Quando tutto cambia

di Claire77
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** It's a long story ***
Capitolo 2: *** A week after ***
Capitolo 3: *** The day after ***
Capitolo 4: *** Six months later ***
Capitolo 5: *** One year later ***
Capitolo 6: *** After death ***



Capitolo 1
*** It's a long story ***


1 - It’s a long story
 
Dopo aver pronunciato quelle parole, Henry si fece di lato, lasciando entrare Jo nel negozio. Chiuse la porta a doppia mandata e appese il cartello con la scritta chiuso. Aveva paura di voltarsi e di incontrare lo sguardo di Jo. Quello che temeva, o che aveva desiderato, a seconda dei punti di vista, per tutto quel tempo, stava per accadere. Era strano che, nonostante il tempo fosse l’unica moneta di cui non aveva mai penuria, non si sentisse per nulla pronto a quel passo. Si era appena liberato di Adam, aveva appena iniziato a provare qualcosa per Jo. Era troppo presto per perderla.
“Allora?”, lo incitò Jo, e il suo sguardo fermo gli perforò la schiena. Henry fece un sospiro e finalmente si voltò. La mano che reggeva ancora quella foto incriminatrice stava tremando. Il suo istinto di autoprotezione, perfezionato attraverso i secoli, stava già mettendo a punto delle teorie alternative che avrebbero potuto spiegare quella foto. L’uomo immortalato in bianco e nero poteva essere suo padre (in fondo, non era raro che padre e figlio si assomigliassero molto, no?), di conseguenza la donna poteva essere sua madre, e il bambino lui stesso. Lanciò uno sguardo a Abe e lui sembrò aver seguito per filo e per segno il corso dei suoi pensieri, perché lo ammonì con i suoi occhi acuti. Non ci provare neanche, sembrava volergli dire. Abe aveva sostenuto sin dall’inizio l’idea che lui doveva trovarsi un confidente, e Jo era stata la sua candidata preferita praticamente da sempre. Probabilmente desiderava anche che si trovasse una compagna per quando lui… Henry interruppe quel ragionamento, incapace di portarlo a termine. Non poteva prendersi carico del pensiero della morte, non molto lontana, di suo figlio, non in quel momento in cui la vita che si era costruito a New York era appesa a un filo.
“È meglio se ti siedi”, disse Henry, e fece per indicarle la poltrona vicino alla scrivania, ma poi ci ripensò e la indirizzo verso le scale: “Anzi, è meglio se andiamo di sopra”. Nel caso in cui Jo l’avesse presa male, era meglio che la sua reazione non fosse esposta attraverso le vetrine del negozio.
Jo annuì con un cenno contenuto del capo, e un sospiro trattenuto, segno che stava perdendo la pazienza. Henry non si illudeva. Sapeva di non poter tenere a bada Jo ancora a lungo, e sapeva anche che si stava aggrappando a ogni singolo secondo di tempo per trovare una via di fuga. Era più forte di lui. Nonostante il desiderio di confidarsi e i sentimenti di affetto (avrebbe mai più utilizzato la parola amore?) che provava per Jo, il pensiero di quello che era successo con Nora continuava a tormentarlo anche a distanza di due secoli.
Entrarono in casa. Jo, con il suo sguardo attento di detective, si guardò brevemente attorno, anche se era già stata lì una volta. Si sedette sul divano e Henry prese posto nella poltrona di fronte a lei. Posò la foto sul tavolino tra di loro. Jo lo osservava, in silenzio. Aveva sicuramente notato il suo nervosismo, la sua mano tremante, il sudore sulla fronte. No. Era troppo tardi per inventarsi una delle sue solite scuse. L’unica alternativa era raccontarle la verità. In caso di emergenza (nel caso, cioè, Jo lo avesse preso per pazzo e avesse chiamato il manicomio), avrebbe sempre potuto buttarsi dalla finestra, o tagliarsi le vene, per poi fuggire il più lontano possibile.
“Qualcuno vuole del thè?”, chiese Abe per rompere il silenzio che si stava accumulando secondo dopo secondo. “Anche se, dato quello che stai per ascoltare, Jo, forse sarebbe appropriato qualcosa di più forte”.
“Henry?”, lo incitò Jo, e puntò i suoi occhi indagatori su di lui, “Sto aspettando”.
Henry distolse lo sguardo, cercò aiuto in Abe, che alzò le sopracciglia a mo’ di incitamento, poi tornò a guardare Jo, aprendo la bocca più e più volte senza riuscire ad articolare parola.
“È complicato”, riuscì a dire alla fine.
Jo quasi sbuffò per l’impazienza e si sporse sul tavolino verso di lui.
“Non osare! Non osare dirmi che è complicato. Questa solfa l’ho già sentita più di una volta. E io non ho mai insistito. Sono passata oltre su molte cose, senza mai chiedere spiegazioni. Ti ho dato fiducia. Ma adesso basta. Adesso voglio sapere che diavolo sta succedendo, che cos’è successo ieri in metropolitana, perché ho sentito degli spari e ho trovato il tuo orologio su quella che poteva essere una scena del crimine, e soprattutto voglio sapere che cosa significa questa foto”. Premette un dito sulla foto in questione per sottolineare la sua foga.
Henry riaprì bocca, ma ancora una volta non riuscì a dire nulla. L’immagine di Nora, che lo guardava accondiscendente dicendogli io ti credo, mentre già tramava di farlo rinchiudere, continuava a lampeggiargli davanti agli occhi. Ma Jo è diversa, si disse. Lei gli avrebbe creduto. Glielo avrebbe dimostrato, se si fosse reso necessario. E poi c’era Abe. Abe poteva testimoniare sulla loro vita insieme, poteva…
All’improvviso, gli venne in mente che forse il modo migliore per convincere Jo e la sua mente analitica di poliziotto era mostrarle la verità, anziché spiegargliela. Sapeva che se avesse esordito con un “sono immortale”, Jo avrebbe tratto subito delle conclusioni affrettate che poi avrebbero influito sul suo giudizio. Doveva fare in modo che lei arrivasse alla verità seguendo un proprio ragionamento.
“Guarda che se non glielo dici tu, glielo dico io!”, intervenne Abe dopo altri secondi di silenzio. Jo gli lanciò un’occhiata riconoscente, e poi sospirò di impazienza. Si alzò brevemente per togliersi il cappotto e lo gettò di lato sul divano. Tornò a chinarsi verso di lui. Stava per aprire bocca, sicuramente per incitarlo a parlare, quando Henry intervenne:
“Abe”, disse, senza staccare gli occhi da Jo, “Potresti per favore prendere… l’album?”
“L’album?”, ripeté Abe con occhi spalancati, come se non avesse capito bene, “Vuoi dire… quell’album?
“Sì, quell’album”, confermò Henry e si voltò per guardarlo e fargli capire che stava dicendo sul serio.
“Quale album?”, chiese Jo indagatrice, mentre osservava Abe che si allontanava per qualche secondo e ritornava poi con un grosso album rilegato in pelle in mano.
Dopo aver ricevuto la tacita approvazione di Henry, Abe allungò l’album e lo posò sulle ginocchia di Jo, che fissò la copertina incisa di pelle con sguardo confuso.
“Che significa?”, chiese, e il suo sguardo si spostò da Henry ad Abe e viceversa.
“Se vuoi sapere la verità”, disse Henry fissandola negli occhi, “Si trova lì dentro. Ma ti devo avvertire: una volta che hai… una volta che entri in questa… come dire… situazione, non puoi più tornare indietro. Quindi pensaci bene”.
“Quale situazione?”, chiese Jo, e di nuovo il suo sguardo saettò su Henry e Abe. Non ricevendo risposta da nessuno dei due, abbassò gli occhi sull’album e lentamente lo aprì. Nella prima pagina c’era un ritaglio di giornale. Sembrava una pubblicazione antica, di almeno un secolo prima, o anche di più. Il titolo recitava: Eroico dottore salva bambino da inferno di fuoco. Al di sotto, un sottotitolo circondato da un disegno di una torre in fiamme: l’inaspettato eroe si è rivelato essere un dottore del Mercy. “Ringrazio Dio che ci fosse il dottor Morgan”, dice la madre in lacrime del bambino salvato. E di fianco al sottotitolo, un altro disegno: il volto di uomo incredibilmente assomigliante a Henry. Jo si ritrovò a trattenere il fiato, senza riuscire ad articolare dei pensieri compiuti. La data in alto a destra della pagina recitava 1865.
Sentì che Henry la stava osservando, e sollevò lo sguardo verso di lui. Gli occhi di Henry erano due pozze profonde in attesa di un verdetto. Non gli aveva mai visto quello sguardo: un misto tra agitazione, terrore, sollievo, aspettativa. Jo tornò a guardare il disegno: sembrava proprio lui. E poi c’era quel nome: dottor Morgan. Scorse velocemente l’articolo e arrivò a un punto in cui si diceva che l’eroico dottore si chiamava Henry Morgan e lavorava al Mercy Hospital di Londra. Henry Morgan. In fondo, era un nome abbastanza comune. E il disegno… una coincidenza?
Henry sapeva quali pensieri stavano attraversando la mente di Jo. Stava cercando di dare un senso logico a quelle parole e a quel disegno. Sicuramente avrebbe potuto trovare una spiegazione plausibile. Ma era solo alla prima pagina dell’album.
“Vai avanti”, la incitò, gentilmente.
Lei ubbidì e sfogliò la seconda pagina. C’era una foto, in bianco e nero e quasi completamente consunta, di un gruppo di persone di fronte a un edificio di mattoni neri di fumo. Jo studiò l’abbigliamento di quelle persone: erano vestiti come a inizio del secolo precedente. Gli uomini portavano barba e cappello e le donne indossavano una divisa nera con una cuffia arcuata in testa. Sembrava il personale di un ospedale. Scrutò i loro visi, che data la qualità della foto sembravano tutte macchie bianche e nere. Non capiva esattamente che cosa stava guardando.
“Se fossi in te guarderei l’ultima fila, in fondo a sinistra”, le suggerì Abe.
Jo si concentrò sulle persone a sinistra del gruppo e fu allora che lo vide. Henry. Aveva la barba e dei basettoni che gli ricoprivano la mascella, ma il naso e gli occhi, anche in quell’immagine sgranata, erano i suoi. Indossava un camice bianco con una fascia con una croce rossa avvolta intorno al braccio destro. Jo non riusciva a trovare nessuna spiegazione per quell’immagine.
Alzò gli occhi su Henry, sul suo abbigliamento ricercato, sulla sua postura composta, e si sentì come se lo stesse vedendo per la prima volta.
“Chi sei?”, gli chiese, senza sapere bene perché stava porgendo proprio quella domanda.
“Mi chiamo Henry Morgan”, rispose Henry, con un tono neutro e pacato che nascondeva a stento il suo nervosismo, “E sono nato a Londra il 19 settembre 1779”.
“Millesettecento…?”, ripeté Jo con occhi spalancati.
“Millesettecento settantanove”, confermò Henry con un cenno del capo.
Era fatta. Dopo quell’affermazione era impossibile tornare indietro. Henry non staccò gli occhi da Jo, che a sua volta non li staccava da lui. Ancora una volta, Henry sapeva quali ragionamenti stavano vorticando nella testa di Jo, tutte le possibili opzioni che lei stava vagliando mentre lo fissava, cercando di decidere se credergli o meno. Perché credergli, così ciecamente e su due piedi, avrebbe comportato negare il tessuto stesso della realtà che Jo credeva essere l’unica e sola verità. Non la biasimava per i suoi dubbi; non era facile mettere in discussione tutto quello che si era sempre creduto come solido e indistruttibile. La seconda opzione era che lui fosse un pazzo, un sociopatico o schizofrenico, o entrambe le cose. Ma anche in quel caso, la verità non era facile da accettare, non per Jo, il cui lavoro consisteva nell’indagare la verità e giudicare le persone: poteva essersi sbagliata a tal punto sull’uomo al cui fianco aveva lavorato per anni, e per il quale aveva anche ammesso di provare dei sentimenti? Poteva, il partner con cui lei era entrata così in confidenza, essere un pazzo senza che lei si fosse accorta di nulla? C’era anche la possibilità che fosse tutto uno scherzo, ma a che pro? E poi, non era da Henry. E quelle foto? Quel ritaglio di giornale? Potevano essere dei falsi? Ma a che scopo?
A Henry sembrò quasi di sentire i pensieri di Jo, uno per uno, mentre vagliava e scartava le varie possibilità. Alla fine lei riabbassò lo sguardo e voltò pagina. La foto seguente era di nuovo in bianco nero, ma sicuramente più recente. Probabilmente degli anni cinquanta. Sullo sfondo grigio che sfumava in bianco sui bordi, si stagliava ancora una volta un uomo che sembrava Henry, in divisa militare verde scuro, al fianco di una donna bionda, vestita di bianco, che gli teneva il braccio e sorrideva.
“Quello era il giorno del nostro matrimonio”, spiegò Henry, sentendo una morsa al cuore al ricordo.
Nostro matrimonio?”, domandò Jo, scrutando la donna bionda al fianco di Henry. Era indubbiamente la stessa della foto che aveva trovato in metropolitana. All’improvviso capì. “Abigail!”, esclamò, ed Henry annuì, per confermarle che ci aveva visto giusto.
“Ti avevo raccontato di lei, solo… riadattando un po’ la storia.”
“Quindi in quest’altra foto…” Jo prese la foto dal tavolino e la pose di fianco a quella nell’album, “Siete di nuovo tu, Abigail e… vostro figlio?”, azzardò, mentre la consapevolezza di quell’affermazione si faceva strada dentro di lei. Prese il silenzio di Henry come una conferma.
“Tu hai un figlio??”, chiese, stupita.
Henry annuì con un cenno del capo.
“Ed è… ancora vivo?”, chiese ancora, facendo un rapido calcolo mentale. Se quella foto, come aveva ipotizzato, era degli anni cinquanta, il figlio doveva avere circa 60 o 70 anni.
“Direi di sì”, rispose a sorpresa Abe, alzandosi per recarsi in cucina, “E spero di rimanerci ancora per almeno un decennio”.
Jo ci mise qualche secondo ad assimilare l’informazione.
Tu….”, balbettò, mentre Abe tornava indietro e metteva una bottiglia di liquido scuro sul tavolino di fronte a lei, “Tu sei il figlio di Henry?”
Henry e Abe si scambiarono un’occhiata e sorrisero, complici. Jo aveva sempre sospettato che ci fosse qualcosa di strano, nel loro rapporto, ma aveva pensato che dipendesse dal fatto che Henry avesse perso il padre, che Abe fosse una specie di famiglia adottiva per lui…
“Quindi la storia che mi avevi raccontato, di tuo padre che aveva il negozio a Londra, e che era partner di Abe, era una balla?”
Henry alzò le mani in segno di scusa.
“Perdonami, Jo. Sì, era una bugia. Non sapevo che inventarmi, così su due piedi.”
Jo si ricordò del momento di imbarazzo che era intercorso tra Abe ed Henry quando aveva chiesto loro come si erano conosciuti. Non ci aveva fatto caso, all’epoca. O meglio, lo aveva notato, ma ci era passata sopra. Come per molte altre cose riguardanti Henry.
“Se vuoi berti qualcosa di forte, Jo, sappi che in casa abbiamo solo cognac”, e indicò con un cenno il liquido sul tavolino, “Perché papà è fissato con il cognac, soprattutto quello invecchiato. Dice che gli ricorda casa sua”.
Jo quasi sobbalzò, sentendo Abe pronunciare con tale tranquillità la parola papà. Anche Henry sembrò per un istante a disagio, ma poi sorrise quando Abe gli fece l’occhiolino. Senza rendersene conto, Jo aveva abbandonato quasi ogni dubbio, e si stava addentrando in quello strano mondo di Henry e Abe, scoprendo di volta in volta particolari che fino ad allora le erano sfuggiti, o che aveva messo da parte catalogandoli come “cose eccentriche”.    
“Quindi tu non… non invecchi”, disse alla fine Jo, e pronunciare ad alta voce quelle parole le fece percepire l’assurdità della situazione. Eppure, l’assurdità si stava dimostrando l’unica spiegazione plausibile per tutte le stranezze di Henry. La sua immensa cultura, tutte le lingue che parlava, la sua allergia quasi cronica per la tecnologia (come poteva non avere un cellulare, nel XIX secolo?), il suo modo ricercato di vestire, il suo modo di parlare, la sua riservatezza estrema, la sua eccentricità quasi borderline. Alla luce di quanto scoperto, ogni cosa acquisiva un senso nuovo.
