Sai mantenere un segreto? di Sacchan_ (/viewuser.php?uid=82631)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** -Prologo- ***
Capitolo 2: *** Giorno 1 (prima parte) ***
Capitolo 3: *** Giorno 1 (seconda parte) ***
Capitolo 4: *** Giorno 1 (terza parte) ***
Capitolo 5: *** Giorno 2 (Prima parte) ***
Capitolo 6: *** Giorno 2 (Seconda Parte) ***
Capitolo 7: *** Giorno 2 (Terza Parte) ***
Capitolo 8: *** Giorno 3 (Prima parte) ***
Capitolo 9: *** Giorno 3 (Seconda Parte Extra: Eris) ***
Capitolo 10: *** Giorno 3 (Terza Parte Extra: Brendon&Fabian) ***
Capitolo 1 *** -Prologo- ***
Sospirai
affranta.
Avevo lasciato tutto alle mie spalle: la mia vecchia vita, i miei
genitori, quei pochi veri amici ed ero scappata di casa.
Scappata
non era il termine esatto: il consenso ai miei l'avevo chiesto e
l'avevo ottenuto; così, bagaglio alla mano, sono fuggita dal
mio
piccolo paese per andare a vivere da mia zia, sorella di mia madre, in
una città sconosciuta e ancora più grande. Avevo
preso la decisione
giusta? Sì, forse. Lo speravo, perlomeno.
Ora, però, mi ritrovavo
più spaesata che mai: il cielo grigio e carico di pioggia, i
grattacieli che si innalzavano fino al cielo, i rumori assordanti delle
macchine in corsa, i clacson e gli schiamazzi che si riversavano nelle
strade. A nulla di tutto questo ero mai stata abituata, io povera
ragazza vissuta lontano dalla grande città.
Sarebbe stato difficile
ambientarmi, farmi dei nuovi amici, soprattutto lasciare indietro i
problemi del passato. Però era stata una mia decisione e non
potevo
assolutamente darmi per vinta ancora prima di averla affrontata. Ero
giunta fino a qui proprio per ricominciare e ritrovare il mio
equilibrio interiore. Solo allora sarei tornata indietro.
Uscii
sulla terrazza per prendere una boccata d'aria fresca e stiracchiarmi
le braccia, ne avevo bisogno dopo tutte quelle ore passate in treno. Ai
vestiti e agli effetti personali ci avrei pensato poi; in quel momento
ero solo curiosa di poter studiare quel nuovo quartiere e quella nuova
città. Sfortunatamente mi resi ben presto conto che mi
sarebbe stato
impossibile sperare in una veduta dall'alto: il grattacielo affianco,
gemello in tutto e per tutto a quello dove mi trovavo, era
così vicino
da ostruirmi la visuale; talmente vicino che potevo benissimo
comunicare con i coinquilini dell'appartamento di fronte se solo avessi
gridato. Avvicinandomi ancora di più al muretto del balcone
notai,
tuttavia, che era presente un dislivello tale che mi permetteva di
poter dare un'occhiata al suddetto appartamento sfruttando le finestre;
in particolare, proprio di fronte alla mia nuova camera da letto,
doveva trovarsi la camera da letto di qualcuno e questo pareva chiaro
dal mobilio che riuscivo a intravedere seppure le ombre della sera
iniziarono a riversarsi dentro. Di chiunque fosse quella camera da
letto il proprietario se ne era andato lasciando le tende completamente
aperte.
Assorta nei pensieri studiai l'interno di quella camera fino
a che non notai qualcosa di strano: dalla mia posizione non riuscivo a
vedere il letto per intero, tutto ciò che ne vedevo era
soltanto un
piccolo spicchio, ma era comunque abbastanza per farmi notare che
qualcuno vi era sdraiato sopra. Non ci sarebbe stato nulla di strano,
in questo, se non fosse stato che le paia di gambe che vedevo erano
decisamente troppe per appartenere a una persona sola. Assottigliai gli
occhi, mettendo a fuoco per quanto potevo, e non mi ci volle molto per
capire che su quel letto c'erano sdraiate due persone e ciò
che stavano
facendo era ben chiaro: chiunque fossero quei due -amanti, fidanzati,
marito e moglie o non si sa cosa- ci stavano dando dentro alla grande,
in pieno giorno e con la finestra bella in vista. Mi ritrassi indietro
sbalordita, decisa a rientrare dentro per non fare la figura della
guardona. Ma fu proprio in quel momento che avvertii una voce alle mie
spalle: era una voce bassa, ma calma; era la voce di un ragazzo.
"Ehi."
Mi
girai di scatto spaventata: esattamente di fronte a me, dalla parte
opposta e poco più in basso vi si trovava un ragazzo che mi
fissava
divertito. Aveva la camicia ancora aperta e l'aspetto trasandato, fra
le dita teneva una sigaretta sicuramente accesa da poco. Rimasi in
silenzio, non sapendo cosa dire o come giustificarmi, sempre ammesso
che ero tenuta a farlo.
"Non sai che spiare è reato?" Domandò calmo
mentre con una mano si tirava indietro le ciocche di capelli che gli
erano caduti davanti al viso.
"S-siete voi che stavate facendo cose,
senza esservi premurati di tirare le tende." Tentai di difendermi;
certamente io avevo indugiato, ma la colpa non era solo mia.
Lo vidi scrollare le spalle per poi gettare a terra la sigaretta.
Lo sguardo che mi lanciò mi congelò sul
posto
"Vuoi
venire a provare?" Mi sorrise sarcasticamente, in una maniera
così
strafottente che mi diede sui nervi. Nonostante ciò non fui
abbastanza
lesta nel rispondergli a dovere.
"Cosa?"
"Dai." Incitò. "Si vede che muori dalla voglia."
Quella
fu la goccia che fece traboccare il vaso: girai i tacchi e rientrai
dentro la mia camera senza più voltarmi indietro. Come primo
giorno in
quella nuova città era partito davvero alla grande.
Angolo
Autrice:
Buongiorno
a tutti, essendo nuova nel fandom mi presento. Io sono Sacchan e qui su
EFP mi diletto per lo più nella stesura di fan-fiction, le
originali non sono mai state il mio forte, dubito che lo saranno mai.
Ma questa storia è nata nella mia mente anni e anni fa;
quando invece di pubblicarla la accantonai per dedicarmi alle
fan-fiction, ora che sono più grande e matura -si spera xD-
ho pensato bene di riprenderla e, perché no, provare a
pubblicarla. Come citato anche nello specchietto saranno menzionate
tematiche delicate, più avvertimenti omosessuali. Il raiting
è stato lasciato arancione, se riterrò di doverlo
alzare perché nella stesura sarà reso opportuno
lo farò. E niente, spero che vi possa interessare. Nel caso
non mancatemi di farlo sapere poiché, lo ricordo, si tratta
della mia prima original.
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Capitolo 2 *** Giorno 1 (prima parte) ***
Camici bianchi attorno a me, in un ambiente
completamente bianco, dalle mura bianche, persino la luce era
bianca.
Perché?
Mi continuavano a
chiedere.
Non lo so. Rispondevo.
Non c'era una valida
motivazione, o forse sì; quella la sapevo solo io. Semplicemente mi piaceva
lo stridere della mia pelle.
Mi
svegliai di soprassalto, giusto in tempo per far sì che le
mie orecchie venissero investite dal trillo noioso della sveglia.
Allungai una mano sopra di me per spegnerla e salvare così i
miei lobi. Una volta fatto mi passai l'altra sulla fronte.
Era l'inizio della mia prima, vera, giornata in quella nuova
città, in un nuovo liceo dove avrei dovuto ricominciare da
capo con lezioni, compagni, nuovi amici -si sperava- e nuovi
professori. Il solo pensiero mi faceva venire voglia di nascondermi di
nuovo sotto le coperte.
Ma non potevo farlo perciò gettai a terra i piedi, alzandomi
con più impeto di quanto avrei dovuto e trascinandomi di
malavoglia in bagno per una veloce doccia mattutina. Avevo la fortuna
di avere un bagno personale in camera, già.
Davanti allo specchio mi osservai con attenzione: sicuramente non avevo
avuto una delle mie nottate migliori a giudicare dalle borse sotto agli
occhi; poco male: ci avrebbe pensato un velo di correttore e di
fondotinta per mascherarle.
Mi tolsi in fretta il pigiama, lasciandolo scivolare a terra, per
entrare nel piano doccia. Il contatto con l'acqua calda mi
rilassò talmente tanto al punto da desiderare di poter
tornare a letto.
Doveri: vivere una vita normale, provare almeno.
Questo era il patto, non potevo certo venirne a meno senza ancora aver
iniziato il percorso.
Davanti allo specchio osservai il mio viso. Era spento, come se non ci
fosse vita. Sospirai distogliendo gli occhi dalla mia figura.
La scelta dei vestiti da indossare si rivelò più
ardua di quanto mi sarei aspettata. La prima impressione era quella che
contava, no? Tuttavia non sapevo davvero se optare per un abbigliamento
formale o uno più sobrio e comodo. Alla fine scelsi una
camicia e una gonna tra gli abiti che mi ero portata dietro con me.
Certo, mia zia mi aveva fatto trovare un armadio pieno di maglie,
t-shirt, jeans e vestitini all'ultimo grido, ma ancora non avevo avuto
la voglia di mettermi a guardarli con attenzione.
Uscii dalla mia camera giusto in tempo per vederla uscire dal bagno
comune, fasciata in un elegante completo nero, i capelli raccolti in
una coda di cavallo e un vivace rossetto sulle labbra.
Appena mi vide curvò le labbra in un sorriso, mostrando
denti bianchi e perfetti.
Lei e mia madre si portavano, sì, solo cinque anni di
differenza ma erano completamente l'opposto.
"Selena, buongiorno." Mi salutò cordiale. "Dormito bene?"
Tentai di imitarla, per quanto possibile.
"Mh, sì bene... grazie." Mentii.
Seguirono molte domande sulla città, su come la trovavo, sul
quartiere dove ora abitavo e cose così.
Sì, no, boh, forse... come potevo giudicare una
città che ancora non conoscevo?
La seguii in cucina dove il caffè già traboccava
dalla caffettiera; aprendo un mobile ne tirò fuori due
tazzine e dopo averle riempite me ne porse una. Lo bevvi in un sorso,
senza metterci dello zucchero dentro. Non mi erano mai piaciute le cose
zuccherate.
Lei mi guardò con occhio vigile, mentre beveva il suo, e una
volta finito prese entrambe le nostre tazzine per posarle dentro il
lavello.
"Ieri sera ho sentito tua madre." Disse mentre faceva scorrere l'acqua.
Avvertii le mie spalle irrigidirsi.
"E..?" Incitai.
"Vorrebbe che la chiamassi." Sospirò. "Quantomeno vorrebbe
sentire la tua voce." E io con lei.
"Lo farò, a tempo debito lo farò." Sottolineai
per poi ritornare nella mia camera da letto; era quasi giunto il
momento di uscire e iniziare la giornata. Afferrai la mia polsiera,
abbandonata la notte prima sul comodino accanto al letto; era una di
quelle comuni, comprata in un semplice negozio di articoli sportivi, e
la indossai al mio polso sinistro. Mi era sempre piaciuto l'effetto che
mi dava, però mi chiedevo anche se non fosse strano vedere
una ragazza indossarne una. Scrollai le spalle: la giacchetta sopra la
camicia l'avrebbe comunque coperta.
Da una sedia recuperai lo zaino preparato la sera prima, poi, spostando
gli occhi sulla finestra, osservai il palazzo di fronte. Chiunque
abitasse in quell'appartamento ora aveva le serrande completamente
abbassate.
Lasciai, di nuovo, la mia stanza pronta ad uscire di casa.
Mia zia aveva insistito ad accompagnarmi a scuola almeno oggi, ma io mi
ero rifiutata categoricamente; non volevo certo creare disagi
più di quanto ne avevo già creati.
Sarei andata a scuola da sola, la sera prima avevo consultato su Google
Maps tutti i collegamenti pubblici messi a disposizione. In
più, confidavo nel mio orientamento infallibile per non
perdermi.
E difatti, quello, non si sbagliò nemmeno stavolta.
Certo, trasferirmi a metà anno già iniziato non
era stata una grande furbata ma, speravo, che le cose sarebbero andate
bene, quantomeno la mia integrazione in classe.
Tuttavia, nonostante il mio orientamento indiscutibile, dovetti
chiedere indicazioni più di una volta per raggiungere la mia
classe della prima ora di lezione.
Ovviamente, per non ricominciare da capo, avevo scelto lo stesso
indirizzo liceale della mia vecchia scuola, ma non potevo ancora sapere
se i programmi combaciavano o se il mio vecchio programma di studio era
più indietro o più avanti di quello attuale.
La prima ora era quella di scienze e appena entrai in classe attirai su
di me gli sguardi di tutti, come era da aspettarsi.
Feci un lieve cenno col capo, imbarazzata, per poi guardare un
eventuale banco libero. Se fosse stato possibile ne avrei preferito uno
in fondo e dal lato delle finestre.
Non feci nemmeno in tempo a fare un passo che una voce femminile mi
colse di sprovvista.
"Ciao! Tu devi essere quella nuova, Selena, vero?" Mi sorrise
entusiasta una ragazza rossiccia e dalla pelle lentigginosa venendo
dalla mia parte. "I professori mi hanno avvertita di un trasferimento
in questi giorni. Io sono Eris, la rappresentante di classe." E mi
porse una mano che esitai a stringere. Gruppi di ragazze, poco
più in là, ridacchiavano tra loro.
La squadrai da cima a fondo: Eris era alta quanto me e aveva dei lunghi
capelli mossi, raccolti in una coda bassa. Portava occhiali spessi e un
abbigliamento piuttosto nerd. Se davvero era la rappresentante di
classe aveva quell'aspetto da geek che sembrava renderla perfetta al
ruolo.
"Mh, dove posso sedermi?" Domandai, dimenticandomi di presentarmi.
Eris mi illustrò due posti lasciati vuoti. Uno era in
seconda fila, in posizione centrale, comodo per guardare la lavagna ma
troppo al centro dell'attenzione. Il secondo era in ultima fila, sempre
al centro, ma almeno non avrei avuto nessuno dietro.
Inutile dire quale fu la mia scelta.
Tuttavia, avvicinandomi al mio banco, sbiancai di colpo notando chi era
il mio vicino.
"Ciao." Mi salutò atono, svogliato quanto la mia voglia di
essermi alzata quella mattina.
Era lui, il ragazzo che il giorno prima avevo sorpreso
nell'appartamento di fronte a fare cose poche consone durante il giorno.
"Ciao." Risposi di rimando, più spiazzata che mai, mentre mi
sedevo.
"Incredibile che oggi ci hai degnato della tua presenza." Gli
commentò dietro Eris, incrociando le braccia al petto.
Lo udii emettere un verso con la lingua infastidito.
"Non rompere, Eris. Sono venuto solo perché, se fossi stato
assente anche oggi, sarebbero state cinque assenze di fila non
giustificate. Non ho tempo né voglia di passare dalla
preside."
Eris alzò gli occhi al soffitto.
"Quantomeno cerca di non disturbare la nuova arrivata."
Quell'ammonimento non lo scompose nemmeno, anzi, mi rivolse una tale
occhiataccia che fu in grado di gelarmi sul posto, sensazione che avevo
provato anche il giorno prima: ora che avevo la possibilità
di osservarlo da vicino potevo notare che aveva due occhi grigi e
taglienti e un viso incorniciato da capelli color cenere.
L'abbigliamento era trasandato e prevalentemente composto da capi scuri.
Incurvai appena le spalle.
"Non sarà necessario alcun aiuto, grazie."
"E io non avevo intenzione di dartelo." Ribatté lui, come a
volermi rinfacciare l'inconveniente del giorno prima.
Vidi Eris aprire la bocca, per dire qualcosa, ma cambiò
subito idea quando il professore entrò in classe, cosa che
la fece schizzare a sedere al suo posto.
Di una cosa ero certa: sarebbe stata una lunga giornata.
A
lezione conclusa Eris mi si avvicinò, preoccupandosi se il
programma mi era chiaro almeno in quella materia.
Fortunatamente ero al passo.
"Tutto chiaro, grazie." Le risposi.
Che fosse per il suo ruolo di rappresentante o no, pareva una ragazza
gentile di natura.
"Bene." Applaudì lei. "Che ne dici se durante la pausa
pranzo ti porto a fare un giro del liceo? Così inizi a
familiarizzare con la scuola?" Mi propose allegra, ma prima di poterle
rispondere notai un ragazzo, più grande di noi, chiamarla
dal corridoio.
Appena se ne accorse Eris volò fuori dall'aula, con un
impeto tale che mi fece chiedere se fosse il suo fidanzato.
Stavo anche per ritornare al mio posto quando, d'improvviso, la vidi
sbracciarsi e chiamarmi fuori.
"Ecco, lei è la nuova arrivata." La sentii parlare mentre mi
avvicinavo e il ragazzo mi rivolse un sorriso affabile.
