Il tema di Lara di rossella0806 (/viewuser.php?uid=773369)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Hotel Astor ***
Capitolo 2: *** Risveglio ***
Capitolo 3: *** La barca in miniatura ***
Capitolo 4: *** Lenta come una tartaruga ***
Capitolo 5: *** Bugie e Marsiglia ***
Capitolo 6: *** Voci di corridoio ***
Capitolo 7: *** Dubbi, dubbi e ancora dubbi ***
Capitolo 8: *** Un nuovo inizio ***
Capitolo 9: *** Presagio funesto ***
Capitolo 10: *** Perfetti sconosciuti ***
Capitolo 11: *** Mal di testa e panzerotti ***
Capitolo 12: *** La terrazza sul Duomo ***
Capitolo 13: *** La notte stellata ***
Capitolo 14: *** L'essenziale ***
Capitolo 15: *** Il tram ***
Capitolo 1 *** Hotel Astor ***
Scesi dal taxi che erano le quattro.
All'appuntamento
mancava ancora mezz'ora, così mi feci lasciare un paio di
vie prima del ritrovo che lui aveva scelto.
Non
conoscevo minimamente la zona in cui mi trovavo, ma la signora che mi
aveva accompagnato fino a lì era stata così
disponibile da fornirmi qualche indicazione utile, in modo da non
perdermi in quella caotica metropoli.
Cominciai
a camminare lungo uno dei ponti che sovrastava il Naviglio, mentre il
traffico tutto attorno mi scansava con sapiente eleganza e maestria.
Indossavo
un vestito blu chiaro che arrivava poco sopra le ginocchia e dei
sandali beige con dei minuscoli strass sul dorso.
Più
proseguivo e più sentivo le mani sudarmi: mi toccai
istintivamente i capelli castano chiari, raccolti in uno chignon
sgangherato, in un gesto che tradiva tutta la tensione che mi faceva
assomigliare ad una corda di violino; ero emozionata, non potevo
negarlo neppure a me stessa, ma anche desiderosa di incontrarlo.
Per
una frazione di secondo, però, la mia mente fu attraversata
dall'incertezza: era giusto quello che stavo per fare? Quanto mi
avrebbe fatto soffrire l'attrazione magnetica e senza riserve che
avvertivo per lui? E, soprattutto, quanto tempo sarebbe durata quella
storia ai limiti della clandestinità?
Ma
non ebbi alcuna remora a rispondermi immediatamente, convincendomi che
lo amavo, che il mio era vero amore, e che questo sarebbe bastato per
l'avvenire ed oltre.
Guardai
con ansia l'orologio nero da polso, accorgendomi che erano
già trascorsi venti minuti.
Mi
incamminai finalmente verso la meta tanto agognata, domandando per
sicurezza ad una ragazza che stava portando a passeggio un barboncino
se quella fosse la strada giusta e, ricevendo risposta affermativa,
proseguii ancora per qualche decina di metri.
Arrivai
davanti all'insegna spenta e poco rassicurante dell'albergo che, di
lì a breve, ci avrebbe accolti, il cuore talmente in
fibrillazione che temevo sarebbe uscito dal petto.
Hotel Astor
rappresentava la mia terra promessa, era ciò per cui avevo
lottato negli ultimi anni, il posto che bramavo da tempo infinito.
Un
brivido di piacere e paura percorse la mia schiena, mentre fissavo la
scritta davanti a me: mi ero immaginata un ritrovo diverso, una sorta
di nido d'amore a cinque stelle, in contrasto quindi con le tre che
poteva vantare, ma era pur sempre meglio di una pensioncina di
second'ordine, e persino di un infimo motel costruito ai lati
dell’autostrada.
Non puoi e non vuoi tornare
indietro ... continuavo a ripetermi, tormentandomi le
dita.
In quei momenti, l'unica cosa per cui pregavo era di piacergli: speravo
infatti di aver scelto l’abito giusto, di essermi spruzzata
il profumo migliore, né troppo dolce e neppure troppo amaro,
di aver acconciato con eleganza i capelli.
Avrei
voluto avere uno specchietto in cui riflettermi, in modo da poter
ritoccare il trucco appena accennato che avevo deciso di spalmarmi sul
viso.
Stavo
aprendo la borsetta bianca alla ricerca del telefonino,
l’unico oggetto che avrebbe potuto servire al mio scopo,
quando avvertii dei passi avvicinarsi alla mia persona, e di scatto mi
voltai.
E
fu il paradiso, perché lui era lì.
“Ciao
…” mi salutò con un sorriso un
po’ tirato, sfiorandomi il braccio sinistro con una mano.
“Ciao
…” ero così nervosa che non mi
uscì null'altro di più sensato.
“Che
dici, entriamo?”
Annuii
felice, gli occhi verdi trasognanti in quelli ambrati e vivaci di lui.
Salimmo
i cinque gradini che ci dividevano dalla soglia, facendo il nostro
ingresso in quell'albergo di fine anni Sessanta, la hall dalla forma
circolare e le tonalità dell'oro ad attenderci.
Dall’esterno,
avrei giurato che saremmo sembrati la più normale delle
coppie, magari spossata dopo un infinito giro turistico per la
città.
Certo,
poteva apparire tutto perfettamente normale, eccetto per un
particolare: io non ero la sua compagna ufficiale, ero solo la sua
nuova amante.
La
camera che aveva prenotato si trovava al quarto piano, in
prossimità dell'uscita di sicurezza.
Era
la stanza più discreta del lungo corridoio che percorremmo
per raggiungerla, adornato da riproduzioni di quadri di Van Gogh e
minuscoli tavolini rotondi da cui strabordavano piante grasse.
Le
cifre sulla porta immacolata recitavano il numero 433.
Mentre
lui apriva l'ingresso, di nuovo avvertii quella strana sensazione e
quel brivido d'incertezza infantile percorrermi la schiena, esattamente
come pochi minuti prima.
Deglutii
nervosa ed eccitata, non potendo far altro che ammirare la bellezza di
quelle mani che mi invitavano ad entrare.
Il
rumore della porta che si richiudeva dietro di noi era come musica per
le mie orecchie, come una delle sinfonie di Beethoven che adoravo
ascoltare nei momenti di riflessione.
“Se
vuoi, faccio portare dello champagne …” propose,
avvicinandosi pericolosamente a me.
“Non
lo so, cioè, non credo sia necessario, però
…”
“Sei
nervosa?”
La
sua voce flautata risuonò nella stanza, formata da un ampio
letto con il copriletto rosso, un armadio che occupava un'intera parete
ed uno scrittoio con due sedie, sopra cui era stata posizionata una
televisione dallo schermo ultrapiatto.
Lui
mi abbracciò con quella dolcezza che tanto avevo amato, fin
dal primo istante, e mi ritrovai con il capo sul suo petto, avvolto da
una camicia azzurrina.
Il
profumo che gli avevo sempre sentito addosso mi stava inebriando i sensi, risaliva
come un piacevole effluvio per le narici e si addentrava tra i miei
neuroni, tanto che, per un istante, temetti di svenire.
“Non
devi avere paura. Andrà tutto bene, te lo
prometto”
Mi
allontanò con dolcezza e, le mani ai lati del mio viso, lo
avvicinò al proprio, per baciarmi subito dopo.
Fu
un bacio bellissimo, un bacio lento e calibrato, che esprimeva tutto il
calore che fuoriusciva dai nostri corpi vagamente sudati per il caldo.
Ero
così felice, così stordita, che desideravo
solamente che quel momento non avesse mai fine.
Volevo
rimanere lì per sempre, non mi importava del resto: l'unica
cosa che mi interessava era che lui fosse con me, che mi stringesse tra
le sue braccia e mi amasse, fino alla fine dei tempi, fino allo
stordimento, fino alla stanchezza più totale.
Cominciammo
a retrocedere verso il nostro giaciglio, che ci premurammo di scoprire
dal copriletto infuocato che lo avvolgeva.
Senza
guardarlo negli occhi, presi a sbottonargli la camicia, mentre lui si
slacciava i pantaloni.
Quando
finimmo quel primo passo, aspettai che mi calasse le spalline del
vestito, gesto che non attardò ad arrivare, rivelando la
voluta assenza del reggiseno sotto di esso.
L'abito
si adagiò su se stesso, attorcigliandosi sul parquet
scricchiolante come un serpente in preda all'ipnosi degli incantatori
indiani.
Mi
tolsi i sandali e lui fece lo stesso con i mocassini Lumberjack color
castagna.
Finalmente
fummo pronti per adagiarci sul letto, il momento che maggiormente avevo
temuto e, in tutta sincerità, ancora temevo.
Lui
mi attirò a sé, continuando a baciarmi e
sovrastando il mio corpo protetto solo da un paio di slip bianchi.
Cominciai
a respirare affannosamente, durante un attimo di tregua in cui le
nostre bocche avevano smesso di cercarsi, mentre mi sussurrava ad un
orecchio di stare tranquilla, di non preoccuparmi di nulla,
promettendomi ancora una volta che sarebbe andato tutto per il meglio.
Poi,
spostò le sue belle labbra sui miei occhi, quindi sul naso,
sul collo e sulle spalle, regalandomi continui sprazzi di sogno.
In
quei momenti, pensavo solamente a quanto fossi felice, veramente felice
ed appagata: non desideravo niente se non lui, lui che era diventata la
mia ossessione, lui che era lì insieme a me, lui che mi
avrebbe protetta da tutto e da tutti.
Mi
prese le mani e le intrecciò alle sue, stringendo con forza
e delicatezza le mie dita, come se non volesse più lasciarle
andare.
Inarcai
la schiena in un brivido di piacere, aspettando che tutto
finì.
E
così accadde, infatti.
Ma
quella, ero convinta, non era la fine di nulla, era piuttosto l'inizio
di tutto.
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Capitolo 2 *** Risveglio ***
Ho visto
un posto che mi piace, si chiama Mondo
Dove vivo
non c’è pace ma la vita è sempre intorno
Più
mi guardo, più mi sbaglio, più mi accorgo che
dove
finiscono le strade è proprio lì che nasce il
giorno
Ma questo
è il posto che mi piace, si chiama Mondo …
Sì,
questo è il posto che mi piace …
(Cesare
Cremonini, “Mondo”, 2010)
Il
giorno in cui mi risvegliai, ormai quattro anni fa, lui fu la prima
persona che vidi.
Ero
sdraiata in un letto asettico, circondata da strani macchinari e pompe
infusionali, con le braccia fasciate per nascondere gli aghi che, in
quei mesi, mi avevano alimentata ed idratata.
Sbattei
le palpebre più volte, perché non riuscivo a
mettere a fuoco tutti i particolari che mi attorniavano: era come se
avessi un velo di nylon che mi impedisse di guardare, che mi dividesse
dai presenti, eclissandomi nel mio forzato obnubilamento.
Cercai
di alzare la testa, facendo leva sui gomiti, ma dei dolori laceranti mi
impedirono di realizzare il mio intento.
Era
infatti come se avessi delle lance che puntassero ferocemente contro le
tempie e la nuca, oltre ad una vaga nausea che mi permeava la bocca e
la gola.
Pensavo
che, di lì a poco, avrei vomitato, tanto che urlai di
portarmi un catino, uno straccio, insomma qualcosa per non sporcarmi.
Ma
la mia voce non voleva sentire ragione di uscire, era come se le mie
corde vocali si fossero atrofizzate.
Mi
ritrovai a boccheggiare alla stregua dei pesci, mentre le mie pupille
riprendevano lentamente a mettere a fuoco.
“Eccola
qui la nostra campionessa! Come ti senti, Lara? Sono il dottor Cavani,
il neurochirurgo che ti ha seguito in questo periodo. Sei in ospedale,
nel reparto di Terapia Intensiva, perché tre mesi fa hai
avuto un piccolo incidente. Abbiamo dovuto indurti il coma
farmacologico, in modo da non rischiare che il tuo sistema nervoso
subisse delle ripercussioni. Adesso, però, la cosa
più importante è avvertire la tua famiglia che ti
sei risvegliata e che è andato tutto bene. È
fuori che aspetta di entrare, al resto penseremo dopo, non
preoccuparti”.
Mi
sfiorò una guancia e mi fece l'occhiolino.
Tanto
bastò perché quell'uomo sui trentacinque anni, la
barba castana incredibilmente curata e gli occhi color ambra, mi
apparisse come l'angelo salvatore: lo so che potrebbe sembrare melenso
e, forse, addirittura esagerato, ma vi posso assicurare che, conciata
com'ero in quel momento, lui incarnava davvero colui che mi aveva
sottratto alla morte.
E
poi, non bisogna dimenticare che, sebbene fossi stata estubata, ero
ancora sotto l'effetto della morfina, che mi aiutava a non sentire
troppo dolore -nonostante il ricordo delle recenti fitte alla testa
fosse ancora ben vivido dentro di me-, custodendomi in quel guscio
attutito che divide la realtà dalla fantasia.
Il
mio eroe si abbassò su di me ed estrasse da una mano una
piccola torcia: la accese senza preavviso, puntandomi contro la luce
fastidiosa che emanava, muovendola di lato, in alto ed in basso e,
infine, direttamente nelle iridi.
Le
mie pupille reagirono malamente a quello stimolo, chiudendosi
all'istante, ma questo doveva essere stato un buon segno,
perché annuì soddisfatto.
Mormorò
qualcosa alle due infermiere lì presenti e al collega
anestesista, quindi uscì attraverso la porta automatica, le
mani affondate nelle tasche del camice immacolato.
Mi
sembrò di vedere un sorriso di trionfo e di dolcezza
affiorare sul suo bel viso, simbolo che il suo lavoro era stato
ricompensato dal mio risveglio, ma forse era stata solo una mera
suggestione.
E
fu in quel momento che, finalmente, pensai alle parole che mi aveva
detto: ero stata in coma per tre mesi, avevo avuto un incidente
– quale, di grazia? Perché io, per quanto mi
sforzassi, davvero non riuscivo a ricordare cosa fosse accaduto- e mi
trovavo allettata nel reparto di Terapia Intensiva.
Beh,
forse l'ordine delle parole non era proprio lo stesso con cui lui si
era espresso, ma il risultato non cambiava, un po’ come
recitava la famosa proprietà commutativa
dell’addizione, una delle poche regole matematiche che ancora
ricordo.
Sdraiata,
con le infermiere poco più mature di me che mi rivolgevano
sinceri sorrisi in stile “Bentornata nel mondo dei vivi,
cara”, cercai di portarmi una mano alla testa, questa volta
con più calma.
Scelsi
l’arto destro, quello meno riempito di tubicini e fili, e
ciò che scoprii non fu affatto piacevole.
Dovevo
essere un mostro, mi convinsi, perché avevo parte della
testa coperta da una benda elastica, sotto cui si estendeva un impacco
di garze che, venni a sapere poco tempo dopo, celava l'ingresso della
mia derivazione ventricolare esterna, una sorta di ennesimo catetere
con la funzione di drenaggio per rimuovere il liquor in eccesso nel mio
cervello, e collegata ad una specie di colonna di plastica numerata per
controllarne costantemente la quantità.
Sempre
più tardi, mi venne spiegato che, nelle ore immediatamente
successive al mio incidente - di cui, però, tutti si
premuravano di non lasciarsi sfuggire nemmeno una sillaba-, avevo
dovuto subire un intervento all'encefalo, per questo avevo i capelli
cortissimi.
Chiesi
uno specchio, ma ancora la mia voce faticava a farsi sentire, forse per
colpa del sondino naso gastrico, l’ennesima diavoleria da cui
ero stata colonizzata.
“Non
avere fretta, Lara” si premurò di rassicurarmi una
delle infermiere, alta, la chioma riccia e gli occhiali, avvicinandosi
per controllare la sacca vescicale ai piedi del letto.
Ma
certo che ho fretta! Avrei voluto risponderle, accidenti!
Come
avrei potuto subire passivamente tutto ciò che mi stava
accadendo? Avevo il diritto di sapere, di conoscere cosa mi fosse
successo, eppure nessuno si premurava di spiegarmi nulla.
In
quel momento, a risollevarmi dall’angoscia e dal senso di
smarrimento che stavo cominciando a provare, entrarono i miei genitori
e i miei fratelli, Giada e Matteo, l’entusiasmo fatto persona.
A
pensarci bene, forse non si riversarono tutti in massa,
perché lo spazio in cui mi trovavo non era per nulla
agevole, a causa dei macchinari e delle due infermiere ancora presenti.
Quello
che mi ricordo ancora molto bene, invece, fu l'abbraccio e le lacrime
di mia madre, che mi strinse talmente forte da temere di perdere i
sensi.
Non
riesco a quantificare, invece, per quanto tempo la mia
famiglia poté fermarsi, probabilmente poco,
perché poi caddi in un sonno profondo, dove le voci
arrivavano ovattate, fino a scomparire del tutto.
Quando
mi svegliai, lui era lì, e mi disse che avevo dormito
quattro ore.
Era
seduto sul bordo del mio letto, in fondo ai piedi, come se non volesse
disturbare.
Aveva
le mani intrecciate sulle ginocchia, e mi salutò con il
solito sorriso caldo e suadente che avevo adocchiato prima.
“Come
stai, Bella Addormentata?”
Deglutii
qualche volta, sperando che la voce fosse ritornata.
“Bene
… ma …. sono … stanca”
riuscii a mormorare.
Avevo
il respiro lievemente in affanno, sebbene mi accorsi di aver calato sul
viso una sorta di maschera trasparente, con gli elastici che si
congiungevano dietro il capo.
“Ti
aiuta a respirare meglio” mi spiegò indicandola,
intuendo i miei pensieri.
“Contiene
del semplice ossigeno, che però permetterà ai
tuoi polmoni di espandersi come facevano fino a pochi mesi fa”
Cercai
di annuire, ma una fitta in prossimità della derivazione mi
costrinse ad assumere un'espressione di sofferenza.
“Quel
tubicino, invece, serve per non farti gonfiare la testa come un
pallone! Te lo abbiamo messo dopo l'operazione a cui sei stata
sottoposta”
Sorrise
nuovamente e si alzò dal suo angolino, per venire a
controllare la mia interessantissima fasciatura.
“Direi
che va bene … se premo così, in questo modo, ti
fa male?”
“No”
Sotto
il suo tocco delicato e professionale, chiusi gli occhi, avvertendo per
la prima volta quel profumo che tanto avrei amato.
“Questa
la toglieremo tra qualche giorno, dopo che faremo la TAC di controllo:
non devi preoccuparti, è un esame indolore e breve, che ci
aiuterà a capire come sta il tuo cervello”
“Quanto
… tempo … dovrò … rimanere
… qui?”
Lui
tornò al suo posto, in fondo al mio letto, ma questa volta
rimase in piedi.
“Beh,
a questa domanda non so ancora risponderti. Diciamo che una buona parte
dipenderà dalla tua volontà di ripresa, che sono
sicuro non mancherà, ma molto sarà determinato
dall'esito degli esami strumentali a cui ti sottoporremo, per valutare
le condizioni del tuo cervello. Ah, ovviamente dalla prossima settimana
verrai trasferita in reparto, dove potrai iniziare le sedute
riabilitative con la logopedista ed i fisioterapisti”
Cercai
di annuire, immaginando il calvario che mi avrebbe aspettato.
“Che
… giorno … è …
oggi?”
“Mercoledì,
precisamente le diciotto e trenta di mercoledì 20
aprile”
Nell'udire
le sue parole, puntuali e tinte di una vaga sfumatura ironica, mi
sembrò di essere un'extraterrestre proveniente da un pianeta
lontanissimo, un pianeta in cui il tempo e le stagioni non esistevano.
O
meglio, esistevano, ma erano profondamente dilatati e soggettivi.
“Adesso
ti lascio riposare. Ciao, Lara, ci vediamo domani mattina”
Mi
accarezzò una mano, anche se sarebbe meglio dire che me la
sfiorò e, sorridendo mestamente, uscì attraverso
la porta automatica.
Attesi
che la sua ombra svanisse nel corridoio, quindi richiusi gli occhi,
solo per qualche secondo.
Mi
sentivo sfinita ed intontita: mi ricordo che cercavo di stringere le
mani a pugno e di sollevare le gambe, ma i movimenti che ne seguivano
risultavano incredibilmente rallentati.
Avevo
sentito in un programma TV, qualche tempo prima, che le persone in coma
perdono le capacità cognitive in virtù di quelle
non cognitive: possono insomma continuare a sentire, a percepire delle
presenze attorno a loro, così come la respirazione e la
circolazione sono pressoché mantenute intatte,
però non riescono ad interagire con l’ambiente che
le circonda.
Io
credo che dipenda molto dalle caratteristiche del singolo: ad esempio,
per quanto riguarda la mia esperienza, non ho visto alcuna luce
irraggiarmi prima del mio fatidico risveglio, sebbene posso azzardare
di affermare che, forse, in quei tre mesi, mi era stato possibile per
davvero distinguere rumori, suoni e voci, a cui ero comunque
impossibilitata restituire un volto.
Scacciai
quelle riflessioni troppo profonde per quei momenti delicati,
concentrandomi sulla forza di volontà che avrei impiegato
per riprendermi completamente, il più presto possibile.
Speranzosa
e piena di iniziative, voltai il viso verso la parete alla mia destra,
dove mi accorsi che si apriva un’ampia vetrata, le tapparelle
abbassate a metà: lo so, appena atterrata dal mio nuovo
Paese straniero, non vi avevo fatto caso, ma quello scorcio anonimo,
composto dal cortile interno dell'ospedale e macchiato di qualche abete
e aiuola in fiore, era la cosa più bella e più
pura che avessi mai visto in tutta la mia vita.
Ciò
che era accaduto prima, infatti, per me rappresentava ancora l'oblio.
Don’t
give up, because you want to be heard. If silence keeps you, I ... I
will break it for you.
Don’t
give up, it’s just the hurt that you hide. When
you’re lost inside, I ... I will be there to find you.
Già,
neppure io mi sarei arresa, ma avrei lottato per riappropriarmi del
passato che mi era stato tolto.
La
canzone finale è di Josh Groban, “You Are Loved
(Don’t Give Up)", 2006
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Capitolo 3 *** La barca in miniatura ***
Abbiamo
gambe
per
fare passi
trovarci
persi
e
avvicinarsi e poi
Abbiamo
bocche per dare baci
o
meglio dire
per
assaggiarci […]
Abbiamo
mani per afferrarci
girare
insieme
come
ingranaggi e poi
Abbiamo
occhi
con
cui vediamo
ma
se li chiudi
ci
riconosciamo
(Nek, “Fatti avanti amore”, 2015)
Mi
sentivo frastornata. Piacevolmente frastornata.
E
felice. Tanto felice.
Lui
si staccò da me, dopo avermi regalato l'ennesimo bacio su
una spalla.
Eravamo
entrambi supini, incollati l'uno all'altra, e sudati per il caldo e
l'eccitazione dei momenti appena trascorsi.
Avevo
paura di sfiorare la sua mano, il suo corpo, perché temevo
che, da un momento all'altro, si sarebbe alzato, rivestito in fretta e
furia, lasciandomi lì da sola, in quell’anonima
stanza d'albergo.
Se
ciò fosse accaduto, mi sarei sentita per davvero una poco di
buono, una novella prostituta che aveva semplicemente soddisfatto i
suoi bisogni sessuali, e che adesso rischiava di essere scaricata con
qualche banconota come mera ricompensa materiale.
Ma
non volevo che finisse così, non era giusto.
Dopo
tutto quello che avevo aspettato per averlo con me, dopo che avevo
lottato affinché lui si accorgesse di me, perché
almeno in parte mi appartenesse, contavo che non mi avrebbe delusa.
“Ti
amo …” mormorai, ben conscia che quelle due parole
disinteressate avrebbero potuto suscitare una reazione ignota.
Lui
voltò il viso verso di me, sorridendomi in quel suo modo
suadente ed ironico.
Era
stato così dolce, lui era così dolce, che quasi
mi faceva tenerezza.
Si
mise comodo su un fianco, reggendo il peso con il gomito, e mi
fissò negli occhi, continuando a mantenere quell'espressione
sorniona sul volto ricoperto di barba, fino a quando mi
baciò con una passione talmente inaspettata che cercai
quasi di respingerlo, ma ovviamente non lo feci.
Si
adagiò nuovamente su di me, intrecciando le sue dita con le
mie, e riprendemmo da dove avevamo concluso, appena pochi minuti prima.
“Sei
il mio piccolo angelo …” sospirò ad un
orecchio, il respiro lievemente in affanno.
In
tutta risposta, grugnii qualcosa che avrebbe dovuto assomigliare ad un
“tu sei il mio
angelo”, ma la felicità e
l'appagamento che sentivo invadermi non mi permisero di formulare una
frase di senso compiuto.
Stavo
toccando il Paradiso con un dito, anzi, con tutte e dieci le dita.