“La prima volta che ci siamo incontrati… il nostro primo caso insieme”, proseguì Jo, dando voce ai suoi ragionamenti, “Tu eri su quella metropolitana”.
“Sì, c’ero, non l’ho mai negato”.
“E com’è possibile che tu sia sopravvissuto? Tutti, nel primo vagone, sono morti”.
Henry esitò un istante prima di rispondere. Ormai, però, che importanza aveva? Jo era lì e gli stava facendo delle domande, ed era un buon segno. Non aveva ancora accennato ad andarsene, né a chiamare uno strizzacervelli. Nel complesso, poteva dire che le cose stavano andando bene.
“Non sono sopravvissuto, infatti. Sono morto. Per essere precisi, sono morto per un palo d’acciaio conficcato nel petto.”
Jo lo fissò con le sopracciglia alzate e gli occhi spalancati.
“Non capisco”, disse.
“Quello che papà sta cercando di dire”, ancora una volta quel papà pronunciato con tanta naturalezza fece sobbalzare Jo, “È che non solo lui non invecchia, ma non può morire. O meglio, lui muore, ma poi il suo corpo sparisce e rispunta fuori nel bacino d’acqua più vicino”.
“Nudo”, precisò Henry, e in quel momento gli occhi di Jo si accesero di comprensione.
“Cazzo!”, esclamò, “Le nuotate notturne!”
Henry non riuscì a trattenere un sorriso. Era la prima volta che sentiva Jo pronunciare una parolaccia.
Jo si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro nel salotto, ragionando ad alta voce.
“Ma certo. Certo. Cazzo, chi si mette a nuotare nudo nell’Hudson in pieno inverno? Nemmeno un pazzo. E la storia del sonnambulismo… non ci ho creduto nemmeno per un attimo.”
Henry alzò di nuovo le mani in segno di resa.
“Mi dispiace. Anche lì, ho dovuto improvvisare…”
Jo si fermò di colpo, scossa da un’idea improvvisa.
“Quando ti hanno arrestato… io ho controllato la tua fedina. Non era la prima volta che… oddio! La data in cui fosti arrestato la prima volta era la stessa dell’incidente in metropolitana! Infatti quella volta fosti arrestato in pieno giorno… ma certo!”
Henry la lasciò proseguire i suoi ragionamenti. Più conclusioni traeva da sola, maggiori erano le possibilità che alla fine gli credesse.
“… e ogni volta che sei stato arrestato… ogni volta, eri morto?”
“Sì.”, rispose semplicemente lui.
“E quelle sono solo le volte che ti hanno beccato”, continuò Jo. Un altro pensiero la colpì e trattenne il fiato. “Santo dio… quante volte è successo? Da quando lavoriamo insieme.”
Henry esitò, non perché non volesse risponderle, ma perché in effetti non sapeva che risposta darle. Fece un rapido calcolo mentale.
“Non lo so con precisione”, ammise, “Una dozzina di volte? Forse di più. Dovrei consultare il mio diario”.
“Tu… hai…. un diario… delle volte che sei morto?” Jo sembrava sempre più sbigottita.
“Macabro, eh?”, commentò Abe con una risata, “Dovresti proprio darci un’occhiata. Si annota tutto: data, ora, causa della morte. Poi si mette a fare i suoi grafici di analisi temporali e i suoi esperimenti da dottor Frankenstein”. Abe lanciò uno sguardo affettuoso a Henry e poi si alzò. “In ogni caso, sarà meglio che torni giù a riaprire il negozio. Ve la cavate da soli, eh? Jo, il cognac è lì per quando ne senti la necessità.”
Con un’ultima occhiata a Henry, Abe si diresse verso le scale e li lasciò soli. Jo stava per aprire bocca quando il suo telefono squillò. Uno sguardo allo schermo le disse che si trattava del distretto.
“Martinez”, rispose, e la voce le uscì più rauca del dovuto, forse a causa delle sue continue esclamazioni. Ascoltò Hanson che le elencava i dettagli dell’indirizzo di una nuova scena del crimine. Lo interruppe il prima possibile: “Ascolta, Hanson… non posso venire. Non adesso. Ho un’emergenza. No, niente di grave. Però non posso proprio. Sì. No. Henry è… no, oggi è il suo giorno libero, e so per certo che è fuori città. Aveva un impegno in qualche fiera dell’antiquariato o cose del genere.” Henry le lanciò uno sguardo divertito. “No… portati Lucas. Appena posso vi raggiungo, ok? Sì. Ci penso io ad avvisare Henry quando torna. Ok. A dopo”.
Chiuse la telefonata e Henry osservò, ironico: “Nemmeno tu te la cavi male con l’arte dell’improvvisazione, detective.”
Nonostante tutto, Jo si lasciò sfuggire un sorriso. Poi tornò seria.
“Henry, ho bisogno di sapere”.
“Va bene”, assentì Henry, con ancora qualche traccia di nervosismo.
“Ho bisogno di sapere tutto.”
“Va bene”, ripeté lui, “Però, Jo… non esageravo quando ti ho detto che è una lunga storia. Ci vorrebbero giorni, se non settimane, per raccontarti tutta la mia vita.”
“Ok”, annuì Jo, “Allora ti farò delle domande. E voglio risposte sincere.”
“Te lo prometto.”
Jo rifletté per qualche istante. Aveva così tante domande in testa, con nuovi punti interrogativi che si affacciavano in continuazione, che non sapeva da che parte iniziare.
“Sul tetto”, esordì, cercando di seguire un ordine cronologico di eventi, “Per quel nostro primo caso. Io ero sicura di averti visto saltare dal tetto, ma tu mi avevi detto che l’attentatore si era suicidato. Era la verità?”
“No”, rispose Henry, e abbassò gli occhi a terra, colpevole, “Avevi ragione tu. Sono saltato dal tetto. L’attentatore mi aveva sparato e stava per azionare il veleno. Non sapevo che altro fare per fermarlo. Così mi sono buttato su di lui e siamo precipitati entrambi.”
“E Gloria Carlyle? Perché non volevi occuparti del suo caso?”
“Perché la conoscevo”, spiegò Henry, “O meglio, l’avevo conosciuta, circa 50 anni prima. Era una brava persona. Mi dispiaceva sentire tutte quelle cattiverie su di lei”.
“E il Francese? Dopo che quello psicopatico è morto, l’ho interrogata. Mi ha detto che l’avevano aggredita, legata alla sedia, ma che poi qualcuno era intervenuto e aveva fermato l’assassino. Era bendata e non ha visto chi, ma ha sentito rumori di colluttazione. Quando sono arrivata io, però, non c’era nessuno. Eri tu? Sei stato tu a intervenire?”
“Sì”.
“E… il serial killer ti ha ucciso?”
Henry esitò un istante. Rispondere sinceramente a quella domanda, come promesso, significava però iniziare a parlare di Adam. Ed era un argomento troppo lungo, e penoso, per poterlo affrontare in quel momento.
“Mi ha ferito gravemente”, disse alla fine.
A Jo non sfuggì la sua risposta vaga.
“Ma non è stato lui a ucciderti?”
“No”. Non aggiunse altro. Jo insistette:
“E chi è stato allora?”
“Jo, ti ho promesso di essere sincero”, disse Henry, “Ma c’è un’altra parte di questa storia di cui sinceramente non voglio parlare. Non adesso. Non hai altre domande da fare?”
“Il tuo orologio, sul taxi”, proseguì Jo, “Ti era caduto in quel momento?”
“No”, rispose Henry asciutto. Purtroppo si stavano di nuovo muovendo in direzione di Adam. Era impossibile evitare l’argomento.
“Eri tu quello sul taxi… quello chiuso dietro, che ha lasciato quei graffi sulla portiera?” Jo stava facendo le domande seguendo il filo logico dei suoi ricordi, ma rabbrividì al pensiero che fosse davvero Henry, il suo Henry, a essere rimasto chiuso in quel taxi. Che cosa aveva detto, in quell’occasione? Qualcuno ha cercato disperatamente di uscire. Si ricordò del nervosismo di Henry e del suo sguardo assente. Certo. Era lui quello che aveva tentato disperatamente di uscire.
“Sì”, rispose ancora Henry.
Jo annuì, aggiustando man mano le tessere del puzzle nei posti giusti. Henry, sin dall’inizio, sapeva troppe cose sul quel caso, anche per lui. Sapeva che il morto era un tassista ancor prima di fargli l’autopsia. Aveva suggerito loro dove trovare il taxi, sapeva dove era caduta la pistola. La pistola. C’era un’altra persona in quel taxi!
“Chi altro c’era in quel taxi?”
Henry sospirò e si alzò dalla poltrona, voltandole le spalle. Era un gesto che Jo gli aveva visto fare altre volte: adesso capiva che era una sua tecnica per prendere tempo e decidere cosa rispondere.
“Jo”, lo sentì dire mentre continuava a darle le spalle, “Non volevo parlarne, ma a quanto pare non posso saltare questa parte della storia, quindi sarò breve.” Si spostò verso la portafinestra e fissò lo sguardo verso l’esterno, le mani nelle tasche dei pantaloni. Mai come in quel momento Jo si rese conto di quanto tutto, nel suo atteggiamento, comunicasse quanto fosse vecchio.
“Non sono l’unico a essere così, a essere… immortale”, cominciò a spiegare Henry, senza guardarla, “So per certo che ne esiste un altro, che si chiama Adam. Era lui lo stalker… quello vero. Non chiedermi perché lo facesse. Probabilmente si annoiava… quello che so è che era un pazzo psicopatico e un assassino. Ha ucciso anche alcune persone sui cui omicidi abbiamo indagato io e te. Lui aveva iniziato questa specie di… di gioco perverso tra me e lui. Si divertiva, credo. Lasciava cadaveri sparsi in giro, minacciava di smascherarmi davanti a tutti, ha provato ad uccidermi due volte e ci è anche riuscito, due… tre volte”. Si fermò un istante e sospirò. Jo ascoltava, ipnotizzata e pietrificata.
“Alla fine se ne è uscito dicendo che secondo lui l’unico modo per smettere di essere così era uccidersi con l’arma che aveva provocato la prima morte. E mi disse che aveva rintracciato l’arma che lo aveva ucciso, un pugnale”.
“… il pugnale di Cesare”, concluse Jo, sconvolta.
Henry si voltò verso di lei con un’espressione grave sul volto.
“Sì. E sì, prima che tu me lo chieda: ho fatto di tutto per sabotare le tue indagini su quel caso. Adam era completamente fuori controllo e pronto a uccidere chiunque si fosse messo tra lui e il pugnale. L’aveva già fatto, con quell’addetta al museo e la guardia giurata.”
“Lui era lì quando…?”, gli occhi di Jo si spalancarono quando la consapevolezza di quello che sarebbe potuto succedere si fece strada in lei.
“Sì, era lì. Tu non l’hai visto, ma era dietro alla porta, con un coltello in mano, ed ero più che certo che ti avrebbe uccisa. Per questo mi sono lanciato nel mezzo… so che in quel momento avrai pensato che ero un pazzo… ma credimi, ero terrorizzato. Mi aveva già detto chiaro e tondo che se fossi intervenuta ti avrebbe fatto del male…”
“Oddio”. Jo si portò una mano alla bocca mentre rifletteva su come il comportamento di Henry fosse degenerato durante quell’ultimo caso, di come aveva fatto di tutto per metterle il bastone tra le ruote, dicendole che il pugnale non c’entrava con l’indagine, indirizzandola verso piste sbagliate… per lei. Per proteggerla.
“Alla fine quando hai preso il pugnale e lo hai portato al distretto, non sapevo più come fare per tenerlo a bada. Temevo seriamente che sarebbe venuto e avrebbe ucciso chiunque si fosse messo in mezzo… così ho sottratto il pugnale dalle prove, e mi sono incontrato con lui per darglielo.”
“In metropolitana”, sussurrò Jo, con ancora la mano sulla bocca.
“In metropolitana. Ma alla fine Adam non voleva testare la sua teoria su sé stesso… pensava sarebbe stato molto più divertente testarla su di me.”
“Ma…”, lo interruppe Jo, “Ma se la sua teoria era giusta, il pugnale… avrebbe funzionato solo su di lui, no? Non su di te.”
“Infatti”, Henry, voltatosi verso di lei, fece un cenno con il capo, lieto che Jo stesse seguendo il suo discorso, “Ma lui aveva la pistola. La mia pistola”. Si slacciò i primi bottoni della camicia per mostrarle la cicatrice sul petto. “La pistola che mi ha fatto questa, quella che mi ha ucciso la prima volta”.
“Quando…?”
“Il 7 aprile 1814”, rispose Henry senza lasciarle terminare la domanda, “Mentre viaggiavo su una nave diretta in India, la Empress of Africa
Un nuovo lampo di comprensione si accese negli occhi di Jo, ma lei decise di lasciargli continuare la storia della metropolitana.
“E quindi lui, Adam… ti ha sparato?”
“Sì”.
“Ma la sua teoria era sbagliata, perché tu sei qui ora”, constatò Jo, “Sei sparito, lasciando il tuo orologio sul posto dove sono arrivata… se fossi arrivata qualche secondo prima…”
Già, sarebbe stato proprio quello che Adam voleva. Henry tornò a voltarsi verso la finestra.
“E Adam?”
“Non sarà più un problema”, rispose Henry, il tono improvvisamente freddo come ghiaccio. “Gli ho iniettato un siero che gli ha causato un’embolia cerebrale. Era l’unico modo per metterlo fuori gioco. Come ormai avrai capito, non si poteva certo uccidere. Ora è in ospedale, in una specie di coma. Non farà più del male a nessuno”.
Jo non disse più nulla e Henry attese per qualche secondo prima di tornare a sedersi di fronte a lei, sulla poltrona. Lei fissava il vuoto, pensierosa.
“Jo”, azzardò Henry dopo altri secondi di silenzio, “Che cosa stai pensando?”
“Penso… penso che ho bisogno di qualche minuto.”, rispose lei alzandosi. “Ho bisogno di qualche minuto per pensare.”
“Va bene”, disse Henry, e nonostante tutto sentì la paura assalirlo di nuovo, “Prenditi tutto il tempo che vuoi. Però Jo…”, aggiunse, mentre lei si stava dirigendo verso la porta, “Qualunque sia la tua decisione… ti prego… fammela sapere. Qualunque cosa tu decida, ti chiedo solo di farmela sapere.”
Jo lo guardò dubbiosa, ma annuì con un cenno. Poi aprì la porta d’ingresso e sparì lungo le scale che portavano al negozio. Non aveva preso il cappotto, per cui rimase all’interno del negozio, guardando quella montagna di oggetti che si accumulava in ogni angolo. Quanti di quegli oggetti erano appartenuti a Henry?
Si sedette alla scrivania a cui aveva visto seduto Henry tante volte. Aprì il cassetto di destra, e vide una foto di quattro ragazzi vestiti da soldato, in quella che sembrava una giungla. Quello di sinistra era chiaramente un giovane Abe. Jo rimise la foto al suo posto, richiuse il cassetto, e si ritrovò a fissare il vuoto. Quando era venuta da Henry, quella mattina, pretendeva una spiegazione, e una spiegazione aveva avuto. Ma non si aspettava quella spiegazione. Non si aspettava… che cosa si aspettava, sinceramente? Non una cosa così… paranormale. Aveva sempre saputo che c’era qualcosa di diverso in Henry. Il suo sospetto era che avesse un’altra identità, sospetto che le era nato quando aveva visto la sua reazione nel momento in cui lei gli aveva detto che qualcuno aveva indagato sui suoi documenti. E poi, quale persona sana di mente, laureata a Oxford, scriverebbe sul curriculum di essersi laureata a Guam? Credeva che si stesse nascondendo da qualcosa e che quindi stesse mantenendo un basso profilo. In parte, aveva indovinato. Ma non si sarebbe mai aspettata una cosa del genere.
“Stai bene, Jo?”. Abe era comparso alle sue spalle senza che lei se ne accorgesse. Jo annuì, scrutando il viso di Abe per cogliere delle somiglianze con Henry.
“Sto bene. Avevo bisogno di qualche minuto per… riflettere”
“Ti capisco”, disse Abe, “Io è da circa 50 anni che sento le sue storie, e ancora non le so tutte. Immagino che sia difficile digerire così tanta roba tutta assieme.”
“Tu lo hai sempre saputo?”, chiese Jo, mentre la curiosità scacciava via le sue riflessioni.
“No. L’ho scoperto quando avevo sedici anni”. Abe si perse per un istante nei ricordi.
“Ti va di parlarmene?”, gli chiese Jo.
Abe prese una sedia e si sedette vicino a lei, i gomiti sulle ginocchia.
“Innanzitutto devi sapere che non sono proprio figlio di Henry e Abigail”, esordì Abe, “Mi hanno adottato. O meglio, mi hanno trovato abbandonato in un campo dell’esercito e mi hanno preso con sé. Papà era medico di campo e mamma era infermiera. All’epoca, con il disastro dell’olocausto e tutto il resto, c’era una grande confusione. In ogni caso, sono sempre stati i miei unici e veri genitori”.
Fece una pausa, e in quei brevi attimi di silenzio Jo fece un altro collegamento importante che fino ad allora le era sfuggito. La madre di Abe. Quella sulla cui morte lei ed Henry avevano indagato… l’infermiera. Era Abigail. Ecco perché Henry ne era così ossessionato: un altro pezzo di storia su cui avrebbe dovuto chiedere delucidazioni.