Era bello, dal viso femminile e con capelli biondi che ricadevano ai
lati dello stesso. Gli occhi erano di un azzurro molto chiaro e il suo
abbigliamento era tanto formale, ma dai colori neutri.
Totalmente l'opposto del mio vicino di banco, pensai.
"Selena lui è Fabian, il rappresentante degli studenti di
questo istituto." Lo presentò Eris.
Fabian si passò una mano fra i capelli biondi, tendendo
l'altra con un modo così genuino che mi sentii subito in
dovere di stringergliela.
"Ho letto il tuo fascicolo proprio ieri pomeriggio, spero che ti
troverai bene qui."
"Oh, beh, lo spero anche io..." Abbassai gli occhi, pregando che
sarebbe stato davvero così.
"Comunque..." Ci interruppe Eris. "Come mai sei venuto qui, Fabian?"
I toni dell'atmosfera cambiarono immediatamente a quella domanda.
"Oggi Brendon si è presentato a scuola, vero?"
Sospirò lui, portando Eris ad annuire. "La preside vuole
vederlo. Deve dare una giustificazione su queste ennesime assenze senza
motivazione." Eris arricciò appena le labbra, muovendo gli
occhi verso il banco oramai vuoto.
Difatti, Brendon era fuggito via dalla classe a lezione finita.
"Arrivi tardi. Ha lasciato la classe dopo che la lezione è
terminata."
Non che io ci capissi molto in quel momento, ma fu sufficiente a
leggere la delusione sul viso di uno e l'esasperazione sul volto
dell'altra; evidentemente era un ragazzo problematico.
Fabian guardò l'orologio, stringendo gli occhi infastidito.
"Devo andare ora. Eris, puoi dirglielo tu?"
Eris iniziò a lamentarsi contrariata.
"Cosa? Perché dovrei occuparmene io? Brendon neanche mi
dà ascolto."
Fabian le scompigliò affettuosamente i capelli prima di
dileguarsi.
"Perché sei la rappresentante della sua classe." Le rispose,
dandomi l'impressione che l'avesse appena messa nel sacco. Eris divenne
muta all'istante.
"Davvero è così terribile?" Le domandai
ingenuamente, spezzando il silenzio che si era creato.
"In realtà non è un cattivo ragazzo..." Mi
rispose lei, scrollando le spalle. "Ma è intrattabile e
difficilmente si lascia avvicinare. Non so che problemi abbia." Ci
pensò su. "Idea! Potresti dirglielo tu per me?" Chiese
innocente.
Mi ci volle qualche secondo per realizzare ciò che mi aveva
appena chiesto di fare.
"Eh?"
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Capitolo 3 *** Giorno 1 (seconda parte) ***
wattpad
Ero stata messa nel sacco.
Già, decisamente mi ero lasciata fregare dagli occhi azzurri
di Fabian e dai sorrisi gentili di Eris.
"Non so nemmeno dove andarlo a cercare." Lamentai, sperando
così di impietosirla.
Cosa che non ebbe nessun effetto sperato: Eris portò le mani
davanti agli occhi, giungendole a preghiera e guardandomi supplicante.
"Ti prego, mi toglieresti questo peso di dosso."
La guardai dubbiosa ricordandole che, proprio come aveva detto Fabian
poco prima, era la rappresentante della nostra classe e stava a lei
comunicare agli studenti comunicazioni dotate di una certa importanza.
Eris chinò il capo consapevole di quanto le mie parole
fossero vere.
"Ho pensato che, poiché sei nuova, magari a te Brendon
avrebbe dato un minimo di ascolto. Di solito quando mi avvicino a lui
per comunicargli qualcosa poco ci manca che mi caccia via a calci nel
sedere. E credimi, sarebbe capace di farlo."
Scossi il capo per nulla convinta da ciò che mi veniva
chiesto di fare, tuttavia Eris continuava a fissarmi con quello sguardo
supplicante che, o avrei fatto come mi avrebbe chiesto, o avrebbe
mantenuto quella espressione fino a quando mi sarei lasciata
convincere.
Sospirai al pensiero che avrei dovuto di nuovo rivolgere la parola a
quel ragazzo, ma a pensarci bene si trattava solo passargli una
comunicazione: non è che dovevamo dialogare per conoscerci.
"Va bene, hai vinto." Mi rassegnai. "Dimmi solo dove posso trovarlo."
Non mi sarebbe piaciuto l'idea di rincorrere qualcuno per tutta la
scuola solo per dire un paio di parole.
Eris mi abbracciò contenta, portandomi quasi a chiedere se
il ruolo di rappresentante fosse adatto a lei.
"Oh, ti ringrazio! Mi hai tolto un peso!" Mormorò contro il
mio orecchio. "Solitamente, quando non ha voglia di seguire le lezioni,
Brendon sale sul terrazzo della scuola."
Ah, bellissimo. Pensai, incrociando le braccia.
"Nella mia vecchia scuola il terrazzo era una zona a divieto d'accesso
durante le lezioni." Precisai, pensando che potesse essere lo stesso.
"Lo è anche qui. Gli studenti possono salirci solo durante
la pausa pranzo fra le lezioni del mattino e quelle del pomeriggio."
Eris abbassò lo sguardo fino ai piedi. "A Brendon non
è mai importato del divieto, quindi è sicuro che
lo troverai lì."
Annuii in risposta, precisando però che avrei aspettato la
fine delle lezioni mattutine e mi sarei mossa solo se non si sarebbe
mostrato prima.
Eris mi guardò colpevole.
"Non ti avrei comunque chiesto di salirci adesso." Precisò,
cosa che mi rimproverare me stessa per essere stata troppo dura verso
l'unica che, finora, si era mostrata cortese verso di me.
Il piccolo intermezzo fra una materia e l'altra finì in quel
preciso momento e il resto della mattinata volò fra ore di
matematica e letteratura. Allo scoccare della pausa lunga Eris spinse
verso di me un quaderno pieno di appunti, nel post-it attaccato alla
copertina la sua calligrafia mi metteva al corrente che potevo tenerlo
in prestito per quei primi giorni e si scusava per il disturbo. Le
alzai il pollice sorridendole prima di avventurarmi fuori in corridoio
alla ricerca delle scale che portavano verso il terrazzo.
La mia nuova scuola era da poco stata ristrutturata, quindi nasceva
sulle basi della vecchia, messa in sicurezza grazie alle nuove
normative che vigevano per gli edifici pubblici.
Si componeva di due piani: un piano terra e un primo piano, collegati
soltanto da una scala di una quindicina di gradini per piano. Al piano
terra, oltre all'ingresso e alla segreteria, vi si trovava un lungo
corridoio che metteva a disposizione degli armadietti per gli studenti.
Il colore degli armadietti determinava l'anno di chi lo usufruiva. Ai
lati di questo corridoio vi si trovavano diverse aule, più
la sala professori, l'ufficio della preside -che avevo avuto il piacere
di conoscere solo telefonicamente-, e una sala studio che fungeva anche
da biblioteca. Salendo al primo piano si trovavano i laboratori e il
resto delle classi; infine, proprio in fondo a questo, una piccola
scalinata conduceva al terrazzo della scuola. Non essendo grande come
istituto era presente una sola sezione, per un totale di cinque classi
in tutto.
Queste erano le informazioni che ero riuscita ad ottenere durante le
mie ricerche sulla scuola stessa.
Mi aggregai a un gruppetto di studenti che stavano andando fuori per
salire i cinque scalini che portavano a dove ero diretta. Attaccati
alla parete cartelli di divieto invitavano studenti e professori a non
fumare sulla terrazza.
Guardai in giro, pregando che colui che cercavo non se ne fosse
già andato; il sole mi batteva contro gli occhi impedendomi
la visuale, li andai a coprire con una mano mentre avanzavo.
Girai più d'una volta la testa fino a quando lo vidi: era
appoggiato al parapetto di sicurezza, di spalle e con una sigaretta
accesa fra le dita.
Mi avvicinai cauta, guardando schifata la sigaretta: non sopportavo il
fumo, tanto più chi fumava.
"Ero convinta di aver letto un cartello con un divieto di fumo prima di
salire qui." Mi lasciai scappare.
Brendon si girò lentamente dalla mia parte, per nulla
sorpreso che io potessi trovarmi davanti a lui in quel momento. I
capelli color cenere venivano spinti di lato da una leggera brezza di
vento, alcune ciocche gli ricadevano sugli occhi, ma la cosa non
sembrava minimamente dargli fastidio.
Prima di rispondermi prese un'altra boccata di fumo.
"Il divieto di fumo è totalmente inutile se sei in uno
spazio aperto, non trovi?" Mi domandò fisso negli occhi, una
arroganza tale che mi venne da rispondergli all'istante.
"Non so, se il cartello è stato appeso un motivo ci
sarà."
Fece saettare lo sguardo di lato.
"Guardati attorno, nessuno sta rispettando il divieto."
Seguii i suoi occhi, notando che altri gruppetti di ragazzi stavano
fumando le loro sigarette, disposti in cerchio.
"Eppure tu sei qui a dare contro solo a me." Concluse allargando le
braccia e assumendo l'atteggiamento di un bambino, fingendosi una
povera vittima.
"Solo perché adesso sto parlando con te." Precisai, cercando
di non perdere la pazienza. Ero salita solo per poter dire una
stupidissima cosa, non era mio intento litigare.
Brendon rigirò la sigaretta, quasi finita, fra le dita per
poi porgermela.
"Vuoi provarla?" Chiese serio, portando i miei occhi a corrucciarsi.
"Sei qui per questo, no?" Domandò poi con malizia, cosa che
mi fece quasi perdere la pazienza per la sua sfrontatezza.
"Non fumo." Replicai decisa, incrociando le braccia sotto al petto. La
mia pazienza stava scemando sempre più.
Brendon la fece cadere a terra e poi la calciò via con il
tacco della scarpa, facendola cadere giù di sotto dove,
presumibilmente, c'era il giardino della scuola.
Quella tale mancanza di rispetto mi portò istintivamente ad
aprire la bocca per dirgliene quattro, ma lui fu più veloce
di me nel farmi tacere, forse aveva già previsto le mie
intenzioni.
"Cosa vuoi, dunque?"
Contai fino a tre prima di rispondere, dovevo ritrovare la mia tipica
compostezza.
"Eris dice che la preside vuole vederti." Risposi nel modo
più calmo possibile. Dovevo solo dire quelle parole, non
dovevo certo fare altro.
Brendon inclinò lo sguardo di lato.
"Scommetto che è stato Fabian a dirglielo." Pensò
ad alta voce.
"Beh, sì." Gli rivelai io. D'un tratto sembrava essere
diventato pensieroso, al punto di portarsi le nocche delle dita alle
labbra.
Ma quel momento di riflessione durò ben poco.
"Come al solito non è capace di dirmelo di persona." Brendon
scrollò le spalle con una risatina, lasciandomi per un
attimo di stucco davanti a quel cambiamento improvviso.
Portò poi le mani dentro al suo giubbotto e si
incamminò verso di me, senza mai distogliere lo sguardo dal
mio viso per un secondo.
"Posso chiederti che cosa hai esattamente visto ieri?"
Non sapevo spiegarlo, ma c'era un modo nel suo fissarmi e nel tono di
voce che aveva usato da farmi presagire che, se avessi risposto nella
maniera sbagliata, me l'avrebbe fatta pagare per un qualcosa che
neanche potevo comprendere.
"Nulla, in verità." Abbassai il mento, scegliendo bene cosa
dire. "La stanza non era illuminata e dalla mia posizione il letto non
si vedeva nemmeno bene."
Un tocco mi sfiorò leggermente la spalla: Brendon si era
avvicinato così tanto al punto da potersi chinare per
sussurrarmi qualcosa all'orecchio.
"Dimentica ciò che hai visto." Mi intimò a bassa
voce prima di ritornare verso l'interno dell'edificio.
Per un attimo avevo avvertito i brividi sulla schiena.
Il peggio della giornata arrivò proprio a fine della
giornata stessa, quando la preside -una signora di mezza età
agghindata da un pesante trucco sul viso, sì finalmente
l'avevo conosciuta- mi aveva trattenuto nel suo ufficio per siglare le
pratiche che ancora mancavano di una mia firma e che sarebbero poi
finite nel mio dossier scolastico.
Con il sole che ormai calava giù per le finestre, donando al
bianco dei muri un aspetto dorato, raccolsi le ultime cose sia da sotto
il mio banco che dal mio armadietto personale. Era già
passata un'ora dalla fine delle lezioni, gli studenti se ne erano
andati tutti e anche i professori che si erano attardati avevano
lasciato l'edificio. Restava solo la preside, chiusa però
nel suo ufficio.
Fu in quel momento, un momento di assoluto silenzio, che udii uno
schianto metallico, come se qualcosa avesse sbattuto. Mi girai di
scatto verso il rumore, non curandomi del mio zaino lasciato aperto,
per andare a vedere cosa fosse successo e, girando l'angolo, capii di
essere finita nel posto sbagliato al momento sbagliato.
La mano di Brendon era premuta contro il collo di Fabian, quest'ultimo
pressato contro un armadietto.
L'impeccabile camicia di Fabian era sgualcita come se qualcuno l'avesse
afferrata di forza, le sue mani facevano pressione sul braccio che lo
tenevano bloccato.
Entrambi si accorsero di me non appena sbucai da dietro l'angolo.
Fu Brendon il primo a parlare.
"Non sei ancora andata a casa, eh?"
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Capitolo 4 *** Giorno 1 (terza parte) ***
wattpad
Forse
ero ancora in tempo a svignarmela, a passare loro davanti e ad
andarmene come se non fosse successo e non avessi visto nulla. Forse
ero ancora in tempo ad evitare tante cose. Ma ormai era troppo tardi.
Brendon
lasciò andare la morsa sul colletto di Fabian, il quale si
portò una mano al collo per massaggiarlo. Aveva il respiro
mozzato, respirava a fatica da quanto potevo vedere. Chissà
Brendon con quanta forza l'aveva spinto per ridurlo così.
"Va
tutto bene, Selena." Riuscì a dirmi, guardando dalla mia
parte. "Non è successo nulla." Tentò di
rassicurarmi; io ero rimasta ancora ferma sul posto, senza muovere un
muscolo e senza dire una sola parola.
"Hai
la straordinaria capacità di trovarti sempre nel posto
sbagliato al momento sbagliato, sai?" Mi canzonò Brendon.
"Ora deciditi se vuoi restare lì impalata a guardare cosa
succede, o se vuoi venire ad aiutare questo povero sfigato."
Quelle
ultime parole parvero irritare Fabian che, con una spinta,
provò ad allontanarlo da sé senza ottenere
risultati.
"Adesso
smettila, Brendon!" Gli urlò contro, tentando inutilmente di
sottrarsi alla sua presa. Quella minima resistenza opposta lo fece
adirare ancora di più, portandolo a spintonare Fabian
ulteriormente contro l'armadietto. Il ragazzo biondo gemette per il
dolore alla schiena.
"Va
davvero tutto bene, Selena." Ripeté. "Credimi, puoi andare."
Mi provò a rassicurare vedendo che io continuavo a starmene
immobile.
Brendon
sbuffò con una risata.
"Proprio
tipico da te, eh? Non chiedere aiuto e atteggiarti a santarellino.
Dovresti farlo invece, lo sai che le cose potrebbero finire peggio."
Non
capii a cosa si riferisse, sta di fatto che Fabian divenne pallido al
punto di schiacciarsi ancora di più contro la parete e
l'armadietto dietro di lui. Sembrava avere paura e solo allora Brendon
indietreggiò ponendo dello spazio fra loro: ora teneva le
mani in tasca e lo guardava come se il solo vederlo lo schifasse da
capo a piedi.
Le
mie mani si strinsero a pugno, ciò che avevo visto era
davvero troppo per essere ignorato.
"Vuoi
restare lì immobile? O ti decidi ad andartene?" Mi sentii
chiedere.
A
capo chino mi incamminai verso di loro, e quando mi ritrovai abbastanza
vicina a Brendon lo colpii con uno schiaffo sulla guancia.
Non
mi resi conto di ciò che avevo fatto finché il
palmo della mia mano prese a bruciare; il viso di Brendon era girato di
lato e la sua postura non aveva vacillato neanche un attimo.
Nonostante
ciò iniziavo a sentire sudori freddi addosso, mi ero di
sicuro cacciata in un guaio e anche Fabian era rimasto attonito.
Mi
ritrassi indietro nello stesso momento in cui i suoi occhi grigi si
spostarono su di me, privi di espressione.
Era
calato il silenzio, nessuno di noi tre fiatava e questa condizione
andò avanti fino a quando decisi di porre la parola fine
alla situazione stessa.
"Puoi
continuare ad atteggiarti in questo modo ancora, se vuoi." Sibilai a
denti stretti, la rabbia repressa. "Ma sappi che non mi ci
vorrà nulla domani mattina ad andare nell'ufficio della
preside e raccontare ciò che è successo e ho
visto oggi. Vedo già una sospensione dietro l'angolo." Lo
ammonì senza guardare in faccia nessuno dei due poi, dopo
essermi sistemata meglio la spallina dello zaino sulla spalla, li
superai entrambi con ampie falcate, senza voltarmi indietro.
