Ever after

di NihalDellaTerraDelVento
(/viewuser.php?uid=856610)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Di foschie e visioni ***
Capitolo 2: *** Scappa, Hope ***
Capitolo 3: *** Smetti di scappare, Hope ***



Capitolo 1
*** Di foschie e visioni ***


Il sole, quel giorno, si divertiva a giocare a nascondino con il vento.
Come un bambino si nascondeva tra le nuvole, per poi spuntare all'improvviso.
Stupido Marzo!, pensò il protagonista di questa nostra storia.
Capelli così biondi da sembrare albino e stupendi occhi verdi. Il suo nome era Hope Estheim, ventiquattro anni, universitario.
Hope terminava ora un’infinita giornata di studio all'università, il suo unico desiderio era tornare a casa e vedere un bel telefilm, l’ultima puntata di Games Of Thrones magari.
Arrivò al parcheggio, chiedendosi se Jon Snow fosse un Targaryen, e tirò fuori le chiavi.
Improvvisamente si bloccò. Gli capitava spesso.
Aveva questi strani blocchi da tutta una vita da quel che ricordava.
Fissò la sua immagine riflessa nel finestrino per un tempo incredibilmente lungo, ma la sua mente vedeva altro.
Paesaggi infinti, esseri volanti che non potevano essere reali, una grande luna sorretta da una colonna di cristallo dello stesso diametro di New York. E poi una figura di spalle, una donna. I capelli rosa sparsi nel vento, la postura di chi non si arrende.
Così come iniziò finì.
Non era la prima volta che Hope percepiva immagini del genere, e aveva smesso di preoccuparsi.
Era stanco e stressato. Il suo cervello aveva semplicemente deciso di andare a fare una passeggiata in mondi fantastici.
No, la vera cosa che lasciava turbato Hope era le sensazioni che provava ogni volta che aveva queste visioni. Sentiva di conoscere quei luoghi. Una sorta di nostalgia gli chiudeva la bocca dello stomaco ogni volta e poi ricordava paura, smarrimento, solitudine. E quella donna… Era l’unica immagine ricorrente nelle sue visioni. Vederla ogni volta gli faceva provare un mix di emozioni assurde.
Gioia, rimpianto, mancanza, amore.
Ma non poteva essere reale.
Questo gli aveva consentito di non impazzire.
NON ERA REALE.
Fu con questa convinzione che demolì le sue paure e salì in macchina.


Il piano iniziale era “una puntata e poi a letto”, una delle più grandi bugie dell’umanità.
Vuoi perché non si prendeva mai una sera di pausa, dedito com’era allo studio, vuoi perché era ancora turbato da quello che era successo, ma Hope andò a letto alle tre (aveva ceduto alla tentazione di iniziare una nuova serie TV, Daredevil).
Si sdraiò sulle lenzuola fredde, una braccio sulla testa e fissò il vuoto.
Sapeva che non avrebbe preso sonno, matematico.
La sua testa era un treno in corsa che rincorreva pensieri su pensieri.
Poco poteva aiutare l’immagine di quella donna, impressa a fuoco nella retina.
Quella stessa retina che a poco a poco si oscurò, le palpebre sembravano non reggere più il peso dei suoi pensieri…

Stava cadendo, precipitava da un cielo stellato nero come l’inchiostro. Anzi, no. Volava. Non aveva paura.
Dietro di lui un essere stranissimo, una specie di gigante di metallo, seguiva la sua scia, ma era suo alleato, lo percepiva. Così come percepiva altre cinque persone, seguite da altri esseri. Sentiva il legame, sentiva che erano uguali a lui. Guardò il suo polso, esile, come quello di un bambino, attraversato da uno strano tatuaggio. Questo strano scenario, non sapeva come, ma aveva perfettamente senso.
Atterrò con agilità lungo una strana pista illuminata e non ebbe paura quando una moto si fermò ad un soffio dal suo viso. Sorrise con naturalezza al povero malcapitato che, confuso, non si rese conto che un gigante di metallo torreggiava su di lui, pronto a calare il pugno.