“Comunque, all’inizio non notai nulla. Ero piccolo, sai. Per me era normale vedere che mio padre era sempre lo stesso, forte e in salute. Poi al college cominciai a vedere i genitori dei miei amici che ingrassavano e avevano i capelli grigi, ma anche lì pensavo solo che papà fosse più in forma di altri perché era un medico. Quando avevo dieci anni ci siamo trasferiti improvvisamente in un’altra città e mamma mi aveva detto che era perché papà aveva ricevuto un’offerta di lavoro in un altro ospedale. In seguito scoprii che invece un vecchio compagno d’armi di papà, che l’aveva visto morire per una granata, l’aveva riconosciuto, e allora eravamo scappati in fretta e furia. Comunque scusami, mi sto allargando. A sedici anni io ero tutto preso dal college e dalle ragazze, ma sentivo che a casa c’era qualcosa che non andava. Mamma e papà discutevano e si interrompevano quando io arrivavo, e alcuni degli amici che frequentavano la nostra casa venivano meno spesso, e solo quando papà non c’era. Alla fine mi hanno chiamato in salotto e mi hanno detto che mi dovevano parlare”.
Abe fece un’altra pausa, mentre Jo lo fissava rapita dal suo discorso.
“Ti confesso che pensavo volessero dirmi che stavano divorziando. Invece mamma mi disse: sei abbastanza grande per capire, ora. Ti sarai accorto che tuo padre non è come tutti gli altri. Io all’inizio non capii. Pensavo si riferisse al fatto che papà era più intelligente degli altri, o più in gamba. Sai, per me era normale. Lui sapeva sempre tutto di tutto. Poi mia madre mi stupì, e mi disse: ti sarai accorto che tuo padre non invecchia come tutti gli altri. Ricordo di averli fissati come un ebete. Papà era immobile e sembrava un fantasma tanto era pallido. Alla fine fu lui a dirmi che non poteva morire. Io non ci credevo, pensavo mi stessero prendendo in giro. Allora papà bevve un sorso di thè e si accasciò per terra in preda alle convulsioni. Io mi spaventai a morte, e ancora di più mi stupii perché mamma se ne stava lì tranquilla come se fosse una cosa normale. Alla fine lo vidi scomparire davanti ai miei occhi, e mamma mi disse: vieni Abe, adesso andiamo a recuperarlo”.
Jo si appoggiò allo schienale della sedia. Era così scioccata da tutte quelle rivelazioni che ormai non si stupiva più di nulla.
“Da allora le cose sono cambiate. Hanno aspettato che finissi il college, poi abbiamo cambiato città, anche perché la gente cominciava a guardarci strano. Mio padre sembrava più mio fratello maggiore che mio padre”.
Abe si interruppe e poi accennò una risata a qualcosa che gli stava tornando alla mente:
“Sai che, mentre ero all’università, conobbi una ragazza che mi piaceva, e la volevo presentare a papà, per avere un suo parere. Solo che… ormai, non eravamo più credibili come padre e figlio, così lo presentai come un mio amico e andammo tutti e tre a bere una cosa al bar. E lo sai com’è andata a finire?” Abe rise ancora e Jo, suo malgrado, sorrise, anche se non conosceva ancora la fine della storia.
“Che alla fine la tipa voleva uscire con Henry e non con me!” Abe continuò a ridere e si asciugò addirittura delle lacrime, “Ti rendi conto? Ci voleva provare con mio padre! Alla fine di ragazze non gliene ho più presentate”. Abe finì di ridacchiare e tornò improvvisamente serio. Si sporse verso Jo e le posò una mano sul ginocchio:
“Ascoltami, Jo, c’è una cosa che ti devo dire. Da quando mamma se n’è andata per papà è stata molto dura, capito? Era a pezzi. Quando ci siamo trasferiti qui a New York e abbiamo aperto il negozio le cose sono andate un po’ meglio, ma per papà è rimasto…. difficile, affezionarsi. Ha scelto di fare il medico legale apposta, perché voleva ridurre al minimo i contatti con le altre persone. Capisci?”
Jo annuì, e prima che Abe continuasse gli domandò, incapace di tenere a freno la curiosità:
“Perché Abigail se n’è andata?”
Abe esitò.
“È complicato, Jo. Si amavano alla follia, ma… la gente li stava facendo a pezzi. Io ero fuori casa, all’epoca, ma… Per mamma era diventato troppo penoso. Chi non li conosceva scambiava Henry per suo figlio, e chi li conosceva trovava increscioso che una donna della sua età fosse sposata con un uomo così giovane. Considera che erano gli anni ottanta.”
“… e così Abigail se n’è andata”, completò Jo, sentendosi però in colpa per aver aperto quell’argomento.
“Sì. Ma non è questo che volevo dirti. Voglio che tu sappia che da quando tu e papà avete cominciato a lavorare insieme, ho sempre insistito che lui si confidasse con te. Io non ci sarò ancora per molto, e volevo essere sicuro che avesse qualcuno al suo fianco per quando io non ci fossi stato più.”
“E hai pensato a me?” Jo sorrise, sentendosi lusingata.
“Sì, mi sei piaciuta sin da subito. Saresti la donna ideale per lui. In tutti i sensi”, aggiunse, con uno sguardo eloquente. Jo, dimentica per un istante di tutto quello che aveva appreso in quelle ore, arrossì.
“Oh, andiamo Jo! Non ti imbarazzare di fronte a un povero vecchio”, rise Abe, “Lo so che ti piace, e tu piaci a lui, me lo ha detto. Però non voleva dirti nulla, in parte perché non voleva scaricarti addosso la responsabilità del suo segreto, in parte perché era terrorizzato dopo quello che era successo con Nora, e non lo biasimo”.
“E chi è Nora?”, chiese Jo, metà della sua mente ancora attenta e indagatrice, l’altra metà invece assorta dalla rivelazione che Henry aveva parlato di lei ad Abe. Davvero lei gli piaceva? Dopo il mancato viaggio a Parigi, in effetti, ci aveva pensato…
“Questa parte della storia non te la posso raccontare”, Abe scosse la testa, “È una brutta storia e sta a papà decidere se raccontartela o meno. Nora è un tasto dolente, anzi dolentissimo.”
Nonostante tutte le altre informazioni che doveva ancora digerire, la curiosità di Jo si era riaccesa. Aveva così tanta voglia di conoscere il vero Henry che aveva ormai accantonato ogni ipotesi di pazzia.
“Grazie, Abe, per quello che mi hai raccontato”, disse Jo alla fine, rialzandosi. “Credo che io e Henry abbiamo ancora molte cose di cui parlare”.
“Tantissime, Jo”, Abe le fece l’occhiolino, “Non sai quante.”
Jo salì le scale e senza bussare rientrò nell’appartamento. Henry stava maneggiando con una teiera di acqua calda e una tazza. Jo rimase a osservarlo per qualche secondo, e sentì una strana sensazione di calore al petto. Di affetto. O forse qualcos’altro. La verità era che più cose scopriva su di lui, per quanto assurde, più gli piaceva. E le cose che sapeva su di lui probabilmente non erano nemmeno la metà.
Quando Henry si accorse della sua presenza, si voltò verso di lei e fece un cenno verso la teiera.
“Vuoi del thè?”, le chiese.
“No grazie, Henry”. Visto che Henry era in cucina, lei si sedette sullo sgabello della penisola. Lui non disse altro, non la incitò a parlare né le fece pressioni, ma Jo percepì che era ansiosamente in attesa di un suo commento. Decise di essere diretta:
“Henry, ho un’ultima domanda. Poi giuro che non ti chiederò più nulla… almeno non oggi”. Gli fece un sorriso per fargli capire che stava scherzando e lui sembrò rilassarsi. Le fece cenno di proseguire mentre immergeva il filtro nell’acqua calda.
“Cos’è successo con Nora?”
Henry si bloccò, e il suo viso si fece di pietra. Altro che tasto dolente, pensò Jo. Tuttavia, non desistette. Rimase a fissarlo mentre lui, con deliberata lentezza, si voltava per posare la teiera nel lavandino.
“Te lo ha detto Abe?”
“Abe mi ha solo detto che era successo qualcosa di molto brutto con questa Nora. Mi ha detto che se volevo saperne qualcosa, dovevo chiederlo direttamente a te.”
“Che importanza ha, Jo?” Henry quasi sbatté la teiera nel lavandino, “È davvero importante? Lo vuoi davvero sapere?”
“Sì, lo voglio sapere”. Jo non si lasciò spaventare dalla sua reazione.
“Perché?”, le chiese, incrociando le braccia di fronte al petto.
“Perché…” Jo esitò un istante, analizzando con sé stessa il vero motivo della sua curiosità, “Perché ci tengo a te, Henry. Molto. Lo so che lo sai. Ma fino ad oggi io non ti conoscevo… non davvero. E io voglio conoscerti davvero. E l’unico modo per farlo è sapere quelle storie di te che ti hanno portato a essere quello che sei. E dalla tua reazione credo che la storia di Nora sia una parte importante della tua vita”.
Henry tornò a darle le spalle, lasciando dietro di sé parecchi secondi di silenzio. Poi alla fine sospirò.
“Se proprio ci tieni, Jo”, disse a voce bassa, “Ti racconterò la storia di Nora. Ma solo perché me lo hai chiesto. E perché anch’io ci tengo a te.”. Dopo un’altra pausa, si voltò e si sedette sullo sgabello di fronte a lei, dall’altra parte della penisola.
“Nora era mia moglie”, esordì, con una punta di rabbia che già si avvertiva nella sua voce, “La moglie che avevo prima di… prima di diventare così. Io dovevo andare in India e lei doveva raggiungermi lì qualche mese dopo. Poi… poi sono morto. Mi sono ritrovato in una terra sconosciuta, con una lingua sconosciuta, senza sapere quello che mi era successo. Non so come, ma dopo mesi di viaggio riuscii comunque a tornare in Inghilterra.” Sospirò. Jo allungò una mano sulla sua. Si aspettava che Henry si sarebbe ritratto, invece non lo fece. “Durante il viaggio mi capitò di morire un paio di volte. Sai, ero giovane… non sapevo ancora bene come funzionava. Quando tornai a casa, scoprii che mi avevano dato per morto e che c’era una lapide con il mio nome nel cimitero dietro casa. Trovai Nora proprio lì, che piangeva. Lei pensò che mi fossi salvato per miracolo, e io non la smentii. Ricominciammo la nostra vita, ma lei si accorse che c’era qualcosa che non andava. Io ero… inquieto, cercavo di capire in tutti i modi che cosa mi fosse successo. Ero confuso, ero… insomma, quando lei mi chiese di raccontarle che cosa mi tormentava, io glielo dissi.” Si interruppe, e strinse così forte il manico della tazzina che quella tremò.
“E lei non… non ti credette?”
“Peggio”, disse Henry, “Fece finta di credermi. Mi convinse per bene. Mi abbracciò, anche, dicendo che mi amava, mentre nella sua testa si era già convinta della mia pazzia. Il giorno dopo vennero a prendermi”.
“Chi?”, chiese Jo, temendo nel più profondo del cuore la risposta.
“Quelli del manicomio”, rispose Henry asciutto, lo sguardo di pietra perso nel vuoto, “Ci sono rimasto per quattro anni. Quattro anni, e non ti dico che cosa mi hanno fatto, in quel posto. All’epoca le chiamavano terapie, adesso sarebbero considerate torture. Idroterapia, elettroschock. Ovviamente mi sono rimangiato tutto quello che avevo detto, ma non li ho convinti. Io l’ho supplicata, l’ho pregata di farmi uscire, ma lei non mi ha dato ascolto.”
Jo ascoltava, l’orrore che si faceva strada nel suo petto, insieme alla rabbia. Aveva voglia di alzarsi in piedi e abbracciare Henry con tutte le sue forze. Ma la storia, a quanto pareva, non era ancora finita.
“Dopo quattro anni di terapie infruttuose, nel manicomio c’era gente che stava molto peggio di me, secondo i dottori, così mi trasferirono nella prigione di Londra, dove rimasi per altri tre anni, fino a che il mio compagno di cella mi aiutò a commettere suicidio”.
“Dio santo”, si lasciò sfuggire Jo, e inconsciamente strinse la mano di Henry ancora più forte.
“Aspetta, Jo, non è ancora finita” Henry fece un altro sospiro come per darsi coraggio, “Dopo il… suicidio, mi sono rifatto una vita. Ho lavorato in ospedale fino a conquistarmi la posizione di capo reparto. Al Mercy.”
Il nome suonò famigliare a Jo, che si ricordò dell’articolo che aveva letto qualche ora prima.
“Quel maledetto articolo di giornale”, sospirò Henry, “Un giorno all’ospedale si presentò una donna. Una donna anziana, di circa settant’anni. Io, sul momento, non la riconobbi. Poi lei si fece avanti e disse di essere mia moglie”.
“Nora”, sussurrò Jo allibita.
“Già, la mia adorata moglie. Io feci finta di niente, negai di essere io. Ma lei insistette, e iniziò una commovente apologia di come si fosse sbagliata, di come mi avesse sempre amato, del fatto che non si era mia risposata… e del fatto che voleva rendere noto a tutto il mondo il… “miracolo” della mia situazione”. Fece una pausa e deglutì con rabbia. “Io le dissi di no, ovviamente. Le dissi che se mai mi aveva amato, veramente, doveva lasciarmi stare. Andare via e non dire niente a nessuno. Ma Nora ha voluto essere egoista fino in fondo. E così il giorno dopo tornò all’ospedale, con una pistola, con l’intenzione di spararmi davanti a tutti.”
“E…?”
“Sbagliò mira, e uccise l’infermiera che lavorava con me. Una povera innocente, che non c’entrava nulla.”
“E Nora?”
“La rinchiusero in manicomio”, concluse Henry asciutto, “Ironia della sorte, non trovi?”
Allibita, Jo non disse nulla per parecchi secondi. Era davvero una storia brutta. Quattro anni in manicomio. Jo non riusciva nemmeno a concepirli.
“Ora devo farti io una domanda, Jo”, Henry si scosse di dosso la brutta sensazione che aveva sempre quando parlava di Nora, e fissò Jo negli occhi, “Tu mi credi? Credi a tutto quello che ti ho detto?”
Jo lo fissò di rimando, sorpresa. Era convinta che a quel punto fosse chiaro che lei gli credeva.
“Certo, Henry”, gli rispose, e gli strinse la mano in segno di incoraggiamento, “Ti credo.”
Il viso di Henry si illuminò all’improvviso e i suoi occhi si fecero lucidi. Le afferrò anche l’altra mano e la strinse con forza, portandosela poi alle labbra.
“Grazie, Jo, grazie”, sospirò di sollievo, “Non sai cosa significhi questo per me. Avrei voluto dirtelo tante di quelle volte… lo so che ti ho mentito, ma non sapevo che altro fare. Lo capisci, vero? Non potevo certo dirtelo di punto in bianco, all’improvviso. Mi avresti preso per pazzo”.
“Lo so”, disse Jo, e lo sapeva veramente. Soprattutto dopo aver sentito la storia di Nora, capiva perfettamente il comportamento guardingo di Henry nei suoi confronti. Certo, provava una fitta di risentimento per non essersi accorta di nulla, e per il fatto che Henry non si era fidato abbastanza di lei da confidarsi spontaneamente. Ma ora non aveva più importanza.
Il telefono di Jo squillò ancora. Vedendo che era di nuovo il distretto, Jo si costrinse a rispondere.
“So che hai detto che hai un’emergenza Jo, ma qui siamo nella merda. Riesci a venire?”, le disse Hanson con la voce affannata, “No, ho detto di no, non possono passare!”, aggiunse rivolgendosi a qualcun altro.
“Va bene, Hanson, arrivo il prima possibile”, rispose Jo a malincuore. Con tutto quello che le frullava in testa, dubitava di essere in grado di concentrarsi sul lavoro.
“Ti reclamano, detective?”, chiese Henry, bevendo un sorso di thè.
“Purtroppo sì”. Jo fece una pausa, poi aggiunse: “Vieni?”
“Non dovrei essere a una fiera dell’antiquariato?”, osservò Henry ironico.
“Ah già”. Jo si pentì di quella bugia confezionata in fretta e furia. Aveva bisogno di pensare, ma allo stesso tempo voleva continuare a stare vicino a Henry per poter soddisfare la sua curiosità ogni volta che le fosse venuta in mente una domanda.
“Allora ci vediamo in ufficio domani?”
“Certo”, rispose Henry, poi sospirò, indeciso: “È tutto a posto, vero?”
“Sì. Credo di sì. Ho bisogno solo di riflettere.”
“Va bene. Prenditi tutto il tempo che ti serve”. Henry posò la tazza sul piattino e la osservò mentre lei indossava il cappotto.
“Buon lavoro, detective. Ci vediamo domani”. 