Corsi
letteralmente fuori dall'edificio e fuori dall'ingresso della scuola,
il cuore che mi batteva forte nel petto.
Cosa
avevo appena fatto? Era il mio primo giorno di scuola e si era concluso
nel peggiore dei modi. Non era a questo che auspicavo stamattina quando
ero uscita di casa.
Mi
appoggiai a un muretto con la schiena, il fiato mi stava diventando
pesante. Dovevo calmarmi o sarebbe stato peggio. Cercai di regolare il
respiro, esattamente come mi avevano insegnato a fare. Riuscii a
intervenire in tempo per fortuna.
"Ohi."
Mi
voltai di scatto, trovandomi Brendon a poca distanza da me. Quando era
arrivato e da quanto tempo proprio non me ne ero accorta. Aveva visto
che mi stavo sentendo male? Sperai di no e appena lo vidi venire verso
di me provai l'irrefrenabile impulso di scappare. Le mie gambe
però erano molli e non sembravano volermi dare ascolto.
Si
fermò a pochi centimetri da me, sebbene il suo sguardo era
serio non riuscivo a interpretare alcuna reazione.
"Lo
faresti davvero?" Mi domandò aggrottando la fronte,
lì per lì neanche capii a cosa si riferiva, solo
dopo realizzai.
"Vorrei
evitare di farmi dei nemici dal primo giorno di scuola." Risposi.
"Però si, lo farei davvero se vedessi di nuovo una scena del
genere." Ritenni importante mettere in chiaro da subito la questione,
sperando di non dovermene pentire in seguito.
Vidi
Brendon schioccare la lingua infastidito.
"No
che non lo faresti."
Lo
guardai interrogativa, da dove gli veniva tanta sicurezza? Neanche mi
conosceva.
Un
suo braccio si allungò fulmineo verso di me, tirandomi
avanti per il polso.
Inizialmente
mi lamentai solo per la sorpresa e il dolore, poi cercai di tirarmi
indietro quando lo vidi sollevare la manica della mia giacca, insieme
alla camicia, e sfilarmi la polsiera di dosso.
Il
mio polso sinistro rivelò ciò che nascondeva:
striature bianche cicatrizzate percorrevano la mia pelle, insieme a
chiazze rosse e violacee. Con l'altra mano forzai la sua a lasciarmi
andare, scoprendo però di non possedere forza abbastanza per
farlo.
"Interessante."
Disse lui, contemplando il mio polso. "Mi chiedevo perché
portassi solo una polsiera, ora capisco tutto." Mi lasciò
andare e io indietreggiai, nascondendo il polso dietro di me.
"Come
hai fatto a notarla?" Gli domandai agitata. Che cosa avrebbe potuto
pensare ora?
Posò
gli occhi grigi sui miei.
"Siamo
vicini di banco, no? Ti ho solo osservata bene. La polsiera ogni tanto
veniva fuori dalla manica della giacca."
Lo
guardai spaventata: non era possibile che, al mio primo giorno di
scuola, qualcuno avesse già scoperto il mio segreto.
"Così
siamo pari. Io non andrò in giro di raccontare di quella." E
indicò il mio polso. "E tu non racconterai di ciò
che è successo in corridoio."
"E
davvero dovrei fidarmi?" Non ne ero del tutto sicura.
Brendon
mi sorrise affabile.
"Naturalmente
no. Il mio silenzio ti costerà un po' più caro."
Iniziai
davvero ad avere paura. Cosa voleva fare? O cosa voleva che io facessi?
Sperai che si trattasse solo di uno scherzo andato un po' troppo in
là.
Mi
guardò serio, più di quanto non facesse
già di solito.
"Ti
aspetto domenica mattina a casa mia." Mi sventolò un
foglietto davanti al naso. "Qui c'è il mio indirizzo e come
arrivarci e, se vuoi un consiglio, vestiti comoda."
Deglutii
nervosa mentre mi veniva dato in mano il foglietto che, rigirandolo fra
le dita, conteneva davvero un indirizzo e una serie di indicazioni su
come arrivarci ma nessun nominativo o numero di cellulare.
Vestirmi
comoda?
Che
razza di richiesta era quella?
Brendon
si era già dileguato, immaginavo che sarebbe stato inutile
chiedere spiegazioni.
La
mia polsiera giaceva a terra nella polvere, mi chinai per raccoglierla
e rimetterla al polso.
Era
tutto di nuovo come prima. O quasi?
|
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Capitolo 5 *** Giorno 2 (Prima parte) ***
Il
resto della settimana passò tranquillamente, cosa dovuta
all'assenza di Brendon nel banco affianco al mio. Ancora non mi sapevo
spiegare come avesse capito cosa nascondevo sotto la polsiera. La
afferrai per giocarci con la mano, rigirandola fra il polso. Cosa
mascheravo lì sotto era il mio segreto, una macchia sul mio
corpo che ancora mi perseguitava e che era stato motivo principale
della fuga da casa dei miei genitori.
Era domenica mattina il giorno concordato in cui sarei dovuta andare a
casa sua; a fare cosa proprio non lo sapevo, sebbene dovesse garantire
il suo silenzio.
Mi guardai allo specchio e afferrai una spazzola dal ripiano a fianco
per strigliare i miei capelli. Le occhiaie erano svanite, ma gli incubi
notturni no. Con movimenti bruschi tentai di ravvivare i miei capelli e
li legai in una coda di cavallo, sarei dovuta andare a tagliarli ma non
era il mio aspetto il mio cruccio principale.
Mi lavai i denti con lo spazzolino da viaggio che mi ero portata
dietro, nel mobiletto in bagno trovai persino del colluttorio. Mia zia
proprio non si faceva mancare niente.
Casualmente l'occhio calò sulle sue lamette usa e getta,
ancora confezionate e dentro la plastica.
Serrai le labbra fino a farle diventare bianche: avevo deciso che non
ne avrei più maneggiata una in vita mia, indipendentemente
dall'uso.
Uscii dal bagno e mi incamminai a piedi nudi verso la mia camera, da
lì dentro osservai le finestre dell'appartamento di fronte
al mio.
Le persiane erano serrate; nonostante fosse già mattina
tardi ancora nessuno le aveva innalzate.
Una cosa, tuttavia, l'avevo capita: Brendon mi aveva dato l'indirizzo
di casa sua e, consultando da Google, la sua abitazione si trovava in
un quartiere residenziale poco fuori dal centro cittadino. Per
raggiungerla avrei dovuto persino prendere l'autobus, quindi non poteva
essere lui uno degli inquilini che abitavano di fronte a me.
Ma non potei fare a meno di chiedermi allora chi vi abitasse. Forse la
sua fidanzata, forse qualcuna con cui si divertiva di tanto in tanto;
magari era una donna anche più grande di lui.
Scossi la testa: non era cosa che mi doveva importare.
Davanti allo specchio dell'armadio finii di vestirmi: avevo indossato
dei jeans, una t-shirt e una felpa con la cerniera. Era stato lui a
suggerirmi di vestirmi comoda e io, in quel momento, ero il ritratto
della comodità.
A mia zia, che ancora non si era svegliata, causa una festa di addio al
nubilato di chissà quale collega di lavoro, avevo lasciato
un bigliettino sul tavolo della cucina.
Esco con una compagna di classe, vuole
portarmi a fare un giro in un centro commerciale della zona. Ho il mio
cellulare dietro con me in caso di bisogno.
C'era scritto.
Silenziosamente uscii di casa e dal palazzo senza incontrare nessuno,
la fermata dell'autobus distava circa duecento metri a piedi e io avevo
una quindicina di minuti a disposizione. Nello zainetto che mi ero
portata appresso, oltre al cellulare, avevo solo una bottiglietta
d'acqua, il portafoglio e l'ipod per passarmi il tempo.
Mi augurai che, qualsiasi cosa Brendon avesse in mente di fare e di cui
aveva bisogno di me, fosse una cosa veloce.
Sperai persino di non pentirmene in seguito.
Quando arrivai a destinazione mi ritrovai in una zona periferica della
città, dove le villette a schiera si susseguivano una dietro
l'altra. Erano tutte dotate di una entrata indipendente e di un
giardino.
A differenza del quartiere dove abitava mia zia, pieno centro cittadino
e su una delle strade principali, i clacson erano inesistenti, le
rotonde più frequenti dei semafori e i negozi si riducevano
a due o tre per via.
Parchi e viali alberati erano visibili dall'altra parte della strada,
assieme a collinette e parchi-giochi dove alcuni bambini si divertivano
a calciare un pallone.
Questo scenario calmo era molto più simile alla
realtà dove vivevo prima, ma non era il luogo che potevo
chiamare casa.
Mi colpii le guance, ricordandomi il motivo per cui ero andata fino a
lì: la casa di Brendon non doveva essere lontana, ora non
rimaneva che chiedere qualche informazione in giro o, in altri casi,
attivare il gps del mio cellulare.
Trovai la via che Brendon mi aveva scritto sul foglietto grazie a una
anziana signora che portava a spasso il proprio cane. Come avevo visto
dal computer la sera prima si trattava di una viuzza interna, un poco
lontana da dove l'autobus mi aveva lasciata, ma non troppo.
Le casette, non più a schiera ma delle vere e proprie
villette, erano per lo più bianche o dai colori tenui.
Quella di Brendon, per intenderci, era celestina, con un ampio
giardino, un portico e il cartello "Attenti al cane" che svettava in
bella vista attaccato al cancello e vicino alla buchetta della posta.
Ormai non potevo più indugiare, perciò feci
appello a tutto il mio coraggio e avvicinai un dito al campanello per
premerlo.
"Finalmente sei arrivata." Mormorò qualcuno dietro di me.
Sussultai sul posto, solo per rendermi conto che, ovviamente, si
trattava di Brendon.
La sua capacità di sorprendermi alle spalle era notevole,
considerato che quella era già la terza volta.
"Ciao." Lo salutai, priva di espressione; saluto che nemmeno
ricambiò dato che aveva già inserito la chiave
nella toppa del cancelletto e l'aveva aperto davanti a me, facendomi
intendere di precederlo.
Quella mattina era stranamente vestito bene: niente abiti trasandati,
niente fuori posto. Aveva persino il viso rasato e questo gli faceva
risaltare ancora di più la mascella e le maniche rimboccate
della camicia mettevano in risalto le sue braccia. Chi sfigurava,
piuttosto, ero io nella mia felpa extra-large.
Lo seguii in rigoroso silenzio, fino a che non aprì
l'ingresso di casa sua rivelando un grazioso corridoio che portava sino
alle scale che conducevano al piano superiore.
"Lasciamo stare i convenevoli." Sputò come se andasse di
fretta. "Troverai tutto ciò che ti serve là
dentro." E indicò una porticina sottoscala. "E qui l'elenco
di cose che devi fare." Mi ritrovai fra le mani un foglio di carta
ripiegato. "Al piano di sotto c'è la zona giorno, la cucina
e lo studio che sono quelle che mi interessano di più. Al
piano di sopra ci sono le camere da letto e i bagni. La lavanderia
è là in fondo e ci troverai tutto ciò
che ti serve. Ti ho lasciato la chiave attaccata alla serratura, quando
esci a buttare la spazzatura ricordati di chiudere e di prendertela con
te. Tutto chiaro?"
Tutte quelle informazioni mi avevano fatto storcere le labbra e
aggrottare la fronte, nella mia mente realizzai che due più
due fa quattro come quattro più quattro fa otto e via
dicendo. Inorridii al pensiero che ciò che avevo pensato
potesse essere vero.
"Aspetta! Che stai dicendo? Cosa dovrei fare?" Gridai e solo allora
ottenni un po' di considerazione.
"La signora che si occupa delle pulizie oggi non può venire,
ha il figlio piccolo malato o qualcosa del genere." Rispose seccato. "E
domani tornano i miei a casa dopo più di un mese di assenza,
non posso mostrare loro la casa in queste condizioni e io devo andare a
lavorare. Quindi farai tu la donna delle pulizie oggi."
Avvertii una voragine aprirsi davanti a me: mi ero fatta diverse
ipotesi e una simile non mi aveva sfiorato minimamente. Indietreggiai
fino al vano d'ingresso.
"Non esiste! Io torno a casa!" Sarei potuta scappare appena in tempo se
la sua stretta, che scoprii bella forte e potente, non mi trattenne.
"Aspetta..." Sussurrò quieto. "Pensavo avessimo un patto."
Tirai il braccio, facendo mollare la presa.
"Sì, ma..."
"Non vuoi che domani inizino a circolare voci, vero?" Mi
afferrò per il polso, esattamente quello dove tenevo la
polsiera e potei giurare di vedergli un ghigno beffardo disegnargli le
labbra quando si accorse che, anche quella mattina, la indossavo.
Alla fine era lui che teneva il coltello dalla parte del manico e io
potevo solo chinare il capo per nascondermi nella rabbia.
"Va bene." Dissi sommessamente.
"Non ti ho sentito."
"Ho detto che lo farò!" Risposi a voce più alta e
solo allora Brendon mi liberò dalla sua stretta.
Mi ritrovai da sola, in una casa a me completamente sconosciuta. Non
sapevo nemmeno dove sbattere la testa o come muovermi, fortunatamente
nella lavanderia trovai mocci, scope e palette più tutto
ciò che mi sarebbe potuto servire. Era tutto organizzato,
probabilmente merito della signora delle pulizie che, proprio quella
mattina, non si era potuta presentare.
Mi feci coraggio ed entrai in quella che ritenni essere la cucina.
Per poco sfiorai lo svenimento: era tutto all'aria!
Stoviglie sporche erano impilate dentro il lavello, gli strofinacci
erano abbandonati a terra o su sedie scaraventate lontano dal tavolo.
Sul pavimento erano presenti numerose confezioni di snack aperte e
consumate, le briciole erano sparse quasi ovunque. I cuscini dei divani
erano tutti stropicciati, i tappeti arricciati e altra immondizia era
riversa sotto le poltrone e i tavoli. Sopra quest'ultimi erano presenti
lattine di birra schiacciate, bottiglie di vodka e red bull
completamente vuote accanto a posacenere pieni zeppi di mozziconi di
sigaretta.
Mi venne quasi da piangere mentre ispezionavo le condizioni di quella
povera cucina; a un certo punto il suolo della mia scarpa
calpestò qualcosa di piccolo.
Mi abbassai per osservare cosa.
Era una confezione piccola e argentata, dalle dimensioni quadrate ma
dove al centro svettava una struttura circolare e dotata di un fondo
proprio nel centro.
Un preservativo, pensai.
Con un impeto di rabbia lo calciai lontano da me, mandandolo a finire
in un angolo.
Altro che malattia! La signora delle pulizie aveva utilizzato la scusa
della malattia del figlio per non presentarsi al lavoro quella mattina,
ne ero sicura.
Brendon e i suoi amici si erano sicuramente dati alla pazza gioia la
sera prima. E io ora dovevo ripulire tutto quello schifo.
Gli occhi mi pizzicavano, era una umiliazione bella e buona essersi
abbassata a questo pur di mantenere il mio segreto tale. E non avevo
ancora la certezza che l'avrebbe fatto per davvero.
Strinsi i pugni ai miei fianchi, mandando giù quel boccone
amaro.
Avrei fatto un lavoro coi fiocchi.
E l'avrei fatto giurare di tenere la bocca chiusa una volta che sarebbe
rientrato a casa verso sera.
Mi slacciai la zip e gettai lontano la felpa, restando solo con la mia
t-shirt a manica corta: ora era chiaro persino il perché del
vestirmi comoda.
Ci vollero ben un paio d'ore per ripulire tutto quanto: dare
giù allo sporco delle stoviglie, riempire la lavastoviglie e
capire come metterla in moto, sciacquare ciò che non ci era
potuto entrare, spazzare a terra, radunare tutta l'immondizia, dare
l'aspirapolvere, sistemare il divano e il tavolo, pulire i posacenere e
passare lo straccio a terra. A lavoro finito avevo la fronte imperlata
di sudore che asciugai con un lembo della mia maglietta. I sacchi pieni
di spazzatura li avevo legati e lasciati davanti alla porta di
ingresso, li sarei andata a buttare in seguito.
Non potevo che complimentarmi con me stessa, dato che la cucina si
presentava molto meglio ora, rendendo l'idea di ciò che
doveva essere piuttosto che una discarica.
Ma la casa era grande e io avevo ancora lo studio, i bagni e le camere
da letto da passare in rassegna.
E l'orologio a muro nel corridoio mi guardava minaccioso, non avevo
tempo da perdere nemmeno con lo stomaco che gorgogliava.
Lo studio si rivelò meno ostico della cucina: era tenuto
bene, nonostante l'aria di chiuso che aleggiava e che necessitava di
spalancare la finestra. Al centro della stanza un pianoforte a coda dal
colore nero brillante faceva la sua bella figura. Lo accarezzai
scoprendolo tenuto bene, solo ricoperto da un leggero strato di
polvere. Pur non capendo nulla di musica premetti qualche tasto a caso
creando una sinfonia strampalata.