Perché tutto questo
dovrebbe finire? mi domandavo, perché esiste il
tempo che, con le sue ferree e imperturbabili regole, ci impedisce di
vivere a nostro piacimento, di scegliere quando e se fermarci?
Scacciai
quei pensieri filosofici, anzi, forse non li formulai nemmeno in quel
momento, intontita com'ero, ma sicuramente vi riflettei più
tardi, quando appunto tutto finì.
Erano
trascorse più di due ore, ormai, e fuori dalla finestra
accostata si udiva distintamente il traffico della metropoli.
Era
strano, riflettei, che non mi fossi ancora accorta dei rumori che
provenivano dalla strada sottostante, ma mi consolai dicendomi che ero
stata occupata da ben altre questioni.
Preoccuparmi
della gimcana di automobili impazzite, della sfilata di motorini
truccati, del corteo di tram ed autobus affollati all'inverosimile,
infatti, attualmente non rientrava tra le mie priorità.
Uscimmo
dalla stanza 433 che erano quasi le sette di sera.
Prima,
però, facemmo una doccia veloce, rigorosamente separata, e
ci rimettemmo gli stessi abiti che ci eravamo quasi selvaggiamente
tolti: io il mio vestito di cotone blu chiaro, e lui la sua camicia
azzurra Ascot e i suoi pantaloni Levi’s color terracotta.
Recuperammo
sandali e Lumberjack, la borsetta a tracolla che non ricordavo neppure
dove fosse andata ad imboscarsi -ma che ritrovai dispersa sulla
minuscola poltrona a fiori semi nascosta dietro la porta d'entrata- e,
finalmente, potevamo considerarci pronti per ritornare tra la gente.
Quando
arrivammo alla reception, il mio accompagnatore mormorò
qualcosa al concierge, restituendogli subito dopo la chiave con cui
avevamo sigillato il nostro nido d’amore.
“Gli
ho detto di tenerci la stessa camera anche per la prossima settimana
…” mi spiegò innocentemente, passandomi
la mia carta d'identità con cui avevamo dovuto registrarci.
Io
annuì con un sorriso, confermando il mio entusiasmo con un
semplicissimo bene.
Uscimmo
nella giungla cittadina con il sole che ci abbagliava: mi coprii la
fronte con una mano, socchiudendo infastidita gli occhi verdi.
“Ti
va di andare a mangiare qualcosa?”
Lui
mi prese la mano libera, intrecciandola in quel suo modo che ormai
conoscevo così bene, quindi mi spinse sul marciapiede, in
attesa di attraversare la strada e raggiungere il ponte che sovrastava
il Naviglio.
“Sì,
sempre che tu abbia ancora un po’ di tempo
…”
Già,
ecco che il fattore tempo tornava a farsi vivo in maniera subdola e
prepotente, ricordandomi che, almeno ufficialmente, non ci
appartenevamo.
Anche
se, dopo quello che c'era stato tra di noi, faticavo per davvero a
convincermi del contrario.
“Ti
ho già detto che non devi preoccuparti. Oggi esisto solo per
te. Per te e per nessun altro, capito?”
Speravo
che mi baciasse, un modo infantile e decisamente romantico per
suggellare quelle frasi, ma comprendevo quanto si stesse già
esponendo, passeggiando insieme e, per di più, mano nella
mano.
Camminammo
una decina di minuti, fino a quando si fermò, indicandomi un
piccolo ristorante alla nostra sinistra.
Era
molto grazioso, almeno a vederlo dall'esterno, abbellito da una barca
in miniatura rossa, blu e bianca.
Vi
era un gazebo con le pareti e il tetto decorati da motivi intrecciati,
sotto il quale stava mangiando una mezza dozzina di coppie straniere.
“Che
ne pensi? A me ispira, e a te?”
Anche
a me piaceva, non potevo negarlo, però non sapevo se fosse
la soluzione più giusta.
Insomma,
l'ospedale in cui lavorava distava meno di due chilometri in linea
d'aria, e non avrei mai voluto che qualche suo collega o conoscente ci
incontrasse.
Temevo
di fargli fare una pessima figura, soprattutto dopo avermi confessato
che, quel giorno, era uscito prima dalla struttura con la scusa di un
improrogabile impegno personale fuori città.
Volevo
solo il meglio per lui, non desideravo in alcun modo ferirlo o
impedirgli di fare carriera.
“Allora?
Entriamo?” mi risvegliò dai miei pensieri,
stringendomi un braccio ed alzando un sopracciglio.
“Sì,
si certo”
Un
cameriere più o meno della mia età ci venne
incontro con aria professionale, domandandoci se preferissimo cenare
all’interno o all’esterno.
Lui
ed io ci guardammo, d'accordo a farci apparecchiare sotto il bel gazebo
dietro di noi.
Il
ragazzo ci fece accomodare in un angolo appartato, forse intuendo la
natura del legame che ci univa.
Quando
fummo seduti, lui mi sorrise e mi prese una mano.
“Sono
molto contento di averti qui con me. Oggi pomeriggio mi hai reso felice
come non lo ero da tempo”
Lo
guardai negli occhi ambrati, soffermandomi per qualche istante in quel
mare di purezza che lui rappresentava per me.
Arrossii,
almeno era la sensazione che avvertii: mi sfiorò una guancia
semplicemente con un dito, come a voler cancellare quel pudore
così infantile ed inaspettato che mi aveva colorato le gote.
“Tu
mi rendi sempre felice con la tua sola presenza ...”
replicai, incoraggiata dal suo gesto.
In
quel momento, arrivarono i menù, distogliendoci dalle nostre
melense dichiarazioni reciproche.
Non
ebbe il tempo di rispondermi, ma forse non c'era poi molto altro da
aggiungere.
Prenotammo
due antipasti misti e due primi piatti, innaffiando il tutto con una
caraffa di vino bianco.
Finimmo
di cenare un'ora e mezza dopo, quando il locale era ormai gremito di
turisti e avventori del posto.
Andò
a pagare e, sussurrandomi ad un orecchio, mi promise che la prossima
settimana avremmo di nuovo fatto una capatina lì.
Poi,
sottobraccio, ci avviammo verso la sua automobile, una Lancia Flavia
grigia che aveva parcheggiato a una quindicina di minuti dall'albergo.
Non
ripercorremmo lo stesso itinerario, però, preferendo
addentrarci lungo le strade parallele in cui si trovava l’Hotel Astor,
camminando al chiaro di luna, in una serata ancora vagamente afosa.
Procedevamo
fianco a fianco, incontrando qualche raro passante in compagnia del suo
amico a quattro zampe, e comitive di ragazzi in attesa di sbronzarsi.
Mi
sentivo leggera ed appagata: pensavo che era bello far finta di essere
una qualunque coppia di ritorno da una cenetta romantica, che aveva
appena condiviso momenti tanto intimi.
“Uno
di questi giorni mi piacerebbe portarti a mangiare in un locale che ha
aperto da poco, vicino al Duomo. Si mangia molto bene e
c’è una vasta scelta di take-away”
“E’
giapponese?” volle sapere, dedicandomi un’occhiata
dubbiosa.
“Sì,
ma non solo. Perché me lo chiedi? Non ti piace la cucina
asiatica?”
“Tutt’altro,
la adoro. La mia era semplice curiosità”
Stavamo
quasi inciampando in un avvallamento del marciapiede, quando io lo
sorressi e ci mettemmo a ridere come due stupidi.
“Forse
abbiamo bevuto troppo!” esclamò retoricamente,
anche se posso giurare che non avevamo affatto esagerato.
“Saremo
ubriachi d’amore …” azzardai, facendo
spallucce e trascinandomi dietro di lui.
La
luce artificiale dei lampioni rischiarava i nostri visi: nei suoi occhi
leggevo la felicità, l’entusiasmo del momento,
mentre mi domandavo che cosa avrebbe potuto decifrare sul mio volto.
Compiacimento?
Allegria? Incredulità? Non glielo domandai, probabilmente
perché mi andava bene così, qualunque fosse la
sua interpretazione, perciò continuammo la passeggiata
notturna come se nulla fosse.
Mezz'ora
più tardi, arrivammo davanti al convitto in cui alloggiavo
durante l'anno accademico, un ex convento di suore benedettine
ristrutturato negli anni Ottanta.
Si
sporse per baciarmi sul collo e poi sulla bocca, ringraziandomi per la
bella serata che gli avevo regalato.
“Grazie
a te” gli accarezzai il viso e lo abbracciai, inspirando il
profumo che traspariva dalla sua camicia.
“Ti
chiamo domani, dopo che ho finito il turno”
Io
annuì, abbozzando un sorriso, e finalmente scesi.
Recuperai
la chiave del portoncino dalla borsetta, quindi mi voltai per salutarlo
con la mano.
Lui
era ancora lì, pronto a ricambiare il mio gesto, sgommando
subito dopo per tornare dall'altra.
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Capitolo 4 *** Lenta come una tartaruga ***
Spesso
è la tenacia, non il talento, che governa il mondo.
(Julia Cameron, giornalista,
regista, sceneggiatrice e produttrice cinematografica americana, 1948)
Due
settimane dopo il mio risveglio, mi stavo lentamente riprendendo.
Ero
stata trasferita in Neurochirurgia, dove condividevo la camera con una
sessantenne isterica, che non faceva altro che tiranneggiare il povero
malcapitato del marito.
Lei
era una donna minuta, la carnagione lattea e ricca di efelidi, ma
vantava un tono di voce incredibilmente acuto: era logorroica fino allo
sfinimento, mentre il consorte era alto e timido, occhialuto, la testa
brizzolata e mezza calva che ricordava un uovo.
Quel
giorno diluviava ed io ero profondamente delusa di me stessa e dei miei
non progressi: come ogni mattina e pomeriggio, infatti, erano venute la
logopedista, la dottoressa Mazza -una donna di qualche anno
più grande di me, i capelli biondi tagliati a caschetto e
gli occhi scuri nascosti dietro un paio di occhiali D&G- e le
due fisioterapiste, Marzia e Simona, che godevano di un'immensa
pazienza nei miei confronti, qualità che non ricambiavo
minimamente.
Dal
canto mio, quel paio di ore giornaliere -suddivise equamente tra le tre
donne- non faceva altro che irritarmi.
Non
riuscivo, infatti, a notare alcun minimo miglioramento, se non che la
voce mi era ricomparsa quasi completamente, ma dal punto di vista
muscolare era come se mi fossero rimasti solo ossa e tendini.
A
riprova del mio sconforto, ad esempio, posso riportare un episodio
davvero frustrante.
Marzia,
qualche giorno prima, aveva cercato di rimettermi in piedi,
convincendomi che ero pronta per quell’importante traguardo.
“Insomma”
mi spronava “non puoi continuare a muoverti su questa dannata
sedia a rotelle come se fossi una novantenne avvizzita!”
Ed
io, mi lasciai fiduciosamente convincere, dicendomi che era lei
l’esperta, e che facevo bene a fidarmi, che era quello che
volevo anch’io.
Tuttavia,
nonostante le fossi abbarbicata come l'edera su una parete di mattoni,
l'intera stanza cominciò a girare vorticosamente, la vista
mi si annebbiò, tanto che urlai di farmi sdraiare, di
lasciarmi in pace, che ero stanca di quelle torture senza senso.
Perché non mi reggevo
neppure in piedi? Perché mi trovavo chiusa lì
dentro? Non riuscivo a rispondere ad alcuna di queste
domande, tanto meno ricordavo che cosa fosse accaduto più di
tre mesi prima, quando tutto aveva avuto inizio.
I
medici, dal canto loro, si appellavano all'opportunità che
la mia amnesia lacunare
sarebbe lentamente svanita, permettendomi di far luce sugli avvenimenti
misteriosi che mi avevano costretta a rimanere in coma, per mantenere
in stand-by il mio cervello.
Tutti
imputavano la mia debolezza all'evidente situazione di allettamento
forzato a cui ero stata sottoposta: i muscoli di braccia e gambe,
infatti, si erano in gran parte atrofizzati, per non parlare di quelli
del collo, che quasi non mi permettevano di mantenere sollevato il capo
per un minuto di fila.
A
farmi compagnia, inoltre, ci pensava una continua e fastidiosissima
tosse stizzosa, testimonianza di quanto i miei polmoni fossero ancora
ristagnanti di secrezioni e poveri d'aria.
Avevo
la pressione arteriosa sotto i piedi, tanto che, ormai, rinunciavo
spesso a farmela rilevare quotidianamente, nonostante, alla fine,
venissi puntualmente obbligata dalle infermiere.
La
mia derivazione ventricolare, invece, stava decisamente bene, a tal
punto che, entro fine settimana, l'avrebbero rimossa, almeno era
ciò che mi aveva detto il dottor Cavani, il quale, per
scrupolo, aveva deciso di tenerla in sede ancora un po’.
Anche
i primi esami strumentali a cui ero stata sottoposta avevano dato esito
molto soddisfacente: il mio cervello era in ottima forma, sicuramente
migliore della sottoscritta, persino il liquor si stava man mano
riassorbendo.
Se
continuavo di questo passo, entro tre o quattro settimane sarei potuta
ritornare a casa.
A
patto che mi fossi rimessa in piedi da sola, ovviamente, e che fossi
riuscita a compiere un tragitto accettabile di qualche decina di metri,
senza sembrare un’ubriaca la notte di Capodanno.
Ritornando
a quel pomeriggio di diluvio universale, i miei torturatori travestiti
da giovani fisioterapiste erano finalmente andati via, lasciandomi
sdraiata a mezzo busto sul mio ormai inseparabile letto elettronico.
Avevo
il capo rivolto verso la finestra -il cui paesaggio era lo stesso del
reparto in cui mi trovavo prima, ovvero uno scorcio del cortile interno
dell'ospedale, spruzzato di abeti, pini e aiuole inzuppate d'acqua-
quando avvertii dei passi sicuri entrare nella stanza.
Mi
voltai istintivamente, notando che la porta era rimasta aperta.
La
mia vicina di letto isterica era a passeggiare per il corridoio, in
attesa di effettuare un esame radiologico di controllo, quindi non
aspettavo nessuno, tanto più che all'orario di visita
mancava ancora un'ora.
“E’
permesso? Ciao, Lara! Come è andata la seduta
riabilitativa?”
Era
lui, il dottor Cavani, splendido nella sua divisa verde di sala
operatoria e con la barba perfettamente curata.
Quel
giorno, ancora, non lo avevo visto, e la cosa un po’ mi
dispiaceva.
Mi
ero sentita trascurata, temevo di essere passata in secondo piano, ma
capivo anche che doveva rispettare delle responsabilità da
cui non poteva esimersi.
Cercai
di sorridergli, spiegandogli che non ero stata brillante come avrei
voluto, ma ci stavo lavorando.
“Ci
vuole tempo, lo sai anche tu”
La
comprensione che traspariva dalle sue parole, quasi mi indusse al
pianto: non sarei mai più ritornata come prima, sarei
rimasta invalida per sempre, senza poter camminare e muovermi in
autonomia come una qualunque persona della mia età!
E se non mi fosse ritornata la
memoria? Ricordavo a malapena i giorni precedenti il mio
incidente, mentre l'unico punto fermo era rappresentato dalla mia
famiglia e dai miei studi, che avevo dovuto abbandonare in maniera
tanto brusca.
“Ehi,
di nero voglio vedere solo questo cielo. Mi hai capita?”
Lui
si avvicinò e mi sfiorò una guancia, abbozzando
un sorriso di incoraggiamento.
Non
volevo che mi vedesse così avvilita ed intristita, ma
davvero non potevo farci nulla.
Sarà
stata colpa di quel tempaccio, del rumore molesto della pioggia che
ringhiava contro i vetri, o magari di quelle nubi oppressive che
sembravano voler ingoiarmi, ma non riuscivo a partecipare a quella
innocente conversazione.
“Se
non hai voglia di parlare, ti lascio da sola. Ci vediamo domani
mattina”
Lo
lasciai andare passivamente, il capo rivolto dalla parte opposta, senza
nemmeno ringraziarlo per la gentilezza che mi aveva dimostrato.
Non
era tenuto a venire a trovarmi alle cinque del pomeriggio, dopo una
giornata trascorsa ad aprire scatole craniche e a tamponare sangue,
nessuno lo costringeva ad asciugare le mie lacrime, che tra l'altro
avevo orgogliosamente trattenuto, nessuno gli imponeva di essere
così disponibile ed affabile nei miei confronti.
In
fondo, ero una tra le tante pazienti, una tra le centinaia che aveva
incontrato e già dimenticato.
Eppure
lui, nonostante tutto e tutti, c'era sempre.
E io, forse, mi stavo
innamorando …
Scacciai
quel pensiero inaspettatamente piacevole e a dir poco stupido,
recuperando dal cassetto del comodino bianco e azzurro l’iPod
fucsia.
Mentre
riflettevo che avrei dovuto cambiarlo perché quel colore era
vergognosamente adolescenziale, vidi la mia immagine sfumata riflessa
sullo schermo del piccolo apparecchio elettronico.
Un’infermiera
mi aveva pesata, la settimana precedente, e così avevo
scoperto che ero dimagrita di otto chili, l’unico risvolto
positivo in tutta quella faccenda.
Il
viso ovale era ancora emaciato, ma le guance non apparivano
più incavate, come pochi giorni prima; mi sfiorai i capelli,
quel mucchietto di ciuffi castano chiaro che ricordava la mia lunga e
folta chioma, reprimendo un sospiro impotente.
La
bocca, almeno quella, era sempre carnosa come un tempo, sopra cui si
disegnava la fossetta che la divideva dal naso, l'elemento che
maggiormente odiavo del mio volto: lo trovavo troppo grande, a patata,
e avrei fatto una rinoplastica molto volentieri, ma decisi che
quell’intervento avrebbe potuto aspettare un momento
più propizio.
Infilai
il filo delle cuffiette nell'apposito spazio circolare, e accesi il
lettore musicale.
Chiusi
gli occhi verdi, cominciando ad inspirare ed espirare come mi avevano
insegnato Marzia e Simona.
Che non mi si venga a dire che
non faccio gli esercizi, sdrammatizzai.
Insomma,
stavo pur unendo l'utile al dilettevole, cercavo di convincermi, mentre
speravo che la malinconia volasse via.
Ma
l’unica cosa che svanì, di lì a breve,
fu l'armonia indotta dalla Sinfonia
n°40 di Mozart, lasciando invece il posto
all'immagine radiosa del dottor Cavani.
Aprii
le palpebre in un impeto di spaesamento: che strano effetto mi stava
regalando la musica classica, l'unica che riuscisse a rilassarmi
veramente quando ero così nervosa e depressa? Avevo bisogno
di pace, di tranquillità, non di sognare l'impossibile.
Volevo
rimanere lucida, continuare a soffrire, se fosse stato necessario, ma
stando con i piedi per terra.
Non
riuscivo a togliermi dalla mente la figura atletica e sorridente di
lui, i passi decisi che si avvicinavano al mio letto, quel profumo
inebriante di cui ignoravo il contenuto floreale.
Smettila,
mi dissi, la tua è solo riconoscenza!
Inaspettatamente,
però, mi ritrovai a mormorare le stesse parole di pochi
minuti prima …
Eppure
lui, nonostante tutto e tutti, c'era sempre.
E
io, forse, mi stavo innamorando.
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Capitolo 5 *** Bugie e Marsiglia ***
Vi
sono le bugie che hanno le gambe corte
e
le bugie che hanno il naso lungo: la tua per l’appunto
è
di quelle che hanno il naso lungo
(Frase
tratta da “Pinocchio” di Carlo Collodi)
Una
settimana dopo la nostra prima fuga d'amore, ci rincontrammo
all’Hotel Astor.
Questa
volta raggiunsi l'albergo con il tram, avendo capito vagamente meglio
come orientarmi in quella giungla caotica di gomme stridenti e generose
suonate di clacson.
Dal
convitto in cui risiedevo, impiegai una ventina di minuti ad
attraversare la città, ma alla fine giunsi vittoriosa alla
meta.
Come
il venerdì precedente, riempii il tempo che avrei dovuto
aspettare passeggiando per le vie interne, spostandomi sui ponti che
collegavano i Navigli e godendo del sole di metà pomeriggio.
Ad
un certo punto, però, la mia solitudine venne interrotta
senza preavviso.
Mi
girai di scatto, dando le spalle ad un gruppetto di tre ragazze: due di
esse, infatti, erano delle mie compagne di corso alla
Facoltà di Lingue che stavo frequentando, e non avevo alcuna
intenzione di farmi riconoscere o, peggio ancora, di attaccar discorso.
Certo,
non eravamo grandi amiche, anzi, forse sarebbe meglio precisare che
eravamo semplici conoscenti, che qualche volta avevano condiviso i
posti vicino e mangiato un panino insieme, ma la sostanza di fatto non
cambiava.
Avevo
il terrore di dover rispondere alle loro eventuali domande, temevo di
ingarbugliarmi da me stessa e, soprattutto, non era mia intenzione
raccontare bugie, perché tutti sanno che le bugie hanno le
gambe corte e, prima o poi, volente o nolente, si viene scoperti.
Feci
finta di concentrarmi sulla vetrina di un negozietto pakistano,
osservando la merce esposta come una vera intenditrice di cibo asiatico.
Sbirciai
l'inconsapevole nemico a ore tre, intento a gustarsi delle coppette di
gelato, e a ridere per chissà quale motivo.
Così,
in un momento di distrazione, approfittai delle loro cospirazioni per
defilarmi senza dare nell'occhio, ripercorrendo la strada a ritroso.
Che
cosa avrà voluto dirmi il Destino con quell'incontro appena
sfiorato? Per quanto tempo avrei ancora potuto evitare di dare
spiegazioni? Avrei retto ai continui sussulti giornalieri che
rappresentavano la diretta conseguenza di messaggi e telefonate che,
per un motivo o per l’altro, tardavano sempre ad arrivare?
All'improvviso,
mi sentii in colpa, ben sapendo che stavo facendo tutto per amore, che
non volevo far soffrire nessuno, anzi, in quella storia chi aveva
sofferto era stata solamente la sottoscritta.
Alle
quattro meno dieci, stanca delle mie elucubrazioni, mi presentai
davanti all'Hotel, dimenticando all'istante i dubbi e le incertezze che
mi avevano attanagliata fino a pochi minuti prima.
Lui
era già lì, le mani in tasca.
Quel
pomeriggio, se possibile, era ancora più luminoso della
volta precedente, ma forse la mia sensazione era dettata dal fatto che
fossi stata lontana da lui per una settimana.
Indossava
una Polo albicocca e dei pantaloni beige sulle solite Lumberjack
castagna.
Mi
venne incontro sorridendomi.
“Ciao
…” ci salutammo, quasi all'unisono.
Gli
sfiorai il viso ricoperto dalla barba curatissima che tanto mi faceva
impazzire, e poi lo abbracciai.
Non
ci fu né un bacio né un'ulteriore carezza,
perché sapevamo che a quei gesti d'amore e di passione
avremo pensato poco dopo.
Entrammo
senza dire nulla e, come la volta scorsa, ci dirigemmo verso la hall,
per registrarci.
Quel
pomeriggio non c'era il solito concierge
di mezza età, basso e con le spalle larghe, ma
una donna sui quarant'anni, alta e mora, con un sorriso da modella.
Mentre
lui effettuava la solita procedura, rimasi un po’ in
disparte, chiedendomi a cosa stesse pensando la receptionist
davanti a noi, circa la natura del legame che univa quei due
sconosciuti.
Mi
ripromisi che, appena in camera, la stessa 433 che aveva appena
richiesto, gli avrei domandato quale scusa si fosse inventato per
giustificare la nostra toccata e fuga settimanale all’Hotel Astor.
“Le
ho detto che sono un pilota d'aerei e che ho pochissimo tempo per stare
con la mia fidanzata … ti basta come spiegazione?”
Lui
si avvicinò pericolosamente, e cominciò a
baciarmi il collo.
Mi
portò verso il letto e, abbassandomi le spalline dell'abito
color panna che indossavo, puntò la sua bocca nell'incavo
dei miei seni, facendomi rabbrividire di piacere.
Le
sue parole, per quanto pronunciate in tono scherzoso, tradivano un
sottofondo di incertezza.
Non
era imbarazzo, questo no, ma probabilmente la mia domanda lo aveva
colto impreparato, ed io avevo semplicemente sbagliato a porgergliela.
“Rilassati
…” mi sussurrò, mentre con le dita mi
aggrappavo al copriletto rosso.
Sospirai
e ricambiai i baci con tutto l'ardore e il desiderio che provavo.
Gli
presi i capelli, avvicinando il suo viso al mio, per poi concentrarmi
sui bottoni della Polo.
Dopo
avergliela sfilata, ci adagiammo sulle lenzuola immacolate, spoglie del
copriletto che avevo gettato da una parte.