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Capitolo 2
*** A week after ***


2
A week after
 
“Che settimana noiosa”. Lucas si abbandonò sulla sedia, picchiettando la penna sul proprio ginocchio, “Solo banalissimi e scontatissimi omicidi. Niente casi strani, niente suicidi camuffati da omicidi, niente morti strambe…”
“Mi dispiace che tu sia deluso, Lucas”, Henry alzò lo sguardo dal rapporto che stava compilando, e nonostante tutto sorrise, “Magari prova a scrivere una lettera al circolo dei criminali di New York, chiedendo loro di essere più creativi, per i prossimi omicidi”.
“Ah ah”, sbuffò Lucas, “Nessuno mi capisce mai”, e accennò una smorfia triste, lanciando la penna in aria e riprendendola al volo.
“Visto che ti annoi, Lucas”, continuò Henry, “Perché non compili qualche rapporto, così, giusto per passare il tempo?”
Lucas stava per replicare, quando in quel momento Jo entrò nel laboratorio. Henry le lanciò un’occhiata, ostentando naturalezza, ma in realtà cercando di carpire i suoi pensieri: era passata una settimana da quel fatidico giorno, e loro due non ne avevano più parlato. Jo si era sempre comportata in maniera “normale”, con lui, ma lo aveva anche evitato più del solito. Henry aveva promesso di darle tempo, e tempo le aveva dato, e non voleva farle nessun tipo di pressione. Però sentiva la mancanza della spontaneità che prima c’era stata tra di loro, e non vedeva l’ora che quella situazione di stallo si risolvesse.
“Ciao”, disse Jo rivolgendosi sia a lui che a Lucas, “Avete il rapporto di quel tizio ucciso con un machete?”
“Sì, è nel mio ufficio”, rispose Henry, e si diresse verso la propria scrivania per prenderlo. Jo avrebbe potuto benissimo aspettarlo lì dov’era, e invece lo seguì, chiudendo la porta di vetro alle sue spalle. Dunque, voleva parlargli. Henry non poté evitare di sentirsi nervoso.
Si voltò, porgendole il rapporto che aveva chiesto. Lei lo prese e se lo mise sotto un braccio. Poi lo fissò, e sembrò quasi fare un sospiro per prendere coraggio prima di chiedergli:
“Stasera…. Ti va di venire a cena? Da me”.
Non era la domanda che Henry si aspettava, e infatti fissò Jo disorientato, incapace di nascondere la propria sorpresa.
“A cena?”, ripeté.
“Sì, a cena”, annuì Jo, arrossendo leggermente, “Sai, ho passato la settimana a riflettere, e… credo di aver finito di… metabolizzare quello che ci siamo detti settimana scorsa. Quindi, se per te va bene, pensavo che potevi venire a cena… così possiamo continuare.”
“Continuare con cosa?”
“Con l’interrogatorio”, Jo gli strizzò l’occhio per fargli capire che stava scherzando.
Henry sospirò, sollevato. Poteva dire che ormai il peggio era passato. Non solo Jo lo aveva accettato, ma voleva saperne di più. D’ora in avanti le cose sarebbero sicuramente andate meglio.
“E io che pensavo che le domande fossero finite”, scherzò, sorridendo.
“Stai scherzando, dottor Morgan? Le mie domande sono appena iniziate”, anche Jo sorrise, e il suo viso si illuminò di luce propria, tanto che Henry si ritrovò a fissarla, rapito.
“Che c’è?”, gli chiese Jo dopo qualche secondo di silenzio.
“Niente, niente”, Henry distolse lo sguardo e lo abbassò sulla scrivania, “A che ora?”
“Alle otto può andare?”
“Va bene”, rispose Henry, poi le lanciò un altro sorriso: “Devo portarmi un avvocato?”
Jo scoppiò a ridere.
“Solo se hai fatto qualcosa per cui potrei arrestarti”.
Henry ci pensò un attimo.
“A parte i documenti falsi e la patente scaduta da 37 anni, sono pulito”.
Jo continuò a ridere ancora per qualche momento prima di riuscire a ricomporsi. Si spostò una ciocca di capelli dietro all’orecchio e disse:
“Ok, allora… ti aspetto. Alle otto”.
“Alle otto”, confermò Henry, e rimase a guardare Jo che usciva dall’ufficio e attraversava il laboratorio. Applicando i suoi decenni di pratica, Henry si nascose dietro a un’espressione impassibile e tornò a compilare i suoi rapporti. Dentro, però, stava ribollendo di felicità.
“Che cosa stavate confabulando, voi due?” Lucas fece capolino sulla porta.
“Niente, Lucas. Come ti dicevo, potresti anche compilare qualche rapporto.”
“Niente, eh?” Lucas gli lanciò uno sguardo divertito, e si mise a far rimbalzare da una mano all’altra la sua pallina da baseball che teneva sempre in tasca. “Non è che… non è che sta succedendo qualcosa di cui io dovrei essere a conoscenza?”
“Non sta succedendo niente, Lucas. Potresti per cortesia iniziare a lavorare?” Henry gli lanciò uno dei suoi sguardi di fuoco e Lucas arretrò.
“Ok, ok”, Lucas sollevò le mani in segno di resa, “Comunque sarebbe una figata, se fosse.”
“Se fosse cosa?”
Lucas arretrò ancora.
“Niente, niente! Non ti scaldare. Vado, ok?”
Appena Lucas si voltò, Henry si lasciò scappare un sorriso.
 