-Sistemali, Alexander!- urlò Hope al gigante che lo protesse, distruggendo un infinito numero di moto.
Hope si perse nel fragore della battaglia, Alexander al seguito e uno strano boomerang alla mano, fino a quando non scorse la calda luce del sole.
Improvvisamente la battaglia finì e fu silenzio. I suoi nemici erano scomparsi.
Si riunì con quelli che, lo sapeva, erano suoi compagni. Due donne, due uomini, i volti come oscurati da una nebbia, i nomi persi chissà dove. Ma mancava ancora qualcuno, lo sentiva. Una terza donna stava in piedi accanto ad un mucchio di moto accartocciate. Sapeva che le aveva distrutte lei, sapeva che era la più forte di tutti loro.
Si sentiva ispirato da quella figura, percepiva la cieca fiducia che provava verso di lei.
Il viso era circondato da quella strana foschia che gli rendeva impossibile riconoscerne i tratti, ma sapeva che stava fissando quell’inaspettata alba.
Hope costrinse la sua mente a mettere a fuoco, era curioso di vedere quel viso, di sapere quali segreti si celavano al di là della nebbia.
Ma era tardi. Lui non era davvero lì e il suo corpo lo reclamava.
Per un attimo gli sembro di vedere due luminosi occhi azzurri sul volto della ragazza. Due oceani colmi di tempeste.


Hope si tirò su dal letto di scatto. Il freddo della notte pizzicava sul collo sudato del ragazzo. Non sapeva cosa era successo, non sapeva cosa avesse appena sognato. Solo un nome, appena bisbigliato, venne fuori dalle sue labbra tremanti:

-Light.-






Eccomi ancora qui.
Lo so, lo so. Ultimamente pubblico come se non ci fosse un domani.
Ma ho la testa piena di idee e una grande voglia di buttarle giù.
Questa sarà la prima storia a capitoli a cui mi dedicherò, e, onestamente, spero di avere la costanza e il tempo per completarla.
Che dire?
Il contesto non è stato chiaramente espresso ma credo di aver fatto capire dove e quando sia ambientata la storia.
Come al solito quello che per me può essere un buon lavoro si potrebbe benissimo rivelare una c***ta pazzesca.
Quindi basta parlare a voi la tastiera!
Spero vi sia piaciuta e di avervi messo un minimo di curiosità.
Nihal.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Scappa, Hope ***


Era in ritardo mostruoso. La lezione era iniziata da mezz’ora e Hope ancora sfrecciava tra i marciapiedi della città, ad almeno dieci minuti dalla facoltà.
Quella giornata era appena iniziata e già era un inferno. Testimoni i suoi occhi cerchiati di nero, medaglia d’onore di una notte passata a rigirarsi nel letto. E la sua dannata auto? Doveva scegliere proprio quella mattina per non partire! Con tutti i giorni disponibili!
Ciliegina sulla torta: perse il bus.
Insomma se il buon giorno si vede dal mattino Hope era convinto che avrebbe fatto meglio a rinchiudersi in casa e buttare la chiave.
Invece andò dritto in facoltà, perché tutto poteva capitare nella vita, ma non che Hope Estheim si perdesse una lezione. Ad un passo dalla laurea, poi.
Ma i suoi pensieri non erano per l’università o per il suo futuro.
Hope correva tra i passanti ancora assorbito dal sogno della sera prima, come se correndo potesse lasciarselo alle spalle.
Ma era indelebile nella sua mente, un chiodo fisso che si infiltrava attraverso ogni altro suo pensiero fino ad annullarlo.
Già il sogno – o incubo? – di per sé era parecchio strano ed esotico, con qui combattimenti e quelle creature strambe. Insomma! non aveva mica quattordici anni!
Ma, la cosa che, fantasticherie preadolescenziali a parte, non aveva, tuttavia, il benché minimo senso e che lo turbava maggiormente era quella parola.
Light.
Che voleva dire? Da dove era venuta fuori?
Si stava distruggendo la testa a furia di capirlo.
Alla fine, si convinse che in realtà intendeva dire “luce” (vedere i telefilm in lingua originale prima di andare a letto chissà che effetto aveva avuto sulla sua testa), e l’unica luce del sogno era quella dell’alba, quindi doveva essere stato colpito da quest’ultima, anche se, a dire la verità, non si sentiva così impressionato da quel fenomeno.
Boh. Non che avesse senso, ma di certo ne aveva più di prima.

