio; l'aveva suggerito Sarah e Amy le aveva detto che
era una bella idea, lo avevano fatto altre volte per Person
of Interest.
Il suo non era solo desiderio di portarsi avanti con il lavoro,
tuttavia, quella vicinanza aveva uno scopo ben preciso: consisteva
nel verificare la reale pericolosità della sua cotta. Era
solo una
cotta passeggera, era in grado di farla sentire come una liceale in
preda agli ormoni, oppure era qualcosa di serio capace di minacciare
il suo matrimonio? Doveva scoprirlo. E soprattutto doveva scoprire se
anche Amy era ancora preda di quel sentimento o se avesse archiviato
tutto quando disse a suo marito di amarlo. Doveva sapere la
verità.
Sarah
la seguì con lo sguardo mentre sistemava il copione accanto
al suo e
si sedeva anche lei, appoggiando la testa sul divanetto. Doveva
farlo: così deglutì e si girò verso di
lei. Amy la guardò e
sorrise, facendo fare al suo cuore le capriole.
«Arriviamo
al dunque», esordì: in ogni caso sapevano entrambe
che sarebbero
finite a parlare di quello. «Ci siamo baciate. Di
nuovo».
«Ci
siamo baciate spesso», scosse la testa lentamente.
Sarah
non capiva se stesse cercando di fare finta di niente o se in
realtà
quel bacio era stato solo per lei un bacio vero e non scenico.
Cominciava a pensare di essersi immaginata tutto. «Non
così»,
accennò un sorriso, grattandosi la nuca e tirando i capelli
da un
lato. «Ci siamo baciate… per davvero»,
abbassò per un attimo gli
occhi, «Dico…», chiuse le labbra,
incespicando con le parole che
ancora non era riuscita a dire. Guardò Amy che si morsicava
un
labbro, con gli occhi bassi, finché in un attimo la vide
muoversi e
le circondò il viso con le mani e, prima che potesse anche
solo
pensare a cosa fare, lei era sulle sue labbra e sentì un
caldo
improvviso.
Chiusero
gli occhi entrambe e si lasciarono trasportare, piano, socchiudendo
la bocca e poi riaprendola per accogliersi meglio, toccandosi,
respirandosi. Sarah decise di fermarsi e si guardarono, ancora
vicine, con i cuori che battevano all'unisono. Nessuna delle due era
in grado di capire cosa si rifletteva negli occhi dell'altra, se
fosse paura, se fosse voglia, se fosse coraggio o desiderio.
«Cosa
stiamo facendo?», domandò a bassa voce.
Amy
serrò le labbra e deglutì. «Meglio che
vada».
«Sì»,
annuì ma, vedendola alzarsi, scosse la testa, sciogliendosi
dall'incantesimo. «No! Devo andarmene io… Q-Questa
è la tua
roulotte». Si guardarono una volta sola, fugace, prima che
Sarah
chiudesse la porticina dietro di lei e scendesse i tre scalini.
Restarono
ferme lì, a riprendere fiato, a pochi passi di distanza
l'una
dall'altra. Amy si portò una mano sulla bocca e Sarah
sospirò,
guardandosi indietro, verso la porta chiusa. Poi intorno a lei. Non
c'era nessuno. Di nuovo la porta.
Bussò
e Amy aprì subito, tirandola dentro verso di lei,
tirandola per la
camicia. Chiusero la porta della roulotte con due calci o tre e Sarah
si gettò su di lei, buttandola contro la parete, continuando
a
baciarla. Le loro bocche si aprivano per riprendere fiato e si
chiudevano ancora, tirandosi le labbra a vicenda, sorridendo,
assaggiandosi.
Poi
sia Amy che Sarah scossero la testa e smisero di immaginare, aprendo
la bocca per prendere una boccata d'aria. Sarah era ancora fuori e
lei era sempre dentro; a separarle la porta. Il telefono di Amy
vibrò
sul tavolino e si sventolò sul viso prima di rispondere:
«Ciao,
tesoro». Sarah la sentì e sorrise con amarezza,
prendendo passo per
raggiungere la sua roulotte. «State facendo i bravi con la
tata? Oh,
è venuta la nonna? Vi siete divertiti?».
Adesso
che lo aveva capito e finalmente accettato era molto più
difficile
fare finta di niente. Le telefonate con Steve erano molto
più brevi
e disinteressate da parte sua e temeva se ne accorgesse. L'ultima
volta lo aveva sentito sbuffare così forte che le era parso
di
averlo al suo fianco. Sarah sapeva di essere distratta e continuava a
pensare al bacio, all'ennesimo, e a lei. Non riusciva a farne a meno
per quanto si sforzasse. Erano passati già due giorni e non
ne
avevano più parlato; era qualcosa di rimasto in sospeso,
incompleto,
e lo dimostravano ogni volta che dovevano registrare una scena
vicine, troppo vicine, che finivano per imbarazzarsi e ridere,
sbagliare. Due giorni di riprese persi poiché ogni scena
doveva
essere girata di nuovo. In quel modo non stavano solo mettendo in
situazioni complicate il loro rapporto con i rispettivi mariti, ma
anche la loro carriera. Era chiaro che dovevano risolvere in qualche
modo, se solo fossero riuscite a guardarsi di nuovo negli occhi senza
sentire una terribile attrazione che non potevano permettersi.
Intanto,
il fandom su Twitter entrava in visibilio ogni volta che una nuova
foto circolava di profilo in profilo. Entrambe le attrici venivano
taggate spesso e spesso quindi si ritrovavano perse fra le notifiche,
ma nessuna delle due poteva fare a meno di spulciare il profilo
dell'altra, riuscendo a cogliere qualcosa.
Sarah
vide che Amy aveva messo dei mi piace ad alcune fan art e fan video,
ad alcune foto, e poi aveva risposto a una in particolare: Sarah se
la ricordava, l'aveva scattata lei per Instagram il giorno che la
sentì dire a suo marito di amarlo, al telefono. Le avevano
chiesto
dov'erano, perché lo sfondo era di una casa, e Amy aveva
risposto
che stavano girando in un piccolo paese, senza dire quale, e aveva
lasciato il tag anche per lei, nel caso avesse voluto aggiungere
qualcosa, magari. Sfogliò la lista in basso con le varie
risposte e
non poté fare a meno di leggerne qualcuna, cadendo l'occhio
su
quelle che, scherzosamente, avevano definito la casa sullo sfondo
come la loro casa, una loro casa insieme, anche se erano entrambe
vestite da Shaw e Root. Era da tempo che i fan avevano
arbitrariamente deciso che le due dovevano essere una coppia, solo
perché fra loro c'era sempre stata molta chimica che aveva
permesso
una buona crescita di coppia nello show, ma solo in quel momento, ora
che le cose si erano fatte tanto diverse, cominciava a pensarla in un
altro modo: e se i fan avessero visto prima di loro due quel qualcosa
che loro solo ora stavano scoprendo? Questa prospettiva le faceva
paura più di ogni altra poiché, se loro avessero
sempre avuto
ragione, significava che era visibile e che era vero.
Non
rispose, spegnendo il monitor del cellulare.
Root
era sdraiata sul lettone intenta a guardare la televisione, in
compagnia di Bear che ogni tanto sbadigliava. Era notte e avevano
preso una camera in un vecchio motel fuori dal centro urbano. Avevano
mangiato qualcosa di veloce nel locale adiacente e avevano
controllato che nessuno di sospetto le avesse seguite, ma Shaw non si
era sentita affatto sicura ed era uscita di nuovo a controllare.
Rientrò
e chiuse la porta, dando un'occhiata dalla finestra.
«Ti
sei annoiata?».
«Non
è divertente», sbottò, richiudendo la
tenda. «Il prossimo
Marshall Mason potrebbe essere chiunque». Si
avvicinò al letto e
carezzò Bear, che ricambiò leccandole il viso. Si
allungò verso
Root, sollevandole i capelli e controllando con attenzione l'orecchia
tagliata, seguendo con l'indice la cicatrice. Root la guardava a sua
volta, incantata. «Potrebbe funzionare»,
sussurrò a bassa voce,
«So chi può aiutarci a risolvere il
problema».
Root
scosse lentamente la testa, ansimando. «Sameen…
non credo che
anche con un apparecchio nuovo possa di nuovo sentire la Macchina
come prima. Altrimenti Lei me lo avrebbe già
detto».
Shaw
si accigliò. «Non intendevo il tuo problema con la
Macchina, ma col
fatto che non ci senti più come devi quando ti puntano una
pistola
alle spalle: mi sembra decisamente più
importante». Oh, per un
attimo si pentì di aver usato quella parola, sapeva quanto
per Root
era sempre stato importante il suo collegamento con la Macchina.
Però
pensava davvero quello che aveva detto e non le avrebbe certamente
chiesto scusa; anche lei doveva capirlo.
Root
formò una smorfia con le labbra, guardando da un'altra
parte.
«A
meno che tu non stia pensando di disegnarti un bersaglio in
fronte».
«Di
cosa stai parlando?».
Shaw
si tirò indietro e prese qualcosa dal suo zainetto
personale, su una
sedia, gettandolo sul letto vicino a Root. Lei vide appena la sua
foto e il foglietto allegato, rivolgendo poi lo sguardo all'altra,
che la fissava aggrottando le sopracciglia. Shaw capì con
quel solo
sguardo che Root già sapeva della sua taglia. Non che avesse
dubbi.
«Perché non me ne hai parlato? Ho trovato la tua
taglia nella
camera d'albergo di Gregory Hopkins, il padre di Jack Backary. Era un
Marshall Mason. La Macchina ci ha inviato a lui per questo…
voleva
che lo sapessi».
«Non
ti ho detto niente perché non cambia niente… Lars
ha solo sparso
la voce».
«Root…»,
si abbassò, sedendo sul letto, «Lars ha messo una
taglia sulla tua
testa». Ansimò, accarezzando Bear, prima di
parlare di nuovo. «Cosa
stiamo facendo?», le domandò poco prima di
guardarla negli occhi,
«Stiamo insieme o qualcosa del genere…».
«Qualcosa
del genere».
«E
allora pretendo la verità. Non sopporto che mi nascondi le
cose»,
indicò la taglia con il movimento degli occhi,
«Avresti dovuto
parlarmene. C'è qualcosa su Lars che mi sfugge?».
Anche
Root carezzò Bear, che gettò la testa sulle sue
cosce, per farsi
coccolare meglio. Sorrise. «Quando ho trasferito dei contanti
dal
suo conto al mio, ho fatto in modo che la polizia trovasse alcuni
certificati che attestassero come abbia assoldato un killer per
uccidere Portes, il ragazzo che frequentava sua figlia: ha scontato
quindici anni di carcere».
«Non
ha avuto il tempo per assimilare il lutto».
«Presumo
non abbia pensato che a me durante quegli anni… Non che
avesse
altro da fare. So che fin da allora ha assoldato qualcuno per
trovarmi: ricordi il Marshall Mason del parco?».
«Quello
pelato…».
Root
estrasse un breve sorriso. «Ha detto di avermi cercato per
anni».
«Tu
però hai sempre cambiato identità».
Annuì,
abbassando gli occhi, guardando Bear. «Ho fatto un errore: ho
ripreso l'identità di Marguerite Yves mesi fa, quando ho
fatto un
colloquio di lavoro».
«E
lui ti ha trovata», aggiunse Shaw.
«Mi
aveva già trovata; i Marshall Mason sono a conoscenza di
tante altre
delle identità che ho preso, prima o poi sarebbero venuti
per me…
Diciamo che ho velocizzato il loro lavoro».
Shaw
prese per mano il foglietto allegato alla fotografia, leggendolo di
sfuggita. «Dobbiamo tenere gli occhi e le
orecchie», accennò
all'orecchio sordo di Root, «ben aperte».
Root
acconsentì, sorridendo, sdraiandosi meglio sul letto.
«Hai detto
che sai chi potrebbe aiutarci a risolvere». La
fissò con sguardo
complice.
Shaw
annuì, abbassandosi a sua volta, su di lei. Passò
le mani lungo le
braccia di Root, sollevandogliele e stringendole i polsi,
fermandoglieli contro la spalliera del letto. «Domattina ti
porto un
vecchio amico», bisbigliò con le labbra sulle sue.
Root
ammiccò; «Non vedo l'ora di conoscerlo. Bear,
scendi», si girò
poi verso il cane che, al comando, aveva inclinato la testa, alzando
le orecchie. «Naar beneden [giù]»,
gli gridò e lui obbedì subito.
Shaw
non riuscì a trattenere una risata; si avvicinò
al punto da
sfiorarle un labbro, alitando, e dopo, di colpo, raddrizzò
la
schiena. Tentò di andarsene ma Root la buttò
contro il materasso e
le salì addosso, poggiandole un indice sulle labbra, intanto
che
rideva.
«Questa
volta no». La baciò.
Come
aveva promesso, Shaw si sarebbe occupata del suo orecchio portandole
qualcuno. Era uscita dal motel la mattina presto, controllando che la
zona fosse sicura, e l'aveva lasciata sul letto, chiedendole di
aspettarla, che non ci avrebbe messo molto poiché sapeva
dove
andare. Prese in prestito una moto che doveva appartenere a uno dei
centauri che faceva colazione al pub davanti e partì verso
il centro
abitato. Si diresse direttamente verso una struttura di laboratori di
ricerca, come le aveva suggerito la mappa sul cellulare.
Entrò
dietro una donna con il pass e, quando la guardia la fermò
per
controllare che avesse i permessi, lei lo stordì dopo un
finto
sorriso, buttandolo a terra e trascinandolo in un corridoio,
chiudendo la porta. Chiese a un uomo delle indicazioni e prima che
lui potesse domandarle chi fosse se ne andò per prendere
l'ascensore. Quarto piano. Si guardò intorno e si nascose
dietro un
muro quando vide passare due uomini col camice. Riprese a camminare
dietro di loro, al verso opposto, talmente piano che non sembrava
toccare il pavimento, e aprì una porta con un pass rubato
alla
guardia. Scorse un reparto separato dai vetri e lo riconobbe subito,
mentre trafficava con delle provette. Quando lui alzò la
testa e la
vide, spalancò gli occhi e per poco non cadde dallo sgabello
girevole. La porta non si apriva. Shaw riprovò una e
un'altra volta
ancora ma doveva essere chiusa dall'interno o doveva servire una
chiave che non aveva, così afferrò con forza un
apparecchio sul
mobile accanto e lo pestò contro la maniglia, rompendola e
aprendo
facilmente la porta.
«Shaw…
sei tu! Ti trovo bene», biascicò l'uomo mentre la
vedeva tirare
fuori una pistola dalla cintura e puntargliela contro.
Lasciò lo
sgabello con un balzo e tentò di tornare indietro,
fermandosi contro
un mobile, attento che non si incastrasse il suo camice.
«Sai, ho
cambiato vita da quando Samaritan è stato smantellato, non
ho
nemmeno più contatti con nessuno di quelli che lavoravano
laggiù
con me… Sono un uomo pulito, adesso», si
appiattì contro il
mobile dalla paura intanto che lei si avvicinava, continuando a
guardarsi intorno nella ricerca di qualcosa che potesse aiutarlo
contro di lei. Infine agguantò una matita e gliela
lanciò addosso,
ma di certo non la fermò. Shaw si accostò e gli
puntò la pistola
al petto, così cominciò a singhiozzare.
«Oh, ti prego, ho
famiglia! Ho un bambino nato da poco… sono l'unico padre che
ha, ti
prego, ti
prego».
«Smettila
di frignare, non sono venuta fin qui solo per ucciderti».
Lui
tirò un sospiro di sollievo. «Per cosa,
allora?».
«Devi
installare un apparecchio acustico per me. Ti farò da
assistente».
Lui
deglutì. Non aveva molta scelta considerando che aveva una
pistola
puntata addosso e conosceva bene quanto quella donna fosse poco
incline alla pazienza e molto alle maniere forti, in questo modo la
seguì senza tante storie. Prese la sua valigetta e uscirono.
Lei
nascose la pistola sotto la felpa e lui sapeva che, a un passo falso,
si sarebbe ritrovato con un proiettile in corpo; scappare sarebbe
stato inutile e avrebbe solo rallentato l'agonia.
Una
signorina al piano terra lo salutò e lui le fece la mano.
«Va già
a casa?». Considerando che la giornata di lavoro era appena
iniziata, appariva piuttosto strano.
«Sì…»,
per poco non stridé la voce, quando sentì la
canna della pistola su
un fianco. «È venuta a prendermi mia
cugina», disse e Shaw
sorrise, facendo un cenno di saluto con la testa;
«È il compleanno
della nonna, sa, mi ero scordato», si portò una
mano alla tempia,
sorridendo.
Lasciarono
la ragazza e lo invitò a sedere sulla moto, dunque
partirono. Non ci
mise molto a tornare davanti al vecchio motel. Shaw lasciò
la moto
appena in tempo, i centauri stavano tornando ed era già
pronta per
accusare il ricercatore di averla rubata, ma non ce ne sarebbe stato
bisogno. Shaw aprì la porta del motel e Bear li aspettava
all'entrata. Lui fu spinto dentro e si tirò indietro dalla
paura,
incontrando il cane che lo ringhiava e abbaiava, mostrandogli i
canini affilati.
«Bear,
kom hier [vieni
qui]».
Il
cane tirò indietro le orecchie e tornò sui suoi
passi fino a
raggiungere Root, dall'altra parte della stanza.
L'uomo
spalancò gli occhi e la bocca dalla sorpresa, restando
immobile.
«Non è possibile», barbugliò,
«Tu sei morta».
Root
mostrò un sorriso dei suoi, inclinando la testa:
«Sono in molti a
pensarlo».
Sarah
finì di leggere il copione dell'episodio. Le piacevano
particolarmente le scene da solista di Shaw, come rapisce uno dei
dottori che l'avevano torturata quando era nelle mani di Samaritan
per costringerlo ad aiutare Root e, nel complesso, il suo rapporto
con lei. A dire il vero era un po' in imbarazzo al pensiero di dover
girare delle scene tanto vicina a Amy e sapeva di dover trovare un
modo per risolvere la situazione, eppure non vedeva l'ora.
Qualcuno
bussò alla sua roulotte e gridò di stare
arrivando, perciò uscì,
pronta per affrontare un nuovo ciclo di riprese. I fotografi erano
annidati ovunque intorno al motel e al pub che avevano trasformato a
piacimento per lo show; di certo le transenne non li fermavano,
né
lo facevano soprattutto con i fortunati fan che si ritrovarono a
guidare di lì per caso trovando la strada per
metà bloccata a causa
delle riprese. Inquadrò Amy che, ancora non vestita da Root,
firmava
autografi e faceva foto con l'autoscatto con alcuni fan. Alcuni le
indicarono Sarah facendole un gesto di avvicinarsi e Amy sorrise
anche a lei, passandole una penna.
«Posso
farvi una foto insieme?», chiese una ragazza dopo qualche
autografo
e le due accettarono, avvicinandosi e simulando con le mani delle
pistole. Si sorrisero e la ragazza, come tanti altri, scattarono una
o più foto.
Sia
Amy che Sarah sapevano che quello scatto avrebbe fatto il giro del
web e probabilmente sarebbe diventato fonte di storie più o
meno
strampalate su una loro possibile relazione segreta; era divertente.
La verità la sapevano solo loro.
Quando
entrarono nella saletta per il trucco non c'era ancora nessuno e
presero posto. Amy iniziò a frugare il suo cellulare e Sarah
lo
stesso, scattandole una foto senza che l'avvertisse.
«Ehi»,
brontolò, fingendo di arrabbiarsi, «Cosa
fai?». Le scattò
un'altra foto e Amy mise su il broncio, intanto che l'altra rideva,
scattandone un'altra. «Stai giocando? Ti diverti
così?». Appoggiò
il suo cellulare sul banco e allungò le mani per tapparle la
fotocamera, che scattava ancora. Alla fine le abbassò il
telefono e
scoprì di aver appoggiato la sua mano destra sulla sinistra
di
Sarah.
Le
guardarono e si guardarono. Non poterono farne a meno: si
avvicinarono e si scambiarono un bacio, riflesse nello specchio della
saletta, proprio quando si stava aprendo la porta. Udirono la
serratura e la voce della truccatrice che, fortunatamente, era
impegnata a parlare con qualcuno e non aveva visto niente. Le due si
guardarono di nuovo, come imbarazzate, e si allontanarono, prima che
le vedesse.
Non
era affatto facile. Stava succedendo sempre più spesso, come
fosse
qualcosa che non potevano fermare, né probabilmente
volevano, anche
se nessuna delle due era pronta a dirlo a voce alta. Avevano un
matrimonio felice, una famiglia unita, una carriera che amavano che
però dovevano tenere lontano dalle prime due cose. Ed era un
po'
assurdo pensarlo, quando entrambe avevano conosciuto i rispettivi
mariti sui set. Il problema è che non poteva capitare ancora
perché
avevano già conosciuto l'amore della loro vita e una cotta,
seppure
si stava trasformando in qualcosa di molto forte, non avrebbe mai
modificato questo.
Dopo
aver girato e ripetuto delle scene per tutta la sera, la notte
chiusero il set. Amy e Sarah salutarono con tante coccole il cagnone
che interpretava Bear, portato via da un addestratore, e si
scambiarono la buonanotte mantenendo uno sguardo complice, prima di
raggiungere entrambe le proprie roulotte. Era andata bene, in fondo.
Shaw aveva stretto Root ai polsi contro la spalliera del letto e poi
lei l'aveva buttata contro il materasso quando si era spostata. Si
erano baciate ma non era stato affatto come la volta della festa. Ci
erano riuscite, dopotutto: si erano toccate senza fare scenate, anche
se avevano dovuto rigirare il momento in cui Amy la tirava contro il
materasso un po' di volte. Sarah aveva perfino pensato che sbagliasse
apposta per la sensazione di trascinarla sotto di lei. Che andava a
pensare.
Sarah
si sedette sul divanetto e Amy lo stesso, ognuna nella propria
roulotte. Entrambe sfogliarono i messaggi sul cellulare, le chiamate
perse dei loro mariti che dovevano richiamare, le innumerevoli
notifiche dei social. Ritrovarono la foto che le avevano scattato
quella sera già online, su Twitter. Sia Amy che Sarah
guardarono
attentamente la foto, le loro pose, i loro corpi vicino, i loro visi
con le loro labbra che sorridevano e i loro occhi che si cercavano.
Chiusero. Stavano per comporre i numeri dei loro mariti ma si
fermarono all'ultimo, cancellando tutto. Era quella la
verità. Era
quella.
Sarah
lasciò il cellulare sul tavolino e si alzò,
pronta per aprire la
porta e andare da lei e parlarle, ma lo sentì vibrare.
Sapeva che
era Steve. Guardò la porta e poi il cellulare. Si
portò una mano
sui capelli, arruffandoseli, non sapendo cosa fare. Stava ancora
vibrando e alla fine pensò di prenderlo, sbuffando, se non
fosse che
qualcuno bussò alla porta. Lasciò il telefono e
aprì.
«Cosa
fai qui?», inevitabilmente sorrise e Amy divise la distanza
che le
separava, salendo gli scalini. Chiuse la porta e la guardò,
senza
dire niente o non sapendo davvero cosa dire, morsicandosi il labbro
inferiore.
Restarono
così, ferme e immobili a scrutarsi per non sapevano quanto,
che
fosse un solo minuto o tutta la notte o l'infinito era lo stesso. Il
telefono vibrava ancora e rimbombava muovendosi sul tavolino, eppure
nessuna delle due lo aveva degnato di un attimo di attenzione. Si
guardarono ancora e quindi successe: si avvicinarono all'improvviso e
si strinsero, portando le mani al viso dell'altra, seguendo il
contorno delle labbra con gli occhi e così baciarsi. Le loro
bocche
e le loro lingue si conoscevano già ma non lo fecero mai
così bene,
incontrandosi e scontrandosi, nel frattempo che le loro mani si
toccavano e stringevano con forza, come per assicurarsi che erano
lì,
che potevano farlo, che nessuno le avrebbe fermate per fare pausa o
rifare la scena. Non era una scena da show televisivo ma la
realtà.
Sarah
trascinò Amy contro una parete proprio come avevano
immaginato,
carezzandole le braccia, scendendo sul collo, sfiorandole le spalle e
poi verso i fianchi, accompagnandola a sé. Amy le
portò una mano
dietro, immergendola nella cascata dei suoi capelli, e con l'altro
braccio le circondò il collo, tenendosi a lei. Si spostarono
dalla
parete e presero fiato entrambe, solo un istante veloce, per poi
ricadere l'una sull'altra. Si sentivano. Si resero conto tutte e due
di quanto avevano desiderato avere il corpo dell'altra su di
sé così
tanto. I loro respiri erano veloci, bollenti.
Sarah
le baciò il collo e Amy trasalì, guardandola
negli occhi e
ricercando ancora le sue labbra, stringendole le natiche. La
sentì
ridere.
Si
trascinarono su un'altra parete e Sarah aiutò Amy a
togliersi la
maglia e a gettarla sul pavimento, passando le mani sul suo bacino,
toccando con impeto. La baciò dietro un orecchio e poi scese
di
nuovo sul collo, continuando sul seno e dopo sul ventre,
abbassandosi. Amy si appiattì alla parete, gemendo, sentendo
la
lingua calda dell'altra. Più tardi prese le mani di Sarah
con le
sue, tirandola su e verso di sé, spingendola verso la camera
a lato
e baciando ancora le sue labbra, e così una guancia,
alitandole su
un orecchio. Anche Sarah tolse la sua maglia e si lasciò
trasportare, passando dalla porta aperta e gettando Amy sul letto,
senza che se lo aspettasse, salendo su di lei. Risero.
«Ti
è piaciuto tirarmi sul letto questa sera, uh?»,
esclamò a poco dal
suo viso.
«Mi
hai scoperta», biascicò Amy, sorridendo.
Dall'imbarazzo improvviso,
rivolse lo sguardo dall'altra parte e Sarah restò a
fissarla,
esaminando il naso che le si arricciava, come si arroventavano le sue
guance. Amy le raccolse dei capelli e glieli portò dietro un
orecchio, approfittando del gesto per carezzarle il viso, riprendendo
possesso di sé.
Sarah
si avvicinò e la baciò ancora senza preavviso, e
Amy ricambiò.
Si
accarezzarono dolcemente. Non si chiesero più cosa stavano
facendo
perché lo sapevano ora più che mai. Si baciarono
ancora, e ancora,
tenendosi strette, vicine, ricercandosi a ogni tocco e a ogni
sospiro. Si sfilarono i pantaloni e si trascinarono meglio sul centro
del letto, continuando a toccarsi, premendo la pelle calda e morbida
e poi di nuovo accarezzarsi, sfiorarsi, conoscendo ogni parte del
loro corpo. Si slacciarono i reggiseni e si toccarono con ardore, con
le mani e con le labbra, facendo gemere l'altra. Sarah scese una mano
lungo la schiena di Amy e si fermò su una natica,
stringendola,
afferrando gli slip e tirandoli giù.
«Sai
la verità qual è…?», disse
Sarah, baciandola di nuovo. «Credo
di stare innamorandomi di te», sussurrò sulle sue
labbra.
Amy
la circondò con le braccia. Voleva rispondere ma non ci
riuscì e
preferì guardarla negli occhi, annuire lentamente, e
avvicinarsi per
portarle via un labbro con le sue, lasciarlo, e affondare la bocca
nella sua, ricercando la lingua.
Amy
lo sapeva, ma sapeva anche che, per quanto fosse vero, non l'avrebbe
mai amata abbastanza.
Ma
cos'è successo, che hanno combinato quelle due? Beh, secondo
me era
inevitabile! Secondo voi? :3 Ma Amy cos'avrà voluto dire
pensando
che non l'avrebbe mai amata abbastanza?
Dall'altra
parte, intanto, Shaw ha trovato un modo per sistemare l'orecchio
sordo di Root ed è diventata decisamente…
protettiva. Dopotutto
stanno insieme o qualcosa del genere ~♥
Capitolo
più corto del precedente. Cosa ne pensate? Li preferite
lunghi o
corti (in caso vedo come comportarmi con l'ultimo capitolo che
è
decisamente lunghetto)?
Come
mio solito, ci tengo a ringraziare chi mi ha lasciato una recensione
allo scorso capitolo e chi ha inserito la fan fiction nella lista
delle storie seguite ^_^ Spero che il capitolo vi sia piaciuto, se vi
va recensite, e noi ci rileggiamo con il capitolo
sei: Come può essere sbagliata una cosa tanto bella
;) A lunedì prossimo!
|
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Capitolo 6 *** Capitolo sei. Come può essere sbagliata una cosa tanto bella ***
Sarah
si era tirata indietro i capelli lunghissimi, arricciando intorno al
dito un boccolo, aspettando davanti al suo armadietto il passaggio
del quarterback Anthony Carlston, quello che aveva da sempre definito
il ragazzo più figo della scuola. Era alto, muscoloso, pelle
bronzea, capelli castani e arruffati, che tanto avrebbe voluto
stringere sulle sue dita. Peccato che lui non l'avesse nemmeno mai
guardata. Si fermava sempre a qualche armadietto più avanti,
quello
di Lauren McGarry. Lui si era appoggiato davanti a lei e le aveva
parlato, Sarah era troppo lontano per sentire cosa si erano detti, e
poi se ne era andato, facendole l'occhiolino. Era così bello
quando
lo faceva. Poi Lauren si accorgeva di essere guardata e le sorrideva.
Cosa aveva da sorriderle? Quella maledetta aveva il ragazzo dei suoi
sogni in pugno e la prendeva addirittura in giro? Sarah aveva chiuso
il suo armadietto e si era allontanata, ignorandola.
Tornò
alla realtà dai suoi ricordi scuotendo la testa, notando che
Amy, a
pochi metri da lei, la guardava. Appena la vide le sorrise. Le
stavano dando il nuovo abbigliamento, dovevano provare tutto prima di
girare.
«Ecco:
queste sono per te, Sarah». Sentì quella voce un
attimo dopo e
prese le scarpe che la ragazza della crew le stava tendendo con una
mano. «Sono della tua misura, ma devi provarle
perché questo
modello fa un po' il furbetto: potrebbero stringere dai
lati».
«Le
provo subito. Grazie». Rise e guardò verso Amy che
parlava con due
ragazzi della crew prima di voltarsi e raggiungere la panchina
davanti alle stampelle con vari costumi di scena. Iniziò a
slacciarsi le scarpe che Amy la raggiunse a breve, sedendo accanto e
facendo lo stesso.
In
silenzio, senza dirsi una parola né guardarsi, si erano
sentite più
vicine che mai. Sapevano che quello che era successo era sbagliato,
era la prima volta che tradivano i propri mariti, ma nessuna delle
due era sufficientemente pentita, al contrario non facevano che
ripensarci sognando in segreto di toccarsi ancora, ed era quello il
più grande tradimento di tutti.
La
mattina dopo, quando aveva cercato di tornare alla sua roulotte
mancando il resto del cast e la crew che gironzolavano dappertutto
trasportando caffè, Amy aveva deliberatamente ignorato le
chiamate
perse di James e si era subito fatta una doccia in modo che fosse
pronta per tornare al lavoro. In verità aveva pensato di
richiamarlo, ma farlo l'avrebbe fatta ritornare alla realtà
dove lei
era sposata con lui e così ci aveva rinunciato. Poverino,
pensava,
erano due chiamate appena, non aveva neppure insistito
poiché doveva
immaginare che era impegnata se non rispondeva al telefono. Amy
voleva restare ancora un po' in quel modo, sospesa in una storia
d'amore vietata che sapeva di adolescenziale, prima di tornare a
essere un'adulta.
Si
erano sfiorate i gomiti e si erano guardate, ridendo senza motivo.
«Le
mie vanno bene», disse Amy, ritornando in piedi e battendoli
a
terra.
«Le
mie no», si lamentò Sarah, «Accidenti,
aveva ragione Rebecca:
stringono ai lati». La guardò, non riuscendo a
fare a meno di
lasciarle un sorriso: «Vado a farmele cambiare»,
indicò dietro di
lei mentre camminava al contrario. Per poco non inciampava su un
borsone a terra e Amy rise, scuotendo la testa, perciò Sarah
decise
saggiamente di camminare come si conveniva.
Era
come essere tornate ragazzine e non voler pensare ad altro che a loro
due insieme. Insieme. Suonava così bene quella parola.
«Stupide
scarpe da poliziotti», tuonò Rebecca, la ragazza
della crew.
Abbassò la testa per trovare sullo scaffale una scatola con
il
numero successivo a quelle che Sarah le stava restituendo, e questa
intanto guardò indietro, ma Amy non era più sulla
panchina. Cercò
intorno a lei ma non la vedeva da nessuna parte. «Eccole qui,
trovate»: la voce di Rebecca la destò.
«Prova queste, devono
andare per forza».
Sarah
le prese e s'incamminò verso la panchina, continuando a
guardare
ovunque ma non la vedeva da nessuna parte, né con gli altri
ragazzi
della crew né da sola. Immaginò fosse andata a
telefonare godendosi
di un momento di pausa e, il solo pensiero, le aveva dato fastidio.
Ma dopotutto non stavano insieme e si domandò per quanto
tempo
avrebbero continuato a fingere di esserlo. Poggiò le scarpe
sulla
panchina e Amy le apparì accanto, spostando un cappotto. Era
dall'altra parte delle stampelle.
«Vieni,
Sarah, devo farti vedere una cosa», le mostrò la
mano e lei si
guardò attorno prima di stringergliela e lasciarsi portare
dall'altra parte.
Era
illuminato dai colori caldi riflessi sulla parete dai costumi
più
disparati che filtravano le luci del magazzino. Era uno spazietto
intimo e confortevole, ma soprattutto lontano da occhi indiscreti.
Dovevano restare sulle ginocchia, però, per non essere
viste. Sarah
sorrise e Amy la tirò verso di sé, portandole una
mano dietro la
nuca, baciandosi ancora.
«Oh,
sì, è davvero bello»,
esclamò Sarah quasi sulla bocca dell'altra.
«Ti
piace?».
«Tanto».
Si
baciarono ancora, appoggiandosi al muro, stringendosi e
accarezzandosi.
A
entrambe non mancò il pensiero che lo stessero facendo solo
per il
brivido del proibito. A chi non piaceva sentire addosso l'adrenalina
che dava quel senso di una legge non scritta infranta, con la paura
di essere scoperti. Era eccitante. Non si erano mai sentite tanto
irresponsabili ma non riuscivano a fermarsi, come un treno a tutta
velocità sulle rotaie che non può frenare. Quel
contatto fra loro
le faceva sentire bene, complete; e si domandavano come potesse
essere sbagliata una cosa tanto bella.