Dopo mezz’ora che si era cimentata ai fornelli, Jo era giunta alla conclusione che era meglio chiamare una gastronomia a domicilio. Non che il cibo fosse importante. La serata aveva come principale scopo quello di continuare la conversazione iniziata sette giorni prima. Però del buon cibo e una buona bottiglia di vino non avrebbero guastato, magari…
“Sei una stupida, Martinez”, disse ad alta voce. Si sentiva come un’adolescente al primo appuntamento. Però quello non era un vero appuntamento, era più un incontro di… tra amici. Tra colleghi. No?
Cominciò ad apparecchiare la tavola, ma si rese conto che l’effetto era troppo “appuntamento romantico”, ci mancava solo una candela nel mezzo. Decise allora di apparecchiare il bancone della cucina. Molto meglio, più informale. Ma perché si faceva tutti quei problemi? Era solo Henry.
Il cibo arrivò alle sette e mezza e Jo travasò tutto nelle padelle di casa, per dare l’impressione di aver cucinato lei. Per essere sicura, nascose le confezioni da asporto nella spazzatura e portò la spazzatura sul retro. Passando davanti a uno specchio, si guardò critica e si diede una sistemata ai capelli. Aveva indossato un vestito, e adesso se ne stava pentendo. Perché aveva indossato un vestito? Nero, per giunta. Era troppo elegante. Troppo ricercato. Dopo aver visto che erano le sette e quarantacinque, corse al piano di sopra e in fretta e furia si cambiò, indossando i suoi normali pantaloni e una camicetta di seta bianca. Era l’abbigliamento che portava di solito al lavoro, ma almeno si sentiva più a suo agio. Ma poi, perché era agitata? Era solo Henry.
“Sei una stupida, Martinez”, si ripeté. Le otto e cinquantacinque. Sarebbe arrivato a momenti… in quell’istante, sentì il campanello suonare.
Si precipitò di sotto, si sistemò un’ultima volta i capelli e aprì la porta.
Meno male che si era cambiata. Henry era vestito in modo semplice (anche se era difficile definire il suo “semplice”), pantaloni neri, camicia bianca e giacca nera, la solita sciarpa (grigia) e… una bottiglia di vino. Jo sentì tornare l’agitazione.
“Ero indeciso tra il vino e un mazzo di fiori”, disse Henry, sorridendo, “Ma visto che durante l’interrogatorio potrebbero emergere dei fatti un po’ assurdi, ho pensato che il vino fosse più appropriato”.
“Hai fatto bene”, Jo gli sorrise di rimando e si fece da parte per farlo entrare.
“Vuoi una mano?”, le chiese Henry mentre Jo posava il vino sul tavolo e iniziava a stapparlo.
“No, no, è già tutto pronto. Siediti pure”. Jo indicò con un cenno uno dei due sgabelli.
“Hai cucinato tu?” Henry si tolse la giacca e la appese all’attaccapanni.
“Sì”, rispose sul momento, voltandosi per gettare via il tappo della bottiglia, “No”, ammise, qualche secondo dopo. “Sono una pessima cuoca. Ho ordinato del cibo pronto.”
“Non dovevi”, le disse Henry, “La prossima volta cucino io. Potresti addirittura smettere di mangiare quegli orribili sandwich da distributore”.
Jo rise, e versò il vino nei bicchieri.
“No, quello mai, mi dispiace. E non rinuncio nemmeno alle ciambelle.”
Entrambi bevvero un sorso di vino e su di loro calò il silenzio. Si guardarono di sottecchi per qualche istante prima che Henry esordisse:
“Allora, vuoi iniziare la carneficina subito, o preferisci mangiare, prima?”
“Mah, a dire il vero volevo farti godere l’antipasto, almeno” Jo sorrise, ringraziandolo silenziosamente per la sua capacità di farla sempre sentire a suo agio. Avendo ormai ammesso di aver comprato del cibo pronto, senza troppo cerimonie mise due piatti nel microonde.
Henry la guardò alzando le sopracciglia.
“Jo, c’è una cosa che devi sapere di me”, iniziò serissimo. Jo si bloccò, temendo una rivelazione sconvolgente, come quando aveva scoperto che Abe era suo figlio.
“Sono fermamente contrario all’uso del microonde.”
Jo scoppiò a ridere, e dopo qualche istante Henry la imitò.
“Guarda che sono serio”, ridacchiò Henry, “Il microonde fa malissimo! Quasi quanto il cellulare.”
“Ecco spiegato perché a casa non hai né un microonde né un cellulare”.
“Questo progresso! È già tanto se ho un telefono. Si stava così bene, quando si mandavano i messaggi con le staffette.”
Jo capì quello che Henry stava facendo. Stava volutamente esagerando le sue particolarità, forse per allentare la tensione, e lei gli fu grata di questo suo modo di affrontare la situazione. Il microonde suonò e lei prelevò i piatti, ponendoli di fronte a loro.
“A dire il vero mi ero fatta una lista”, ammise, infilzando un boccone con la forchetta.
“Una lista di cosa?”, chiese Henry.
“Di domande. Me ne venivano in mente in continuazione, e allora per non dimenticarmele me le sono scritte.”
Henry abbassò lo sguardo, improvvisamente a disagio. Jo lo notò e si preoccupò di aver detto qualcosa di sbagliato.
“Jo… è tutto ok tra noi, vero?”, le chiese poco dopo, imbarazzato.
“In che senso?”
“Nel senso… non mi vedi in modo diverso, adesso?”
“Certo che ti vedo in modo diverso, Henry”, disse Jo, e si stupì che lui fosse così agitato riguardo alla sua opinione, “Ti vedo in modo migliore, se possibile”.
“Migliore?”, ripeté lui, sorpreso.
“Certo”, confermò Jo, e per annegare l’imbarazzo che sapeva la stava per cogliere bevve un sorso di vino. “Allora, visto che l’antipasto l’hai finito… posso cominciare con la tortura.”
“Senza lista?”, le domandò Henry ironico.
“Senza lista. Sono pur sempre una detective, sai? Partiamo da Adam.”
“Accidenti. Parti proprio dal più bello”.
“Mi conosci, mi piace andare al punto. Quando è iniziata? Voglio dire, quando si è messo in contatto con te la prima volta?”
“Non ci crederai, ma è stato proprio il giorno che ci siamo conosciuti. In laboratorio. Eri addirittura presente.”
“Davvero?” Jo spinse indietro i ricordi a quel giorno. Non era molto in forma, quella mattina. Aveva bevuto molto la sera prima e la notte… l’aveva passata in compagnia. Chi era più il tizio? Non se lo ricordava. Ricordava però la sensazione che aveva avuto la prima volta che aveva visto Henry. Questo è uno strambo, aveva pensato. In tre secondi aveva trasformato il suo incidente in un caso di omicidio. In cinque secondi le aveva fatto un profilo, aveva capito che suo marito era morto e che lei era depressa. Poi era squillato il telefono, e Lucas aveva detto una cosa che fino ad allora lei aveva rimosso: è una cosa strana. Lui non ha amici. Ovviamente, ora che sapeva la verità, tutti i pezzi tornavano.
“Eri strano, al telefono”, ricordò Jo, “Ovvio, non ci diedi peso. Perché mai avrei dovuto? Non ti conoscevo. Ma ora che me lo dici… eri teso. A un certo punto ti sei voltato… immagino per nascondere la tua espressione. Che ti aveva detto, Adam?”
“Mi aveva chiesto, direttamente, perché non ero morto in quell’incidente”, disse Henry, “Io ho negato tutto, ma era chiaro che lui sapeva… di me. E la mia reazione sulla difensiva glielo ha confermato. Da allora è iniziato tutto”.
“Ti chiamava spesso?”
“Si faceva vivo quando gli faceva comodo”. Henry esitò, indeciso se rivelare a Jo un particolare a cui lei non era ancora arrivata. Jo si accorse che lui stava pensando a qualcosa, e lo incitò:
“C’è qualcosa che mi stai nascondendo?”, gli chiese senza mezzi termini.
“Sì”, ammise Henry, “Non so se è il caso di dirtelo. Non vorrei… preoccuparti, anche se a questo punto non ne hai più motivo.”
“Preoccuparmi di cosa?” Jo mise in moto il proprio cervello, scavando nei ricordi e cercando di capire da che cosa Henry la stava tenendo all’oscuro. Poi si ricordò che, quando era in ospedale ed Henry era accanto a lei, aveva ricevuto una telefonata. La voce dall’altra capo del filo era profonda, e calma, e aveva chiesto di Henry, dicendo che era un suo amico. Ma lui non aveva amici, no?
“Ci ho parlato, vero?”, chiese Jo, colpita da quell’improvviso ricordo, “Una volta, ho parlato con Adam senza sapere che fosse lui”.
Henry annuì.
“Ci hai parlato due volte, in realtà. E…”
“E cosa?”, insistette Jo.
“… lo hai anche conosciuto.”
Jo si paralizzò di fronte a quella notizia. Quando? Dove era successo? Aveva conosciuto uno psicopatico assassino senza essersene resa conto?
“Io stesso non sapevo chi fosse, quando lo vidi la prima volta” Henry sospirò, e in gesto nervoso picchiettò la forchetta nel piatto vuoto. “Devo ammettere… devo ammettere che è stato furbo, anzi geniale. Ti ricordi, no, quanto ero nervoso per la faccenda del taxi? Ero quasi al limite, e mi avete mandato da uno psicologo.”
Nel momento in cui nominò lo psicologo, Jo sentì qualcos’altro accendersi nella sua memoria. Velocemente, collegamenti su collegamenti cominciarono a intrecciarsi tra di loro. Se Adam era il vero stalker, non poteva essere quel povero ragazzo che Henry aveva ucciso per autodifesa. Però Henry era convinto che fosse lui, altrimenti non lo avrebbe mai accoltellato. E quale particolare poteva aver spinto Henry a credere che quel ragazzo fosse immortale come lui? È stato arrestato più volte perché nuotava nudo nel fiume, aveva detto lo psicologo… quello che li aveva indirizzati da quel povero pazzo. Quindi… o lui nuotava nudo nel fiume senza alcun motivo, cosa poco probabile, oppure quell’informazione era falsa. Un’informazione falsa costruita ad arte per portare Henry a credere…
“… era lo psicologo, vero?”, constatò Jo ad alta voce, arrivando alla fine del suo ragionamento.
“Acuta come sempre, detective” Henry sollevò il bicchiere in un brindisi in suo onore.
“Che bastardo”, si lasciò sfuggire Jo, “Ci ha ingannati per bene, vero? Ci ha dato delle informazioni per portarci dove voleva lui…”
Mi ha dato, Jo. Ce l’aveva con me, tu non c’entravi niente.”
“… e ha approfittato delle sedute… a cui io ti avevo costretta… per raccogliere informazioni su di te.”
“Tu non c’entravi niente, Jo, davvero”, ripeté Henry per tranquillizzarla.
“Mi dispiace Henry”, Jo si sentì improvvisamente abbattuta al pensiero di aver aiutato quel pazzo psicopatico a perseguitare Henry, “Se non avessi insistito con le sedute, se ti avessi dato più fiducia…”
“Jo, tu hai fatto quello che ritenevi necessario in base alle informazioni che avevi a disposizione”, la rassicurò Henry, allungando una mano sulla sua, “E poi avevi ragione, non stavo bene in quel periodo… solo che non sapevi il vero motivo”.
“Mi dispiace”, ripeté Jo.
“Non devi”, replicò Henry, “E poi, quel capitolo è chiuso. Adam è fuori gioco. Quindi possiamo passare al secondo.”
Jo annuì, grata che Henry fosse sempre così gentile nei suoi confronti, e mise altri due piatti nel microonde.   
“La seconda volta che ci ho parlato è stata sulla scena del crimine di Jack lo squartatore, vero?” Jo non riusciva a frenare i suoi pensieri che ripercorrevano il tempo passato assieme. Dietro a ogni angolo, scopriva dei nuovi collegamenti.
“Sì. Ottima memoria, Jo”.
“Beh, per te così asociale, non è difficile ricordarsi delle uniche due volte in cui qualcuno al telefono ha chiesto di te. E poi non sei l’unico a ricordare tutto”.
Una volta che i piatti furono caldi, li sistemò di fronte a loro.
“Quante volte sei stato sposato?”, chiese improvvisamente Jo, nascondendo il viso dietro il bicchiere di vino.
“Apprezzo la logica causale delle tue domande”, la prese in giro Henry. “Per rispondere alla tua domanda… tecnicamente, due volte. Ma per quel che mi riguarda… Abigail è stata la mia unica e vera moglie.”
Jo annuì, non c’era bisogno di nominare Nora per capire che lei era l’altro matrimonio “tecnico”.
“Un solo matrimonio in più di duecento anni”, rifletté Jo ad alta voce, “Sei stato sposato meno volte di un newyorkese medio”.
“Non sono di New York, infatti, sono inglese”, ribatté lui.
“E… la tua famiglia? Non so nulla della tua famiglia. Intendo la tua famiglia… originale”.
“Mia madre è morta quando avevo quattordici anni. Mio padre è morto qualche mese prima che io partissi per l’India. Niente fratelli né sorelle.”
Henry fu molto sbrigativo, e Jo quasi si sentì in colpa a insistere, ma era troppo curiosa, e il vino in corpo le stava infondendo coraggio e una certa dose di sfacciataggine:
“E andavi d’accordo con tuo padre?”
“Per niente”, rispose Henry asciutto, “Litigavamo in continuazione. Non voleva che studiassi medicina, ovviamente, era un lavoro troppo umile per il mio rango. Avrei dovuto rilevare l’impresa di famiglia e mandare avanti gli affari.”
“Impresa di famiglia?” Jo si rese conto di non sapere assolutamente nulla delle origini di Henry. A prescindere dalle vere origini, Henry non aveva mai detto nulla, nemmeno di “falso” o di “copertura”, sul suo passato. Jo aveva sempre avuto il sospetto che Henry fosse molto più benestante di quello che dava a vedere. Insomma, si faceva fare i vestiti a mano da un sarto.
“La Morgan Shipping Company”, spiegò Henry, “All’epoca era parecchio famosa, avevamo navi quasi su ogni rotta. Due residenze, una a Londra e una in campagna, uno stemma, argenteria, insomma tutto il repertorio”.
“Eri un nobile?” Jo non credeva che si sarebbe ancora stupita di qualcosa, ma ogni minuto che passava scopriva cose su Henry che non avrebbe mai creduto possibili.
“Non proprio”, rispose Henry, “La nobiltà è un titolo ereditario, noi non eravamo lord, ma ricchi possidenti. Diciamo che facevamo parte dell’alta borghesia. Ovviamente mio padre aspirava al titolo di lord, per questo era così contrario al mio lavoro in ospedale, avrebbe di gran lunga diminuito le sue possibilità di ottenere un seggio in parlamento”.
“E lo stemma?”, chiese ancora Jo.
“In realtà, lo hai già visto”, disse Henry, e dalla tasca prelevò il suo orologio d’oro, “È inciso nella parte interna.”
Jo lo aprì e nella parte interna vide un’elaborata m in corsivo, circondata da vari ghirigori, e disegnata su una specie di stemma.
“Quindi questo orologio…” All’improvviso Jo si ricordò che Henry le aveva raccontato la storia di quell’orologio, sempre in occasione del loro primo caso. “Ma certo. Apparteneva a un dottore in viaggio su una nave. Me lo avevi anche raccontato.”
“Prima che passasse a me, apparteneva a mio padre. Me lo diede sul letto di morte, credo per farsi perdonare”.
“Farsi perdonare che cosa?”
Henry sospirò e allontanò da sé il piatto ormai vuoto.
“C’è anche il dessert?”, chiese con leggerezza, evitando il suo sguardo.
“Non ne vuoi parlare, eh?”
“Preferirei di no, in effetti”, ammise Henry, “Magari puoi consultare la tua lista e vedere se c’è qualche altra domanda che non includa la mia famiglia”.
Jo annuì e si alzò per prendere i budini, anche quelli comprati in gastronomia. Li mise in due coppette attrezzate con due cucchiaini.
“Allora…”, rifletté, in cerca di una domanda a cui dare la precedenza. “Per quanti anni hai lavorato come medico… medico vero, intendo?”
Henry ci pensò su.
“Praticamente da sempre, da quando ho preso l’abilitazione… avevo ventiquattro anni”.
“Così giovane?”
“All’epoca era diverso. Poi io ho sempre studiato in casa, a parte quando sono andato all’università. Oxford, prima che tu me lo chieda”.
“Immagino che il rapporto originale su Jack lo squartatore fosse il tuo, vero?” Man mano che riaffioravano i ricordi, Jo domandava.
“Quante lingue parli? Sei nato a Londra? Conoscevi Hemingway, davvero? Ora capisco la tua ossessione per quella nave… era vera la storia della luna di miele sull’Orient Express?”
La bottiglia di vino si svuotò, e l’orologio in salotto rintoccò la mezzanotte. Henry rispondeva a tutte le domande con sincerità, come aveva promesso. Jo ascoltava, affascinata. Henry non aveva esagerato: era davvero una lunga storia. Con tutte le sue domande Jo non aveva coperto neanche un quinto della sua vita. Si sarebbero rese necessarie altre cene.
“Beh, non c’è che dire, con te la conversazione non languisce”, osservò Jo verso l’una di notte, dopo che Henry le ebbe raccontato un aneddoto su come il suo vicino di casa si fosse rifugiato da lui dopo che sua moglie gli aveva tirato un vaso in testa.
“Una conversazione presupporrebbe uno scambio equo di informazioni”, la rimproverò Henry scherzosamente, “Qui si è trattato di un interrogatorio vero e proprio”.
“Come il nostro primo caso, dopotutto”, si lasciò sfuggire Jo. Poi, che fosse il vino o l’imbarazzo, si sentì arrossire come una ragazzina.
“Quello in cui mi avevi dato del sociopatico? Ti riferisci a quell’interrogatorio lì?”
Touché. Però sul fatto che fossi l’uomo più strano che avessi mai incontrato ci avevo visto giusto”.
“Se non ricordo male, il termine giusto era raccapricciante”. Henry sorrise, dimostrandole che la stava prendendo in giro, e che era per niente offeso.
Jo, in quell’istante, decise che era il momento di buttarsi. Ebbra di quella serata passata insieme e di tutte le informazioni che aveva ricevuto, nonché dei sentimenti per Henry che aveva appena ammesso con sé stessa di provare, decise di fare il passo decisivo.
“Henry”, disse, sospirando per farsi coraggio, “Tu sei stato completamente sincero con me, e ti ringrazio. Quindi anch’io adesso voglio essere completamente sincera con te”.
“Ti ascolto”, la incoraggiò Henry con un cenno del capo. In uno scatto nervoso, però, raddrizzò la schiena e appoggiò i gomiti sul tavolo. Jo rise tra sé e sé al pensiero che lui avesse ancora paura che lei potesse in qualche modo non credergli.
“Ecco. Ti ricordi di Parigi, no? O meglio, del non-Parigi”, ridacchiò da sola per sdrammatizzare la tensione, “Ti dissi che non volevo andare a Parigi, non con Isaac. Io credo… di essere stata abbastanza esplicita, anche l’altra volta, sul fatto che a Parigi ci volevo andare con te.” Jo si interruppe, aspettandosi una reazione da Henry, ma lui la stava fissando immobile, quindi lei continuò: “Ora, volevo dirti che… insomma… dopo tutto quello che mi hai raccontato, volevo dirti che i miei sentimenti per te non sono cambiati. Anzi, semmai si sono rafforzati. Credo che tu sia una persona straordinaria e… e basta. Sarebbe bello se potessimo essere qualcosa di più”.
Jo sorrise, timida, e si scostò una ciocca di capelli dal viso. Si aspettava che Henry dicesse qualcosa, ma lui era ancora immobile, lo sguardo fisso su di lei. Dopo qualche secondo in cui sentì l’imbarazzo farla arrossire, Jo azzardò:
“Tu non… provi lo stesso per me?”
Ancora qualche secondo di silenzio.
“Sì”, ammise Henry, “Provo lo stesso per te. È proprio questo il problema”.
Il sollievo iniziale di Jo per quel fu subito rimpiazzato dal dubbio.
“In che senso è un problema?”
“Non so come rendere la cosa meno complicata”, Henry si passò una mano sugli occhi in segno di stanchezza, “Quindi continuerò sulla strada della sincerità. Jo, tu sei una persona troppo importante, troppo straordinaria perché sprechi i migliori anni della tua vita con un uomo con cui non potrai avere nessun futuro. Io fra duecento, trecento, mille anni sarò ancora qui, mentre tu hai una vita sola, ed è troppo breve perché tu la sprechi”.
“Tu credi che stare con te sarebbe uno spreco?”, ripeté Jo, incapace di dare un senso a quell’assurdità.
“Ne sono convinto”, rispose Henry, “Perché questi sono gli anni in cui tu dovresti mettere le basi della tua vita, le basi che ti accompagneranno fino alla fine dei tuoi giorni. Trovarti un uomo normale, con cui fare una famiglia e dei figli. Qualcuno… qualcuno come Isaac. Che possa invecchiare al tuo fianco, crescere insieme a te. Con me… non avrai nulla di tutto questo… se non un sacco di problemi. Perché adesso… adesso sembra tutto facile, ma fra dieci, vent’anni, io sarò troppo giovane per stare al tuo fianco, e per te sarà troppo tardi per trovare qualcuno con cui fare una famiglia, una famiglia vera. E per quanto io ti ami, o forse proprio per questo, non posso permettere che tu commetta l’errore più grande della tua vita. Perché io so cosa succederà. L’ho già vissuto, con Abigail. Alla fine lei non ce l’ha più fatta. E non voglio che succeda lo stesso con te.”
Jo, immobile come una statua, aveva sentito un tuffo al cuore quando, in mezzo a tutto quel discorso, aveva udito le parole ti amo. Quelle due semplice parole avevano scacciato via tutto il resto. Sì, aveva capito cosa aveva detto Henry. E sì, capiva il suo ragionamento. Ma come avrebbe mai potuto stare al fianco di chiunque altro, dopo che aveva conosciuto lui?
“Hai ragione”, gli disse, “Hai senz’altro ragione. Ma appunto perché, come hai detto tu, la vita è breve… non voglio sprecarla a viverla a metà. Se questi sono gli anni migliori della mia vita, allora voglio viverli fino in fondo. Come voglio io. Accanto a te.”
“Jo, non sai cosa stai facendo. In che guaio ti stai cacciando”.
“Lo so perfettamente, invece. Non capisco come tu non possa capire che io voglio stare con te.”
“Perché è impossibile”, ed Henry sottolineò quell’impossibile picchiettando un dito sul tavolo, “È impossibile che una persona sana di mente scelga volontariamente di stare al mio fianco sapendo che tipo di vita io ho da offrire.”
“Perché? Non credi che tu ne valga la pena?”
“No, non lo credo”.
Jo rimase a fissarlo con gli occhi spalancati, e si accorse che ad ogni parola che Henry diceva, lo amava ancora di più. Non stava facendo il finto modesto. Era davvero convinto di quello che diceva.
“Sei proprio uno stupido, Henry Morgan”, disse, scuotendo la testa sconsolata, “Per essere così intelligente, sei proprio stupido”. 
“Anche tu sei una stupida, Jo Martinez”, Henry si mise a guardare un punto fisso al di sopra della sua spalla, gli occhi lucidi, “Perché potresti avere chiunque. Sei bella, intelligente, sensibile, forte. Sei una straordinaria detective. Gli uomini farebbero la fila, per te, se solo glielo permettessi…”.
“Henry”, lo interruppe Jo, cercando in tutti i modi un argomento che lo facesse ragionare, “Quando Abigail se n’è andata… l’ha fatto intenzionata a non tornare più? O voleva solo prendersi una pausa? Sii sincero”.
Henry reagì esattamente come Jo sperava: fece quell’espressione che ormai Jo aveva imparato a riconoscere, quella di chi non vuole rispondere perché sa che la risposta sarebbe controproducente.
“No”, disse alla fine, evitando di guardarla in faccia, “Voleva riflettere. E quando l’abbiamo... ritrovata…”, la sua voce in quel momento si spezzò, “Ho trovato tra le sue cose una lettera. Indirizzata a me.”
“E che cosa diceva la lettera?”, chiese Jo gentilmente.
“Che voleva tornare a casa”. Gli occhi di Henry, sempre fissi nel vuoto, erano diventati lucidi.
“Appunto”, disse Jo, “Appunto. Perché anche Abigail aveva capito qual era la cosa importante. Sei tu che ti rifiuti di vedere”.
Questa volta Henry tornò a guardarla in faccia.
“Mi rifiuto di vedere cosa?”
“Che esisti, ma non vivi. Che senso ha essere come sei, se non puoi vivere?”
Henry sospirò, e appoggiò il volto tra le mani.
“Mi sembra di sentir parlare Abe”, sussurrò.
“Abe è una persona saggia. Ha preso da suo padre. Che è saggio su tutto, tranne quando si tratta di sé stesso”.
“Jo, credimi quando ti dico che non si tratta di me”, continuò Henry, “Si tratta di te. Non voglio vederti soffrire, sapendo che sarei io la causa. Non potrei sopportarlo. Ho già seppellito troppe persone.”
“Io sono adulta e vaccinata”, ribatté Jo, alzandosi e aggirando la penisola per raggiungerlo, “Sono responsabile delle mie scelte. Se tu non mi vuoi, allora è una questione, va bene. Ma se mi vuoi, ma mi tieni lontano perché pensi di farmi un favore… allora non va bene. Io sono responsabile della mia vita. Tu non hai il diritto di scegliere anche per me”.
“No, forse non ne ho il diritto”, concesse Henry, voltando lo sgabello verso di lei, “Ma ne ho il dovere. Tu sei così… sei così giovane! Ingenua. Non sai cosa sia il male.”
“Ingenua?”, ripeté Jo, allibita, “Lavoro per la polizia di New York! Vedo cadaveri e criminali ogni giorno. Vedo il male ogni giorno”.
“No, tu vedi il prodotto del male. Il male vero, quello che ti avvelena da dentro… non lo conosci. E spero che non lo conoscerai mai”.
Si alzò e fece per oltrepassarla, in direzione della porta, ma Jo lo afferrò per il braccio e lo trattenne.
“Jo”, disse Henry senza guardarla in faccia, “Se non mi lasci andare, rischio di non trovare la forza per fare quello che è giusto”.
“Cioè correre a casa, fare le valigie e scomparire?”
Henry non disse nulla, e Jo lo prese come una risposta affermativa.
“Anche tu hai il diritto di essere felice”, gli sussurrò, e gli posò una mano sulla guancia, voltandogli il viso verso di lei.
Si guardarono per un lungo istante. Henry sembrava spezzato in due, Jo glielo leggeva negli occhi: da una parte voleva rimanere, dall’altra scappare. Alla fine Henry l’attirò a sé e la baciò.
Per una frazione di secondo, Jo ripensò a Sean, a come i suoi baci fossero dolci e teneri, un’espressione di affetto e supporto. Isaac… Isaac era stato una ventata di eccitazione, qualcosa di nuovo che aveva stuzzicato il suo ego: un milionario con infinite possibilità che corteggiava lei, una semplice funzionaria statale, e la inebriava di rose, champagne e viaggi a sorpresa. Ma baciare Henry era qualcosa di completamente diverso: era dolore e amore allo stato puro, un coltello di cera conficcato nello stomaco.
L’orologio stava rintoccando le due mentre loro, senza mai staccarsi l’una dall’altra, inciampavano sulle scale, diretti al piano superiore.