Così fantasticando continuò a correre, nella sciocca speranza di scappare dai quei pensieri assurdi, e, distratto, quasi finì addosso ad una bambina. Una piccola monella di circa tre anni che, senza dubbio, cercava di evadere dall’asilo lì vicino.
Si può ben dire che non tutti i mali vengono per nuocere: se non ci fosse stato Hope, la bambina avrebbe raggiunto la strada.

-NORA!!-

Solo un essere al mondo poteva emettere un urlo del genere: una madre terrorizzata. Ad Hope quasi dispiacque per quella piccolina a cui, di certo, aspettava una grande ramanzina. Sembrava un piccolo putto spaventato con le sue guanciotte, i tondi occhioni blu e i capelli biondi, divisi in due codine ribelli.

-Non si preoccupi signora, fortunatamente sono riuscito a..-

Niente. Non ricordava più niente di quello che stava per dire.
Una donna, circa della sua età, gli stava vendo in contro.
Vederla fu come uno schiaffo. Ogni frase coerente sparì dalla sua mente, lasciando spazio solo a quella donna.
Lui la conosceva, ne era certo. Ma, allora, perché si sentiva come se la incontrasse per la prima volta? Aveva dei lunghi capelli rosa, portati in una coda laterale e due grandi occhi azzurri scintillanti di preoccupazione. Era così simile a… a qualcuno. Non sapeva chi, ma sapeva che gli somigliava dannatamente.
Nella sua mente risuonò ancora quella parola – light – ma, se c’era un nesso, a lui sfuggiva.
La donna, d’altro canto, fu parimenti stupita di trovarselo di fronte. La sua piccola bocca face una “o” perfetta e subito il suo volto si sciolse in un caldo sorriso, come quello di una madre. O di una sorella.

-Hope?-

­-Co.. Come fai a sapere il mio nome?-

Ad Hope parve vedere un lampo di delusione negli occhi della donna, ma non poté dirlo con assoluta certezza, poiché, rapido com’era arrivato, scomparve. Lei restò in silenzio brevemente, mordicchiandosi il labbro e riflettendo. Improvvisamente, sorrise.

-Ma come? Non ti ricordi di me? Sono Serah! Serah Farron! Andavamo insieme alle elementari, anche se eravamo in classi diverse.-

Ad Hope qualcosa non quadrava, si sarebbe certo ricordato una ragazza così particolare però…
Serah. Serah Farron. Conosceva quel nome, aveva il gusto che hanno i dolci ricordi. Ma quali ricordi?
Non lo sapeva. Come poteva non saperlo se quella donna gli era così familiare? Si sentì nuovamente come in quel sogno, circondato dalla nebbia.
Ed, improvvisamente, si bloccò.

Vide Serah, ma non la Serah che gli stava di fronte. Ne vide una diversa. In un luogo che lui non aveva mai visto, circondato da strane rovine. Quella Serah gli sorrideva, rassicurante, e dopo, con assoluta determinazione, saltava in una specie di vortice luminoso. Ed Hope rimase lì, a fissare quel varco chiudersi. Spaventato e determinato. Al nulla che prima aveva ospitato Serah disse: - Ci vedremo presto. Te ne prego, salvala!-

-Hope? Ci sei?-

Hope si riscosse. Era confuso e spaventato. Per la prima volta in quelle sue visioni vide un volto, uno non oscurato dalla foschia. Perché ora? Perché quello di Serah?

-Sicuro di stare bene?- Serah lo fissò preoccupata. Forse anche troppo preoccupata, secondo Hope. In fondo, stando a quello che diceva, lui era solo un suo vecchio compagno di scuola. O no?

-S…Si. Scusa. E’ che ho passato la notte in bianco e ho parecchio sonno arretrato.-

Proprio in quel momento la bimba, che era rimasta in silenzio, colpevole, si rivolse alla sua mamma.

-Mami.. Puniscione?-

Serah la guardò con cipiglio severo.

-Lo puoi ben dire, signorina! Cosa ti è saltato in mente di scappare così? In mezzo alla strada! Se non ci fosse stato Hope ti saresti potuta fare male! Lo sai? Certe volte mi chiedo cosa ti passi per la testa, Nora.-

-Scusa, mami.-

-Uhm va bene. Ma la punizione resta lo stesso. NON-FARLO-PIU’!-

Hope guardò quella piccola scenetta familiare quasi divertito dall’espressione della bambina. Si abbassò fino a guardarla nei suoi tondi occhi celesti.