Tutto
il resto è inutile scriverlo: fu travolgente, appassionante
e dolcissimo come la settimana precedente.
Lui
era sempre così impeccabile e premuroso, così
perfetto, che mi domandavo quanta ancora naturale maestria sarebbe
traboccata dai suoi gesti.
“Lunedì
partirò per un congresso in Francia … torno
giovedì”
Ci
eravamo appena rivestiti, il sole che trapassava dalle asticelle delle
persiane, ed io stavo pensando alla nostra cena nel solito ristorantino
con la barca vicino al gazebo, quando quella frase mi colse del tutto
impreparata.
“E
dove vai di preciso?” indagai, il tono incolore.
“A
Marsiglia. Di Milano saremo in otto, più o meno, ma dipende
se qualcuno cambierà idea all’ultimo minuto
…”
“C'è
il mare a Marsiglia, vero? E siete solo colleghi ad andare?”
Eravamo
l'uno di fronte all'altra, in piedi: io davo le spalle alla finestra
accostata, mentre lui si stava infilando le scarpe.
Descrivere
cosa provai in quei momenti è completamente difficile: ero
delusa che non me lo avesse detto prima? Ero arrabbiata
perché non mi aveva chiesto di andare con lui? O, forse, ero
gelosa che quel fantomatico ritrovo tra cervelloni fosse solamente un
pretesto per fare una vacanza con l'altra?
Mi
risposi -e anche adesso mi risponderei allo stesso modo- che tutte e
tre le possibilità erano più che corrette, anzi,
che avrei fatto bene a non lamentarmi, perché avevo sempre
saputo con chi avrei avuto a che fare e, soprattutto, a cosa sarei
andata incontro, scegliendolo.
“Certo
che siamo tutti colleghi, Lara! Secondo te, con chi dovrei andare ad un
convegno internazionale di Neurochirurgia, se non con dei medici
specializzati in tale branca?!”
Mi
guardò allargando le braccia, l'espressione a
metà tra l'ironico e lo scocciato.
Annuii
poco convinta, aprendo la bocca per ribattere, ma lasciai perdere.
“Scusa,
non volevo insinuare nulla … sono solo un po’
stanca”
Si
avvicinò a passo sicuro e mi abbracciò
dolcemente, sospirando sui miei capelli.
Accanto
a lui ogni dubbio svaniva: non ero più insicura, indecisa,
fragile, ero forte come una roccia, come le radici di una quercia.
Niente
e nessuno mi avrebbe piegato, o meglio, mi avrebbe spezzata, fintanto
che saremmo stati insieme.
Chiusi
gli occhi per qualche istante, assaporando l'ormai famigliare profumo
che sapeva inebriarmi i sensi, e affondai la testa nel suo petto
accogliente.
“Andiamo
a mangiare e divertiamoci. Anzi, sai che ti dico? Se vuoi, possiamo
vederci anche domani pomeriggio. Ti va?”
Mi
prese il volto tra le mani, e poi mi baciò la punta del naso.
“Va
bene” riuscì a dire, sebbene non fossi del tutto
convinta della risposta che avevo appena dato.
Insomma,
perché accontentarmi delle briciole, dei ritagli di un tempo
rubato a chissà chi, quando avrebbe potuto semplicemente
portarmi con sé?
Ormai
non aveva più senso rimuginarci su, quello che aveva deciso
non sarebbe cambiato, non poteva cambiare.
Notando
la mia incertezza, pronunciò ciò che temevo di
più, ovvero sentirmi diversa, apparire come l'altra era per
me.
In
una parola, l'intrusa.
“Ascolta,
Lara, lo sai perché non ti porto. Se tu venissi, non avremmo
un solo minuto di tempo per noi. Questi congressi sono fitti di
conferenze, banchetti e cene in comune, riusciremo a vederci solo la
notte, e non è questo ciò che meritiamo.
E
poi, non voglio dare adito a maldicenze sul tuo conto, a pettegolezzi
che farebbero soffrire non solo te, ma anche me. Credimi, andremo a
fare la migliore delle vacanze, dovunque tu voglia, ma non
adesso”
Mi
abbracciò e mi sorrise comprensivo.
Ricambiai
senza convinzione, sentendomi l'eterna bambina che ancora temevo di
apparire ai suoi occhi.
Controllammo
di non aver dimenticato nulla nella stanza e, finalmente, uscimmo a riveder le stelle.
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Capitolo 6 *** Voci di corridoio ***
I can fake
a smile
I can
force a laugh
I can
dance and play the part
If
that’s what you ask
[…]
But
I’m only human
and I
bleed when I fall dawn
I’m
only human
(Christina Perri, “Human”, 2014)
Era
ormai la metà di maggio.
Dal
mio risveglio nel mondo dei vivi, avrei presto festeggiato un mese,
esattamente di lì a quattro giorni.
Avevo
ripreso peso - non tutti gli otto chili che avevo perduto, ma per
quello c'era tempo- il tono muscolare era notevolmente migliorato, e di
conseguenza anche il mio umore poteva considerarsi sollevato.
Finalmente,
dopo settimane in cui non riuscivo a vedere nemmeno un singolo
progresso, adesso ero soddisfatta dei grandi passi in avanti che avevo
fatto e che ancora stavo facendo.
Riuscivo
infatti ad andare in autonomia non solo in bagno, ma persino in
corridoio, muovendomi più veloce della quasi
totalità dei pazienti.
Da
una settimana, avevo definitivamente abbandonato la sedia a rotelle per
muovermi esclusivamente sulle mie gambe, conquista che mi aveva
regalato un nuovo senso di libertà.
Al
mattino, ad esempio, dopo la visita medica, mi piaceva scorrazzare da
una parte all'altra del reparto, andando a curiosare in un angolino
vicino al soggiorno, in prossimità di uno degli ascensori,
dove erano state collocate delle piante molto belle, di cui nessuno
aveva mai saputo dirmi il nome, ma che rappresentavano il vanto delle
infermiere, pronte ad annaffiarle con cura quasi genitoriale.
Quando
ero stanca di tutta quella situazione, e non avevo voglia di tornare
subito in camera, mi sedevo su una delle sedie del salottino dedicato a
noi fortunati ospiti,
e guardavo la strada che si snodava sotto di me.
Era
una via interna, a traffico limitato, quindi non caotica come il resto
della città.
A
parte le due fila di parcheggio per gli autorizzati, potevo scorgere
quello che scoprii, una volta dimessa, essere il giardino di una scuola
media paritaria.
Rimasi
un po’ stupita da quella rivelazione perché, per
tutto il tempo che ero stata confinata lì, non ero riuscita
a vedere nemmeno un ragazzino entrare con gli zaini rigonfi sulle
spalle o sgusciare fuori con l'aria esausta ed allegra, ma solo suore
in abito grigio, che passeggiavano beatamente all'ombra degli abeti e
dei cespugli di rododendro.
Proseguendo
a narrare le mie rocambolesche
avventure, posso raccontarvi di quelle due o tre volte in cui ottenni
l'autorizzazione per recarmi al bar interno dell'ospedale, ovviamente
accompagnata da una guardia del corpo, ovvero da Simona, una delle
fisioterapiste che mi seguiva nella riabilitazione.
Quando
raggiungemmo l'ingresso, le porte automatiche sbarrate per permettere
l'entrata e l'uscita di qualche rifornitore, un istinto irresistibile
mi spinse a scappare, dimenticandomi che ero ancora in convalescenza, e
che con un tubo che mi usciva dalla testa avrei potuto fare ben poca
strada.
“Che
cosa guardi? Non penserai mica di scappare, eh?! Guarda che la
responsabilità è tutta sulle mie spalle! Poi chi
li sente il primario e il bel dottor Cavani?!”
scherzò Simona, non sapendo quanta verità ci
fosse nelle sue parole.
La
rassicurai con un sorriso forzato e, facendo spallucce, ripresi a
sorseggiare il cappuccino macchiato di cacao che avevo ordinato.
A
parte quelle due o tre volte eccitantissime
in cui avevo potuto fare merenda al bar, la mia reclusione non era poi
così brillante ed emozionante come cercavo di farla apparire.
La
vicina di letto isterica era stata dimessa una decina di giorni prima,
e al suo posto era arrivata un'altra signora ancora più
anziana, i capelli corti di un biondo sbiadito e gli occhi di un colore
indefinito.
Aveva
una voce flebile e molto dolce, tutto il contrario rispetto al tono
nevrotico della mia ex compagna di disavventure; tuttavia, quando ci si
metteva, anche lei era logorroica da far paura, riuscendo a stordire
chiunque si trovasse nel raggio di cinquanta metri dal suo cospetto.
In
più, portava la dentiera, e di notte, se doveva alzarsi per
andare alla toilette
-come definiva elegantemente quel bugigattolo bianco e azzurro con la
luce tremolante che rappresentava il nostro bagno- cominciava a
mormorare parole indefinite senza sosta, fino a quando io non accendevo
la luce e lei poteva finalmente trovare la strada che la conduceva ad
espletare i propri bisogni corporali.
Insomma,
a parte queste due caratteristiche negative che la
contraddistinguevano, mi trovavo molto bene a dividere la camera con
lei, forse perché mi permetteva di detenere il primato
assoluto di possesso del telecomando per la TV.
Ritornando
a quel mattino di metà maggio, dopo che avevo fatto
colazione e mi ero data una sistemata, stavo aspettando che passassero
i medici per farmi sapere qualcosa sul mio destino.
Mi
ricordavo con estrema chiarezza le parole del dottor Cavani pronunciate
quasi un mese addietro, il quale aveva promesso che sarei potuta
tornare a casa quando fossi stata sufficientemente autonoma da non aver
bisogno di nessuno che mi aiutasse nell'eseguire le più
semplici azioni quotidiane.
Erano
quasi le dieci, il reparto era in gran fermento, quando finalmente
entrò il mio eroe -di cui ero ormai convinta di essere
invaghita, tanto che a volte lo sognavo persino la notte-, seguito da
uno stuolo di colleghi, specializzandi, infermieri e caposala.
Mancava
solo il primario (in ferie chissà dove) e poi la squadra
sarebbe stata al completo.
“Permesso
… Buongiorno, signore!”
Dedicò
qualche momento alla mia vicina, che si era riappisolata seduta sulla
sedia, poi l'angelo salvatore si rivolse alla sottoscritta.
“Lara,
come andiamo questa mattina?”
“Bene
…”
Quanta
inventiva, dovevo davvero farmi i complimenti per quel termine
così innovativo che avevo tirato fuori dalla mia boccuccia!
Sorrise
soddisfatto, quindi attaccò a spiegare il mio caso a un
nuovo medico che non avevo mai visto, grasso e con i capelli bianchi.
Omise,
ovviamente, spiegazioni su ciò che mi aveva portato
lì, perché la mia amnesia lacunare
era ancora ben presente.
“Allora,
ho una buona notizia da darti!”
Ritornò
a concentrarsi su di me, il tono di voce allegro e squillante, mentre
quel suo profumo misterioso aleggiava prepotente nella stanza.
“Domani
mattina avremmo pensato di portarti in sala per rimuovere la
derivazione, sempre che tu sia d'accordo. Sarà un piccolo
intervento in anestesia locale, TAC guidata, che non durerà
molto. Di solito viene fatto al letto del paziente, ma avendola
sostituita già due volte per problemi tecnici quando eri
ancora in coma farmacologico, preferiamo evitare inutili complicanze.
Questo
ci permetterà di accelerare il tempo per le tue dimissioni,
così, se tutto andrà bene come mi auguro
avverrà, giovedì pomeriggio potrai andare a casa!
Cosa ne pensi, è un’idea accettabile?”
Boccheggiai
per qualche istante, non sapendo quali parole pronunciare.
Con
lui, tutto appariva semplice e naturale, scevro delle
negatività che nell'ultimo periodo avevo conosciuto.
“Sì,
certo, va bene”
“Perfetto!
Allora ci vediamo più tardi, di là in sala
medica, per discutere le modalità dell'intervento e farti
firmare il consenso! Signore, arrivederci”
Salutò
me e la mia vicina come se ci trovassimo ad un ritrovo tra amici di
lunga data.
Lo
guardai uscire dalla camera, seguito dalla laica processione, intontita
dalla bella notizia che mi aveva dato: sembrava davvero che fosse
riuscito a mantenere la parola data …
“È
proprio un bel ragazzo! Alto, con quella barba così curata e
quegli occhi buoni. E poi, così giovane ha già
tutta questa responsabilità sulle spalle! Si vede che
è in gamba, vero Lara?” mormorò la
vecchietta, scuotendomi dalle mie riflessioni.
Annuii
convinta, ma anche un po’ delusa: con le mie dimissioni,
sarebbe tutto finito? Lo avrei rivisto? Si sarebbe dimenticato di me? E
io, mi sarei scordata di lui?
Come
potevo, in quel momento, pensare delle frasi sconclusionate come
quelle?! Avevo rischiato la vita, la mia esistenza era stata interrotta
bruscamente senza saperne il motivo, ed io mi preoccupavo del fatto se
avrei mai più incontrato quell'uomo?!
Dovevo
essere impazzita, non c'era altra spiegazione.
All'improvviso,
mi vennero in mente le parole che mi aveva sussurrato durante uno dei
miei innumerevoli pomeriggi di sconforto, una decina di giorni dopo che
ero stata trasferita in reparto.
Era
entrato in camera dopo il pranzo che non avevo consumato, a causa del
mio ennesimo svenimento dovuto alla pressione bassa e ai tentativi di
fisioterapiste ed infermieri di mettermi sulla sedia a rotelle.
Salutò
con la sua solita aria gioviale, chiedendomi subito dopo che cosa fosse
accaduto.
Ero
infatti girata su un fianco, dandogli le spalle, e piangevo disperata.
Lui
non disse altro, semplicemente si sedette sulla sporgenza di marmo che
c'era alla base dell'ampia vetrata che dava sul giardino interno, e
rimase in attesa, le mani intrecciate.
Dovevo
aver appena fatto cadere un tovagliolo di carta (pulito spero),
perché lo raccolse e me lo porse, in modo da soffiarmi il
naso che stava per scoppiare.
Lo
ringraziai mestamente, continuando a non guardarlo negli occhi,
vergognandomi invece come una delinquente colta in flagrante a compiere
un delitto.
Stavo
facendo la figura della maleducata, della lagnona, della bambina
viziata, ma ero talmente delusa ed amareggiata che non m'importava
nulla di tutto il resto.
Poi,
dopo che gli sembrò mi fossi calmata a sufficienza, mi
spiegò dolcemente:
“Non
ci sarà mai più un'altra Lara come te, con la tua
storia, le tue debolezze, la tua forza. Anche se per noi
sarà un grande dispiacere lasciarti andare e non vedere
più il tuo sorriso, è giusto che tu ti riprenda
al meglio e presto. Non ti scoraggiare, Lara"
Attese una manciata di secondi, forse aspettando una replica da parte
mia, quindi sospirò e continuò nel suo monologo.
"Sai,
anch'io, con quello che ti è successo, mi comporterei
esattamente allo stesso modo. Anzi, quando noi medici ci facciamo male,
ti assicuro che siamo di gran lunga peggio! Pensa che una volta, per un
taglietto, mi sono lamentato per due giorni!”
Ecco,
se c'è stato un momento, uno dei tanti, in cui finalmente
capii che mi stavo innamorando di lui, questo appena riportato fu uno
di quelli.
Nessuno
mi aveva mai detto parole tanto pure, parole tanto sincere.
Ancora
una volta mi domandai che cosa lo spingesse a comportarsi in modo tanto
affettuoso nei miei confronti.
Era
semplice cortesia? Era la sua indole a suggerirgli naturalmente di fare
così? Oppure, in fondo al suo cuore, anche lui provava
qualcosa di speciale per me?
Scacciai
dalla mente quei piacevoli e dolorosi ricordi, arrendendomi ad
aspettare che arrivasse Marzia, pronta a vessarmi per la seduta
mattutina di riabilitazione.
Tornai
dalla sala medica che erano le undici e mezza.
Ormai,
non avevo più bisogno della dottoressa Mazza, la
logopedista, e in realtà neppure di Simona o di Marzia,
perché, come detto anche prima, ero ormai autonoma in tutto
e per tutto, ma vi era una sorta di contratto non verbale che obbligava
noi pazienti a svolgere fisioterapia fino al giorno stesso della
dimissione.
Entrai
in camera e vidi Marzia che mi attendeva in piedi: se non ricordo male,
stava parlando con la mia vicina di disavventure di qualche ricetta di
dolci.
Appena
mi vide, mi rimproverò con un sorriso più serio
del normale, chiedendomi dove fossi stata.
L'appuntamento
per le nostre sedute, infatti, era stato fissato per le undici, mentre
Simona sarebbe arrivata a torturarmi alle quattro del pomeriggio.
La
guardai interdetta, blaterando che il ritardo non era stato colpa mia,
che il dottor Cavani mi aveva chiamata e trattenuta di là
per …
“Ma
sto scherzando, Lara! So benissimo dov'eri, me lo hanno detto le
infermiere! Quella dell'intervento di domani è una notizia
fantastica, perché vuol dire che prestissimo andrai a
casa!”
Mi
abbracciò con gioia, ed io ricambiai sollevata il suo gesto.
Marzia
era davvero simpatica, oltre ad essere molto brava, e non mi andava di
deluderla, soprattutto dopo gli importanti traguardi che mi aveva
aiutata a raggiungere.
Aveva
qualche anno più di me, i capelli ricci e scuri, gli occhi
azzurri, tutto l'opposto di Simona, chioma tinta, occhiali, non molto
alta e vagamente robusta, con tre gravidanze alle spalle.
“Vieni,
sdraiati sul letto che ti mobilizzo un po’
…”
Obbedii
al suo invito, sistemandomi dietro la schiena il pigiama color panna,
decorato con dei ricami in pizzo.
“Oggi
sei proprio elegante, sai? Ah, vedo che ti sei anche
truccata!”
“Ma
se è lo stesso straccio che mi avrai visto indossare almeno
altre cinque volte da quando sono qui! E anche il trucco è
sempre lo stesso! Lo sai anche tu che ogni mattina mi piace mettere un
po’ di mascara e di lucidalabbra!”
“Rossetto,
vorrai dire. Cos'è, hai trovato qualcuno?!”
Continuò
a flettermi la gamba e, facendo l’occhiolino, mi disse di
stare rilassata, che ero una contrattura unica.
Non
so se arrossii, sicuramente poco ci mancò.
“Allora?
Non vuoi confidarti con la tua fisioterapista preferita?!”
La
fissai scuotendo la testa, per poi rivolgere lo sguardo fuori dalla
finestra.
“Allora
è vero!” gracchiò entusiasta,
stringendo con troppa forza il mio polpaccio.
La
vecchietta, intenta a leggere una rivista, sussultò, ed io
mi vergognai per tutta quell'attenzione priva di senso che mi stava
subissando.
“Che
cosa dovrebbe essere vero?” si animò la vicina,
pronta ad origliare qualche pettegolezzo.
“Oh
niente, signora, non si preoccupi!” tagliò corto
lei, con fare cospiratorio.
Marzia
si rivolse nuovamente alla sottoscritta, assunse un'espressione di
donna vissuta e, socchiudendo gli occhi, si abbassò per
dirmi ciò che mai mi sarei aspettata di sentire.
“Voci
di corridoio dicono che ti sei invaghita del dottor Cavani! Anzi, per
essere più precisi, si dice che tu sia una sorta di
raccomandata, perché lui viene a trovarti anche nelle ore
meno impensabili, come fuori il giro visite, per intenderci. Senza
contare che, spesso e volentieri, ti accompagna anche giù in
Radiologia! Io non credo a queste malignità, Lara, ma che a
te un pochino piace, beh, a quello posso crederci eccome! A chi non
piace? Anche io ci farei un pensierino, se solo mi guardasse!”
Scrivere
che avrei voluto sprofondare nel magma terrestre, non credo renderebbe
l'idea: ma chi, come e quando era venuto a sapere della mia impossibile
cotta per lui?!
Non
lo avevo mai confessato ad anima viva, a nessuno!
Cominciai
a pensare di essere diventata una sonnambula, quasi mi convinsi di aver
cominciato a parlare durante la notte, o che magari qualche componente del
personale godesse del potere straordinario di leggere nella mente
… in che altra maniera si sarebbe potuta spiegare una fuga
di notizie tanto riservata?
“Si
vede così tanto?” mi rassegnai a domandarle.
“Ogni
volta che lo intravedi, almeno quando ci sono io, diventi rossa come un
pomodoro maturo! E il trucco lo usi solo quando c'è lui in
giro! È una bella cosa, peccato che sia già
impegnato”
Non
c'era bisogno che me lo dicesse Marzia: sempre voci di corridoio,
infatti, mormoravano che il bel dottor Cavani fosse stato mollato dalla
moglie un paio di anni prima, e che dallo scorso inverno aveva
cominciato a consolarsi con una collega della Cardiologia.
Cuore spezzato presto riparato,
mi ritrovai a pensare con una punta di amarezza.
“E
poi lui, a pensarci bene, è un po’ troppo grande
per te … “
In
quel momento, giuro che avrei voluto urlare e piangere:
perché nessuno si faceva mai i fatti propri? Io non mi
impicciavo delle faccende altrui, non andavo a ficcare il naso
nell'intimità degli altri, non stravolgevo i sentimenti di
persone che a malapena conoscevo, per cui pretendevo che anche queste
fantomatiche voci facessero lo stesso!
Avevo
solo bisogno di dimenticarlo, di lasciare alle spalle tutta quella
brutta storia che avevo vissuto.
Ma
ce l'avrei fatta? Mi auguravo proprio di sì.
NOTA
DELL'AUTRICE
Buongiorno a tutti, miei carissimi lettori!
Ne approfitto per ringraziarvi tutti, compresi i due recensori e coloro
che hanno inserito la storia in una delle liste!
E' un racconto un pò particolare, per cui mi farebbe tanto
piacere se voleste dedicare qualche istante per lasciarmi un vostro
parere (positivo o critico che sia)!
Bene, allora a presto e buona giornata!
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Capitolo 7 *** Dubbi, dubbi e ancora dubbi ***
Se
fossi tu
chissà
se riusciresti ad indossare per un’ora i miei occhi
e
fissarti fino a che non ti stanchi
[…]
Guardo
il cielo sopra la città che sta morendo
penso
che forse non te l’ho mai detto
ma
era una vita che ti stavo aspettando
(Francesco
Renga ,“Era una vita che ti stavo aspettando”, 2014)
Avevo
trascorso il pomeriggio a studiare.
Ero
stanca ed annoiata, anche per il caldo che cominciava, solo allora, a
diminuire.
La
verità è che ero nervosa: aspettavo che lui mi
chiamasse, che mi facesse avere sue notizie.
L'indomani
sarebbe tornato in città, dopo il congresso a cui aveva
preso parte a Marsiglia, e contavo le ore che ci separavano con una
spasmodicità che quasi non riconobbi come mia.
Quella
mattina, verso le otto e mezza, ci eravamo sentiti per messaggio, prima
che si recasse all'ennesima conferenza di cervelloni da cui mi aveva
volutamente esclusa per non
ferirmi, come mi aveva ripetuto più volte.
Buongiorno, piccolo angelo. Mi
manchi. Ci vediamo presto.
Nell'arco
della giornata, rilessi quelle frasi spezzate almeno una decina di
volte, solamente per convincermi che ancora mi pensava, che non si era
dimenticato di me, e che non poteva mettersi in contatto con maggiore
assiduità per il semplice fatto che esistevano degli impegni
a cui doveva fare fronte.
Portavo
il cellulare appresso ovunque andassi, persino in bagno, per paura che
la suoneria fosse ad un livello troppo basso da impedirmi di rispondere
nell'arco di un nanosecondo.
Verso
le undici, stanca di quella cappa emotiva a dir poco opprimente, uscii
dal convitto per andare a fare qualche acquisto in libreria: nel
negozio in fondo all'angolo, infatti, comprai due volumi di una
scrittrice triestina che tanto avevano acclamato sui giornali e in
alcuni programmi TV, e ne approfittai per prenotare il seguito di una
saga norvegese che mi stava appassionando come pochi.
Mi
distaccai dal locale di malavoglia, giusto in tempo per il pranzo,
sebbene continuassi ad avere lo stomaco in subbuglio.
All'una,
infatti, avevo appuntamento con una mia amica per mangiare una piadina
in uno dei bistrot
cosiddetti di ultima generazione, poco lontano dal centro, ma in
realtà non avevo per niente fame.
Così,
con una scusa banale quale può essere un improvviso mal di
testa, rimandai all'indomani, scusandomi infinitamente per averla
avvisata tanto in ritardo.
Di
ritorno al convitto, andai di filato nella mia stanza, pregando di non
incontrare anima viva.