Sui mobili attorno a me erano presenti trofei con targhette che non ero
in grado di decifrare. La scrivania sotto la finestra era completamente
nuda e non mi forniva alcun tipo di indizio. Forse avrei scoperto di
più se avessi aperto i cassetti, ma non pareva il caso. Alla
fine, non necessitando di chissà cosa, mi limitai a
spolverare mobili, mensole, scrivania e pianoforte chiedendomi come
mai, in uno studio, non erano presenti né foto né
cornici che ritraevano la famiglia per intero.
Per fare un lavoro fatto bene passai l'aspirapolvere anche
lì, e un'altra ora se ne era andata.
Non mi rimaneva che accedere al piano superiore che, come sotto, si
componeva di un corridoio da cui si accedeva alle camere. In tutto
contai due camere da letto e un bagno, più un piccolo
ripostiglio che a mio avviso non meritava nemmeno di attenzione.
Brendon mi aveva detto che sarebbe rientrato verso le sei di sera ed
erano da poco passate le due del pomeriggio. Feci un rapido calcolo a
mente: potevo farcela.
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Capitolo 6 *** Giorno 2 (Seconda Parte) ***
Nel
piano superiore aleggiava la stessa aria di stranezza che avevo
avvertito per tutta la casa: non c'erano, quadri, cornici, non c'era
nulla di nulla che mi permettesse di capire chi fosse Brendon e chi
fossero i suoi genitori.
Ricordavo la mia vecchia casa, dove le scale erano tappezzate di foto e
stampe mie e dei miei durante le nostre gite, i nostri compleanni o
qualche altro avvenimento importante. Qui non c'era niente di tutto
questo, l'unico indizio che avevo ricevuto era il pianoforte nello
studio e le innumerevoli coppe e targhette chiuse dentro alla bacheca,
ma queste non permettevano lo stesso di venire a capo alla domanda
cruciale: Chi era Brendon? E i suoi genitori? Che tipo di lavoro
facevano per rimanere lontano da casa per così tanto tempo?
Non era da me ficcanasare, tuttavia, in quella assurda situazione, mi
era proprio impossibile non pormi delle domande. Forse le camere da
letto mi avrebbero dato delle risposte, solo che né il
bagno, né quella che -immaginai- essere la camera dei suoi
avevano la necessità di essere ripulite; merito sicuramente
dell'egregia donna delle pulizie e della sua decisione di prendersi un
giorno di permesso ficcando me in questa situazione stramba.
Fu la camera di Brendon, invece, a farmi corrucciare le labbra: avevo
già visto le pietose condizioni della cucina e mi era
costato ben due ore di fatica per ridarle un aspetto decente; mi
augurai di tutto cuore che la sua camera da letto non fosse nelle
stesse indecenti condizioni, peccato che appena vi entrai fui investita
dall'orribile visione del disordine e dei vestiti gettati a terra e
agli angoli senza nessun criterio.
Presi un lungo respiro: dopo aver rimesso a posto la sua camera avrei
finalmente finito e mi sarei potuta riposare nell'attesa che lui
ritornasse a casa e che io potessi fare lo stesso. Perciò
non avevo tempo da perdere e mi misi subito all'opera, a cominciare dal
letto.
Ispezionai la sua camera, come avevo fatto con le stanze precedenti:
non aveva nulla di diverso da una comune camera da letto di un ragazzo,
certo, Brendon aveva la fortuna di disporre di un letto matrimoniale e
il che mi fece pensare che in certe situazioni gli tornasse assai
comodo, ma il resto era normalissimo: un letto, un armadio, un comodino
dotato di lampada, una scrivania su cui era poggiata una televisione a
schermo piatto, con affianco una consolle per videogiochi e, poggiato
sopra, un netbook portatile. Affianco c'erano persino custodie di
videogiochi. alcuni li conoscevo persino io.
Scansai i vestiti a terra per aprire la finestra che dava a un piccolo
balconcino esterno, chissà magari in tutto quel caos avrei
trovato persino un tesoro.
Aria fredda mi sferzò il volto, la temperatura si stava
abbassando di qualche grado. Tornai a prestare attenzione alla camera,
osservando i poster attaccati al muro. Erano poster musicali, di gruppi
rock, alcuni noti anche a me, mentre altri mi erano totalmente
sconosciuti.
Scossi appena la testa, stringendo le labbra come ero solita fare
quando facevo qualcosa che sapevo non essere il caso: mi fiondai verso
il suo armadio e lo aprii, mucchi di vestiti arrotolati tra loro mi
caddero addosso, schiantandosi con un tonfo sordo sul pavimento.
Mi piegai per raccoglierli: magliette, felpe, jeans e tute da casa,
tutte dai colori scuri o freddi. Non c'era nulla di strano in questo
abbigliamento, anzi era fin troppo normale.
Scavai dentro l'armadio più a fondo, finché le
mie dita vennero a contatto con una borsa nera. La tirai fuori, pesante
come era, strattonandola un poco, per accorgermi che non si trattava di
una semplice borsa: era una custodia. La custodia di una chitarra per
essere precisi.
La appoggiai delicatamente a terra e aprii le due zip per svelarne il
contenuto. Una chitarra acustica, dal colore marroncino vi era nascosta
dentro, assieme a un paio di plettri dal colore grigio argentato.
La adagiai sulle mie ginocchia, studiandola. Nonostante qualche leggero
graffio sul corpo era tenuta bene.
Controllai le tasche della custodia, trovandovi dei foglietti ripiegati
dentro: erano spartiti di musica con le note scritte a matita, in molti
punti c'erano delle correzioni e dei segni rossi, in altri le
correzioni erano state del tutto cancellate a biro.
Ora pareva chiaro: Brendon suonava la chitarra, chissà di
chi era, allora, il pianoforte giù di sotto. Forse del
padre? Forse la sua famiglia amava la musica classica?
Alzai appena il viso e l'occhio cascò verso l'angolo
dell'armadio dove un'ombra e qualcosa che sporgeva attirò la
mia attenzione; riposi la chitarra nella sua custodia, facendo
attenzione a non graffiarla, e gattonai verso l'angolo di mio interesse.
Anche lì vi era una chitarra!
Ma era una di quelle elettriche, dai colori blu e rosso sfavillanti,
con i cavi ancora attaccati.
Ok, ora pareva ancora più chiaro che a Brendon piacesse
suonare la chitarra se addirittura ne aveva due. Però si
trattava solo di questo, non che avessi scoperto poi molto.
Decisi allora di darmi un'ulteriore possibilità aprendo i
cassetti del comodino, chiedendomi chissà cosa aspettavo di
trovare.
Dentro vi era un po' di tutto: dai pettini al gel per capelli e persino
qualche profumo e qualche deodorante da uomo.
In un altro cassetto c'erano delle foto: queste sì che erano
decisamente più interessanti da guardare!
Le osservai una a una: erano foto fatte tra amici, feste, compleanni,
persino lauree di ragazzi più grandi. Da quel che potevo
vedere aveva un sacco di amici e conoscenti, in alcune era persino
ripreso da solo con la chitarra in mano.
Ma in nessuna di queste compariva una persona adulta, in nessuna pareva
esserci lui con uno dei suoi genitori. Rimurginai sulla cosa e, non
trovando una risposta, mi picchiettai le guance con i palmi delle mani:
avevo perso fin troppo tempo e io dovevo finire prima che lui
ritornasse a casa. Mi rimboccai nuovamente le maniche, rimettendo a
nuovo anche quella stanza, senza trascurare il minimo particolare:
Brendon non doveva appoggiarsi a nulla per venire meno alla parola
data. In poco più di un'ora quella camera da letto
tornò come nuova.
Quando scesi al piano terra erano ormai le cinque e mezza del
pomeriggio passate e il cielo stava assumendo i colori dell'imbrunire.
Pregai che il suo ritorno non ritardasse troppo mentre aprivo il frigo
e vi sbirciavo dentro: avevo fame e non avevo mangiato, in
più c'erano dei sandwich al tonno e maionese davvero
invitanti per il mio povero stomaco. Ne afferrai uno e lo scartai dalla
pellicola, mentre con l'altra mano ero indaffarata a mandare un
messaggio a mia zia per rassicurarla su dove mi trovavo. Sullo schermo
del mio cellulare, difatti, lampeggiavano già due chiamate
senza risposta e un messaggio. Ovviamente, mi inventai che
ero ancora in compagnia della mia compagna di classe: si trattava di
una bugia a fin di bene. Una volta scritto e inviato silenziai il mio
smartphone e osservai lo schermo nero del televisore posto di fronte a
me. Afferrai il telecomando, decisa a fare zapping per passare il tempo
e mi gettai a sedere su una poltrona, poggiando persino la testa sul
poggiatesta per non farmi mancare niente. In Tv i canali non offrivano
nulla di interessante, nemmeno quelli musicali. Sbadigliai realizzando
solo in quel momento quanto stanca fossi effettivamente, ero comunque
decisa ad aspettare sveglia il ritorno del padrone di casa.
Tuttavia ci vollero solo un paio di minuti per far sì che il
telecomando sfuggì alla mia mano, cadendo a terra, e le
palpebre cedettero al sonno da quanto erano pesanti.
Erano
ritornati, gli incubi erano ritornati.
Non erano veri e propri incubi, i dottori mi avevano fornito tutte le
spiegazioni scientifiche del caso per rassicurarmi: si trattava di
illusioni ipnagogiche o ipnopompiche a seconda se si verificavano prima
o dopo la veglia.
Il soggetto affetto da questo disturbo, come me, percepisce attorno a
sé contatti talmente vividi da prenderli per reali.
Nel mio caso queste illusioni erano affiancate persino da una paralisi
del sonno: potevo vedere, per quanto la mia vista riusciva a mettere a
fuoco, ma non potevo muovermi ed era questo ciò che mi
spaventava di più perché, ogni volta, sentivo
come una presenza attorno che sussurrava il mio nome e che avrebbe
anche potuto farmi del male se non mi fossi mossa in tempo.
I dottori mi avevano avvertita che nulla era reale, ma queste
allucinazioni erano così chiare da farmi assalire dal
terrore ogni volta che si presentavano.
In particolare, in quel frangente, oltre la porta chiusa della cucina,
mi pareva che ci fosse qualcuno pronto ad irrompere dentro e io non
avrei potuto fare assolutamente nulla per fermarlo; fuori,
dall'esterno, mi sembrava persino di udire il latrare di un cane.
No, chiunque fosse era entrato: riuscivo a sentire dei passi. Dovevo
assolutamente riprendere il controllo del mio corpo prima che fosse
troppo tardi.
Nulla riuscii a fare, quella presenza era già vicina a me e
si stava abbassando sul mio viso, ciocche di capelli mi venivano
spostate via da una guancia. Improvvisamente avvertii un dolore al lobo
sinistro, assieme a qualcosa di aguzzo che premeva sulla mia carne.
Urlai di rimando: erano denti e quando i miei sensi si stabilizzarono
trovai il viso di Brendon a pochi centimetri dal mio. Mi stava
scrutando, con i suoi occhi grigi taglienti.
"Addormentarsi in casa di sconosciuti? Non è molto saggio,
tu che dici?" Mi parlò nell'orecchio, solleticandomi col suo
fiato fino a farmi alzare di scatto. Lo scansai di lato, inciampando
nel telecomando ancora a terra.
Brendon si chinò a raccoglierlo per poi adagiarlo sul tavolo.
"Stai bene?" Mi domandò, notando che io non parlavo.
Ripresi fiato, finalmente il contatto con la realtà stava
ritornando. Scossi la testa affermativamente, poi rimasi immobile.
Nemmeno Brendon parlò, poi iniziò a sondare la
cucina con lo sguardo e, infine, emise un fischio di approvazione.
"Però!" Esclamò. "Quasi perfetto!"
"Sì, beh..." Mi decisi a parlare. "Mi è costato
solo due ore di fatica." Calcai. "Ora che sei tornato direi che posso
tornarmene a casa, no? Ho fatto ciò che volevi quindi,
adesso, puoi anche promettermi che non ci saranno storie su di me a
partire da domani, vero?" Gli ringhiai contro, sotto sotto
però la mia voce era supplicante.
"Non così in fretta..." Borbottò lui e io sentii
un macigno cadermi addosso. "C'è ancora qualcosa che non hai
fatto."
Assottigliai gli occhi, guardandolo malissimo, fino a quando non udii
un cane abbaiare da fuori, in cortile.
Andai alla finestra per vedere un pastore tedesco di colore marrone
scuro rotolarsi nell'erba. Sperai che ciò che ancora non
avevo fatto non avesse a che fare con questo cane.
"Deimos!" Mormorò Brendon, dietro di me. "Era dal
veterinario per fare alcuni vaccini, e ora che è tornato a
casa penso che non veda l'ora di sgranchirsi un po' le gambe." Mi
ritrovai improvvisamente un guinzaglio fra le mani. "Perché
non lo porti a fare una passeggiata nei dintorni mentre io vado a farmi
una doccia?"
Non mi diede il tempo per replicare che già era sparito,
salendo le scale.
"Oh, e già che ci sei, compra qualcosa per la cena!" Mi
gridò dal bagno, mentre io ero rimasta ferma e immobile
osservando il guinzaglio.
Avevo già fatto tanto... un piccolo sforzo in più
non mi sarebbe costato nulla, giusto?
No, diamine! Non c'era mai fine al peggio!
Imprecai fra me e me mentre andavo incontro a quel cucciolo, ancora
intento a grattarsi la schiena contro l'erba del giardino.
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Capitolo 7 *** Giorno 2 (Terza Parte) ***
Mi
avvicinai a Deimos con cautela: non avevo paura della sua stazza, ma
era pur sempre un cane che non mi conosceva, quindi poteva diffidare di
me e iniziare a ringhiare. Non appena Deimos si accorse della mia
presenza, infatti, smise di rotolare nell'erba e si
immobilizzò, restando a fissarmi, forse per capire le mie
intenzioni.
Da piccola mi avevano insegnato che non è mai cosa giusta
piegarsi su un cane che non si conosce, potrebbe essere frainteso
dall'animale come una postura di minaccia; al contrario inginocchiarsi
davanti a lui è la cosa migliore da fare, in quanto si
rimarrebbe alla stessa altezza dell'animale. Questo è
ciò che feci: mi inginocchiai davanti a Deimos e lasciai che
fu lui, per primo, a venire da me.
A giudicare dall'aspetto Deimos doveva essere poco più di un
cucciolo, tuttavia era già grande abbastanza da arrivarmi
alle ginocchia, se mi fossi alzata in piedi.
Quando riconobbe che le mie intenzioni non erano ostili lo vidi
avanzare piano, con occhi curiosi e la lingua penzolante fuori dalla
bocca; capii che quello era il momento giusto per fargli vedere che ero
un'amica: allungai una mano verso di lui per fargli annusare il mio
odore, di modo che potesse conoscermi. Solo allora il cane
mutò il suo atteggiamento, capendo che non avevo intenzioni
cattive ed ero andata da lui solo per giocare. Difatti Deimos
abbaiò un paio di volte per poi sdraiarsi sull'erba a pancia
all'aria, in un chiaro segno che voleva essere accarezzato.
"Ok, ok!" Risi, facendogli qualche grattino sulla pancia. "Sei
sicuramente più bello del tuo padrone!"
Si lasciò accarezzare e fare qualche coccola, per poi
continuare a rotolare sul prato e a guardarmi di tanto in tanto come a
invitarmi a giocare con lui.
Da quel che avevo potuto capire sembrava un cane socievole, dal suo
aspetto ben tenuto e dal pelo lucido potevo persino intuire che Brendon
avesse molta cura di lui.
Disperso nell'erba trovai un giochino per cani a forma di osso con un
sonaglio attaccato e lo usai per richiamarlo a me, non appena di
accorse che stringevo in mano il suo giocattolo, difatti, il cane corse
dalle mie parti e io fui veloce abbastanza da alzarmi in piedi e
allontanarglielo: Deimos si mise seduto sulle zampe, abbaiando un paio
di volte e scuotendo la sua enorme coda.
Quello era il momento adatto per infilargli il guinzaglio.
"Il tuo padrone dice che hai voglia di muoverti e si vede." Scherzai,
facendo passare il guinzaglio attorno al suo collo. "Ma oggi
sarò io a farti fare la passeggiata, sei contento?" Deimos
latrò in risposta.
Agganciai il guinzaglio al collare e strinsi forte la presa, subito
Deimos puntò al cancellino che dava fuori, sulla strada. Per
un attimo vacillai, aveva davvero forza nel tirare.
"Ehi, ehi! Cerchiamo di andare d'accordo, ok?" Lo ammonii ridendo,
cercando di rafforzare la presa per evitare che fosse lui a trascinare
me.
Con uno strattone gli feci capire che la nostra passeggiatina serale
avrebbe avuto inizio.
Nonostante
fosse ormai orario di sera le strade del quartiere dove abitava Brendon
continuavano a rimanere tranquille e per nulla trafficate, il bagliore
del sole che tramontava dava all'asfalto un colore dorato e sui
marciapiedi le foglie morte degli alberi continuavano a cadere come
pioggia. Alcuni ragazzini passeggiavano mangiando cialde farcite, i
pochi negozi presenti sulla via più trafficata iniziavano
già ad abbassare le serrande, mentre persone anziane si
radunavano nei bar e nei circoli per chiacchierare fra loro.