Sentirono
dei passi vicino, dall'altra parte delle stampelle, e per paura di
essere viste uscirono con il cuore in gola, prima l'una e poi
l'altra, spostando il cappotto.
«Ah,
queste mi stanno meglio». Sarah riprovò le nuove
scarpe, facendo un
gesto con la mano alla ragazza della crew più avanti, che
aveva
ricambiato.
Le
dava un certo prurito. Adesso che Root si stava abituando a restare
senza, il nuovo apparecchio acustico le dava un qualche fastidio, ma
sapeva che sarebbe stata solo questione di tempo e abituarsi
nuovamente; intanto, l'importante era sentirci bene come non
ricordava fosse possibile.
Tre
Marshall Mason le avevano trovate nel motel ma la Macchina aveva
avvertito Root e li sorpresero, stordendoli e infine legandoli alla
spalliera del letto. Immaginavano la faccia della donna delle pulizie
che si era ritrovata a dover andare a sistemare la loro camera e
aveva trovato i tre che, con la bocca tappata dal nastro adesivo, la
supplicavano di liberarli. Se non si fosse comportato bene, la
tentazione di lasciare con loro anche il ricercatore che prima
lavorava con Samaritan era alta, ma lo abbandonarono in
città
insieme alla loro automobile, con tanta paura ma illeso. Salirono su
un autobus per disperdere le tracce.
Come
Root aveva detto, la sua comunicazione con la Macchina non era
migliorata neppure con il nuovo dispositivo, immaginando che il suo
fosse un problema più radicato. Aveva provato più
volte a chiedere
alla Macchina cosa potesse fare per risolvere, ma Lei non le
rispondeva e così Root si arrendeva fino a chiedere di nuovo
più
avanti, sperando che le cose prima o poi cambiassero. Ma non
cambiavano mai. Forse una cura non esisteva e Root cercava di non
pensarci per non disperarsi; almeno non era sola.
Nel
frattempo aveva dato alle due un nuovo numero e aveva aiutato Root a
certificare le loro nuove identità online. Si erano fermate
a un pub
per pranzare, prendendo un tavolo vicino al muro, davanti a una
finestra. Shaw guardò ancora fuori, verso la strada a una
macchina
parcheggiata in particolare, poi ai dati sul loro nuovo numero che
avevano disposto sul tavolino, accanto ai piatti.
«Ecco
un buon dolcetto per un buon cane poliziotto»,
esordì la cameriera,
servendo su un piattino un dolcetto colorato per Bear,
accarezzandolo. «Chiaramente è un dolcetto fatto
apposta per cani;
li serviamo su richiesta, ma questo è un regalo da parte
dello
staff».
Le
due donne sorrisero, ringraziando.
«Oh,
hanno provato a rapinarci sette volte quest'anno, ma grazie a cani
poliziotto come lui non l'hanno mai fatta franca», aggiunse
lei,
dandogli un ultima carezza prima di andarsene.
«Sette
volte», commentò Shaw a bassa voce, leccando il
suo cucchiaino,
«Fortunati».
Indossavano
tutte e due delle camicie bianche, ordinate come i loro pantaloni
dritti e ben stirati, e una giacca diversa entrambe, Shaw con chiuso
qualche bottone; nella cinta risaltavano i loro distintivi.
«Ora
dovrebbe essere a scuola», disse Root, riguardando la foto
del
numero, una donna di colore, «Ci andiamo adesso».
«Fammi
finire», brontolò, ordinando un'altra coppa di
gelato. «E lui?»,
indicò dopo con un cenno della testa fuori dalla finestra,
ancora
verso quella macchina.
Root
sorrise: «Subito». Si alzò, lasciando i
soldi sul tavolo e
prendendo Bear per il guinzaglio.
Shaw
roteò gli occhi e gridò di lasciar perdere la
nuova ordinazione.
Attraversò
la strada togliendosi i capelli dal viso e aprì la portiera
dietro,
facendo sedere Bear, poi aprì anche lo sportello davanti e
sorrise
al conducente di mezza età, che si era allarmato
svegliandosi dal
suo torpore, chiudendo lo sportello dietro di lei.
«Salve».
«Samantha
Groves», biascicò lui, cercando di mettere
velocemente mano alla
pistola nascosta nello scomparto del suo sportello; dovette lasciar
perdere quando sentì un grilletto puntato su una tempia:
Shaw aveva
allungato il braccio dal finestrino aperto.
«Salta
dietro, Marshall Mason: guido io».
L'uomo,
identificato come un
investigatore privato che
sapendosi bravo nel suo mestiere pensava di non essere stato notato,
si vide costretto ad obbedire e si appiattì nell'angolo
sinistro
dell'automobile, fermo, osservato da un'imperscrutabile e ringhioso
Bear.
«Puoi
chiamarmi Root», sorrise di nuovo, mettendosi la cintura.
Lasciarono
scendere l'investigatore davanti a un parco giochi, chiedendogli in
prestito l'auto, e ripartirono verso la scuola media Harris,
dall'altra parte della città. Prima di scendere, Root
indossò gli
occhiali da vista e Shaw mise quelli da sole salendo le scale per
l'istituto. Con Bear al guinzaglio, entrarono mostrando il distintivo
e chiedendo di poter parlare con Claire Weller. Le lasciarono detto
di andare in cortile e un'insegnante le accompagnò fino alla
porta a
vetri aperta, indicandole la donna che, in piedi, controllava i suoi
alunni che giocavano fuori con un pallone. Le due ringraziarono e
scesero gli scalini, affiancando il loro numero.
«Claire
Weller?», chiamò Root, mostrandole il distintivo,
«Sono il
detective Dawson, FBI. Lei è la mia collega Vashaw. Abbiamo
da farle
qualche domanda».
«Su
cosa?», guardò le due con meraviglia, stringendosi
le braccia.
«N-Non capisco… Non ho fatto niente,
non-».
«Non
si agiti, sappiamo che non ha fatto niente. Ma pensiamo possa essere
in pericolo».
«Cosa?».
Root
si guardò attorno, poi si scambiò uno sguardo
d'intesa con Shaw.
«Pensa che potremmo parlare in privato da qualche altra
parte?».
«Non
abito lontano, ma… non posso lasciare gli
studenti-», si girò
animatamente, corrugando lo sguardo.
«Non
si preoccupi», proseguì, «Ci metteremo
qualche minuto appena e la
mia collega si occuperà di loro: è bravissima con
i bambini».
Shaw
irrigidì le labbra e le rivolse uno sguardo d'odio, intanto
che lei
portava via il loro numero. «Posso almeno avere il
cane?».
«Non
ci provare, Vashaw: è stato affidato a me», le
fece l'occhiolino.
Shaw
scosse la testa, accennando un sorriso irritato. Rivolse lo sguardo
alla classe che correva dietro al pallone e sbuffò,
scuotendo le
braccia e poi infilando le mani nelle tasche dei pantaloni, non
sapendo cosa fare. Decise di camminare su e giù per il
cortile e poi
di tenere d'occhio la partita, anche se decisamente non le
interessava; non c'era molto altro da fare. Pensò di
non piacerle affatto
l'idea
di
Root da sola con un numero: la sua fedina penale era pulita e la
Macchina non aveva dato loro dettagli sul suo conto da tenere
presente, e nientemeno, decisamente non sembrava una killer, ma
d'altronde non lo sembrava nemmeno Melany Backary che si era scoperta
una spia e con i Marshall Mason a ogni angolo si preoccupava un po'.
Si preoccupava, accidenti, e non che Root non sapesse badare a se
stessa, in special modo ora che poteva contare su ambe le orecchie,
ma si sentiva irrequieta in ogni caso. La giacca di Root appesa con
una stampella su un chiodo nel muro continuava ad apparirle nei
pensieri come un monito, accompagnata da un'orribile sensazione che
tentava di strapparsi di dosso ogni giorno. Era
il suo tormento. Almeno
aveva Bear con sé. Non sapeva perché la Macchina
avesse dato loro
il numero di quella donna ed era ansiosa di scoprirlo.
Un
urlo improvviso interruppe i suoi pensieri e vide a terra uno dei
ragazzini che prima giocava a pallone, mentre si manteneva un
ginocchio. Nessuno prestava soccorso, tutti stavano a guardare a
parte altri due che ridevano, allontanandosi da lui con il pallone
che rimbalzava fra le mani.
«Cos'è
successo, qui?», domandò, avvicinandosi. Si
portò gli occhiali da
sole sui capelli, in modo da vederli bene in faccia.
«Nulla,
è caduto», rispose uno di quei due, scrollando le
spalle.
«Il
solito imbranato», aggiunse l'altro, spalleggiato dall'amico.
«Pensate
che sia scema?», chiese, guardandoli in faccia. Probabilmente
pensavano di farla franca: non c'era la loro insegnante ma una
poliziotta annoiata, pensò Shaw. «Datemi il
pallone». Si
rifiutarono entrambi, spingendolo alle loro spalle. Lei lo prese con
la forza, strappandoglielo dalle mani e, tirando fuori dalla sua
tasca anteriore un coltello a serramanico, lo accoltellò
fino a
sformarlo, davanti allo scontento generale. Una volta finito, lo
gettò a terra. «Se non sapete giocare
sportivamente, forse è
meglio se non giocate affatto».
Una
ragazza in fondo frignò che il pallone era della scuola ma
Shaw non
la degnò di un'occhiata. «Adesso andate a fare
qualcosa di più
costruttivo, via». Gli studenti si dispersero e in questo
modo
risentì di nuovo i lamenti del ragazzino ferito, ancora a
terra,
dietro di lei. Si girò, prendendo un bel respiro. Tutto
avrebbe
voluto meno che confortare un ragazzino: non ci sapeva di certo fare.
Ma vedendolo in quel modo, da solo, non immaginava che l'avrebbe
fatta sentire così strana. Il suo cuore
aveva battuto in modo
diverso, come se le avesse risvegliato qualcosa, e deglutì.
Finora
l'unica persona al mondo a esserci riuscita era Root. Lo
scrutò
attentamente, immobile, prima di pensare di avvicinarsi, inchinandosi
verso di lui. «Cos'è successo?»,
domandò.
Lui
la guardò e poi richiuse gli occhi dal dolore. Sembrava
trattenersi,
non solo dal parlare.
«Senti,
lo so che ti hanno spinto o qualcosa del genere, non devi fare la
spia. Detto fra noi, neanche mi interessa davvero sapere
cos'è
successo, pensavo solo che ti avrebbe fatto sentire meglio parlarne,
ma se non è così, possiamo chiuderla
qui». Fece per alzarsi ma lui
la fermò, riuscendo a sillabare qualcosa:
«Mi
prendono in giro», sussurrò. Si voltò
indietro e, vedendo che
erano lontani, proseguì: «Mi prendono in giro
perché… perché
gioco con le bambole di mia sorella».
«Ah»,
emise, spalancando gli occhi. Non se lo aspettava. «Beh,
è un po'
strano…».
«Non
mi sta aiutando», s'imbronciò.
«Volevo
dire che è un po' strano, non che è
sbagliato».
Lui
abbassò la testa, guardandosi il ginocchio con una
sbucciatura. «Mia
sorella ha sette anni e giochiamo insieme. Mi piacciono le sue
bambole e mi piace giocarci con lei ma… sono un
maschio».
Shaw
sospirò. «Sono l'ultima persona al mondo capace di
consolare
qualcuno, credimi, ma se c'è una cosa che so è
che se ti piace,
allora non c'è nulla di cui vergognarti. Loro ti prendono in
giro ma
sono certa che in segreto hanno qualcosa che a loro piace ma che
hanno paura di farlo sapere a tutti. E allora tu diventi quello
coraggioso, mentre loro restano dei vigliacchi». Lui
annuì
lentamente, riflettendoci. «Se per te è una cosa
tanto bella,
allora non può essere sbagliata, non credi?».
Il
ragazzino accennò un sorriso ma si distrasse sentendo ancora
il
dolore al ginocchio sbucciato, così Shaw ci diede
un'occhiata.
«So
cosa ci vuole qui», disse, cercando qualcosa dalle tasche
della sua
giacca. Tirò fuori un fazzolettino usato e guardò
il ginocchio,
ripensandoci poi e continuando a cercare, trovando il pacchetto. Ne
prese uno e ne strappò un rettangolino, mostrandoglielo.
«E adesso
sputa».
«Sputaci»,
le aveva detto suo padre dandole il pezzo di un fazzoletto, indicando
il suo ginocchio sbucciato. «Dai, Sameen, fidati!
È l'unica cura».
La
se stessa bambina lo aveva guardato e, anche se con titubanza, ci
aveva sputato sopra; dunque suo padre l'aveva aiutata con la mano
sulla sua ad applicarlo sopra la sbucciatura, premendo per farlo
aderire.
«Ecco,
adesso guarisce. Guarisce presto», lui le aveva sorriso e
Sameen
l'aveva guardato, senza dire una parola. Quel fazzoletto strappato e
il suo sputo erano una magia.
Il
ragazzino lo applicò al ginocchio e sorrise, scuotendo la
testa.
«Che schifo».
«Sì,
ma funziona». Lo aiutò a tirarsi su e
lasciò che andasse per conto
suo. Era solo. Per un attimo rivide di nuovo se stessa, da sola dopo
la morte di suo padre, in una scuola non troppo diversa.
Inginocchiata sulla terra, se ne fregava di chi la prendeva in giro
per i suoi capelli spettinati, perché mangiava molto,
perché non
aveva amici, perché non sorrideva mai e perché
c'era e basta ed era
troppo diversa da loro, quindi continuava a importunare ogni formica
che vedeva, e stava per conto suo. Stava bene per conto suo. Era
sempre stata bene finché non aveva conosciuto Root e si era
accorta
di non esserlo mai stata.
Claire
Weller aprì la porta di casa e fece entrare all'interno del
suo
appartamento quella che secondo lei era una poliziotta con il suo
cane poliziotto. Root si guardò attorno circospetta. Di
Claire
Weller sapeva che era single, l'uomo che doveva diventare suo marito
l'aveva lasciata all'altare cinque anni fa, non aveva figli, i suoi
genitori vivevano in un altro Stato, di cui anche lei era originaria,
aveva un fratello maggiore morto in guerra, non aveva animali e il
suo ultimo appuntamento con un uomo risaliva a tre anni fa, da allora
non l'aveva più rivisto né risentito. Prima di
essere assunta alla
scuola media Harris lavorava in una biblioteca per aiutarsi a pagare
gli studi universitari. Era una donna comune e con un buon carattere,
sfortunata con l'altro sesso, e di sicuro non aveva nemici. Se non
fosse che la vedeva piuttosto spaventata e sorpresa per essere stata
prelevata dalla polizia, le sarebbe passato per la testa che potesse
essere lei il carnefice, magari per vendicarsi di un ex. Inoltre
aveva seriamente creduto alla sua nuova identità, dunque
doveva
escludere si trattasse di una Marshall Mason. Doveva scoprire
perché
la Macchina le aveva fatto avere il suo numero.
Si
accomodarono: lei su un divano, con Bear accanto, e l'agitata padrona
di casa su una poltrona vicino, rialzandosi per chiederle se poteva
offrirle qualcosa, risedendosi tirata come una corda di violino
quando rifiutò.
«Qualcuno
di recente l'ha minacciata?».
«No»,
scosse la testa, accigliandosi, «Chi avrebbe
potuto?».
«La
polizia sta scandagliando varie piste a riguardo, da quando ci
è
stato segnalato il suo caso».
«Quale
caso?», sgranò gli occhi, sporgendosi dalla
poltrona e portandosi
una mano sul cuore. «Senta, agente…».
«Detective
Dawson».
«Detective…
non so come siamo arrivate fin qui, ma io ho non ho fatto niente di
male, nessuno mi ha minacciato, non ho un caso e non so chi possa
averle parlato di me! Dev'essere un equivoco, o un brutto
scherzo».
Root
annuì. «Forse è come dice, e lo spero
per lei, ma è mio dovere
scavare a fondo per la sua sicurezza, se capisce cosa intendo. Spero
possa collaborare». La vide annuire con rassegnazione,
passandosi
una mano sulla fronte. «Quand'è stata l'ultima
volta che ha sentito
Bryan Randall? Doveva diventare suo marito, se le mie fonti sono
esatte».
La
donna ansimò, rispondendo con pacatezza e a volte stanchezza
alle
domande di Root sui suoi ex partner, sui suoi genitori, sui suoi
colleghi di lavoro, e perfino sul fratello morto in guerra molto
tempo prima. Non riusciva a capire perché le avesse dato il
suo
numero quando non c'era davvero nulla nella vita di quella donna che
potesse minacciarla in alcun modo. Alla fine le chiese se per caso
uno dei vecchi commilitoni di suo fratello potesse aver espresso un
parere negativo su di lei o sulla loro famiglia e, a seguente
risposta negativa, Claire Weller decise di mostrarle comunque una
foto del gruppo prima di partire per la guerra, in modo che la
poliziotta potesse farsi un'idea. Si alzò dalla poltrona e
sparì in
un'altra stanza, così la curiosità di Root fu
catturata da qualcosa
che prima non aveva potuto vedere, coperto da Claire. Seguita dallo
sguardo apprensivo di Bear, Root camminò fino alla poltrona
e si
affacciò allo scaffale dietro, prendendo un portafoto in
mano.
Claire Weller era in compagnia di un gruppo di persone, ma quella che
le interessava era una sola.
«Ah,
quella è una vecchia foto di quando lavoravo per la
biblioteca
municipale», esclamò Claire in un sorriso,
arrivandole accanto.
«Come avevo i capelli corti, accidenti…
».
«Quest'uomo»,
lo indicò sul vetro, «Quest'uomo è
Philip Lars. Come lo conosce?».
«Philip?»,
sgranò gli occhi, «Lavorava con me»,
rispose subito, per poi
continuare, scuotendo la testa e appoggiando sul tavolino la foto che
era andata a prendere da un'altra camera. «Lo so, lo so cosa
pensate
voi poliziotti: siccome è un ex galeotto è una
persona pericolosa…
e invece no! Quell'uomo è una delle persone più
gentili che io
abbia mai conosciuto! Philip Lars mi ha aiutato a non buttarmi
giù
quando pensavo che all'università non ce l'avrei fatta; mi
è stato
vicino sempre, in ogni momento, e mi ha aiutato a studiare sui tavoli
della biblioteca quando eravamo in pausa. Mi ha offerto il pranzo
quando lo dimenticavo… E mi ha dato perfino dei soldi per
pagare
l'affitto quando non potevo. È sempre stato buono con
me».
Più
l'ascoltava, e più Root capiva perché Lars avesse
fatto tutto
quello: aveva visto una ragazza in difficoltà che aveva
l'età di
sua figlia quando era morta. Lars aveva aiutato Claire Weller
adottandola come figlia dopo la prigione. Ora era chiaro
perché la
Macchina le aveva fatto avere il suo numero.
«E
così ha cambiato vita…»,
sussurrò, toccando sul vetro il viso di
Lars, rosso come di chi si era tagliato baffi e barba da poco. Era
invecchiato, riconobbe: meno capelli, e li aveva tutti grigi; non era
magro neanche prima ma il tempo gli aveva fatto mettere su dei chili.
Nemmeno la prigione poteva abbattere un uomo ricco e potente come
Lars.
«Auguro
solo il meglio a Philip Lars», concluse Claire. «E
se lo chiede a
me, agente, lui in quella prigione ci è finito per errore.
Lo hanno
incastrato».
A
quel punto Root appoggiò di nuovo il portafoto sullo
scaffale e si
allontanò dalla poltrona. «Diceva
così?», sorrise, sedendo sul
divano.
«Sì»,
annuì, «Accusava una donna di averlo incastrato
per soldi. Che era
stata lei a uccidere sua figlia e il suo ragazzo», scosse la
testa,
«Davvero una brutta storia. Dovreste riaprire il suo
caso». Si
bloccò un attimo e alla fine ci pensò,
spalancando gli occhi: «Non
penserà che possa essere Philip Lars a minacciare la mia
vita,
spero?! Perché è ridicolo, agente, glielo giuro,
Philip è il
miglior-».
Root
la fermò, con la voce sulla sua: «No, no,
naturalmente no! A questo
punto temo possano essersi sbagliati, alla centrale. Per accertarmene
però le porgo ancora qualche domanda su Philip Lars, se non
le
dispiace». Root le sorrise e Claire Weller
accettò, seppur con
qualche esitazione.
Dove
abitava, se aveva degli amici, in quali locali era solito andare e se
si frequentava con una donna, o un uomo all'occorrenza; se era ancora
in contatto con la sua ex moglie. A molte non sapeva cosa dire, ma
altre risposte potevano tornarle utili. Continuò con tutto
quello
che le veniva in mente finché un ringhio da parte di Bear la
mise in
allarme. Ringhiava verso la porta e Root richiamò il cane,
accostandosi: qualcuno saliva le scale e si avvicinava. Le chiese se
aspettava qualcuno e Claire scosse la testa: lei non doveva neppure
trovarsi a casa, in quel momento.
Infine
bussarono. «Claire? Claire?», era la voce di una
signora avanti con
l'età, «Lo so che sei a casa, Claire, ti ho vista
salire dalla
finestra! Devi ritirare la tua posta, Claire».
«Oh,
è solo la vicina», rise la donna,
«L'anziana signora Dustin».
Root si portò in un angolo e Claire aprì la
porta, preparando un
sorriso. «Eccomi, signora Dusti-oh».
La
vecchina l'accolse con un paio di forbici affilate usate a
mò di
coltello e Bear le saltò addosso prima che potesse colpirla,
mordendole un braccio. Root le tolse le forbici dalle mani e la
spinse contro il muro fuori dalla porta di casa, nel corridoio,
gridando al cane di lasciarla andare. Si voltò, sorridendo a
Claire:
«Abbiamo finito». Mise le manette alla nonnina, che
inveiva per via
del morso.
La
donna annuì, visibilmente scossa, con la mano sul cuore.
Root
riportò Claire Weller a scuola e lei e Shaw arrestarono
formalmente
l'anziana signora Dustin, facendola sedere nel sedile posteriore
dell'auto, sotto la stretta sorveglianza di Bear. Parcheggiarono
davanti alla centrale di polizia e la trascinarono dentro. Quando un
poliziotto vide la signora si mise a ridere e chiamò altri
per
ridere a loro volta.
«Davvero
l'FBI ci sta portando una vecchia?», domandò in
risate.
«Cos'ha
fatto?», chiese un altro, appoggiato al suo scrittoio.
Root
sorrise, inclinando la testa. «Ha tentato di uccidere la sua
vicina
di casa con un paio di forbici perché non raccoglieva la sua
posta».
Tutti
si misero a ridere e la signora si stizzì non poco,
agitandosi:
«Tutti i giorni!», gridò,
«Glielo ricordavo tutti i giorni!
Claire,
la posta! Claire, la posta!
Ma lei nulla, e mi metteva pure male il tappetino dell'ingresso e io
dovevo sempre rimetterlo a posto e quando lo facevo vedevo la posta
ancora lì, sempre lì e si accumulava»,
finì per ringhiare e
qualcuno le gridò di non esagerare, per non farsi saltare la
dentiera.
Root
e Shaw si guardarono. Stavano pensando di lasciare la signora e
andarsene, quando udirono Bear abbaiare. Non era un abbaio nervoso,
quanto festoso e mise curiosità a tutte e due, che si
girarono.
Bear
lo raggiunse e lui appena vide le due donne cambiò
espressione,
spalancando gli occhi e la bocca dallo stupore. Aveva delle cartelle
fra le mani e gli caddero tutte a terra, pietrificato.
Shaw
sospirò e lanciò uno sguardo a Root che sorrise
felice,
sussurrando: «Lionel».
Amy
entrò nella saletta quasi in punta di piedi e, controllando
con
attenzione che non ci fosse ancora nessuno, si affacciò allo
specchio appoggiandosi al banco dove erano disposti i trucchi e le
spazzole che la stavano aspettando. Si abbassò il colletto
della
maglia e strinse le labbra, guardando con preoccupazione il segno
violaceo sotto la clavicola destra. Accidenti, nonostante il ritocco era
ancora troppo visibile e temeva che la truccatrice glielo avrebbe
notato. Ricordò con un sorriso imbarazzato lo sguardo
concentrato di
Sarah nel tentativo di coprirlo con il trucco: bagnava il pennellino
nel fondotinta e lo stendeva sulla sua pelle con attenzione,
aggrottando le sopracciglia e mordendosi un labbro. Ci aveva messo
tutto il suo impegno e sembrava davvero che avrebbe potuto
funzionare.
«È
freddo», le aveva detto Amy per interrompere quel silenzio
imbarazzante. «Il pennello, dico», aveva sorriso,
«Freddino».
Sarah
aveva appoggiato il pennellino nella boccetta e si era allungata
verso il letto per afferrare un indumento, passandoglielo
così sulle
spalle. Era la sua maglina di cotone e si era messa a ridere
involontariamente vedendogliela sorreggere, intanto che riprendeva il
pennellino e tirava un po' più giù la bretella
del reggiseno. «Ti
sta bene».
Amy
aveva sospirato, arrossendo. «Parli della tua maglina o del
tuo
succhiotto?».
L'aveva
guardata solo un attimo, trattenendo un'altra risata. «Scusa,
non
pensavo che… È da molto che…
Scusa», si era interrotta,
accorgendosi che era meglio non aggiungere niente.
L'arrivo
della parrucchiera nella saletta interruppe i suoi pensieri e si
ricoprì accuratamente, in fretta, sistemando il colletto e
allontanandosi dallo specchio con un movimento naturale. Poco dopo
entrò anche la truccatrice che la invitò a
cambiarsi, facendole
notare ciò che doveva indossare sulla spalliera di una delle
sedie.
Le chiesero come mai avesse deciso di prepararsi un po' prima e
rispose solo che il tempo non sembrava passare mai e che si stava
annoiando. Credeva di averle convinte entrambe. Temeva davvero che
qualcuno avesse potuto vederle in atteggiamenti troppo intimi
rispetto al loro solito e invece che aspettare di essere chiamata,
era stata lei a chiamare loro. Si cambiò e si sedette sulla
sedia
quando vide attraverso lo specchio che la parrucchiera aveva notato
qualcosa dalla scollatura e il loro sguardi si erano incrociati. Amy
era impallidita e quando accorse la truccatrice faticò a
raccontarle
di come aveva sbattuto contro una sedia nella sua roulotte.
«Doveva
venire subito da me, signora Acker», le disse,
«invece di provare a
nasconderlo da lei».
Le
due donne si erano scambiate un'intensa occhiata e Amy era quasi
certa di averle perfino sentite ridacchiare alle sue spalle. La
parrucchiera, intenta a risaltarle i boccoli, l'aveva rassicurata che
se anche si fosse visto in qualche scatto, qualcuno si sarebbe
adoperato per rimuoverlo con la computer grafica. Oh, ora non si
sentiva di certo meglio: poteva giurare quanto voleva di essersi
procurata un livido sbattendo, ma si vedeva chiaramente che era un
succhiotto. Cosa avrebbe pensato la gente? La truccatrice e la
parrucchiera ne avrebbero parlato a qualcuno? E il fotografo? Un
dannato succhiotto, accidenti, le sembrava di essere seriamente
tornata indietro nel tempo a quando frequentava il liceo. Al liceo,
sì, Sarah doveva essere un'ottima baciatrice già
allora.
Lauren
McGarry continuava insistentemente a sorriderle. Era irritante; quel
suo modo di fare le metteva ogni volta un gran senso di inadeguatezza
e allora Sarah si controllava addosso, ai jeans strappati e alle
scarpe sportive, alla sua maglietta nuova. Non aveva niente che non
andava, così una volta tanto pensò di affrontarla
e aveva
sorpassato i metri che le separavano: se Lauren non aveva il coraggio
di dirle chiaramente cosa aveva contro di lei, allora non aveva
soluzioni se non chiederglielo direttamente.
«Cosa
guardi?», aveva cominciato, avvicinandosi al suo armadietto.
«Niente»,
aveva ribattuto l'altra, abbassando lo sguardo.
Sarah
aveva notato subito quanto quella ragazzina non fosse poi tanto
sicura di sé se si trattava di dire le cose in faccia.
«Ce l'hai
con me perché guardo Anthony Carlston?».
«Cosa?
No», Lauren aveva energicamente scosso la testa, quasi in
preda al
panico. «Ti piace lui?».
«A
chi non piace? È perfetto».
«Oddio,
tu hai pensato…?», per poco non si metteva a
riderle in faccia e
Sarah si era incuriosita. «Tony è mio
cugino». Le aveva dato una
pacca su un braccio e Sarah ci era rimasta di stucco.
Suo
cugino. Per un attimo le era completamente passato di testa lo
scoprire il perché la fissasse tanto e le sorridesse, se ci
fosse in
lei qualcosa che non le piacesse o che le desse fastidio,
perché la
cosa più importante di tutte era farci amicizia: lei era la
cugina
di Anthony Carlston e niente era più importante di quello. O
almeno
all'inizio. In realtà non avrebbe mai immaginato la
compagnia di
quella ragazza così piacevole, tanto che se prima era solo
una scusa
per vedere il campione di football della loro scuola un po'
più
spesso e avere l'occasione di parlarci, poi la loro si era
gradualmente trasformata in una vera amicizia e Sarah aveva iniziato
a smettere di pensare solo a lui. O a lui.
Quando
aveva iniziato a pensare a Lauren in modo diverso dal solito,
infatti, le era salito il panico; non le era mai successo prima di
vedere una ragazza più che come un'amica, ed era bello e
terrificante al tempo stesso. Non si vedevano spesso ragazze che
stavano con le ragazze al posto dei ragazzi e, a quelle che lo
facevano, non venivano che riservate occhiatacce e insulti. Non
poteva fare a meno di pensare alle persone che amava e a tutti quelli
che la circondavano che avrebbero cominciato a vederla in modo
diverso, e a trattarla in modo diverso. Di certo allora non
esistevano cose come il matrimonio fra due donne o due uomini e non
bastava Ellen DeGeneres alla televisione che diceva che era okay
essere gay per tranquillizzare i suoi feroci pensieri. Fra l'altro
era certa di non essere gay perché anche se la cotta per
Anthony
Carlston le stava passando, i ragazzi continuavano ad attrarla
parecchio. Era solo lei, Lauren, che le metteva addosso strani
pensieri ogni volta che la vedeva e non poteva fare a meno di pensare
di baciarla. Era così proibito. Così allettante.
Così sbagliato e
così bello.
Quella
mattina erano rimaste le uniche all'interno della classe di scienze e
stavano riordinando le loro bancate per uscire quando, a un certo
punto, si erano ritrovate così vicine che ognuna aveva
sentito il
respiro dell'altra sul viso. Stavano per raccogliere lo stesso libro
che era caduto sul pavimento e si erano bloccate, guardandosi.
Probabilmente Lauren si sarebbe girata un secondo più tardi
se Sarah
non le avesse voluto mettere una mano su una guancia e così
baciarla. Erano sole nell'aula e in un attimo erano diventate sole
nel mondo: non esisteva più nessun altro che loro.
«Ecco
fatto», la parrucchiera e la truccatrice finirono di
sistemarla e
Sarah scosse la testa, ritornando al presente, sorridendo a entrambe
e guardandosi allo specchio.
Oh
beh,
pensò, in fondo Shaw non amava proprio truccarsi, quindi il
suo look
non aveva bisogno di molti ritocchi, neppure per per le foto
promozionali della serie. Anche se la parrucchiera aveva appena
finito di sistemarla, tirò la coda dei capelli per
sentirsela più
stretta e si guardò allo specchio, chiudendo le labbra e
facendo la
seria, immergendosi nel ruolo.
«Sarah?
Pronta?». La testa di Amy sbucò da dietro la porta
della saletta e
la invitò a seguirla con un cenno della mano.
Amy
pensò che avesse fatto proprio bene a prepararsi prima della
collega: la truccatrice e la parrucchiera la guardarono con una luce
strana negli occhi e allungarono la bocca in sorrisi divertiti.
Pensò
di fare finta di niente, ma si preoccupava realmente che pensassero a
lei e Sarah insieme. Soprattutto dal momento che Sarah le sorrise
come se al mondo non esistesse nient'altro e la raggiunse con un
balzo.
Le
avevano fatte sistemare al centro della sala, l'unico punto
illuminato; davanti a loro la crew e il fotografo, dietro il pannello
verde. Amy aveva notato Sarah che tentava di sbirciare dalla sua
scollatura ciò che le aveva lasciato, ma la truccatrice
glielo aveva
mascherato piuttosto bene e si sentì sollevata. Avevano dato
delle
direttive a entrambe e il fotografo aveva iniziato a scattare. Una
mentre sparavano e correvano, una imbracciando dei fucili, un'altra
alle loro sole mani unite, un altro scatto mentre si sorridevano e,
infine, con loro che si baciavano. Dovevano restare ferme per un po',
labbra contro labbra, intanto che il fotografo girava e scattava da
angolazioni diverse. Ogni tanto si separavano per muoversi e
respirare, poi riprendevano da dove si erano lasciate. Si guardavano
negli occhi con attenzione, forse un po' imbarazzate nonostante
tutto, prima di chiuderli. Amy non poteva fare a meno di pensare di
nuovo a ciò che stavano facendo, al succhiotto e a come il
suo cuore
batteva.
Si
stava innamorando di Sarah? Era una domanda a cui doveva trovare una
risposta e in fretta.
Una
cotta per lei l'aveva da tanto anche se non lo aveva mai ammesso con
facilità neppure a se stessa, e adesso sembrava tutto
così bello da
annebbiare il resto. Ma le avrebbero potute scoprire e cosa sarebbe
successo? Per quanto avrebbe voluto, non poteva realmente accomodarsi
in quella sottospecie di relazione segreta che stavano vivendo. Era
assurdo. Poteva anche sentirsi felice come una ragazzina ma non lo
era. Aveva quarant'anni, era sposata e aveva due figli: doveva
svegliarsi e capirsi, farlo presto, perché non poteva
restare in
sospeso fra l'amore per Sarah e quello per James.
«D'accordo,
adesso baciatevi in movimento! Muovetevi e io lo farò
intorno a voi
come ho fatto adesso», disse il fotografo. Le due si
sorrisero e si
avvicinarono, prendendosi piano.