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Capitolo 3
*** The day after ***


3
The day after
 
Jo sobbalzò, stordita, svegliata dallo squillare e vibrare del telefono. Lo cercò a tentoni senza riuscire ad aprire bene gli occhi, quando si accorse di essere stesa sul letto al contrario. Si girò e riuscì a raggiungere il comodino, dove il suo telefono continuava a squillare. La sveglia segnava le otto e sette minuti.
“Pronto?”, biascicò, con l’unico desiderio di risprofondare nel letto e tornare a dormire.
“Jo, abbiamo un cadavere”, le disse Hanson dall’altra parte del filo, “È emerso nel fiume, poco distante da Brighton Beach. Vieni?”
“Arrivo”, rispose, faticando a mettere a fuoco i suoi pensieri, “Dammi… dammi mezz’ora e arrivo”.
“Va bene. Ti aspetto sulla scena del crimine”. Hanson stava per mettere giù quando aggiunse: “Vuoi che chiami Henry?”
“No!”, Jo rispose con un tono decisamente più alto del necessario, e cercò di correggersi subito: “Voglio dire, lo chiamo io. Lo passo a prendere venendo lì. Ok?”
“Ok. Va tutto bene, Jo? Hai una voce strana”.
“Va tutto benissimo. Ci vediamo tra mezz’ora”. Jo chiuse la telefonata e si voltò dall’altra parte del letto, accorgendosi che era vuota.
Il panico l’assalì. Temette che Henry avesse dato seguito ai suoi propositi e se ne fosse andato. Magari a quest’ora era giù su un aereo, diretto chissà dove, con un documento falso, irrintracciabile…
Poi sentì dei passi sulle scale ed Henry fece capolino sulla porta, tenendo un vassoio in mano.
“Buongiorno, detective”, le sorrise, e posò il vassoio sulle sue ginocchia. C’erano una confezione di ciambelle zuccherate e un enorme caffè fumante.
“Il mio istinto di medico avrebbe voluto portarti un buon thè e una macedonia di frutta, ma date le tue cattive abitudini, e il tuo probabile bisogno di zuccheri, ho optato per la tipica colazione da poliziotto americano”.
“E dove le avresti prese, le ciambelle?” Jo prese riconoscente il caffè caldo tra le mani, sentendosi una stupida per l’attacco di panico di qualche secondo prima.
“Sono uscito a comprarle. Mentre dormivi.”
“Ma non dovevi. Avrai dormito pochissimo”.
“In realtà non ho dormito affatto.”
“Beh, spero che tu sia comunque riposato”, osservò Jo dopo aver bevuto un sorso di caffè, “Perché abbiamo un cadavere che ci aspetta a Brighton Beach”.
“Il modo migliore per iniziare la giornata”, commentò Henry.
“Il modo migliore sarebbe questo” Jo si sporse verso di lui e lo baciò. Lui rispose posandole una mano sul collo, rischiando di rovesciare il caffè che lei teneva in mano.
“Sarà meglio che ti prepari, detective, o arriveremo in ritardo”, sussurrò Henry, e dopo averle dato un altro bacio si allontanò.
“A proposito, ho detto a Hanson che ti sarei passata a prendere io”, disse Jo, “Così non sembrerà strano, se arriviamo insieme”.
“Mi sembra una scusa logica”.  Henry svanì oltre la porta e Jo si costrinse ad alzarsi, farsi una doccia e vestirsi. Mangiò una ciambella e finì il caffè. Quando scese, Henry era seduto in cucina, con una tazza di thè in mano.
“E dove lo hai trovato, quel thè? Non ne ho in casa”.
“L’ho comprato insieme alle ciambelle”, spiegò lui semplicemente.
“E hai anche lavato i piatti”, aggiunse Jo, accorgendosi che il lavello era vuoto, “Ma non dovevi.”
“Ma come, dopo che avevi passato così tanto tempo a cucinare, mi sembrava il minimo” Le fece l’occhiolino e Jo sorrise.
“Allora… pronto per un’altra giornata di lavoro, dottor Morgan?”
“Prontissimo, detective Martinez. Se vedi che mi sto per addormentare, dammi un calcio”.
 
“Jo, sicura che va tutto bene?”, le chiese per l’ennesima volta Hanson.
“Sì, certo. Perché?” Jo nascose il rossore voltandosi dall’altro lato.
“Hai un’aria strana. Sembra quasi che hai la febbre”.
Jo colse un guizzo nell’espressione di Henry e si rammentò mentalmente di dargli una gomitata, non appena nessuno l’avesse vista. Si concentrò sul cadavere che Henry stava esaminando.
“Causa del decesso?”, chiese, cercando di mantenere un tono il più normale possibile.
“A prima vista ti direi la pallottola”, rispose Henry, inginocchiandosi di fianco alla testa del corpo, “Ma dal gonfiore della gola e dal colore delle labbra sembra che fosse ancora vivo quando l’hanno gettato in acqua. Quindi probabilmente la vera causa della morte è l’annegamento”.
“Di certo la pallottola non l’ha aiutato”, osservò Hanson, picchiettando la penna sul suo taccuino.
“Appena siamo in laboratorio inizio con l’autopsia”, Henry si alzò e iniziò il viavai di tecnici e fotografi intorno al cadavere. Hanson e Jo raccolsero le testimonianze dei presenti prima che Hanson prendesse la propria macchina per tornare al distretto.
Jo ed Henry si misero in viaggio sulla macchina di Jo.
“Se hai la febbre, detective, posso darti un’aspirina”, scherzò Henry mentre erano fermi in coda a un semaforo.
“Ah ah”, Jo avrebbe voluto arrabbiarsi per quella battuta ma invece si ritrovò a ridere, “Non tutti hanno la tua esperienza decennale nella dissimulazione.”
“Oserei dire centenaria”, la corresse lui, poi il suo tono si fece serio: “Sono serio adesso, però. A parte la mia… chiamiamola condizione, che deve rimanere segreta e su questo credo non ci sia bisogno di discutere… per quanto riguarda il resto, lo vuoi tenere nascosto?”
“Per resto intendi relazione?” Anche Jo si fece seria anche se sentì uno strano groppo allo stomaco a pronunciare la parola relazione, “Sì, se sei d’accordo. Voglio dire, è la cosa migliore. Non credo che il dipartimento incoraggi le relazioni tra colleghi, e noi lavoriamo troppo bene insieme per rischiare che ci trasferiscano in due dipartimenti diversi. E poi… siamo appena agli inizi. Magari più avanti potremmo dirlo al capitano, ma solo dopo averle dimostrato che il nostro rapporto non influisce in nessun modo sul nostro lavoro.”
“Mi sembra un piano logico”, assentì Henry, “Io non ho problemi a tenere nascoste le cose, come ben sai. Mi preoccupavo più che altro per te. Non vorrei che ti sentissi… a disagio, a mentire ai tuoi colleghi.”
“Beh, non è che tengo nascosto qualcosa di grave. Prendiamola come un’applicazione molto severa della legge sulla privacy”.
“Come vuoi, detective”.
Henry si mise ad osservare il traffico e Jo si ritrovò a riflettere sul futuro che li attendeva. Henry aveva ragione, in effetti poteva trovarsi a disagio a mentire ai suoi colleghi. Si conosceva troppo bene per mentire a sé stessa. Magari potevano dirlo a Hanson e Lucas. Cominciare a smuovere le acque con discrezione. Però Lucas non era proprio un modello di discrezione…
“Potremmo accennare la cosa almeno a Lucas… e Hanson”, le disse Henry all’improvviso.
Jo sorrise.
“Henry, ma come diavolo fai a sapere sempre quello che sto pensando? Ero appena arrivata alla tua stessa conclusione. Però Lucas…”
“… non è certo una botte di ferro, in caso di segreti, ma credo che in questo caso sarà felice di stare al gioco”, completò Henry.
“Credo di sì. Anzi, lui sarebbe felice, me lo ha detto”.
Henry la fissò con uno sguardo stupito.
“Ti ha detto cosa? Quando?”
“Quando sei…” Jo si interruppe, rendendosi conto che il caso della scomparsa dell’infermiera, che stava per nominare, non era nient’altro che il caso della scomparsa di sua moglie. Si morse un labbro, imbarazzata. Era il caso di sollevare l’argomento in quel momento? Ora si rendeva perfettamente conto della sua ossessione per quel caso. Scoprire e fare l’autopsia del cadavere della propria moglie… Jo raggelò, colpita da un altro ricordo che fino a quel momento aveva sepolto: l’infermiera Sylvia, alias Abigail, era morta perché si era tagliata la gola. Abigail si era suicidata. Per quale motivo? Henry non le aveva detto che lei gli aveva scritto che voleva tornare a casa?
“Quando sono cosa?”, la incitò Henry, e Jo rispose cautamente, cercando di nominare Abigail il meno possibile:
“Quando sei andato con Abe alla ricerca di sua madre. Era il giorno subito dopo la mia… insomma, il giorno dopo il mancato viaggio a Parigi. Ti ho cercato per mettere in chiaro le cose, e Lucas sul momento si era rifiutato di dirmi il motivo per cui non c’eri, e allora mi sono un attimo preoccupata, pensavo che te ne fossi andato per causa mia, e Lucas in quel momento mi ha chiesto se per caso io e te… se, insomma, c’era qualcosa tra noi due”.
“E tu?”
“Ho risposto di no, ovviamente, e lui mi ha detto che era un peccato, perché saremmo stati senza dubbio la sua coppia preferita. Insomma, hai capito no? Una delle classiche uscite di Lucas”.
Jo si concentrò sulla guida, ma non riusciva a smettere di pensare ad Abigail. Sperò che Henry non si accorgesse della sua curiosità.
“Jo”, erano quasi ormai arrivati al distretto, “Se stai pensando quello che io credo tu stia pensando, ti risparmio la fatica e la pena del chiedermelo. Abigail si è suicidata per causa mia”.
Jo quasi inchiodò per fermarsi a un semaforo rosso.
“In che senso, per causa tua?”
“Per proteggermi”, spiegò lui, voltando la testa verso il finestrino perché lei non lo vedesse in faccia, “Ti ricordi che il giudice e la sua ragazza avevano investito un motociclista? Quel motociclista era Adam. Era ridotto malissimo, ma sarebbe sopravvissuto, cosa che ovviamente lui non voleva. Così in un momento di disperazione chiese all’infermiera di ucciderlo, perché tanto sarebbe tornato come nuovo. E incredibilmente l’infermiera gli credette. È stato così che lui ha capito che dovevano essercene altri. Dopo essere morto, è tornato a cercare Abigail, perché voleva sapere il nome dell’altro… dell’altro immortale. Lei si è rifiutata. Lui l’ha costretta a salire in macchina e lei è volontariamente uscita di strada. Ma non è servito. Adam era ancora vivo e l’ha minacciata. Così lei si è uccisa per non rivelare il mio nome.”
Jo parcheggiò la macchina davanti al distretto, raggelata. Pensava di aver già sentito tutto quanto di tragico potesse essere successo nella vita di Henry (cosa poteva esserci peggio di Nora?), ma a quanto pareva si era sbagliata.
“Non è stata colpa tua”, riuscì a dire dopo alcuni secondi di silenzio, “È stata colpa di Adam.”
“Sì che è stata colpa mia”, ribatté Henry, sempre rifiutandosi di guardarla, “Se non ci fossimo mai incontrati… niente di tutto questo sarebbe successo. Potrebbe essere ancora viva, ora”.
“Sei ingiusto, Henry”, ribatté Jo con foga, consapevole di dove Henry volesse andare a parare, “Non puoi ragionare così! Abigail ha avuto una vita felice. Ne sono certa. Ti ha scelto consapevolmente e avete avuto una famiglia felice, insieme. Se non ci fossi stato tu probabilmente non ci sarebbe stato neanche Abe. Che ne sai? Sarebbe potuta morire in qualsiasi altro modo, in qualsiasi altro momento. E se stai cercando di allontanarmi, con questo discorso, sappi che stai ottenendo l’effetto contrario.”
Jo si slacciò la cintura di sicurezza e scese dalla macchina sbattendo un po’ troppo forte la portiera.
“Andiamo”, lo incitò, “Abbiamo del lavoro da fare”.
 
Alla fine della giornata, Jo entrò in laboratorio, decisa a rintracciare Henry prima che tornasse a casa. Lucas era al suo tavolo con addosso un paio di cuffie. Lei si diresse decisa verso Henry, seduto alla scrivania nel suo ufficio, tenendo in mano un finto rapporto che aveva pronto come scusa.
“Ehi”, lo salutò, quando lui alzò lo sguardo verso di lei.
“Ehi”, rispose lui con un sorriso tiepido.
“Ascolta, Henry”, iniziò Jo finché era fresca dei buoni propositi maturati durante il giorno, “Mi dispiace per oggi. So che sono incredibilmente impicciona…”
“No, Jo, scusa tu”, la interruppe Henry, “Ma quando si tratta di Abigail… non riesco a liberarmi del senso di colpa. Forse tra un paio di secoli… ma sono passati solo trent’anni. È una ferita ancora troppo recente.”
Jo pensò a come era cambiato il modo di Henry di parlarle da quando aveva scoperto la verità su di lui. Faceva riferimento a sé stesso e al suo segreto in un modo così spontaneo che sembrava che lei ne fosse stata a conoscenza da anni.
“Mi devo ancora abituare alla tua concezione del tempo, dottor Morgan” Jo cercò di sdrammatizzare, “Per il resto degli esseri umani trent’anni sono una bella dose di tempo”.
Henry sorrise e sospirò.
“Lo so, Jo, te l’ho detto che sono un caso complicato. Tra parentesi, c’è Lucas che ci fissa”, aggiunse con uno sguardo rivolto oltre il vetro dell’ufficio.
“Ancora dell’idea di dirlo a lui e Hanson?”
“La decisione la lascio a te, Jo. Come ti ho già detto, io non ho problemi a mentire.”
Jo rifletté per qualche secondo.
“Glielo diremo”, concluse, “Ma fra un po’, non subito”.
“Come desideri”.
Jo fece per uscire, ma sulla porta di voltò.
“Certo sarebbe divertente, baciarci mentre Lucas ci guarda.”
“Sarebbe divertente se tu avessi una telecamera in mano”, disse Henry, “E riprendessi la sua faccia.”
“Potremmo anche farlo… più avanti”, rise Jo, ed evitando lo sguardo indagatore di Lucas attraversò il laboratorio e uscì.
 
Arrivata a casa, Jo si pentì di non aver chiesto a Henry di passare. O forse stava correndo troppo? In camera da letto si cambiò, indossando i pantaloni della tuta e una t-shirt della polizia. Poi scese in cucina e pensando con nostalgia alla cena della sera prima mise un piatto di noodles pronti nel microonde. In quel momento suonarono alla porta.
Jo sentì il cuore fare un sobbalzo. Quando aprì la porta, Henry era sulla soglia, con un sacchetto della spesa in mano.
“Non potevo sopportare l’idea che tu stessi mangiando del cibo riscaldato al microonde”, disse lui con un sorriso, mostrandole il sacchetto.
“Non lo stavo facendo”, mentì lei. Un secondo dopo il bip del microonde risuonò, traditore, in tutta la cucina, fino all’ingresso. Jo non disse nulla e si fece semplicemente da parte per lasciarlo passare.
“No, infatti”, disse Henry, e posò il sacchetto sul bancone della cucina, “Ti avevo detto che avrei cucinato io, no? Tu mettiti comoda.”
Jo ubbidì, e si sedette a osservarlo mentre si muoveva con sicurezza nella sua cucina come se conoscesse esattamente dove si trovavano tutte le stoviglie.
“Ma che hai fatto, hai studiato una mappa della cucina, stanotte?”, lo prese in giro Jo.
“Ho una buona memoria”, rispose lui, “È necessario quando cresci in un posto dove non c’è nessun calcolatore a ricordarsi le cose al posto tuo”.
Jo meditò di ricominciare a fare domande. Picchiettò pensosa un dito sul proprio ginocchio, pentendosi di essersi cambiata e messa in tuta, e subito dopo pentendosi di farsi prendere da simili pensieri adolescenziali. Cercò di buttarla sul ridere:
“Mi è permesso continuare l’interrogatorio?”
“Oh, oggi mi chiedi anche il permesso? Gentile da parte tua.” Henry le pose davanti un piatto di carne profumata e un bicchiere di vino.
“Facciamo così”, le propose, “Se la cena non ti piace, ti autorizzo a farmi domande”.
“Non mi sembra una proposta conveniente”, osservò Jo, “Sono certa che la cena sarà ottima, quindi se accetto mi frego da sola.” A dimostrazione di ciò, assaggiò un boccone, e come pensava, era buonissimo. “Facciamo che ti faccio domande quando voglio e come voglio e risolviamo il problema”.
“Ho almeno la facoltà di non rispondere?”
“Concessa. Ma solo se domattina mi porti altre ciambelle”.
Henry si sedette di fronte a lei e le lanciò uno dei suoi sguardi che vedevano tutto.
“Se ti dicessi che le ho già comprate?”
Jo sorrise e rispose al suo sguardo.
“Direi che hai fatto una scelta saggia”.
 