Mi lasciai guidare da Deimos per le strade, prima arrivando in un parco
pubblico per poi proseguire per viali alberati, parcheggi e palazzetti
sportivi.
In realtà non mi ero allontanata più di tanto,
per essere più precisi avevo girato in tondo esplorando in
qua e in là quella zona residenziale.
Ogni tanto Deimos tirava e abbiava quando scorgeva altri cani, altre
volte si fermava per marchiare il territorio ma, in ogni caso, non mi
diede alcun particolare problema e la nostra passeggiata
durò sui venti-trenta minuti quando decisi che era ormai ora
di ritornare indietro.
"Se non fosse che il tuo padrone vorrebbe qualcosa per cena..."
Mormorai esasperata a Deimos e lui mi guardò beffardo, come
se avesse capito il motivo del mio turbamento.
Non avevo idee su cosa comprare per cena, soprattutto dove. Certo
c'erano delle rosticcerie ancora aperte, ma non conoscevo i gusti di
Brendon e potevo rischiare di comprare qualcosa che poi avrebbe finito
per lanciarmi dietro.
"Meglio evitare." Pensai, non avevo nemmeno così tanti soldi
con me.
Improvvisamente, girando un angolo, un odorino di pizza cotta a legna
passò sotto il mio naso. La scritta "pizzeria d'asporto",
illuminata dai led, fu la prima cosa che i miei occhi colsero. Una
mamma con due bambini stava uscendo dal negozietto reggendo in mano due
cartoni fumanti.
Guardai Deimos, sperando in un segno affermativo.
"Cosa ne pensi?" Gli sorrisi. "Andiamo a colpo sicuro, no?"
Per tutta risposta il cane iniziò a tirare verso la pizzeria
con ancora più forza.
"Esattamente..."
Commentò Brendon mentre sollevava il coperchio della pizza.
"Cosa ti ha fatto pensare che a me piace la pizza?"
Quando ero rientrata nella sua casa l'avevo trovato in cucina, intento
a bere dell'acqua tonica direttamente da una bottiglietta recuperata
dal frigo. Aveva ancora i capelli bagnati, per questo teneva un
asciugamano sulle spalle e si era cambiato con abiti più
comodi come una maglietta e dei pantaloni larghi. Nonostante non fosse
più estate la maglietta aveva le maniche corte e notai che
anche ai piedi non indossava calze.
Sebbene non avevo più motivi di dover rimanere mi aveva
chiesto -ordinato- di non andarmene.
"Che noioso che sei!" Gli gridai dietro. "La pizza piace a tutti! Se
non ti piacciono le verdure scarta quelle, se sei vegetariano scarta la
salsiccia! Ho scelto una combinazione perfetta!"
Pizza salsiccia e radicchio, era stata quella la mia scelta. Quando il
commesso della pizzeria mi aveva chiesto a che gusto la volevo ero
andata totalmente nel panico, iniziando a biascicare parole totalmente
senza senso. Avrei potuto prendere la classica margherita, ma -diamine-
la scena di un Brendon che mi prendeva in giro si era formata nella mia
mente esattamente come il fumetto di un cartone animato. Alla fine mi
ero lasciata consigliare dal commesso.
"Per tua fortuna non sono vegetariano e la salsiccia mi piace."
Commentò poi, e la tensione che avevo accumulato
scivolò via dalle mie spalle. "Tu non mangi?" Mi
domandò dopo, mentre era intento a tagliare la pizza a
metà.
"Eh, uhm..." Come spiegare che non avevo abbastanza soldi con me per
comprarne due? Soprattutto quando speravo che quello fosse il mio
ultimo incarico e dopo sarei stata libera di tornarmene a casa?
"No money?" Mi domandò burlone e io gli lanciai
un'occhiataccia.
"Non avevo messo in conto di dovermi fermare ancora!" Gli risposi
stizzita.
Brendon non mi rispose, al contrario rimase in silenzio intento ad
armeggiare con la sua pizza. Io stessa distolsi lo sguardo da lui,
almeno fino a che qualcosa non scivolò dalla mia parte: si
trattava di un trancio di pizza avvolto in un tovagliolo.
"Non è comunque divertente mangiare da soli."
Commentò lui, prendendomi come esempio e guardando altrove:
fuori dalla finestra non c'era più luce.
Afferrai la pizza per mangiarne qualche boccone mentre lui finiva la
sua, era diventata un po' fredda ma per il mio stomaco affamato era
buona lo stesso.
"Mh, Brendon... tu vivi qui da solo?" Mi azzardai a chiedere: si era
creato un silenzio fin troppo imbarazzante.
Brendon non rispose subito, si prese del tempo prima pulendosi le
labbra con il pollice: aveva ancora i capelli bagnati, attaccati ai
lati del viso e l'asciugamano sulle spalle.
"I miei viaggiano per il mondo, tornano a casa di rado."
Tirò un sospiro, prima di riprendere. "Quando loro non ci
sono sarebbe mio zio a prendersi cura di me, ma lui ha la sua famiglia
e abita fuori dalla città. Ha due bambini piccoli, non
sarebbe giusto che si accollasse anche me... e poi io sono abituato a
vivere da solo." Concluse ridendo.
"Mmm... che lavoro fanno i tuoi?" Mi sentivo a disagio, non volevo
impicciarmi troppo della sua vita privata ma anche restare
continuamente in silenzio mi creava imbarazzo: alla fine, non sapendo
cosa chiedere, quella fu la domanda più naturale da porre.
Brendon non rispose subito: lo vidi prima farsi pensieroso, poi
decidersi a darmi una spiegazione.
"Lavorano come musicisti, mia madre suona il violino, mio padre il
pianoforte. L'avrai visto nel suo studio, no? Beh quello è
il suo."
In un attimo ricollegai il tutto.
"Oh, quindi sei figlio d'arte? E tu suoni la chitarra? Le ho viste
nella tua camera mentre mettevo a posto." Mi lasciai scappare e capii
di aver detto troppo quando Brendon mi guardò malizioso.
"Ah, quindi hai curiosato?"
Mi ritrassi indietro per la vergogna, portandomi le dita alle labbra.
Avevo detto, decisamente, troppo.
"Le ho solo notate mentre mettevo a posto." Sussurrai a occhi bassi.
"La suono da quando ero piccolo." Mi raccontò Brendon,
togliendomi da quella situazione imbarazzante. "I miei mi hanno fatto
provare diversi strumenti musicali. So suonare la chitarra,
sì, ma anche il piano, il violino e un po' il flauto."
Ammise con tono naturale.
I miei sospetti che potesse non avere i genitori si erano dipanati,
tuttavia continuai comunque ad avere il sentore che ci fosse qualcosa
che non voleva dirmi. Non sembrava contento che i suoi ritornassero,
piuttosto appariva molto indifferente alla cosa.
Decisi di non indagare ulteriormente sulla cosa, non sarebbe stato
nemmeno carino e avrebbe potuto pensare che fossi una ragazza invadente.
"Dimmi di te." Mi risvegliò con quelle parole, facendomi
sollevare la testa. "Quella..." Guardò il mio polso. "Come
te la sei fatta?"
Il tono di voce che aveva usato mi portò instivamente a
coprimi il polso marchiato e nasconderlo sotto il tavolo. Distolsi gli
occhi da lui, serrando le labbra.
"Non voglio parlarne." Ammisi, sperando che la smettesse di fissarmi.
"Da qua." Allungò la sua mano verso di me, chiedendo la mia.
Avevo capito cosa voleva fare e io non volevo. Non c'era nulla di bello
in quel polso tutto tarchiato e io ne provavo vergogna.
"No..." Mugolai, stringendomi appena nelle spalle e rafforzando la
presa sul mio polso. Ma, evidentemente, Brendon non conosceva il
significato della parola no dato che lasciò scivolare la sua
mano sulla mia, tirandomela appena fuori dal suo nascondiglio. Con le
dita sfilò la polsiera, rivelando la pelle più
interna. Aveva mani davvero belle, dovevano esserlo per davvero se
sapeva suonare ben quattro strumenti musicali.
"Ti prego..." Lo implorai quando mise a nudo la mia cicatrice e tutta
la zona rossa che vi era attorno. La studiò con attenzione,
ignorando le mie proteste.
"Non dovresti farti cose simili..." Mormorò stringendo
appena gli occhi e posando le labbra sulla cicatrice più
grande, in un contatto gentile e delicato. Lo guardai spaventata,
nessuno aveva toccato la mia cicatrice in quel modo finora in
più non avevo capito per niente cosa aveva detto prima da
quanto ero stordita dalla situazione in sé. Quando si
staccò mi lasciò anche andare il braccio e la
prima cosa istintiva che feci fu andare a coprire quella parte
lesionata con la mia polsiera di fiducia.
"Sai, conosco qualcuno che ti è molto simile..." Lo sentii
mormorare mentre nascondevo di nuovo il mio polso alla vista di tutti.
"Eh?"
I suoi occhi si alzarono sull'orologio a muro.
"Quando hai il prossimo autobus?"
Fissai anche io l'orologio, mettendo a fuoco nella mia mente la tabella
degli orari del ritorno.
"Oh! Fra venti minuti! Sarà meglio che io vada!" Mi alzai di
scatto, ridestandomi da quella situazione stramba per afferrare zaino e
felpa. Non volevo perdere l'autobus, anzi stavo già per
dirigermi alla porta se non fosse stato per Brandon che mi aveva
bloccato per il gomito.
"Aspettami, ti accompagno."
Rimasi stupita e immobile mentre dal corridoio afferrava la giacca.
Nonostante
camminavamo fianco a fianco nessuno di noi due parlò, come
se gli argomenti fossero esauriti di colpo.
Io ripensavo a quanto successo prima e a altre cose in generale, mentre
Brandon camminava disinvolto a passo col mio.
"Mh, Brendon?" Lo chiamai. "Riguardo a me..." Iniziai, dovevo essere
sicura che, a parte lui, non si sarebbe lasciato scappare una singola
cosa che mi riguardasse.
Intuendo, probabilmente, ciò che volevo chiedergli lo vidi
aggrottare le soppracciglia e farsi serio.
"Non avrei detto nulla comunque." Confessò. "Mi serviva solo
qualcuno che mi aiutasse a rimettere a posto la casa, i miei sono molto
severi quando ritornano."
Annuii in risposta, da lontano si iniziava a scorgere la pensilina
della fermata.
"Io, sai, mi sono fatta un'idea diversa di te oggi." Gli riconobbi.
"Ma, allora, perché l'altro giorno ti sei comportato
così con Fabian?"
Il suo passo si arrestò, forse non aspettandosi una simile
domanda, per poi riprendere tranquillo.
"Io e lui siamo sempre così." Rispose semplicemente.
"Ma lui sembra una persona così gentile e ben disposta! Ho
sentito molte voci in questi giorni a scuola ed erano tutte belle voci!"
"Quindi che idea ti sei fatta?" Mi domandò, voltandosi dalla
mia parte.
Quella domanda mi spiazzò: ero ben conscia di non potere
giudicare una persona solo dalle voci che circolavano, ma tutte le
volte che Fabian mi aveva incrociato nel corridoio si era fermato a
salutarmi e a farmi domande sulla mia integrazione a scuola.
"Credo... sia una persona buona e gentile." Esitai a rispondere.
Eravamo ormai arrivati alla fermata e Brendon si fermò per
girarsi dritto davanti a me. Mi guardò dall'alto, facendomi
sentire piccola piccola.
"Se lo conoscessi meglio ti accorgeresti, allora, che lui non
è affatto né buono né gentile."
Aprii la bocca per dire qualcosa, ma Brendon mi precedette.
"Tuttavia penso che dovresti frequentarlo, sai? Tu e lui siete... come
posso dire... simili? Sì, credo che potreste capirvi a
vicenda." E sottolineò la frase in un modo così
derisorio e ambiguo da farmi infuriare. Alzai un pugno con l'intenzione
di colpirlo per scherzo sulla spalla, quando in lontananza vidi il mio
autobus avvicinarsi e farmi desistere dal mio obbiettivo.
"Beh, è stato un piacere lavorare per te! Ti saluto!"
Afferrai saldamente una spallina del mio zaino per correre verso la
fermata, prima però venni fermata da Brendon che mi
sventolò davanti al naso una busta bianca.
"Dimentichi questa. E comunque non ho mai detto che avresti lavorato
gratis." Sfoggiò il suo arguto sorriso prima di incitarmi a
sbrigarmi. "Ora vai, a domani." Mi salutò e io ricambiai
correndo verso il bus già fermo in attesa.
Seduta
sul sedile aprii la busta bianca rivelando il contenuto che si
mostrò esattamente ciò che pensavo: la paga della
giornata. Se non altro era stata fruttifera, però avrei
dovuto nascondere quei soldi nel mio portafogli se non volevo dare
delle noiose spiegazioni a mia zia.
L'autobus sfrecciò verso il centro cittadino addentrandosi
nel caos e nelle rotonde, dai finestrini potevo vedere le insegne
accese dei ristoranti, dei pub e dei locali notturni. Quando il display
illuminò la mia fermata premetti il tasto per prenotarla e
scesi facendomi largo fra la gente che voleva salire. La mia zona era
totalmente diversa da quella dove abitava Brendon, più
frenetica e molto più frequentata. Alle mie orecchie
arrivavano persino accenti stranieri.
Vento freddo mi fece rabbrividire, portandomi ad alzare il colletto
della felpa e a calare il cappuccio sulla mia testa. A passo svelto mi
trascinai fuori dalla folla e tentai di ricordare la vià
più breve per arrivare a casa, tuttavia qualcuno mi
strattonò portandomi a imprecare mentalmente.
"Selena?"
Riconobbi la voce di Fabian, quando mi girai, difatti, lo trovai dritto
davanti a me che mi guardava sorpreso esattamente come lo ero io. Oltre
alla giacca teneva legata al collo anche una sciarpa di colore grigio
chiaro.
"Oh, scusa!" Si scusò per primo. "Non ero sicuro fossi
davvero tu."
"Ciao Fabian!" Lo salutai incredula di trovarmelo lì
davanti. "Stai tornando a casa?" Mi venne da chiedergli.
"Come mai sei in giro da sola?" Mi domandò dubbioso
ricevendo un mio sguardo interrogativo. "Scusami, non mi volevo
impicciare." Rise imbarazzato, facendo sì che venisse da
ridere anche a me.
"Sono andata ad esplorare la città!" Allargai le braccia,
ricordandogli che ero nuova di quelle parti.
"Ah, e come l'hai trovata?" Chiese con voce educata e interessata.
Mugolai pensierosa in risposta, non sapevo che cosa dire dato che non
avevo visto poi nulla di significativo e di questo Fabian se ne accorse.
"Avrai modo di poterla esplorare ancora meglio." Convenne al posto mio.
"Stai andando verso casa? Vuoi essere accompagnata?"
Mi sopresi da quanto poteva essere ben disposto e galante nei miei
confronti sebbene non ci conoscessimo per niente. Tuttavia scrollai la
testa con decisione, non volevo dare disturbo se non era necessario.
"Non serve, abito vicino!" Lo rassicurai e ci salutammo consci che ci
saremmo rivisti il giorno dopo a scuola.
Prendemmo strade completamente opposte, tuttavia dopo qualche passo
indugiai sulla sua figura che si allontanava e si disperdeva fra la
calca di gente che camminava per le vie del centro cittadino. Mi
tornarono in mente le parole di Brendon, che l'aveva additato come non
gentile e non buono come appariva. Chissà cosa voleva dire e
soprattutto come poteva dirlo?
In più, la città era davvero grande: il fatto che
ci fossimo incontrati casualmente era davvero strano, che abitasse
anche lui da queste parti?
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Capitolo 8 *** Giorno 3 (Prima parte) ***
Il
lunedì mattina iniziò in modo del tutto normale,
esattamente come dovrebbe essere l'inizio di una nuova settimana
scolastica; le verifiche e le interrogazioni erano sempre dietro
l'angolo, fortunatamente i professori si erano dimostrati benevoli nei
miei confronti grazie anche all'intervento di Eris che aveva
interceduto per me.
Oltre a lei non avevo ancora creato legami con nessuno all'interno
della mia nuova classe: certo molte ragazze si erano dimostrate
incuriosite nei miei confronti, all'inizio, facendomi domande anche a
livello personale, ma la cosa era nata e morta lì.
Ovviamente erano tutte molto cordiali verso di me, tuttavia non si
poteva dire che avessero poi fatto chissà quali passi nella
mia direzione.
D'altro canto non potevo nemmeno biasimarle, poiché io
stessa avevo spesso evitato la loro compagnia.
Di tutto questo vorrei anche aggiungere che entrare a fare parte di un
gruppo, quando questi si è già consolidato,
è estremamente difficile: le mie difficoltà ne
erano la prova.
Appoggiai il palmo della mano al mento, per poi voltarmi pensierosa
alla mia sinistra, troppo distratta alla lezione.