Per
quanto bello, quello che stavano facendo non era giusto. Aveva
prestato giuramento davanti a lui, gli aveva detto di amarlo e che
sarebbe sempre stata sincera, era l'uomo della sua vita e il padre
dei suoi figli e lei lo stava prendendo in giro. I suoi sentimenti
per lui erano cambiati? Forse, pensava. Ma il forse non era
sufficiente. Il forse non avrebbe mandato avanti la sua famiglia. E
il fatto che pensasse a un forse era già una risposta.
Doveva
parlare con James e essere onesta come lui si meritava. Ciò
che lei
e Sarah stavano facendo era bello, ma sbagliato. Dannatamente
sbagliato.
Oh,
yes ~♥
Capitolo
in anticipo di un giorno perché
sì!
Questo
sesto capitolo fa qualche tuffo nel passato, sia per quanto riguarda
la parte della realtà, che quella di Shaw e Root. Shaw ha
scoperto
di provare dei sentimenti, rivedendosi bambina e sola, e Sarah
ricorda il periodo adolescenziale in combinazione a quello che sta
vivendo con Amy. Root deve fare i conti con quello che ha fatto a
Philip Lars e Amy deve farli con suo marito, cercando di capire cosa
vuole realmente nella sua vita.
Piccola nota:
- Avevo
fatto i conti quando ho scritto il capitolo e credo di non essermi
sbagliata: quando Sarah aveva circa 16/17 anni, Ellen DeGeneres aveva
da poco fatto coming out. Non so precisamente cosa si dicesse alla tv
allora, ma ho optato per un "gay è ok" che mi faceva comodo.
Spero
che i flashback non siano complicati o pesanti da leggere. Nel caso non
lo
fossero vi prego di dirmelo, così potrò
migliorare le prossime
volte che ne scriverò :)
Fatemi
sapere cosa ne pensate, sperando che il capitolo vi sia piaciuto!
Ringrazio chi mi ha recensito la scorsa volta: è sempre un
piacere
leggervi e conoscere i vostri punti di vista.
Alla
prossima settimana con il capitolo sette e l'ingresso di un nuovo
personaggio... o meglio, una vecchia conoscenza: Grazie
^^
|
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Capitolo 7 *** Capitolo sette. Grazie ***
Appena
Kevin Chapman mise piede negli studios sia Amy che Sarah gli corsero
incontro per abbracciarlo come benvenuto, felicissime di riaverlo con
loro.
Quando
lo vide lì impalato, un poliziotto lo chiamò per
fargli ascoltare
la storia della nonnina che voleva uccidere la vicina di casa con un
paio di forbici, ma lui non riusciva a muoversi. Nemmeno il cane Bear
che per poco gli saltava addosso dalla contentezza riusciva a
smuoverlo. Lei era lì, davanti a lui. Viva. A un certo punto
decise
di fare qualcosa e si abbassò per riprendere le cartelle che
gli
erano cadute, tornando indietro.
Shaw
scosse la testa e Root lo seguì. «Detective
Fusco», lo chiamò e
lui dovette fermarsi; guardandosi intorno scoprì che la sala
era
piena di colleghi e non poteva proprio fare scenate. «Sono
felice di
rivederti, Lionel».
«E
io invece no». Si pentì di quella risposta data di
getto e si passò
i palmi delle mani sul viso, come per riprendersi. Non ci credeva.
Non credeva ai suoi occhi. E poi, infine, l'abbracciò;
imbarazzato,
cercava di trattenere le lacrime. Lei ricambiò poco prima
che lui si
allontanasse, senza guardarla in faccia, fregandosi un occhio.
«Maledizione…», bofonchiò,
«Io ti ho vista ed eri morta!
Morta»,
ringhiò, trattenendo la voce. «Eri morta,
maledizione… Con i miei
occhi ti ho vista, non- Non-».
«Mi
dispiace».
Lui
scosse la testa e la trascinò in una stanzetta degli
interrogatori,
in modo che potessero parlare liberamente. «Mi
dispiace?
È l'unica cosa che riesci a dire?».
Root
prese respiro, incurvando la testa. «Non è stata
una decisione
facile, Lionel. Dovevano tutti credere che ero morta o non sarebbe
servito a niente».
«Mi
hai traumatizzato», l'accusò, «Tu eri
morta e poi… il mio
partner…».
«Lo
so».
«Tu
non sai niente», le puntò contro un dito, prima di
pensarci: «Anche
lui magari è…».
«No»,
esclamò decisa, «La Macchina ed io non abbiamo
potuto salvarlo».
Fusco
richiuse le labbra, abbassando lo sguardo con delusione. Prese la
sedia davanti al tavolo e ci si sedette, incurvando la schiena.
«Quando sei tornata? Quando pensavi di dirmi che eri
viva?».
Non
pensava affatto di dirglielo, rifletté Root. Non aveva idea
che in
quella centrale lo avrebbe ritrovato, essendo distante da dove
lavorava prima. Al contrario, immaginò che la Macchina
dovesse
saperlo e non glielo aveva rivelato, le aveva lasciate andare, forse
di proposito. La Macchina voleva che si rivedessero? «Sono
contenta
di vedere che stai bene, Lionel», sorrise.
Cambiò
discorso e lui alzò gli occhi al soffitto, accennando una
risata.
«Dovevo allontanarmi, avevo accettato il trasferimento
perché stare
là mi faceva pensare troppo a voi, a tutte quelle cose che
fate, al
mio partner», annuì, «A te. E poi ti
ritrovo qui, viva e vegeta,
con la tua amichetta psicopatica e il cane», scosse la testa,
«Facevo prima a prendermi una vacanza».
Root
si avvicinò a lui e, senza pensarci, lo abbracciò
ancora.
«Va
bene, va bene… Ti perdono. Ti odio. Ma ti
perdono», concluse lui e
l'altra rise.
«Considerando
che siamo qui, che ci sei tu e io devo trovare una
persona…».
Fusco
sgranò gli occhi, con fastidio, finché non
cedette e annuì,
rialzandosi.
«Allora…
come state vivendo questo ritorno da Root e Shaw?», chiese
Kevin
alle due.
Avevano
preso un tavolo esterno in un locale vicino al luogo delle riprese e
si erano accomodati per sorseggiare un drink per parlare delle
novità, del ritorno di Fusco e di quello che era stato, in
nome dei
bei vecchi tempi e di Person
of Interest.
Amy
e Sarah, l'una davanti all'altra, si scambiarono un'occhiata.
«Io
non vedevo l'ora», rispose subito Amy, sorridendo.
«Ah,
di te non c'erano dubbi… dovevo chiedere solo a
Sarah», rise.
«Mi
sta dando molte soddisfazioni», rispose l'altra e Amy la
guardò.
Kevin
annuì. «Eh, lo immagino…»,
bevve un sorso, «Con uno show tutto
vostro avete molte più possibilità di far
emergere i vostri
personaggi. Francamente, appena l'ho saputo ho urlato di gioia; sono
contentissimo per voi, ragazze».
Amy
portò il bicchiere alle labbra e scrutò Sarah,
che faceva lo
stesso.
«E
tu: come stai vivendo questo ritorno da Fusco?», gli chiese
Sarah,
sorridendogli.
Lui
spalancò la bocca in un enorme sorriso e alzò le
braccia al cielo,
agitando i pugni. Fece ridere entrambe. «Sono tutto un
fremito, non
ci speravo! Appena mi hanno contattato sono saltato dalla sedia: sì,
raggiungo le ragazze! Fusco-nator è tornato!
Per il resto come ve la passate, tutto bene?».
Sarah
guardò lei, che beveva piano, prima di parlare:
«Benissimo. È
tutto meglio di come lo immaginavo! Sai, ci divertiamo, ogni tanto
mangiamo insieme…», sentì Amy ridere a
bassa voce e così sorrise
anche lei, «E tutti sono fantastici, sia con noi che nel
lavoro. I
copioni sono buoni, la trama ci piace», la fissò
un attimo, alzando
le sopracciglia, ammiccando, «Ci troviamo bene».
Kevin
lanciò uno sguardo alla prima e alla seconda, sorridendo.
«Vi vedo
molto affiatate, sono contento! Questo spinoff ci voleva
proprio».
«Ci
voleva proprio», concordò Sarah.
Si
ritrovarono a brindare allo spinoff Shoot e a ridere e scherzare come
una volta. Era piacevole e faceva ritornare tutti e tre indietro nel
tempo, a quando si riunivano per cenare insieme a Jim e Michael e
parlavano tutta la notte. Era stato un bagno di nostalgia, quello che
non è mai abbastanza e cementa le amicizie. Presi
dall'allegria
chiamarono prima uno e poi l'altro con il vivavoce al centro del
tavolo e avevano proseguito per delle ore, fino al ritorno a piedi
alle roulotte, rientrando nella zona delle riprese. Sarah era un po'
brilla e non faceva che ridere, completamente rossa. Amy si era
avvicinata a lei e di tanto in tanto le veniva voglia di sorreggerla
poiché da quanto rideva rischiava di sbandare. Anche Kevin
era
rosso, aveva bevuto troppo, e aveva dato la buonanotte alle due
ancora prima di arrivare alla sua porta. Convenne che fosse meglio
mettersi immediatamente a letto se voleva essere fresco l'indomani
mattina per lavorare, quindi si chiuse in roulotte e le due lo
salutarono.
«Siamo
arrivate», affermò Amy, aprendo la porta della
roulotte di Sarah.
Lei
si appoggiò al metallo e un piede alla ruota, guardando il
cielo.
«Restiamo qui fuori», emise in un sorriso sognante,
«Stanno
uscendo le stelle».
Amy
scese dagli scalini e alzò gli occhi al cielo: si stava
facendo buio
e in effetti i colori di quel tramonto che si stava spegnendo erano
meravigliosi. Si appoggiò anche lei e iniziò ad
ammirarlo.
«Ho
litigato con Steve».
Amy
riabbassò gli occhi di colpo. «Quando?».
«Ieri
sera. Nulla di nuovo: abbiamo litigato altre volte», ammise
serenamente. «Era arrabbiato perché mi sente
distante», deglutì,
«È geloso di te».
«Di
me?». Il cuore perse un battito. Guardò di nuovo
il cielo. «Sa
che-».
«No»,
scosse la testa prontamente, ridacchiando, come se fosse un'idea
folle. «Steve è geloso di te dalla terza stagione
di PoI,
se non ricordo male… Ci vedeva troppo vicine e
gli
dava un po' fastidio, anche
se non lo diceva a voce, non sempre… così
dovevo cercare di fargli capire che ero sposata con lui e non con
te», rise ancora e Amy sospirò.
«Comunque, pensava che noi
andassimo a letto insieme».
Amy
arrossì, lasciando perdere il cielo e guardando lei.
«Oddio», si
portò una mano alla bocca, arrossendo inevitabilmente.
«Non è che
adesso… non sia proprio vero…».
Sarah
si spostò dal freddo metallo e si sciolse i capelli fino a
quel
momento legati con una treccia, scuotendo la testa. Amy amava vederla
muoversi i capelli. «Ma non glielo
dirò», le disse guardandola
negli occhi.
«Lo
so. So che non glielo dirai».
Sarah
si avvicinò e le carezzò una guancia, intanto che
chiudeva gli
occhi. Poi le prese una mano per tirarla dentro ma Amy si
fermò sui
suoi passi.
«È
meglio se vado a dormire un po'».
«Puoi
dormire anche qui».
«Sarah…»,
prese fiato, scuotendo la testa. «Devo richiamare
James».
«Puoi
richiamarlo anche qui». Si avvicinò ancora a lei e
Amy non si
mosse. Le poggiò le mani sulle spalle e si
allungò per baciarle
sotto un orecchio, poco più sotto, poco più sotto
ancora, con
l'alito caldo sull'incavo del collo. Amy trasalì.
«Va
bene, ho capito! Ma non qui fuori», la allontanò
con fermezza, «Sei
una tentazione».
Sarah
rise a squarcia gola, prendendole una mano e tirandola dentro.
Gli
mandò un messaggio dicendogli che lo avrebbe richiamato
più tardi,
ma in realtà non sapeva quanto sarebbe stato tardi. Non
sarebbe
riuscita a telefonargli con Sarah vicino che poteva ascoltare i suoi
discorsi. Si sdraiò sul letto con stanchezza, reggendosi la
fronte.
Era frustrata perché non era riuscita a imporsi: se ci
pensava le
veniva bene, la scena correva alla perfezione nella sua testa, lei
che le diceva chiaramente di no e Sarah che tornava nella sua
roulotte da sola, ma nella realtà la tecnica che usava con i
suoi
figli non funzionava affatto su di lei. Lei non funzionava con Sarah,
pensò. Voleva allentare la corda ma era così
difficile. E come se
non avesse abbastanza sensi di colpa a tormentarla, non poteva fare a
meno di ripensare a Steve e a quello che Sarah le aveva detto fuori:
e non che fosse qualcosa di nuovo, lo sapeva, ma sentirle dire che
non avrebbe detto niente a suo marito le aveva fatto un po' male. Era
sciocco, considerando che ancora nemmeno lei era riuscita a dire una
parola a James.
La
vide avvicinarsi e poi appoggiare il cellulare su un mobiletto,
spegnendo la luce. Si era cambiata in bagno e indossava solo una
larga maglietta che richiamava il baseball. Era certa che indossasse
solo gli slip là sotto, che non portasse pantaloncini. Era
così
bella. Si mosse i capelli ancora una volta e gattonò sul
letto fino
a lei, sdraiandosi accanto. Amy l'aveva sentita sospirare.
«Lo
hai chiamato?».
Amy
non sapeva cosa pensare: lei non voleva che suo marito sapesse che lo
stava tradendo, ma non voleva neppure che lo sapesse James? Ci teneva
a saperla in buoni rapporti con suo marito o era solo molto curiosa?
Sospirò anche lei, concludendo che era meglio non pensarci.
Non in
quel momento. «No. Lo richiamo più
tardi». La sentì strusciare
sulla coperta fino ad arrivare più vicino a lei e le aveva
dato un
bacio sulla testa; Amy non aveva resistito alla tentazione e si era
avvicinata a sua volta, mettendosi di fianco, abbracciandola. Le
circondò un piede con i suoi.
«Potrei
restare così per sempre», sussurrò
Sarah e Amy la scrutò: dalla
poca luce, riusciva a notare che era ancora rossa e le risaltava gli
zigomi, in special modo quando sorrideva.
Più
la guardava e più si rendeva conto di ciò che
voleva, di quanto era
bella e di come la faceva sentire stare in quel modo, con lei. Ebbe
paura di dire qualcosa di cui un giorno si sarebbe pentita, e stava
per farlo. Erano parole importanti, e probabilmente solo spinte
dall'attimo, quindi abbassò la testa, appoggiando il viso al
suo
seno, chiudendo gli occhi.
«In
questi giorni mi è tornato in mente una cosa».
«Che
cosa?», domandò Amy.
«Lauren
McGarry. Era la mia ragazza, al liceo», sorrise.
«Avevi
una ragazza al liceo?», la guardò, «Non
me ne hai mai parlato».
Sarah
rise. «Lo sto facendo ora! Mi è tornata in mente
lei perché
dovevamo nasconderci da tutti anche solo per tenerci la
mano».
Amy
deglutì. Stava raccontando di quel fatto come se le avesse
dato
effettivamente fastidio. «Cos'è successo
dopo?». La sentì
sospirare di nuovo.
«Un
professore ci aveva sorprese a baciarci, una mattina, e aveva giurato
che lo avrebbe raccontato alle nostre famiglie se non avessimo
troncato, così… abbiamo troncato. Avevamo paura e
abbiamo lasciato
che lei vincesse», scosse lentamente la testa, «Ci
siamo
allontanate e dopo la cerimonia del diploma non l'ho più
vista».
«Mi
spiace», mormorò Amy, facendo una pausa.
«E cosa è cambiato dal
liceo ad ora?».
«Che
sono sposata».
Amy
sentì che una sua mano le coccolava la schiena e richiuse
gli occhi.
Andava bene così, pensò. Sarah aveva ragione. Non
poteva
costringerla a fare qualcosa che non voleva. Si sarebbe goduta i
momenti con lei e per il resto avrebbe pensato a sé, fino a
quando
non l'avrebbe lasciata andare per tornare da lui.
C'era
molto silenzio. Non una musica, non un movimento dall'esterno o una
voce. Tutto era fermo come per dare a Amy il tempo di pensare ancora
e di ascoltarsi, oltre al respiro e il battito del cuore di Sarah
sotto la sua orecchia destra. Il suo petto si alzava e si abbassava
con lo stesso ritmo, tanto che pensava si stesse addormentando, fino
a quando non udì i battiti del cuore accelerare senza
ragione
apparente, all'improvviso, e si chiese a cosa stesse invece pensando
lei. Forse ancora a Steve. O a come alludeva alla loro relazione
parlando con Kevin a tavola. Oh sì, Sarah,
com'era? Molte
soddisfazioni, già, pensò,
arrossendo. Ma come l'era venuto
in mente? Per fortuna Kevin non aveva capito niente. Come avrebbe
potuto? Era una fortuna, ma era stato comunque rischioso. Non voleva
dire nulla a Steve ma allo stesso tempo si permetteva di rischiare
che il loro collega scoprisse tutto. Come poco prima, baciandola
davanti alla roulotte. Dopo il succhiotto mal nascosto, mancava che
le sorprendessero a farne un altro.
Sarah
si mosse e interruppe i suoi pensieri. Se la scansò di dosso
con un
movimento veloce e pensò che volesse dormire, quando invece
se la
ritrovò addosso, sedendo sul suo ventre, accarezzandole una
guancia
rosa.
«Sei
calda», sussurrò con i capelli sul viso,
sollevandoli con l'alito.
Passò il pollice sulle labbra spalancate di Amy, che la
fissava
nella penombra data dalla luce dei lampioni fuori dalla roulotte.
«E
tu hai bevuto troppo», le rispose, sorridendo.
«No,
non così troppo», sorrise, spostando i capelli da
un lato.
Amy
sentì un brivido di freddo quando la mano di Sarah
lasciò il suo
viso, ma tutto il suo corpo vibrò quando la
risentì sotto la sua
maglietta. Sarah gliela tirò su, slacciandola dai jeans,
mentre
passava le dita sulla sua pelle dall'alto verso il basso,
finché non
si inchinò e ci poggiò la lingua e poi le labbra.
«Non
mi lascerai un altro succhiotto, vero?», disse Amy in un
sospiro, ma
Sarah non rispose, infilando la testa sotto la maglietta.
Amy
bloccò un sospiro e incurvò la schiena, distese
una gamba e il
piede, sentendo la calda e umida bocca di Sarah scendere di nuovo
verso l'ombelico, e le sue mani intente a slacciarle i jeans.
No,
ripensò Amy, decisamente, tutto e niente di lei funzionava
con
Sarah.
Daryl
Boscoferro. Fusco le aveva trovato un numero di telefono oltre ad
altri dati e lei lo aveva contattato per vedersi in un bar: dovevano
parlare. La professoressa della scuola media Harris, Claire Weller,
le aveva fatto quel nome parlando di amici di Philip Lars. Li aveva
visti insieme spesso e Lars glielo aveva pure presentato,
probabilmente omettendo che quell'uomo dal fascino italiano era un
mercenario. Root lo conosceva: avevano lavorato insieme, in passato,
quando aveva adottato il nome Root
da poco tempo. Da allora le loro strade non si erano più
incrociate
fino a quel momento.
Era
seduta al bancone e aveva già ordinato per due. Quando lo
vide
entrare lo riconobbe subito: completo nero, scarpe lucide, lo stesso
stile. Aveva messo su qualche chilo e aveva i capelli biondini
più
lunghi che gli ricadevano sul viso, ma il suo sguardo da furbo era lo
stesso. L'adocchiò e si avvicinò, sedendole
accanto e spegnendo la
sigaretta in un posacenere.
«Root.
Quasi non sembrano passati dieci anni», disse lui, abbozzando
un
sorriso, squadrandola da capo a piedi. «Se posso, sei perfino
più
sexy di prima».
Lei
sorrise, sollevando il bicchierino. «Il solito adulatore, non
sei
cambiato affatto». Bevve e lui lo stesso, alla loro salute.
«Ma non
ti ho chiesto di venire per una visita di cortesia. Philip Lars: cosa
sai dirmi di lui?». Non si lasciò sfuggire il
fatto che non ne
sembrò per niente sorpreso di sentirle pronunciare quel
nome.
«Ti
vuole morta, Root», alzò una mano, richiamando il
barman per
ordinare il doppio di quello che avevano appena consumato.
«Speravo
sapessi dirmi qualcosa che non so», incurvò la
testa, sorridendo.
«Cosa
vuoi sapere?».
«Comincia
col dirmi ogni cosa ti passa per la testa».
Non
nascose che si erano incontrati, non avrebbe avuto senso.
Riferì che
Lars aveva avuto il suo contatto tramite conoscenze comuni e che lo
voleva assumere per ritrovarla. Aveva accettato, disse subito, solo
che non l'aveva trovata. Lars raccontò a Daryl Boscoferro di
tutto
l'odio che nutriva per lei e di come avrebbe fatto qualunque cosa per
avere la sua testa, che avrebbe pagato qualunque cifra per ucciderla;
senza mancare di dirgli, naturalmente, che considerando aveva fallito
nella sua ricerca e altri lo stesso prima di lui, avrebbe costruito
una rete di agenti sparsi per il territorio per avere sue notizie.
Prima o poi qualcuno l'avrebbe vista. Ci era riuscito.
«I
Marshall Mason», soffiò Root.
«Vedo
che sei aggiornata. Come dieci anni fa. Non mi stupisce».
Gli
sorrise. «Tu sai dove trovarlo».
Daryl
Boscoferro si lasciò sfuggire una risata goliardica. Poco
dopo prese
il suo bicchierino e buttò giù il contenuto in un
sorso. «Mi
sbagliavo, Root: non come,
sei più in gamba di dieci anni fa».
Scivolò la sua mano sinistra
all'interno della giacca e le puntò una pistola su un
fianco. Lei
non la guardò neppure, continuando a sorridergli.
«Ma non
abbastanza». Udì il rumore di un grilletto e si
voltò, scoprendo
che su uno dei tavolini dietro di loro, sotto il cartoncino del
menù,
sbucava la canna di una pistola puntata verso di lui. Una donna lo
guardava con insistenza. Accidenti, non si era accorto di lei.
«Ti
sei fatta la guardia del corpo?».
Il
dito indice destro di Root scivolò sul bordo del suo
bicchierino
vuoto e, prendendone una goccia, se la portò in bocca con
soddisfazione. «Oh, è la mia ragazza. È
molto protettiva», annuì.
Lui
spalancò la bocca, annuendo; decise saggiamente di ritirare
la sua
pistola e rimetterla all'interno della giacca.
Shaw
riportò la pistola dietro il cartoncino e poi nella cintura,
alzandosi e raggiungendo i due, sedendo vicino all'uomo. In silenzio,
alzò una mano per attirare l'attenzione del barman e farsi
portare
un bicchiere.
«Sai,
la
sua ragazza,
dovresti prendere in considerazione l'idea di diventare un Marshall
Mason: Lars paga piuttosto bene».
«Ci
penserò», emise con un filo di voce, prima di
svuotare il contenuto
del suo bicchierino.
Daryl
Boscoferro alzò di nuovo la mano per ordinare da bere ma,
appena il
barman si avvicinò, prese due bicchierini insieme e li
scagliò
contro Root che si parò con un braccio. Lui
scivolò giù dallo
sgabello e fermò Shaw prima che gli sparasse, facendole
cadere la
pistola e ammanettandola al bancone; troppo lento che Root gli fece
lo sgambetto e cadde a terra. Stava per prendere la sua pistola dalla
giacca ma Shaw gli sferrò un calcio e dovette rinunciare,
rialzandosi e schivando un colpo di Root e la sua pistola. Corse
verso l'esterno. «Ci vediamo presto, Root»,
gridò lui, aprendo la
porta. Ma non andò lontano: Bear gli saltò
addosso con un balzo,
ringhiando e abbaiando con ferocia, mostrandogli i denti; invece, a
pochi metri, Fusco aveva la pistola puntata contro di lui e il
distintivo ben in mostra.
«Getta
la pistola a terra e metti le mani dietro la testa! Daryl Boscoferro,
sei in arresto».
«Prima
porta via il cane!», urlò nel panico.
Root
abbassò l'arma e Shaw si guardò la mano
ammanettata con stupore:
non riusciva a liberarsi come suo solito.
Il
barman tremava in un angolo e Root gli mostrò il distintivo:
«Detective Dawson. Avevamo tutto sotto controllo».
Agitò le
braccia per togliersi l'alcol dalla giacca e guardò Shaw,
incuriosendosi. «Ehi, tesoro, vuoi che ti aiuti
io?», si avvicinò.
«Ce
la faccio da sola», mugugnò. In realtà,
era la prima volta che
delle manette le davano tanta difficoltà.
Solo
quando gli artificieri andranno a romperle per liberarla
scoprirà
che quelle manette avevano all'interno un meccanismo d'emergenza che
non le permetteva di aprirle come suo solito. Se le porterà
dietro
per lavorarci.
«Più
presto di quello che ti aspettavi, Daryl», gli disse Root in
un
sorriso, scortandolo con la macchina della polizia in centrale.
«Stop»,
urlò la regista, facendo fermare tutto. Ognuno
lasciò le proprie
posizioni e molti si allontanarono per pranzare.
Mark
Headford si accostò a Carl, che interpretava Daryl
Boscoferro, per
dargli qualche suggerimento sulla corsa e sull'arrivo di Bear, in cui
doveva dimostrare di essere realmente terrorizzato, intanto che
l'addestratore portava via il cane. Amy si accorse di aver lasciato
il telefono all'interno del bar e andò per recuperarlo.
L'attore che
faceva il barman le disse di averlo visto su uno dei tavolini e poi
si allontanò anche lui: a breve sarebbe entrata la crew a
ripulire
il locale in modo da ridarlo ai legittimi proprietari proprio come lo
avevano lasciato.
Vide
di avere una chiamata persa di James e si morse un labbro.
«Indovina
chi è?!», esclamò Sarah dietro di lei,
tappandole gli occhi con le
mani.
Amy
non poté fare a meno di sorridere. «Mi fai un
favore, adesso che
sei qui?!», le domandò, «Il reggiseno mi
sta facendo malissimo
alla schiena: deve essersi messo male».
«Ci
penso io». Le fece scivolare la giacca dalle spalle fino ai
gomiti
e, dopo aver tirato la maglia, infilò dentro le mani. Amy
trattenne
un brivido. «Sì», disse, «Un
gancetto si è storto». Lo rimise a
posto ma non le mani, tastando la pelle, massaggiandole la schiena e
le spalle. Amy chiuse gli occhi, lasciandosi trasportare.
«Sei un
po' tesa».
Sogghignò.
«Non posso farne a meno».
«Rilassati.
Sei non vuoi…», iniziò a dire,
«non ti tocco più», le
risollevò la maglia e la circondò con le braccia,
appoggiando la
testa sulle sue spalle. «Lo so che ti dà fastidio
che non voglia
dire nulla a Steve», le confidò sui suoi capelli,
con un filo di
voce, «Ma non è facile…».
«Lo
so». Amy le sollevò le braccia in modo che potesse
girarsi, così
lasciò che ricadessero sulle sue spalle e che Sarah
appoggiasse di
nuovo la testa su di lei, appena sotto il mento.
L'abbracciò,
stringendola forte. «Lo so. Sono sposata anch'io, Sarah. Cosa
possiamo fare…? Allora è finita?».
Sarah
rialzò il viso e la guardò negli occhi. Si
stavano ferendo a
vicenda, nessuna delle due lo voleva davvero. «È
finita», mormorò.
Era
finita ma continuavano a guardarsi, e a toccarsi, e a sentirsi, e a
respirarsi. E a volersi. E ci ricascarono, scrutando con attenzione
l'una le labbra dell'altra, legandosi ancora in un lungo bacio che
sapeva di amore, che gridava di non lasciarsi andare.
Si
ricordarono solo in un secondo momento di essere solo temporaneamente
al sicuro e di trovarsi sul set fra cavi e impianti dell'audio, che
stavano rischiando ancora. Dunque si lasciarono ma lui aveva
già
visto tutto, sull'uscio della porta: aveva la bocca aperta, fermo e
incapace di dire nulla che non fosse guidato da sconcerto e
imbarazzo.
Le
due si allontanarono subito l'una dall'altra. Amy abbassò lo
sguardo, impacciata, e Sarah guardò prima lui e dopo lei,
iniziando
a ridere. «Stavamo provando! È ovvio! Cavolo, che
faccia fai,
sembra chissà cosa».
«Chissà
cosa?»,
sbottò lui, «Mi prendi in giro?».
«Sarah,
lo ha capito», mormorò Amy, alzando una mano per
indicare Kevin.
«Capito
cosa?», ridacchiò, «Dai, seriamente, ma
figurati».
A
un certo punto, Kevin scosse la testa e decise di uscire. Amy
guardò
lei e dopo gli corse incontro, intanto che Sarah riprendeva fiato e
si passava le mani sulla testa, spettinandosi i capelli che erano
legati in una coda perfetta, cercando di calmare il suo cuore, con la
paura di rivedersi diciassettenne, sorpresa ad amare una ragazza.
La
parte della crew che non era impegnata a mangiare era ancora fuori e
risistemava il materiale in disordine, senza smontare nulla
poiché
probabilmente avrebbero rifatto la scena in cui Daryl Boscoferro
usciva correndo dal pub. Kevin Chapman sfrecciò in mezzo a
loro con
passo marcato, ma Amy lo raggiunse in fretta, poggiandogli una mano
su una spalla.
«Kevin,
aspetta, ti prego».
Lui
obbedì, scuotendo di nuovo la testa e reggendosi la fronte.
«Quello
non era un bacio scenico, non cercare di farmi pensare il contrario:
non lo era! Da quanto va avanti questa storia?»,
aggrottò le
sopracciglia.
Stava
cercando di trattenere la voce piuttosto bassa e Amy lo
ringraziò
implicitamente. «Non da molto… Ci stavamo
lasciando, comunque»,
si morse un labbro, mantenendo il pub nel suo campo visivo: Sarah era
ancora dentro.
«Ho
visto come vi stavate lasciando… Non mi sembrava un bacio
d'addio.
Siete sposate, accidenti!», la sgridò scuotendo le
braccia,
mantenendo bassa la voce. «E non fra voi. Che vi dice il
cervello?».
«È
molto più complicato di così».
«Non
lo è. Non ancora», biascicò,
guardandola dritta negli occhi. «Non
sono affari miei, ma voglio bene a entrambe e voglio dirvi che se va
avanti allora sì che diventerà davvero
complicato! Ci saranno
sempre più bugie, incomprensioni, litigi, prese in
giro… e allora
vi domanderete se ne vale la pena», proseguì,
fermandosi per
riprendere fiato e guardare il cielo, mentre lei stava zitta e
abbassava la testa, «Se volete stare insieme, nessuna legge
ve lo
proibisce: ma siate almeno sincere».
«Non
ci riesco», esclamò d'un fiato, forse alzando un
po' troppo la
voce: non era da lei e molti della crew si erano fatti curiosi nella
loro direzione. «Non ci riesco, so che sto sbagliando ma non
riesco
a dire la verità a James… Non sono riuscita a
parlargli di
questo, al telefono».
«Certe
cose non si dicono al telefono». Lei annuì e Kevin
si guardò
attorno, scoprendo che tutti li stavano fissando. «Andiamo a
parlarne da un'altra parte».
Era
facile mesi prima parlare di tutto quello che le passava per la testa
con Sarah. Erano complici, amavano raccontarsi le cose e darsi
consigli, ma in quella circostanza non potevano semplicemente
appellarsi alla loro amicizia e Amy sentiva di doverne discutere con
qualcuno. Kevin era stato paziente e tremendamente sincero su tutto
quello che gli passava per la testa, mentre lei raccontava le paure
che l'assalivano, i suoi dubbi, quel sentimento per James che sentiva
essere cambiato e, probabilmente, da molto prima che riuscisse ad
accettarlo. Non sapeva se era o meno davvero innamorata di Sarah ma,
tuttavia, sapeva di provare qualcosa di molto forte da sempre e che,
a un certo punto, era venuto tutto a galla e che non riusciva a
fermare. E che non era sicura di voler fermare. Era quasi certa di
non volerlo.
«Allora
andiamo», disse lui a un certo punto, «Chiediamo di
poterci
allontanare e ti accompagno da James».
Amy
era esitante ma alla fine acconsentì. Non poteva continuare
a
parlargli in modo strano al cellulare, a sviare i discorsi e a
sentirsi male con lui in quel modo. Presero un giorno di permesso,
intanto avrebbero ripetuto alcune scene dove Root non c'era, e
raccontò a Sarah che andava da James e che sarebbe tornata
presto.
Le era parsa pensierosa, ma in fin dei conti si erano dette che era
finita e non le fece neppure delle domande in proposito: stava
andando da suo marito e andava bene così. Forse Sarah
pensò che
avrebbero ricucito il loro rapporto. Ma perché con lei
andava anche
Kevin?
Fortunatamente
il set di Gotham
non era lontano. Presero un treno e un autobus per raggiungerlo,
tenendosi la mano. Amy era molto agitata. I cappellini sulle loro
teste non erano sufficienti per non farsi riconoscere da qualche fan
ma tutto sommato, tra qualche autografo e foto con loro, avevano
fatto presto. Gli inviò un messaggio che sarebbe venuta a
trovarlo
per parlare e un altro quando era a poco da lui. Li avevano fatti
passare. James l'aspettava nella sua roulotte e Amy guardò
verso
Kevin un'ultima volta prima di raggiungerlo, con titubanza.
«Sii
sincera», la incoraggiò, «Sei forte,
puoi farcela».
«Grazie».
Strinse
i pugni e chiuse gli occhi, prendendo fiato. Bussò e lui
aprì,
prendendole la mano. Kevin restò là fuori
finché non vide la porta
chiudersi, poi sospirò, scuotendo la testa, allontanandosi.