Condividevo la camera con un'altra mia coetanea, Alessia, in
città per svolgere lo stesso corso di potenziamento estivo
offerto dalla Facoltà, corso che avrei dovuto frequentare
anch’io, se non fossi stata impegnata ad inventarmi escamotage
d’amore uno dietro l'altro.
Dribblai
la sala comune, incredibilmente affollata, in cui noi ospiti passavamo
gran parte del tempo libero, e sorpassai altrettanto
fulmineamente la cucina, dove quella mattina, dopo colazione, avevo
avvisato le
consorelle addette ai fornelli, suor
Fabrizia e suor Augustina, che avrei pranzato fuori.
Ma
la buona sorte, purtroppo, decise di voltarmi le spalle.
Non
appena aprii la porta della mia camera, convinta di trovarla
assolutamente vuota di qualsiasi presenza umana, mi si parò
davanti Alessia, reduce da una doccia.
Aveva
ancora i capelli lunghi e mossi umidicci, il phon in una mano, e
indossava una maglietta bianca su dei pantaloncini turchese che
ricordavano senza troppo difficoltà il colore dei suoi occhi.
“Lara!
Che ci fai qui?”
“Io
… non avevo fame. Cioè, non ho fame, e ho
preferito tornare indietro. Tu, piuttosto, perché non sei
ancora a mangiare?”
Lei
fece spallucce, per poi levare lo sguardo disperato al soffitto
immacolato.
“Suor
Fabrizia ha di nuovo rischiato di far saltare in aria la cucina. Hanno
chiamato il solito elettricista, ma sembra che questa volta ci
vorrà più tempo: sono saltati dei fili di non so
quale importanza, perciò ci tocca aspettare pazientemente”
Mi
tolsi i sandali, mettendoli nell'apposita apertura della portafinestra,
quindi buttai la busta con i miei preziosi acquisti sulla scrivania che
avevamo in comune, controllando subito dopo che non avessero subito
danni.
“Ma
che cos'hai?”
Alessia
aveva riacceso il phon, e urlava per sovrastare il rumore
dell'apparecchio.
In
effetti, mi rendevo conto di quanto la mia tristezza fosse palese e
senza un motivo apparente, ma tale doveva rimanere, perché
non potevo raccontarle nulla.
“Te
l'ho detto, non ho fame …”
Rovistai
nell’armadio di pino alla destra dell’ingresso,
alla ricerca di un vestito più informale rispetto a quello
rosso che avevo infilato per uscire.
Ne
scelsi uno verde oliva, sbracciato, e lo indossai silenziosa, per poi
sdraiarmi sul letto e coprirmi gli occhi con un braccio, in modo da
riflettere.
Il
cellulare era rimasto nella borsetta a tracolla, abbandonata su una
delle due sedia di legno davanti allo scrittoio: non era mia intenzione
alzarmi per recuperarlo, nonostante vibrassi di curiosità e
di ansia dettate dall’avere sue notizie, ma mi imposi un
certo contegno.
“C'è
qualcosa che ti turba, Lara, lo so” cercò di
indagare la mia amica, spegnendo il phon.
Erano
tre anni che ci conoscevamo e che condividevamo la stessa camera:
inoltre, era stata una delle poche persone a rimanermi veramente
vicina, a supportarmi e a consolarmi silenziosamente in quei mesi ormai
lontani in cui avevo lottato per riprendermi, per questo detestavo
ulteriormente doverle mentire.
“Lasciami
stare, Alessia, non ho voglia di parlarne. Credimi, te lo chiedo per
favore”
Mi
si avvicinò irriducibile, sorda alle mie insistenze, e si
sedette sul letto, alzandomi il braccio che mi proteggeva
metà viso.
“È
per un ragazzo? Fino alla scorsa settimana eri così
euforica, invece adesso sei diventata mogia e apatica ...”
Voltai
lo sguardo contro il muro alla mia sinistra, per non fissarla negli
occhi, mentre avvertivo il senso di colpa divorarmi.
“Non
è niente, stai tranquilla. Semplicemente sono stanca e non
ho fame”
“Sì,
ma io …”
Il
suono della campanella che avvertiva le venti ospiti del convitto che
il pranzo stava per essere servito, arrivò come un lenitivo
sulle mie ferite del cuore.
Alessia
rimase a guardarmi ancora una manciata di secondi, indecisa su cosa
dire, se insistere o lasciar perdere, quindi si alzò e si
guardò allo specchio a muro, sistemato in un angolo della
stanza, vicino alla scrivania davanti a noi.
“Guarda
che non finisce qui … non mi piace il tuo
comportamento”
Il
suo tono di rimprovero era più che giustificato, ma in quel
momento l'unica cosa che desideravo era che lei se ne andasse.
Appena
uscì, grugnendo all'ennesimo rimprovero, mi sollevai dal
letto, disposto parallelamente a quello della mia coinquilina, con i
comodini di legno bassi e tozzi ai lati delle due brande.
Ringraziai
mentalmente l'elettricista che aveva riparato così
velocemente i fornelli, sorridendo per la sbadataggine che
contraddistingueva suor Fabrizia.
La
verità era che non sapevo cosa fare, anche se mi rendevo
conto che non potevo continuare a vivere nell'incertezza, nella
speranza che lui mi chiamasse, nell'attesa di trascorrere qualche ora
insieme, il tutto solamente una volta la settimana.
Mi
rimisi distesa, lo stomaco che cominciava a brontolare, e fissai il
soffitto, da dove pendeva uno striminzito lampadario bianco.
Quella
stanza mi era sempre piaciuta, fin da quando ero venuta a vederla,
ormai quattro anni prima, dopo l'ultimo anno delle superiori nella mia
città.
Aveva
le pareti di un rosa pallidissimo, che sembravano un tutt'uno con il
mobilio di legno chiaro che poteva vantare, arredamento che si
componeva della coppia di letti e di comodini sopra citati, di uno
specchio dalla cornice nera anni Settanta, da due sedie bianche, da una
scrivania del medesimo colore e dall'armadio di pino a cui ho accennato
poco fa.
Ci
muovevamo a malapena, Alessia ed io, ma a me piacevo lo stesso, forse
per il senso di famigliarità che emanava, e anche per il
minuscolo bagno attiguo decorato minuziosamente a mosaico, ideato per
ospitare un piccolo lavabo ed un altrettanto WC in miniatura.
Rimasi
a fissare il soffitto ancora per qualche istante, le braccia dietro la
testa, poi decisi di raggiungere le altre ragazze in sala
mensa, sperando che fosse rimasto qualcosa anche per me.
Lo
so che sarebbe potuta sembrare una pazzia, anzi, un controsenso, ma
improvvisamente mi resi conto di aver bisogno di compagnia, di qualcuno
che mi aiutasse a dimenticare la solitudine che avvertivo rodermi senza
ritegno il corpo, il cuore e l'anima.
Liberare
la mente dal pensiero ossessivo di lui non mi avrebbe fatto altro che
bene, ne ero convinta, anche se ciò avrebbe implicato un
notevole quanto disumano sforzo.
Come
scritto all'inizio, passai il pomeriggio a studiare.
Verso
le sei, dopo che mi ero arresa e stavo per andare a fare una doccia nei
bagni in comune situati nel corridoio, sentii il cellulare squillare.
Avevo
ancora una mano sull'anta dell'armadio che avevo appena richiuso,
indecisa se considerarmi preda di un sogno oppure no.
Quando
mi resi conto, però, che quel suono penetrante e costante
non era il frutto della mia immaginazione, buttai tutto sul letto per
fiondarmi a rispondere, acchiappando il telefonino sul comodino con la
rapidità di un ghepardo.
“Ciao, Lara“
Era
lui, finalmente era lui!!
“Ciao.
Come è andata oggi?”
Avrei
voluto salutarlo con un "allora
ti ricordi di me!", ma non volevo fare la parte della
ragazzina asfissiante e morbosa.
“Bene. Oggi è toccato
ad un collega di Napoli intervenire. Sai, abbiamo appena finito:
è stata una giornata lunghissima ed interessante,
però stancante come poche. Ho mangiato un pessimo panino e
ho la testa che mi rimbomba, ma adesso basta, non parliamo di me. Come
stai? Mi manchi, non vedo l'ora di rivederti”
Sembrava
un vecchio bollettino telegrafico. Ciao.
Stop. Passo e chiudo.
Nemmeno
un accenno al fatto che fosse praticamente sparito, che da quasi dieci
ore non dava sue notizie.
“Anch'io
sto bene. E mi manchi. Stamattina sono andata alla libreria all'angolo
e ho comprato due volumi che sono osannati dalla critica come non
capitava da anni, poi dovevo pranzare con una mia amica, ma non avevo
voglia di incontrare nessuno, e così sono tornata al
convitto. Com'è il tempo? Qui ci sono trentadue
gradi”
Mi
diedi della stupida: mi ero lamentata fino a un minuto prima
perché aveva ritardato a cercarmi, ed io cosa avevo
di meglio da fare? Nulla, se non raccontargli il resoconto della mia interessantissima
giornata.
Lui è un uomo,
mi dissi, non desidera
sentirsi dire queste cose, lui vuole altro, vuole
… già, che cosa voleva?
“Il tempo è bello e fa
molto caldo. Il mare l’ho visto praticamente solo dalla
finestra dell’albergo. Mi è dispiaciuto non fare
nemmeno una nuotata: domani dovremo essere in aeroporto per le undici e
… Lara, sei ancora lì?”
“Sì,
scusa"
Avevo trattenuto il respiro senza accorgermene, preda di uno sconforto
che non sapevo spiegare, a tal punto da avergli trasmesso la sensazione
di parlare ad una cornetta vuota.
"Comunque sono contenta che tutto stia andando bene. Vorrei tanto che
fosse già venerdì, così potremo
vederci”
Morsi
il labbro, sperando di non aver detto qualche altra sciocchezza, e
rimasi in attesa.
“Ho voglia di te, Lara. Ho
bisogno di te”
“Anche
tu. Sapessi quanto. Le mie giornate sono vuote, praticamente vivo
aspettando un tuo messaggio, una tua chiamata ...”
Ecco,
lo avevo confessato. A rischio di risultare stucchevole o melensa, gli
avevo espresso tutto il mio spaesamento senza di lui.
“Sei il mio piccolo angelo,
ricordatelo sempre. Ora devo andare, mi devo cambiare per la cena. Ti
scrivo per le undici, quando andrò a dormire. Se non mi senti, è
perché sarò sprofondato in un sonno talmente
profondo che nemmeno le cannonate potrebbero svegliarmi!”
Annuii
meccanicamente, e lo salutai con un banale torna presto,
reprimendo il desiderio di dirgli "ti amo".
Gettai
il cellulare sul letto, pronta come un automa a recuperare il cambio
dei vestiti per andare a fare la doccia, prima che Alessia tornasse
dalla sala comune e mi facesse il terzo grado.
Mi
avviai lungo il corridoio con l'entusiasmo di uno zombie, pensando che, probabilmente, avrei dovuto dirgli
comunque che lo amavo, superando la timidezza che mi aveva
inaspettatamente colta.
Dalla
nostra prima volta, due settimane prima, non lo avevo più
ammesso se non a me stessa, ma vivevo in funzione della sua
approvazione, esistevo solo per i nostri passionali ed intensi incontri.
E
se non avesse gradito? Se non gli avesse fatto piacere? continuavo
a ripetermi, rimuginando se avevo fatto davvero bene a non essere
più disinibita.
Aprii
il getto dell'acqua fredda con quel dubbio che mi rimbombava in testa,
mentre le miriadi di gocce si diffondevano ed abbracciavano
vigorosamente il mio corpo, desideroso solamente del contatto delle sue
mani e della sua bocca.
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Capitolo 8 *** Un nuovo inizio ***
Meraviglioso
ma
come non ti accorgi
di
quanto il mondo sia
meraviglioso
[…]
Ma
guarda intorno a te
che
doni ti hanno fatto:
ti
hanno inventato
il
mare
tu
dici non è niente
ti
sembra niente il sole!
La
vita
l’amore
(Negramaro,
“Meraviglioso”, 2008)
Giovedì 19 maggio, il pomeriggio dopo pranzo, venni
ufficialmente dimessa.
L'intervento di rimozione della derivazione ventricolare (il mio incubo
per intere settimane) era riuscito alla perfezione, gli esami ematici
erano ottimi, e le mie condizioni generali si potevano definire largamente soddisfacenti,
come aveva sottolineato lo stesso primario.
Insomma, dopo quattro mesi, ricominciavo a vivere.
Quella mattina, non senza un briciolo di malinconia, avevo dovuto
salutare Marzia e Simona, abbracciandole e promettendo che
saremo uscite a mangiare una pizza, appena avrei ripreso la mia solita
vita al convitto.
Ci scambiammo i numeri di cellulare e, cercando di reprimere qualche
lacrimuccia che insisteva per uscire, le salutai un'ultima volta,
riconoscente per tutto ciò che avevano fatto per me.
Mia madre e mio padre vennero a recuperarmi verso le due: entrambi
sprizzavano gioia da ogni poro, e non vedevano l'ora di riportarmi a
casa, lontano da quella brutta e ancora misteriosa vicenda che mi era
capitata.
Naturalmente salutai anche la mia vicina di letto, la vecchietta che
non smetteva di abbracciarmi e accarezzarmi le guance, benedicendomi
come fosse stata una santa in preda al delirio mistico, quindi dedicai
qualche minuto anche alle altre tre pazienti con cui avevo stretto
rapporti di amicizia e solidarietà, termine forse
più appropriato per descrivere ciò che ci aveva
legato.
Infine toccò alle infermiere e ai medici in turno, ai quali
la mia solerte genitrice aveva portato due enormi vassoi con biscotti e
pizzette artigianali che avrebbero potuto sfamare tranquillamente l'intero ospedale.
Stavo finalmente tornando in quella che ancora per pochi istanti
sarebbe stata la mia camera di degenza, in modo da recuperare l'ultimo
borsone che mancava all'appello, quando mi imbattei nel mio angelo
salvatore.
Lo avevo incontrato qualche ora prima, quando era venuto per portarmi
la lettera di dimissione e spiegarmi i successivi follow-up che mi
avrebbero attesa di lì a molti mesi in avanti.
Ero riuscita a non arrossire, quella mattina, ed era mia ferma
intenzione non dargli a vedere quanto ormai fossi succube di lui.
Cercai di concentrarmi sul camice immacolato che indossava, le tasche
colme di penne e altri oggetti non meglio definiti, mentre il suo
afrodisiaco profumo mi stordiva.
“Lara! Sei ancora qui?” mi domandò, con
una punta di stupore nella voce allegra.
“Sì, stavo andando in camera perché ho
dimenticato una cosa, ma adesso me ne vado”
Balbettai una frase del genere, sciocca ed infantile come solo io, in
quel momento, sapevo di essere.
“Stai tranquilla, nessuno ti caccerà! Allora a
presto, continua con la fisioterapia e buon rientro a casa!”
“Grazie per tutto quello che ha fatto per me.
Arrivederci”
Lui mi guardò con un'espressione ambigua, indeciso se
aggiungere qualcos'altro.
“Grazie a te. Ah, ovviamente ci vedremo per i controlli, ma
nel frattempo tu fai la brava, mi raccomando!”
Mi strinse la mano e si avvicinò a me, baciandomi
inaspettatamente su entrambe le guance.
Il contatto con la sua pelle ricoperta di barba -incredibilmente
soffice, per nulla pungente- mi colse impreparata, e avvertii un
brivido di piacere percorrermi la schiena.
Avrei voluto non lasciargli andare la mano, continuare a stringere
quelle dita, ma l'incantesimo si spezzò senza preavviso.
Lui, infatti, se ne andò verso la sala medica, il passo
sicuro che risuonava nel corridoio vuoto, e si richiuse la porta alle
spalle.
Rimasi ancora per qualche istante a fissare la direzione in cui si era
dileguato, sapendo che, almeno nell'immediato, non lo avrei più rivisto.
“Io faccio sempre la brava …” mormorai
più a me stessa che ad altri, reprimendo con incredibile
forza di volontà il pianto che sentivo affacciarsi negli
occhi.
Così, scrollando la testa in un gesto di rassegnazione,
tornai per davvero in camera, presi il borsone e salutai ancora una
volta la mia ex compagna di stanza.
I miei genitori mi attendevano nell'ingresso, davanti agli ascensori
principali, impettiti ed orgogliosi come se stessero per assistere alla prima mondiale dello spettacolo della figlia.
Subito mio padre prese la sacca che avevo tra le mani, aggiungendo per
la centesima volta che non dovevo sforzarmi in alcun modo, mentre mia
madre continuava ad elargire complimenti all'intero staff sanitario,
soffermandosi ad elogiare la bravura del dottor Cavani, bravo quanto era bello,
che avevano incontrato appena pochi minuti prima.
Finalmente, l'ascensore arrivò: mi fiondai all'interno,
desiderosa solo di andarmene, e soprattutto di non farmi vedere in
quelle condizioni dai miei genitori, che già cominciavano a
darmi sui nervi.
Sapevo benissimo che non avrei dimenticato tanto presto quel posto,
anzi, che non avrei dimenticato lui.
Quando le porte si chiusero, tirai un sospiro di sollievo.
Dopo centodiciannove giorni, l'incubo era finito.
Chissà se, prima o poi, sarei riuscita a superare e a
sbrogliare anche il groviglio di sentimenti che provavo per
quell’uomo…
Arrivammo a casa circa un'ora dopo.
Vissi il breve tragitto fino all'automobile come se mi trovassi in un
sogno: l'aria calda di fine maggio era la sensazione fisica
più bella che avessi mai provato negli ultimi mesi.
Il mio corpo venne percorso da brividi di entusiasmo, mentre tutto mi
appariva nuovo e bellissimo.
Straordinari erano i rumori del traffico, meravigliose erano le voci
dei passanti e dei pazienti che attraversavano il cortile
dell'ospedale, inebrianti erano i profumi che provenivano dal bar.
Era come se fossi atterrata su un nuovo pianeta: dovevo riabituarmi
alla moltitudine di colori, odori e suoni che formavano il mondo, un
mondo che, fino a quel momento, mi era giunto attutito dalle vetrate
della finestra della mia stanza.
Avrei voluto abbracciare tutti, gridare di felicità, ma mi
limitai a sorridere come un ebete.
Il viaggio in macchina fu altrettanto piacevole e pressoché
privo di lunghe code autostradali.
Interpretai quella sorta di calma piatta come un biglietto di benvenuto
virtuale in cui la gente, sapendo del mio ritorno, si era premurata di
liberare le strade per permettere il mio passaggio indisturbato.
Una volta a casa, temetti di ritrovarmi invischiata in una festa a
sorpresa, piena di parenti e conoscenti, ma gli unici ad attendermi
furono mia sorella gemella Giada, mio fratello Matteo e il mio gattone
Syria.
Tutti e tre mi vennero incontro e mi stritolarono con abbracci e baci
di giubilo: anche la mia micia si profuse in miagolii e
strofinamenti contro le gambe, fino a quando non la sollevai e
la strinsi forte a me, sbaciucchiandole la testolina.
Mia madre aveva preparato la pasta che tanto adoravo,
un’ottima torta salata e uno squisito tiramisù,
che divorai come se fossero anni che non mangiavo.
Per gran parte del pomeriggio e anche dopo cena, dovetti rispondere a
dozzine di telefonate di parenti e amici che volevano
sapere quando avrebbero potuto venire a trovarmi.
Andai a letto distrutta ma felice, preda di una sorta di euforia che
imputavo alla riacquistata libertà.
Sopportai a fatica le gentilezze di Giada, che continuava ad insistere
se poteva fare qualcosa per me, se volevo dell'altro dolce, o magari
dell'acqua, se preferivo la finestra chiusa o aperta, se la tapparella
era sufficientemente abbassata …
La ringraziai, assicurandole che non mi mancava nulla.
Lo stesso feci con Matteo, mamma e papà, che arrivarono
all'attacco subito dopo di lei.
L'unica compagnia che desideravo era quella di Syria, che si era
già acciambellata in fondo al letto, vicino ai miei piedi.
Guardai l'orologio sul comodino, constatando che erano appena le dieci
meno un quarto.
In realtà, non avevo molto sonno, ma mi sentivo stanca ed
emozionata dal cambiamento che avevo vissuto in sole poche ore.
Ripercorsi con la mente il mio ritorno, soprattutto quando avevo
rivisto la sagoma del mio condominio color mattone, un'oasi nel deserto
dell'incertezza che avevano rappresentato quegli interminabili mesi.
Calcolai mentalmente di aver trascorso un terzo dell'anno chiusa in
ospedale: quando ero ripartita per il convitto, dopo le vacanze
natalizie, non avrei mai immaginato di dover stare lontano da casa
tutto quel tempo, e non di certo per una vacanza piacevole in qualche
luogo esotico dal nome impronunciabile.
Ogni cosa mi sembrava più bella, persino la chincaglieria
con cui mia madre aveva riempito il soggiorno, persino
quell’improponibile giallino dei divani era luce per i miei
occhi.
Assaporai ogni stanza come fosse un appartamento a me sconosciuto, un
posto che avevo visto solamente attraverso fotografie sbiadite
appartenenti ad altre persone.
Temevo, infatti, di non riconoscere più nulla, di essermi
dimenticata come si facesse a vivere in un posto che non fosse un
ospedale.
Quel silenzio, quel buio in cui mi trovavo, erano inaspettatamente
inusuali.
Dovevo riabituarmi alla normalità, a non svegliarmi di notte
perché qualche campanello tuonava improvviso in corridoio, a
non spaventarmi per le luci che venivano accese per permettere agli
infermieri di eseguire i prelievi quotidiani, a non soffocare
un'imprecazione quando la mia vicina di letto cominciava a blaterare
per andare in bagno, a non sopportare le voci del personale che, alle
sei e mezza di mattina, era come se stessero andando a fare la spesa al
mercato, a non indovinare a chi appartenesse lo scalpiccio che
avvertivo avvicinarsi alla mia camera …
Accarezzai Syria, nella speranza di scacciare quei frammenti di ricordi
che pesavano come macigni.
Il suo manto soffice, però, mi indusse a pensare alla barba
del dottor Cavani, e di conseguenza anche a lui in quanto uomo.
Che cosa
starà facendo? mi domandai, mi ha già
dimenticata? Almeno qualche volta penserà ancora a me?
Ammisi la stranezza del mio comportamento, incomprensibilmente ambiguo,
forse addirittura da pazzi: al posto di essere pienamente contenta del
mio ritorno -e giuro che ero felice, pazzamente felice- la mia gioia
veniva turbata dall'immagine radiosa di quel giovane medico.
Cosa c'era in me che non andava? L'amnesia che non accennava a
dissolversi, prima o poi, avrebbe avvolto nell'oblio anche lui?
Mi ritrovai a pensare che, tutto sommato, ero semplicemente spaesata:
avevo trascorso quattro mesi sotto l'ala protettiva di persone che
sapevano come prendersi cura di me, che mi indicavano quali passi fare,
quale comportamento fosse meglio adottare, a volte persino quale cibo
fosse meglio mangiare!
Era ovvio, conclusi, che adesso ogni cosa sarebbe cambiata, che avrei
dovuto completare il mio percorso verso l'autonomia di cui godevo un
tempo nemmeno troppo lontano.
Eppure, pensare e rendermi conto che l'indomani non avrei rivisto il
mio angelo salvatore, che non avrei udito la sua voce, che non avrei
incrociato il suo sguardo e il suo sorriso, mi riempiva il cuore e la
mente di angosciosa tristezza.
Avevo ancora bisogno di lui, magari non come medico, piuttosto come
confidente, come una certezza fisica e un supporto emotivo.
Mi girai su un fianco, desiderosa di addormentarmi e risvegliarmi senza
quegli stupidi pensieri che mi ronzassero intorno.
Chissà, forse era stato tutto un incubo, un brutto sogno che
sarebbe svanito con il sole della mia città.
Sbuffai impotente e chiusi gli occhi, Syria che si accoccolava meglio
contro la mia gamba, mentre il rumore del silenzio riempiva la stanza.
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Capitolo 9 *** Presagio funesto ***
Voglio
farti un regalo
qualcosa
di dolce
qualcosa
di raro
[…]
Per
ricordarti che il mio amore è importante
che
non importa ciò che dice la gente
[…]
Perché
il regalo più grande
è
solo nostro per sempre.
(Tiziano
Ferro, “Il regalo più grande”, 2008)
“Ti ho portato un regalo… spero ti
piaccia”
Eravamo placidamente sdraiati nel letto di quella che ormai consideravo
la nostra camera d'albergo, in un pomeriggio estivo di pioggia leggera
e sbarazzina.
Avevo la testa appoggiata sul suo petto, gli occhi semichiusi, e una
mano che giocherellava con le sue dita.