 “Come mai tu e tuo padre non andavate d’accordo?”, chiese Jo mentre facevano colazione insieme in cucina.
Henry ci pensò su per un po’, masticando lentamente una fetta di pane tostato.
“Erano tante cose tutte assieme”, rispose alla fine, “Lui era molto… conservatore. Ma le cose peggiorarono quando morì mia madre. Lei era… lei era in gamba. Una persona tosta, nonostante tutto. Era l’unica che riuscisse a tenerlo a bada. Quando morì, lui divenne intrattabile. Si faceva come si diceva lui, altrimenti…”
“Altrimenti?”
“Altrimenti frustate. A volte ci sono andato vicino, ma me la sono sempre cavata.”
Jo fece una smorfia, cercando di immaginare un qualsiasi motivo per cui Henry dovesse venire frustato per punizione, ma non riuscì a trovarne neanche uno.
“Mi viene difficile immaginare una cosa del genere. Non riesco proprio a vederti fare qualcosa di scorretto…”
“Una volta ne ho combinata una grossa. In quel caso, le frustate me le sarei meritate. Però quella volta mio padre reagì quasi in maniera… mite. Forse, in fondo, si era divertito anche lui.”
“Di che stai parlando? Che hai fatto?”
“Uno scherzo. Uno scherzo stupido e inutilmente rischioso. Ma avevo sedici anni e mia madre era morta un paio di anni prima, e mio padre era intrattabile. Avevo fatto amicizia con una ragazza della servitù. Si chiamava Elizabeth. Era una ragazza intelligente ma non sapeva né leggere né scrivere. All’inizio volevo solo darle una mano… le prestai qualche libro e le insegnai a leggere. Di nascosto, ovviamente. Se l’avessero trovata che famigliarizzava con me sarebbe finita nei guai. Poi… non mi ricordo nemmeno di chi dei due fu l’idea… probabilmente mia… la feci passare per mia cugina e la portai a teatro.”
Jo aspettò, credendo che il nocciolo della storia dovesse ancora arrivare, ma Henry la squadrava come aspettandosi una sua reazione.
“Beh… tutto qui?”
Henry scoppiò a ridere.
“Oh, Jo”, sospirò come se dovesse spiegare a un bambino che due più due fa quattro, “All’epoca portare una serva a teatro, spacciandola per una di rango, era una cosa che ti poteva costare una bella punizione, sai? Se non peggio. Ci siamo preparati per quella sera per una settimana. Le avevo insegnato qualche parola di francese, come fare le riverenze, come sedersi, come fare cenni con il capo. Trafugammo un vestito di mia madre. Ci inventammo pure un titolo: lady Elizabeth di Smallwood.” Fece una pausa, perso nei ricordi. “Li abbiamo ingannati tutti. Elizabeth… si è divertita come una pazza. Quando siamo usciti da teatro mi stringeva il braccio per trattenersi dal ridere. Una volta sulla carrozza ha riso così tanto che si è messa a piangere. E aveva pure conquistato il cuore del giovane Thomas, figlio di Rawson Collins, acerrimo concorrente dei Morgan nel commercio della seta. Credo sia stato questo a salvarci da una bruttissima punizione. Mio padre deve essersi divertito un sacco al pensiero che Thomas avesse chiesto a Elizabeth di partecipare al ballo dei Collins e si fosse pure riservato con lei il cotillon”.
Jo sorrise, anche se doveva ammettere che non aveva capito tutto quanto Henry le aveva raccontato. Che cosa diavolo era un cotillon? Il suo sguardo, come al solito, doveva essere stato traditore, perché Henry spiegò:
“È un ballo. Di solito alla fine della serata, e si riserva alla persona a cui tieni di più, o con cui hai più interesse a ballare”.
“E come avete fatto dopo, a non essere smascherati?”
“Mio padre, stranamente, ci ha coperti. Ha sparso la voce che nostra cugina, la fantomatica lady Smallwood, era stata improvvisamente richiamata a casa, in Scozia. Il povero Thomas deve esserci rimasto malissimo. Rawson doveva già avere iniziato a studiare gli alberi genealogici, per capire se ammogliando Thomas con Elizabeth sarebbe riuscito a guadagnarsi una fetta della società dei Morgan. Immagino che mio padre abbia tratto una buona dose di divertimento, a reggerci il gioco”.
Jo sorseggiò un sorso di caffè, cercando di immaginarsi un giovane Henry che si divertiva a ingannare una folla di persone. Sì, in un certo senso, riusciva a farsene un’idea.
“Riuscirò mai a conoscere tutta la storia della tua vita?”, disse a un certo punto, mentre riponeva le tazze sporche nel lavandino.
“Se avrai abbastanza pazienza, Jo, forse in un anno o due potrei riuscire a raccontarti tutto”. Le porse il braccio con fare teatrale, e ridendo uscirono insieme di casa.
 
“Un altro cadavere da Brighton Beach?”, chiese Lucas, “Ne stiamo facendo una collezione, per caso?”
“A quanto pare”, rispose Henry, osservando il cadavere steso sul tavolo d’acciaio: il modus operandi sembrava lo stesso dell’altro caso, cioè un colpo di pistola, e poi annegamento.
Cominciò con l’autopsia, mentre Lucas lo assisteva raccontandogli l’ultimo episodio di un telefilm horror di cui si era recentemente invaghito. A un certo punto, però, mentre stava aprendo lo stomaco in due, il bisturi di Henry incontrò una strana resistenza.
“Ma che…?”, borbottò, chinandosi in avanti, “Lucas, sposta quella luce”.
Lucas obbedì e il fascio di luce illuminò una strana protuberanza lucida e viscida, ricoperta di sangue. Henry l’afferrò e l’estrasse dallo stomaco.
“Porca miseria!”, esclamò Lucas, “Ma è un sacchetto di droga!”
“Sarà almeno un chilo”, soppesò Henry, cercando di ripulire la plastica dal sangue per vedere meglio all’interno, “Chiama subito Jo e dille di venire giù…”
Lucas si voltò per dirigersi verso il telefono ed Henry ripose attentamente il sacchetto in una scatola da reperti. Non che si aspettasse di trovarci delle impronte, ma doveva comunque tentare.
“Lucas…?”, chiamò a un certo punto, dopo parecchi secondi di silenzio, in cui si aspettava di sentire la telefonata di Lucas.
“Henry…”, lo sentì rispondere, il tono strozzato e palesemente spaventato.
Henry si girò e si trovò la canna di una pistola puntata contro.
Un uomo massiccio, bianco, pelato, jeans sgualciti e giacca di pelle e sguardo poco rassicurante prese la mira prima contro Lucas e poi di nuovo verso di lui.
“Dammi il sacchetto”, disse con un forte accento russo.
Henry non rispose immediatamente. Valutò velocemente la situazione: nell’obitorio non c’erano telecamere, se non all’ingresso. Il tizio non si era premurato di nascondersi il viso, quindi era improbabile che li lasciasse vivere, con il rischio di essere identificato in seguito. Probabilmente era arrivato fino al laboratorio di medicina legale spacciandosi per un fattorino e nascondendo il viso alle telecamere. In fondo, non c’era molta sorveglianza in quella parte dell’edificio. Chi mai vorrebbe rubare un cadavere?
Lucas stava guardando la pistola, terrorizzato. Henry si accorse di essere in ansia per lui. Non gli importava che quell’uomo sparasse a lui, ovviamente, ma se avesse colpito Lucas… era così giovane, un bravo ragazzo, nonostante le sue stramberie. E aveva ancora un futuro davanti a sé.
“Il sacchetto è in quel contenitore”, rispose lentamente Henry, spostandosi di un passo per avvicinarsi a Lucas, “Sul tavolo, alle mie spalle”.
Per raggiungere quel contenitore Henry doveva spostarsi, e l’uomo armato doveva muoversi in avanti. C’era il cinquanta per cento di possibilità che l’uomo chiedesse a Henry di prendere il sacchetto, nel qual caso il piano di Henry di posizionarsi tra la pistola e Lucas sarebbe fallito prima di cominciare. Henry però fu fortunato. Forse l’uomo temeva che lui potesse armarsi di qualcosa se si fosse avvicinato al tavolo. Gli fece cenno di scostarsi e Henry ne approfittò per posizionarsi davanti a Lucas. Con il pretesto di spingerlo dietro di sé, Henry fece scivolare velocemente la mano nella tasca del camice di Lucas, dove sapeva che lui teneva il cellulare. In quei preziosi secondi in cui l’uomo maneggiò con il contenitore per aprirlo, Henry digitò alla cieca il numero di Jo e fece partire la telefonata, poi rifece cadere il cellulare nella tasca di Lucas. Lucas forse non se n’era nemmeno accorto. Era pietrificato.
Spaziba”, disse l’uomo, con una smorfia che non lasciava presagire nulla di buono. Henry si preparò al colpo, sperando che il primo sparo e la chiamata inoltrata a Jo attirassero i rinforzi prima che l’uomo avesse il tempo di sparare anche a Lucas. Se l’assalitore gli avesse sparato al petto, avrebbe potuto fare da scudo a Lucas ancora per qualche prezioso secondo. Ma se gli avesse sparato alla testa, sarebbe crollato immediatamente a terra, lasciandolo scoperto. Ancora una volta, aveva il cinquanta per cento di possibilità.
Ti prego, fa che Lucas si salvi, pregò silenziosamente, anche se non credeva in Dio, Jo, sbrigati, ti prego
Bang.
Gli aveva sparato al petto. Henry ne aveva subite così tante, di ferite, che riuscì a stringere i denti e restare in piedi, nonostante il dolore. Si spinse contro Lucas cercando di spingerlo verso l’uscita, mentre l’uomo, per nulla soddisfatto del fatto che lui non fosse crollato dopo il primo colpo, faceva di nuovo fuoco.
Bang.
Questa volta Henry non rispondeva più del proprio corpo e vide il pavimento lucido del laboratorio brillare a pochi centimetri dai propri occhi. Doveva essere caduto a terra. Probabilmente sarebbe morto nel giro di pochi secondi.
“Henry!”, sentì gridare, ma non riuscì a distinguere la voce: era stata Jo o Lucas a gridare? I suoi pensieri si fusero in un vortice irriconoscibile di nero e grigio, e poi, un istante dopo, si ritrovò ad annaspare nell’acqua.
 
Lucas aveva sempre avuto una passione per i supereroi. E per le armi. Per i combattimenti. Quante volte aveva sognato di essere una superspia, un artificiere che disinnescava una bomba su un treno in corsa, un agente segreto che si buttava con il paracadute da un aereo in picchiata? Eppure, tutte le sue fantasie erano andate in fumo quando si era ritrovato quella canna di pistola puntata contro. Si era sentito gelare dentro. In quel momento la sua vita era in pericolo. In vero pericolo, non in quel pericolo fittizio di cui lui si immaginava il protagonista. E lui non aveva la più pallida idea di cosa fare.
“Sul tavolo, alle mie spalle”, stava dicendo Henry.
Come in un sogno, in cui gli avvenimenti si susseguono senza averne piena consapevolezza, vide Henry posizionarsi davanti a lui. Lucas avrebbe voluto fare o dire qualcosa, ma aveva la mente completamente svuotata. Henry sembrava calmo. Come faceva a essere così calmo?
Spaziba”. Lucas non capiva, il suo cervello stava lavorando al rallentatore, ma il suo corpo percepì il pericolo e sentì i peli rizzarsi sulle sue braccia.
Bang.
Lucas aprì la bocca per gridare ma non ne uscì alcun suono. Percepì il corpo di Henry, davanti a lui, che sussultava. Era stato colpito? Ma era ancora in piedi, no, forse il tipo aveva sbagliato mira, aveva… Henry non poteva essere stato colpito… non stava succedendo davvero…
Bang.
Sentì un gemito trattenuto da parte di Henry e poi lo vide crollare a terra. Lucas guardò a terra, incapace di mettere a fuoco. Henry… non poteva essere vero… era a terra… scorse del rosso sul pavimento… Lucas alzò lo sguardo e vide la pistola puntata verso di sé.
Bang.
Lucas rimase immobile per un lungo, interminabile istante, in cui si aspettò che arrivasse il dolore. E invece, non arrivò nulla. L’uomo con la pistola, invece, crollò. Solo allora Lucas scorse Jo avanzare con la pistola in mano, girare circospetta attorno ai tavoli dell’autopsia, continuare a tenere sotto tiro l’uomo a terra e intanto gettare un’occhiata a lui e Henry.
“Henry!”, si lasciò sfuggire a quel punto Lucas, come se la presenza di Jo lo avesse sbloccato dal suo stato pietrificato, “Henry! Henry!”
Si chinò su di lui e la vista del sangue che gli sgorgava dal petto lo pietrificò di nuovo.
“Jo!”, urlò, “Jo, chiama qualcuno! Jo!”
Perché Jo non si muoveva? Jo lanciò uno sguardo verso l’ingresso del laboratorio, da cui risuonavano dei passi e delle grida. Poi guardò velocemente Henry, e Lucas. Alla fine disse, con tono fermo ma urgente:
“Lucas, ascoltami bene. Henry non era qui. Mi hai capito? Appena gli altri arriveranno, dovrai dire che eri da solo, qui in laboratorio.”
“Ma che stai dicendo?”, ribatté Lucas con tono disperato, “Jo, devi chiamare un’ambulanza! Presto!”
“No, Lucas”, Jo lo afferrò per il braccio e lo fissò dritto negli occhi, “Non c’è tempo, mi capisci? Devi ascoltarmi. Quello che vedrai ora non è mai successo. Dovrai mentire, e dire che Henry non era qua con te. Dovrai dire che era uscito, mi hai capito bene?”
No, Lucas non aveva capito. Stava per replicare, quando un fascio di luce improvvisa quasi lo accecò. Anche Jo sussultò, ma mantenne saldamente la presa sul suo braccio, come per impedirgli di parlare. La luce svanì, e Lucas si voltò verso il corpo di Henr… immobile, Lucas si ritrovò a bocca aperta, a fissare il pavimento… vuoto. C’era una macchia di sangue sul pavimento, ma per il resto… Henry… non c’era più.
“Lucas!!”, lo richiamò Jo con urgenza, “Il tizio è entrato, tu sei riuscito a chiamarmi, sono arrivata in tempo prima che ti sparasse. Ok? Mi hai capito? Henry non era qui.”
Lucas annuì, come in trance. Jo afferrò un sacco da cadavere e lo gettò in malo modo sulla macchia di sangue sul pavimento. In quel momento Hanson, il capitano e altri cinque agenti fecero irruzione nel laboratorio.
“Che cazzo è successo?”, esclamò Hanson, la pistola sfoderata. Guardò Lucas, pallido e imbambolato, Jo, affannata e con un’espressione grave in volto, il tizio a terra, con la pistola in una mano e il sacchetto di droga nell’altra.
“Questo tizio si è introdotto nel laboratorio e ha cercato di sparare a Lucas”, spiegò Jo lanciando continue occhiate allarmate a Lucas.
“Da dove è spuntato quel sacchetto di droga?”, chiese il capitano chinandosi sul corpo dell’assalitore.
“Io e Henry stavamo facendo l’autopsia e…”, cominciò Lucas, poi si interruppe davanti all’espressione di Jo, che sembrava urlargli silenziosamente: Henry non era qui!
“…. Poi Henry ha ricevuta una telefonata da… Abe. Da Abe. Un’emergenza, non so… è dovuto uscire, e mi ha detto di terminare l’autopsia”. Lucas deglutì, sudando copiosamente a ogni parola falsa che diceva, “… e allora ho aperto lo stomaco, e ho visto il sacchetto di droga. Stavo per chiamare Jo quando il tizio è comparso e mi ha… mi ha minacciato, voleva il sacchetto. Allora io gli ho indicato il sacchetto e… poi mi stava per sparare ma… Jo è arrivata in tempo”, concluse Lucas con un sospiro nervoso.
“Ma come hai fatto, Jo, a capire che c’era qualcosa che non andava?”, chiese Hanson confuso.
“Lucas ha fatto partire una telefonata dal cellulare. Vero, Lucas?”, Jo gli lanciò un’occhiata eloquente, “Sei stato bravissimo”.
“Sì, io, ecco…”, Lucas balbettò e arrossì, “Lui si era girato e… ne ho approfittato…”
“Sei stato in gamba, Lucas”, Hanson gli diede una pacca sulla spalla a mo’ di incoraggiamento.
“Richiamate subito Henry”, ordinò il capitano scrutando l’ambiente con occhi indagatori, “Che scopra chi è quel tizio con la droga nello stomaco. Jo, occupati tu del resto. Lucas, tu puoi andare a casa. Te lo meriti.”
“No!”, esclamò Lucas arrossendo, “Io… io resto. Voglio aspettare… Henry.” Detto questo guardò Jo, come a chiederle conferma, lei che sembrava sapere cose di cui lui era all’oscuro, del fatto che Henry sarebbe tornato. Jo lo rassicurò con un cenno del capo.
Un quarto d’ora dopo, dopo che il cadavere dell’assalitore era stato spostato, e dopo che Jo e Lucas erano riusciti miracolosamente a far sparire la macchia di sangue senza che nessuno se ne accorgesse, Henry fece il suo ingresso in laboratorio. Si era vestito il più possibile in maniera simile a prima, nascondendo le differenze sotto il camice, e aveva assunto una falsa espressione di sorpresa. Jo notò che aveva ancora le punte dei capelli bagnate.
“Lucas! Stai bene?”, gli chiese, “Ho saputo cosa è successo”. Gli ultimi due tecnici rimasti in laboratorio stavano uscendo in quel momento.  
“Henry…?”, balbettò Lucas, sbattendo più volte le palpebre, “Henry, sei tu?”
Appurato che non c’era nessun altro nelle vicinanze, Henry abbandonò il suo atteggiamento faccio-finta-di-niente e si rivolse a Lucas con espressione serissima.
“Lucas”, gli pose una mano sulla spalla come per porre maggiore incisione sulle sue parole, “Quello che hai visto, non lo devi dire a nessuno, capito? A nessuno”.
“Io non… io non so nemmeno che cosa ho visto”, replicò Lucas.
“È una lunga storia”, intervenne Jo, con un occhiolino a beneficio di Henry.
“Ma…. Ma sei davvero tu?”, chiese di nuovo Lucas, “Ma le ferite? Le pallottole?”
Henry aprì il camice e scostò leggermente la camicia, per fargli vedere che era tutto intero. Lucas lo fissava a occhi spalancati.
“Questa cosa, qualunque cosa sia...”, balbettò, “È la cosa più straordinaria che abbia mai visto in tutta la mia vita.” Poi, con una specie di esclamazione borbottata (Gesù Cristo!), Lucas lo abbracciò.
Henry sospirò impercettibilmente di sollievo, Jo anche. Henry non riusciva a credere che dal totale anonimato in cui aveva vissuto per anni, ora ben due persone erano a conoscenza della sua condizione. O almeno, una persona e mezza, dal momento che Lucas non sapeva ancora nulla.
“Lucas… va bene, Lucas, grazie.” Henry lo allontanò, imbarazzato, “Ti spiegherò tutto, però non qui, ok? Passa stasera in negozio, dopo il lavoro”.
“Va bene”, Lucas annuì senza esitare, “Non sai che sollievo vedere che stai bene. Gesù Cristo, sono morto di paura”.  
Henry quasi indietreggiò, di fronte a tutta quella manifestazione di affetto a cui non era abituato. Jo sorrise, commossa.
“Vedrai, Lucas”, gli disse con una pacca sulla spalla, “Sarà la cosa più incredibile della tua vita”.
 