Aaaah,
oddio, ma che ora è?? È tardissimo! Tra una cosa
e l'altra, mi era
proprio passato di testa di dover aggiornare la fan fiction! Ma
è
ancora lunedì, no? :D
E
proprio perché è tardi, taglierò
corto: mi piace il rapporto fra
Root e Fusco e, non so in realtà come sia il rapporto fra
Amy e
Kevin, ma mi piace l'idea che possano avere un legame d'amicizia un
po' particolare :)
Fra
Sarah e Amy invece è finita: sono sposate, e non fra di
loro. Prima
o poi doveva succedere.
Ringrazio
RosaNera per la recensione allo scorso capitolo e ci
rileggiamo la settimana prossima (magari ad un orario più
consono
XD) con il capitolo otto: Svoltare e cambiare direzione!
A
lunedì ^^
|
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Capitolo 8 *** Capitolo otto. Svoltare e cambiare direzione ***
Netflix
pubblicò sui suoi vari profili social la prima foto
promozionale
della serie e a breve cominciò a essere condivisa ovunque,
intanto
che gli animi si stavano esaltando. Si trattava solo delle mani di
Root e Shaw intrecciate, legate l'una all'altra, e tanto bastava a
far scatenare i fan e le loro fantasie. La foto promozionale non
passò inosservata a nessuno, James compreso. Al contrario,
tuttavia,
non lo aveva elettrizzato come avrebbe fatto in altre circostanze.
Non era arrabbiato, ma certamente abbattuto. Era quello lo stato
d'animo che più si faceva strada in lui e lo distraeva
durante le
riprese, sperando di non trasmetterlo al suo personaggio. Era passato
già un mese da quando Amy era venuta a trovarlo e gli aveva
parlato
a cuore aperto. Il mese più duro della sua vita. Non gli
aveva dato
un nome, non aveva parlato di un terzo fra loro, ma sapeva che c'era
e chi era, non era certo stupido. Ma non glielo aveva fatto notare,
aveva deciso di tenerselo per sé. Lei si era messa a
piangere e lui
non era riuscito a non abbracciarla, seppure il suo cuore fosse a
pezzi.
«Sei
il padre dei miei figli, il mio migliore amico… Ti ho amato,
ti amo
e ti amerò per sempre! Ma non posso stare con te sapendo che
quello
che provo è un'altra cosa: non è giusto per me,
né soprattutto per
te».
La
amava. Mantenne per sé anche quello. Lo stava lasciando e
sarebbe
stato più difficile per lei farlo se le avesse detto di
amarla. Non
capì proprio come riuscì a essere lucido in un
momento come quello,
forse perché se lo aspettava, considerando le ultime
chiamate, la
sua voce, la sua stanchezza e la paura. Come poteva ferirla? Sembrava
si fosse già ferita abbastanza da sola. E poi c'erano i
bambini.
Ancora non glielo avevano detto ma, appena lei avrebbe finito di
girare, lui avrebbe chiesto un permesso e sarebbero andati da loro
insieme per raccontare a entrambi di come le strade di due persone
che si uniscono possano, a un certo punto, senza premeditarlo,
svoltare e cambiare direzione. Stare insieme senza quel sentimento
vero che li aveva uniti anni prima non avrebbe fatto bene a nessuno,
bambini inclusi, che avevano bisogno di crescere capendo che l'amore
non si forza, che può essere di varie sfumature, ma che non
è a
comando e può crescere e mutare così insieme alle
persone che lo
provano. Magari anche lui, un giorno, avrebbe ritrovato la giusta
rotta; al momento si sarebbe accontentato di ricucirsi le ferite.
Sandra
Mollier diede il via e Amy, in vesti di Root, camminò per la
strada,
seguita dalla telecamera in movimento. Si accovacciò dietro
un
muretto degli scalini di una casa e caricò il fucile,
intanto che
tre persone sparavano nella sua direzione. Dei passanti urlarono e
scapparono via, uscendo dall'obiettivo della camera. Root si
voltò
per sparare e la regista urlò a tutti di fermarsi. Era
venuta bene,
avrebbero ripreso fra poco. Ormai erano agli sgoccioli, stavano
girando le scene che avrebbero composto il penultimo episodio della
stagione. Erano tutti eccitati e carichi, consci che fra due mesi
appena, Netflix avrebbe rilasciato l'intera stagione in streaming.
Sapevano di dover dare il massimo ora più che mai.
Amy
si era allontanata e, richiamata da alcuni fan dietro le transenne
sulla strada, si avvicinò. Le chiesero degli autografi e una
ragazza
in particolare le fece una domanda che non si aspettava:
«Sono
uscite su internet delle foto che la ritraggono insieme a Kevin
Chapman: eravate in vacanza?».
«Dovevamo
sbrigare una cosa urgente».
«Posso
chiedere un'altra cosa?». Amy aveva annuito, impacciata.
«Alcuni
fan dicono che eravate mano nella mano ma… non è
che adesso state
insieme, vero?».
Amy
scoppiò a ridere, scuotendo la testa. «No, no,
oddio, siamo solo
amici», si portò una mano sul viso, con imbarazzo,
«Come vi viene
in mente? È sposato».
Se
ne andò dopo che le scattarono delle foto, non rendendosi
bene
conto, nel momento, di come aveva risposto. E dell'impatto che di
lì
a poco avrebbe avuto sui fan nei social. Kevin era sposato,
certamente, ma lo era anche lei. Le era sfuggito. Lei e James avevano
deciso di divorziare ma era rimasto fra loro e pochi altri, Sarah ad
esempio. E Amy non aveva ancora ben inquadrato come l'avesse presa.
Ritornò
alla sua roulotte e iniziò a spogliarsi, togliendo la giacca
e gli
stivaletti, poggiandoli contro una gamba del tavolino. Si sedette sul
divano a guardare un video che le avevano mandato i suoi figli,
mantenendo il volume basso, e lasciò il telefono, andando
poi in
bagno. Si spogliò ed entrò in doccia, pensando
alle riprese che
terminavano. Presto avrebbe lasciato quella roulotte e avrebbe
iniziato una nuova vita che, non poteva non ammettere, la spaventava
più di ogni altra cosa. Era decisa a mettere in chiaro che
tutto
quello che sarebbe successo da lì in avanti aveva lo scopo
di
migliorare la sua vita e non peggiorarla. Svoltare e cambiare
direzione non era un male, ma doveva avere ben presente dove andare.
Uscì
dalla doccia e richiuse la porta a vetri, involgendosi in un
accappatoio. Allungò una mano verso lo specchio per pulirlo
dal
vapore quando la porta accanto si aprì e lei
l'aspettò. Sarah
indossava solo la maglia del baseball, era scalza. Si
avvicinò a Amy
e, senza dirle niente, la baciò e dopo ancora, di nuovo,
toccandole
i capelli e bagnandosi le mani. Si separarono appena, per poco meno
di un secondo, riprendendo fiato, e continuarono a baciarsi. Sarah le
andò addosso tanto che Amy finì per appoggiare
sul lavandino.
«Mi
sono appena fatta la doccia», sussurrò,
poggiandole una mano sul
petto per allontanarla.
«E
io mi sono appena svegliata. O vieni nel letto a farmi compagnia, o
dovrò farmi una doccia anch'io»,
replicò, «E tu sei ancora tutta
bagnata». Amy alzò gli occhi e Sarah ne
approfittò per sfilarsi la
maglietta, restando nuda. Sorrise e si baciarono, nel frattempo che
la liberava dell'accappatoio, buttandolo a terra.
Amy
le portò via un labbro e Sarah la spinse di nuovo contro il
lavandino, infilando una coscia fra le sue. Le loro mani si toccarono
con forza, premendo con foga dovunque si posassero. Si carezzarono i
capelli e se li tirarono delicatamente, per muovere la testa e
baciarsi, mangiarsi. Amy spinse Sarah verso la porta della doccia e
sbatterono piano contro il vetro, senza lasciarsi; si
abbassò e posò
la lingua sull'incavo del collo prima delle labbra, succhiando, per
poi scendere gradualmente verso il seno.
Ogni
volta che la lingua e poi la bocca di Amy sfiorava la sua pelle,
Sarah rabbrividiva dalla testa ai piedi e la tirava verso di
sé. Si
sentivano come i poli di due calamite.
Amy
le leccò un seno, intanto che la teneva con le mani premendo
sulle
natiche. Quando Sarah fu sufficientemente eccitata, aprì la
porta a
vetri della doccia e la trascinò dentro, aprendo l'acqua. Si
baciarono con l'acqua che le colpiva sulla testa, studiandosi a
vicenda, e Sarah lasciò che Amy appoggiasse la schiena
contro la
plastica della doccia, mentre lei si abbassava, tastando le curve del
suo corpo intanto che le mani scendevano. Si fermarono sulle cosce e
gliele aprirono, nello stesso momento che la sua bocca continuava a
baciare. Amy sussultò e poi gemette piano, coperta dal
rumore
dell'acqua che scendeva.
Si
erano lasciate ma solo a parole, poiché due giorni dopo che
Amy
rientrò dal parlare con James insieme a Kevin, lei e Sarah
si erano
riavvicinate tanto da baciarsi e, senza rendersene conto, tutto era
tornato come prima, se non meglio. Amy le aveva detto di aver parlato
con James e che avevano deciso di divorziare, ma l'altra aveva
cambiato argomento. Forse non voleva che le ricordasse che al
contrario stava tradendo suo marito, magari era l'insieme delle cose
a darle fastidio e sperava che evitando di pensarci non avrebbe
dovuto affrontarle, ma Amy non aveva insistito. Lei aveva deciso cosa
fare e non poteva obbligare Sarah a prendere una decisione,
poiché
doveva farlo da sola.
Daryl
Boscoferro fu scortato e trattenuto in una delle salette delle
interrogazioni, in centrale. I tre avevano discusso in disparte su
cosa accusarlo dopo la detenzione di un'arma non registrata e l'aver
colpito due agenti federali, perché in quel caso la cauzione
sarebbe
stata poco salata per uno come lui e avrebbero dovuto rilasciarlo
troppo presto. Root chiese aiuto alla Macchina e insieme riuscirono a
collezionare delle prove che lo inchiodavano in loschi affari come il
commercio di armi dall'estero e l'assassinio sotto commissione di
alcuni funzionari due annetti prima. Grazie a quei dati, la polizia
avrebbe lavorato ancora dei mesi per scovare i committenti e la
ricerca delle armi e chi altro era coinvolto. Daryl Boscoferro
intanto si spazientiva, non aveva visto ancora nessuno, e le
telecamere che lo riprendevano lo avevano registrato gridare dal
nervoso. Root decise così di affievolire il suo supplizio ed
entrare
nella saletta. Quando la vide, lui si paralizzò sulla sedia,
raddrizzando la schiena.
«Ecco
a te». Gli poggiò accanto un bicchiere di plastica
con del caffè
fumante, sperando gradisse. «Lo preferivi con la cannuccia?
Ci ho
pensato dopo essere uscita dal pub», ammise, sedendo davanti
a lui.
Daryl
adocchiò il distintivo sulla giacca e accennò un
sorriso. «Questo
dev'essere un brutto scherzo… Tu non sei un'agente
dell'FBI».
«Ti
tratterremo per un po', Daryl Boscoferro: sei accusato di traffico di
armi rubate all'estero e per alcuni omicidi sotto commissione
avvenuti nell'arco di quattro mesi, fra ventisei e ventidue mesi
fa»,
disse lei, disinteressata alle parole dell'uomo, giocando con una
penna.
«Ma
è assurdo», biascicò. «Come
hai fatto…?», si fermò da solo,
scuotendo la testa, «E va bene, mettiamo caso che tu abbia le
prove…
perché mi stai facendo questo? Al pub ho cercato di
scappare, non di
ucciderti… E comunque ti avrei consegnata a Lars viva,
Root», le
disse guardandola negli occhi, «Non ti avrei mai fatto del
male».
Ansimò, guardando il suo bicchierone di caffè.
«Potresti almeno
levarmi le manette? Così posso bere come un comune
mortale?».
Lei
lo fissò un breve attimo, sorridendo e scuotendo la testa.
«No. Sei
un soggetto pericoloso, mi spiace».
«Ha
parlato la suora», ringhiò, tentando poi di bere
reggendo il
bicchiere con le mani strette nei polsi.
Root
pensò che le manette che in quel momento lo tenevano
ancorato al
tavolo non fossero resistenti come quelle a prova di Shaw che lui si
era portato appresso, tuttavia non ne sembrava pratico e parevano
bastare. Era un fatto curioso. Probabilmente il commercio di armi
aveva dato a Boscoferro una marcia in più, qualche nuovo
gioiello,
ma nessuno si era premurato di addestrarlo a usarli.
«Hai
ingannato tutti da queste parti, uh?», riprese lui,
appoggiando il
bicchiere, «Un bel faccino, un distintivo, e sei subito una
di
loro?».
«Come
fai a dire che non sono una vera detective?».
«Non
ti chiami Maria Dawson, per cominciare».
Root
sospirò. «Ho cambiato nome. Per questa ragione non
mi trovavi».
«Hai
cambiato molti nomi, Root», si sporse sul tavolo, guardandola
dritta
negli occhi, intanto che lei faceva lo stesso sulla sua sedia, ferma.
«È come se non avessi più
un'identità tua. Nome, posto, ingaggio…
Noi Marshall Mason sappiamo molto su di te, ormai. Ne abbiamo trovate
parecchie solo di questi ultimi anni. Mi stupirebbe sentirti dire che
sai chi sei».
Lei
trattenne il respiro, fissando per un attimo la telecamera. Era certa
che la Macchina la stesse osservando. Si alzò dalla sedia e,
con
rabbia, spinse la penna contro il tavolo, fermandosi a qualche
millimetro dalla superficie e dalla faccia di Daryl Boscoferro, a cui
mancò il fiato. «Io so benissimo chi
sono», marcò le parole,
stringendo i denti, «E lo sai anche tu: mi
chiamo Root».
A
quel punto la porta della saletta degli interrogatori scattò
e Fusco
entrò defilato, richiudendo dietro di lui. Le
portò via la penna,
aprendo la mano. «Questa la tengo io, okay? Tu e l'altra
psicopatica
qui fuori vi completate a vicenda, non c'è che dire.
Perché non vai
a vedere come se la sta cavando? Sta ancora giocando con quelle
manette».
«Detective»,
Daryl Boscoferro lo chiamò immediatamente, «Questa
donna non è una
vera agente dell'FBI! Le dirò tutto, posso provarlo, se
arriviamo ad
un accordo».
Root
si alzò e Fusco prese la sedia, accomodandosi.
«Risparmia il fiato,
damerino! Stai parlando con lo sbirro sbagliato». Si
voltò verso
lei, pronta per uscire, e si scambiarono un'occhiata: «Non
fate
idiozie. Se so qualcosa, vi chiamo». Lei annuì,
riguardando Fusco,
Daryl Boscoferro e la telecamera. Appena chiuse, Fusco diede
un'occhiata alle cartelle che aveva in mano e dopo al prigioniero.
«Bene. E adesso mi dirai tutto ciò che sai su un
certo Philip
Lars».
Si
chiamava Root. Era Root. Il suo nome era Root. L'aveva deciso molti
anni prima e da allora sapeva chi era. Samantha Groves era la figlia
ignorata di una madre persa, un nome qualunque su un elenco
scolastico, una ragazzina sullo sfondo di una foto ricordo: l'aveva
abbandonata perché era Root ciò di cui aveva
bisogno. A un certo
punto aveva svoltato e cambiato direzione.
Entrò
nella saletta accanto, trovando Shaw seduta sulla scrivania che
trafficava ancora con quelle manette, dando solo uno sguardo fugace
alla telecamera sul muro davanti che mostrava ciò che
avveniva
nell'interrogatorio, con Fusco che, a mani intrecciate, interrogava
Daryl che si rigirava da una parte all'altra con fare scocciato.
«Sei
pronta, tesoro?».
Lei
annuì. «Dammi un minuto»,
sibilò. Si alzò, fece un gesto con la
mano e, pensando di esserci riuscita, prese passo, restando ancorata
alla scrivania. Sbuffò.
Avendo
abbandonato l'auto dell'investigatore privato quella mattina, le due
salirono su quella di Fusco; ma stavolta avevano le chiavi. Girarono
qualche isolato e si fermarono davanti a un palazzo in periferia.
Mostrando il distintivo chiesero ai poliziotti di allontanarsi
intanto che loro investigavano sul posto e si fecero fare strada. Il
puzzo per le scale in quel palazzo era irrespirabile, tanto che si
stupirono di non trovare un cadavere. Un uomo con una bottiglia in
mano tornò indietro verso la porta di casa appena vide i
loro
distintivi. Salirono le scale fino al penultimo piano e saltarono il
nastro giallo della polizia per entrare dalla porta già
aperta. La
polizia aveva messo a soqquadro l'appartamento di Boscoferro in
giornata e non avendo trovato nulla si lamentarono dell'intervento
dei federali. Era tutto sottosopra, dai quadri gettati a terra ai
cuscini rotti che perdevano ovatta. Si guardarono brevemente intorno
e Shaw chiuse la porta, proprio in faccia a un agente che non si era
deciso ad allontanarsi. Root ripulì una poltrona e ci si
sedette
sopra, iniziando a lavorare su un pc portatile.
«Lo
avranno già controllato».
Root
la guardò, abbozzando un sorriso.
«Superficialmente… sì. A me
piace andare più a fondo».
Shaw
sorrise con velata soddisfazione, girandosi, controllando il resto
dell'appartamento. Saltò una sedia rovesciata al centro
dell'andito
e soppesò ogni rumore che sentiva. Sentì il
distinto rumore di
gocce che cadevano e si affacciò nel bagnetto, notando che
il
rubinetto del lavandino perdeva. Si diresse poi nella camera da
letto, trovando, fra le altre cose a terra, un reggiseno
particolarmente variopinto; lo saltò, controllando la
stanza: la
piccola cabina armadio era aperta e tutto il contenuto gettato a
terra, il letto era smosso e i cassetti di un comò aperti.
Guardò
con attenzione, sentiva che c'era qualcosa che non andava: il tappeto
sotto il letto era smosso, ma faceva una strana piega. Si
allontanò,
restando nell'andito. Appesantì i passi e si
riaffacciò: il tappeto
si era spostato. Sorrise.
Root
guardava con concentrazione la lunga lista di nomi in bianco che le
scorreva sullo schermo nero. Continuava a scorrere senza
interruzioni. «Daryl ha un ruolo più grande nel
progetto, non è
solo un Marshall Mason: seleziona candidati per conto di Lars e li
assume. Da quel che vedo, però, una grande maggioranza di
loro deve
ancora essere contattata per la conferma: siamo ancora in tempo.
Potresti inviare per me una email?». Una delle lucette a led
del
portatile si accese e spense in un attimo. «Grazie. La
scriverò
questa notte». I nomi continuavano a scorrere, non mancando
di
notare la parola actived
in verde sotto parecchi di loro.
«Muoviti!».
La
voce di Shaw la destò e socchiuse il portatile, nascondendo
con una
mano la chiavetta usb che stava raccogliendo i dati che le servivano.
Un ragazzetto smilzo entrò nel soggiorno spinto da Shaw, che
lo
manteneva con i polsi dietro la schiena.
«Abbiamo
un ospite?», domandò Root.
«Una
spia». Shaw lo spinse con il sedere su una sedia e lui la
guardò
storto.
«No!
Non è vero, l'ho già detto, sono solo Brandon!
Sono venuto qui a
prendere… la mia cuffietta». Fece per alzare una
mano e poggiarla
sulla cuffietta sulla testa quando Shaw gliel'acchiappò al
volo e
gliela spinse giù con la forza. «Dico
davvero», aggrottò le
sopracciglia, «Abito di sotto: l'avevo lasciata qui dal
signor
Boscoferro, c'ero a giocare alla play, ma poi lui è stato
arrestato,
c'erano gli sbirri e avevo paura di venire coinvolto».
«Perché
sei coinvolto», ribatté lei. Prese un foglietto
che sbucava da una
tasca interna della giacca di una misura più grande che
indossava e,
quando tentò di strapparglielo dalle mani dicendo che era
suo, lei
gli girò il polso, bloccandolo e riportando la mano in basso.
«Sei
manesca, donna», si lamentò dal dolore.
Era
un foglio a quadri strappato, probabilmente da un bloc notes. Sopra
erano riportati alcuni numeri, dei conti, e qualche nome scritto a
penna. «Sapevo che non potevi essere rimasto appeso sulla
rete del
materasso come un ragno per una cuffietta».
Il
ragazzetto guardò entrambe e poi la finestra, provando una
rapida
fuga: balzò dalla sedia e uscendo dalla finestra si
arrampicò per
la scala antincendio, ma Shaw lo fermò per un piede,
trascinandolo
di nuovo dentro. In quel momento, Root staccò la penna usb
dal pc e
la portò all'interno della sua tasca con disinvoltura. Vide
la luce
led illuminarsi due volte di fila ma non le diede ascolto, spegnendo
il portatile. Il ragazzetto per poco non pianse mentre veniva
trascinato di nuovo sulla sedia.
«Dai,
bella, lasciami andare! Sono solo numeri»,
brontolò accarezzandosi
la caviglia, attento a non muovere troppo la mano dolorante.
«Non
hai idea di quello che abbiamo passato per dei numeri»,
rimbeccò.
Root
diede un'occhiata al foglietto e guardò il ragazzo con
attenzione,
dopo si voltò a Shaw. «Daryl gli deve dei soldi, a
quanto pare».
«Dei
soldi? A me?».
«A
lui e ad altri disadattati, probabilmente».
«Ehi!»,
sbottò di nuovo. Shaw lo scrutò con minaccia e
lui si accovacciò
su se stesso, mantenendosi la testa.
«Lo
portiamo a Fusco», sibilò lei con decisione, ma
Root scosse la
testa, facendo una smorfia con le labbra.
«Lo
lasciamo andare. È solo un ragazzino e potrebbe creare
scompiglio,
non ci serve», la guardò negli occhi, toccandole
un braccio.
Brandon
squadrò prima l'una e poi l'altra, facendo segno affermativo
con la
testa. Lasciarono che scivolasse via dalla scala antincendio ma Shaw
non ne era convinta: lo tenne d'occhio finché non
scappò alla vista
di due poliziotti, girandolo di corsa l'angolo del palazzo.
«Hai
trovato qualcosa nel portatile?», le chiese dopo, ritornando
dentro
dalle scale. Root stava controllando in giro con disinteresse,
tenendo le mani nelle tasche dei jeans.
«No»,
scrollò le spalle, «Daryl avrà ripulito
il suo computer in vista
del nostro incontro. C'era da aspettarselo».
Shaw
non le domandò altro e tornarono in centrale per restituire
l'automobile a Fusco prima di pernottare in un hotel: avevano
prenotato una camera usando ancora la loro identità di
detective;
sapevano che era rischioso usare la stessa troppo a lungo, prima o
poi qualcuno poteva imbattersi in qualche falla, ma al momento era
troppo comodo per entrambe, troppo vicine a Lars per lasciarsi
sfuggire l'occasione di interpretare ancora quel ruolo.
Bear
dormiva ai piedi del letto, su un tappeto; Shaw era sdraiata quasi al
centro del materasso, sotto le coperte, aveva gli occhi chiusi e una
mano di Root le carezzava la testa, muovendole i capelli e ogni tanto
arricciandone una ciocca su un dito. Lei era seduta dentro le coperte
con un cuscino che le faceva da schienale e, con una mano sola,
scriveva, illuminata dalla fioca luce dell'abat-jour che aveva sul
comodino a fianco. Non avrebbe avuto difficoltà a spacciarsi
per
Daryl Boscoferro per buttare giù i Marshall Mason inattivi
dalla
panchina, dicendo loro che l'affare era saltato. Quelli attivi
tuttavia restavano un problema: un'email per dire a tutti loro di
tornare a casa non avrebbe sortito l'effetto sperato, al contrario
poteva aiutarli a risalire a lei, poiché non sapeva come si
erano
messi in contatto le precedenti volte e cosa si erano detti; poteva
mandare a monte ogni cosa.
«E
se diventassi realmente una Marshall Mason?»,
esclamò Shaw
all'improvviso, spaventandola: Root credeva stesse dormendo.
La
donna abbassò il monitor del portatile, girandosi.
«Vuoi
ammanettarmi e portarmi da Lars?».
«Sì».
Rialzò la schiena, sedendo sul letto.
«È chiaro che questo tipo
non si fermerà e a questo punto l'idea del tuo amico non mi
sembra
poi tanto malvagia: gli chiediamo come contattarlo e ti porto da lui.
Lo facciamo fuori e finisce la storia».
Root
rise, guardandola dritta negli occhi: «Sei sempre stata per
le
soluzioni semplici», le strizzò una guancia.
Shaw
si allungò verso di lei e le prese il portatile dalle mani,
poggiandolo sul comodino e spegnendo l'abat-jour. Si
avvicinò
sensualmente al suo viso e, con una mano, le tirò su
entrambi i
polsi. «Non mi hai ancora detto cos'hai trovato nel portatile
del
tuo amico».
«A
cosa ti rif-», si bloccò, sospirando, quando si
accorse che Shaw
l'aveva ammanettata sulla spalliera del letto.
«Sameen… lasciami
andare».
«Te
l'ho già detto che odio che mi nascondi le cose. E poi anche
a me
piace andare più a fondo».
«Oh,
andiamo», sorrise, «Sai che per quello puoi anche
fare a meno delle
manette».
Shaw
scosse la testa, mantenendo un sorriso malizioso, riprendendo il pc e
risollevando il monitor. Lesse velocemente il testo dell'email e
abbassò la testa. «Aspiranti Marshall
Mason?», soffiò, «Mi
tenevi nascosto di aver trovato i nomi di aspiranti Marshall
Mason?»
«Daryl
faceva da tramite tra loro e Lars».
«E
cosa aspettavi a dirmelo? È una cosa fastidiosa».
Sospettava che
anche quel ragazzo magrolino ritrovato in casa di Boscoferro dovesse
essere un aspirante Marshall Mason e per questo motivo lei lo aveva
lasciato andare. Richiuse il portatile e lo riportò sul
comodino,
guardando attentamente Root. Non poté fare a meno di
sorridere
ancora. «Sai, avrei dovuto ammanettarti prima».
«Ah,
sì?».
«Sì»,
annuì. «Non so, è una bella sensazione,
di quelle che ti
suggeriscono la pace nel mondo… Oltre a una soddisfazione
niente
male».
«Mi
libererò di qui».
Shaw
si lasciò scappare una risata sarcastica: «Ma
figurati! Non ci sono
riuscita nemmeno io».
Si
avvicinò e iniziò a sbottonarle la maglietta del
pigiama, bagnando
la pelle, appoggiando la lingua e poi la bocca, fra le clavicole.
Root sobbalzò, irrigidendosi e lasciandosi andare a un
sospiro. Shaw
spostò le labbra verso il seno, alitandole sulla pelle
già
bollente. Dopo le slacciò il reggiseno nero e glielo
strappò,
gettandolo a poco da Bear, che lo degnò di mezzo sguardo
appena. La
baciò ancora, succhiandole un capezzolo, abbassando la
coperta e
leccandole l'ombelico.
«Sameen,
liberami…», biascicò l'altra in un
gemito, «Li… berami».
L'altra
nemmeno provò a rispondere, godendo di come il suo corpo si
contraeva sotto di lei a ogni tocco, dei sospiri e dei versi
involontari. Spostò tutta la coperta e le scese i pantaloni,
poco a
poco, lasciandoglieli raggomitolati sulle caviglie; si
divertì a
vedere la pelle della sua coscia sinistra che, mentre passava
l'unghia di un mignolo, raggricciava, rizzando i peli fini e biondi.
«Ti
stai divertendo, tesoro?».
«Mh,
in effetti sì».
Root
mosse le gambe per grattarsi e lei risalì, ridendo,
segnandole le
labbra con l'indice destro, incontrando i suoi occhi lucidi. Si
guardarono come se si stessero studiando. Shaw aprì la bocca
e la
mantenne a poco da quella di Root, per poi addentarle un labbro e
lasciarlo appena prima che lei potesse provare a baciarla.
Abbozzò
un sorriso compiaciuto e Root sorrise a sua volta, scuotendo
brevemente la testa; approfittò di una sua distrazione per
avvicinarsi in fretta e fare quella bocca sua, trattenendola a
sé
per un po'. Quando Shaw si scostò, lei le
sussurrò sul naso:
«Fra
poco mi libero».
Shaw
scosse la testa, mordendosi il labbro inferiore. «Sei
sicura?».
La
vide sussultare e trattenere il fiato, scrutandole gli occhi che si
abbassavano e riaprivano di scatto; l'indice destro di Shaw si era
insinuato in basso, sfiorando la pelle dell'altra lungo il suo
tragitto, il seno, lo stomaco, la pancia, curvando in basso,
strisciando sugli slip e finendo su un punto ben preciso, premendo
all'improvviso. Toccò di nuovo e la guardò: aveva
il respiro
pesante. Non si voleva perdere nemmeno un secondo. Per un attimo,
Shaw capì che sarebbe potuta restare a fissarla
così per ore. Era
bella, perfetta, e le mozzava il fiato. Lo faceva davvero. Per lei
sentiva qualcosa e non la spaventava più.
Decise
di sollevare un elastico della coscia e di infilare la mano
all'interno degli slip, così come di dividere la distanza
che
separava la sua bocca da quella di Root e concedergliela, poggiare le
sue labbra sulle sue e poi inspirare, premere di nuovo il dito e
sentire il fiato di lei che cambiava, che si faceva più
veloce e
corto.
Shaw
si mosse, stava per cambiare strategia, e Root si diede una spinta,
afferrandola saldamente per le spalle in modo repentino, capovolgendo
la situazione, gettandola sotto di lei. Shaw spalancò gli
occhi con
stupore intanto che lei le mostrava le manette, lanciandole sul
tappeto vicino a Bear.
«Beh…
te l'avevo detto che mi sarei liberata».
«Non
è possibile».
«Sì»,
inclinò la testa, sorridendo, «se hai le
chiavi».
Shaw
rise e Root si lasciò cadere su lei, rubandole un bacio,
affondando
la bocca nella sua, tirando la canottiera fino a fargliela togliere.
«Dov'eravamo rimaste?», le chiese piano,
sprofondando lentamente
sul suo petto nudo, baciandole un seno per volta, ansimando. Le
strinse i polsi per mantenerla bloccata contro il materasso,
squadrandole il viso arrossato a poco dal suo, prima di baciarla
ancora, tirando le sue labbra e riprendendogliele con la forza un
istante più tardi.
Le
loro pelli nude si incontravano e scontravano, bollenti. Root si
liberò dei pantaloni raggomitolati alle caviglie muovendo i
piedi e
le leccò l'ombelico come per prendersi una rivincita, ma non
contenta ci appoggiò anche le labbra e succhiò,
non mancando di
notare come la pelle si contraeva, insieme a tutto il corpo, sotto il
suo.
Shaw
restò ferma e si guardarono di nuovo. Profondamente,
osservando ogni
sfumatura dei loro occhi, la piega delle loro labbra, come si
muovevano le guance e il naso, notando il ritmo dei loro respiri, la
smorfia delle sopracciglia. La mano destra di Root le
carezzò una
guancia morbida, il labbro inferiore e il mento. Le dita di entrambe
le mani di Shaw si distesero lungo la schiena calda di Root e la
strinsero con tanta forza da lasciare la pelle bianca intorno e il
freddo improvviso dal distacco quando i polpastrelli della mano
sinistra si fermarono sul fondoschiena e quelli della destra
viaggiarono senza fretta ma tastando con impeto fin sulla coscia. Si
ripresero piano, respirando e respirandosi affannosamente,
appoggiando le labbra senza premere e lasciandosi desiderare,
sollevando la lingua per assaggiare. La mano di Root calò
verso il
ventre e sollevò gli slip, infilandosi, così come
quella di Shaw,
abbandonando la coscia. Non smisero di guardarsi finché non
chiusero
gli occhi per affondare l'una sull'altra.
Lasciò
il letto solo quando si convinse che Shaw stesse davvero dormendo,
ascoltando il suo respiro pesante. Sperò non la imbrogliasse
di
nuovo. Si mise qualcosa addosso e osservò che anche Bear
dormiva,
sentendolo persino russare. Riprese il portatile e lo
attaccò alla
spina poggiandolo sul tavolo nella stanza accanto, divisa solo da
un'arcata, e si allontanò per riprendere la penna usb dalla
giaccia
che aveva indossato quella sera. Tornando indietro vide che il led
del portatile si illuminava con intermittenza, così attese.
DEVI
DIRLE TUTTO.
Sullo
schermo apparve quella scritta e Root scosse la testa, avvicinandosi.
«Intendi dei Marshall Mason attivi?».
SÌ
.
«A
che pro?».
LASCIA
CHE TI AIUTI.
«No,
devi ascoltarmi…», si passò due dita
sugli occhi nel tentativo di
calmarsi, «Non capisci, è già tanto se
l'ho messa al corrente di
tutto. Non voglio che le succeda qualcosa e più sa e
più è in
pericolo, lo sai».
HAI
SCELTO LEI.
«Che
vuoi dire?».
È
ORA CHE LA ASCOLTI E LASCI CHE ANCHE LEI SI PRENDA CURA DI TE.
Root
non rispose, guardando verso il letto. Shaw si era mossa solo un
secondo, facendo un verso con la bocca e il naso. Le venne da
sorridere. Con la coda dell'occhio vide che la Macchina stava
scrivendo ancora, così si voltò.
SONO
CONTENTA.
«Per
cosa?».
È
GIUSTO COSÌ.
«Cosa?».
CHE
TU SIA FELICE CON LEI.
Pausa.
SAMANTHA.
E
rieccomiiii ^_^ Questa volta ho aggiornato ad un orario decente,
brava me (?).
Questo
capitolo è più incentrato su Root e Shaw, ma di
Amy e Sarah
sappiamo che sono ancora insieme. Sono belle le parole 'è
finita'
(no, non sono belle, a dire il vero, ma…), però
restano solo
parole, poi coi fatti si parte per un'altra direzione XD Per il
resto… la Macchina ha chiamato Root Samantha,
quest'ultima ha bloccato definitivamente i Marshall Mason inattivi e
Shaw si
è divertita… cioè, Shaw
è innervosita del fatto che Root
le tenga nascoste le cose. E come darle torto.
Grazie
a chi ha recensito sia allo scorso capitolo che a quelli prima; spero
che anche questo capitolo vi sia piaciuto :)
Vi
saluto e ci si rilegge il prossimo lunedì con il capitolo
nove:
incendio
colossale!