Mi ritenevo davvero fortunata a potergli stare accanto e a sentire il
ritmo rassicurante del cuore che batteva dentro di lui, tanto che per
un istante riuscii a percepire solamente quel rumore.
Quindi, mi baciò la chioma e si alzò per andare a
recuperare dalla tasca dei pantaloni beige un pacchettino grigio con il
nastro rosso.
Dopo avermi dedicato un’occhiata eloquente che esprimeva
l'ansia dettata dalla sorpresa che aveva deciso di farmi,
tornò a sdraiarsi, e subito dopo mi porse il regalo.
Lo guardai sorridendo, mettendomi seduta a mezzobusto, il lenzuolo che
lasciava scoperto il mio seno, incuriosita e fremente di scoprire cosa
celasse quella carta.
Mi ritrovai tra le mani un astuccio da gioielleria, le iniziali
dorate JR
ricamate sull'elegante confezione di velluto blu.
Ero emozionata al pensiero di aprirlo, ma anche sicura che contenesse
qualcosa di molto prezioso, qualcosa che di certo mi sarebbe piaciuto.
Una collana,
riflettei, data la forma della custodia che ospitava il misterioso
oggetto, oppure un
braccialetto…
Cominciai a fantasticare sul significato di quell'improvviso gesto, che
mi appariva come il più romantico del mondo: mi sentivo
sprofondare in un mare di felicità, cullata dall'abbraccio
di una soffice nuvola che, pura ed eterea, ero convinta mi avrebbe
portato solamente gioia e tranquillità.
"Non lo apri?"
Gli lanciai uno sguardo pieno d'amore, quindi mi affrettai a scartare
il pacchetto, il cui contenuto mi spiazzò.
Non si trattava infatti di nessuno dei due gioielli che mi ero
prefigurata, bensì di un magnifico orologio in argento e oro
bianco, con il quadrante tempestato di minuscoli Swarovski.
“Ti piace? Non volevo scegliere qualcosa di banale come un
collier o un braccialetto… ti direi che puoi cambiarlo, ma
Marsiglia non è proprio dietro l'angolo”
Indossai immediatamente il cinturino intrecciato a nido d'ape,
ammirando soddisfatta quell'esempio di perfezione meccanica.
“In realtà, non mi piace
molto…”
Riuscivo a fatica a reprimere l'entusiasmo per quel gesto d'affetto -o
d'amore?- che lo aveva portato a scegliere un pensiero tanto bello e
prezioso, qual era ciò che indossavo al polso.
Sbirciai l'espressione sul suo volto, alla ricerca di una smorfia di
imbarazzo o di incredulità, smorfia che non tardò
ad arrivare.
“Oh, scusa… credevo ti potesse piacere. Forse era
meglio se ti inviavo una semplice cartolina”
A quelle parole di giustificazione, però, non riuscii a
resistere oltre: gli saltai addosso, ridendo come una matta, e
cominciai a baciarlo lentamente sulla bocca.
“Sei davvero stupido! Ma certo che mi piace, come potrebbe
non piacermi? Quello che intendevo dire è che tu mi piaci
molto, molto, ma molto di più”
Continuai con tutto l'ardore di cui fossi capace, colma dell'amore che
scaturiva dal mio cuore per un uomo che rappresentava la mia stessa
vita, mentre sentivo la passione annebbiarmi la mente ed i sensi.
“Lo hai capito o no che ti amo?” proseguii, mentre
mi rassegnavo alle sue carezze.
“Certo che l'ho capito, piccolo angelo. E lo sai che anch'io
ti amo”
Lo respinsi per un minuscolo istante, il mio viso vicinissimo al suo, e
lo guardai interrogativa negli occhi ambrati.
Avevo aspettato quel momento da anni, avevo atteso di sentirgli
pronunciare quelle due brevi parole da tempo infinito, e adesso lui mi
aveva accontentata.
Lo strinsi con forza, baciandogli il collo, lasciando che mi
sovrastasse e intrecciasse le mani alle mie.
Ero così felice da sembrarmi tutto irreale.
Mi lasciai andare, sorridendo, mentre fuori la pioggia lasciava il
posto all'arcobaleno.
Cominciavo ad esaurire le scuse da rifilare ai miei genitori per
giustificare il mio ritorno in città in piena estate.
Avevo detto loro che la Facoltà offriva dei corsi gratuiti
di potenziamento per lingue straniere, cosa in effetti vera, e
che quindi mi sarei fermata al massimo tre settimane.
Ma quella sera, dopo che lui ed io avevamo cenato insieme e mi aveva
riaccompagnato al convitto, mi resi conto che l'ultimatum che
scioccamente mi ero prefissata sarebbe scaduto prestissimo, dopo appena
sette giorni.
Ad Alessia -lei sì che stava seguendo delle lezioni
intensive che non avrebbero fatto male neppure a me- non ero riuscita a
confessare nulla, sapendo che avrei dovuto sorbirmi i suoi rimproveri e
il suo punto di vista così lucido e veritiero.
Dopo l'inaspettato agguato che mi aveva visto coinvolta appena due
giorni prima, quando ero tornata dalla mia passeggiata mattutina per
negozi e suor Fabrizia aveva quasi fatto saltare in aria la cucina, non
era mia intenzione ripetere l'esperienza tanto presto.
Insomma, non avevo paura di rimanere ferita, di sentirmi dire che cosa
avrei dovuto o non dovuto fare, perché lo sapevo
perfettamente da me, ma l'amore e la dedizione che provavo per lui
erano più grandi e più immensi di qualsiasi
recriminazione, giusta o sbagliata che fosse.
Mi ritrovai a constatare che ricoprire il ruolo dell'amante
non mi pesava affatto: era una parte di me che non mi faceva
né caldo né freddo, ormai ci ero abituata.
La cosa che mi era praticamente impossibile da sopportare, invece,
che detestavo e che avrei voluto cambiare all'istante, era
poter passare così poco tempo insieme all'uomo che osannavo:
semplicemente cercavo di abituarmi al dato di fatto di doverlo vedere
una volta alla settimana, come fossimo due delinquenti a cui era
concessa la vitale ora d'aria.
Ma quando lo sconforto aveva il sopravvento, quando sprofondavo in una
sorta di amaro vortice molto simile alla depressione tipica della mia
età, mi consolavo dicendomi che non potevo assolutamente
lamentarmi, che dopo tutte le speranze e le preghiere che avevo rivolto
ai santi del Paradiso, quelle ore che riuscivo a trascorrere con lui mi
sembravano un autentico miracolo terrestre.
L'unico vero problema, come scritto poche righe fa, era rappresentato
da quale ennesima scusa avrei propinato alla mia famiglia.
Forse, con un po’ di fortuna, mi sarebbe venuta in mente
un'idea sensazionale, un'idea che sarebbe sembrata così
fattibile da ritenerla solamente una mezza bugia.
Sdraiata sul letto della mia stanzetta, cominciai a costruire castelli
in aria che mi aiutassero a realizzare un piano degno di tale nome: per
prima cosa, ad esempio, avrei domandato ad Alessia se fosse stato
ancora possibile iscriversi al suo stesso corso, perché se
mi avesse dato risposta affermativa, cosa che speravo ardentemente,
avrei risolto all'istante i dubbi della mia coscienza, che avrebbe
continuato a tacere ancora per un bel po’.
Ma la mia compagna di stanza era tornata a casa, quel fine settimana,
perciò avrei dovuto aspettare fino a domenica per
sapere se le mie congetture si sarebbero potute concretizzare.
Guardai il mio bellissimo regalo francese che ancora avevo al polso, e
di cui non volevo affatto liberarmi.
Mi accorsi che il quadrante si illuminava al buio: era mezzanotte meno
dieci, la mia serata da Cenerentola non era ancora conclusa.
Certo, purtroppo il mio Principe Azzurro si trovava già nel
suo palazzo, ed io non avevo perso nessuna scarpetta che mi aiutasse a
rintracciarlo, ma la carrozza della mia fantasia avrebbe atteso qualche
minuto prima di trasformarsi in una avvizzita zucca di campo.
Non avevo sonno, quindi decisi di leggere qualche pagina di uno dei
libri che avevo acquistato pochi giorni prima.
Mentre mi alzavo dal letto per prenderlo, la lampada rossa accesa sul
comodino, un impulso irresistibile mi spinse a recuperare il cellulare
dalla borsetta.
Volevo scrivergli un messaggio, mandargli il famoso bacio della
buonanotte, ma poi pensai che non fosse la mossa giusta.
Se l'altra
ci avesse scoperto, rischiavo che tutto il mio mondo fatato si
sgretolasse, ed io non avevo la minima intenzione di rovinare il mio
sogno.
Lasciai perdere il telefonino, sospirando contrariata, per poi tornare
a concentrarmi sul volume rilegato che avevo tra le mani.
Lessi per quasi un'ora, sebbene dovessi riprendere diverse volte intere
pagine, dal momento che nella mente si aggirava in agguato l'immagine
di lui, così attraente e magnetica.
Alla fine, vinta dal sonno, spensi la luce, l'orologio marsigliese a
tenermi compagnia.
Quella
notte, come da copione, sognai di essere una moderna Cenerentola, ma un
presagio oscuro mi impedii di dormire serenamente.
Quando all'alba mi svegliai, avvertii la cupa sensazione
che un'ombra avesse vegliato su di me, spianandomi la strada
ad una terribile rivelazione.
Infatti, non immaginavo nemmeno lontanamente che cosa mi avrebbe
aspettato di lì a breve.
E mai avrei voluto immaginarlo...
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Capitolo 10 *** Perfetti sconosciuti ***
Un
giorno qualunque
sarai
solo un ricordo spazzato da questa corrente
scommessa
mancata che non vale niente
Da
un posto qualunque
quando
provi a pensare al futuro ma ti torna in
mente
la nostra bellezza
Un
ricordo è per sempre
quanto
è amara adesso la felicità
In
questa stanza il silenzio è solo
100
mila watt
(Dolcenera,
“100 mila watt”, 2016)
Ho
riflettuto molte volte sul fatto che, probabilmente, senza di lui non
sarei riuscita a sopportare la tortura di quei giorni lontani.
Spesso,
nelle esperienze negative della vita, avere accanto una persona
estranea è più importante di un amico, di un
conoscente, persino di un parente.
La
persona estranea non ti deve nulla, e tu non devi nulla a lei, non
è costretta a indorarti la pillola prima di fartela
ingoiare, non tira l'acqua al suo mulino e non finge di credere che
tutto andrà bene, per il semplice fatto che, non
conoscendoti, non sarà mai in competizione con te.
Sapere
che lui era lì, in quella sorta di prigione riabilitativa,
essere certi che ogni giorno lo avrei anche solo intravisto,
significava molto di più che i minuscoli passi in avanti
che, tra difficoltà insormontabili, riuscivo a compiere a
fatica.
Due
settimane dopo le mie dimissioni -erano i primi di un giugno piovoso ma
afoso- ritornai in ospedale per il follow-up programmato.
Mi
accompagnò mia madre, agitata come al solito, e arrivammo
all'ingresso della struttura appena dieci minuti in anticipo
sull'orario prefissato.
Sul
foglio che il dottor Cavani mi aveva dato, c'era scritto che avrei
dovuto recarmi alle nove e mezza presso l'ambulatorio B, piano terra,
seguendo il percorso blu che si snodava sul pavimento.
“Aspetta,
vado a chiedere” ebbe la brillante idea mia madre,
più che altro per rassicurare se stessa e arginare l'ansia
che cercava di rifilare anche a me.
Annuii
poco convinta, mentre si defilava in mezzo alla folla, quindi mi
accomodai su una delle sedie plastificate all'ingresso, di un non
meglio specificato giallo sporco.
Mi
guardai attorno, travolta dalla marea di gente -pazienti, medici e
magazzinieri- che fluiva davanti ai miei occhi.
Dentro
di me, però, stavo pregando di poterlo rivedere, che ci
fosse lui ad attendermi per visitarmi.
A
casa, in quei giorni, ero riuscita a non pensarlo troppo, sebbene parte
della notte ed il risveglio fossero praticamente sempre accompagnati
dalla sua immagine, sorridente e carismatica.
E
quando capitava, rimanevo a fissare il soffitto immerso nel buio,
domandandomi che cosa mi spingesse a torturarmi l'esistenza con il
ricordo di un uomo che, in tutta sincerità, praticamente non
potevo affermare di conoscere.
Ai
miei interrogativi, trovai diverse risposte, ma ognuna riassumeva
un'unica spiegazione a metà tra il razionale e
l'irrazionale: ero innamorata, il perché e il come non lo
sapevo, ma nemmeno m'importava scoprirlo.
D’altronde,
cos'è che ci spinge a dire che quella persona, a pelle, ci
piace più di un'altra che conosciamo da una vita? Ecco,
nell'amore ero e sono convinta che i meccanismi che subentrano siano i
medesimi, misteriosi ed ancestrali, difficili da comprendere alla mente
umana.
“Trovato!”
esclamò mia madre, scuotendomi dalle mie suppliche mentali.
Tornò
entusiasta della sua scoperta, brandendo il foglio su cui erano
appuntate le informazioni relative alla visita.
Guardai
l'orologio, scoprendo che alle nove e mezza mancava solo un minuto, e
ci precipitammo verso il corridoio alla nostra destra, mentre lei mi
trascinava a forza, allo stesso modo di come faceva quando ero piccola,
quando mi rifiutavo di tornare a casa, dopo la festa di compleanno di
qualche amichetta.
Percorremmo
il tragitto che ci separava dalla meta in un tempo record, scansando le
file asimmetriche di pazienti e potenziali tali, che stavano attendendo
il proprio turno in maniera incredibilmente ordinata.
Scendemmo
una decina di gradini di marmo nero, angusti e poco illuminati, quindi
arrivammo in una larga sala d'attesa, le sedie di plastica arancione e
un immenso schermo a LED su cui brillavano lettere e cifre.
“Mamma,
credo dobbiamo fare l'accettazione. Non ce la faremo mai...”
Guardai
affranta il bancone da reception che svettava a pochi metri di
distanza, lucido e degno di un hotel Hilton.
Mi
stavo avvicinando alla schiera di tuttofare che, abbaglianti nelle loro
divise rosse e bianche, già mi stavano rivolgendo un sorriso
da pubblicità, quando la mia solerte genitrice mi
bloccò, spiegandomi con aria sorniona che ci aveva
già pensato lei al piano di sopra.
“Abbiamo
il numero E178” concluse soddisfatta, mettendosi a sedere e
invitandomi a fare lo stesso.
Sospirai
agitata, cominciando a torturare la tracolla della borsa antracite che
avevo abbinato ad un vestito color panna.
Sbirciai
il LED, accorgendomi che era proprio il mio numero a lampeggiare, e mi
lasciai sfuggire un sorriso nervoso.
Scattai
in piedi, controllando sullo schermo il numero della stanza in cui
sarei dovuta andare, pronta ad avviarmi verso il destino e, speravo
ardentemente, anche verso di lui, quando la voce irritata di mia madre
mi spinse a fare dietrofront.
“Lara!
Aspettami, no? Che fretta hai?!”
“Nessuna,
a parte il fatto che stanno chiamando il mio numero… ma non
vorrai venire, vero?”
Una
sensazione di puro terrore mi attraversò la mente, all'idea
abominevole di averla tra i piedi, come guardia del corpo del tutto
sgradita.
Si
alzò per cercare di far valere i suoi diritti di
accompagnatrice ufficiale, ma fu inutile, perché continuai a
rimanere irremovibile sulla mia decisione.
Le
scoccai un'occhiata fin troppo eloquente che la convinse a desistere e,
alla fine, mi avviai verso l'ennesimo corridoio, più stretto
dei precedenti, con le pareti tappezzate di manifesti salutisti.
Avevo
percorso appena pochi passi, cercando il numero della stanza che si
celava dietro le porte scure laccate, quando lo vidi, splendido nel suo
camice bianco.
Era
in mezzo al passaggio, le mani dietro la schiena, e mi stava attendendo
con un ampio sorriso di benvenuto sul bel volto ricoperto di barba.
Stupidamente,
ricambiai con una infantile alzata di mano, e subito mi diedi
dell'imbecille.
“Ciao,
Lara …”
La
sua voce aprì un baratro sotto i miei piedi, e il contatto
dei nostri palmi fu un piacevolissimo déjà-vu,
mentre gli rispondevo con un semplice quanto banale buongiorno.
Mi
ritrovai a pensare che, stranamente, non avevo il cuore in tumulto,
né tantomeno le guance arrostite dall'emozione, ma
l'atmosfera che avvertivo era ugualmente eccitante.
“Allora,
come stai? Come andiamo?”
Ci
accomodammo uno di fronte all'altra, la scrivania di fòrmica
color pesca a dividerci.
“Bene,
molto bene …”
Accolse
la mia risposta annuendo soddisfatto, le dita incrociate ed il busto
leggermente proteso in avanti.
Mi
domandò se a casa avessi avuto qualche disturbo, quali dei
mal di testa improvvisi, giramenti del capo, annebbiamento della vista,
turbe dell'equilibrio, persino febbre e vomito, ma io lo rassicurai,
dicendo che non vi erano state problematiche di sorta alcuna, a parte
qualche rara volta in cui facevo difficoltà a concentrarmi
su più argomenti in contemporanea.
Scrisse
a computer qualcosa che non potei vedere, quindi tornò a
concentrarsi su di me.
Passò
infatti a visitarmi, facendomi sdraiare su un lettino di pelle.
Il
suo tocco delicato rappresentava un piacevole lenitivo e una
più che lauta ricompensa alle mie aspettative di rivederlo.
Era
così bello essere lì con lui…
“Adesso
mettiti seduta, Lara, così ti controllo i riflessi patellare
e pupillare”
Infatti,
aveva appena concluso di mobilizzarmi gli arti superiori ed inferiori,
e adesso mi stava aiutando ad alzarmi.
Con
il martelletto che picchiettava su gomiti e le ginocchia e la
minitorcia tascabile puntata nelle iridi, concluse la prima parte della
visita, perché poi mi disse di fare una serie di esercizi ad
occhi chiusi e di camminare sul pavimento di linoleum, fingendo di
seguire una linea immaginaria tracciata per terra.
“Stai
recuperando davvero in fretta!” constatò,
invitandomi a rivestirmi.
“Sto
facendo fisioterapia, come mi ha consigliato”
“E
va benissimo, infatti. Ascolta, avrei pensato di indirizzarti verso un
centro specialistico. Si trova sempre qui a Milano ma, rispetto a noi,
si occupa esclusivamente di pazienti che sono stati in coma”
Aveva
appena finito di lavarsi le mani nel lavandino posto su una parete
piastrellata della stanza, e mi stava dando le spalle.
Il
suo tono non era più allegro, o forse era solo una mia
sensazione, ma il fatto che non mi guardasse negli occhi, mi fece
presupporre che non fosse così entusiasta di darmi quella
notizia.
“Che
cosa vuol dire?” domandai in apprensione, temendo di non
rivederlo mai più.
Lui
tornò a girarsi verso di me e, ad occhi bassi, mi
accennò a riprendere posto.
“Significa
che, da adesso in poi, i prossimi controlli li farai da loro, e che qui
verrai solo se strettamente necessario”
Deglutii
e distolsi lo sguardo, reprimendo le lacrime che avvertivo pungermi la
congiuntiva.
Mi
diedi della stupida, dell’inguaribile romantica, per aver
pensato di potermi accontentare dei follow-up pur di stargli vicino,
pur di continuare a vederlo.
Adesso,
invece, il castello di sogni che avevo realizzato nella mente andava
sgretolandosi, distruggendosi piano dopo piano, stanza dopo stanza.
“Lara,
questo non vuol dire che smetteremo di occuparci di te, nel modo
più assoluto. Rimarremo sempre in contatto con i colleghi
dell'altra struttura, in modo da avere tue notizie. E poi, se tu
vorrai, potrai venire a trovarci”
Avrei
voluto gridargli che non mi sarei accontentata, che non poteva
trattarmi come un pacco postale, che io lo amavo e…
ovviamente non feci nulla di tutto questo, a malapena riuscivo a
sopportare lo sguardo ambrato che aveva di nuovo posato su di me.
“Nel
resoconto della visita di oggi, ti scriverò anche il nome
della struttura e la collega a cui puoi rivolgerti. E' un' ottima
professionista, credimi, e sono più che convinto che con lei
ti troverai a meraviglia”
Dissi
che andava bene, anche se avrei voluto sparire, anzi, avrei voluto non
averlo mai incontrato, desideravo solamente che lui non fosse mai
esistito.
Aspettai
che la stampante sputasse fuori il foglio a cui aveva accennato pochi
istanti prima, mentre nel frattempo mi imponevo di mantenere un certo
contegno.
“Ecco
a te. Allora arrivederci, Lara. Se hai bisogno di qualunque cosa, sai
dove trovarmi”
Ci
stringemmo la mano, il sorriso tirato di lui che si raccomandava di
portare i suoi saluti ai miei genitori.
Lo
ringraziai, più per cortesia che per necessità, e
tentai di abbozzare un’espressione soddisfatta.
Mi
tenne aperta la porta per farmi uscire, mentre i nostri occhi
s'incrociavano ancora una volta.
Poi,
ripercorsi a ritroso il tragitto lungo il corridoio, senza mai voltarmi
indietro.
“Finalmente!
Ma quanto tempo ti ha tenuta dentro? Sono le dieci e un
quarto!” mi punzecchiò mia madre, venendomi
incontro.
“È
andato tutto bene? Cosa ti ha detto? Ti ha trovata bene?”
Mi
accarezzò una guancia, indagando con uno sguardo preoccupato
che cosa fosse accaduto di talmente grave da giustificare l'espressione
di smarrimento che avvertivo avere sul volto.
“Sì,
è tutto a posto, mamma, non preoccuparti. Ho solo voglia di
tornare a casa. Dai, andiamo”
La
precedetti senza spiegarle altro, continuando a camminare.
Risalimmo
gli angusti gradini di marmo nero, quindi zigzagammo tra la folla in
coda agli sportelli di prenotazione e accettazione.
Sentivo
che non avrei retto ancora a lungo: mi morsi le labbra e, con una mano,
mi asciugai le lacrime, arricciando il naso in una smorfia di dolore.
Mi
sentivo usata, trattata come una qualsiasi paziente.
Ma che cosa ti aspettavi? mi
domandai, che ti
supplicasse di rimanere per sempre con lui? Tu sei solo una paziente
come migliaia di altre che si sono susseguite, e che ancora si
susseguiranno.
Non sei nulla per il grande
dottor Cavani, non vali niente per lui, significhi meno di zero nella
sua lista degli affetti.
“Aspettami,
Lara! Insomma, mi vuoi dire che ti succede?”
sbottò mia madre, mentre mi raggiungeva nel cortile
dell'ospedale.
Scrollai
le spalle, porgendole il foglio che quell'uomo ormai odiato aveva
compilato.
Lo
lesse d’un fiato, mormorando le parole che vi erano impresse,
e assunse un'espressione dubbiosa, subito seguita da un sorriso.
“Beh,
non sei contenta? Insomma, è uno dei centri più
rinomati per questo tipo di problema, almeno da quello che dicono TV e
giornali. E poi, è anche vicino allo svincolo autostradale,
così non dovremo ogni volta attraversare mezza
città!”
La
guardai sbuffando e, riprendendo il pezzo di carta incriminato, salii
in macchina, mentre nella testa mi rimbombavano alcune strofe della
canzone della Mannoia, “Perfetti
Sconosciuti”, il colpo di grazia di quella
mattinata inconcludente.
Quando
i silenzi si mettevano tra noi e ognuno andava per i fatti suoi come
perfetti sconosciuti.
Doveva andare tutto
così anche se adesso ci troviamo qui sulla stessa strada,
dopo una vita già spesa...
Non
mi ero mai sentita così sola e depressa, mai.
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Capitolo 11 *** Mal di testa e panzerotti ***
Non lo so
perché ci si
innamora
Non so
perché si vola
Non sono mai cresciuto
Ma io amo te
non chiedermi
perché.
(Luca Carboni,
“Happy”, 2015)
Domenica
sera, due giorni dopo il terzo incontro all’Hotel Astor e il
meraviglioso orologio che mi era stato portato come souvenir da
Marsiglia, tornò anche Alessia.
Trascorremmo
la serata nella nostra stanza, sdraiate sulla pancia ad abbracciare il
cuscino e a chiacchierare: continuava a ripetere di quanto
fosse felice, talmente
felice che ballerei davanti a tutti, perché
aveva fatto pace con quella specie di rammollito che incarnava il suo
fidanzato, un tizio di qualche anno più grande di noi che
lavorava come meccanico nell'officina dello zio, ma la cui autentica
vocazione era rappresentata dal poltrire e sgraffignare i soldi alla
famiglia di Alessia.