Il banco di Brendon era vuoto, nonostante la sera prima c'eravamo
salutati con la consapevolezza che ci saremmo rivisti il giorno
seguente.
Fu naturale chiedermi se la sua assenza era dovuta all'imminente arrivo
dei suoi genitori. Sicuramente era stato così: aveva
preferito restare in loro compagnia piuttosto che venire a sorbirsi
quella noiosa ora di scienze naturali. Chissà se i suoi
genitori erano a conoscenza delle numerose assenze che collezionava a
scuola? Brendon era stato vago sull'argomento, definendoli solo come
molto severi.
Provai ad immaginarmeli: sicuramente erano due bei signori di quasi
mezza età, dotati di classe e di eleganza che si esibivano
in tour in giro per il mondo. Magari il papà da giovane
aveva avuto gli stessi capelli color cenere del figlio, mentre la madre
era dotata di grandi occhi grigi.
Sbuffai; la sera precedente, una volta tornata a casa, ero
così stanca che ero finita per andare a letto quasi senza
cenare; nemmeno mi aveva sfiorato l'idea di poter fare una ricerca su
internet a riguardo.
Decisi che dare un volto ai genitori di Brendon sarebbe stato il primo
dente da togliermi appena tornata a casa, come faceva di cognome pure?
Sospirai, nemmeno li ricordavo tutti i cognomi dei miei nuovi compagni
di classe.
Presi in mano la matita e iniziai a scribacchiare colta dalla noia,
chiedendomi come sarebbe stata quell'ora se al mio fianco ci fosse
stato Brendon. Sicuramente più divertente: lo immaginai
sbadigliare annoiato, dondolandosi appena sulla sedia, almeno fino a
che il professore, girando fra i banchi, non gli avrebbe intimato di
prestare attenzione alla lezione.
Allargai le labbra in un sorriso nascosto. Se lo si conosceva meglio
Brendon risultava essere persino divertente, oltre che sfacciato.
Ripensai poi alle parole che aveva rivolto a Fabian; qualcosa del tipo
che la sua gentilezza era fasulla. Come poteva essere?
Nemmeno mi resi conto della fine della lezione fino a quando non vidi
la mano di Eris appoggiarsi sul mio banco; alzando gli occhi la notai
fissarmi fino a quando non le chiesi di cosa aveva bisogno.
"Sai, ho pensato che non ti sei ancora iscritta a nessun club
scolastico."
Inclinai appena il viso: anche in questo liceo erano fissati con le
attività extra-scolastiche?
"Dovresti farlo." Mi consigliò con un sorriso. "Ti
aiuterebbe a integrarti."
La guardai in malo modo, sperando che capisse che non c'era bisogno di
girare il coltello nella piaga, soprattutto quando non era affatto
necessario. Tuttavia Eris non era famosa per capire le cose subito e al
volo.
"Abbiamo tanti club fra cui scegliere: da quelli sportivi a quelli
ricreativi. Nella tua vecchia scuola quale frequentavi? Possiamo
iniziare da quello." Scossi il capo.
"Non ne frequentavo neanche uno." Risposi schietta: era la
verità, avevo altre gatte da pelare per dedicarmi a delle
attività supplementari.
Eris corrucciò le labbra, delusa dalla mia risposta.
"Allora hai qualche preferenza in particolare?"
"Nessuna." Le risposi disinteressata, poggiando una guancia contro il
palmo della mano destra.
"Io faccio parte del club di pittura e disegno! Vuoi provare a vederlo?
Non siamo in tanti e siamo sempre alla ricerca di nuovi membri." Si
puntellò il petto con un pollice e io capii che, o le davo
corda, o lei non si sarebbe arresa tanto facilmente.
In più il suo tentativo di reclutare nuovi membri, se di
questo si trattava, era stato davvero scadente.
"Va bene, Eris. Entrerò a far parte di un club, ma solo a
patto che tu me li mostri uno a uno. Dopotutto sei la mia
rappresentante." Le risposi con un ghigno divertito sul volto; nel
tentativo di formulare una risposta coerente la vidi persino sbiancare.
"V-va bene. A-allora che ne dici se ci troviamo in mensa dopo la pausa
pranzo? Oggi non ci sono lezioni di pomeriggio e sicuramente troveremo
la maggior parte dei club aperti."
Le annuii decisa mentre lei continuava a tormentarsi le sue ciocche
rossiccie di capelli, inspiegabilmente le sue guance erano diventate
persino più rosse. Provai quasi imbarazzo per averla messa a
disagio.
"Allora siamo d'accordo! Dopo pranzo in mensa, ok?" E
sfrecciò via lasciandomi finalmente sola con i miei pensieri.
A cosa stavo pensando prima che arrivasse lei? Ah, sì.
Brendon e Fabian.
Che strano ritrovarsi a pensare a due ragazzi contemporaneamente.
Eris
era stata puntuale e di parola, facendosi trovare esattamente in mensa
una volta terminata l'ora di pranzo; mi guidava per i corridoi
parlottando del più e del meno.
"Per primo vorrei mostrarti il mio club; siamo in pochissime, per lo
più ragazze, per questo spero che ti vorrai unire a noi." Si
fermò davanti ad una porta e la spalancò,
rivelando un aula piena di banchi vuoti, moltissimi fogli colorati
attaccati alle pareti e alcune tele da disegno imbrattate di pittura.
Solo un banco era occupato a sedere da una ragazza curva su un foglio
da disegno, intenta a tracciare linee tenendo una matita in mano.
Eris la salutò per poi chiederle dove fosse la loro
presidentessa e quella ragazza non staccò gli occhi dal suo
disegno nemmeno per un attimo, rispondendo solo che non era ancora
arrivata.
"La vado a cercare." Rispose Eris con un sorriso. "Tu perché
non dai un'occhiata ai nostri disegni e alle nostre tele?" E detto
questo la rappresentante corse via sparendo dietro l'angolo in
direzione delle scale, probabilmente sapendo già dove andare.
Avanzai all'interno dell'aula, diretta verso la ragazza intenta a
disegnare: non aveva staccato l'attenzione al suo disegno nemmeno per
un secondo. La osservai in silenzio: era minuta e magra, con una
cascata di capelli neri e lisci che le ricadevano sul viso e la
frangetta che le nascondeva gli occhi impegnati a tratteggiare
chissà cosa.
"Ciao!" La salutai quasi a disagio. "Io sono Selena, forse
sarò un nuovo membro del club." Molto forse, avrei voluto
dire.
Finalmente mi diede qualche attenzione, sollevando il viso e rivelando
due occhi piccoli color pece e due labbra minute e rosse sulla pelle
bianca.
"Lo so chi sei. Siamo in classe assieme." Mi rispose e io gelai
all'istante. Che cosa aveva appena detto? Stentavo a crederci, che
figura di merda avevo appena fatto?
"Non devi preoccuparti se non ti ricordi di me." Continuò
lei, leggendomi nel pensiero. "In classe io sono invisibile, nessuno mi
presta attenzione." Abbandonò la matita al lato del foglio
per poi alzarsi in piedi. "Mi chiamo Letty, piacere."
"Piacere, cosa stai disegnando?" Le domandai ancora spaesata dalla sua
risposta e al tempo stesso incuriosita, allungando l'occhio verso il
foglio su cui stava lavorando.
Letty sollevò il foglio fino a porgermelo in mano.
"Nulla di che, è un bozzetto."
Osservai il disegno: se quello si chiamava bozzetto chissà
allora che nome dovevano avere i miei scarabocchi; Letty aveva
disegnato una fata inginocchiata, con ampie ali a farfalla e una veste
adornata di pieghe e ghirigori, le proporzioni erano
pressoché perfette e le linee del disegno andavano dalle
più morbide alle più dure, segno della immensa
cura che ci aveva messo.
"Sei davvero brava: è bellissimo."
Letty incurvò le spalle, forse a disagio dalle mie parole.
"Mai quanto la presidentessa." Asserì. "Guarda tutti i
disegni attaccati alle pareti: sono opera sua."
Avevo già notato come i muri fossero tappezzati da quadri e
disegni, ma non riuscì a guardarli attentamente a causa di
Eris che era ritornata indietro.
"Niente, dobbiamo proseguire il nostro giro."
Annuii e la affiancai, dopo aver salutato Letty che, silenziosamente,
era ritornata a dedicarsi al suo disegno.
Poiché i club sportivi non mi interessavano e io non ero poi
una gran sportiva mi rifiutai categoricamente di vederli, Eris mi
condusse allora ai laboratori di cucito, descrivendoli come uno dei
laboratori più interessanti. E quando le chiesi il
perché mi rispose solo che avrei visto con i miei occhi.
Quando Eris spalancò la porta dell'aula adibita al club di
cucito mi trovai davanti a un surreale camerino in subbuglio, con
manichini in polisterolo mezzi vestiti e abiti sparpagliati a terra.
Avrei voluto chiedere ad Eris se la cosa fosse normale, ma il suo
sorriso raggiante mi fece capire che sarebbe stata una domanda fuori
luogo.
"Lya! Alex! Vi ho portato un nuovo membro!"
Con chi stava parlando proprio non me ne rendevo conto.
"Seriamente Alex..." Tuonò una voce femminile da un punto
indefinito della stanza. "Che senso della moda hai? Quando mai hai
visto una ragazza vestirsi con un vestito color arcobaleno?"
"Sei tu che non riesci a comprendere la perfetta combinazione dei sette
colori. Perché doversi scervellare nel trovare la perfetta
armonia dei colori quando li puoi indossare tutti quanti?"
"Perché non tutti indosserebbero sciarpe e cappelli color
arcobaleno come te, men che meno delle ragazze."
"Siete troppo complicate, guardate solo il fattore estetico
dimenticandovi che i colori sono pura poesia... Oh, Eris! Qual buon
vento ti porta qua?"
Eris avanzò a passo sicuro conducendomi dietro a uno
scaffale dove si trovavano i proprietari di quelle due voci: un ragazzo
e una ragazza dallo strano dubbio estetico. Lei era alta e slanciata,
dalla bellezza invidiabile come una modella. I biondi capelli le
arrivano fino al fondoschiena dove la minigonna a pieghe dava sfoggio a
un paio di gambe toniche e altamente invidiabili. Dalle ginocchia in
giù indossava dei stivali neri che terminavano con un tacco
parecchio alto. Mi chiesi se era possibile vestirsi così in
un edificio pubblico, ma quella ragazza aveva tutte le carte in regola
per dare sfoggio al suo fisico mozzafiato. Sul torace indossava una
camicia bianca dall'aspetto decisamente vintage e piena di fronzoli,
una spilla color smeraldo adornava il petto.
"Eris, fallo ragionare. Sono minuti che provo a convincerlo che a
nessuno dei membri del nostro club verrebbe voglia di lavorare su delle
stoffe color... arcobaleno."
Il ragazzo, Alex, agguantò Eris per le spalle.
"Eris pensa con il tuo cervello e non con il tuo gusto estetico da
ragazza."
"Mmm, beh..." Tentennò lei e Alex capì che era
meglio lasciar perdere.
"Aaaah, va bene, va bene! Torniamo a lavorare su quelle orrende stoffe
color oro e rosso, manco fossimo a natale."
Alex era decisamente più stravagante: i capelli neri,
decisamente troppo lucenti, erano tenuti raccolti da un codino dove
solo due ciuffi laterali scappavano ricadendogli ai lati sulle tempie;
indossava un cappellino pieno di spille rotonde fissate sulla stoffa e
un foulard al collo dallo strano colore lilla tendente al grigio.
Pantaloni color verde militare erano agghindati da un giubbino di pelle
legato in vita; la polo azzurra che indossava aveva la stampa di un
gatto color arcobaleno con la montatura di occhiali da sole indosso
-ero sicura di averlo già visto su internet-; mentre ai
piedi anfibi color nero pece sovrastavano i pantaloni.
Nonostante l'abbigliamento aveva un viso davvero bello con un accenno
di barba e la pelle leggermente abbronzata.
"Oh, ma sei un viso nuovo!" Esclamò quando si accorse di me.
"Beh, sì." Tentennai per poi essere preceduta da Eris.
"Selena si è trasferita qui da una settimana; ho pensato che
farla aderire a uno dei nostri club scolastici l'avrebbe aiutata ad
integrarsi."
"E tu l'hai portata qui solo adesso?" Alex fece un balzo in avanti
nella mia direzione. "Deve essere dura ambientarsi in una
città nuova."
"No, neanche tanto. Io..."
"Non va affatto bene! Anche io mi sono trasferito qui un paio di anni
fa, so come ci si sente."
"Dicevo che..."
"All'inizio ti calcolano tutti, per poi non calcolarti più
nessuno."
"Ma no, Eris è stata..."
"E poi c'è questa città nuova che è
tutta da scoprire! Ci sono i centri commerciali, i negozi del centro,
le boutique delle vie storiche e una quantità infinita di
cose che da sola non scopriresti mai.
"Beh, in effetti..."
"Ho deciso, allora! Devo portarti in giro! Bisogna sapere quali sono i
migliori negozi dove comprare i propri vestiti e i migliori locali dove
passare i propri sabati sera."
"Ah.."
Come ci eravamo finiti in questa assurda situazione? Dietro di lui, Lya
sembrava che stesse per perdere la pazienza.
"Falla finita, Alex! Così dai solo l'impressione di essere
invadente." Lo ammonì tirandogli una pacca sulla schiena.
"Ah, sei sempre così rude, ma petite!"
Lya ed Eris tirarono un sospiro di sollievo, ma non sembrò
che Alex volesse demordere così in fretta.
"Comunque non scherzavo, Lya venerdì pomeriggio non dobbiamo
passare al negozio del tuo ragazzo? Lei potrebbe venire con noi e
intanto le mostriamo un po' la città."
Lya intrecciò le braccia al petto pensierosa.
"Dobbiamo andare a scegliere delle stoffe, potrebbe annoiarsi..."
"No, vengo!" Mi intromisi seria.
Effettivamente potevo anche annoiarmi, ma non potevo rifiutare un
invito che mi avrebbe permesso di conoscere meglio i dintorni di questa
nuova città. Avevo già preso a fare delle
esplorazioni per conto mio, ma da sola non era per niente divertente;
forse in compagnia di qualcuno mi sarei divertita di più e
poi era un ottimo modo per fare nuove conoscenze.
Alex sembrò brillare di gioia per la mia risposta
affermativa.
"Perfetto! Allora venerdì ci incontriamo qui dopo le lezioni
che ne dite? Vieni anche tu, Eris?"
Eris sventolò le mani in aria davanti al viso, ridendo
appena.
"Oh, no, no, passo!"
Alex mi prese le mani tutto contento.
"Allora venerdì pomeriggio, ok?" E io annuii trasportata
dalla sua esuberanza.
Alla fine, quando lasciammo il club, non si parlò nemmeno di
un mio eventuale inserimento; Eris si cacciò a ridere
rivelandomi che Alex si era persino contenuto e che, se avessi stretto
amicizia con lui, mi sarei solo divertita alla grande. Mi
rivelò inoltre che il laboratorio di cucito si occupava dei
costumi per i saggi di fine anno del liceo, per la maggior parte degli
eventi realizzato dallo stesso e che, sia Lya, che Alex erano figli di
due impiegati che lavoravano in una delle maggiori agenzie di moda
della città. E questo spiegava già molte cose.
"Ti piacerebbe far parte del loro club, allora?"
Ridacchiai pensando a come poteva essere passare un pomeriggio in loro
compagnia.
"Non lo so, Eris. Non ho ancora deciso se e in quale voglio farne
parte, ma grazie per avermi dedicato la giornata."
Eris mi sorrise tutta contenta.
"Non c'è di che..." La sua risposta venne interrotta da
Letty che ci stava venendo incontro; non me ne ero accorta, ma eravamo
ritornate verso l'aula del club di disegno e pittura.
"Eccoti! C'è Syria che ti sta aspettando." E
indicò il loro club.
Eris smorzò appena il viso, affrettandosi a raggiungere la
loro aula a passo svelto, salutandomi in fretta e chiudendo la porta
del club alle sue spalle, isolandolo dal corridoio.
Era strano per Eris, abituata sempre a prendersela con calma,
affaccendarsi in quel modo.
Di fianco a me, Letty sistemava le sue cose nel suo zaino pronta per
andare verso casa.
"Ma come..?" Mi venne spontaneo chiederle. "Tu non vai dentro con loro?"
Dopotutto anche Letty ne faceva parte.
Lei non rispose subito, finì di sistemare con calma le sue
cose e poi indossò il suo zaino sulla schiena.
"Syria ed Eris stanno lavorando per una mostra..." la vidi corrucciare
le labbra e stringere gli occhi in direzione della porta chiusa. "E
quello che stanno facendo è un segreto." Si
incamminò verso la fine del corridoio, dove in lontananza si
potevano vedere le grandi porte a specchio che davano sul cortile
esterno. Io la seguii, indugiai soltanto un attimo davanti alla porta
chiusa del club di disegno e di pittura.
Chissà a che cosa stavano lavorando quelle due.
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Capitolo 9 *** Giorno 3 (Seconda Parte Extra: Eris) ***
Eris
chiuse la porta alle sue spalle tirando un leggero sospiro di sollievo.