~♥
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Capitolo 9 *** Capitolo nove. Incendio colossale ***
Si
era passata il pettine più volte nei suoi capelli lisci e
color
grano, guardandosi allo specchio. Si era assicurata che non ne fosse
rimasto attaccato nemmeno un capello e guardò la sua amica
Hannah
attraverso lo specchio, a fianco a lei, che si truccava. Si metteva
il rossetto e apriva e schiudeva le labbra. Era così
perfetta. Si
voltò di nuovo alla sua immagine per capire che non era
affatto come
lei.
«Hannah?»,
le aveva avvicinato il pettine, «Grazie».
Hannah
le aveva sorriso, riprendendo il pettine e infilandolo nel suo beauty
case. «Stai così bene, Sam», le aveva
passato le mani sulle
braccia, per poi sistemarle la camicia sul colletto. «Adesso
devo
andare a lezione. Ci vediamo dopo». Aveva ripreso tutte le se
cose
ed era uscita dal bagno.
Samantha
aveva preso in mano i libri che aveva appoggiato sul lavabo ed era
uscita dal bagno anche lei, mentre due studentesse entravano,
passandole accanto senza accorgersene. Ci era abituata. Solo Hannah
si accorgeva di lei. All'uscita da scuola, le aveva detto che si
sarebbero riviste in biblioteca di pomeriggio e Samantha si era
appoggiata sul muretto per aspettare che la passassero a prendere.
Aveva visto tutti i ragazzini e le ragazzine andarsene, persa fra i
suoi pensieri. La professoressa stava per uscire, era l'ultima, ma
l'aveva vista e si era fermata:
«Samantha?
Cosa fai ancora qui? Stai aspettando qualcuno?».
«No»,
aveva scosso la testa, sistemando lo zainetto sulle spalle,
«Sto
andando a casa».
Si
era avviata da sola, non era certo una novità. Aspettava e,
quando
era stanca di farlo, tornava a casa. Poi si chiudeva nella sua stanza
e ci restava finché non era arrivata l'ora di andare in
biblioteca e
raggiungere Hannah. Fino a quando un giorno Hannah non c'era
più ed
era rimasta solo lei.
«La
tua amica Hannah?», aveva sbottato la segretaria a scuola,
per poi
passarsi la mano sulla fronte, ricordandosi. «Ah,
sì, ho capito:
Hannah! È vero che ha sempre te appresso… Non ti
avevo
riconosciuta! Comunque no, oggi non è venuta a scuola e
abbiamo già
avvertito la famiglia: torna in classe».
Lei
se lo sentiva, se lo sentiva dentro ed era diventata rossa dalla
voglia di gridare: gliel'avevano ammazzata. L'uomo di cui lei si era
fidata l'aveva uccisa.
Hannah
era morta e lei era rimasta sola con se stessa, una se stessa che non
era abbastanza fino a quando, anni più tardi, decise di
essere Root.
«Quello
è un osso duro», sbuffò Fusco,
scuotendo la testa, «L'ho
torchiato per tutta la sera, ieri, e non c'è stato niente da
fare.
Ha ammesso di conoscere Lars, dice che è un brav'uomo, che
sta
ricominciando una nuova vita, bla bla, tutte fesserie…
Intanto ha
richiesto un avvocato», precisò, sedendo
più a fondo sulla sedia
davanti alla sua scrivania, «Verrà fra poco.
È una gran
seccatura».
Root
scrollò di spalle, poggiata accanto allo schermo del pc.
«Ho
bisogno di parlarci un attimo».
«Non
puoi», sbottò, «Insomma, hai sentito
cos'ho detto? Ha richiesto un
avvocato e non possiamo fargli domande prima del suo arrivo: siamo
con le spalle al muro».
«Hai
ragione: sarebbe così se fossi una vera
poliziotta», gli fece
l'occhiolino. Si allontanò e lui restò senza
fiato, decidendo di
lasciar perdere. Root camminò spedita verso la sala con le
celle dei
detenuti in attesa di sistemazione e lui, appena la vide, si
alzò,
mostrando un sorrisetto soddisfatto.
«Il
tuo amico non ti ha aggiornato? Voglio un avvocato, principessa, non
dirò più nulla se non in sua presenza».
«E
funziona, amico mio… con i veri poliziotti,
s'intende».
Daryl
Boscoferro si avvicinò alle sbarre, annuendo.
«Finalmente! Mostri
la tua vera faccia, Root», sibilò. Alzò
gli occhi e guardò dritto
la telecamera a poco dalla sua cella, indicandogliela con un cenno
della testa: «Lo sa tutto il distretto? Ti fai riprendere
mentre lo
dici così tranquillamente?».
«Non
preoccuparti della telecamera», scosse la testa, mettendo le
mani
nelle tasche dei jeans. «Sul tuo computer ho trovato una
lunga lista
di nomi. Ho rimandato a casa i Marshall Mason inattivi: spero non ti
dispiaccia».
Lui
alzò lo sguardo al soffitto e gonfiò le guance,
avvicinandosi
ancora per appoggiarsi alle sbarre, stringendole. Sbuffò.
«Sapevo
che avrei dovuto trasferirli da un'altra parte. È che tutto
questo
non sta andando affatto come mi aspettavo quando mi hai contattato.
Ad ogni modo, sono curioso di capire come ti sei mossa a riguardo di
quelli attivi».
«Ci
sto pensando».
«Devi
pensare in fretta, Root. Il tempo sta per scadere: sanno dove sono e
sanno dove sei tu. A meno che non intenda scappare ancora, non ti
resta che affrontare ciò che avverrà! Verranno a
prenderti ma,
prima di ucciderti», sorrise, scuotendo brevemente la testa,
«e
sai che Lars lo vuole con tutte le sue forze,
ti porteranno via tutto ciò che hai».
«Non
ho molto: ne rimarrà deluso».
«Si
accontenterà», scrollò di spalle.
«Sai a cosa mi riferisco. Sì
che lo sai».
Root
deglutì, forzando un sorriso. Certo che lo sapeva. Tempo fa
non
avrebbe avuto paura di incorrere a simili minacce, non aveva nulla se
non se stessa, ma ora era diverso. Aveva qualcosa per cui era
finalmente felice di vivere, aveva lottato per proteggere le persone
a lei care, era cambiata, e di una cosa era certa: non avrebbe
permesso a nessuno, e sicuramente non per un errore del suo passato,
di fare del male a Shaw.
La
porta della sala si aprì d'improvviso portando con
sé una donna,
interrompendo i suoi pensieri. Sicura della sua valigetta e dai passi
pesanti e incisivi, la donna si frappose fra loro, impedendo a Root
di vedere Boscoferro. «Basta così»,
tuonò, per poi mostrarle la
mano per stringergliela, «Detective Dawson, immagino. Il mio
cliente
ha parlato fin troppo: non sono stati rispettati i suoi
diritti».
«Non
importa, avevo finito».
Se
ne andò.
Per
un attimo, l'idea di scappare ancora era diventata particolarmente
allettante: avrebbe portato Shaw e Bear in un'altra città,
avrebbero
indossato i panni di qualcun altro, una nuova identità, un
nuovo
lavoro, una nuova casa, forse. Ma Lars non si sarebbe arrestato e i
Marshall Mason l'avrebbero trovata ancora, e di nuovo. Lui aveva
soldi e risentimento. Lei invece cos'aveva? Lei e Shaw insieme
potevano farcela, ma si sentiva sicura a rischiare? Intanto, stava
già formulando un piano alternativo…
«Puoi
farmi avere l'indirizzo?», domandò con un
mormorio, tornando verso
Fusco. Udì la Macchina risponderle ma, come al solito, le
diede
problemi e udì un fischio terribile, stringendo i denti e
passandosi
una mano sulla fronte. Poggiò una mano su una spalla
dell'amico e
per poco lui non saltò dalla sedia, reggendosi poi il petto
per lo
spavento. «Lionel, devi fare una cosa per me».
Lui
la fissò per un breve istante prima di cedere.
«Devono spararmi
addosso?».
Si
abbassò sulla scrivania e prese un foglietto e una penna.
«Devi
andare qui per prendere un pacco. Nessuno ti sparerà
addosso, te lo
prometto», gli sorrise.
Lui
sbuffò, roteando gli occhi e prendendo il foglietto in mano,
dandogli un'occhiata: Root gli sorrise e lui, per leggere, strinse
gli occhi, con la bocca aperta. «Un pacco? Mi hai preso per
il tuo
fattorino?».
«È
molto importante per me».
«E
va bene», sbottò, piegando il foglietto e
infilandoselo in una
tasca. «Ma non ci andrò prima di aver finito il
turno».
«Grazie,
grazie! Sei un tesoro», gli baciò una guancia e
Fusco, diventato
rosso, la scacciò:
«Sì,
vai, vai, ci guardano tutti», se la staccò di
dosso e lei prese
passo per andarsene. «Te l'ho detto: non ci andrò
prima di aver
finito il turno».
«Te
ne sarò riconoscente», gli gridò.
«Prova
a non morire», ribatté ad alta voce e molti si
girarono. «Mi basta
questo», sussurrò poi per sé, scuotendo
la testa, tornando a
trafficare con il suo computer, «Non finirò di
nuovo dal coroner
per identificare il tuo cadavere». Sfogliò due
pagine nei documenti
sulla scrivania, mosse il mouse e lo fermò, ricercando il
foglietto
sulla tasca e leggendo, così si alzò e
sfilò la giacca dalla
sedia, andando subito.
Root
attraversò e la strada, cercando ancora una connessione con
la
Macchina, seguendo i cavi del telefono. «Sì, sono
un po'
arrabbiata», inclinò la testa, «Un po'.
Non voglio che mi chiami
con quel nome». Strinse i denti, toccandosi l'orecchio buono.
«So
come mi chiamo! Ma-», si fermò, sospirando. Era la
prima volta che
non era d'accordo con la Macchina e aveva una discussione con lei: le
sembrava così strano. Era più Root o
più Samantha? Root non aveva
bisogno di nessuno, era stata una killer, un hacker informatica
solitaria e ora… Root era cambiata e probabilmente l'aveva
avvicinata a Samantha più di quanto si aspettasse. Forse la
Macchina
non sbagliava a chiamarla così, dopotutto.
Salì
su un tram in mezzo alla folla e scese appena in tempo per non
perdere un autobus, da cui si fece fermare in periferia. Sorrise ai
tre uomini sporchi e trasandati che la fissarono scendere dal bus e
camminò con sicurezza lungo il marciapiede, con loro che la
seguivano. Un altro passo e il cellulare nella tasca posteriore
destra vibrò, così controllò subito
chi era. Rispose, svoltando un
angolo.
«Ehi,
amore, com'è andata dal veterinario?».
S'imbronciò, ascoltando la
risposta, intanto che uno dei tre uomini svoltava e le veniva
addosso: lei lo prese per un braccio, tirandolo fino a farlo sbattere
contro il muro, lasciando che cadesse a terra. «Davvero?
Questa
mattina sembrava stare piuttosto male, forse-»,
lasciò il
cellulare, che cadde a terra, mentre uno dei tre tirava fuori un
coltello: gli diede un calcio sull'addome e lo prese per mano,
aspettando l'arrivo del terzo che voleva aggredirla a braccia aperte,
pugnalandolo con la mano e il coltello del compagno. Il terzo si
distese a terra e così anche il secondo, colpendolo ancora,
lasciandogli cadere l'arma. Riprese il telefono, inchinandosi verso
di loro, frugando nelle tasche delle giacche e dei pantaloni.
«Forse
ha mangiato qualcosa che non doveva! Beh, se non ha nulla è
meglio
così», sorrise, trovando un pacchetto di
sigarette, infilandoselo
in sua tasca, «Non sto picchiando nessuno! Devi aver sentito
male:
Lionel si sta ingozzando con un panino». In una tasca del
terzo
trovò un cellulare e digitò il 911,
appoggiandoglielo addosso con la chiamata aperta. «Non
morirà»,
sussurrò verso la telecamera, spostando il cellulare
dall'orecchia.
Riprese a camminare, lasciando i tre stesi sul marciapiede con un
ultimo calcio al primo che tentava di rialzarsi. «Pensavo di
portarlo io, ma sai che Bear preferisce te per queste cose. Non ti
sto nascondendo nulla. Sai, stavo ripensando a una cosa: voglio che
diventi un Marshall Mason», attese, fermandosi davanti a una
porta
fintamente chiusa da un lucchetto rotto, «Avevi ragione! Mi
sono
fatta dire da Daryl dove possiamo andare. Certo che lo ha detto, il
mio vecchio amico penserà di averci incastrato entrambe,
troveremo
dei Marshall Mason attivi ovunque… Ma noi ce la possiamo
fare»,
sorrise, dondolando, «Adesso devo andare, Lionel mi sta
chiamando,
vorrà che lo aiuti con il caso di Daryl. Va bene,
raggiungici dopo
aver preso il pranzo. Ciao, ciao», pigiò sulla
cornetta rossa,
guardando di nuovo verso la telecamera: «Lo so che non
approvi, ma
capirai anche tu che è meglio così».
Aprì la porta nera e la
richiuse dietro di lei, scendendo gli scalini bui.
Un
grosso uomo, seduto su una seggiola in un tunnel scarsamente
illuminato, la vide e si alzò, venendole incontro.
«Ehi, no, è
proprietà privata», enunciò con voce
grossa, «Non puoi passare:
torna indietro».
Lei
sospirò, infilando una mano in tasca. «Io devo
andare a trovare un
amico e lui mi ha detto che vai matto per queste», gli
mostrò il
pacchetto di sigarette rubato poco fa, «Possiamo trovare un
accordo». Lui sembrò pensarci più del
dovuto ma alla fine
acconsentì, tornando a sedersi. Lei lo sorpassò.
In quel tunnel
sentiva solo i passi dei suoi stivali. Ignorò tutte le
porte, fino a
trovare quella più grande di un magazzino. Passò
attraverso
scatoloni, udendo le voci di più uomini che ridevano,
scherzando e
bevendo. Finalmente li vide, facendo qualche passo in avanti, intanto
che, seduti intorno a un tavolo, intagliavano polvere bianca.
«Toc
toc!
Spero di non disturbare», sorrise e Brandon si
alzò dalla sedia in
modo brusco, gettandola a terra, spaventato. Tutti gli altri le
puntarono addosso una pistola.
«Oh,
merda! È uno sbirro», brontolò lui.
«Ehi, sorella, hai fatto male
a venire qui», continuò, pur guardandosi intorno,
forse per paura
di veder comparire Shaw, «Siamo troppi e tu sei una. Vuoi
arrestarci?». I suoi amici risero, brindando con la bottiglia
di
birra o gettando a terra la cenere delle loro sigarette.
«Al
contrario», sorrise dolcemente, alzando le mani in resa,
«Daryl
Boscoferro vi deve dei soldi e io ho bisogno di uomini pronti a
tutto, un po' come voi! Beh, vi offro un accordo: aiutatemi e vi
darò
Daryl Boscoferro. Tutto per voi».
Il
gruppo abbassò le armi, guardandosi fra loro.
Tutti
applaudirono, mentre nel grande schermo della sala veniva proiettato
il primo teaser trailer da cinquanta secondi della serie: i primi
momenti appartenevano alla serie madre, dall'apparente morte di Root
alla prigionia di Shaw nelle mani di Samaritan, e così
all'incontro:
la Macchina che chiama Shaw per l'ultima volta, il suo sorriso, le
istruzioni e la passeggiata con Bear al guinzaglio per ritrovarla;
due bus e una camminata nei bassifondi, una corsa sotto la pioggia
dopo aver perso Bear, fino a una casa abbandonata. Una fioca luce blu
la porta in una piccola stanza, illuminata dal monitor di un computer
portatile e lei è lì, che saluta Bear che l'ha
trovata per primo.
Il viso stanco, ma sereno. Felice.
«…
sei viva», sussurra Shaw, immobile sui suoi passi. L'acqua le
cola
sul viso.
«Adesso
sono certa di esserlo», ribatte Root.
Veloce,
lo schermo cambiò sequenza e mandò in scena una
sparatoria, Shaw
che colpiva qualcuno, Bear con la mantella da cane poliziotto che
riceveva un dolcetto, Root che caricava una pistola, le due che si
baciavano e lo schermo divenne nero. La voce di Root, nel buio:
«Non
voglio più sentirmi come a dodici anni… Adesso
posso fare
qualcosa», una breve pausa, «Adesso posso
proteggere chi amo».
Dal
buio comparve una scritta in rosso, sotto lo sparo di una pistola:
Shoot:
ultimate chance.
Il
teaser trailer finì e lasciò sullo schermo il
posto a foto del
dietro le quinte, una dopo l'altra in uno slideshow, intanto che
tutti i presenti applaudivano entusiasti. Sarah e Amy si guardarono
una volta sola, di sfuggita, e risero, mentre molti facevano loro i
complimenti, stringendo le mani e quelle dei produttori. Anche Steve,
a fianco della moglie, diede le sue congratulazioni prima a lei,
accompagnate da un bacio in cui Sarah parve a disagio, e poi a Amy,
allungandogli la mano per fargliela stringere. Lei ricambiò
subito
la stretta, sorridendogli. Sarah parve a disagio anche per quel
gesto, grattandosi dietro un'orecchia e distogliendo lo sguardo. A
poco da loro, Kevin sorseggiava del vino bianco tenendo d'occhio
entrambe.
Le
riprese erano finite da due giorni ma la loro relazione nascosta non
lo era altrettanto. Approfittavano di ogni momento per guardarsi con
complicità, per sorridersi, per fare battute che solo loro
potevano
capire, per tenersi la mano, per baciarsi, anche se solo a fior di
labbra, un contatto rubato in un attimo dedicato ad altro. Il set
ormai stava venendo smantellato, ogni membro del cast aveva fatto le
valigie e dopo l'evento di chiusura di quella sera, in una sala
appositamente noleggiata per una cena di fine prima stagione, si
sarebbero salutati. Tutti ritornavano alla propria vita, o almeno
quasi. Ormai ognuno di loro sapeva dell'imminente divorzio di Amy e
la notizia era trapelata anche in rete, anche se lei né
James
avevano confermato ai giornalisti o sui social. Per una volta,
all'evento di chiusura era sola, e odiava ammettere che un po' le
mancava, soprattutto il suo appoggio. Di tanto in tanto guardava il
cellulare, forse sperando in una notifica di un suo messaggio, ma
sapeva che non sarebbe arrivato: non sarebbe stato giusto ed era
meglio così.
Steve
circondò sua moglie con un abbraccio e le diede un altro
bacio su
una guancia. Sarah tentò di discostarsi avendo lo sguardo di
Amy su
di lei, e perfino quello di Kevin. Si sentiva particolarmente
infastidita, ma più cercava di toglierselo di dosso,
più lui
diventava appiccicoso, tentando, a suo modo, di darle il suo
appoggio. Lui non sapeva nulla e non poteva fargliene una colpa, ma
sentiva quasi di non riuscire a respirare.
«Mi
spiace per il divorzio, Amy», disse Steve a un certo punto,
riprendendo a mangiare. Sarah gli aveva dato un colpo con un piede e
lui rise. «Se non altro adesso tornate entrambi sulla
piazza».
Kevin
tossì e una signora davanti a lui gli passò un
bicchiere d'acqua
che accettò di buon grado.
Amy
sorrise, masticando; forse lasciò il boccone in bocca un po'
più a
lungo, in questo modo non avrebbe dovuto rispondere e il discorso
sarebbe caduto. Sarah la guardò e spalancò gli
occhi, ma Amy si
limitò a sorridere.
«E
con i bambini come fate? Gliel'avete già detto? Staranno da
te…?».
Steve non si perse d'animo e aspettò che finisse di ingoiare
per
porle altre domande.
Amy
si ripulì le labbra e prese fiato. «Adesso che
sono finite le
riprese torno a casa e… James ha già un permesso
per tornare anche
lui, così… parleremo con loro».
«Quindi
non lo sanno ancora?».
«Lo
sanno… La notizia è arrivata ai giornali e
gliel'abbiamo detto noi
al telefono prima che potessero scoprirlo in quel modo».
«E
come l'hanno presa?».
«Steve!»,
Sarah lo rimproverò, richiamandolo a bassa voce, ma lui
scrollò le
spalle con fare innocente: stava solo cercando di fare conversazione.
Molti dei commensali intorno allo stesso tavolo stavano ascoltando in
silenzio la loro discussione, intanto che Kevin scuoteva la testa in
modo arrendevole.
Amy
si sforzò di rispondere ancora, con la tachicardia ormai
alta. «Non
bene… Ma sono bambini, è normale che abbiano
l'idea che i loro
genitori si ameranno per tutta la vita! Un giorno capiranno».
Steve
stava per aprire bocca di nuovo, così Sarah si
alzò in piedi con il
bicchiere in mano e forzò un sorriso verso Amy, chiedendo a
tutti di
fare altrettanto per un brindisi. Solo al momento del brindisi si
accorse di avere il bicchiere quasi vuoto e che l'unica a non averlo
potuto fare era lei. Dopo, fortunatamente, altri allo stesso tavolo
presero a parlare a voce alta di serie tv e ascolti e così
lui
abbandonò l'idea di riprendere la discussione da dove
l'aveva
lasciata. A cena finita, aumentarono la musica e portarono il dolce,
e finito il dolce quasi tutti lasciarono i propri tavoli per
discutere e altri per ballare al centro della sala. Steve si
alzò
dalla tavola per chiederle di ballare ma Sarah gli disse di essere
stanca e così lui si allontanò per bere qualcosa
in compagnia di
altri commensali.
Kevin
passò dietro la sedia di Amy e le chiese se stesse bene,
osservati
da Sarah. Lei annuì con un sorriso e lui prese un altro
bicchiere,
sparendo in mezzo alla gente in centro sala.
«Scusa»,
esclamò verso Amy, che ancora finiva la sua fetta di torta.
«Sai
com'è fatto Steve: è curioso e ingenuo, non
voleva ferirti».
«Lo
so», annuì, «Non devi scusarti per
lui».
Sarah
la sentì distante e un po' fredda e capì
immediatamente perché:
non era solo per il discorso di Steve, il problema erano le riprese
che finivano e la loro relazione clandestina che era destinata a
interrompersi a causa del trasferimento. Se avessero voluto, ora che
lei divorziava da James e Steve che era sempre fuori perché
le sue
riprese non erano ancora finite, avrebbero potuto vedersi in ogni
caso, anche se non come prima. Non che volesse continuare ad avere
una storia d'amore dentro l'armadio e una all'esterno,
perché sapeva
che era una cosa sbagliata, ma l'idea di separarsi non piaceva
nemmeno a lei. Non le piaceva per niente.
Si
allontanarono per le interviste ma Sarah continuava a essere
distratta: di tanto in tanto distoglieva lo sguardo e la cercava. La
vedeva sorridere e ridere tanto che di riflesso lo faceva anche lei,
dimenticando ciò che stava dicendo. Vedeva che il divorzio
le stava
facendo in qualche modo del male, era stata lei a lasciare James e
quasi certamente si sentiva in colpa, e un po' sola, e Sarah non
riusciva a fare a meno di pensarci da quando glielo aveva confidato.
Amy sorrideva e rideva e si sforzava di farlo come suo solito, ma che
c'era qualcosa che non andava lo avrebbe capito anche un bambino.
Vederla in quel modo le faceva venire voglia di stringerla e tenerla
con sé, ma non poteva. Forse una parte di sé non
voleva ammetterlo,
ma la voglia di stringerla e tenerla con sé non avrebbe
risolto
niente: Amy stava divorziando e lei non riusciva neppure a dire a suo
marito che a volte era indiscutibilmente invadente e inopportuno.
«E
dunque cosa ne pensi: il pubblico gradirà il ritorno di Shaw
e Root
in un'avventura in solitaria, senza i protagonisti della serie
madre?», le domandò la giornalista e lei
guardò ancora verso Amy,
accorgendosi che aveva fatto altrettanto e così si
sorrisero, solo
un attimo.
Ritornò
seria, portandosi i capelli da un lato. «Sì,
sì, penso che molti
non vedano l'ora di vederle riapparire sullo schermo, quindi
sì!
Francamente, non vedo l'ora neppure io! Avete visto il teaser?
Dev'essere interessante, insomma, lo voglio vedere»,
scoppiò a
ridere e la giornalista con lei.
«Per
quanto riguarda la tua collega Amy Acker, ho notato che, di tanto in
tanto, distogli lo sguardo per cercare il suo. Siete diventate molto
amiche sul set di Person
of Interest:
quant'è cambiato il vostro rapporto con Shoot:
ultimate chance?».
Sarah
restò a bocca aperta, poi si grattò la nuca,
spostando di nuovo i
capelli e giocando con le ciocche fra le dita. «Siamo molto
amiche
come prima ma più di prima», rise, ricercando il
suo sguardo: ma
lei non c'era più. «Per Amy e me è
sempre stato come un conoscersi
da sempre; non è stato difficile entrare in sintonia e
capirci e
quindi diventare intime… amiche,
amiche intime… dicevo», prese respiro,
«Un rapporto come il
nostro è inossidabile. Siamo-», si
fermò, guardandosi ancora
intorno e non trovandola, vedendo Steve a pochi passi. Si
grattò la
testa e deglutì, decidendo che era abbastanza.
«Scusate, devo
andare», sorrise e la giornalista e il cameraman fermarono la
registrazione.
«Ehi,
piccola, vuoi un bicchiere d'acqua?», mormorò
Steve addosso a lei,
mentre Sarah si guardava ancora intorno, alla ricerca di Amy.
«Ho
notato che ti stavi un po' impappinando, poco fa».
«Steve,
per favore, non adesso», lo allontanò da
sé con una mano ma lui le
stava ancora addosso, per via della mole.
«E
quando? Io ti credo quando mi dici che siete solo amiche ma solo
perché sei tu a dirmelo, se dovessi dare retta al mio
istinto-»,
lei lo interruppe, cercando di mantenere la voce più bassa
che
poteva per non dare spettacolo:
«Non
adesso, santo cielo! Il tuo istinto non è un metro
attendibile!
Torno subito».
Steve
la lasciò passare e lei si fece dire dov'era il bagno
poiché, se
Amy non c'era da nessun'altra parte, lì e l'esterno del
locale erano
le sue due ultime possibilità. Entrò
nell'antibagno e una donna
finì di lavarsi le mani: le diede le sue congratulazioni per
la
serie prima di uscire. Allora anche Amy uscì da una delle
cabine e,
vedendola, si bloccò, poi pensò di andarsi a
lavare le mani.
«Ehi»,
le sorrise Amy attraverso lo specchio, prendendo il sapone,
«Come
sta andando? Le ultime interviste prima della Convention fra due
mesi…».
«Già»,
si avvicinò ma sentì improvvisamente il suo corpo
farsi come di
legno, faticando a muovere i piedi o a piegare le ginocchia. Si
sentiva sulle spine come non succedeva da tempo. «Ci andiamo
insieme?», domandò, prima di scuotere la testa e
riprovare: «Voglio
dire, ci dobbiamo andare insieme per forza, ma con insieme
intendo se andiamo insieme, ci troviamo prima e-».
Amy
strinse le labbra, in disaccordo. «Ci vedremo direttamente
lì».
«Ah»,
ansimò. Come immaginava, Amy stava provando a respingerla di
nuovo e
stavolta senza darle il tempo di capirci qualcosa. Sarah era tesa
come una corda di violino, era stressata per via della gelosia di
Steve, anche se stavolta aveva un fondamento, Amy voleva sicuramente
troncare il rapporto anche se aveva chiesto il divorzio da James
e…
Puntò il suo sguardo in basso e prese coraggio, cogliendola
intanto
che si finiva di asciugare le mani con della carta. «Lo vedo
che
stai male e la cosa fa stare male anche me».
Aspettò che la
guardasse per continuare indisturbata: «Sto faticando a
capirci
qualcosa, davvero: hai chiesto il divorzio eppure mi rifiuti!
È
perché al contrario non ho detto nulla a Steve? Dannazione,
Amy, io
non volevo che arrivassimo fino a questo punto», si
passò una mano
sulla fronte, «Forse il tutto ci è sfuggito di
mano, ma per me sei
importante, lo sai, e non voglio vederti stare così, senza
James…».
«Il
problema per te è vedermi senza James?».
«No!
Non è proprio questo che intendevo».
«È
parso che intendevi proprio questo».
Sarah
sbuffò, appoggiandosi al lavello. «No, ma James
è tuo marito… lo
è ancora per poco, e vi amate! Lo so che vi
amate… E mi sento
responsabile per quello che è successo! Io ti a-»,
si fermò,
prendendo respiro, e a Amy mancò un battito. «Io
ti voglio bene e
non posso fare a meno di pensare di aver rovinato la tua
vita… Ho
rovinato la tua vita».
Sul
volto di Amy si delineò un sorriso divertito e Sarah la
guardò
confusa. «Ci sto male? Mentirei dicendo il contrario! Certo
che amo
James, ma sono cambiata e il mio sentimento per lui è
diverso da
quello che lui prova per me e vorrebbe che io provassi per lui. Sei
la responsabile, Sarah, è vero, ma solo di avermi fatto
crescere e
avermi dato modo di capirmi di più. Con il mio divorzio tu
non
c'entri niente», scosse la testa, «È una
cosa che riguarda solo me
e James! Io non lascio James per te: è chiaro questo? Lo
lascio per
me e per lui, perché si merita qualcuno che lo ami come io
ho smesso
di fare».
«Ah»,
emise di nuovo, annuendo debolmente.
Amy
le si avvicinò addosso. Poteva respirare il profumo
dei suoi
capelli.
«Ti
rifiuto perché ami tuo marito e lui ama te. Voglio stare con
te,
Sarah, ma tu non vuoi stare con me e io non posso farci
niente», si
morse un labbro, «È stato bello,
ma…», lasciò la frase a
mezz'aria e le diede un bacio sui capelli: Sarah ne
approfittò per
imprimersi nella testa l'odore della sua pelle, che la inebriava. Amy
si staccò di colpo e Sarah sentì il vuoto. Stava
per uscire dal
bagno quando all'ultimo lasciò la porta, tornando indietro
lentamente. «Fra una settimana parto con i
bambini», confessò, «Li
porto in vacanza in modo da poter passare del tempo con loro e
spiegare ciò che succederà nelle loro vite da
domani in avanti,
quando io e James diremo loro perché divorziamo. Se vuoi
venire, c'è
un posto libero. Se verrai capirò che potremo stare insieme
e se non
ti vedrò… beh, se non ti vedrò
è finita», deglutì, leccandosi
un labbro, «E avremo un sacco di bei ricordi. Insieme, in tv,
potremo ancora essere come un incendio colossale, dopotutto»,
non
poté fare a meno di sorridere.
Sarah
stava per spalancare la bocca, per dire qualcosa, ma Amy non le diede
il tempo e uscì dal bagno. Si appoggiò meglio,
perché ora non si
sentiva più di legno, ma di budino. Amy le aveva dato un
ultimatum:
doveva scegliere. Ma aveva davvero una scelta?
Shaw
camminava con attenzione, pronta a tutto, brandendo la sua pistola.
Si lamentava da quando avevano lasciato Bear a Fusco in centrale che
non le avesse lasciato portare il cane con loro e così aveva
tenuto
il broncio.
Aprirono
un tombino e scesero di sotto, attente a dove mettevano i piedi.
«Sorprenderemo
i Marshall Mason passando di sotto», disse Root a Shaw che la
seguiva. La guardò e scosse la testa, lasciandosi andare a
un
sorriso divertito. «Non essere arrabbiata, Bear è
più al sicuro
con Lionel».
«Poteva
esserci utile», rimbeccò, «Sai, mi hanno
detto che è esattamente
a questo che serve un cane addestrato».
«Secondo
me sta ancora un po' male da stamattina».
«Il
cane non ha niente. Mi hai fatto andare dal veterinario per
niente».
Aveva
ragione, era solo una scusa e, per quanto ne poteva dire, aveva
funzionato. Non le rispose. Camminarono ancora per un po', fino a
ritrovarsi davanti a delle tubature. Root si avvicinò e Shaw
la
seguì subito, guardandosi intorno.
«Si
può sapere dove diavolo stiamo andando? Ho come
l'impressione di
girare in tondo», sbottò Shaw a un certo punto.
Root
si tirò dietro di lei e, in fretta, l'agganciò a
una delle
tubature, allontanandosi.
«Root,
cos'hai fatto?», guardò le manette che la tenevano
bloccata con la
mano destra e irrigidì i denti, alzando gli occhi.
«Sapevo che
avrei dovuto tenerle io, quelle. È incredibile come non
possa mai
fidarmi di te. Liberami subito».
Lei
fece qualche passo all'indietro, scuotendo la testa. «Mi
spiace,
Sameen, ma non posso. Ho bisogno di saperti al sicuro».
Shaw
accennò un sorriso dal fastidio, per poi stringere le
labbra. «Era
tutta una montatura! Non hai mai smesso di nascondermi le cose, non
hai mai voluto che ti aiutassi con tutta questa faccenda di
Lars…»,
prese respiro, continuando a parlare nel tentativo di fermarla il
più
a lungo che poteva, intanto che entrambe le mani lavoravano per
liberare quella destra dalle manette. «Non fare la stupida,
sai che
da sola non puoi farcela… Non sai quanti Marshall Mason
potresti
trovare! Insieme…», strinse le labbra,
«Il messaggio criptato che
mi avevi inviato durante la mia prigionia da Samaritan… Incendio
colossale:
ci hai mai creduto? Era quello che ti dissi prima di separarci la
prima volta… Ha mai significato qualcosa per te,
Root?».
I
suoi occhi si inumidirono. «Lars vuole portarmi via tutto
quello che
ho… Sei tu l'unica cosa che ho».
Shaw
ringhiò: «E non ti è per caso saltato
per la testa che se ti
uccide sarò io a perdere te?! Di nuovo! Non ti interessa?
Sei la
solita fottuta egoista!». Sudava, ma le manette continuavano
a
fregarla, non ci riusciva. «Non pensi mai al fatto che anche
io ti
abbia perso, una volta? Non hai pensato a come mi sentissi, ai miei
sentimenti?».
«I
tuoi sentimenti, Sameen?», sorrise, trattenendo le lacrime, e
infine
sospirò, «Quanto ho aspettato per sentirti parlare
di sentimenti…»,
decise di avvicinarsi. «Potrei quasi pensare che ti sei
innamorata
di me».
Ce
l'aveva quasi fatta. Poteva farcela. Le manette stavano per cedere.