-Nora, eh?- disse -Lo sai, piccolina, che hai lo stesso nome della mia mamma?-

Nora si imbarazzò tantissimo. Divenne tutta rossa e si ancorò alla gamba della madre. Serah sorrise, stringendola.

-Nora è un nome molto caro a mio marito. Ci siamo conosciuti alle medie e non ci siamo lasciati più. Lui a quei tempi era un vero ribelle, la nemesi di tutti i professori. Arrivò a fondare, con altri suoi compagni, un gruppetto e lo chiamò NORA. Un acronimo per Niente Obblighi, Regole o Autorità! Una cosa sciocca, ma a quei tempi lo faceva sentire così forte avere un suo gruppo. Poi gli anni passarono, gli amici si persero e, quando io rimasi incinta, mi propose di chiamare il bambino Nora, nel caso in cui fosse stata una femmina. Perché ora avevamo il nostro, di gruppo.-

-Bhè mi sembra una persona dolce tuo marito, anche se strambo.-

-Oh si, Snow è sempre stato uno sciocco!-

-Snow?-

-Si, mio marito. Snow Villers.-

Fu l’ennesimo flash.

Non era più in marciapiede in una fredda mattina di Marzo. Era in una città, anche questa sconosciuta, il sole tingeva tutto di quella luce surreale e piena di calma tipica del tramonto. Tra le mani teneva un coltello, un oggetto importante, ne era certo, in netto contrasto con quel polso sottile e quelle piccole dita. Non camminava, lo portava sulle spalle uomo. Le spalle così larghe da contenere il suo corpo da ragazzino, i capelli biondi quasi bianchi alla luce del sole morente.

-Lei non c’è più Snow. Puoi riconoscere la tua colpa, ma non la ripoterà qui- si sentì dire, con quella voce bianca da ragazzo.

-Perdonami.- rispose l’uomo. La voce roca e profonda rotta dal senso di colpa e dal dolore.

-Lo sapevo. Lo sapevo dall’inizio, ma dovevo accusare qualcuno… dovevo. Avevo bisogno di una ragione per andare avanti- disse Hope riponendo il coltello, la sua determinazione incrinata da una sofferenza indicibile.

-Non è colpa di “qualcuno”. E’ colpa mia. Prenditela con me. E pensa a vivere, finché puoi-

Anche questo finì così come era iniziato. Hope era ancora d’avanti a Serah, pallido e sudato. Era assurdo, un’altra visione! Non erano mai state così frequenti. Ne era terrorizzato. Voleva scappare, fuggire da Serah. Da quando l’aveva vista era peggiorato
.
-Hope! Sicuro di star bene?- Serah era sempre più preoccupata, non sapeva che fare. Provò a sfiorargli la spalla ma Hope si scansò con uno scatto.

-Io… Si, sto bene. Non ti preoccupare Serah. Io… Mi dispiace, devo andare. Sono in ritardo e… bhé, ciao.-

Parlò senza guardarla negli occhi, la fretta di fuggire sembrava pressargli lo sterno. Fu un sollievo girare i tacchi e correre via. Voleva mettere più distanza possibile tra lui e quella donna.
Serah lo guardò scappare via, conscia delle sue paure, ma impotente.

-Chi ela, mami?- chiese Nora.

-Una persona speciale, tesoro. Un vecchio amico di mamma e papà.-

-Lo pottiamo a casa?-

-Ah! No, piccola. Hope deve tornare dalla sua mamma. Anche se…- Nora gli fece venire un’idea. Prese la bimba, parecchio confusa, in braccio e corse in contro al ragazzo.

-Hope! Aspetta!-

Lui si girò, palesemente di mala voglia. Serah poggiò a terra Nora e prese penna e foglio dalla borsa. Scarabocchiò sopra qualcosa, per poi porgere il foglio ad Hope, che la guardava interrogativo.