Per
non rovinare l'atmosfera che si era creata, decisi di rimandare
all'indomani le mie indagini per scoprire se fosse ancora possibile
iscrivermi al suo stesso corso, in modo da servire ai miei genitori
l'ennesima scusa su un piatto d'argento.
Così,
la mattina seguente, fui ben felice di accompagnarla in giro per negozi
e, quando ci fermammo su una panchina del parco vicino al convitto,
approfittai del suo buonumore per sfoderare le mie arti persuasive.
“Sai,
dato che quel lavoretto di cui ti ho parlato scadrà questo
fine settimana, che ne dici se ti facessi compagnia alle lezioni che
stai seguendo? Almeno non dovrei tornare a casa e sorbirmi le lamentele
amorose di Giada!”
In
realtà, non mi avevano assunta da nessuna parte,
né tantomeno mia sorella aveva ragione di piagnucolare per
qualche pena d'amore, semplicemente era l'ennesima bugia che stavo
propinando anche alla mia amica, ma era sempre meglio che dover
litigare con lei.
“Non
è possibile, Lara, le iscrizioni ai corsi si sono chiuse
dieci giorni fa”
Nonostate
il tono di voce secco che aveva usato, aprii bocca per domandarle se
fosse davvero sicura delle sue parole, ma mi uscì un ebete ah, certo, se lo dici tu.
Alessia,
una T-shirt verde mela e dei pantaloncini beige su delle sneakers
grigie, mi piantò addosso i suoi occhi azzurri.
“Che
c'è? Mi sembrava una bella idea!” le domandai,
sforzandomi di sorridere.
Lei
si passò una mano tra i capelli castani raccolti in una coda
e, mettendo da parte le due borse colme di acquisti,
continuò a fissarmi, senza dire una parola.
“Beh,
allora magari c'è qualche altro corso che mi puoi
consigliare. Che ne dici?”
Non
volevo ancora demordere, dovevo ad ogni costo trovare una soluzione,
un'alternativa che mi permettesse di rimanere lì ancora per
un paio di settimane, fino a quando lui sarebbe partito per le agognate
ferie estive.
“Può
darsi, se vuoi m’informo, ma non è di questo che
mi volevi parlare, vero? Ormai ti conosco, Lara, e a me non puoi
mentire, anche se lo stai facendo da giorni”
Sgranai
gli occhi, aggrottando le sopracciglia in una smorfia di
incredulità.
“Ma
che cosa stai dicendo?! Io... io non ti sto mentendo, non ho nulla da
nasconderti!”
Voltai
lo sguardo nella direzione opposta, mentre un gruppo di ragazzini in
bicicletta sfrecciava davanti a noi.
Mi
concentrai sulle chiome di una mezza dozzina di salici, a pochi metri
di distanza, appena mosse da una brezza calda e leggera.
Cominciavo
ad essere insofferente, forse per il sole di mezzogiorno che, alto ed
immenso nel cielo, si muoveva lentamente lungo una traiettoria
invisibile a lui solo conosciuta, riscaldandoci in maniera quasi
brutale.
“Se
fosse stato per un ragazzo, a quest'ora me lo avresti già
detto, ne sono sicura. È per quel medico, quello che ti ha
curato tempo fa, che ti sei ridotta così?”
Trassi
un profondo sospiro, poi chiusi gli occhi per un istante:
perché ero sempre così trasparente?
Perché non riuscivo a mantenere un segreto solo per me? Se
da una parte avrei voluto gridare al mondo, all'universo, quanto amassi
profondamente ed incondizionatamente quell'uomo, d'altro canto non volevo
apparire come una stupida ragazzina che si era lasciata abbindolare,
poiché non vi era nulla di più lontano dalla
verità.
Per questo, a malincuore, decisi di capitolare.
“Come
lo hai capito?” volli sapere, tornando a guardarla.
All'improvviso,
oltre ad una rabbia ancestrale, provai una punta di vergogna ad essere
stata scoperta, tanto che mi domandai per quale motivo non glielo
avessi detto prima.
Di
lei sapevo di potermi fidare, ero certa di poter contare sulla sua
amicizia, eppure ciò non era bastato a convincermi.
“Diciamo
che non è stato per nulla difficile. E poi, non puoi negare
che sono un'ottima osservatrice!"
"Dai, non scherzare..."
Lei si umettò le labbra e sospirò in quel suo
modo saggio che sapeva sempre rincuorarmi.
"L'ho capito dal tuo comportamento, Lara, lo stesso di tre anni fa
quando me ne hai parlato per la prima volta. Eri malinconica e felice,
poi felice e malinconica, ed è esattamente lo stato d'animo
in cui versi in questi giorni. Lo sai che detesto fare la parte della
moralista, ma quello che stai facendo, qualunque cosa tu stia
facendo, ti porterà solo del male”
“Dici
che non vuoi fare la parte della moralista, però
è esattamente quello che stai facendo” sbottai,
scuotendo la testa.
“Allora
raccontami che cosa è successo! Voglio solo aiutarti, e lo
sai!”
Mi
grattai la punta del naso, come spesso mi capitava quando ero indecisa
su qualcosa.
Volevo
fidarmi di lei, sapevo di potermelo permettere, ma temevo di lasciarmi
condizionare dai suoi giudizi.
“Se
non hai voglia, io non ti obbligherò. Però, nel
caso succeda qualcosa, non venire a piangere sulla mia spalla o a
lamentarti che avevo ragione!”
Si
alzò dalla panchina, recuperando le due borse con gli
acquisti, quindi mi fissò per qualche istante, per poi
andarsene in direzione del convitto, cinquecento metri più
in là.
“Alessia,
dai, aspetta! E va bene, ti racconterò tutto, ma torna
indietro, per favore!”
In
quei quattro anni, rividi il dottor Cavani solamente altre due volte.
Collaborò
a delle visite durante un paio di controlli che feci nell'altra
struttura, ma non si fermò mai più di dieci
minuti, ed io non andai a cercarlo dove lavorava, sebbene un week end
che uscii a mangiare una pizza con Marzia e Simona, dopo che ebbi
ripreso a frequentare la Facoltà, passai a salutare le
infermiere del reparto.
Inutile
dire quanto fossi affranta e delusa dal suo comportamento, ma mi
consolavo in fretta e senza troppa convinzione, dicendomi che,
dopotutto, lui non mi aveva mai promesso nulla.
Ero
io, piuttosto, ad essermi costruita un film su di noi, io che
continuavo a fare progetti su progetti, senza vederne realizzati
neppure la metà.
Ma
un lato positivo, in tutta questa storia, non tardò ad
arrivare.
Qualche
mese dopo le mie dimissioni, infatti, un fine settimana che ero
rintanata sul divano di casa a poltrire come la maggior parte dei
sabati ed ero intenta a guardare un film incentrato sui ricordi, mi
tornò la memoria, tanto da riuscire a ripercorrere cosa mi
fosse successo quel maledetto giorno di fine gennaio, nella mia stanza
del convitto.
Mi fiondai in cucina, dove mia madre stava stirando, e le urlai
entusiasta che adesso mi appariva tutto più chiaro, definito.
Lei mi guardò incredula e titubante, come se avesse avuto a
che fare con una passante incontrata per caso, pensando che fossi sotto
l'effetto di qualche strana sostanza d'abuso.
Non le ci volle molto, però, a capire a cosa mi stessi
riferendo: per un attimo, credetti che lanciasse il ferro in aria,
talmente si affrettò a raggiungermi e a stringermi, mentre
gridava al miracolo e mi stritolava tra le sue grinfie.
Insistette perché mi sedessi, quindi prendemmo posto al
tavolo, e la inondai delle mie parole.
Era
un mercoledì pomeriggio, ed io ero appena tornata da una
lezione, mentre Greta -la coinquilina di allora- era a farsi la doccia
nei bagni che si affacciavano sul corridoio, quando all'improvviso mi
girò la testa e mi si annebbiò la vista.
All'inizio
non capii la gravità della situazione, anzi, mi limitai a
sedermi sul letto e ad aspettare che passasse, continuando a sistemare
gli appunti che avevo disordinatamente ritirato nel quaderno ad anelli.
Ma
qualche attimo dopo, avvertii un dolore intermittente alla nuca, delle
specie di pulsazioni che mi costrinsero a piegarmi in avanti, pur di
cercare di attutirle.
Poi,
non passandomi, mi arresi a sdraiarmi, sperando in un minimo
miglioramento, che purtroppo non avvenne.
Solo
allora mi resi conto che qualcosa non andava, che avevo bisogno di
qualcuno, così tentai di alzarmi e di aprire la porta della
camera, il modo migliore per gridare aiuto e richiamare
l’attenzione.
Sfortunatamente,
riuscii solamente a compiere qualche passo, perché caddi a
terra, svenuta.
Mi
trovarono Camilla e un'altra ragazza, le quali chiamarono
immediatamente suor Fabrizia e l'ambulanza.
Le loro voci mi arrivavano attutite e non riuscivo a metterne a fuoco i volti, mentre alternavo riprese di conoscenza a nuovi e
più duraturi svenimenti.
Poi, l'oblio. Il resto
della vicenda, ormai, è diventato dominio anche vostro.
Capite
anche voi che non potevo aspettare il follow-up seguente
per raccontare che la mia amnesia lacunare era finalmente scomparsa,
per cui, il lunedì successivo, fissai un appuntamento
più ravvicinato con la dottoressa Lentini, la
neurofisiopatologa che mi seguiva.
Escludendo
la causa accidentale e quella colposa, decise di approfondire il mio quadro immunologico ed autoimmune,
come lo definì, sottoponendomi ad una serie di esami
ematologici molto specifici e mirati: erano talmente tanti che temetti
di svenire dissanguata.
Il
risultato di tali prelievi fu abbastanza sconcertante, almeno per
quanto mi riguardava: si scoprì, infatti, che il mio povero
cervello era stato preda di una neurotossina vegetale, una sostanza che
mi aveva avvelenato poco a poco.
Il
responsabile di tutto, quindi, era una bestiolina microscopica, dal
nome impronunciabile, che ama ricreare il suo habitat ideale nelle
acque inquinate, nel cibo avariato e negli scarti alimentari infestati
da escrementi.
La
Lentini mi spiegò che i miei anticorpi non potevano essersi
sbagliati: tuttavia, dall'abnorme quantità che era emersa
dalle analisi, era assai probabile che il mio malessere fosse stato il
risultato di una sorta di lungo avvelenamento.
Le
conseguenze che avevano provocato al mio cervello, infatti, rimanevano
comunque molto rare, tanto che, in oltre la metà della
popolazione, si sarebbe verificata una banalissima intossicazione con
febbre elevata e sintomi gastrointestinali.
Una
volta appurata la mia sfortuna, cercai di fare mente locale,
ricostruendo dove avrei potuto subire quel misterioso avvelenamento.
Di
certo non al convitto, mi convinsi, perché sia suor Fabrizia
che suor Augustina erano delle cuoche superlative, ed inoltre, nelle
settimane precedenti il mio svenimento, nessuna di
noi venti ragazze si era mai sentita male.
A
pranzo, invece, ero solita mangiare sempre al medesimo posto, anche
se… ma certo! Il bar Quattro
Stagioni aveva chiuso per ristrutturazione prima di Natale,
e quando tornai in città, dopo le vacanze, lessi sul
cartello all'esterno che sarebbe rimasto serrato ancora per un altro
mese.
D'un
tratto, mi fu finalmente limpida ogni cosa: avevo dovuto scegliermi un
altro locale, un bugigattolo coloratissimo qualche centinaio di metri
più in là.
Era
davvero minuscolo, ci stavano solamente quattro sedie appoggiate al
bancone di plastica bianca, ma preparava degli involtini di melanzane e
pomodoro davvero squisiti.
Raccontai
i miei ricordi e i relativi dubbi alla neurofisiopatologa, che fece
scattare una denuncia ai NAS.
Qualche
giorno dopo, infatti, ascoltai in televisione che al posto incriminato
erano stati messi i sigilli, a seguito delle indagini dei Carabinieri,
i quali avevano evidenziato come la quasi totalità del cibo
utilizzato fosse avariato, scongelato e ricongelato, pronto da servire
agli ignoti clienti come la sottoscritta.
Insomma,
lì non si preparavano esattamente quelle che si definiscono
"ricette di alta cucina", ma almeno giustizia era stata fatta.
A
breve, definiranno una data per l’inizio del processo, e io
sarò chiamata in causa come parte lesa.
Tutta
questa storia, però, Alessia la conosceva già.
Quello che nessuno sapeva, invece, era che circa un mese e mezzo prima
degli eventi che ho cominciato a narrare con il primo incontro
all'Hotel Astor, mi ero rivolta al dottor Cavani.
Negli
ultimi quindici giorni, infatti, avevo accusato dei forti mal di testa,
di cui non riuscivo a spiegare l'origine.
Cominciai
a temere che potessero essere dei postumi collegabili alla mia vicenda
di quattro anni prima e, spaventata, decisi di contattare la dottoressa
Lentini, la quale però stava partendo per le ferie.
Secondo
lei, era comunque una questione da discutere con i chirurghi, in quanto
l'ultimo follow-up
di due mesi prima rientrava assolutamente nella norma.
Mi
consigliò, perciò, di contattare lui, il mio
angelo salvatore.
Non
mi sembrava vero che avrei avuto la possibilità di
rincontrarlo, così non me lo feci ripetere due volte.
Chiamai
la segretaria per fissare un appuntamento, anche privatamente mi
sarebbe andato bene.
Mi
disse che c'era un posto per il mercoledì successivo, alle
dodici, e confermai all'istante.
Trascorsi
quei giorni d'attesa come se fossi in una bolla di sapone: tutto mi
arrivava attutito, ogni cosa mi appariva piacevolmente deforme.
Mi
domandavo in continuazione se fosse cambiato, addirittura se lo avessi
riconosciuto. Mi sarebbe piaciuto ancora? E lui, di me, che ricordi
conservava?
Mi feriva il fatto di non
riuscire più a rammentare la sua voce e neppure la perfezione
dei suoi lineamenti, ma il suo profumo e la dolcezza delle sue mani
continuavano a rimanere vividi nella mia mente.
Mi risposi che non vedevo l'ora di rivederlo, di parlargli, di fargli
sapere che esistevo.
Pensavo,
guardavo la TV, ascoltavo la musica, leggevo, ma era come se avessi
sempre davanti la sua immagine, ora sbiadita.
Quel fatidico mercoledì, uscii dalla biblioteca della
Facoltà alle dieci; con la metro tornai al convitto, mi feci
una doccia veloce e mi cambiai, recuperando dalla sedia il vestito
rosso che avevo scelto di indossare la sera prima.
Optai
per un trucco leggero ma visibile, composto da mascara, matita azzurra
e pochissimo fard.
Ero
indecisa sul colore del rossetto, concludendo alla fine per un
brillante prugna.
Fissai
la mia immagine nello specchio, i capelli raccolti in morbide ciocche,
e mi ritenni soddisfatta del risultato d'insieme.
Arrivai
all'ospedale in netto anticipo, così ne approfittai per
chiudermi nel primo bagno disponibile a ripassare le battute che mi ero
immaginata di pronunciare.
Non
prendetemi per pazza, semplicemente volevo fare bella figura, volevo
che lui fosse felice di rivedermi, che rimanesse affascinato dalla mia
presenza.
Ovviamente,
speravo che non mi trovasse nulla, che i mal di testa che erano
improvvisamente e fortunatamente diminuiti, non celassero un cattivo
presagio.
Spruzzai
sul collo e sui polsi l'acqua profumata al muschio bianco che avevo
portato nella borsa.
Ora
sì che mi sentivo abbastanza pronta, ma anche tanto
emozionata: mi ripetevo che dovevo stare tranquilla, che quella era la
mia grande occasione, che tutto sarebbe andato per il meglio.
Inspirai
ancora una volta ed uscii dal bagno.
La
visita era andata bene, il dottor Cavani era stato molto contento di
rivedermi.
Mi
aveva rassicurato, dicendomi che poteva capitare assai di frequente che
si verificassero questi episodi.
L'importante
era tenerli sotto controllo e parlarne con chi mi seguiva, per il resto
potevo stare assolutamente tranquilla.
Stavo
già uscendo, pensando ad una scusa che mi trattenesse ancora
qualche minuto, quando lui, in piedi davanti a me, mi fece una proposta
a cui non pensai nemmeno un istante di dire di no.
“Se
ti va, possiamo andare a mangiare qualcosa. Oggi ho un'ora in
più di libertà!” scherzò,
sorridendomi.
Non
era cambiato nulla, mi convinsi a ragione, non avevo mai smesso di
pensarlo, e nemmeno di amarlo, adesso ne avevo la conferma.
Sebbene
il suo ricordo fosse diventato ogni giorno più sfocato, sebbene
il tono della sua voce fosse rimasto sommerso dentro di me, quel sorriso
amabile e quel profumo eccitante continuavano a provocarmi un brivido
di puro piacere.
Deglutii
felice, immensamente soddisfatta per quel colpo di fortuna che avevo
avuto.
“Sì,
certo, mi farebbe molto piacere” risposi, cercando di celare
l'entusiasmo travolgente che avvertivo scombussolarmi.
“Bene!
Allora andiamo!”
Mangiammo
dei panzerotti giganti e un gelato al pistacchio e cioccolato ad un bar
lì vicino, in una stradina tipica, con l'acciottolato di
sampietrini e i locali colorati dai tetti a pergolato.
Mi
pregò di dargli del tu, in quanto lo imbarazzava questa
forzata distanza rappresentata dalla forma di cortesia: naturalmente,
acconsentii di buon grado, perché la cosa non mi dispiaceva
affatto, tutt'altro.
Offrì
lui, come mi aspettavo, e parlammo di molte cose, anche banali, quali
il gusto preferito della pizza o il posto che avremmo voluto visitare
durante le prossime vacanze.
Mi
sembrava di essere in un film, era tutto così sospeso, quasi
impossibile.
Fluttuavo
in un limbo a metà tra la realtà e la mia
immaginazione più sfrenata, e non riuscivo a decidermi quale
delle due fosse meglio.
Uscimmo
dal locale che erano le due, il sole di luglio che batteva sulle nostre
teste.
Lo
riaccompagnai in ospedale, dove ci salutammo all'ingresso, in mezzo al
cortile, tra la folla di sconosciuti che andava e veniva.
Non può finire
così, continuavo a ripetermi, devo trovare un modo per non
farlo scappare.
“Mi piacerebbe ricambiare il tuo
invito…” proposi, speranzosa nella sua risposta.
“Sì,
certo, piacerebbe anche a me. Però, offro sempre
io!”
Mi
morsi le labbra e fissai il colletto della sua camicia rosa antico,
aspettando che facesse il primo passo.
“Ti
lascio il mio numero” dissi alla fine, non riuscendo a
resistere oltre.
Lui
annuì e tirò fuori dalla tasca un iPhone di
ultima generazione.
Gli
dettai le dieci cifre, il cuore in tumulto, pregando mentalmente che mi
chiamasse al più presto.
“Ti
faccio uno squillo…” continuò, mentre
estraevo il cellulare dalla borsetta.
“Perfetto,
allora ti chiamerò una di queste sere. Adesso vado, buon
lavoro”
Ci
stringemmo la mano, poi lui si avvicinò e mi
stampò un bacio sulla guancia.
“Mi
ha fatto piacere rivederti, Lara. A presto”
Lo
salutai ancora una volta, agitando la mano, mentre lo guardavo
allontanarsi, per scomparire poco dopo oltre le porte scorrevoli.
Alzai
gli occhi al cielo, sorridendo e reprimendo la voglia di saltare.
Stavo
toccando il paradiso con un dito, ed era una sensazione stupenda!
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Capitolo 12 *** La terrazza sul Duomo ***
Friends
will be friends,
when you’re in need of love
they give you care and attention
[…]
When you’re through with life and all hope
is lost,
hold out your hands ‘cos friends will be
friends right till the end
(Queen, “Friends will be friends” 1986)
Le parole mi fluivano come se ci fosse una mano invisibile intenta a
farmele uscire dalla bocca.
Non provavo più alcun dubbio, alcuna vergogna o timore a
confessare ad Alessia ciò che mi era accaduto,
perché ogni frase mi appariva sorprendentemente naturale ed
ovvia.
“E dove vi incontrate? Perché vi siete incontrati,
vero?”
La
mia amica mi guardava con aria in parte incredula ed in parte
entusiasta: capivo infatti che, tutto sommato, appoggiava i miei colpi
di testa e, da innamorata qual era, comprendeva i sentimenti che mi
legavano a lui.
“Ci
siamo rivisti tre settimane fa. L'ho chiamato due giorni dopo che siamo
andati a pranzo. Lo so, forse ho fatto passare troppo poco tempo, ma
non volevo perderlo un'altra volta, non me lo potevo
permettere, capisci?”
Lei
annuì pensierosa, ed arricciò bocca e naso, come
a voler rifletterci un attimo.
“E
poi? Cos'è successo?”
Distolsi
lo sguardo da lei, mentre le campane del convitto suonavano la mezza, e
mi immersi nei ricordi.
Non
sembrò stupito dalla telefonata che gli feci quel pomeriggio
in questione, tanto che pensai che la stava aspettando con la
stessa trepidazione che, almeno per me, aveva caratterizzato quelle ore
di lontananza.
Ci accordammo per rivederci la sera successiva, lasciando che fosse lui
ad organizzare tutto.
Con Alessia tentai di comportarmi allo stesso modo, ma tanto lei
passava la maggior parte del mattino e del pomeriggio rintanata in
Università a seguire i corsi di perfezionamento di Lingue,
quindi non mi preoccupai più di tanto di apparire naturale e
spigliata.
In cuor mio, però, ero elettrizzata! Che cosa avrei dovuto
mettermi? Gli era piaciuto il profumo al mughetto bianco che mi ero
spruzzata quando ero andata alla visita? Dovevo truccarmi in modo
leggero o sarebbe stato meglio forzare la mano?
Passai la notte che ci separava a rigirarmi nel letto, a prepararmi un
discorso che risultasse efficace e maturo, ad immaginare come si
sarebbe svolto il nostro incontro.
Finalmente, il momento tanto atteso arrivò, lasciando alle
spalle tutti gli interrogativi.
Per
telefono, il pomeriggio precedente, gli avevo spiegato dove alloggiavo
e, alle sette, passò puntuale a prendermi.
L'orario
era inusuale per i miei standard, ma temevo che la scelta gli fosse
stata dettata dal fatto che, a casa ad
aspettarlo, ci fosse
l'altra.
Mi
portò a cena in un locale dall'altra parte della
città, un ristorante
molto grazioso, con la terrazza panoramica dalla quale si intravedevano
le guglie
del Duomo: per
l'intera serata, fortunatamente, non accennammo mai alle nostre vite sentimentali,
parlammo invece di libri e di film, di viaggi e di cibo.
Gli
domandai come andasse il lavoro, se il personale fosse sempre lo stesso
(a questo proposito, mi tenevo aggiornata grazie alle
informazioni che mi passavano Marzia e Simona, le mie ex
fisioterapiste, ma glielo chiesi per prolungare la conversazione e,
quindi, il momento in cui avremmo dovuto separarci) e se ci fosse
qualche novità che aveva piacere di condividere con me.
“Non
è cambiato nulla, se non che ti ho ritrovata”
Mi
sorrise mestamente, cercando un contatto con la mia mano destra
impegnata a recuperare il bicchiere per bere, e lo lasciai fare.
Abbassai
gli occhi in un gesto di schermo, lusingata dalle sue parole, sebbene
avrei voluto precisare di non essere stata io quella ad essersi
allontanata, dal momento che mi era stato imposto ormai quattro anni
prima, seppure per il mio bene.
In
quel ristorante, ogni volta che voltavo la testa, mi imbattevo in
coppiette o allegre famiglie perse gli uni negli sguardi degli altri, e
tirai un sospiro di sollievo accorgendomi che anche lui, proprio come
quelli sconosciuti, sembrava essere così tanto a propio agio.
Alle dieci eravamo già sulla strada di ritorno: il
coprifuoco al convitto scattava un'ora dopo, ma era inutile girovagare
per la città come una qualunque coppia, perché di
fatto noi non eravamo una qualunque
coppia.
Le
mille luci che emanavano i lampioni, che animavano le insegne
o i cartelloni pubblicitari, si sommavano a quelle provenienti dalle
abitazioni, creando uno spettacolo davvero incantevole, che mi spingeva
ad ammirare ovunque quel panorama luminosissimo.
Insolitamente,
non c'era molto traffico, e l'atmosfera che si era creata tra di noi
era davvero piacevole.
Guardavo
fuori dal finestrino leggermente abbassato, la brezza notturna che mi
scompigliava le ciocche dei capelli lasciate libere dal morbido chignon.