«Ho sentito il mondo cadermi addosso»,
confidò, guardandola negli
occhi, tremando, «Ti avevo appena ritrovata e poi ti avevo
persa di
nuovo, credevo per sempre», strinse di nuovo i denti; anche i
suoi
occhi erano lucidi. «Ma cosa ti passa per quel dannato
cervello? A
questo punto era meglio se fingevi di restare
morta…».
Root
si avvicinò, inchinandosi. Le passò la mano
sinistra sul viso e si
baciarono. Shaw c'era quasi. C'era quasi. «Ti amo, Sameen
Shaw»,
sussurrò. Shaw liberò la mano destra e strinse il
braccio sinistro
di Root, ma era tardi: si bloccò, mancandole il respiro,
quando
l'altra le infilò un ago nel collo, drogandola. La stretta
al
braccio sinistro divenne sempre più leggera, non riusciva a
resistere.
«N-Non
lo fare…», emise e l'altra la baciò
ancora, un'ultima volta,
riportando la siringa in una tasca.
«Farò
di tutto per tornare da te. Come sempre». Si
rialzò, facendo
qualche passo, fermandosi per vederla accasciarsi a terra senza
energie. «Non voglio più sentirmi come a dodici
anni… Adesso
posso fare qualcosa», deglutì, «Adesso
posso proteggere chi amo».
Se ne andò, lasciandola sola.
Sola.
Sentiva
sbattere qualcosa, era lontano. Davvero lontano. Era un fruscio, un
tremolio, poi di nuovo un fruscio. Sentiva che si stava svegliando e
aveva un mal di testa fortissimo. Pensò dovesse essere per
via
dell'odore nelle fogne, o a causa della puntura, o entrambe insieme.
Era stordita e provò a girarsi, con ancora gli occhi chiusi,
strizzati. Provò a chiamarla ma non uscì una
lettera dalle sua
labbra indolenzite; a mala pena prese fiato. Stava male e
singhiozzò
prima ancora che riuscisse a capire di doverlo fare. «…
Root?»,
biascicò, deglutendo. Singhiozzò ancora e si
piegò in due dal
dolore che diventava ogni momento più forte, e
più forte, e allora
si abbracciò, stringendosi, e diventava più
forte, e singhiozzò di
nuovo, di nuovo, strinse gli occhi e trattenne il fiato, la gola le
bruciava, il suo corpo tremava, strinse così intensamente i
suoi
occhi che cominciò a vedere le forme e i colori e il dolore
non
smetteva, ancora e ancora, forse si ferì con le unghie, le
nocche
diventarono bianche, e il dolore era ancora più forte che,
alla
fine, gridò, aprendo gli occhi.
Si
mosse di scatto e prese una boccata d'aria, spalancando gli occhi,
spostando la coperta di dosso. Udì di nuovo il fruscio e
guardò la
finestra: la sentiva tremare. La camera era completamente buia.
Respirò con pesantezza dalla bocca, tentando di calmare la
tachicardia e, appena i suoi occhi si abituarono un po' al buio,
cercò di guardarsi attorno. Si trovava a casa di Root:
riconobbe
subito la disposizione dei mobili e l'odore di lei nell'aria,
inconfondibile. Credeva di averla lasciata con lei per via dei
Marshall Mason. Si scoperchiò e si sedette sul materasso,
scorgendo
non poco lontano Bear che dormiva sul suo materassino.
Si
toccò il petto, ricordando quell'orribile sensazione che
aveva
provato poco fa, ma per fortuna era solo un sogno. Era come aver
svegliato una parte di lei che credeva non esistere. Non si era mai
sentita tanto vulnerabile, triste; come se avesse potuto rompersi
da un attimo all'altro per aver perso l'unica persona della sua vita.
Ma era solo un sogno. Un incubo, pensò. Ora doveva sentirsi
meglio.
Deglutì, toccando l'altra parte del materasso. Era fredda.
«Root?»,
chiamò con un filo di voce nel silenzio. Doveva sentirsi
meglio ma,
non vedendola, cominciava a spaventarsi.
Decise
di scendere dal letto e strisciò lungo il materasso,
fermandosi non
appena vide la giacca di Root appesa con la stampella sul muro e
un'orribile sensazione le salì fin sulla schiena nuda.
«Root?!»,
chiamò di nuovo, mettendosi in piedi. «Dove
diavolo sei finita…?»,
borbottò e si portò le mani alle tempie, girando
intorno sul
tappeto. Bear si era mosso e lei lo fissò alzare la testa e
guardarla, poi emettere un lamento, piegandola da un lato.
«No, no,
no…», emise con voce strozzata, correndo verso la
giacca con passi
pesanti. Aveva capito. Si era svegliata e aveva capito. La
strappò
con furia dalla stampella che lanciò a terra, e
così la fissò
stringendola con quanta più forza avesse in corpo. Lei non
c'era. Si
era sentita tanto sola che aveva sognato un modo per riaverla
indietro. Aveva sognato di doverla proteggere perché non era
riuscita a farlo quando ne aveva avuto l'occasione. E si era sentita
in colpa. E ferita. E vuota.
Era
la sua Root e non era riuscita a salvarla. Proprio come nel suo
sogno: aveva fatto di testa sua e non aveva potuto fare niente. Le
era scivolata dalle mani per inseguire un destino ingiusto. Come
poteva arrendersi a quello?
Urlò
e infilò le unghie nella giaccia, gettandosi con le
ginocchia sul
pavimento; la sfilacciò e creò un buco,
allargandolo, strappando
tutto. Il sangue le salì al cervello.
Era
tutto finto e tutto finito. Il suo ti
amo
era una menzogna prodotta dalla sua testa proprio come le
simulazioni. La voleva indietro ma era morta. Era morta. E niente
poteva cambiarlo, neppure le sue lacrime.
Eccomi
di ritorno ^_^
Root
ha fatto di testa sua e ha lasciato indietro Shaw ma… lei
all'improvviso si sveglia e realizza che tutto ciò che era
successo
fino a quel momento non era altro che un sogno prodotto dalla sua
testa! Voleva talmente salvare Root e rimettere a posto le cose che
un lungo sogno le era sembrato realtà.
Intanto,
all'evento di chiusura della prima stagione, Steve mette in
difficoltà Amy e lei e Sarah parlano della loro relazione,
mettendo
dei punti in chiaro, finalmente!
Ah,
e poi abbiamo scoperto il nome di questo spinoff (alla
buon'ora): Shoot:
ultimate chance!
Delusi?
Arrabbiati? Non linciatemi, please…
non è ancora finita! :P
Piccola
nota/precisazione:
- Steve
è così perché è proprio
così che io lo immagino: invadente
e inopportuno.
Spero di non trasmettere eccessiva antipatia anche a voi che leggete
:D
Grazie
mille ai recensori, non sapete quanto vi adori! Spero che anche
questo capitolo, nonostante tutto, vi sia piaciuto ^^
Al
prossimo lunedì con il decimo capitolo: Forse
un giorno!
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Capitolo 10 *** Capitolo dieci. Forse un giorno ***
Shaw
strappò e tirò tanto forte da farne due pezzi e
restò a fissarli,
prima uno e poi l'altro, riprendendo fiato, fermando le lacrime. Non
passò molto che si pentì di averla rotta e
avvicinò i due pezzi
come se avessero potuto tornare a essere una giacca intera.
Ansimò
ed emise appena un altro strillo quando si spaventò e di
colpo si
girò, udendo la porta del bagno scattare e aprirsi. La
fissò a
bocca aperta mentre camminava scalza verso di lei. Bear la
scrutò
allo stesso modo e dopo tornò a dormire, come se nulla fosse
successo.
Root
si fermò in mezzo alla stanza, guardandola così
come si guarda
qualcuno che non è in grado di comprendere ciò
che gli succede: con
compassione. «Non dovevi alzarti dal letto, avrai ancora la
febbre
alta», disse piano, a bassa voce, riuscendo a sorridere per
lei.
Si
avvicinò e provò ad alzare Shaw dal pavimento ma
lei si divincolò,
saltando via, stringendo un pezzo della giacca in una mano. Per
interminabili secondi non riuscì a fare altro che esaminarla
a occhi
sgranati. «Non può essere»,
mormorò, toccandosi la fronte, «Sto
impazzendo».
«Non
stai impazzendo, Sameen», provò qualche passo
verso di lei. «Hai
solo paura di risvegliarti e scoprire che è tutto finto.
È normale,
sei stata per mesi nelle mani di quei pazzi che hanno cercato di
usarti! Ma tu sei sopravvissuta a loro e adesso stai lottando e
sopravvivendo anche a quello che ti hanno lasciato. Stai vincendo,
Sameen Shaw, perché tu sei più forte di tutto
questo». La prese
fra le sue braccia e Shaw chiuse gli occhi. «Sei confusa ma
ti
sembrerà più chiaro presto. Molto
presto».
«Ho
bisogno di te».
Root
fece una pausa, prima di parlare: «Io ho bisogno di
te». Alzò la
mano destra e premette la siringa, infilandole l'ago nel collo.
Shaw
spalancò gli occhi dalla sorpresa e poi li richiuse piano,
lasciandosi andare.
Era
così triste. Un sentimento tanto forte per lei che non ne
aveva
provato per così tanto tempo. Aveva il volume basso, le
aveva detto
un giorno una bambina, e pur non dandoci peso allora lo aveva tenuto
in mente perché in fondo sapeva che era vero e che Root in
un modo o
nell'altro era riuscita a girare la manovella per alzarlo.
Si
mosse per asciugarsi gli occhi appiccicati di lacrime e
sentì la sua
pelle strisciare su freddo cemento, non comode lenzuola. Si
sentì
sollevata, aprendo gli occhi e vedendo di essere nelle fogne: non lo
aveva sognato ma era accaduto il contrario. Era stato un incubo;
quello di cui aveva paura da quando l'aveva ritrovata in una notte
ancora giovane e piovosa. Era ora di svegliarsi del tutto dalle paure
e dai tormenti; perché era più forte di tutto
quello. Che ci
provasse pure, il suo cervello, a farle credere di essere in una
simulazione o in un sogno; pensò che non le sarebbe
più importato
da quel momento in avanti perché voleva vivere. Voleva
vivere e
essere felice. Quella era la vita vera e avrebbe lottato con tutta se
stessa affinché potesse proteggere quella realtà
dalle sue
paranoie. Basta simulazioni, basta rivedere quella giacca appesa come
se Root, quella volta, fosse morta davvero. Forse un giorno chi le
aveva fatto tutto quello aveva vinto, ma quel tempo era finito.
Shaw
si alzò dapprima con fatica, tastandosi il collo sul punto
dove
l'aveva punta con l'ago, e poi calciò le manette, facendole
cadere
nel canale di scolo. Era arrivato il momento di riprendersi Bear.
Dopo
aver lasciato le rispettive roulotte e il set per ripartire verso
casa, Sarah e Amy non parlarono più molto. Amy pensava di
darle il
suo spazio e, dal canto suo, Sarah pensava di stare impazzendo. Si
salutarono senza baciarsi, con un lungo abbraccio che sembrò
durare
in eterno, e dei mesti sorrisi. Amy non le ricordò del
viaggio, non
le disse più niente a riguardo, era solo nervosa di dover
affrontare
e parlare con i suoi bambini a fianco dell'uomo che sarà
sempre
l'uomo della sua vita di come a volte era necessario separarsi e
essere tristi per diventare più felici. Forse un giorno
avrebbero
capito anche loro.
Intanto,
Sarah stava ancora cercando di capirlo. Amava Steve con ogni cellula
del suo essere: si erano incontrati sul set, si erano divertiti
insieme, poi si erano baciati e qualcosa fra loro era nato, dal nulla
alla simpatia, dalla simpatia al matrimonio. E insieme avevano avuto
tre splendidi bambini. Pensava di non aver bisogno di altro nella
vita e tornare a casa, di primo impatto, glielo aveva confermato.
Respirare l'aria della vita che lei e Steve si erano costruiti
insieme, riabbracciare i suoi figli, vedere nei loro sguardi la
sicurezza di tutto quello che avevano attorno e sapere che ci sarebbe
stato sempre, entrare nelle loro camerette, nella sua camera da letto
e vedere come ogni cosa, ogni centimetro di quelle stanze, era stato
pensato da entrambi per tutti loro. Avevano molto più che
una casa e
dei figli insieme: avevano un mondo costruito su misura per loro.
Però non faceva che pensare a lei. Capì di aver
creato una crepa in
quel mondo e che stava diventando sempre più grande
perché glielo
permetteva. Con Amy era tutto diverso. Era come averla sempre
conosciuta, sempre aspettata, e fino a che i loro corpi non si erano
uniti, sempre desiderata.
Ma
non poteva mandare all'aria ogni cosa per lei. A pensarci, non lo
aveva fatto nemmeno Amy. Aveva sempre pensato di essere responsabile
del suo divorzio, ma lei avrebbe lasciato James in ogni caso, che
fossero rimaste insieme o meno. Non per lei e non per la loro
relazione, ma per lui. Lo aveva lasciato per amore, perché
non
poteva amarlo come si meritava. Perché amava lei. Non glielo
aveva
detto a parole, ma glielo aveva detto con i fatti.
Erano
già passati tre giorni. Le inviò un messaggio per
chiederle come
stava, se andava tutto bene con i bambini, ma non le aveva ancora
risposto. Quaranta minuti di attesa. Ogni tanto ricontrollava il
cellulare, forse non aveva sentito la vibrazione, ma non c'era
nessuna risposta. Ansimò. William le mostrò il
disegno che stava
facendo e lei gli mosse i capelli, gli disse che era bellissimo e
guardò fuori dalla finestra, poi di nuovo al cellulare. Era
perennemente distratta e nervosa, tanto che il bambino le
poggiò una
mano sul viso e tentò di farle vedere di nuovo il disegno,
non
soddisfatto. Una lumaca gialla su una riga di prato verdissimo. Oh,
era davvero bello.
«Sei
bravissimo», gli disse, stavolta con sincerità.
Probabilmente
la lumaca era quella che avevano visto in cortile il pomeriggio: lui
l'aveva notata, le aveva fatto fare un volo sulle sue piccole dita e
dopo l'aveva poggiata su un fiore. Era caduta e così aveva
provato a
rimetterla. Lo aveva fatto almeno cinque volte prima di capire che in
quel modo non avrebbe funzionato per poi posizionarla sull'erba. Gli
aveva chiesto perché non avesse tenuto la lumaca ma l'aveva
lasciata
andare, e il bambino, spiazzandola, le aveva risposto che con lui
sarebbe morta, che glielo aveva detto la nonna che era meglio
lasciarla andare se le voleva bene davvero. Oh, si accorse che il suo
piccolo aveva compreso quel concetto molto prima di lei. Ma non
poteva lasciare Steve, neanche per amore: senza di lei, lui era
perso.
Root
aveva bisogno di credere che era possibile. Aveva superato di peggio
e malgrado tutto era viva. Aveva avuto qualcosa, qualcuno da perdere
e aveva lottato affinché non accadesse, rischiando tutto,
rischiando
di non tornare come prima. Philip Lars era la minaccia che tornava
dal passato ora che voleva credere nel futuro. Non lo avrebbe
permesso. E Shaw l'avrebbe perdonata.
Dei
Marshall Mason l'avevano seguita da quando aveva lasciato le fogne e
iniziarono a sparare per le strade. In lontananza si sentirono le
volanti della polizia che arrivavano; doveva fare presto. Si era
nascosta dietro un muretto e si alzò per sparare, ferendo
uno di
loro, poi un altro ancora. Un bambino aprì la porta di casa
e lo
acchiappò trascinandolo di nuovo dentro insieme a lei,
socchiudendo
la porta e facendogli il cenno di tacere, mentre lui fissava il
fucile con occhi sgranati. Si assicurò di vederli girare un
angolo e
poi era uscita, ringraziando il picciolo per averla aiutata.
Si
diresse direttamente lì. Gettò il fucile
all'interno di un
cassonetto e ne tirò fuori uno zaino, entrando in centrale
con
fretta mentre se lo sistemava sulle spalle. Fusco tentò di
fermarla
ma lei gli passò avanti con decisione, accarezzò
Bear e lo prese
con sé: lo spinse in una saletta degli interrogatori e gli
infilò
una mascherina presa dallo zaino.
«Non
puoi vederlo», sbottò Fusco alle sue spalle,
intanto che lei
chiudeva la porta. «Il suo avvocato ti ha fatto avere un
divieto, lo
sai questo? Stanno visionando i tuoi dati», le disse poi
sottovoce,
«presto scopriranno che non sei una vera detective e lo
stesso vale
per Shaw! Mi hai sentito, Riccioli D'oro? Root?». Lei lo
ignorò,
continuando a camminare, e sbuffando spalancò le braccia,
guardandosi poi intorno: «Dove mi ha messo il
cane?».
Entrò
nella sala e Daryl Boscoferro restò seduto sulla brandina,
pur non
mancando di sorridere.
«Alzati!
Voglio che mi porti da Lars». Prese delle chiavi da una tasca
e aprì
la cella, spalancando la porta. Lui si alzò piano, andandole
incontro. Root si sfilò lo zainetto dalle spalle e, cercando
al suo
interno, tirò fuori due maschere antigas e gliene porse una.
Lui se
la infilò senza fare domande vedendo lei che lo faceva e la
donna
controllò l'orologio, mostrando un conto alla rovescia con
le mani.
Tre, due, uno: dall'impianto d'areazione uscì una nube
grigia.
Attesero qualche secondo, sentendo il chiasso attraverso la porta, e
finalmente uscirono. Qualche poliziotto provò a fermarli e
loro se
li tolsero di dosso con facilità, camminando velocemente
verso il
portone d'uscita. Udirono Bear che mugugnava e raschiava la porta,
chiuso nella saletta degli interrogatori, e Fusco, tossendo e
incespicando sui suoi passi, provò a fermarla di nuovo,
balzandole
addosso.
«Non
puoi farlo», tossì, «Pensaci».
Ci
aveva già pensato. Stava cadendo a terra esanime e lei
fermò la sua
caduta, accompagnandolo sul pavimento, mentre Daryl Boscoferro
continuava verso l'uscita. Proverò
a non morire,
pensò, poggiandogli dolcemente la testa sul pavimento.
Sapeva di non
avere molte altre alternative e che avrebbe dovuto rischiare di nuovo
per mettere la parola fine a tutto quello. Sapeva di aver creato al
suo amico un danno irreparabile e che le scuse non sarebbero mai
state sufficienti a risanare ciò che era stato fatto, ma
forse un
giorno avrebbe compreso le sue ragioni e sarebbe riuscito a
perdonarla davvero, anche ora che lo stava abbandonando di nuovo. Lo
guardò, in piedi davanti a lui, prima di andarsene.
Una
volta fuori dal portone si tolsero le maschere e le gettarono dentro
il cassonetto.
«Hai
un piano?», domandò lui, seguendola. S'inoltrarono
in una stretta
strada dietro l'edificio, saltando un muretto.
«Sei
tu il mio piano». Si fermò e alzò le
mani in segno di resa,
sentendo un grilletto scattare: l'avvocato uscì dietro un
cespuglio,
puntandole contro un fucile. Root sorrise: era certa che quella donna
fosse un Marshall Mason da come l'aveva guardata quando si erano
conosciute.
«Reciprocamente,
anche il nostro», disse lei.
Daryl
le poggiò una mano sulla spalla, invitandola a proseguire.
Inutile
dire che se lo immaginava e che faceva esattamente parte del piano:
doveva arrivare da Lars in un modo o in un altro.
La
fecero salire in un auto e Daryl guidò fino ai limiti della
città,
verso un'ospedale abbandonato, mentre lei teneva il fucile puntato su
Root, sui sedili posteriori. Lei aveva un gps addosso, nascosto in
una calza: nessuno dei due se n'era accorto neanche dopo aver
controllato che non avesse pistole o altri armi con sé. Le
avevano
slacciato il cinturino con l'arma e lasciato in macchina insieme al
suo cellulare, forzandola a camminare sulle scalette e ad aprire il
portone scolorito, sporco e cigolante. Un uomo armato la
seguì con
lo sguardo dall'entrata, mentre loro le intimavano di continuare a
muoversi. Era fatta. Era vicina a mettere fine a quel triste episodio
avvenuto molti anni prima.
«Un
ospedale. Ci sarei dovuta arrivare», esclamò lei,
«Mh, è così
poco originale».
Il
corridoio successivo era pieno di uomini e donne armati: dovevano
essere altri Marshall Mason attivi. Il loro scopo sembrava essere
cambiato: parevano diventati semplici tirapiedi a pagamento. La
guardavano così come si guarda un pasto prelibato che
scorreva
davanti ai loro occhi. Erano stati tutti ingaggiati per trovare
quella donna e ucciderla, sarebbero stati pagati adeguatamente, ma
nessuno di loro c'era riuscito e nessuno di loro avrebbe avuto fra le
mani l'enorme somma di denaro in palio, invidiosi e seccati che fosse
stata già presa da qualcun altro. Lei si premurò
di sorridere
davanti a tutti senza riserve.
Boscoferro
e la donna la spinsero all'interno di una saletta: al contrario del
resto dell'ospedale che avevano visto fino a quel momento, quel luogo
era ben curato, c'era la moquette nuova e pulita sotto i piedi,
divani e cuscini, tavolini, tre lampadari nuovi e le tende dai colori
pastello davanti alle finestre. Root pensò di guardarsi
attorno ma
non c'erano telecamere o altri apparecchi: al momento era davvero
sola. La invitarono a sedersi in mezzo a uno dei divani e
obbedì con
un sorriso, intanto che da ogni porta entravano gruppi di tre persone
per tenerla d'occhio. Non poté che trovarlo divertente.
«Sono
disarmata e sola, eppure tanta gente si disturba solo per me: come
non essere lusingata».
«Ogni
precauzione è d'obbligo, mi sembra», rispose
Boscoferro, mani
intrecciate sulla schiena, «Personalmente ho imparato io
stesso a
non sottovalutarti».
Attraverso
le tende, Root fissò una finestra, pensando a Shaw. Sarebbe
tornata
da lei presto, pensando a cosa stesse sognando in quel momento e a
quanto si sarebbe arrabbiata una volta sveglia. Sorrise di nuovo e
prese un bel respiro, udendo un rumore al piano di sotto, da
dov'erano passati: stava per succedere. Un altro rumore, un grido e
poi uno sparo e tutti i Marshall Mason nella sala si guardarono gli
uni con gli altri, imbracciando meglio le proprie armi. Qualcuno
pensò di andare a controllare cosa stava succedendo e lo
sentirono
gridare di lì a poco, accompagnato da qualche sparo e un
botto.
Tutti iniziarono a muoversi come formiche impazzite e Daryl
Boscoferro e l'avvocato si girarono verso Root, allarmati. «Cosa
sta succedendo?», domandò lui.
«Parla»,
ordinò lei puntandole contro il fucile.
«Come
posso saperlo? Sono qui con voi», scrollò di
spalle.
Una
delle porte si aprì e qualcuno lanciò dentro un
fumogeno; dopo poco
la sala si riempì di altre persone imbavagliate e armate per
mettere
fuori gioco i Marshall Mason. Root approfittò del trambusto
per
alzarsi dal divano e stringere il fucile per la canna, strappandolo
di mano dalla donna e colpendola in faccia con il manico.
«Questo
lo prendo io se non ti dispiace, non vorrei che finissi per fare male
a qualcuno». Lo puntò poi contro Daryl Boscoferro
ma lui stava già
tentando la fuga verso una delle porte. Un ragazzo si
avvicinò a lei
e si scese il bavaglio, mostrandole chi fosse.
«Bei
regaloni in quel pacco che ci hai fatto avere, donna
poliziotto»,
Brandon rise entusiasta; alzò una mano per battere il cinque
ma lei
non ricambiò. «Troppo forte».
«Non
sono regali», sospirò, «Piuttosto un
prestito: la mia ragazza non
ne sarebbe felice, credimi». Lui annuì e lei gli
indicò una porta
con un cenno della testa: «Il vostro uomo è
scappato da quella
parte, signori».
Il
ragazzetto ringraziò ma Root lo vide pensarci più
del dovuto,
soprattutto per uno come lui che solo pochi secondi prima si
comportava come un bimbo a Natale. Si fermò e si
guardò in giro
accuratamente, come stesse cercando di mettere a fuoco qualcosa, poi
pensò di chiamare altri che lo seguissero e sparì
dietro la porta
insieme a loro.
Sarah
aprì la cabina armadio, sovrappensiero. Sei giorni. Erano
già
passati sei giorni e Amy non aveva risposto a nessuno dei suoi
messaggi; a un certo punto aveva dovuto smettere o avrebbe pensato di
non volerla lasciare in pace e non voleva essere pesante. Ma le
mancava, sentiva un vuoto nel petto che non riusciva a colmare in
nessun modo e capì come doveva essersi sentita Shaw quando
si era
risvegliata su quel letto scoprendo che lei non c'era. Prese un abito
a fiori e lo squadrò senza reale interesse, rimettendolo a
posto.
Non riusciva a smettere di pensarci: la differenza era che, almeno
Shaw, poi si era risvegliata davvero scoprendo di poter ancora fare
qualcosa per rimediare. Lei invece cosa poteva fare? Fra poche ore
Amy sarebbe partita con i suoi figli per una vacanza lunga due
settimane e le avrebbe detto addio per sempre. Non che non le avrebbe
più rivolto la parola, lavoravano insieme, ma il rapporto
fra loro
non sarebbe mai più stato lo stesso. E chissà
come avrebbe evitato
ogni tentativo di nuovo approccio da parte sua. E aveva ragione lei,
lo sapeva bene, non poteva continuare a volere un piede in due
scarpe, ma non riusciva a dire addio
a nessuno dei due. Era ancora lì, indecisa su una decisione
che in
fondo aveva già preso, fra una vita certa e al sicuro con
Steve e
una incerta e piena di imprevisti con Amy. Era tutto una scommessa,
un capire per chi il suo cuore batteva più forte, a chi
pensava per
primo la mattina e l'ultimo la notte prima di dormire, con chi dei
due immaginava realmente un futuro.
Steve
era a casa dal giorno prima e com'era nervosa lei lo era lui. Non
sembrava essere il lavoro, stavano facendo una breve pausa e sarebbe
tornato sul set l'indomani, e allora doveva esserlo solo
perché con
molte probabilità pensava ancora all'evento di chiusura
della prima
stagione di Shoot:
ultimate chance,
a quando l'aveva sorpresa a parlare tanto bene del suo rapporto con
Amy. Ma cosa si aspettava? Che dicesse di amarlo nel frattempo che
parlava di Amy e di come andavano d'accordo? La sua gelosia a volte
rasentava il ridicolo, ma non poteva fare a meno di pensare che
questa volta avesse ragione: lei lo aveva tradito, era inutile
girarci intorno. Lo aveva fatto consapevolmente più volte.
Non era
riuscita a farne a meno. Non voleva smetterla e basta,
perché Amy…
perché amava Amy. Oh, accidenti, la amava tantissimo. Le sue
guance
calde la mattina ancora sotto le coperte. Il suo imbarazzo e come
tentava di nascondersi il viso. La sua voce che ogni volta che la
chiamava era un battito del cuore. Le sue preoccupazioni e la
frustrazione, la sua fragilità che faceva esplodere in lei
un senso
di protezione mai provato. Il suo viso duro e dolce allo stesso
tempo, come inarcava le sopracciglia. Il suo sorriso sempre diverso
per ogni occasione. La tenerezza dei suoi occhi, l'innocenza di ogni
suo sguardo. Il suo corpo che vibrava sotto ogni suo tocco. Era stata
con lei perché per quanto amasse Steve, amava Amy. E
né lui né
potevano farci niente. Non voleva farci niente.
Richiuse
la cabina armadio e si precipitò a guardare il cellulare,
scoprendo
che Amy non le aveva inviato ancora alcun messaggio. Lei doveva
essersi arresa all'idea che sarebbe rimasta con suo marito e non
aveva torto, poiché era proprio ciò che aveva
deciso di fare…
prima.
Esattamente fino a poco prima.
Scese
le scale di casa con il cuore che le batteva furiosamente, torcendosi
le mani. I bambini giocavano fuori con la nonna e Steve era in cucina
a bere il suo bicchierone di caffè, leggendo un giornale, in
piedi
davanti alla penisola. Lei lo guardò per un po', ferma sulla
porta,
cercando di prendere coraggio. I suoi occhi erano umidi. Doveva
davvero farlo? Sentì il suo corpo nutrirsi di adrenalina al
solo
pensiero di correre da Amy. Era ciò che voleva, ma aveva
paura.
Guardandosi attorno solo un attimo, capì che avrebbe perso
tutto o
quasi ciò che aveva; che avrebbe stravolto ogni cosa non
solo nella
sua vita ma in quella di tutte le persone che amava. Che
probabilmente era egoista a pensare solo a sé. Ma il tempo
scorreva
e doveva essere coraggiosa, doveva provare a pensare anche lei che
forse un giorno lui avrebbe capito, e con lui i loro figli quando
sarebbero stati più grandi, e la sua famiglia che, a causa
della
paura provata quando era adolescente, non era mai venuta a conoscenza
di una parte di lei.
Lui
alzò lo sguardo, sentendosi osservato. «Che
c'è?», sbottò,
«Pensavo volessi portare fuori i bambini con tua
madre… non ti sei
cambiata?».
Era
arrivato il momento. Deglutì, avvicinandosi.
«Steve… dobbiamo
parlare», si passò due dita sulla fronte.
Era
come se lui avesse capito al volo, senza che gli dicesse altro,
poiché abbassò la scodella e
l'appoggiò al banco, fissandola in
modo contrariato. «Mi hai preso per un visionario, un pazzo
geloso,
e invece… era tutto vero. No?», sibilò
con la voce che gli
tremava. Si allontanò dalla penisola e si
appoggiò con fare stanco
al mobile dietro, scuotendo la testa, alzando gli occhi al soffitto.
«Dimmelo che non mi stavo inventando le cose»,
alzò la voce.
«No…»,
emise a fior di labbra, come liberandosi di un peso, e lui scosse la
testa ancora, «Ma non è sempre stato
così! È solo che…
che…».
«Che
ti sei innamorata di lei?», domandò, passandosi
una mano sul viso.
«Sì».
Lui
sembrò trattenersi, chiudendo gli occhi, e dopo
calciò a terra,
sfiorando un mobile. «Oh, dannazione, Sarah… Siete
state a letto
insieme? L'avete fatto?», si morse un labbro, osservando il
viso di
Sarah abbassarsi, «Cosa stai cercando di dirmi, uh? Che lei
ha
divorziato per te? Che tu vuoi divorziare per lei? Mi stai lasciando,
per caso?».
Sarah
strinse i pugni e si tirò in avanti, decidendo di agire:
doveva
sbrigarsi o Amy sarebbe partita senza di lei. «Sì,
ti sto
lasciando», iniziò a piangere e si
asciugò le lacrime, tirando su
con il naso. «Ti sto lasciando perché amo lei
più di te e non
posso stare con te sapendo questo! Non lo merita nessuno dei
due».
Incuriositi
dai rumori verso la cucina, sia la nonna, con i braccio i gemellini,
che William, guardarono attraverso la porta a vetri; capendo che
stavano discutendo, la signora pensò di distrarre il
bambino, dando
comunque un occhio all'interno.
«Oh,
quindi stai cercando di farmi credere che se mi lasci è per
me? Per
il mio bene?», s'indicò il petto, «Devo
essere davvero un uomo
fortunato…».
«Per
favore, Steve, non gira sempre tutto intorno a te».
«Quindi
cosa dovrei fare? Devo essere paziente, stare zitto e accettare il
fatto che mia moglie mi abbia tradito? Devo fare
così?».
Sarah
si passò la mano sulla fronte, abbattuta. «Ho
sbagliato… lo so».
«Una
cosa giusta l'hai detta», si passò di nuovo le
mani sul viso,
riprendendo fiato, e Sarah non riuscì più a
guardarlo in faccia.
«Adesso
devo andare».
«Adesso?»,
«Adesso!
Se non vado adesso-», le scappò un singhiozzo,
trattenendosi,
facendo una smorfia con la bocca.
Lui
la interruppe, stringendo gli occhi: «Sai una cosa? Ho
capito! Non
entriamo nei dettagli che non mi interessano! Sono frustrato, sono
incazzato e sono deluso, non voglio sentire un'altra parola! Devi
andare? Vai! Ne riparliamo quando torni, cosa vuoi che ti
dica?»,
sbottò. «Tornerai, no?».
Annuì,
sospirando. «I bambini…».
«Vuoi
portarti dietro anche loro?».
Fissò
verso l'esterno e sua madre stava guardando nella sua direzione,
così
uscì. Prese i piccoli in braccio uno alla volta e li
baciò
stringendoli forte, poi William, a cui disse che sarebbe tornata
presto, che andava a fare una cosa importante e che si sarebbero
sentiti per telefono. Gli consigliò di continuare a
disegnare perché
al suo ritorno avrebbe voluto vedere tanti suoi capolavori. Erano
abituati a vederla andare via per lavoro e il piccolo le diede la
buona fortuna per la videocamera. Dopo abbracciò anche sua
madre,
chiedendole di badare ai bambini e che anche loro si sarebbero
sentite per telefono per spiegarle la situazione. La signora era
molto incerta e tentò di parlarle ma lei, che tremava, non
si lasciò
fermare. Per un attimo, Sarah si rivide una ragazzina spaventata al
pensiero che sua madre scoprisse la verità, ma erano passati
tanti
anni e le cose non erano più come prima, ed era arrivato il
momento
di affrontare tutto: poteva farcela. Era inutile nascondersi, a
maggior ragione da se stessa.
Stava
per andare, fermandosi un'altra volta verso il marito, con decisione:
«Se non altro… adesso tornerai sulla
piazza». Gli diede le
spalle.