-Questo è il nostro indirizzo di casa. Ti prego, se hai bisogno vieni a trovarci. Qualunque problema, qualunque domanda- gli occhi della ragazza erano ardenti, pieni di sottintesi – qualunque dubbio tu abbia, io e Snow siamo con te.-

Hope prese il foglietto e se lo mise in tasca annuendo impercettibilmente. Poi si voltò e continuò a scappare.
Non sarebbe mai andato in quella casa.
Mai.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Smetti di scappare, Hope ***


Corse.
Corse una distanza che parve infinita, ma il suo cuore martellante era ancora bloccato sul quel dannato marciapiede, a osservare Serah e Nora.
La fuga di Hope, tanto disperata quanto inutile, si stava rivelando un viaggio infruttuoso. Non era Serah il problema, era lui. Quelle visioni, quei flash, presi da sempre sottogamba, improvvisamente erano un macigno, un fardello che lo paralizzava.
Li aveva semplicemente sottovalutati, lo aveva fatto per una vita intera.
Erano solo l’ennesimo gioco di un bambino, un modo per sfuggire alla noia e alimentare la sua fantasia. Da ragazzo, erano una reminiscenza della sua infanzia, qualcosa che gli ricordava i sogni ad occhi aperti e i suoi desideri infantili. E, una volta uomo, non erano nulla, solo un’altra parte di sé. L’abitudine lo aveva portato semplicemente ad ignorarli. E, allora, quelli, con pressante insistenza, aumentarono, come a dire “no, non ignorarci”, come a voler comunicare un messaggio.
Si sentì stupido e piccolo come una formica, schiacciato da quello che aveva nella testa.
E, per una volta, l’università non fu più una priorità. Voleva fuggire. Voleva stare solo.
Le gambe, come indipendenti, lo guidarono, in cerca di luoghi sicuri.
In questo modo arrivò in un vecchio parco giochi.
Era deserto, a quell’ora del mattino, e mal ridotto. Gli anni, inclementi, avevano portato via qualche giostra, testimoniata ora solo da delle macchie di terra sull’erba verde. Hope lo vide con gli occhi dei ricordi esattamente com’era quando lui era solito passare lì i pomeriggi con la sua famiglia.
Si rivide bambino, testardo e capriccioso, desideroso di imparare ad andare da solo in altalena. Aveva trascinato sua madre lì così tante volte per poter imparare, senza mai volere una spinta.
E, ironia della sorte, ora che era adulto e indipendente, avrebbe davvero desiderato una piccola spinta.
Così finì di fuggire. E si sedette in quella stessa altalena, miracolosamente sopravvissuta, nella quale aveva imparato a dondolarsi.
Prese un pacchetto prima di lanciare la borsa per terra e si accese una sigaretta. La prima boccata di fumo fu, paradossalmente, meglio dell’ossigeno. Il sapore acre del tabacco bruciato sulla lingua e la sensazione del fumo aspirato lo resero lucido. Presente a sé stesso. Si incantò a guardare quelle piccole spirali prodotte da lui.

Che cazzo mi sta succedendo?

Difficile capirlo. Il suo timore più grande era di aver perso la sua sanità mentale. Era terrorizzato all’idea di impazzire. Si immaginò rinchiuso da qualche parte, un sorriso ebete in volto, a parlare di draghi e cose simili mentre la sua famiglia, accondiscendente, gli sorrideva.
No, impossibile. Scacciò il pensiero con la mano, quasi come fosse una mosca particolarmente fastidiosa.

Ma, allora, ammesso e non concesso che non sia pazzo, cos’ho?

Era come catturato dal fumo che saliva su. Era come osservare lo sciogliersi dei suo pensieri. E allora, dettato dalla logica, fece una cosa che non voleva assolutamente fare. Ogni piccola cellula del suo corpo gridava il dissenso e aveva una paura fottuta, ma, per una volta fu Hope a cercare le visioni. Ad accoglierle nella sua mente come vecchie amiche. Se voleva vederci chiaro doveva andare a fondo, non c’erano altre alternative.
Si concentrò su sé stesso, i profondi occhi chiari ancora fissi sul fumo.

Galleggiava in un vuoto nero come la pece, i pochi bagliori erano accompagnati dal rintocco di una campana. Un essere mostruoso sovrastava lui e i suoi compagni. Improvvisamente, dei legacci di luce lo afferrarono. Sentiva un terrore sordo. E poi un’altra luce, prima piacevolmente calda, dopo incandescente, si posò sul suo polso. Era marchiato, lo sapeva. Provò un dolore lancinante e dopo il nulla. Cadde, per ritrovarsi accolto da un letto di cristallo.