Era
calato il silenzio, ma capivo che entrambi avremmo voluto parlare,
soprattutto lui, che approfittava ogni minuto per lanciarmi
occhiate fugaci.
Feci
finta di sistemarmi l'abito nero che mi ero comprata per l'occasione,
cercando di pensare ad una battuta che risollevasse un po’
l'umore.
Qualche
secondo dopo, però, fermò la sua Lancia Flavia
davanti al convitto, e di nuovo l'emozione mi assalì
prepotente.
“Allora,
grazie mille per la serata” abbozzai timidamente.
Ci
girammo, trovandoci l'uno di fronte all'altra: avrei dovuto avvicinarmi
per baciarlo su una guancia? Avrei dovuto fare finta di niente,
augurargli la buonanotte e scendere dalla macchina come se nulla fosse?
Ma
fu lui a togliermi dall'imbarazzo o, dipende dai punti di vista, a
mettermi in imbarazzo.
“Lara,
ascolta, devo dirti una cosa. Sono stato benissimo questa sera con te:
mi piace passare del tempo in tua compagnia, mi è sempre
piaciuto, ma… uffa, è difficile dirtelo senza
rovinare tutto”
Voltò
per un istante la testa e appoggiò le mani sul volante,
accarezzandolo.
Percorsi
il profilo della sua fronte, del naso, della mascella puntellata di
quella barba curatissima, fino a concentrarmi sulla camicia bianca
firmata Zegna, che metteva in risalto l'incarnato già
abbronzato.
Avrei
dato qualsiasi cosa pur di stringerlo tra le mie braccia, qualsiasi
cosa, lo giuro…
“Se
mi vuoi dire che sei già impegnato, lo so. Con una
cardiologa, giusto? O forse ne hai trovata un'altra?”
Lui
tornò a guardarmi con aria stupita, poi sorrise sornione.
“Ho
sempre pensato che oltre ad essere bella fossi anche intelligente. E,
ammetto volentieri, che non mi sono sbagliato”
Cercai
di sorridere a mia volta, anche se, dentro di me, avrei voluto
schiaffeggiarlo, imporgli di lasciare l'altra, gridargli che ero io la
migliore, quella che lo amava e lo aveva sempre amato.
“Siete
sposati?”
“No…
Anzi, a questo proposito, c'è un'altra cosa che devo
dirti…”
“Lo
so, cioè so che sei separato”
“Chi
te lo ha detto?” si stupì, mentre i fari di una
macchina che passava illuminavano il suo viso piacevolmente sorpreso.
“Diciamo
che l'ho scoperto grazie alle famose voci di corridoio”
Aspettai
che proseguisse, ma non disse più nulla, quindi ripresi io
la parola.
“Per
me non è un problema, davvero. Voglio dire, non mi importa
se tu sei impegnato con un'altra persona: non ti imporrò
nulla, non ti assillerò, se è questo che temi,
né sarò gelosa, almeno cercherò di non
esagerare. Insomma, non ti chiedo nulla, solo di stare con me. Se tu lo
vuoi, ovviamente”
Mi
guardò per qualche secondo negli occhi, mentre avvertivo il
cuore scoppiarmi nel petto.
Poi,
finalmente accadde: avvicinò la sua bocca alla mia, baciandomi lentamente, le mani che mi accarezzavano il viso.
Non
ero stupita dal gesto, perché era ciò che
desideravo dall'inizio della serata, la fantasia proibita che, da
quando lo avevo rivisto tre giorni prima, speravo si realizzasse.
Ci
allontanammo sorridendo, scrutandoci forse con una punta di imbarazzo,
per poi abbracciarci e respirare l'uno il profumo dell'altra.
Avrei
voluto stare lì tutta la notte, andare via insieme e
perderci per la città, ma non volevo rovinare tutto e,
soprattutto, dovevo schiarirmi le idee, razionalizzare la mia immensa
felicità.
“Ora
devo andare… quando ci rivedremo? Oh scusa, ho
appena promesso che non ti avrei assillato!” sdrammatizzai,
abbassando lo sguardo e costringendomi a non urlare di gioia.
“Presto,
molto presto. Ti scrivo domani, d'accordo? Sono di guardia,
così avrò più tempo”
Mi
baciò ancora una volta, quindi scesi dalla Lancia,
salutandolo con un sorriso.
Quella
notte, com'era prevedibile, mi addormentai molto tardi: presi sonno che
erano le tre meno un quarto.
“Oh
Lara, che storia incredibile” sospirò trasognata
Alessia, mentre appoggiava la schiena alla panchina del parco.
“Ma
ancora non ho capito come e dove vi incontrate…”
Ecco, mi dissi, lo sapevo che sarebbe arrivato
il punto dolente.
“Beh,
in un albergo, che tra l'altro non è neppure molto distante
dall'ospedale in cui lavora”
“Che
cosa?!! Sei impazzita?! In un albergo come… come…
sì, insomma, hai capito come chi!”
Le
presi le mani, intente a gesticolare, e la rassicurai con un sospiro,
suggerendole di calmarsi.
“È
l'unico posto che abbiamo trovato. Qui al convitto non posso di certo
portarlo: in quella
camera ci siamo
strette noi! E a casa sua… beh, lo sai perché non
possiamo, te l'ho appena detto”
Mi
grattai una tempia con fare nervoso, sperando che almeno lei mi capisse
e non ricominciasse a tediarmi con la solita morale.
“Ma
Lara, non credo sia una bella cosa! Voglio dire, immagina che qualcuno
ti riconosca, che metta in giro delle strane voci sul tuo conto, che
figura ci fai? Tu vali molto di più, non meriti di essere
paragonata ad una… beh, ci siamo capiti, no? O cavoli, non
ci voglio nemmeno pensare!”
“Cosa
c'entra, Alessia?! Lo stesso discorso vale anche per lui, anzi,
è lui quello che rischia di più in tutta questa
storia! Non pensi al suo lavoro, alla sua reputazione? Io
sì, io ci penso ogni giorno ed ogni volta che ci
incontriamo!”
Mi
stavo arrabbiando, ma sapevo che la mia amica non c'entrava nulla, che
non dovevo sfogare la mia frustrazione su di lei.
Era
tutta colpa del tempo, delle circostanze in cui lo avevo conosciuto,
forse persino della differenza di età.
Ma
se non fossi stata in coma, lo avresti mai incontrato?
Quella
domanda cominciò a ronzarmi in testa in modo prepotente e
martellante, tanto da non poterla ignorare.
Mi
risposi di no, che probabilmente non lo avrei mai incontrato. O forse
sì, chi può dirlo?
E
allora, come sarebbe stata la tua vita?
A
questo era impossibile rispondere, com'è tutt'oggi inutile e
privo di senso tentare di farlo.
“Scusami,
non volevo ferirti” mi abbracciò Alessia.
Ricambiai
quel gesto affettuoso con trasporto: avevo bisogno di confidarmi con
qualcuno, avevo bisogno che qualcuno mi capisse e non mi giudicasse, ma
accettasse le mie scelte, per il semplice fatto che fossero scelte
dettate dall'amore profondo, totale e incessante che provavo per lui.
“Grazie
che ci sei sempre” dissi semplicemente, sciogliendomi
dall'abbraccio e guardandola negli occhi azzurri.
“Lo
sai che su di me puoi contare. Posso anche non condividere il tuo punto
di vista, Lara, ed è così, ma se questo ti fa
stare bene, se vi amate, adesso è questo l'importante,
quello che conta veramente. Sono sicura che, prima o poi, troverete una
soluzione. Ma ora torniamo al convitto: mi sto arrostendo con tutto
questo sole, sembra di essere nel deserto!”
Ridemmo
entrambe a quella battuta, stanche di sopportare quella calura dettata
dai raggi dell'una.
La
aiutai a recuperare le borse piene di acquisti, e ci avviammo verso il
convitto, le fronde dei salici immobili.
Adesso, con il tanto odiato e saggio senno del poi, continuo a
ripensare a quei giorni come se mi fossi trovata su di un altro
pianeta, dalla cui superificie misteriosa scorgevo ciò che
invece mi stava accadendo sulla Terra, non riuscendo però a
razionalizzare e ad affrontare l'intera situazione con la serietà che
necessitava.
E' strano e alquanto difficile da spiegarvi senza rischiare di
affrettare i tempi di questa storia, ma non so in quale altra maniera
potrei raccontarvi ogni cosa.
Anzi, ad essere completamente sinceri, mi sono accorta di non averlo
mai chiamato con il suo nome di battesimo, ma sempre e soltanto
appellandomi a lui con il titolo di dottor Cavani.
Dio santo, quanto amavo e quanto amo quell'uomo!
Ero come ossessionata da lui, tanto da rifiutarmi di incontrare
qualsiasi altro ragazzo che mi degnasse di vaghe attenzioni o che mi
attraesse anche solo lontanamente.
Io volevo e voglio solo lui, come ve lo devo dire?!
Certo, è buffo pensare che non so neppure dove abita,
insomma, non conosco né il suo indirizzo e nemmeno l'albero
genealogico della sua famiglia (non tutto, ovviamente, ma almeno sapere
chi sono i suoi genitori).
Di lui, praticamente, non so quasi nulla.
Prima di rincontrarci, non mi vergogno a dire che passavo interi
pomeriggi a navigare sui siti delle rubriche telefoniche per cercare di
rintracciare il suo numero di fisso, senza mai riuscirci, e cadendo
puntualmente nello sconforto più nero.
Avevo persino immaginato di assumere un investigatore privato che mi
aiutasse a rintracciarne l'abitazione, che lo pedinasse, che mi sapesse
dire che targa di automobile avesse, ma fui costretta a demordere a
causa delle mie ristrettezze finanziarie.
Pensate che io sia una stalker,
vero? Beh, non mi importa!
Io so solo che non ho mai provato nulla di simile per un'altra persona,
che il sentimento viscerale che nutro nei suoi confronti è
talmente immenso e sincero che quasi mi spaventa e mi stordisce!
Bene, ora devo interrompere questa parte del racconto, ma
proseguirò presto per aggiornarvi su un avvenimento che ha
letteralmente cambiato la mia visione delle cose, sconvolgendole ancora
una volta.
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Capitolo 13 *** La notte stellata ***
If you
were here beside me
[…]
I’d
tell you that I loved you before I ever
knew you
‘cause
I loved the simple thought of you
[…]
There’s
so much this hurt can teach us
both,
There’s
distance and there’s silence, your
words have
never left me,
they’re
the prayer that I say every day
(Snow
Patrol, “New York”, 2011)
Quattro
giorni dopo le mie confessioni ad Alessia, mi incontrai con lui.
Stesso
posto, stesso orario, stessa camera.
Era
un venerdì incredibilmente afoso, facevo persino fatica a
parlare e a muovermi, talmente il livello di umidità era
insopportabile.
Avevamo
appena finito di fare l'amore, e adesso lui si era alzato per
spalancare la finestra socchiusa.
Erano
quattro settimane, ormai, che quell'albergo era diventato il nostro
piacevole ritrovo, e continuava a conquistarmi sempre di più.
Mi
guardai attorno, accarezzando con lo sguardo il lampadario, l'armadio,
lo scrittoio con la TV, persino le sedie e la poltroncina rivestite di
velluto blu, il tutto adagiato sul parquet, fino a soffermarmi sui due
grandi quadri di Van Gogh.
Il
primo raffigurava "La
stanza di Arles", e tappezzava quasi interamente la parete
di fronte al letto; l'altro, invece, riproduceva "La notte stellata",
ed era stato appeso proprio sopra il baldacchino rosso che proteggeva i
nostri corpi ancora mezzi nudi.
“Mi
piacciono molto queste stampe” considerai ad alta voce,
mentre mi mettevo a sedere.
Lui
tornò indietro, il torso nudo e i pantaloni non allacciati
sui piedi scalzi, ma non disse nulla, nemmeno mi guardò.
“Che
cos'hai? È per via di questo caldo?”
Mi
avvicinai, l'accappatoio indosso che mi ero messa dopo la doccia, e gli
accarezzai una guancia, cercando di sorridergli e di capire l'origine
di quell'improvviso silenzio.
A
dirla tutta, era da quando era arrivato che sembrava strano, ma non
avevo insistito per sapere il motivo di un comportamento tanto diverso
dal solito.
“Se
ti ho fatto qualcosa, non credi che dovrei saperlo?!” sbottai
forse esageratamente, dopo l’ennesima assenza di risposta.
Era
sovrumano reprimere il moto di stizza che avvertivo salirmi fino
all’esofago e che mi faceva prudere le mani: ma per quale
ragione si ostinava a rintanarsi in quel dannato mutismo?! Cosa stava
succedendo tra di noi? Che cosa gli avevo fatto di così
terribile da indurlo a non rivolgermi nemmeno una semplice sillaba o
una banale parola?!
Avevo
di nuovo davanti la sua schiena, e questo fatto che non si girasse a
guardarmi mi stava dando davvero sui nervi.
Ripercorsi
velocemente con la mente le ore precedenti, persino l'ultima settimana
che non ci eravamo visti, ma non mi sovveniva alcuna spiegazione degna
di una logica a me ignota.
“Tu
non mi hai fatto niente, Lara, non mi hai mai fatto niente se non del
bene…”
Perché
temevo che quelle parole celassero una terribile notizia?
Perché aveva quel tono basso e, seppure si fosse finalmente
voltato verso di me, mi stava fissando con quegli occhi d'ambra
insolitamente sofferenti?
“E
allora per quale motivo ti comporti così?! Dammi un motivo,
una spiegazione che mi aiuti a capirti!”
“Lei...”
“Lei
chi?”
“Lei
è incinta di quasi quattro mesi. Dovrebbe essere una
bambina, cioè, è una bambina”.
Aprii
la bocca in una smorfia di smarrimento, retrocedendo verso il letto.
All'improvviso,
sentii mancarmi l'aria, la testa mi girava e nelle orecchie continuava
a rimbombarmi quell’assurda frase.
Non
ci potevo credere, non volevo crederci… era un incubo, forse
avevo capito male, forse si riferiva a qualche altra donna…
“Lara,
ascoltami, io l'ho saputo il giorno dopo che sono tornato da Marsiglia:
ti giuro che prima non sapevo nulla! Era da due anni che insisteva per
avere un figlio, ma non ci riuscivamo. Per questo me lo ha tenuto
nascosto fino ad allora… perdonami”
Tentò
di sfiorarmi il braccio, ma io lo respinsi.
Mi
misi invece a sedere sul letto, stordita, nervosa, vergognandomi di
tutto questo.
Avevo
pensato che, con la mia sola presenza, ogni cosa sarebbe cambiata, ne
ero pazzamente convinta.
Credevo
che quello che ci aveva legati sarebbe bastato a superare le
difficoltà, le differenze che ci univano e, allo stesso
tempo, ci dividevano.
Per
l'ennesima volta, avevo fatto la figura della stupida,
perché io ero una stupida, una poco di buono, una persona
senza un briciolo di cervello!
L’occhio
mi cadde sull’orologio in argento e oro bianco, con il
quadrante tempestato di minuscoli Swarovski e il cinturino intrecciato
a nido d’ape, simbolo dell’amore che avrebbe dovuto
unirci per sempre.
Inconsciamente,
avrei voluto prenderlo e scaraventarlo contro il muro, contro di lui,
calpestarlo per poi gettarlo dalla finestra: tuttavia, una strana forza
mi inchiodava la mano sulle ginocchia nude, mentre
l’accappatoio scivolava dalle spalle.
In
quelle ultime due settimane non aveva fatto altro che ingannarmi,
cercandomi e parlandomi come se nulla fosse accaduto, desiderandomi e
coprendomi di baci e carezze con la stessa sensualità e
trasporto che lo avevano contraddistinto fin dal primissimo istante.
“Dimmi
qualcosa, ti prego…” mi supplicò con
voce strozzata, in piedi davanti a me.
Non
riuscivo più a trattenere le lacrime, ma mi imposi di
ricacciarle indietro: non volevo dargli alcuna soddisfazione, non
potevo mostrarmi ulteriormente debole e succube.
“Ti
faccio i miei migliori auguri. Spero possiate essere felici”
Cercai
di alzarmi e di andare in bagno per rinfrescarmi il viso,
però lui mi bloccò il polso con un movimento
repentino.
“Lara,
aspetta, io non so cosa fare, so solo che non voglio perderti”
Quella
frase così comune ebbe l’unico effetto di farmi
ribollire ancora di più: era come la goccia che aveva fatto
traboccare il vaso, come l’insana curiosità di
Pandora che aveva scoperchiato il prezioso contenitore donatole da Zeus.
In
breve, gli riversai addosso tutta la mia delusione, gridandogli contro
senza riserve.
“Forse
adesso è troppo tardi, non credi?! Quello che mi fa
più male, che non riesco a sopportare, è che ho
atteso di stare con te per quattro interminabili anni! Per tutto questo
tempo, ho pensato solo a te, ho immaginato e voluto solamente te!
Quando quel mercoledì ti ho rivisto, ho capito che per me
non era cambiato nulla, che non avevo mai smesso di amarti, nonostante
la lontananza, nonostante le nostre vite così diverse,
nonostante ci fosse lei!
Non mi importava nemmeno di fare la parte dell'amante, pensa che
sentimentale! E non mi interessava cosa avrebbero potuto dire o pensare
gli altri, perché io ero sicura del mio amore! E adesso non
lo so più! Giuro che se tu me lo chiedessi, io non esiterei
a rimanere, anche se ho paura di te, ho paura di lei! Adesso ci
sarà sempre qualcosa che vi unirà, qualcuno di
cui dovrete prendervi cura, della cui esistenza deciderete insieme! Ti
avrà sempre in pugno e, quando vedrai tua figlia, penserai
che avevo ragione!”
Ripresi
fiato, passandomi nervosamente le mani tra i capelli, orgogliosa di non
aver pianto, sebbene la voce fosse incrinata dall'emozione.
“Allora
resta, semplicemente resta…”
Lasciai
che mi attirasse a sé, accennando solamente ad una lieve
resistenza, poi desistetti e mi lasciai abbracciare.
Lo
odiavo, odiavo l'altra,
odiavo persino quella bambina non ancora nata.
In
quel momento, però, la verità era che non sapevo
neppure io cosa realmente provassi.
Rabbia?
Frustrazione? Delusione? Amarezza? Perdita?
Era
tutto questo e molto altro. Era la fine di un sogno. Era la fine del
mio sogno.
Nei
due giorni successivi al nostro disastroso incontro, evitai
accuratamente di rispondergli.
I
suoi messaggi e le sue telefonate si accumularono nella memoria del mio
cellulare come la posta nella buca delle lettere quando si parte per
una lunga vacanza, senza prima premurarsi di affidare le chiavi a
qualche parente.
Non
ero ancora pronta per affrontarlo: avevo timore di cedere alle sue
richieste, proprio come quel venerdì nero in cui alla fine
mi lasciai convincere a fermarmi un'altra ora in quella stanza
d'albergo, nel silenzio di quel letto che mi appariva immenso e privo
di qualsiasi significato.
Rimasi
seduta per un tempo che mi parve infinito, poi mi sdraiai, mentre lui
non accennava a smuoversi dalla finestra lasciata aperta.
Non
andammo a cenare, sarebbe stata una scelta di cattivo gusto, oltre ad
essere completamente insensata.
E
poi, avevo bisogno di riflettere, dovevo capire cosa sarebbe cambiato
tra di noi.
Tutto, mi spronava
a rispondere una voce interiore, ma non ne ero completamente convinta.
Insomma,
l'amore per una donna è diversissimo da quello per un
figlio, e mai e poi mai, per nessuna ragione, gli avrei imposto di
scegliere tra me e la bambina, ma tra me e lei, beh, quello
sì.
Sapevo
che avrei dovuto aspettare ancora molto tempo, però mi
consolavo dicendomi che ormai ero diventata la Regina dell'attesa.
Iniziò
così un periodo fatto di congetture e di notti insonni,
passate a rigirarmi nel letto e a fissare il soffitto senza trovare una
via di uscita.
Piangevo,
mi mordevo le labbra e stringevo i pugni come se volessi picchiare
qualcuno.
Ascoltavo
l’mp3 con il solo intento di stordirmi, ma non riuscivo a
concentrarmi oltre la prima o la seconda canzone, quindi lo spegnevo e
lo gettavo stizzita sul comodino, riprendendo a piangere e a
tormentarmi.
Avrà
i suoi occhi? O magari il suo stesso naso e il suo sorriso
così dolce. Che nome sceglieranno?
E
se non nascesse? Se lei perdesse la piccola?
Era
un pensiero orribile, lo so, ma non privo di una logica, almeno per me.
La
verità era che io lo amavo, e l'unica cosa davvero
importante era non perderlo.
Trascorsi
le mie giornate a vagare per il centro, entrando in decine di negozi e
ad uscirne dopo nemmeno due minuti per un profondo senso di oppressione
che temevo finisse per schiacciarmi.
Domenica
sera, poco prima delle otto, ero ancora sdraiata sul letto della mia
camera, la porta finestra spalancata e il sole ormai oltre la linea
dell’orizzonte: avvertii la vibrazione del cellulare, fin
troppo simile ad una spada che mi trafiggeva il petto.
Inizialmente
lo ignorai, poi fissai il telefono come se avesse potuto aprirsi da un
momento all’altro e liberare il Genio della lampada che
avrebbe esaudito i miei desideri.
Dopo
qualche secondo di esitazione, mi decisi a mettermi seduta e ad
afferrare lo strumento elettronico con riluttanza e ansia, leggendo
l’ennesima delle sue chiamate andate perse.
Sospirai
e chiusi gli occhi, ma alla fine optai per rispondere almeno agli SMS.
Forse è meglio che
non ci vediamo per un po’, tanto più che tra due
settimane partirai per le ferie.
Lui
mi scrisse dopo nemmeno un minuto.
Se è questo che
desideri, rispetterò la tua decisione, ma non lasciare che
tra di noi finisca. Non lo sopporterei, amore mio. E poi, prima che
parta, abbiamo ancora tempo per vederci.
Mi
grattai la punta del naso e sospirai, travolta dal solito vortice di
passione che mi provocava anche il suo più vago segnale.
Perché
dovremmo incontrarci? Adesso tu hai altro a cui pensare. E stai
tranquillo che anch'io non ho alcuna intenzione di perderti. Se
sarà necessario e se tu lo vorrai, lotterò per te.
Sentii
un rumore nel corridoio del convitto, quindi troncai la conversazione:
aspettavo che tornasse Alessia per metterla al corrente di quello che
era successo, dal momento che prima avevo dovuto metabolizzare in
autonomia ciò di cui ero venuta a conoscenza.
Ora
devo andare a cena. Buona serata.
La
risposta non attardò ad arrivare.
Ti
amo. Un abbraccio ed un bacio al mio piccolo angelo.
Non
mi soffermai più di tanto a leggere le sue parole, sebbene
fino a pochi giorni prima mi avrebbero fatto saltare di gioia.
Dovevo
cominciare ad abituarmi a stargli lontana, a non far dipendere
più le mie giornate dalla sua presenza, fisica o virtuale
che fosse.
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Capitolo 14 *** L'essenziale ***
La bellezza dell'essere indecisa
è l'oppressione che si prova a non riuscire a manifestarla.
(Anonimo XX secolo)
L'istante dopo che avevo posato il cellulare nella borsa, appoggiandola
su una delle due sedie vicino alla scrivania di legno di fronte ai
nostri letti, la mia amica aprì la porta, spalancandola con
l’entusiasmo che stava contraddistinguendo la
riappacificazione eterna con il meccanico scansafatiche.
“Lara,
sei pronta? Abbiamo già apparecchiato e tra cinque minuti si
mangia!”
La
guardai appena, reprimendo quel nodo alla gola che mi spingeva a
piangere ogni minuto, cercando di concentrami sulle parole che mi erano
state appena dette.
Toccava
a noi ragazze preparare a turno la tavola della sala comune, un lavoro
cadenzato ed ipnotico, che aveva il potere di rilassarmi e di
trasformarmi in una sorta di ragazza con manie ossessivo- compulsive:
quella sera, per l'appunto, il compito era spettato ad Alessia, che
sembrava averlo svolto con insolita felicità, invece di
lamentarsi dei logori sottobicchieri che le suore insistevano per farci
mettere.
“Sì,
arrivo…”
Mi
alzai a sedere sprimacciando il cuscino che avevo repentinamente
catturato per l’infantile gusto di avere qualcosa su cui
concentrare la mia scarsa attenzione di quei momenti.
Forse è meglio se
attendo più tardi, pensai, convincendomi che
almeno non l'avrei turbata con le mie solite e lagnose paturnie amorose.
“Cos'è
quella faccia? Il tuo bello non ti ha chiamata?” mi
punzecchiò con aria cantilenante, facendomi il solletico per
indurmi a sorridere.