Guidò
suonando il clacson ad ogni curva, ad ogni intoppo, facendo
innervosire qualcuno. Era in ritardo. Amy sarebbe partita senza di
lei e l'avrebbe ufficialmente lasciata. Non poteva permetterlo. Le
aveva inviato un messaggio prima di prendere l'auto e aveva provato a
chiamarla mentre metteva in moto, ma Amy non rispondeva come al
solito, e forse non aveva neppure il cellulare vicino. Corse
più che
poteva, stando attenta a non superare il limite, e alla fine
arrivò
al porto. Forse era ancora in tempo. Una nave ancora in mare si stava
avvicinando e probabilmente sarebbe attraccata dopo che quella da
crociera avrebbe lasciato il porto, ora stazionata davanti a
tantissime automobili. Sarah dovette fermarsi e riprendere a
camminare più lentamente per via della fila di auto. Scorse
una
pattuglia che fermava le automobili a caso e faceva domande, sperando
di non essere una dei prossimi. Non aveva biglietto. Non aveva
valigia e indossava una maglia larga, un pantalone da casa e delle
scarpe da ginnastica sporche di fango ai lati, che solitamente
indossava per potare piante in giardino: non sembrava certo pronta a
partire per una vacanza. Guardò la fila, la nave, la gente
che si
era radunata davanti, e poi il cellulare sul sedile del passeggero,
provando a chiamarla ancora.
«Forza,
Amy… rispondi, ti prego, ti prego… Non farmelo,
per favore…».
Si
affacciò al finestrino e un poliziotto incrociò
lo sguardo con il
suo, mettendole ansia. Rigettò il cellulare sul sedile e
mise in
moto; proprio quando sperava di averla fatta franca, i poliziotti le
fecero cenno di fermarsi e lei si morse un labbro dall'agitazione.
Scese di più il finestrino, intanto che il poliziotto con
cui si era
scambiata uno sguardo le chiedeva di mostrargli i documenti e il
biglietto d'imbarco.
«Viaggia
da sola?», le chiese un altro, mentre lei cercava i documenti
all'interno del cruscotto, togliendo fazzoletti e peluche,
disponendoli sul sedile; non era nemmeno certa di averli presi. Non
poteva credere di essere davvero uscita senza patente.
«N-No,
io… a dire il vero devo raggiungere la mia-», si
fermò,
grattandosi un orecchia e tirando indietro i capelli, «con i
bambini», s'impappinò e alla fine
sbatté il cruscotto per
richiuderlo, non trovando i documenti. Prese la borsa sperando di
fare meglio, tirando fuori altre cose come ciucci e giocattoli.
I
tre uomini guardavano con attenzione, spazientendosi, intanto che le
altre macchine della fila passavano avanti. «La
sua…?
Ha il biglietto e i documenti?».
Sarah
sbuffò, rialzando la testa e scrutando i loro visi
corrucciati uno
per uno. Sorrise. «Sì… No, il biglietto
deve averlo la mia-»,
s'interruppe ancora, mentre loro la fissavano con concentrazione.
«Sentite, se mi lasciate passare e andiamo insieme dalla mia
fidanzata, che è già dall'altra
parte…». Pensò di aver detto
qualcosa di sbagliato, o di troppo, poiché i tre
cominciarono a
guardarsi fra loro e a sorridere, e Sarah continuò a cercare
nella
borsa almeno la patente.
«Ha
una faccia già vista, signorina…?».
«Signora»,
rispose, sorridendo d'impaccio, rialzando il viso, «Va bene
anche
signorina!
Shahi, Sarah Shahi, e finalmente ho trovato la patente», la
passò
ad uno dei tre, che ancora sorrideva. Fissarono il documento e se lo
passarono di mano in mano, esaminandolo, e Sarah guardò
fuori con
smania, poiché sentiva la gente gridare e le salì
ancora più
ansia. «Mi avrete vista in tv! Non vorrei mancare di rispetto
a
nessuno, ma ho davvero fretta, non vorrei che la
nave…».
«Se
la stanno aspettando, non partirà senza di lei».
«Il
problema è questo: non penso mi stia aspettando»,
mormorò,
ansimando.
I
tre continuarono a chiacchierare e a ridere, a dirle di averla
già
vista e cercando di ricordare dove, le chiesero perfino l'autografo e
dopo la lasciarono passare, anche se con qualche
perplessità.
La
nave era ancora lì ma alcune automobili si stavano
già spostando
per liberare la zona e Sarah parcheggiò come
poté, con il cuore in
gola. Uscì senza nemmeno assicurarsi di averla chiusa,
doveva averlo
fatto in automatico, e corse, ma non vedeva più nessuno che
potesse
aiutarla. Scorse un uomo e lo fermò, ma le disse che avevano
già
fatto salire tutti e che la nave si stava preparando per salpare,
poiché l'altra stava arrivando. Si guardò in giro
e, spaventata,
pensò di provare a richiamarla, accorgendosi di aver
lasciato il
telefono in macchina. Non poteva davvero partire senza di lei. Corse
indietro e aprì la portiera, cercandolo in fretta sotto le
cose che
aveva tolto dalla borsa e dal cruscotto e, quando finalmente lo prese
in mano e tentò di comporre il numero, udì un
rumore e si voltò,
vedendo che la nave si stava preparando a lasciare il porto.
Non
ce l'aveva fatta. Era finita. Aveva fatto tutto per niente. Si
passò
una mano sulla fronte e poi anche l'altra, stringendo i denti,
ansimando. Forse stava sudando. Aveva passato giorni a perdere tempo,
persa nell'indecisione e allo stesso tempo convinta di voler restare
con Steve, e alla fine aveva perso nell'unico giorno in cui proprio
non poteva permettersi di perdere. Amy era partita e ora là,
da
qualche parte, a pensare a lei che aveva scelto Steve.
Nuovo
lunedì, nuovo capitolo!
Ma
davvero davvero vi aspettavate che tutto ciò che era stato
finora
non era altro che un sogno di Shaw? Oh, non posso non dire che per un
attimo piccolino piccolino io abbia pensato veramente a questa
opzione, ma a mio dire non sarebbe stata una grande scelta
perché
non solo tutta la storia di Philip Lars non avrebbe avuto alcun senso
(e quindi perché arrivare fin lì?), ma anche e
soprattutto perché
il mio intento era quello di costruire una trama che le avrebbe
portate a ritrovarsi. Dunque ci stava come effetto trama, ma non come
finale, che lo trovo atroce… Io stessa poi sono rimasta a
dir poco
traumatizzata da come si è svolta la quinta stagione, quindi
volevo
inventare qualcosa di diverso dalla solita tragedia :P
Alle
note per tornare sull'argomento!
Invece,
ritornando al capitolo… Shaw pensa di aver perso Root ma se
la
ritrova davanti all'improvviso e lei le spiega che ciò che
sta
vivendo è qualcosa che le hanno lasciato dalla sua prigionia
da
Samaritan, che ci sta ancora lottando e che sta vincendo, poi la
stordisce (è un sogno) e finalmente si risveglia, stavolta
davvero,
ritrovandosi nelle fogne. Nel frattempo Root ha messo in atto il suo
piano, servendosi di Brandon e il suo gruppo per creare caos e
mettere a tappeto i Marshall Mason. Dall'altra parte, Sarah esplora
se stessa e dopo tanto rimuginarci capisce di amare Amy più
di suo
marito e che deve andare da lei prima che sia troppo tardi, ma
purtroppo si fa davvero tardi, perde la nave e con lei l'ultimatum
che le aveva dato Amy lo scorso capitolo.
Le
note:
- Avevo scritto nelle note al
primo capitolo che il titolo di questa
fan fiction sarebbe potuto cambiare verso il penultimo/ultimo
capitolo ma alla fine ho deciso di tenere quello che c'è con
una
piccola differenza: il titolo della fan fiction esternamente resta
quello, ma cambia all'interno da questo capitolo in avanti. Questo
solo perché col capitolo 9 si viene a sapere il nome dello
spinoff
- Il
decimo capitolo inizialmente doveva essere più lungo, ma in
rilettura ho aggiunto qualche pezzo e ho deciso di dividerlo in
capitolo dieci e undici
- Il vero
nome di Sarah è Aahoo Jahansouz Shahi ma non ho idea di
quale usi nella patente, così ho mantenuto Sarah
- Quello
che è successo a Shaw quando perde conoscenza alla fine
dello
scorso capitolo e crede di aver sognato tutto è una cosa
che, in
realtà, era stata 'predetta' da alcuni momenti in due scorsi
capitoli. Shaw continuava a ricordarsi della giacca di Root appesa al
muro e aveva paura, non era sicura della realtà. Vediamole
insieme:
“All'improvviso
le venne il dubbio e le immagini si ripresentarono prepotentemente
nella sua testa: la finestra che diventava bianca, il rumore della
pioggia e le gocce che precipitavano sul vetro, lei sul materasso,
con solo il lenzuolo addosso. Era sola. La giacca di Root appesa con
una stampella su un chiodo nel muro. Deglutì. La notte stava
sognando o quello era un sogno e Root era morta?” [Capitolo 2]
“Si
preoccupava, accidenti, e non che Root non sapesse badare a se
stessa, in special modo ora che poteva contare su ambe le orecchie,
ma si sentiva irrequieta in ogni caso. La giacca di Root appesa con
una stampella su un chiodo nel muro continuava ad apparirle nei
pensieri come un monito, accompagnata da un'orribile sensazione che
tentava di strapparsi di dosso ogni giorno. Era il suo
tormento.”
[Capitolo 6]
Era
una cosa che Shaw prima o poi avrebbe dovuto affrontare. Mi sarebbe
dispiaciuto vedere che una volta tornata in libertà dopo la
prigionia da Samaritan, dopo tutto quello che le avevano fatto, non
avesse riportato un qualche 'piccolo' danno collaterale. Ma Shaw
è
forte e, come le dice Root nel sogno, sta vincendo. Non per niente in
questo capitolo, al risveglio, si stufa e semplicemente decide di
continuare la sua vita, sfidando il suo cervello a farle credere di
essere di nuovo in un sogno.
Bene.
Grazie di nuovo a tutti: lettori silenziosi, recensori vecchi e
nuovi, chi pigia sul link del capitolo a caso perché
è curioso…
bon,
tutti! Il prossimo capitolo è… l'ultimo! E questa
fan fiction mi
manca già. Spero che vi sia piaciuta leggerla fin qui e che
il
prossimo capitolo (e l'epilogo) non vi deluda ^^
E
quindi ci si rilegge lunedì con l'undicesimo capitolo: Il
suo posto sicuro.
Bye
~♥
|
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Capitolo 11 *** Capitolo undici. Il suo posto sicuro ***
Ava
cominciò a svuotare la sua valigia appena entrati nella loro
suite,
dopo aver dato un'occhiata in compagnia del fratello ai loro letti e
al minibar, trovando qualcosa da sgranocchiare. Amy si
guardò
attorno e sospirò: era felice di fare quella vacanza con i
bambini,
ed era un bene poter restare da sola con loro per due settimane, ma
Sarah non si era presentata e non poteva che restarne un po' delusa.
Non che non se lo aspettasse, Sarah aveva da sempre preferito suo
marito, la vita tranquilla e sicura, a qualsiasi altra cosa, ma non
riusciva a fare a meno di pensarci. E di sentire la sua mancanza. Si
sedette sulla prima sedia trovata e pensò di ricercare il
suo
telefono e assicurarsi che James non l'avesse chiamata per sapere dei
bambini, scoprendo di avere parecchie chiamate perse di Sarah.
Alzò
gli occhi al soffitto, sentendo una morsa allo stomaco. Lei aveva
provato a fermarla, pensò. Magari l'aveva chiamata per
chiederle
altro tempo, o di non partire, o per dirle di aspettare. Aspettare
chissà cosa. Scosse la testa. Cancellò le
chiamate, indecisa se
provare a mandarle anche solo un messaggio per non farla preoccupare,
quando Jackson le ricordò che aveva promesso di non stare
attaccata
al cellulare per due settimane, così lo rimise in borsa. In
ogni
caso non sarebbe cambiato niente, pensava: Sarah non era lì
e
significava che aveva fatto la sua scelta.
Doveva
ritrovare Root. Ancora non poteva credere che lei l'aveva lasciata
lì
e se n'era andata, sapendo ciò che anche lei aveva passato
quando
pensava fosse morta. Era egoista, irrispettosa, fuori di testa. Ma
più ci pensava e più non riusciva a togliersi il
pensiero che
probabilmente, a parti invertite, lei avrebbe fatto lo stesso per
proteggerla. Uscì dalle fogne e corse in mezzo al traffico,
guardandosi in giro per sapere dove andare. Ritrovò una
strada
conosciuta e la seguì, cercando di mantenere un passo
svelto. Oh,
una volta probabilmente avrebbe desiderato davvero che morisse; era
così fastidiosa e appiccicosa, così snervante e
così saccente che
solo il suo sorriso le dava sui nervi. E poi accadde che proprio il
suo essere fastidiosa e appiccicosa, il suo essere snervante e
saccente e che proprio il suo sorriso la rendessero così
attraente
ai suoi occhi. Attraente. Non era la parola esatta, lo sapeva. Root
era diventata il suo mondo, la sua ancora, il suo posto sicuro. Lei
era tutto ciò per cui valeva la pena vivere.
Appena
aprì il portone, scoprì una centrale di polizia
disorientata e
dimezzata che tentava di rimettersi in sesto: Root doveva essere
passata di lì. Aiutò Fusco a capirci qualcosa,
anche se aveva il
mal di testa, e alcuni agenti provarono a fermarla: era stata la sua
collega dell'FBI che a quanto pare non era davvero dell'FBI a far
evadere un prigioniero e non potevano lasciarla andare.
Gettò a
terra qualche agente e chiamò Bear, che sfondò la
porta e saltò su
un uomo per raggiungerla. Scambiò un'ultima volta un lungo
sguardo
d'intesa con Fusco e lui le fece un cenno con la mano di andare, di
non perdere altro tempo.
Si
guardò attorno. Il problema, per lei, era non sapere dove
andare.
Dove poteva nascondersi uno come Lars? Allora ricercò la
telecamera
sui tralicci in mezzo alla strada: lei non sapeva dove andare, ma la
Macchina doveva saperlo per forza.
«Dov'è
andata?», gridò. «Lo so che con me non
parli, ma lei è in
pericolo e tu sai dove devo andare». Nessun cenno, nessuna
luce,
nessun suono criptato. Davvero la Macchina avrebbe abbandonato Root?
Poi Bear abbaiò e Shaw si girò, facendo caso al
chiasso improvviso:
le automobili nell'incrocio si erano fermate tutte creando un ingorgo
e gli automobilisti avevano iniziato ad urlare su di chi fosse il
turno e contro il semaforo, suonando il clacson; i semafori difatti
sembravano tutti impazziti: verde, giallo, rosso, verde, giallo,
rosso, e poi, velocemente, si erano tutti spenti a parte uno,
restando verde. Si spense dopo qualche attimo e un altro semaforo
più
avanti si accese di verde al posto suo. E così avevano
ricominciato.
Voleva che li seguisse. Shaw riguardò la telecamera,
facendole un
cenno con la testa, e si mise a correre: ora sapeva dove andare.
Semaforo,
semaforo, un cartello con le frecce di cui se ne accese una sola,
altre insegne che solitamente di giorno erano spente, le televisioni
della vetrina di un negozio che cambiarono canale all'unisono,
mostrando un vecchio servizio cittadino che parlava di un ospedale
abbandonato al limite della città. Altre frecce. Shaw
notò una moto
parcheggiata dall'altro lato della strada e fece salire a Bear sul
carrozzino, agganciandolo e, facendo lo stesso con un casco per lei,
partì, girando la chiave, seguita dal grosso proprietario
che si
stava bevendo una birra davanti a un locale.
Il
vecchio ospedale. Il vecchio ospedale. Pensò che Lars non
avesse un
briciolo di originalità, parcheggiando accanto a una delle
tante
vetture. Lasciò il casco sul manubrio, sciolse Bear e si
strinse la
coda dei capelli e le nocche delle dita, entrando.
Nel
corridoio d'entrata c'era un uomo steso a terra che brontolava dal
dolore, tentando di rialzarsi. Le pareti erano ricoperte di
proiettili e l'uomo doveva essere ferito a una gamba, o forse a
entrambe. Lui la vide e cercò di farsi aiutare, ma lei lo
calciò in
faccia e continuò a camminare. Si chiese da che parte
dovesse andare
finché non capì di poter semplicemente seguire il
segno delle
pallottole sui muri. Non poteva essere stata Root, era davvero uno
spreco enorme di proiettili e non aveva mai sparato senza un
bersaglio: non capiva cosa stesse succedendo, se fossero impazziti i
Marshall Mason o se ci fosse qualcun altro oltre loro. Salì
per una
tromba di scale e appena vide un corpo su una pozza di sangue si
fermò per assicurarne il decesso: qualcuno lo aveva sparato
su più
punti senza lasciargli respiro. Poco più su ce n'era un
altro, ma
era ancora vivo, anche se senza conoscenza. E un altro. Qualcuno
aveva fatto una carneficina di Marshall Mason prima che arrivasse
lei, pensò. Corse quando notò una mitraglietta,
saltando una
macchia di sangue. La prese in mano e controllandola per poco non le
venne un colpo: era una delle loro, l'avrebbe riconosciuta su mille.
Completamente scarica. Ringhiò per il fastidio, richiamando
Bear che
odorava dappertutto, correndo sulle scale.
«Eccone
una», udì qualcuno gridare.
Schivò
dei proiettili nascondendosi dietro un angolo, richiamando Bear,
tirandolo indietro. Il tizio imbavagliato sparò ancora e
Shaw
aspettò che si avvicinasse, così lo strinse per
il bavero con una
mano e con l'altra gli scagliò un colpo secco contro il
collo,
gettandolo a terra. Mentre si contorceva per il dolore e tentava di
respirare, tossendo, Shaw pensò bene di prendergli la
mitraglietta
dalle mani, controllando in che stato fosse il caricatore,
inginocchiandosi. «Mh, sei fortunato che non siano
finiti…», gli
diede due pacche su una spalla. Si rialzò, richiamando il
cane.
Ricambiò
agli spari di altri due, ferendoli senza ucciderli, e mise fine alla
sparatoria che altri tre uomini imbavagliati stavano portando avanti
contro una donna dall'altro lato del corridoio, inviando Bear su di
lei e fermando i tre a suon di colpi. Notò che ogni arma che
portavano gli uomini imbavagliati apparteneva a loro, chiedendosi
cos'avesse combinato Root in sua assenza: aveva ammanettato e drogato
lei, ma a quanto sembrava si era portata dietro qualche amico che non
aveva nessun rispetto per le armi altrui.
Stava
per riprendere passo quando da una porta passò un viso
conosciuto e
sorrise laddove lui, vedendola, tornò indietro.
Guardò Bear e,
gridando, indicò la porta: «Neem het [Prendilo]».
Bear scattò immediatamente, seguendolo: lo sentì
abbaiare e poi lui
gridare, dopo un colpo. Doveva essere caduto e Shaw sorrise di nuovo,
raggiungendoli. «Oh, mi piace quello che vedo»,
fece dell'ironia,
intanto che Daryl Boscoferro strisciava sulla schiena lungo le
pianelle dell'ospedale in disuso, riempendosi di polvere, ringhiato
da un feroce Bear a un metro di distanza. Shaw lo prese per la
camicia e lo alzò, sbattendolo contro il muro.
«Dov'è lei?»,
domandò.
«Non
lo so, c'è un gran casino qui, se non ti è
chiaro».
«Bear!»,
richiamò il cane che subito abbaiò,
avvicinandosi, e Daryl
Boscoferro si portò le mani sul viso, stringendosi, cercando
di
farsi piccolo.
«Va
bene, va bene, senti!»,
urlò, «L'ho lasciata di sopra, nella sala di Lars,
è l'unica
pulita e in ordine… o
meglio non lo sarà più con l'arrivo degli amici
della tua ragazza,
ma l'ho lasciata lì, la trovi al quarto piano, seguendo il
corridoio
dopo le scale», gridò d'un fiato, «Ma
adesso levami questa
bestiaccia di dosso!».
Lo
servì con un destro, rigettandolo a terra e, carezzando
Bear, gli
diede l'ordine di non perderlo di vista. «Non sei una
bestiaccia! Se
fa un passo falso… sbranalo».
Sorrise e li lasciò soli, caricando la sua arma.
Sbranalo
lesse sul copione. Amy rise, tenendo la voce più bassa che
poteva,
ricordando quando avevano girato quella scena: correndo nel
corridoio, sia Sarah che Carl erano scivolati più volte e il
cane
aveva lavato la faccia a entrambi. Sospirò. Sembrava passato
tanto
tempo da allora ed erano invece solo poche settimane. Non sapeva
neppure perché aveva voluto portarsi appresso i copioni
degli ultimi
episodi. Glieli avevano lasciati portare via per favore ma avrebbe
dovuto restituirli. E intanto, anziché dormire, si stava
rileggendo
quelli. Forse era come riavere un po' Sarah ancora vicina e le dava
fastidio perfino pensarlo: in fondo l'avrebbe rivista presto per la
Convention. E magari suo marito l'avrebbe accompagnata. Forse lei
avrebbe fatto finta di niente e in privato avrebbe cercato di
parlarle: fin da subito, doveva mettersi un punto fermo e ricordarsi
di non crollare alle sue parole; doveva prometterselo.
Sospirò
ancora e cambiò pagina, ma si fermò di colpo
udendo dei passetti
che venivano verso di lei: era strano, aveva già messo i
bambini a
letto ed erano stanchi dopo aver passato tutto il giorno fuori, fra
piscina e gli animatori, dovevano essere già addormentati da
un
sacco di tempo, non svegli. Restò in ascolto e
abbassò il copione
quando vide sua figlia affacciarsi alla parete, strofinandosi un
occhio per il sonno. Quasi non credette alle sue orecchie: Jackson
stava ancora vedendo la tv. Si alzò e poggiò il
copione sul
materasso, raggiungendo la piccola cameretta dei bambini.
Sgridò il
figlio di tornare immediatamente a letto che l'indomani si sarebbe
dovuto alzare presto, ma la sua voce quasi si affievolì
vedendo cosa
guardava: c'era Steve ed era impegnato in una gag, appena quella e le
risate finirono, riprese un'intervista e non poté fare a
meno di
restare in ascolto, anche se il suo primo pensiero fosse quello di
spegnere.
«Allora,
dicci…», s'interruppe il presentatore, guardando
la telecamera e
il pubblico sfoggiando un ghigno, «sappiamo che le cose fra
te e tua
moglie sono ormai ai ferri corti! Ecco, l'ho detto, l'ho
detto»,
guardò di nuovo il pubblico.
Amy
prese un grande respiro, imbambolata, sentendo il suo corpo divenire
bollente. Ava la chiamò ma lei le fece cenno con la mano di
aspettare, non distogliendo gli occhi dallo schermo.
Steve
serrò le labbra in una smorfia e si sedette più
comodamente sulla
poltrona, poggiando una gamba sull'altra. «Le voci circolano
in
fretta, Robert», guardò la telecamera,
«Si dice che il posto
sicuro di ogni uomo sia la propria casa: torna e trova la moglie e i
figli e tutto quello che ha costruito e si sente sollevato, sta bene,
è bello tornare a casa e sentirsi davvero a casa, non so se
mi
spiego». L'altro annuì, mostrando un viso
corrucciato e
interessato. «Ma da un po' di tempo, quando torno a casa non
mi
sento più in un posto sicuro, non mi sento a casa, Robert.
Come
dire, i gemelli erano stati la nostra salvezza nel nostro rapporto,
ma adesso non bastano più e siccome non vuole fare un altro
figlio,
al momento…», prese una pausa e rise da solo,
seguito poi dal
presentatore e dal pubblico, «beh, se non vuole, ci tocca il
divorzio».
«Il
divorzio?!», esclamò l'altro, guardando la
telecamera portandosi le
mani sul viso. «Avevo capito che eravate ai ferri corti,
amico, ma
questo è precipitare in un baratro senza paracadute! Siete
già a
quel punto?».
Lui
annuì. «Sì»,
scrollò di spalle, «Sì, sì,
lo siamo e non credo
ci sia più niente che io possa fare per… salvare
la baracca,
chiariamoci: quando lei ti dice di essere innamorata di
un'altra…
persona, Robert, tu puoi solo stare zitto», fece il gesto,
per poi
allargare le braccia e rimettersi composto, «e lasciare che
il tempo
sbrighi le cose al posto tuo».
Ava
la chiamò di nuovo e Amy si girò per ascoltarla,
lasciandosi
catturare ancora una volta dalla televisione:
«Innamorata
di un altro?», sbottò il presentatore, dando per
scontato si
trattasse di un uomo.
Steve
si passò le mani in faccia come se cercasse di non dire
troppo; e
forse non poteva per via di restrizioni legali legate al divorzio.
Diventò rosso e rise, scuotendo la testa, abbassando la
schiena e
lasciando andare le braccia sulle cosce, a peso morto. «Ho
detto
innamorata di un'altra
persona,
Robert», specificò, non potendo farne a meno.
Sentì
Jackson e Ava ridere e così Amy tornò in
sé, decidendo di spegnere
la televisione. «Forza, vi voglio tutti e due a letto, senza
storie!
È tardissimo». Le fecero notare che era lei quella
che si era
incantata con l'intervista ma fece finta di niente, rimboccando le
coperte. Stava per lasciare la stanza e si voltò un'ultima
volta per
vederli sorridere e ghignare, così cambiò idea e
richiuse la porta
dietro di lei, lasciando la luce accesa. «Perché
ridete? Avete
visto qualcosa che vi ha fatto ridere?».
Ava
le disse che Steve era divertente, Jackson che lo era lei. Gli chiese
spiegazioni e non mancò di farle presente come entrambe, lei
e
Sarah, avessero chiesto il divorzio. La trovava una strana
coincidenza, accidenti, e non era riuscita a dirgli altro. Non che ci
fosse altro: Sarah stava divorziando, ma finché non si
sarebbero
parlate… Si mantenne la testa, capendo che nemmeno lei
sapeva cosa
stava per succedere e c'era voluto così tanto per far
sorridere
Jackson da quando gli dissero del divorzio che pensò di
lasciarlo
dormire e basta, che ci avrebbero pensato un'altra volta, che ogni
cosa avrebbe avuto il suo tempo. «Buonanotte! Vi voglio
bene».
Tornò
nella sua stanza e si accasciò sul letto, riaprendo le
coperte e
riprendendo in mano il copione, fissandolo. Sarah aveva chiesto il
divorzio, pensava. Sarah era innamorata di un'altra…
persona.
Sorrise, spegnendo la luce.
Brandon
aveva lasciato la sala con una strana luce negli occhi e, in altre
circostanze, Root ci avrebbe dato certamente più peso. Il
ragazzetto
sembrava sovrappensiero e che solo l'eccitazione dovuta all'usare le
armi riusciva a distrarlo. Ma non le interessava. Probabilmente
pensava ai suoi soldi e a Daryl che scappava con la
possibilità di
riaverli. Vide la sala pian piano svuotarsi, a parte l'avvocato che
svenuta sbavava sulla moquette. La trascinò di peso su un
divano per
non farla calpestare e si abbassò per riprendere il suo
fucile.
Piano, senza movimenti bruschi e, appena ce l'aveva stretto fra le
dita, si rialzò di tutta fretta, puntandolo alle sue spalle:
il
Marshall Mason pelato era lì davanti a lei, con in mano una
pistola.
«Ehi… Ma guarda un po', pensavo non ti avrei
più rivisto».
«Nemmeno
io. Non era nei suoi piani: qualcuno avrebbe dovuto ucciderti ma
è
stato un fallimento», sorrise sghembo e indicò con
lo sguardo
dietro di lui, così Root mosse lo sguardo: Philip Lars era a
poco da
loro, avvicinandosi con le mani nelle tasche dei pantaloni, senza
fretta.
Era
intento a osservarla con attenzione; anche Root lo guardava, pur
continuando a tenere sotto tiro il Marshall Mason. Come nella foto in
casa di Claire Weller, era strano rivederlo dopo tanti anni, un po'
più grosso, stretto in una camicia a righe con bretelle, con
i
puntini neri della barba che ricresceva.
Lars
aprì la bocca piano, dapprima come se volesse solo soffiare,
leggero, per poi dire quel nome: «Marguerite
Yves».
Root sentì un brivido. «No, Samantha Groves. O
forse dovrei
chiamarti Root?».
Aveva un'aria esausta, sconfitta, nonostante avesse davanti agli
occhi la donna che gli aveva procurato tanto dolore. Era stanco come
se non riuscisse a dormire da tanto, con le borse sotto gli occhi e
la bocca rovinata da tagli e pellicine.
Ci
mise troppo a rispondere, abbassando il fucile. «Puoi
chiamarmi come
preferisci».
Lui
sorrise fino a fingere una risata, a denti stretti, passandosi sulla
fronte una mano e, con l'altra, dando l'ordine al suo sottoposto di
abbassare la pistola. «Allora preferisco maledetta.
O diavolo.
Tu mi hai portato via tutto», la fissò negli occhi
e Root si sentì
stringere lo stomaco: aveva sbagliato tante di quelle cose, in
passato, che in fondo si meritava davvero tutto l'odio che lui
nutriva per lei. Ma lui doveva sapere ciò che successe
davvero
quella mattina.
«Non
è stato un mio proiettile ad uccidere Mona, tua
figlia», gli disse
a un certo punto.
«Cosa
stai dicendo?», il suo viso diventò rosso pastello
e, nell'impeto
di rabbia, corse verso il Marshall Mason e gli strappò la
pistola
dalla mano, puntandola su di lei.
Root
non si mosse, ricordando l'orribile periodo dopo l'accaduto che
l'avevano portata a coricarsi la notte con la pistola sotto il
cuscino, finché non decise di fare ricerche sul caso.
«Non sto
mentendo», scosse la testa, «È stato un
tuo proiettile a farlo.
Pensavo meritassi di sapere la verità sulla sua
morte».
«Tu
sei una bugiarda!», gridò diventando livido di
rabbia. «Bugiarda!
Non sei soddisfatta di avermi portato via mia figlia, di aver portato
via il nostro futuro, quel giorno…», strinse i
denti, tremando,
«Tu vuoi portarmi via anche l'unica certezza che mi
resta».
Root
deglutì. «Non posso dire o fare nulla per fermarti
dallo spararmi,
lo so…», abbozzò un mesto sorriso,
«Ho fatto davvero tante cose
brutte e sbagliate nella mia vita e tu sei solo una delle persone che
ho rovinato. Mi odi, Lars, ma, in questo caso, tu hai tante colpe
quanto me».
«Io
dovrei ucciderti e basta, senza ascoltarti».
«Non
volevi affrontarmi e per questo volevi farmi uccidere da qualcun
altro, ma adesso che sono qui… se avessi voluto uccidermi
senza
ascoltarmi lo avresti già fatto».
Lui
strinse gli occhi e, iroso, non riuscì a trattenersi e
premette il
grilletto. Root si voltò, sorpresa, scoprendo che Lars aveva
ucciso
a sangue freddo e con un colpo al petto l'avvocato stesa sul divano.
Non
si lasciò intimidire e continuò, inclinando la
testa: «Io non
avrei dovuto accettare di uccidere Portes, Lars, e tu non dovevi
voler assoldare qualcuno per ucciderlo. Lui non era il ragazzo giusto
per tua figlia, forse è vero, ma spettava a lei la scelta.
Potevi
prenderla da parte e chiederle di perdonarti per aver fatto ricerche
su di lui», raccontò, guardandolo dritto nei suoi
occhi che
diventavano lucidi, mentre corrugava la fronte e strizzava le labbra
dalla rabbia, «per poi dirle cos'avevi scoperto, di quando
era stato
arrestato ancora minorenne per aver picchiato la sua fidanzatina al
liceo. E allora sarebbe stata una sua decisione: se lasciarlo o
restare con lui perché aveva promesso di cambiare
vita», sorrise di
nuovo, con il labbro inferiore che le tremava. «Non lo
conoscevo e
allora non volevo neanche farlo, ma adesso so che le persone possono
cambiare, Lars. Anche quelle che fanno delle cose davvero brutte e
sbagliate… se hanno la possibilità di incontrare
nella vita
qualcosa di molto bello».
Lars
abbassò l'arma e pestò un piede a terra,
diventando ancora più
rosso, madido di sudore. Forse di lì a poco avrebbe detto
qualcosa,
ma dal chiasso all'interno dell'ospedale riecheggiò uno
sparo a poco
da loro e si voltarono, avendo catturato l'attenzione di tutti e tre:
Brandon era rientrato nella sala e aveva sparato un colpo verso il
soffitto, per poi mettersi a ridere. Era rosso e sembrava quasi
disorientato, impazzito.
«Mi
sono perso qualcosa, lo so», si avvicinò,
applaudendo. «Vero,
papà?».
Velocemente, prese la mira e sparò un altro colpo, uccidendo
il
Marshall Mason pelato che cadde a terra con un buco sulla fronte.
Root
spalancò gli occhi, colta di sorpresa, guardando l'uomo che
era
stato appena ucciso senza pensarci, e dopo Lars che diventava
paonazzo e indietreggiava.
«Brandon?»,
sbottò, degnando poco il cadavere del suo tirapiedi.
«Allora
sai il mio nome, wow», gridò lui, saltando per un
ultimo passo.
Rise ancora, guardando poi Root e indicandoglielo con la canna della
pistola: «Sentito? Sa il mio nome! Che
fico».
Philip
Lars riuscì a stento a sorridere, pur restando molto
stupito. Non
sapeva come comportarsi, colto da un'euforia improvvisa e allo stesso
tempo cercando di mantenersi lucido, perché aveva ancora fra
le mani
la donna che aveva ucciso sua figlia. «Brandon…
Credevo non ti
avrei mai ritrovato… N-Non sapevo nemmeno dove abitassi,
ormai».
«Ma
certo», il ragazzetto sforzò un sorriso colmo di
rabbia, «Perché
avevi pagato mia madre affinché mi nascondesse, porco
schifoso».
Root
cominciò a capire: Brandon era figlio di Lars, un figlio
illegittimo. Non c'era nulla sulla rete o non avrebbe mai affidato
un'arma a un potenziale pericolo. Credeva di usarlo a suo vantaggio,
ma era stato lui a usare lei e forse lo stesso Daryl Boscoferro.
Tutto per arrivare a suo padre. Solo ora comprendeva meglio l'aria
pensierosa sul suo viso.
Lars
aprì la bocca, intento a dire qualcosa, ma una delle porte
si aprì
con un brusco scatto e l'arrivo di Shaw con la mitraglietta puntata
verso Lars rimescolò le carte del gioco. Root si
accigliò e la
squadrò fino a che non la vide avvicinarsi, intanto che
l'uomo
gettava a terra la pistola, arrendendosi.
«Non
mi posso proprio liberare di te, eh?!», non riuscì
a fare a meno di
sorridere, scuotendo brevemente la testa.