Amava
il club di pittura e di disegno, ma lo amava ancora di più
quando poteva serrarne la porta e far dividere quell'aula dal resto
della scuola.
O
del mondo...
Avvertì
una risata cristallina dietro di lei.
"Sei
in ritardo oggi? Cosa ti è successo? Qualcosa di bello?"
Eris
rise a sua volta in direzione di Syria.
"Penso
di essermi fatta una nuova amica, tutto qui." Le rispose rilassando le
spalle.
Era
bella, Syria, più bella di qualsiasi altra ragazza che
avesse mai incontrato all'interno dell'istituto. Calma come acqua
quieta e gentile verso tutti; nonostante non avesse molti amici a
scuola nessuno aveva mai osato parlare male di lei.
I
lunghi capelli ondulati, color cioccolato, le ricadevano sulla schiena
come una cascata e le mani, abili come solo le sue sapevano esserlo, si
muovevano sulla tela stendendo lunghe pennellate di colore. La
frangetta le copriva appena gli occhi, senza darle troppo fastidio, un
piccolo neo faceva capolino sotto l'occhio destro, spiccando sulla
pelle rosea.
Eris,
ogni volta, si ritrovava ad osservarla trattenendo il fiato: c'era
troppa eleganza nei suoi movimenti, persino il semplice spostarsi dei
capelli da davanti a dietro erano in grado di ammaliarla.
"Dai,
non perdiamo tempo." Le sussurrò Syria accortasi della sua
immobilità, la voce morbida e vellutata di sempre.
Eris
si avvicinò al centro stanza, dove due banchi erano stati
uniti insieme e una sedia era stata posta poco lontano da essi.
Ripiegato,
sopra i due banchi uniti, vi era un lenzuolo bianco immacolato pronto
all'uso.
Eris
si sbottonò i primi bottoni della sua camicetta mentre Syria
si era alzata per appurare che la porta fosse effettivamente chiusa a
chiave. Chissà a cosa avrebbero pensato i professori se
avessero scoperto cosa combinavano in quella stanza, loro due da sole e
rinchiuse.
Lentamente
la camicetta scivolò via dalle braccia e venne fatta
sollevare sopra i jeans che furono sbottonati; le scarpe furono tolte,
i calzini pure assieme a tutto il resto, fino a restare solo con
l'intimo addosso.
Eris
ricordava benissimo l'imbarazzo che aveva provato la prima volta.
"Anche
le mutandine?" Aveva chiesto, timida e imbarazzata.
"Anche le mutandine."
Reggiseno
e slip furono rimossi.
Ora
non c'era più traccia di quell'imbarazzo iniziale; anzi,
ogni volta, c'era una sorta di eccitazione accompagnata da una lieve
euforia: erano lei e Syria, completamente da sole, senza alcun disturbo
esterno.
Syria
era molto professionale quando dipingeva: sedeva sullo sgabello con la
schiena dritta, in una mano reggeva la tavolozza con i colori mischiati
e nell'altra il pennello più adatto per disegnare; un
tavolino lì accanto le permetteva di adagiare tutti gli
strumenti che le servivano.
Eris
amava vederla seria e assorta nei suoi pensieri, alla ricerca della
migliore sfumatura o del colore più simile a quello reale;
continuando ad osservarla prese il lenzuolo e lo usò per
coprirsi la parte bassa del proprio corpo mentre saliva sui due banchi
e assumeva una posizione semi-sdraiata.
Drappeggiò
il lenzuolo attorno al proprio corpo, facendo sì che
coprisse solo i punti strategici del proprio corpo, esattamente come
Syria le aveva chiesto di fare la prima volta.
"Il
mento." La corresse. "Lo stai tenendo troppo inclinato; ecco,
così, ora va meglio. Rilassa le spalle, oggi sarà
veloce."
Syria
era figlia di una pittrice hobbystica che, tuttavia, non aveva nulla da
invidiare a un pittore di professione. La passione della madre era
stata trasmessa alla figlia e Eris ricordava ancora quanto era rimasta
affascinata dalla sua bravura il giorno in cui decise di entrare a far
parte del club di disegno e di pittura, da sempre anche una sua
passione.
Eris
non era mai andata d'accordo con le sue coetanee dai caratteri troppo
esuberanti e vivaci, ma con Syria la problematica non si era mai
presentata fin dall'inizio: Syria aveva modi gentili e pacati per
rapportarsi con i suoi compagni e, quando le aveva chiesto di aiutarla
per una mostra a cui aveva intenzione di partecipare, con quel sorriso
irresistibile sulle labbra in grado di scioglierla, Eris non ci aveva
pensato due volte: aveva accettato seppure ciò significava
mettersi a nudo di fronte a un'altra persona.
Poi
era successo: si erano scambiate un bacio sulle labbra, complice un
momento di fin troppa intimità, e dopo quello ne erano
seguiti altri.
"Teniamolo
segreto, ok?"
Le
aveva detto Syria, accarezzandole i capelli, ed Eris aveva annuito. Da
allora il rapporto fra le due si era evoluto, ma veniva tenuto
custodito all'interno di quelle quattro mura, finché quel
sentimento non era diventato talmente forte da diventare opprimente.
"Penso
di aver trovato la sfumatura giusta per i tuoi capelli, sai?"
Scherzò Eris, tratteggiando le onde dei suoi capelli sulla
tela a cui stava lavorando. "Mi hanno fatto penare, sai?"
"Mmm,
questo colore di capelli è orribile." Sussurrò
Eris toccando una delle sue ciocche ribelli. "Scusa."
"Orribile?
Stai scherzando, vero?" Syria mischiò ulteriore colore, per
crearne di nuovi, sulla tavolozza. "Io trovo che siano unico e adatto a
te."
Eris
arrossì appena, distogliendo lo sguardo, tentando di
nascondere l'imbarazzo e il rossore sulle guance.
"Non
tenere gli occhi bassi." La rimproverò gentilmente Syria e
subito Eris si ricompose. "Oggi sei assente." Commentò poi
poggiando il pennello sulla tavolozza e sfregando le mani contro il
grembiule legato in vita, ormai chiazzato e sporco.
"Ma
no." Rispose Eris sedendosi composta. "Stavo solo pensando..."
Syria
si alzò dal suo sgabello e le si avvicinò,
poggiando le mani sui due banchi uniti esattamente a lato dei suoi
fianchi.
"Cosa?"
Sollecitò.
"Ti
andrebbe bene se qualcun'altro si unisse a noi?" Trovò
l'ardore di dire.
Syria
si sollevò, inarcando le sopracciglia verso l'alto.
"Questo
è un club scolastico, chiunque è il benvenuto
qui." Le rispose con semplicità; Eris spostò gli
occhi di lato pensierosa.
"Dai,
dimmi cosa c'è che non va." Syria sollevò una
mano, spostandole una ciocca di capelli dietro l'orecchio, che,
tuttavia, non servì a tranquillizzare la ragazza. "Stai
tranquilla." Le mormorò, chinandosi su quel lobo. "Nessuno
scoprirà di noi."
Eris
si sentì attraversare da un fremito.
"Ho
chiesto a una mia amica se volesse unirsi a noi." Si confidò
infine.
Syria
prese posto a sedere accanto a lei, sollevando il sedere e lasciando
che le gambe ciondolassero avanti e indietro; Eris ne
approfittò per poggiare il capo contro la sua spalla.
"Era
per lei che prima sei entrata tutta sorridente?" Sirya
l'abbracciò da dietro, avvolgendole la schiena e un fianco,
tirandola verso sé, Eris chiuse gli occhi godendosi quelle
coccole.
"Mh,
sì, è una nuova, arrivata la scorsa settimana. Le
ho proposto di entrare nel nostro club, ma ora, pensandoci, forse ho
fatto male."
Syria
si staccò appena, guardandola dubbiosa, Eris si
mordicchiò il labbro inferiore alla ricerca delle parole
adatte per risponderle.
"In
fondo, solo in questo club, io e te possiamo essere... solo io e te..."
Eris non riuscì a terminare la frase: Syria l'aveva zittita
poggiando il dito indice sulle sue labbra.
"Non
pensarci nemmeno. C'è anche Letty eppure continuiamo lo
stesso a restare da sole, no?" Le baciò la fronte,
spostandole appena la frangetta.
"Letty,
lei sa..." Mormorò Eris, una punta di panico nella voce.
"Sono certa che lei sappia di noi. E se decidesse di parlare, se
andasse a spifferare qualcosa a qualcuno..." Si sentì
premere sulla bocca da qualcosa di morbido e fresco, a tratti
appiccicoso forse a causa di un velo di lucidalabbra; Eris non si
lasciò scappare l'occasione di dischiudere le labbra,
lasciando che le loro lingue si sfiorassero in un continuo mordi e
fuggi.
Quando
si staccarono si ritrovò talmente senza fiato da non
riuscire a completare ciò che stava dicendo qualche istante
prima.
Syria
le accarezzò il capo, scompigliandole affettuosamente i
capelli rossicci, nel tentativo di rassicurarla.
"Non
accadrà. Letty non è quel tipo di persona. E
anche se dovesse accadere... non cambierà ciò che
c'è fra me e te, giusto?" Asserì con espressione
seria, guardandola dritta negli occhi e trasmettendole ogni tipo di
sicurezza. Il cuore di Eris si inondò di
felicità, fino a spingerla a trovare rifugio tra le sue
braccia.
"Scusami,
sono sempre così insicura." Mormorò, soffocando
le parole contro il suo petto, la fronte poggiata lì dove
pulsava il cuore.
"Non
farti più venire in mente brutte idee." Syria le strinse
appena le spalle e la staccò da sé. "Ok,
è ora di tornare a lavoro, che ne dici?" Rise divertita,
stringendole appena il mento fra le dita e sorridendole dolcemente.
Eris
sollevò le braccia in alto, appoggiandole sopra la sua nuca
e premendola verso sé, facendo sì che le loro
labbra si congiungessero di nuovo.
Si
scambiarono ulteriori baci: lenti o veloci, fugaci o più
approfonditi, finché entrambe desiderarono staccarsi per poi
guardarsi negli occhi.
"Non
voglio affatto che tu torni a sederti su quello sgabello."
Mormorò Eris contro le labbra di Syria, prendendole una mano
e intrecciando le dita fra le sue in una presa talmente forte che non
ammetteva di essere lasciata. "Abbiamo sempre così poco
tempo a disposizione e solo qui possiamo stare insieme. Ti prego, non
consumiamolo."
Syria
sgranò appena gli occhi per poi inclinare i lati della bocca
verso l'alto.
"Lo
sai che è proprio questo il motivo per cui non riusciamo a
portare a termine quel dipinto?" Commentò maliziosa, per poi
farla stendere sotto di sé. "Ma va bene uguale." Si
sfilò il grembiule dalla vita, lasciandolo scivolare a
terra, per poi chinarsi sul collo candido e iniziare a succhiarne la
pelle, Eris si portò il palmo della mano alla bocca per
tapparsela.
Era
da sempre così: da quando avevano scoperto che oltre ad
attrazione fisica c'era molto di più; quello era l'unico
momento in cui riuscivano ad esternare i loro sentimenti, senza doversi
nascondere dietro ad una facciata di pura finzione, quando la scuola
era quasi deserta, i pochi professori rimasti erano rinchiusi in sala
professori e gli studenti, che si dedicavano alle attività
extra-scolastiche, segregati nei loro club.
Nessuno
le aveva mai scoperte finora, seppure erano consapevoli che non
avrebbero potuto continuare a lungo a nascondersi o a usare quell'aula.
Eppure
quel club era davvero il loro piccolo rifugio nascosto e segretamente
pregavano che sarebbe rimasto tale ancora per tanto tempo, almeno fino
a che non avrebbero trovato un'altra soluzione per restare insieme da
sole.
Eris
scalciò appena con le gambe quando Syria tracciò
il solco di pelle che dal seno scendeva fino all'ombelico; poi si
sollevò di poco per portarsi la mano ai bottoni della
cintura dei jeans e slacciarli; li fece scivolare giù fino
alle cosce.
I
loro bacini si scontrarono più e più volte e le
bocche si suggellarono reciproche, le dita affondarono nei capelli
percorrendone la lunghezza.
Eris
trascinò giù con sé Syria fino a
tenerla stretta contro il torace.
"Sei
l'unica persona che mi fa davvero stare bene qui." Le
sussurrò baciandole il capo; Syria lo sollevò
appena sorridendole.
"Non
vorrei mai più vederti soffrire a causa di un amore non
corrisposto." Mugolò sistemandosi contro la sua spalla.
"Fabian,
eh?" Rimembrò Eris. "Non penso più a lui da
quando ho conosciuto te."
Già,
perché era stato quello il motivo per cui Eris era scoppiata
a piangere quel giorno
e Syria si era ritrovata a consolarla, generando poi ciò che
sarebbe successo in seguito.
Non
si dissero più niente in quanto nulla era necessario:
bastavano soltanto le carezze reciproche e gli sguardi.
Almeno
fino a che Syria non fece forza sulle mani e si sollevò,
prendendole entrambi i polsi e trascinando con sé Eris.
Il
lenzuolo, usato per coprirle le parti del corpo, era scivolato sul
pavimento.
"Dai,
rivestiamoci." Suggerì ricomponendosi i vestiti. "L'orario
di chiusura si avvicina."
Eris
annuì, allungando una mano verso la sedia dove aveva riposto
i propri vestiti; anche per quella giornata il loro tempo a
disposizione era terminato e, ogni volta, si sentiva preda
dell'angoscia: ritornate in corridoio lei e Syria avrebbero riassunto i
loro comportamenti normali, atteggiandosi semplicemente a due amiche
che condividevano la stessa passione.
Ma
non era proprio possibile continuare così e loro due lo
sapevano bene, ogni giorno che passava sarebbe stato sempre peggio.
Curiosamente
Letty prendeva il mio stesso autobus per tornare a casa.
L'avevo seguita a debita distanza, fingendo semplicemente che entrambe
andassimo nella stessa direzione; il che, in parte, era anche vero.
Non mi capacitavo ancora di come avevo potuto fare quella figura
davanti a lei: certo, c'erano molte compagne di classe con cui ancora
non avevo avuto modo di discutere e conoscere, ma non ricordarsi di una
di loro era pressoché impossibile.
La osservai curiosa: quando era arrivata alla fermata del bus,
già gremita di studenti e di qualche professore, non aveva
rivolto parola a nessuno e nessuno aveva salutato. Al contrario era
rimasta ferma e immobile, assorta in chissà quali pensieri,
mentre gruppi di amici e ragazzi le scivolavano accanto non
accorgendosi di lei.
Ostentando un comportamento di naturalezza, unito a una mera
coincidenza, la affiancai con la scusa di parlarle di nuovo.
"Pare che prendiamo lo stesso autobus." Scherzai allegra.
"Pare." Rispose lei piano e sottovoce.
Non era esattamente stato un gran metodo di approccio; provai, allora,
un'altra strada.
"Se facessi richiesta per entrare nel tuo club saresti contenta?" Le
domandai direttamente per poi mordermi la lingua da sola.
Che razza di domanda era? Mi diedi della stupida, ma almeno ottenni un
minimo di attenzione.
Finalmente Letty mi rivolse lo sguardo.
"Non avrei nulla in contrario."
"Ah, bene..." Risi nervosa. "Anche se non ho ancora deciso dove
andare." Mi passai la mano fra i capelli a disagio, Letty mi continuava
a guardare senza trasparire alcuna emozione, come aveva sempre fatto
fin dall'inizio.
Alla fine spostai timidamente i miei occhi da lei fino alla punta dei
miei piedi, per qualche minuto calò un silenzio imbarazzante
disturbato dal gran vociare e caos provocato dagli studenti che
smaniavano di tornare a casa.
In lontananza l'autobus che tutti quanti stavano aspettando
svoltò l'incrocio e imboccò il viale della
scuola; gruppi di ragazzi iniziarono a spintonarsi scherzosamente fra
di loro, creando delle file, mentre il mezzo si avvicinava alla
banchina.
"Tuttavia vorrei solo dirti una cosa..."
Mi risvegliai dai miei pensieri.
"Quando trovi la porta del club chiusa... è meglio che non
ci metti il becco."
Letty si dileguò, integrandosi con la fila che si era creata
per salire, lasciandomi con un'espressione ebete condita dai miei occhi
leggermente sgranati; soltanto uno spintone mi fece capire che dovevo
muovermi.
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Capitolo 10 *** Giorno 3 (Terza Parte Extra: Brendon&Fabian) ***
Ricordai
che, quella notte, gli spasmi muscolari si erano susseguiti uno dopo
l'altro. Ne avevo contati almeno tre, tutti nella fase
dell'addormentamento, al terzo consecutivo ci avevo rinunciato; ero
scesa dal letto, infilando le pantofole, per dirigermi verso la
finestra; la cui tapparella era così alzata da lasciar
permettere a parecchia luce lunare di infiltrarsi dentro. Quale era il
loro nome? Non lo ricordavo, per quanto mi sforzassi.
Qualcosa che iniziava con la "m"? Poteva essere.