Era braccato, sentiva il fiato dei suoi aggressori sul collo. Non capiva, come aveva potuto la sua vita distruggersi così? Le sue gambe corte non riuscivano a tenere il passo e quegli uomini erano sempre più vicini. Allora decise di non avere paura. Si girò, arma alla mano, pronto a combattere. Non aveva più nulla da perdere.

Leggeva appunti su appunti mentre faceva calcoli al computer, un modellino, simile ad un piccolo pianeta lo fissava impaziente. Hope era frustato e al limite. Prese gli appunti e li scaraventò giù dalla scrivania.

Il vento gli scompigliava i capelli, una ragazza, una cara amica, lo guardava. Il volto era sfocato, ma intravedeva due codine rosse.
-Mi fai un favore? Continua a sorridere. Sai, vederti sorridere mi rende felice-
Rise di gusto dicendo queste parole, sapeva che la ragazza lo guardava a bocca aperta, e allora scappò via, sempre ridendo, inseguito da lei.


Il luogo dove si trovava era tutto bianco. Era stanco e vecchio come non lo era mai stato, e quello era il posto del suo esilio volontario. Urlò di frustrazione battendo i pugni su un pannello. Tutto il lavoro, tutta la sofferenza di quei mille anni era stata inutile, fine a sé stessa. Dopo fu bianco e lui si addormentò.

La foresta in cui si trovava era strana, aveva un non so che di artificiale. Stava seguendo, docile come un cagnolino, una figura. Era sempre lei, la donna dai capelli rosa. Improvvisamente, trovò il coraggio. Voleva dimostrarle di essere migliorato. Di potercela fare da solo.
-Non si tratta di essere capaci o no- le disse, convinto quanto può esserlo un quattordicenne terrorizzato.
E, per la prima volta, sentì la voce di quella donna. Calda e rassicurante.
-Tieni gli occhi aperti. Io ti copro-


TIENI GLI OCCHI APERTI. IO TI COPRO.

Si… Era vero, lei lo aveva sempre fatto. Inconsapevolmente, quella donna lo aveva protetto in ogni istante della sua vita. Ricordava sensazioni che, era certo, non aveva mai provato nulla sua vita. Ma erano sue. Lo sapeva con assoluta certezza. Ma quella donna… Chi era?
 
-Chi sei?-

Aprì gli occhi a quelle parole. Si accorse che erano uscite dalla sua bocca.
Il sole era alto nel cielo, la sigaretta solo un mozzicone tra le dita. Doveva essere rimasto lì più del previsto.
La testa era come in fiamme e Hope era tramortito. Confuso da ciò che aveva visto.
Sentiva che non erano frutto dei vaneggiamenti di un pazzo.
Non sapeva come, ma quelle cose le aveva vissute.

NO.

Quelle sensazioni le aveva provate.

NO. NO. NO.

E quella donna era reale.

-NO!!- urlò al vuoto.

Non poteva essere vero. Si rifiutava di crederlo. Non importava cosa dicesse l’istinto perché la ragione era dalla sua. Era stato un azzardo, non avrebbe dovuto assecondare quella follia. Lui era Hope Estheim, studente diligente e un ragazzo normale. NORMALE. Quelle visioni non erano lui, non lo rappresentavano né definivano. Erano solo il delirio di un pazzo e avrebbe fatto meglio a dimenticarle.
Con stizza prese la tracolla e andò a casa.
 
Una volta arrivato salutò appena i suoi genitori per poi rinchiudersi in camera sua. Non voleva parlare con nessuno. Si fiondò sul letto, digiuno e ancora vestito, e, senza neanche rendersene conto si addormentò.
Si svegliò urlando. Aveva fatto l’ennesimo sogno! E, non c’era alcun dubbio, era stato il peggiore.
Era quasi abituato a sognare cose assurde, ma quella… Quella andava oltre.
Era puro dolore.
Poche cose, arrivato a quel punto, lo avrebbero potuto stupire o scuotere così nel profondo.
Quel sogno era tra queste.
Vide sua madre.
La sua dolce mamma. Quella che ancora lo abbracciava e gli faceva una torta per merenda. Che lo chiamava “piccolo”, ignorando con insistenza i suoi 180 cm passati.
La vide morire.
La vide cadere per non rialzarsi ma più.
Il dolore che sentì in quel sogno fu indescrivibile, quasi fisico. Così potente che urlò così forte da svegliarsi in preda al terrore.
Nelle sue orecchie ancora una voce che, ora lo sapeva, apparteneva alla donna dai capelli rosa:

-Combattere senza sperare non è vivere. E’ solo un modo per morire.-

Ora era arrivato al limite. Ancora sotto shock si mise una mano tremante sul volto sudato. Tutte le sue cellule erano in subbuglio, come se conservassero l’eco del suo urlo.