“Più
o meno…”
“Che
cosa vuol dire più
o meno? O sì o è no!”
continuò a canzonarmi, incrociando le braccia sulla T-shirt
rossa e aggrottando le sopracciglia chiare.
La
sua aria da investigatrice aveva preso il sopravvento sul pesce lesso
innamorato, spingendomi ad irritarmi e a sentirmi ulteriormente
impotente.
“Non
preoccuparti, ne parliamo dopo. Adesso andiamo a mangiare: mi
è venuta fame”
Uscimmo
dalla camera abbracciate, nonostante le insistenze della mia amica che
cominciava ad intuire che fosse successo qualcosa di catastrofico.
Così,
quando tornammo dalla cena, sedute a gambe incrociate sul mio letto, le
raccontai ogni cosa.
“Oh
cielo, Lara, che mascalzone…”
“Beh,
non è proprio quello che volevo sentirmi dire,
però non hai tutti i torti”
“Sei
troppo buona con lui, troppo”
“È
che io non voglio perderlo, non sono pronta a lasciarlo
andare” spiegai con enfasi, mentre il vociare allegro e
contagiante delle nostre compagne si diffondeva lungo i corridoi.
“Dici
così perché sei innamorata e, credimi, ti
capisco. Ma penso anche che sia giusto che tu cominci a camminare per
un po’ con le tue gambe, che riprenda a respirare in
autonomia, senza aspettare sempre il suo aiuto o quello di chiunque
altro”
Sbuffai
e mi morsi il labbro inferiore, alzando gli occhi al soffitto in un
gesto meccanico di scarsa fantasia.
“È
proprio per questo che mi sono rifiutata di vederlo, ma è
così difficile…”
“Devi
resistere e sforzarti di ricostruirti una vita lontana da lui”
“Non
so per quanto tempo riuscirò a resistergli: sai, a volte ho
come degli impulsi assassini nei suoi confronti, è come se
volessi vederlo morto, e ti giuro che non mi viene alcuno scrupolo ad
augurargli il peggio che possa pensare,
però…”
“Sei
davvero innamorata, amica mia, irrimediabilmente e perdutamente
innamorata” mi sorrise Alessia, lanciandomi il guanciale
sulle gambe.
“Non
è una semplice infatuazione, non lo è mai stata.
E poi, lo sai, non voglio perderlo, non ce la farei”
In
quel momento, mi accorsi di quanto fossi fortunato ad averla
lì con me, pronta a consigliarmi e a sostenermi, sebbene
comprendessi l’enorme costo che ciò comportava
alla sua razionalità sempre impeccabile.
“In
tutto questo, che cosa dice il latin lover? Perché dal suo
punto di vista si possono capire molte cose, sai?”
analizzò puntuale.
Mi
allungai sul comodino per recuperare il cellulare e glielo porsi, in
modo che potesse farsi un’idea leggendo la nostra ultima
conversazione di nemmeno un’ora prima.
“Beh,
direi che nessuno di voi due è così tanto confuso
da non sapere che cosa vuole: qui ci saranno almeno dieci messaggi e
quindici telefonate a cui non hai risposto. E da quello che vi siete
scritti stasera, sembrate entrambi decisi a non lasciarvi
andare… ma per quanto tempo sarete sicuri dei vostri
sentimenti? Mi riferisco in particolar modo a lui, Lara. Un figlio
cambia tutto, almeno nell’immediato…”
Annuii
nervosa, grattandomi la punta del naso, il mio abituale gesto per
indicare che stavo riflettendo.
“Tutto
questo non fa altro che confondermi. La delusione per quello che
è successo si mischia alla rassegnazione per il modo in cui
mi ha trattata, ma allo stesso tempo voglio lottare per il nostro
amore. E’ tutto così complicato ed ingiusto! Tu
che cosa faresti al mio posto?” la supplicai con lo sguardo,
mentre al vociare allegro delle altre ragazze si univano i timbri
squillanti di suor Fabrizia e suor Augustina.
“E’
difficile mettersi nei panni altrui, soprattutto se non ti è
mai capitato di vivere quella determinata situazione. Comunque, se vuoi
davvero un mio consiglio, io ti direi di seguire il cuore e poi la
mente, ma anche di considerare i pro e i contro della vostra relazione,
separatamente, è ovvio, senza incontrarvi e rischiare di
mandare a monte i buoni propositi. Solo dopo, una volta che hai capito
cosa ti aspetti, potrai incontrarlo. Ecco, io farei così, ma
naturalmente sei tu che dovrai decidere”
Di
nuovo mi morsi il labbro inferiore, sbuffando sonoramente.
Perché
non riesco a lasciarlo, a dimenticarlo? Sarebbe tutto più
semplice, mi riapproprierei della mia vita, e non sarei più
ingabbiata nei ricordi, nelle recriminazioni, preda dei ma e dei se.
Certo, soffrirei, soffrirei in maniera indicibile, però dopo
sarei una donna nuova, una donna libera.
Cercavo
di convincermi con queste frasi astrattamente concrete, sebbene in quel
momento fossi ancora molto confusa.
Inoltre,
mi era impossibile distinguere i vantaggi di stare con lui dagli
aspetti negativi, sempre che ce ne fossero…
Guardai
la mia amica e le inviai un bacio volante.
“Grazie,
Ale, ti voglio bene”
***
È
trascorso quasi un mese dall'ultima volta che l'ho visto.
Mentre
lui era via, in ferie chissà dove, con la famigliola al
seguito, ritornai a casa, per godermi qualche giorno in famiglia e
provare ad allontanare la presenza costante di quell'uomo che era
diventata la mia ossessione.
Almeno
una dozzina di volte, infatti, mi bloccai in mezzo alla strada,
convinta di aver visto il profilo del suo volto, di aver riconosciuto
l’ampiezza della spalle e la sua falcata così
sicura e carismatica, per ricredermi l’istante successivo.
Era
ormai la fine di agosto, le giornate erano scandite da temperature meno
afose e temporali serali.
Trascorsi
una settimana al mare con mia sorella Giada e mio fratello Matteo:
affittammo una casetta molto graziosa in Liguria, su un promontorio da
cui si godeva una vista spettacolare della piccola baia sottostante.
Scendevamo
in spiaggia attraverso un percorso nell’abetaia, e passavamo
le giornate immersi nell'acqua, a bagnarci del sole tiepido e a giocare
a racchettoni o a pallone come fossimo stati dei ragazzini.
L'ultimo
giorno ne approfittammo per bighellonare in paese, in attesa di salire
sulla corriera che ci avrebbe portati alla stazione centrale di Genova
e, da lì, alla nostra cittadina.
Dopo
aver fatto una seconda colazione in un bar dalle pareti affrescate con
dei ritratti improponibili degli artisti del Rinascimento, vagammo tra
le botteghe incastonate nelle strette viuzze.
Trovai
un negozietto tipicamente di mare, con le borse e i cappelli di paglia
appesi a dei grossi ganci all’esterno, e mi ci fiondai,
sperando di trovare qualche piccolo regalo da elargire una volta a casa.
Lì
dentro comprai dei magneti e un foulard per mia madre e per me,
più qualche confezione di biscotti tipici per zii, nonne e
papà.
Mancava
una mezz’ora scarsa alla nostra partenza, così mi
divisi da Giada e Matteo per addentrarmi nella parte alta del paese,
dove una leggenda che avevo appena letto su un arco di granito roseo,
all’imbocco di un passaggio pedonale, mi spiegava che quella
zona corrispondeva al porto vecchio del borgo, le cui tracce si erano
perse da oltre quattro secoli.
Feci
un giro lungo la piazzetta esagonale, al cui centro svettava una
fontana di epoca medioevale, presa d’assalto da turisti
assetati, quindi trascorsi gli ultimi minuti a visitare
l’unica chiesetta ancora in piedi, un esempio di architettura
romanica con la parete di pietra intonacata e la cupola in laterizio.
Scattai
qualche fotografia al meraviglioso abside dorato del Seicento, per poi
uscire e ricongiungermi ai miei fratelli.
Durante
il viaggio di ritorno, il sole infuocato che filtrava osceno dai
finestrini, ripensai alla meravigliosa settimana che avevo trascorso.
Ero
riuscita a rilassarmi, a non pensare troppo, e dovevo ammettere che mi
sarebbe piaciuto rimanere lì ancora per qualche giorno.
Per
la prima volta da quando era ricominciata tutta quella storia,
però, avevo realmente paura.
Se
non mi avesse più cercata? Se mi avesse già
dimenticata, assorbito dal suo futuro ruolo di genitore?
Ecco
che cosa temevo, che i suoi sentimenti fossero radicalmente cambiati.
Non è il momento di
pensare ad una cosa del genere, mi convinsi.
Decisi
quindi di ascoltare la musica scaricata sul mio iPod, dal momento che
Giada si era addormentata e Matteo era intento a leggere un libro di
Ken Follett.
Fino
alla stazione della nostra città, tra uno spiffero
d’aria condizionata e l’altro, mi fecero compagnia
gli Snow Patrol, Marco Mengoni, i Coldplay, Zucchero, The Ark, Lucio
Battisti e l'immancabile musica classica di Debussey, Mozart e
Beethoven.
Se
le orecchie venivano accarezzate da quelle piacevoli e suadenti note,
la vista era occupata ad apprezzare il paesaggio marittimo e collinare
che sfilava davanti a noi, in quelle quattro ore di viaggio che si
alternavano tra corriera e treno.
Lately,
I’ve been, I’ve been losing sleep, dreaming about
the things that we could be. But baby, I’ve been,
I’ve been praying hard. We’ll be counting stars.
Le
strofe di “Counting
stars” degli OneRepublic, mi stavano rovinando i
timpani, devo ammetterlo, ma erano anche le uniche parole che sapevano
infondermi una certa carica emotiva, ormai latente sotto strati di
depressione che avevo accumulato nell’ultimo mese.
Sarà
stato per la musica che rimbombava nelle cuffie, per la voce
entusiasmante del solista, però in cuor mio speravo che non
tutto fosse perduto.
Che
sarebbe arrivato il momento, anche per noi, di contare le stelle.
Tornai
a casa abbronzata e con le idee sempre meno confuse: sarei tornata a
Milano la settimana successiva, e dentro di me mi auguravo che lui mi
avrebbe cercata.
E
così, infatti, fece, distraendomi da una lezione di ripasso
sulla letteratura norvegese.
La
biblioteca era semivuota, per questo avevo approfittato di rifugiarmi
tra le sue mura, per riuscire a studiare in pace.
O,
perlomeno, era quello che cercavo di fare, fino appunto
all’arrivo del messaggio incriminato.
Sei
tornata in città? Quando possiamo vederci? Mi manchi,
piccolo angelo.
Guardai
l'orologio: erano le dodici e mezza, probabilmente lui era in pausa, ed
io presto avrei fatto lo stesso.
Alle
due può andare bene? Ti aspetto nel bar fuori l'ospedale.
Attesi
la risposta con una tranquillità irreale, mentre riordinavo
quaderno e libro, e mettevo il tutto nello zaino, insieme
all’astuccio su cui avevo scarabocchiato, tanto per cambiare,
le nostre iniziali.
Se
mi ha cercata, mi dissi, è perché tiene al nostro
rapporto.
Uscii
dalla biblioteca con il cellulare in mano, l’SMS ancora
presente sul display.
D'accordo.
A più tardi.
L’essenziale
era sempre stata una sua dote...
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Capitolo 15 *** Il tram ***
It's
the price I guess
For
the lies I've told
That
the truth it no longer thrills me
And
why can't we laugh?
When
it's all we have
Have
we put these childish things away?
Have
we lost the magic that we once had?
In
the end, in the end
There's
nothing more to life than love, is there?
In
the end, in the end
It's
time for us to lose our weary minds.
(Snow Patrol, "In the end", 2011)
Puntuale, e non in anticipo come sarebbe stato nelle mie corde appena
qualche settimana prima, lo raggiunsi alle quattordici al bar nel
cortile dell'ospedale.
Non ero elettrizzata, questo lo posso assolutamente giurare, ma una
buona dose di nervosismo mi impediva di comportarmi in maniera genuina.
Insomma, ero pur sempre nell'arena, con il leone che mi puntava, nel
campo del nemico, a pochi passi da lui e dal suo mondo che, con estrema
fatica e difficoltà, mi ero gettata alle spalle.
Ci salutammo con un gesto della mano, evitando accuratamente la sua
tattica di avvicinarsi quel tanto che bastava da strapparmi un bacio
sulla guancia a tradimento: non ci sfiorammo neppure per un istante,
non gli permisi di ridiventare la sua preda preferita.
Prendemmo posto in un angolo del locale, stretto ed allungato,
dove svolazzavano camici bianchi e divise immacolate o verdi.
Forse è stata
una pessima idea venire fino a qui, cominciai a dirmi, forse è meglio che
scappi fino a quando sono in tempo.
Non volevo pentirmi di essermi lasciata sopraffare dalla
curiosità, dovevo ammetterlo, però c'era qualcosa
dentro di me che mi impediva di muovere un solo passo verso la porta e,
di conseguenza, verso la salvezza morale.
Rimasi sulle mie ancora per un po’, fino a quando dovetti
cedere la mia postazione in favore di un donnone che, altrimenti, mi
avrebbe sopraffatto con la sua delicata mole da un quintale.
Spostai leggermente in avanti, e con una certa dose di irritazione che
mi prudeva le dita, la sedia su cui mi ero accomodata, recuperando lo
zaino che era scivolato dalla spalliera.
"E' tutto ok?" si azzardò lui ad esordire, notando
l'imbarazzo che stava divorando la mia persona.
Annuii meccanicamente, sbuffando con aria contrita, e finalmente fummo
pronti per ordinare ad uno dei camerieri che ci ronzava intorno da
quando eravamo entrati.
Mangiammo due tranci di pizza accompagnati da una dissetante aranciata,
trascorrendo i primi due o tre minuti praticamente in silenzio.
“Cosa hai fatto in questo mese che non ci siamo
visti?” mi domandò a bruciapelo, accarezzandomi
una mano.
Ingoiai il boccone che stavo masticando con una lentezza degna di una
tartaruga e di un bradipo messi assieme, quindi risposi mantenendo la
calma.
“Sono tornata a casa, e poi sono andata una settimana al mare
con i miei fratelli”
Lui annuì sorridendo, intanto che io mi sforzavo di non
guardarlo troppo negli occhi.
La verità è che non volevo cedere, non ancora
almeno.
“Io invece sono andato in Calabria, a Tropea. Eravamo con
degli amici…”
Eravamo,
quanto detestavo quel verbo.
Assaporai la sua voce, accorgendomi di quanto risuonasse incantevole e
brutale, ma anche di come la declinazione che aveva utilizzato fosse la
più appropriata, perché non ero stata io ad aver
trascorso le ferie insieme a lui, ma lei.
“Me la ricordo Tropea, sono andata con i miei quando ero
piccola”
Approfittai del suo silenzio per bere un sorso d'acqua che avevo
recuperato da una tasca dello zaino, dal momento che la lattina di
aranciata era finita.
“Se ti dico che mi sei mancata, che avrei voluto andare con
te, mi credi?”
“Avrei qualche motivo per non farlo?”
Lui scosse la testa, cercando di stemperare la tensione con una battuta.
“Risposta errata, hai ragione. A questo punto,
però, avresti dovuto dire una frase simile alla mia. Che ne
so, del tipo ho pensato
anch'io la stessa cosa in Liguria?”
Mi passai una mano sulla fronte, per sistemare ciocche invisibili di
capelli: conta fino a
dieci, ripetei come una formula magica, grattati la punta del naso e
morditi il labbro, solo allora potrai ribattere.
E così, infatti, feci, seguendo quel mantra personalissimo,
e gli sputai contro tutto ciò che avevo sofferto in quel
periodo.
“Va bene! Se è questo che vuoi, ti accontento
subito! Mi sei mancato da morire, non riuscivo a pensarti lontano da
me, in compagnia di… di quella!
Avrei voluto chiamarti, scriverti un messaggio o un’antiquata
cartolina che ancora tanto mi piacciono! Ero tentata persino di
mandarti una fotografia mentre osservavo il mare perdersi
all’orizzonte, immaginando che fosse lo stesso in cui ti eri
tuffato poche settimane prima di me! Adesso sei contento, eh? Adesso
che mi sono resa abbastanza ridicola, mi vuoi finalmente
lasciare in pace?!"
Non finii di vomitargli addosso tutto ciò che pensavo,
temendo di calamitarmi addosso le dozzine di occhi che gravitavano
attorno a noi: volevo infatti proteggermi da lui, stanca di ripetere le
medesime cose, di tentare di fargli capire i sentimenti che provavo, ma
ogni singola parola che gli avevo inveito contro corrispondeva alla
stupida quanto razionale -o irrazionale, dipendeva dai punti di vista-
verità.
“Lara, io sono sempre qui. Per me non è cambiato
nulla, lo sai! Ma adesso... insomma, adesso è anche il
momento di far fronte alle mie
responsabilità…”
“Non ti ho mai chiesto di non assumerti i tuoi doveri, non
è da me! Io ho solo bisogno di sapere che cosa tu desideri,
che cosa ti aspetti da noi!”
“Desidero rimanerti accanto, non voglio modificare niente,
credimi! Che cosa devo fare perché tu lo capisca?!”
Il suo bicchiere mezzo vuoto di aranciata si rovesciò sulla
tovaglietta marrone, espandendo una macchia scura ed irregolare, che mi
ricordò i disegni che adoravo fare con le tempere quando ero
piccola, quando piegavo il foglio con una punta di colore nel mezzo, e
aspettavo che fosse la carta a fare il resto.
Si lasciò sfuggire un’imprecazione, ma
tornò subito in sé, chiedendomi scusa per aver
perso le staffe.
“Vuoi davvero sapere che cosa avresti dovuto fare per darmi
prova del tuo amore? Beh, per esempio, quel giorno in cui ci siamo
visti l'ultima volta -te lo ricordi, vero?- avresti dovuto dirmi subito
della gravidanza, appena ci siamo incontrati fuori dall'hotel, e non
aspettare che avessimo fatto l’amore! Mi sono sentita usata,
messa da parte! Sentivo il mio corpo sporco, la mia mente non era
più mia, ma la avvertivo imprigionata sotto l'influenza di
un burattinaio, di un... bugiardo! Lo capisci questo, riesci a capire
almeno questo?!”
Lui abbassò lo sguardo, scuotendo il capo con aria colpevole.
“Scusa, hai ragione. Ma non volevo che tu pensassi che ti
avessi dato appuntamento solo per dirtelo, solo per scaricarmi la
coscienza. Ho sbagliato, Lara, lo so, e ti chiedo perdono,
però sai anche tu che non merito il tuo disprezzo. Non lo
merito...”
“Ma io non ti disprezzo, niente affatto!"
Abbassai il tono di voce nell'istante in cui un paio di colleghi
passarono a salutarlo, seguiti a ruota da uno stuolo di svolazzanti
camerieri.
"Io ti amo" ripresi nervosa, non riuscendo a guardarlo negli occhi "e
non ho alcun dubbio su questo. Però, spesso,
l’amore non basta a cambiare le cose…”
“Non dire così, ti prego”
“E’ la verità. In questi quattro anni ho
sperato in un miracolo d’amore e, quando è
capitato, avevo paura che mi scivolasse tra le dita, che sparisse senza
lasciare traccia, come se si trattasse di una delle numerose folate di
vento autunnali"
Forse avresti potuto
risparmiarti il paragone poetico, devo aver pensato.
Mi concentrai quindi sulla perfezione della circolarità del
bicchiere, ruotando l'indice su di esso come fossi ipnotizzata, per poi
passare a raccogliere briciole invisibili dalla tovaglietta davanti a
me.
"Con quello che ci sta succedendo" ripresi con maggiore sicurezza,
guardandolo negli occhi "ho capito che è proprio
ciò sta accadendo alla nostra storia, sempre se di storia
possiamo parlare. Per questo ho detto che l’amore non
è sufficiente… non sempre, almeno”
“Stai cercando di dirmi che ciò che c'è
stato tra di noi appartiene al passato? Che tu lo hai già
cancellato?! Dio mio, Lara, vorrei solo tornare indietro,
credimi!” sospirò, coprendosi il volto con le mani.
“Piacerebbe anche a me, ma non si può. Dimmi solo
una cosa: tu la ami? Sii sincero, ti prego”
Mi guardò per un istante, poi scosse la testa e fece
spallucce, la voce roca e lo sguardo perso.
“Se me lo avessi chiesto prima di incontrarti, prima di tutto
questo, ti avrei detto di sì. Forse non alla follia, ma
l’amavo. Adesso, invece, non so più che cosa
rispondere. Voglio dire, le sono affezionato, certo, non voglio che
soffra, soprattutto perché sarà la madre
di… di mia figlia, però non so più se
la amo”
In quel momento, una domanda assurda mi balenò nella mente:
è possibile essere innamorati di due persone
contemporaneamente? Si possono provare i medesimi sentimenti di
passione, dedizione ed affetto per donne o uomini differenti con cui
entriamo in contatto nel medesimo periodo?
Non seppi darmi una risposta, anzi, anche adesso non saprei in quale
direzione indirizzare i miei interrogativi.
“Ora è meglio che vada”
Lanciai un'occhiata fintamente concentrata all'orologio a muro del bar,
che segnava le tre e un quarto, mentre un mix di delusione e di rabbia
impotente mi avviluppava le viscere.
Perchè ero
stata così sfortunata? Perché l'amore mi aveva
giocato quel brutto scherzo? Non avrei dovuto illudermi, sarei dovuta
essere maggiormente cauta e riflessiva, come ero sempre stata d'indole.
E invece, quella volta, qualche cosa mi aveva spinto a comportarmi
diversamente.
“Vuoi che ti riaccompagni?” mi propose, alzandosi
con troppa foga.
“No, non ce n’è bisogno. Ci sentiamo
presto, buon lavoro”
Ci sfiorammo per un solo istante, nel momento in cui uscii dal locale e
lui era appoggiato alla cassa, intento a pagare.
Avvertii il suo sguardo accarezzarmi la nuca, ma evitai accuratamente
di voltarmi, perché sapevo quanto mi avrebbe fatto male.
Camminai in direzione della metro, sospesa da una forza invisibile che
mi spronava a proseguire.
Incontravo i passi di dozzine di persone, incrociavo i loro sguardi
distratti, però era come se non li vedessi, come se fossimo
diventati tutti invisibili.
Senza sapere il motivo, all’ultimo minuto decisi di cambiare
itinerario.
Attraversai il marciapiede che mi divideva dalla fermata del tram e,
appena questo arrivò, salii sul mezzo affollato di gente.
Trovai un posto a sedere sul fondo, lasciandomi sprofondare sopra, lo
zaino sulle ginocchia e protetto dalle mie braccia stanche, reduci da
una battaglia interiore.
La testa mi diceva che avevo fatto bene a lasciarlo lì, a
non cedere, però il cuore gridava il contrario.
All'improvviso, passammo davanti all’Hotel Astor, che si
ergeva beffardo ed anonimo nella via parallela a quella che stavamo
percorrendo.
Quasi senza volerlo, mi ritrovai a chiedermi se e quando avrei rivisto
quel posto, e quali emozioni avrebbe suscitato in me, ma non smaniavo
affatto di ritornarci, perlomeno non desideravo farlo con la
predisposizione d'animo che avvertivo in quei momenti ormai lontani
mesi.
Adesso devo pensare solo
alla mia felicita, per tutto il resto c'è tempo.
Anche per noi due, amore
mio. Soprattutto per noi due.
NOTA DELL'AUTRICE
Ecco
che siamo giunti alla fine del racconto.
Da
quando l'ho scritto, mesi fa, era già mia intenzione farlo
così breve, quindi tengo a precisare che non è
stato accorciato in nulla. Tuttavia, mi scuso con i lettori ed i
recensori se, ultimamente, non ho aggiornato di frequente, ma ho
trascorso gli ultimi due mesi in maniera assai difficoltosa e
complicata, essendo stata ricoverata in ospedale.
Ringrazio
di tutto cuore alessandroago_94 per esserci sempre stato ad ogni
capitolo, ringrazio Lady_Sticklethwait per aver saltuariamente
recensito e venere2000 per averlo fatto con un pò
più di assiduità.
Ovviamente,
ringrazio anche coloro che hanno inserito la storia tra le preferite:
1 - angyblu
2 - NothingElseMatters
e le seguite:
1 - alessandroago_94
2 - Claire_Shee_Bright
3 - elspunk93
4 - Fraa1994
5 - ineedofthem
6 - Lady_Sticklethwait
7 - pinkprincess
8 - sil_1971
9 - venere2000
Vi
auguro una buona fine 2016 ed un buon principio 2017.
A
presto con altre mie e vostre storie!
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