Mio-qualcosa? Mmm...
Mioclonie!
Sì, vero si chiamavano mioclonie. Una contrazione improvvisa
dei muscoli, un salto proprio. Una sorta di spasmo ipnico che
disturbavano il mio sonno, esattamente come le mie paralisi mi
impedivano di svegliarmi serenamente alla mattina.
Sbuffai, per poi guardare la finestra di fronte alla mia camera:
nonostante la mezzanotte, già abbondantemente passata da un
bel po', la luce era ancora accesa, ma le stesse tende tirate
dell'altro giorno mi impedivano di guardare dentro.
Decisi di tornare sotto le coperte: avevo curiosato anche troppo.
Il corridoio della scuola, quella mattina, era calmo nonostante
l'orario di ricreazione. Forse, visto il sole e la bella giornata che
si era presentata, la maggior parte degli studenti si era riversata in
cortile; forse, semplicemente, quella giornata doveva essere
così.
Sbadigliai: non avevo chiuso occhio.
"Che occhi gonfi! Sicura di aver dormito bene?"
Furono le prime parole che Eris mi rivolse appena entrai in aula. Come
al solito la ringraziai mentalmente per avermi ricordato l'evidenza
delle cose: avevo passato molto tempo davanti allo specchio a
correggere le mie palpebre utilizzando il correttore di mia zia.
"Così non hai ancora deciso in che club entrare, eh?" Mi
domandò Eris, appoggiata con i palmi delle mani ad una delle
tante finestre nel corridoio che davano sul cortile; guardava fuori con
aria allegra, come se quella mattina qualcosa l'avesse fatta alzare dal
letto di buonumore. Beata lei.
"Non ho neanche potuto conoscere la presidentessa del tuo club." Le
ricordai, grattandomi il capo.
"Ah, vero." Esclamò Eris. "Ma ho parlato di te a Syria e non
vede l'ora di conoscerti." Mi sorrise.
Quel giorno, notai, Eris era incredibilmente di buonumore.
"E anche con parecchia fretta."
Udii una voce femminile, dietro di noi, che mi fece voltare all'istante
proprio per scoprire che una bella ragazza castana ci aveva avvicinato.
Il sorriso divertito sulle labbra mi fece indietreggiare
istintivamente. Quella mattina si erano davvero alzati tutti bene a
parte me.
"Syria!" La chiamò Eris; sembrò stupita di
trovarsela davanti.
Dopo lo stupore iniziale mi ricomposi immediatamente: quindi era lei
Syria, non ero riuscita a conoscerla il giorno precedente dentro al
club e ora eccola qua.
Syria scambiò un veloce paio di saluti con Eris prima di
tornare a parlarmi; loro due sembravano andare parecchio d'accordo:
Eris era solita tenere lo sguardo rivolto verso il basso quando
qualcuno le rivolgeva parola, ma con Syria la cosa sembrava essere
parecchio differente.
"Veniamo a noi: ti unirai al nostro club, dunque?" Mi
domandò direttamente, al punto tale da spiazzarmi con la
risposta.
"Non lo so, io..."
Syria fece scivolare un suo braccio attorno alle spalle di Eris.
"Eris mi ha detto che, in compagnia tua, si trova molto bene. E questo,
per me, è sufficiente a fare di te una benvenuta."
Mi sentii lusingata da quelle parole, al punto tale da risponderle
timidamente.
"Ora, se vuoi scusarci..." Syria non finì la frase, ma
afferrò Eris trascinandola con sé; forse disse
anche qualcosa, che io non riuscì a capire e che mi fece
assumere una posa da ebete ferma e fissa nel corridoio.
"Dovranno discutere di qualcosa."
Quel sussurro mi arrivò dritto all'orecchio e, quando mi
voltai, mi trovai Letty accanto a me.
Non mi ero proprio accorta che fosse uscita dalla classe. Anche quella
mattina portava i lunghi capelli scuri sciolti su tutto il busto; la
camicetta e i pantaloni neri contrastavano con il suo pallore.
Proprio come un'ombra, pensai.
"Sicuramente, non vedrai più Eris per tutto il resto della
ricreazione." Disse semplicemente. "Posso restare io con te."
"Ah, mh, sì... Ah!" Allungai lo sguardo verso la fine del
corridoio: era davvero Brendon quello che avevo visto passare, veloce
come un fulmine?
Brendon
era ritornato a scuola dopo che i suoi erano ripartiti, di nuovo, per
qualche tour fuori città.
Era arrivato tardi, come al solito, perciò pareva ben chiaro
da chi doveva passare per primo. Peccato che quel qualcuno, quel
giorno, aveva deciso di non farsi trovare e lui aveva già
girato tutto l'istituto in lungo e in largo, finendo ben presto per
perdere la pazienza.
Poiché si era svegliato tardi, era entrato con ben tre ore
di ritardo e ora gli serviva il modulo per giustificare la cosa.
Peccato che doveva passare da Fabian, per forza di cose, e non aveva la
benché minima idea di dove si trovasse. Era già
passato per la sala del consiglio studentesco, ma, a parte la
vice-rappresentante, non aveva ottenuto alcuna informazione utile su
dove si trovasse.
Poi, voci di corridoio, gli avevano spifferato che forse si trovava
ancora in palestra, dato che la sua classe aveva avuto ginnastica alle
prime tre ore; magari, con un po' di fortuna, lo avrebbe beccato in
tempo.
"Ginnastica, eh?" Schioccò con la lingua.
Lo ricordava ancora come se fosse ieri. Il giorno in cui loro due si
erano parlati per la prima volta.
"Mia! Mia" Passala a me!"
Si trattava dell'anno scorso, quando sia Brendon che Fabian facevano
parte della stessa classe.
Entrambi del primo anno, dovettero ricominciare da capo a formarsi
nuove amicizie; Brendon, in questo, non ebbe particolari problemi, al
contrario di Fabian, più timido e riservato.
Non c'era nulla di cui stupirsi se, durante quella partita di
pallavolo, Brendon era stato scelto come membro fisso di una delle due
squadre, mentre Fabian doveva accontentarsi di sedere a bordo campo e
giocare solo quando la rotazione glielo permetteva.
"Free Ball!" Gridò un ragazzo, salvando la palla dal cadere
a terra.
"Vai, Brendon! L'ultimo tocco è tuo." Urlò un
altro, alzando la palla verso il centro, dove Brendon saltò
con il chiaro intento di fare una schiacciata.
La palla venne colpita e schiantata a terra nel campo avversario con
una facilità sorprendente, costringendo Fabian a doversi
alzare e dirigersi fuori campo, in zona di battuta.
"Ehi! Tiragli una bomba!" Scherzò qualcuno.
Ma il servizio, sebbene venne battuto, andò a schiantarsi
contro la rete, cadendo a terra miserevole, dalla propria parte di
campo.
"Che sfigato!" Gridò lo stesso di prima, costringendo Fabian
a fare una smorfia deluso.
Lui era sempre stato negato per gli sport; da piccolo non ne aveva
praticato neanche uno, preferendo restare curvo sui libri per alzare
sempre di più la media dei propri voti.
Sollevò i suoi occhi color ghiaccio giusto in tempo per
vedere quelli grigi di Brendon ancora fissi su di lui.
"Non pensiamoci. La partita non è ancora finita."
Chissà perché i ragazzi si infervoravano
così tanto quando giocavano a qualcosa; non era nemmeno una
partita ufficiale o un'amichevole: era soltanto una partita qualunque
di una qualunque ora di ginnastica.
Ciò che contava erano i voti. Sì, i voti e
nient'altro.
Più voti alti si ottengono, più è alta
l'approvazione che ti viene rivolta. Quando hai l'approvazione hai
tutto.
"Tua!" Gridò un compagno, spostandosi di lato, lasciando che
la palla gli arrivasse dritta in faccia.
"Ma non ce la fai proprio a prenderla?"
Negli spogliatoi la situazione era più o meno simile: se, da
un lato, Brendon era spesso accerchiato da ragazzi che gli parlavano
amichevolmente, Fabian sedeva su una panchina sulle sue. Poi, spesso,
si erano anche sorpresi a guardarsi l'un l'altro: come se, nel momento
esatto in cui uno dei due fissava l'altro, quest'ultimo capiva
l'intenzione e faceva lo stesso.
Fabian non aveva ancora trovato il perché a quella
situazione, ma di una cosa era certo: Brendon era incredibilmente
attento; aveva uno spirito d'osservazione incredibilmente alto e,
proprio per questo, Fabian sapeva che poteva diventare estremamente
pericoloso.
Tuttavia c'erano volte in cui lo osservava lo stesso, curioso com'era.
Ad esempio, quello era uno di quei momenti: Brendon era distratto a
parlare con i compagni, mentre si tamponava il sudore con un
asciugamano e rispondeva alle loro battute sceme. Da sotto i suoi
capelli biondi e gli occhi color ghiaccio, Fabian poteva notare la
pelle perfetta della schiena, senza una sola imperfezione, senza grossi
nei che rovinassero l'estetica.
Ah,
quindi è così che deve essere...
"Fabian! Fabian!" Sollevò il viso di scatto quando, quello
che era il suo compagno di banco, lo chiamò aumentando il
tono di voce sempre più in alto.
"Eh?"
"Non ti sei ancora cambiato! Guarda che tutti noi abbiamo finito,
ormai."
Fabian si risvegliò immediatamente: tutta l'intera classe
maschile si era ammutolita per un attimo, per poi tornare a perdersi in
chiacchiere. Anche Brendon aveva fatto lo stesso.
"Ogni volta è sempre la stessa storia." Si
lamentò il ragazzo di prima, costringendo Fabian ad
afferrare il deodorante e l'asciugamano dal suo zaino.
Era davvero sempre così: tutti i suoi compagni uscivano,
pronti e cambiati, lasciando lui dentro da solo.
Fabian non si preoccupava mai di essere l'ultimo poiché, dal
muro accanto, si sentiva ancora il vociare delle ragazze, e se
inizialmente qualcuno si era anche proposto di restare con lui per
fargli compagnia, adesso tutti i suoi compagni si erano abituati a
quella sua bizzarria nel voler rimanere da solo e così lo
lasciavano.
Ma quella mattina le cose andarono diversamente dal solito.
Brendon
aveva visto giusto.
La sua ex-classe, quella di Fabian, aveva davvero avuto ginnastica
quella mattina e, difatti, i suoi ex-compagni ora si stavano godendo la
ricreazione concedendosi a qualche sigaretta.
Nonostante fosse stato bocciato, quindi spostato di classe, aveva
mantenuto i suoi buoni rapporti con ognuno di loro. Salutandoli uno ad
uno notò che Fabian non era ancora uscito dallo spogliatoio,
prevedibile come sempre. Qualcuno lo intuì anche e
scherzò con qualche frase del tipo: il principino ci sta
mettendo troppo, così lo avevano soprannominato al primo
anno, a causa dei suoi capelli biondi e degli occhi chiari.
Brendon rispose con un sorriso eloquente, per poi lasciarli e dirigersi
verso gli spogliatoi maschili: se c'era qualcuno che aveva il diritto
di entrarvi, in questo preciso momento, era soltanto lui.
Fabian si lavò come prima cosa il viso:
odiava la sensazione del sudore appiccicato alla pelle, era proprio una
cosa a cui non era abituato.
Sollevò faticosamente le braccia per togliersi la maglietta
madida. Dio, quanto dolore che gli facevano. Adesso era solo;
all'inizio dell'ora gli risultava anche più problematico
doversi cambiare senza farsi scoprire. Per fortuna che nessuno aveva
ancora detto niente sulla sua tattica del 'prendi i vestiti che ti
servono e vatti a cambiare in bagno'.
Sospirò davanti allo specchio, che gli restituiva la sua
immagine riflessa e nitida. Fabian era consapevole di essere bello: sua
madre glielo ripeteva sempre e la bellezza nella società
aveva un certo peso. Il suo viso era bellissimo. Liscio e perfetto
pareva lavorato in porcellana, ma allora perché...
Perché
questi? Che cosa sono? Ripeteva ogni volta che si osservava allo
specchio.
Macchie violacee si estendevano in modo esagerato sulla sua schiena, in
alcuni tratti più scure, in altre parti più
rosse; gialle lì dove stavano per guarire, nere dove erano
più fresche. Quelle macchie erano il suo segreto, che
disperatamente tentava di nascondere a tutti.
Quell'uomo,
evita il mio viso solo per salvare le apparenze...
Era una delle prime verità che aveva scoperto: il suo viso
non veniva mai toccato, e anche le braccia, dal gomito fino alla punta
delle dita erano sempre salve, così come le gambe. Ma la
schiena... quella proprio Fabian non ricordava se e quando l'aveva
vista sana almeno una volta.
Fabian si toccò una di quelle ecchimosi con la punta delle
dita. Era in via di guarigione, quasi, quindi non faceva male; tuttavia
la pelle pareva più calda al tatto. C'erano persino state
volte che, tutte quelle contusioni, gli avevano procurato un
innalzamento della temperatura, costringendolo a restare a letto.
Scrollò il viso con vigore: doveva cambiarsi in fretta e
raggiungere gli altri, doveva salvare anche lui le apparenze o
altrimenti sarebbe stato peggio. Ma quel peggio doveva ancora arrivare.
Con un grugnito di frustrazione si allontanò dallo specchio,
giusto in tempo per vedere qualcuno che, aprendo la porta dello
spogliatoio, aveva visto tutto.
In quel momento, Fabian ebbe l'impressione che l'intero mondo gli fosse
cascato addosso. I suoi occhi si sgranarono più che
poterono, sentendo un orrore tale accrescere in lui al punto da provare
ribrezzo verso se stesso. Ma la persona che l'aveva scoperto non stava
tenendo nessun tipo di reazione: non c'era sorpresa nel suo sguardo,
non c'era orrore, non c'era nulla di nulla. Era lo sguardo tipico e
composto di sempre, quello che analizzava sempre tutto.
"Mi stavo giusto chiedendo... il motivo per cui rimanevi sempre
indietro."
"Sei
patetico." Mormorò Brendon, guardandolo dall'alto in basso.
Fabian non rispose, sollevandosi da terra a capo chino.
"So già quanto sono patetico da solo. Non serve che tu me lo
ricordi."
La destra di Brendon partì da sola, avventandosi contro la
guancia di Fabian con un sonoro schiaffo che lo fece vacillare di lato.
"Per quanto tempo andrai avanti così? Si tratta
già di un anno."
Fabian si strofinò l'angolo della bocca, dove era stato
colpito. Non disse nulla, rimase solo muto, incapace di fronteggiare la
persona davanti a sé.
"Considerati fortunato: io ti colpisco in pieno viso, dove tutti ti
possono vedere. E se qualcuno dovesse venire a lamentarsi per un
graffio o un livido ammetterei di essere stato io."
Fabian continuò a restare muto.
"Dì qualcosa, dannazione!" Gli gridò contro
Brendon, ormai giunto al limite della propria sopportazione.
Fabian abbassò il braccio affranto, giusto per venire
afferrato rudemente da Brendon che lo costrinse a sollevare lo sguardo.
Di natura calma e gentile, tendente a reprimere qualsiasi impulso che
sentiva nascere dentro di sé, Fabian aveva imparato da tempo
che solo Brendon sapeva tirare fuori il peggio di lui.
Afferrò quella stretta forte, facendo resistenza con
entrambe le mani; la forza ce l'aveva, semplicemente nessuno gli aveva
mai insegnato a usarla.
"Che cosa dovrei dire? Quell'uomo è mio padre, maledizione!"
Solo allora Brendon lo lasciò andare, facendolo barcollare
all'indietro.
"Non c'è modo, per me, di oppormi." Mormorò a
voce bassa.
Si formò un silenzio opprimente fra i due, uno di quelli che
ti pesava persino sul petto. Fabian sollevò il viso
lentamente, poi si mosse avanzando fino a stringere le maniche della
giacca di pelle di Brendon. Appoggiò la fronte sul suo
petto, poco sotto il collo, dando finalmente sfogo a quelle lacrime che
volevano uscire già da prima.
Brendon sospirò capendo il gesto: quello era il segnale che
Fabian voleva essere consolato, in un modo o nell'altro.
Lo spinse indietro, fino al muro, inchiodandolo con le braccia per poi
avventarsi sulle sue labbra forzandole ad aprirsi. Rumori provenienti
dal corridoio implicavano il passaggio di alcune ragazze, che stavano
parlottando tra di loro, ma questo non li frenò nel volersi
fermare. Fabian ambiva a quei baci, così violenti e
seducenti, tali da togliergli l'ossigeno; Brendon era l'unica persona
capace di darglieli.
Non si spiegava il perché, per un anno intero, Brendon aveva
mantenuto il suo segreto, come da accordi. Tuttavia, sapeva che, se di
un uomo aveva bisogno nella sua vita, questi non poteva che essere che
lui. Un gemito gli sfuggì dalle labbra quando si
sentì baciare il collo.
Quali furono le prime parole che si scambiarono? Ah, già.
"Mi stavo giusto chiedendo... il motivo per
cui rimanevi sempre indietro."
"Ma perché sei tornato indietro?"
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