-Hope! Che succede? Tutto bene?-

Sua madre lo chiamava da dietro la porta chiusa. Hope, nello stesso istante in cui udì la sua voce, si alzò con un balzò e andò ad aprire la porta. La trovò lì, preoccupata. Gli occhi di lei, gli stessi occhi di Hope, brillavano di preoccupazione. A vederla così, reduce di quell'incubo, l’abbracciò con impeto. Così felice che fosse lì e così sollevato da sentire il suo profumo.

-Si mamma. Non ti preoccupare, è stato solo un incubo idiota.-

La strinse con maggior forza. Nora era palesemente stupita. Suo figlio, così schivo e riservato, la stava davvero abbracciando? No, qui gatta ci cova.

-Ok! Non sono quel tipo di mamma che si lamenta se il figlio decide di abbracciarla, ma lasciamo perdere. Sai che puoi dirmi qualsiasi cosa, vero?-

No, non poteva.

-Si, mamma.-

-Bene. Io sarò per sempre qui per te. Ma adesso smettila con queste effusioni, che mi preoccupi. Piuttosto, la cena è pronta. Ho fatto la torta salata che ti piace tanto. Vieni?-

Guardò sua madre e capì che non poteva. Capire cosa stesse accadendo adesso era una priorità.

-No, mamma. Devo andare da… Da un mio collega. Dobbiamo confrontare degli appunti sulla lezione di oggi. Ma lasciatemene una fetta, domani la mangio.-

E così dicendo si voltò, cercando tra le sue cose. Prima, però, scocco alla madre un bacio sulla guancia. Nora guardò il figlio e alzò un sopracciglio.

-Va bene. Prima un abbraccio e dopo un bacio. Farò finta che sia una cosa normale e mi godrò il momento. Però, seriamente, dovresti mangiare.-

-Tranquilla, ma.-

-Ok..Ok.-

Nora si chiuse la porta alle spalle. Nello stesso istante Hope trovò quello che stava cercando. Un foglietto spiegazzato nella tasca dei pantaloni.
Qualunque problema, qualunque domanda, qualunque dubbio tu abbia”.
Doveva fare qualcosa, doveva sapere. Non avrebbe potuto sopportare un altro sogno del genere. La situazione gli stava sfuggendo dalle le mani. Le visioni erano diventare qualcosa più grande di lui.
Represse tutti i suoi dubbi per la sciocchezza che si stava accingendo a fare.
  Era una follia.
L’ennesima di quel giorno.
Dieci minuti dopo guidava la macchina di suo padre, il GPS l’unica compagnia.
Si ritrovò in una zona periferica, piena di piccole villette con giardino. L’ideale per le famigliole.
Parcheggiò l’auto davanti il numero indicato nel foglietto.
Scese e andò alla porta.
Esitò, per almeno cinque minuti, ma, alla fine trovò il coraggio e suonò.
Gli aprì un omone, altro quasi due metri e con gli occhi chiari scintillanti per la sorpresa.
Hope lo fissò come si fissa un fantasma.

-Ho bisogno di sapere.-




 Note dell'autore: Ho scelto di modificare la fine di questo capitolo. La fine mi stonava troppo. Dopo aver detto categoricamente "NO" Hope aveva bisogno di una forte motivazione per andare da Searh e Snow, quindi ho aggiunto la parte in cui ricorda la morte di Nora, adesso lo trovo molto più sensato. Spero di aggiornare presto coi prossimi capitoli che, devo ammetterlo, stanno aumentando rispetto ai cinque del progetto originale. Allo stesso tempo, però, non voglio dilungarmi troppo, anche se la lunghezza aumenta da capitolo a capitolo ma più scrivo e più cose sento di voler dire.
Alla prossima.
Nihal.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3568857