Anche
Shaw accennò un sorriso. «Pensavo la stessa
cosa», mormorò, poco
prima di ordinare a Lars di allontanarsi dalla pistola gettata a
terra e a Brandon di buttare la sua.
Lars
guardò il ragazzino con attenzione, venendogli le lacrime
agli
occhi. «Non potrò mai dimenticare ciò
che è accaduto a Mona»,
esclamò, passandosi ancora una mano per ripulirsi dal sudore
e
distanziandosi, mentre Shaw dava un calcio alla sua pistola a terra,
«La mia bambina era la mia casa, il mio unico posto
sicuro… Ma
almeno ora ho un figlio e posso ricominciare» si rivolse al
ragazzetto, porgendogli una mano.
Brandon
sorrise e strinse gli occhi e la bocca come in preda all'entusiasmo,
fino a quando non alzò il braccio con la pistola e,
cambiando
completamente espressione, sparò all'uomo in pieno petto,
gettandolo
a terra sotto lo stupore delle due. «Sì, beh, col
cazzo»,
strepitò. Loro non fecero in tempo a veder l'uomo affogare
sul suo
stesso sangue che Brandon non perse tempo e puntò di nuovo
l'arma
contro Root: «Grazie per avermi portato da lui, non sai
quanto cazzo
ho desiderato questo momento… Il
suo unico posto sicuro,
l'hai sentito, cioè, io non ero nessuno fino a ieri, vecchio
di
merda», sospirò, intanto che Shaw gli puntava
contro la
mitraglietta e gli ordinava di abbassare l'arma. «Beh,
tornando a
noi», continuò, senza badare alle minacce,
«credevo che con
Boscoferro non ci sarei arrivato mai… Ma come sai
è colpa tua se
la mia sorellina che non ho mai conosciuto è morta e
io», rise,
«desideravo tanto una sorella, accidenti».
«Non
farlo», sussurrò Root.
Shaw
tentò di avvicinarsi, pensando di potergli strappare l'arma
dalle
mani prima che premesse il grilletto. «Fai come dice,
perché non
sai quanto anche io ho desiderato questo momento».
Il
ragazzo sbuffò e scosse la testa con fastidio, muovendosi
per
abbassare la pistola. «Va bene, avete ragione, non
è così che si
risolvono le cose… Dopotutto, tu hai portato via una sorella
a me e
io», scrollò di spalle, «devo portare
via qualcosa a te».
D'improvviso, Brandon risollevò l'arma e la puntò
contro Shaw,
sparando un colpo senza pensarci. Anche Shaw sparò con un
gesto
automatico ma, per sfortuna del ragazzetto, non c'era nessuno a
prendere i proiettili per lui: Root si mosse in fretta e
riparò
l'altra con il suo corpo, venendo sbalzate entrambe sulla moquette.
Era
una perfetta giornata di sole e Amy non poté che esserne
più
felice: la vacanza era finita e non avrebbe sopportato di ritornare a
casa con il cambio di stagione. Parcheggiò l'auto e Ava e
Jackson
presero i loro bagagli, entrando in casa di corsa. Appena
varcò la
porta, Amy fu colta da sensazioni contrastanti: era casa ma non il
posto che ricordava di conoscere; si sentiva la mancanza di James che
aveva deciso di sparire un po' per passare del tempo dalla sua
famiglia, e poi aveva imballato delle cose e c'erano degli scatoloni
in un angolo dell'ingresso che le mettevano addosso una certa
malinconia, ma non era solo quello, c'era qualcosa di diverso
nell'aria.
Sentì
subito i bambini ridere e parlare a voce alta, così
immaginò
dovevano esserci i suoi genitori che avevano aspettato il loro
rientro. Appena vide la testa di sua madre camminò
più velocemente
per raggiungerla, ma scoprendo che in braccio aveva una bimba piccola
si fermò. La bimba di Sarah, Violet. Non capiva. Sua madre
si girò
e, vedendola, parve chiamare qualcuno.
Era
lì. Sarah era lì. In preda a un attacco d'ansia,
non poté che
aspettare il suo arrivo appoggiandosi contro una parete, mettendo le
mani nelle tasche dei pantaloni. Cosa faceva Sarah a casa sua? Era
agitata all'idea di affrontarla, ma, appena la vide affacciarsi,
s'illuminò: aveva Knox in braccio che giocava con un peluche
e con
una ciocca dei suoi capelli; sembrava esausta, era un po' tirata e
senza trucco, vestita con un jeans largo e una felpa. Aveva
così
voglia di abbracciarla. Ava venne a prendere il bambino e lo mise a
terra per farlo camminare mano nella mano con lei, riportandolo dagli
altri per giocare. Sarah lo lasciò andare e, accostandosi a
lei,
parve tremare come una foglia, sospirando: probabilmente nemmeno lei
era pronta ad affrontarla, anche se l'aveva aspettata.
Aveva
perso la nave, non era andata, aveva scelto Steve e poi aveva deciso
di divorziare da lui. Non aveva senso. Si era forse accorta di aver
commesso un errore? Aveva promesso a se stessa che non avrebbe ceduto
a qualunque cosa lei avesse provato a dirle, ma l'aveva fatto prima
di sapere del suo divorzio. Poteva cambiare tutto. Il suo viso era
così affranto, così timoroso ma allo stesso tempo
audace che pensò
avrebbe potuto perdonarle qualunque cosa. Ma non era così
semplice.
«Ho
perso la nave», enunciò Sarah tentando un sorriso.
Amy
sorrise a sua volta, abbassando gli occhi. Sospirò.
«Hai perso più
della nave». Non avrebbe ceduto con così poco:
l'aveva delusa e
l'aveva fatta sentire una seconda scelta. Poteva capirla, aveva avuto
paura delle conseguenze proprio come aveva avuto paura da adolescente
in ciò che le aveva raccontato, ma lei, né i suoi
sentimenti, non
era un giocattolo che poteva usare come e quando voleva. La loro
relazione era stata bella, ma era destinata ad avere una fine;
nascoste dal mondo, dai loro mariti e dalle loro famiglie non era una
relazione sana. Amy voleva di più e se Sarah non era pronta,
allora
non potevano stare insieme.
«Non
volevo perdere anche il ritorno», continuò lei,
mordendosi un
labbro. «Scusa se sono piombata qui con i bambini e per la
confusione».
«Hai
detto tutto ai miei genitori?».
«Ho
parlato un po' con loro…», la fissò,
per poi mettersi a ridere,
«Ma dai! Non ho detto niente… anche
perché sono la prima a non
sapere niente».
Amy
annuì, trattenendo la risata e abbassando lo sguardo
dall'imbarazzo.
Nessuna delle due sapeva cosa stava succedendo, cosa facevano o cosa
avrebbero fatto: c'era un non so che di ironico in tutto quello.
«Ho
cercato di venire, quel giorno. Davvero. Ma mi ha fermato una
pattuglia e ha fatto domande, poi non trovato la patente, e non avevo
biglietto, e i poliziotti mi guardavano spazientiti, ero vestita da
casa e non avevo valige, ero sospetta; poi si sono messi a dire che
la nave non sarebbe partita se c'era qualcuno che mi
aspettava»,
disse velocemente e senza respiro, facendo ridere Amy, «ma io
cercavo di spiegare che non lo avrebbe fatto perché nessuno
mi
aspettava», si morse un labbro, guardandola negli occhi,
«E così,
infatti, ho perso la nave».
Amy
scosse la testa, mantenendo un sorriso.
«E
io non volevo proprio perderla quella nave», si
avvicinò ancora e
alzò la mano destra per sistemarle dietro l'orecchia una
ciocca di
capelli, approfittando della vicinanza per accarezzarle la guancia.
Amy
socchiuse gli occhi e si lasciò coccolare. «Io ti
aspettavo».
Sarah
sorrise. «Avrei dovuto esserci».
«Avresti
dovuto».
«Ma
sono qui ora».
Amy
annuì ma in un attimo si tirò indietro, dando
un'occhiata verso la
porta, ma nessuno sembrava pronto a disturbarle, non sentiva
più
voci vivine e capì che probabilmente sua madre doveva aver
portato i
bambini in cortile per lasciarle parlare. Magari immaginava
parlassero di lavoro. Sarebbe stato bello raccontarle poi la
verità,
con la dovuta calma. «Sei qui ora, va bene», disse
e Sarah la
guardò corrucciando lo sguardo, con la mano ancora alzata
verso di
lei, a mezz'aria. «Ma non basta, Sarah», scosse la
testa. «Non mi
basta sapere che sei qui ora e non sapendo dove sarai
domani».
«Ho
chiesto il divorzio, Amy, non capisci».
«Va
bene, lo so, ma… Ma un giorno te ne pentirai. Sei qui ora e
hai
chiesto il divorzio ma se devo vivere una relazione nascosta
da…»,
diede un altro sguardo verso la porta ma non c'era nessuno,
«dalle
persone che amo non… Non voglio vivere così! Se
posso amarti,
voglio poterlo fare alla luce del sole», la fissò
negli occhi, «Se
sei qui ora come dici, vorrei che ci fossi sempre. Per me».
«Ci
sono, Amy», ribadì, annuendo piano,
«Sono qui per te ora come lo
sarò domani. Te lo prometto: non me ne andrò
via». Amy arrossì e
Sarah le accarezzò di nuovo una guancia, avvicinandosi con
fretta,
dimostrandole che faceva sul serio. «Non me ne
andrò via perché
sono innamorata di te! E non riuscivo più a tenermelo
dentro, dovevo
assolutamente dirtelo».
Amy
abbassò il viso di colpo e se lo nascose con una mano,
iniziando a
ridere e trattenere il fiato, prima di guardarla di nuovo in faccia.
«Meno male che ti amo anch'io, allora, o sarebbe stata
davvero una
pessima figura».
«Sì?».
«Decisamente
sì», annuì; le prese il viso con una
mano e avvicinò le labbra
alle sue, stringendosi a lei.
Quel
ragazzino aveva sparato e per un attimo tutto era diventato sordo.
Root aveva provato a spingerla avanti ma erano troppo vicine alla
pistola da cui era partito il colpo, così l'aveva stretta a
sé e le
aveva fatto scudo con il suo corpo.
Shaw
tremava. Non poteva accadere davvero, non adesso; sarebbe stato un
orribile presa in giro del destino. Era corsa lì per
aiutarla e non
perché si prendesse un proiettile per lei.
La
sentì brontolare e la sollevò, cercando
delicatamente di
appoggiarla sulle sue ginocchia. Vide che aveva un rivolo di sangue
che le usciva dalla bocca e, con lo stomaco che le si contorceva e la
gola che si faceva secca, per un attimo si perse tra i suoi pensieri,
nelle le sue paure e le sue debolezze.
«Root…»,
la chiamò, vedendola stringere gli occhi e i denti,
respirare con
affanno. «Sei una stupida, stupida…». La
toccò appena per capire
dove l'avesse colpita che l'altra emise un lamento e
risollevò la
mano con paura. «D-Devo toccarti…», le
strinse il bordo della
maglia scura ma la fermò con una mano sulla sua,
«Devo capire se
posso… Dove ti ha preso, così posso-»,
si fermò, ansimando,
guardandosi attorno: si trovavano in un ospedale in disuso e non
sapeva se avrebbe o meno trovato qualcosa da usare per estrarle il
proiettile, ma avrebbe fatto qualunque cosa in suo potere per
salvarla. Qualunque. La prese fra le sue braccia e la
riportò sul
pavimento, così stava per lasciarla quando Root la strinse e
si
guardarono. «Non pensarci neanche»,
soffiò appena, con un
movimento lento della testa. «Non morirai… Tu non
hai proprio idea
di quello che ho passato», strinse i denti, «E non
te lo
permetterò. Sono stata abbastanza chiara?».
Root
aveva il fiato corto e la guardava quasi senza battere ciglio.
Riusciva a tenerla a sé con troppa forza, quasi fosse la sua
ultima
volontà. Shaw sapeva di dover fare qualcosa ma lei la
tratteneva e
allora forse temeva di perdersi qualcosa. Lei non voleva che fossero
gli ultimi istanti di Root, ma se lo fossero stati, si sarebbe voluta
perdere di immergersi nei suoi occhi per l'ultima volta?
«Non
puoi farlo…», le vennero gli occhi lucidi.
«Ho bisogno di te…»,
li chiuse, stringendo le labbra. «Io ti-».
Brandon
tossì e sputò sangue tanto forte da far
sobbalzare entrambe,
distraendosi. Root perse la sua stretta su Shaw e lei, in un momento
di lucidità, si accorse che l'altra non perdeva sangue. Si
guardò
le mani e, per come l'aveva stretta a sé, avrebbe dovuto
averle
fradice, ma non era così: erano appena rosse e un po'
spaccate per
come aveva colpito i tizi con il bavero poco prima.
«Ti?»,
la sorprese Root, rialzando la testa. Vedendo che l'altra non
continuava, mise su il broncio. «Ah… Bisogna
trovarsi sul punto di
morire per sentirsi dire le due paroline magiche?», sorrise,
inclinando la testa. «Allora
sarà…», si sedette, reggendosi le
costole, «per la prossima volta». Si
sfilò la maglia scura,
recuperando il proiettile incastonato nel giubbotto antiproiettile,
sotto il muto sgomento di Shaw.
Root
lo sollevò e lo scrutò, mettendo poi a fuoco
Shaw, che stava ancora
in silenzio. Le sorrise, vedendola finalmente muoversi, scuotere la
testa con la bocca aperta. Pensava si sarebbe arrabbiata e forse un
po' lo era, ma avrebbe sfidato chiunque a dire che quello nel suo
sguardo non era amore.
«Indossavi
un giubbotto».
«Ti
avevo detto che avrei fatto di tutto per tornare da te», si
ripulì
la bocca e sentendo Brandon gemere si voltò, decidendo di
muoversi.
Una
chiamata anonima mise in moto la polizia e, quando loro arrivarono al
vecchio ospedale, si ritrovarono davanti a una scena senza pari, fra
muri impallinati
come gruviera e uomini e donne uccisi a sangue freddo. L'ambulanza
accorse per recuperare i feriti più gravi e i poliziotti si
occuparono di trascinare sulle volanti tutti quelli che riuscivano
ancora a camminare. Brandon Norren era in una pozza di sangue in una
sala in compagnia di altri tre cadaveri; sembrava morto, ma aveva
solo perso conoscenza. Aveva perso molto sangue
e i paramedici si premurarono
di intubarlo immediatamente.
Un
poliziotto trovò il fuggiasco Daryl Boscoferro legato a una
porta
con un tubo d'idrante e il detective Fusco decise di riportarlo
dentro. In un momento dove nessuno poteva sentirli, gli chiese se
Root stesse bene e l'altro rispose che stava meglio di lui, che se
n'era andata con le sue gambe dopo che la psicopatica con lei lo
legò
come un salame. Gli stava aprendo la portiera dell'automobile quando
vide delle ombre in lontananza e strizzò gli occhi: Shaw e
Root
erano nascoste dalla vegetazione, dietro un albero, lontane dal
piazzale su cui sorgeva l'edificio ospedaliero. Shaw teneva Root
sottobraccio. Era viva. Fusco sorrise e loro si girarono per
allontanarsi, con Bear vicino. Lui sapeva che quello voleva essere un
addio, ma sapeva anche di non essere tanto fortunato. Boscoferro si
fermò e si voltò anche lui, così lo
spinse dentro in modo brusco:
«Muoviti, damerino».
«Stavi
per dirmi qualcosa, quando ero sulle tue braccia, prima».
«Non
credo».
«Mi
piacerebbe molto se riprendessi l'argomento».
«Ho
un vuoto di memoria».
Root
tentò di sbuffare ma facendole male il petto
lasciò stare,
reggendosi contro una panchina. Bear le si mise vicino come per
confortarla e Shaw le disse che, al momento di trovare sistemazione,
le avrebbe controllato il petto e la schiena. A Root sembrò
una
proposta allettante. Stavano per rimettersi in cammino, quando a un
tratto il telefono a poco dalla panchina iniziò a squillare.
Nessuno
sul marciapiede parve badarci a parte loro. Root scambiò uno
sguardo
con Shaw e si accostò alla cornetta, pronta ad ascoltare
ciò che la
Macchina aveva da dirle. Parlare con Lei al telefono era come
ritornare ai vecchi tempi. Ascoltò e Shaw la vide poco a
poco
cambiare espressione, dal sorriso felice a quello malinconico.
Riattaccò con le lacrime agli occhi.
«Cosa
ti ha detto?».
Root
prese fiato: «Addio».
Shaw
aggrottò le sopracciglia, seguendola con lo sguardo mentre
raggiungeva la panchina e si sedeva.
«Non
parlerà più con me»,
proseguì. La Macchina non lo aveva detto
chiaramente ma lo aveva fatto ben intendere: il problema di
comunicazione fra loro non apparteneva alla sua orecchia buona, non
dipendeva dal suo morire e tornare indietro, ma era dato dalla
Macchina stessa. Non poteva sistemare il fischio perché non
voleva.
Le stava lasciando la mano un poco alla volta. In verità non
ne era
stupita; era come se lo avesse sempre immaginato ma non era mai stata
pronta ad ammetterlo. «Vuole che io…»,
si fermò e alzò gli
occhi verso l'altra, sorridendo da orecchia a orecchia, «viva
la mia
vita».
La
Macchina era tutto ciò che aveva sempre sognato e ora
l'aveva
lasciata dicendole che temeva non potesse vivere appieno la sua vita
se poteva avere Lei. Un ostacolo alla sua realizzazione come persona.
Non lo era. Per Root non lo era, e forse anche questo era parte del
problema. La Macchina non aveva più bisogno di lei, magari,
ma lei
avrebbe sempre avuto bisogno della Macchina. Se non ci fosse stata
Shaw, probabilmente. Avrebbe dato di matto e avrebbe sfogato la sua
rabbia su qualcosa o qualcuno se la Macchina le avrebbe detto addio
in passato, ma era una persona diversa adesso, e aveva altri sogni,
aveva un obiettivo, aveva un fine e aveva una compagna. Amava
più
Shaw.
Bear
si accostò e le leccò il viso, sedendo davanti a
lei. Shaw guardò
lei, poi il telefono e dopo la telecamera, un po' più a
lungo. Annuì
un poco, come se avesse voluto che recepisse un messaggio da parte
sua.
«Beh…»,
mormorò, rigirandosi verso di lei, «Mi pare di
ricordare volessi
fare una vacanza: potremmo iniziare da lì».
Root
le sorrise, rialzandosi e riprendendo Bear per il guinzaglio,
così
si rimisero a camminare. «Ti amo».
«Me
lo hai già detto».
«E
tu mi…?».
«Root…
cammina».
Rise.
«Samantha. Credo tu possa chiamarmi Samantha,
adesso».
«Samantha…»,
le prese la mano libera e intrecciò le dita con le sue,
«accontentati».
Si
sorrisero, sparendo nella folla.
È
finitaaaa… Questo è l'ultimo capitolo ma in
effetti no, non è
proprio finita, e ci rileggeremo fra qualche giorno (non
farò
aspettare lunedì prossimo) per il breve epilogo :)
Amy
e Sarah si sono finalmente ritrovate e sembra proprio che la loro non
sarà più una relazione nascosta dal mondo,
dall'altra parte,
intanto, Root ha pensato bene di indossare un giubbotto
antiproiettile, mettendo che le possibilità di essere
sparata da
Lars erano alte, la Macchina le ha detto addio
e Shaw si è vista concedersi un futuro.
Bene…
come scrissi nello scorso capitolo, questa fan fiction mi manca
già.
Sono sempre stata una scrittrice da storie originali e le poche fan
fiction che mi sono messa a scrivere non sono mai state più
lunghe
di un capitolo, se poi contiamo che non ho mai scritto una storia in
due parti come questa, beh, è stata una vera e propria
sfida. Una
sfida che non sono certa di aver vinto.
Mi
è piaciuto scriverla e a un certo punto mi è
proprio piaciuta la
fan fiction e cosa stavo inventando, ma man mano che postavo i
capitoli online e li rileggevo, mi capitava più volte di
restarne un
po' a bocca asciutta. Mi spiego: mi è piaciuto creare la
storia in
due parti ma ho come la sensazione che, se avessi scritto le due
storie separatamente, avrei potuto osare di più. Tuttavia
c'è da
dire che se avessi scritto le storie separatamente non sarebbero mai
state così, o almeno per quanto riguarda la parte di Amy e
Sarah.
Per Root e Shaw sì, avrei potuto creare molto di
più, ma per Sarah
e Amy no, che la trovo molto più legata all'altra parte,
quella
dello show che, senza di esso… non credo l'avrei proprio
scritta.
Ci sono pro e contro.
In
ogni caso, se ho vinto o meno questa sfida spetta a voi lettori
dirlo!
E
per il resto… rimando questa discussione nell'angolo autrice
dell'epilogo che posterò a giorni :)
Spero
che il capitolo e che la storia in generale vi sia piaciuta ^_^
Ringrazio
ancora tutti coloro che mi hanno accompagnato in questa piccola
avventura e ci si rilegge all'epilogo ^^ Bye e... buon dolcetto o
scherzetto :3
|
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Capitolo 12 *** Epilogo ***
Root
e Shaw sparivano nella folla e partivano verso una nuova meta
sconosciuta allo spettatore, concludendo così la prima
stagione di
Shoot:
ultimate chance.
Una mattina Netflix rilasciò tutti gli episodi e su internet
non si
parlò d'altro, soprattutto in vista della Convention ormai a
pochi
giorni. I profili social di Sarah e Amy, già nel mirino per
le voci
sul divorzio di entrambe e per foto che le avevano ritratte assieme
fuori dall'ambiente lavorativo, furono bombardati di nuovi consensi,
screenshot, citazioni, domande da parte dei fan. Di tanto in tanto le
due rispondevano ringraziando in modo generale, senza far intendere
niente, né facendo cenno ad alcuna domanda. Sarah
postò su
Instagram una foto di lei con un rotolo di nastro adesivo in mano e
dietro degli scatoloni, con una frase che lasciava capire di essere
impegnata nel trasloco, e molti fan attenti ripostarono lo stesso
scatto mettendo in luce un particolare che si celava nello sfondo:
l'ombra di una donna. L'idea che quella donna fosse Amy
impazzò su
Twitter e Facebook, ma nessuna delle due si pronunciò a
riguardo.
Mantennero
il silenzio, o almeno fino al giorno della Convention.
La
sala era ricolma di gente pronta a far loro le domande più
disparate; molti restarono anche in piedi, essendo finiti i posti a
sedere. Il presentatore chiamò a turno tutti i nomi e quando
toccò
a Amy Acker prima e Sarah Shahi dopo gli spettatori urlarono di
gioia, gridando perfino dichiarazioni d'amore che fecero ridere
entrambe, provando a indicare da chi era partita la voce.
Mark
Hadford parlò a lungo delle parti tecniche dello show e
altri della
trama e di cosa volevano raggiungere con questa prima stagione. Se da
un lato Person
of Interest
aveva tra i suoi temi la liberazione della Macchina, con Shoot:
ultimate chance
avevano voluto trattare la liberazione di Root dalla Macchina.
L'amore di Root per Shaw e viceversa. Le paure e i tormenti di Shaw
dopo mesi trascorsi nelle mani di Samaritan, dopo settemila
simulazioni in cui si era uccisa per amore di Root, e il duro colpo
quando pensò di averla persa davvero. Coinvolgere un
personaggio che
veniva dal passato di Root era un ottimo modo per mettere lei in
pericolo e Shaw in allarme, e perché no in confusione,
credendo di
aver potuto inventare lei stessa un'idea del genere solo per avere
modo di salvarla.
Un
po' imbarazzata, Amy si tirò indietro un ciuffo ondulato dal
viso,
guardata da Sarah, e cominciò a parlare, gesticolando, di
come fosse
stato bello riprendere il ruolo di Root e darle in questo modo
un'altra occasione per vivere una vita felice, non mancando di
ringraziare tutti coloro con cui aveva lavorato per la grande
opportunità data. Lo stesso con parole diverse fece Sarah
che, fra
tutti, ringraziò la sua collega in particolare, mettendo in
silenzio
tutta la sala:
«Amy
Acker: con lei è sempre tutto più bello. Con lei
è facile entrare
subito nel personaggio, perché è un'attrice
straordinaria e perché
è piacevole stare in sua compagnia. Lavorare con lei non
è più un
lavoro», si girò a guardarla, vedendo che si
nascondeva il viso con
le mani per l'imbarazzo. «La ringrazio perché
è prima di tutto una
donna eccezionale… e un'amica, oltre alla mia
partner… collega»,
sorrise quando alcuni fischiarono e si scambiò uno sguardo
complice
con Amy, che sorrise a sua volta. «Okay, dai, ci sto
arrivando»,
aggiunse, lasciando gli spettatori incuriositi.
Sarah
e Amy si strinsero per mano e si sorrisero per gran parte del panel,
non era una cosa che passò inosservata, soprattutto non dopo
le
recenti speculazioni sulla foto postata su Instagram dalla prima e
per quelle dei siti di gossip che le avevano paparazzate insieme
uscendo da un centro commerciale con i gemellini della Shahi, se poi
entrambe avevano avviato le pratiche di divorzio le supposizioni
erano tante, anche lì in sala. Non sembravano affatto
nascondersi.
«E…
sì, allora», Sarah sorrise e guardò
l'altra che si lasciò andare
a una breve risata, fissò lo sguardo sul pubblico e poi di
nuovo su
di lei. «Amy ed io volevamo dire una cosa perché
le voci sono
arrivate anche a noi…», tornò seria,
«Online e in alcuni
giornali sono state pubblicate foto che ritraggono me e Amy al
supermercato… sì, eravamo al supermercato
insieme. Parlano tanto
dei nostri matrimoni ultimamente e poi escono queste foto,
insomma…
Molti hanno anche supposto che ci fosse Amy in ombra su uno scatto
che ho fatto col mio cellulare». Si schiarì la
gola, prima di
proseguire: «Dunque, ho sempre pensato che la vita privata
fosse
importante e sacrosanta», cominciò a parlare con
ancora più
serietà, inumidendosi le labbra, «Fintanto che si
tratta di rendere
pubblici i nomi dei miei figli va bene, è bello condividere
le cose
belle, ma a tutto c'è un limite. La verità
però è che in nome
della privacy, e perché no della paura, perché
alla fine la privacy su certe cose è davvero solo una scusa,
ho nascosto delle cose e anche queste cose sono importanti. E belle.
L'ho fatto da ragazzina e lo stavo facendo da adulta. Mi sono sempre
vantata di avere una mente aperta ma quando si tratta di altri e non
della tua vita è facile parlare, a volte».
La
sala era a bocca aperta, ascoltando senza battere ciglio, e lo stesso
il presentatore e tutto il cast e i produttori nella bancata. Kevin
annuì, trattenendo l'emozione, e Carl, che interpretava
Daryl
Boscoferro, aveva le lacrime agli occhi.
Amy
sorrise e Sarah le fece un cenno d'intesa con la testa.
«Sì, quello
che sto cercando di dire, arrivando al punto, è che le voci
sono
vere», sorrise con orgoglio, stringendo più forte
la mano
dell'altra, «Amy ed io stiamo insieme».
La
sala esplose in applausi e grida incontrollate, mentre la bancata
rideva insieme alle due. Kevin, vicino a Sarah, bisbigliò
qualcosa
ed entrambe annuirono, sorridendo. Molti fischiarono, quando Amy e
Sarah decisero di avvicinarsi e baciarsi a stampo, all'improvviso,
quasi per gioco. Sarah allungò lo sguardo e sorrise radiosa
vedendo
che sua madre stava là in fondo da qualche parte con il
piccolo Knox
in braccio, facendolo salutare. Ricambiò il saluto con un
altro
sorriso.
«Amo
questa donna», disse all'improvviso Amy ma, quando le
chiesero di
ripetere, si nascose il viso dietro le mani e scosse la testa. Sarah
l'abbracciò e il presentatore diede il via alle domande
degli
spettatori.
Da
quel momento in avanti, sarebbe stato tutto in discesa.
«Come
sarà adesso per Root e Shaw, che la Macchina ha detto addio
a
entrambe?», chiese una ragazza dal pubblico.
Mark
Hadford si scambiò un'occhiata con altri e decise di
rispondere,
seguito da una risata: «No spoiler, posso dire che a tutto
c'è un
modo».
Shaw
aspettava e batteva le dita sul banco così tanto da
infastidire gli
altri clienti, che si allontanarono con i propri drink in mano. Il
barista, con la giacca aperta che mostrava un fisico asciutto e
abbronzato, ritornò verso di lei, poggiando sul banco due
bicchieri.
Le chiese di aspettare e, insieme al ghiaccio e alla cannuccia, ci
mise due ombrellini colorati.
Le
sorrise in modo provocante, poggiando i gomiti sul banco.
«Senti,
posso farti una domanda? Ti sembrerà sciocca e non voglio
essere
invadente, ma… ho avuto modo di leggere il tuo e il nome
della tua
amica nella registrazione dell'hotel e… Sameen
Shaw,
proprio come quell'agente sotto copertura che ha aiutato la CIA ad
arrestare quei criminali, se non ricordo male… Wow, non mi
dire che
sei t-».
«No»,
chiosò con decisione, prendendo i due bicchieri. Lo
lasciò con la
bocca ancora aperta, scendendo dalla pedana in legno sulla spiaggia,
camminando sulla sabbia con le infradito ai piedi. Raggiunse due
sdraio davanti alla riva e allungò uno dei bicchieri alla
donna
seduta su quello alla sua sinistra.
Lei
sollevò gli occhiali da sole e sorrise, prendendo
così il suo
bicchiere. Shaw si sdraiò accanto e insieme si fermarono a
guardare
le piccole onde che il mare portava dolcemente verso la riva.
«Odio
che la Macchina mi abbia resuscitata», biascicò
prima di bere,
spostando l'ombrellino e infilandolo nella sabbia. Sameen
Shaw
era ufficialmente morta dopo che tentarono di ucciderla e Reese e
Finch le inscenarono l'assassinio qualche anno fa, fino a quando, il
giorno della partenza per la vacanza che tanto si meritavano, le due
avevano scoperto dai giornali, dal web e dalla televisione che Sameen
Shaw
era ancora viva e che poteva tornare alla luce essendo fuori pericolo
dopo che tutti i criminali che sotto copertura aveva aiutato a
catturare per la CIA non erano più delle minacce. La
Macchina aveva
costruito una storia e l'aveva divulgata. Non poteva essere stato
nessun altro se non Lei.
«Ti
ha liberata», le fece notare Root, sorseggiando il suo drink,
«Proprio come ha liberato me. Ti ha fatto un
favore».
«Adesso
tutti conoscono il mio nome».
«Ma
non la tua faccia», disse. Bevve e poi inghiottì,
giocando con la
cannuccia con le dita. «In ogni caso non mi preoccuperei,
Sameen:
sei solo il vip del momento, queste cose vanno e vengono in fretta e
nessuno si ricorderà più di te, tra qualche
mese».
Shaw
spostò le labbra dalla cannuccia e la fissò,
corrucciando lo
sguardo. Ci pensò un poco prima di annuire e sorridere,
sdraiandosi
di nuovo: le stava bene.
Una
cameriera camminò per la spiaggia reggendosi la gonna con
una mano e
con l'altra una busta di carta. Sudata e con il fiatone, si
avvicinò
alle due. «Signorina Shaw, signorina Groves: è
arrivata una lettera
per voi».
Root
si portò gli occhiali da sole sui capelli e Shaw prese la
lettera,
intanto che la cameriera riprendeva fiato e carica per rifare la
camminata di ritorno. Si stupirono di vedere che nella busta
apparivano solo i loro nomi e una data battuta a macchina ma, quando
si girarono per chiedere alla donna del destinatario, lei si era
già
dileguata. Shaw la aprì con attenzione, dopo aver cercato di
capire
che non potesse contenere qualcosa di pericoloso, ma era solo un
foglio. Lo tirò fuori e lo dispiegò, leggendo una
serie di numeri
su una riga e, più in basso, delle coordinate.
«A
te cosa sembra?», le domandò Shaw, roteando gli
occhi.
Al
contrario, Root sorrise: «Un lavoro».
Uh,
è finita. È finita davvero. Sigh.
Sarah
e Amy sono uscite allo scoperto e Shaw e Root, in vacanza, sono state
raggiunte da una singolare lettera. Chi l'avrà
scritta?
Ricordate
il discorso iniziato nell'angolo autrice sull'ultimo capitolo? Avevo
spiegato che, se avessi scritto separatamente le due storie, sento
che avrei potuto fare di più, se non altro ciò
che riguarda Root e
Shaw. Ebbene, dopo averci pensato a lungo e ascoltato i battiti del
cuore della mia ispirazione (?),
penso che non sia finita qui. Cioè, no, questa fan fiction
è finita
e finita resta, maaaa
potrei, in momenti di puro svago, mettermi a scrivere Shoot:
Ultimate chance
così come se fosse
la serie tv, ovvero
a episodi e non a capitoli, ma a parole e non a immagini. La
intendo scrivere per me, ma potrei pensare di pubblicarla una volta
che l'avrò finita :)
Sì,
andreste a conoscere meglio alcuni personaggi (tipo Brandon) e a
leggere scene di cui proprio non ho scritto (come quasi completamente
i primi episodi, di cui il primo è stato appena accennato
nel
capitolo 9), ma chiaramente la trama la conoscete già e
anche se
probabilmente alcune cose le scriverò diversamente, la fine e
lo svolgimento
resta
quello.
Di assolutamente nuovo ci sarà che, se scriverò
questa prima
stagione, forse
farò anche
la seconda perché ho tante ideuzze in proposito.
Ma
in definitiva, non prometto nulla. Magari a molti di voi (o anche
tutti XD) non interesserà per niente leggere una storia che
a tratti
avete già letto, ma nel caso la rigirerò qui su
EFP per
condividerla con chi avrà voglia di esplorarla di nuovo con
me o con
nuovi lettori :)
Anyway…
la scena di loro in vacanza è stata pensata per far parte
della
seconda stagione. Il resto dipenderà dalla mia
voglia/impegni/ispirazione/tempo.
Grazie
a T_Sky in particolare per aver recensito l'ultimo
capitolo e…
a tutti! A tutti, tutti, tutti quanti! Per aver letto, per aver messo
la fan fiction nelle varie liste, per aver commentato, per avermi
supportato, tutto! È stato divertente :D
Beh…
alla prossima ~♥
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