“Gesù Cristo”, continuava a borbottare Lucas, camminando avanti e indietro nel salotto di Henry. Henry e Jo erano seduti sul divano, nello stesso punto in cui Jo aveva sfogliato il famoso album dei ricordi di Henry. Abe era seduto in poltrona. Lucas si era rifiutato di sedersi, e non faceva altro che percorrere a grandi passi la stanza, a volte accennando un saltello per l’entusiasmo. Aveva sfogliato l’album, aveva ascoltato con stupore crescente le parole di Henry, aveva lanciato occhiate esterrefatte a Jo, che annuiva inconsciamente a conferma di quanto detto. Inutile dire che Lucas gli aveva creduto immediatamente, sia per aver assistito dal vivo alla sua scomparsa, sia perché la sua mente piena di fantasia non poteva desiderare storia migliore.
“E tu come lo hai scoperto, Jo? È morto durante una delle vostre indagini?”, chiese Lucas a un certo punto.
“Non proprio. Ho trovato una sua vecchia fotografia”, rispose Jo lanciando un’occhiata interrogativa a Henry, chiedendogli tacitamente il permesso di affrontare la questione Adam. Henry fece un cenno del capo e prese lui in mano il discorso.
“Questa era solo l’introduzione”, disse, “C’è ancora tantissimo da dire, ma ti farò un riassunto”.
Raccontò allora delle persecuzioni di Adam, del tentativo di Henry di fermarlo dandogli il pugnale, dello scontro in metropolitana, della scoperta di Jo.
“Ora capisco la tua ansia per quel pugnale”, annuì Lucas, pensieroso, “E anche perché eri così preso da quel cadavere che abbiamo trovato sulla nave. Voglio dire, è affascinante l’idea di risolvere un omicidio vecchio di due secoli, ma mi sembrava troppo anche per te”.
“Da che pulpito, Lucas”, lo rimproverò Henry scherzosamente, “Proprio tu che ogni tanto ti metti a blaterare di assassini zombie o di guerrieri ninja”.
Jo rise, Lucas incassò il colpo con un sorriso. Poi chiese ancora, rivolto ad Abe:
“E tu, Abe? Tu come lo hai scoperto, da quanto lo sai?”
La questione della paternità di Henry non era ancora spuntata fuori, e Abe ed Henry si lanciarono una delle loro occhiate complici.
“Beh, diciamo che conosco Henry da sempre, quindi era inevitabile che mi accorgessi di qualcosa”, rispose diplomaticamente Abe, poi sembrò riflettere su quale fosse il modo migliore di rivelare la cosa. “Lucas, tu lo sai qual è il mio nome? Voglio dire il mio nome per intero?”
“Abe…”, partì Lucas, ma poi si bloccò, riflettendo, “No, in effetti non lo so. Abe per cosa sta?”
Abe non disse nulla ed estrasse il portafoglio dalla tasca dei pantaloni, allungando poi a Lucas il proprio passaporto.
Lucas lo aprì e lesse ad alta voce:
“Abraham Morg…”, si interruppe, rileggendo il cognome, “Morgan? Cioè, voi due siete parenti?” Il suo sguardo li scrutò velocemente. “Abe!! Non sarai mica il padre di Henry?”
Abe si lasciò sfuggire una risata, imitato da Jo, ed Henry alzò gli occhi al cielo.
“Lucas, se ti ho detto che sono morto più di duecento anni fa, com’è possibile che Abe sia mio padre?”
“Ah già”. Lucas si grattò il collo, imbarazzato. Poi uno sguardo di comprensione gli illuminò il viso. “Aspettate… aspettate un attimo…non sarà mica il contrario? Cioè… Henry, tu sei il padre di Abe??”
“Bravo, Lucas, ci sei arrivato”, confermò Henry con un cenno.
“Gesù Cristo”. Lucas riprese la sua camminata avanti e indietro. “Abe, quindi quando sei venuto da me a chiedermi aiuto per ritrovare tua madre, in realtà stavi indagando su…”
“… su mia moglie”, completò Henry senza riuscire a nascondere una nota di dolore.
“E non volevi che Henry lo sapesse”, continuò Lucas. “Gesù Cristo”.
“Lucas, se ripeti Gesù Cristo un’altra volta, giuro che ti sparo”, sospirò Jo, appoggiandosi allo schienale del divano.
“Quindi era di questo che continuavate a confabulare voi due, vero? Mi sembravate strani, ultimamente…”
Henry e Jo si scambiarono un’occhiata, attraversati contemporaneamente dallo stesso pensiero. Henry annuì impercettibilmente, ma lasciò a Jo il compito di decidere se parlare o meno.
“In realtà”, cominciò Jo, sentendosi in imbarazzo anche se non ne aveva motivo, “Visto che siamo in tema di rivelazioni, c’è un’altra cosa che dobbiamo dirti”.
Dobbiamo?”, a Lucas non sfuggì il plurale e si bloccò davanti a loro, “Jo, non sarai mica un supereroe anche tu, vero? Non dirmi che sai volare o cose del genere”.
“Mah no, Lucas!”, esclamò Jo alzando gli occhi al cielo, “È una cosa molto più semplice. Insomma, da quando ho scoperto della… situazione di Henry, ecco, da allora…”
Vedendola in difficoltà con le parole, Henry terminò al posto suo:
“… da allora stiamo insieme”.
Lucas spalancò gli occhi e alzò le braccia al cielo in una specie di gesto di vittoria.
Insieme? Cioè insieme nel senso di coppia?” Dopo che sia Henry che Jo annuirono con un cenno del capo, Lucas esclamò: “Lo sapevo! Lo sapevo! Sto male, ragazzi, sto male. Dopo oggi giuro che non mi stupirò più di niente. Siete… siete i miei eroi. Anzi, i miei idoli. Il dottore immortale e la super detective insieme contro il crimine di New York. Sto male”.
“Sono io che sto male”, borbottò Abe alzando le sopracciglia, “Ma è sempre così anche al lavoro?”
“No, a volte è peggio”, rispose Henry.
“Oh, andiamo ragazzi!! Non potete tarparmi le ali in questo modo!! Non con tutte le rivelazioni che mi avete fatto oggi!”
“Rivelazioni che devono rimanere segrete, Lucas, capito?”, lo interruppe Henry con uno sguardo eloquente.
“Compresa la relazione”, aggiunse Jo, “Finché non decidiamo a chi dirlo e come dirlo”.
“Devi esserne felice, Lucas, sei un privilegiato. Sei l’unico che sa tutto”, osservò Henry.
 “Sì, certo, state tranquilli ragazzi, non vi deluderò. Sarò… muto come una tomba”, e fece l’occhiolino a Henry.
“… era una battuta?”, chiese Abe.
“Temo di sì”, risposero Henry e Jo contemporaneamente.
Lucas però sembrava così felice del suo nuovo ruolo di confidente esclusivo che non si accorse della loro battuta a sue spese.
Dopo qualche altro percorso avanti e indietro nella stanza, un paio di Gesù Cristo e anche qualche fantastico, Lucas si fermò e si fece improvvisamente serio.
“Henry, scusa, non ti ho detto la cosa più importante”. Henry si irrigidì di fronte a quel cambiamento repentino nell’atteggiamento di Lucas. Aveva sempre paura di qualche reazione inaspettata nei suoi confronti. Lucas sospirò e disse:
“Grazie. Mi hai salvato la vita, in quel laboratorio. Se non ti fossi messo in mezzo, Jo non sarebbe arrivata in tempo e io a quest’ora sarei su uno dei nostri tavoli, tagliato in due. Quindi… grazie.”
Si sporse verso di lui, seduto sul divano, e lo abbracciò.
Era il secondo abbraccio in una giornata e Henry rimase immobile, imbarazzato.
“Va bene, Lucas, ok”, disse allontanandolo delicatamente, “Ma dopo oggi niente più abbracci, ok?”
“Non è abituato”, scherzò Abe, “Gli uomini del suo secolo mica si abbracciavano, si ammazzavano ai duelli e basta”.
“Non mi dire che sei capace a usare la spada”, la serietà di Lucas svanì, sostituita di nuovo dal suo incontenibile entusiasmo.
“Beh, sono un po’ arrugginito, però era costume che i gentiluomini sapessero tirare di scherma. Mio padre mi prese un precettore quando avevo cinque anni”.
“Gesù Cristo”, esclamò Lucas.
Jo alzò gli occhi al cielo.

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Capitolo 4
*** Six months later ***


4
Six months later

 
“Jo, ti devo parlare un minuto”. Il capitano le tenne la porta aperta perché lei potesse entrare nel suo ufficio. Jo ubbidì, e una volta entrata restò in piedi di fronte alla scrivania. Ebbe un momento di timore. Alla fine, i buoni propositi suoi e di Henry di rivelare la loro relazione erano slittati di giorno in giorno, fino a diventare mesi. La verità era che Jo non trovava alcuna ragione per mettere a rischio la loro posizione. Dopo i primi giorni di imbarazzo, Jo si era rilassata, e, al lavoro, si comportava con Henry esattamente come prima. Lui, neanche a dirlo, era una maschera di impassibilità. Lucas si era dimostrato un confidente inespugnabile. Sì, ogni tanto si lasciava sfuggire qualche frecciata nella loro direzione, ma sempre e solo se erano da soli. Di fronte agli altri, non mostrava nei loro confronti nessun atteggiamento particolare. E alla fine le settimane erano passate, e anche il momento giusto per dirlo al capitano, o a Hanson. Paradossalmente, più il tempo passava, più la rivelazione diventava difficile, perché significava anche ammettere di aver tenuto la relazione nascosta. Nel dubbio, Jo aveva adottato la tecnica di Henry: silenzio e basso profilo. Solo che adesso temeva che il capitano avesse scoperto qualcosa.
“Siediti pure, Jo”, le disse il capitano indicandole una sedia. Jo fece un cenno di diniego con il capo.
“Preferisco stare in piedi, se per lei è lo stesso”.
Fu il capitano allora a sedersi, e poi accennò, con la testa, a una pila di fascicoli impilati sulla sua scrivania.
“Sai cosa sono questi, Jo?”
Jo scosse la testa.
“Sono tutti i casi che hai risolto negli ultimi mesi. Superano di gran lunga la media di qualunque altro distretto”.
Jo tirò un impercettibile sospiro di sollievo, accorgendosi che il discorso non c’entrava nulla con lei e Henry. Ma allora, di che stavano parlando?
“Fra due settimane ci sarà la cena di gala della polizia”, proseguì il capitano, “E io ho intenzione di proporre al capo della tua polizia la tua candidatura per una promozione”.
Jo si ritrovò a bocca aperta.
“Promozione?”, ripeté, incredula, “Promozione… a cosa?”
“Tenente”, le rispose il capitano, e le rivolse un sorriso di incoraggiamento. Vedendo che però Jo era immobile, come scioccata, alzò le sopracciglia, perplessa.
“Non ne sei felice, Jo?”
“Io… no, cioè sì”, balbettò Jo, ancora confusa, “Solo che non… non me lo aspettavo.”
“Avresti dovuto, invece”, continuò il capitano, “Come ti dicevo, la media dei tuoi casi risolti è spettacolare. Sei sempre stata un’ottima detective, ma in questi mesi hai superato te stessa.”
“Non è stato tutto merito mio”, ribatté Jo. Ed era sincera. Da quando sapeva la verità su Henry, lui non doveva più nascondere la fonte delle sue intuizioni o conoscenze. Se sapeva qualcosa perché ne aveva avuto esperienza diretta nel suo passato, semplicemente gliela diceva. Henry era letteralmente un’enciclopedia ambulante su qualsiasi cosa, ancor più di quanto lei credesse. Avevano risolto il caso di un truffatore che vendeva lettere antiche false perché Henry si ricordava perfettamente che l’autore delle lettere, che era stato un suo paziente, era morto tre mesi prima della data riportata sulle presunte lettere originali.
“Ti riferisci al dottor Morgan?”, chiese il capitano alzando nuovamente le sopracciglia.
“Sì. Quei casi li abbiamo risolti insieme” Jo fece un respiro profondo per impedirsi di arrossire.
“Lo so. Mi congratulerò anche con lui, ovviamente, ma ciò non cambia la mia intenzione di proporre una tua promozione, se tu sei d’accordo”.
“Io… sì. Cioè, ne vorrei parlare con…” Stava per dire ne vorrei parlare con Henry, prima, ma si trattenne in tempo, “Cioè, ci vorrei pensare un po’ su, se è possibile”.
Al capitano non era sfuggito quel vorrei parlarne con, ma per il momento soprassedette.
“La cena di gala è tra due settimane. Pensaci, e comunicami la tua decisione entro quel giorno.” Il capitano si interruppe per qualche secondo, scrutandola. Poi continuò: “Ti ho osservata, sai, Jo, in questi mesi. Sembri diversa. Più… attiva. Entusiasta. E il risultato si è visto nel tuo lavoro”.
Jo abbassò lo sguardo, imbarazzata, senza sapere come rispondere.
“Ho saputo che il signor Monroe è uno dei maggiori finanziatori del gala, quest’anno”, aggiunse il capitano continuando a osservarla.
“Isaac?”, chiese Jo, interrogativa.
“Già. È stato molto generoso. Deve avere dei buoni motivi, per amare così la polizia.”
Ah. Jo capì dove voleva arrivare. Il capitano era convinta che lei e Isaac si fossero rimessi insieme, e che fosse per quel motivo che Isaac finanziava la cena di gala, e che lei era così… come aveva detto? Entusiasta. Jo accennò un sorriso e si spostò da un piede all’altro, senza confermare né smentire. Se il capitano credeva che lei stava con Isaac, meglio così. Però perché Isaac finanziava la cena? Forse non aveva niente a che fare con lei. Anzi, sicuramente. In fondo, Isaac era un imprenditore. Avrà avuto i suoi motivi.
Uscita dall’ufficio del capitano, fece finta di tornare alla scrivania, ma appena sentì di non essere osservata da nessuno si avviò all’ascensore e scese in laboratorio. Henry e Lucas stavano svolgendo un’autopsia, ed erano soli.
“Henry!”, esclamò Jo, che dopo alcuni minuti di metabolizzazione della notizia datale dal capitano ora si sentiva stranamente agitata, “Posso parlarti un secondo?”
Henry posò il coltello e alzò gli occhi protettivi sopra la fronte.
“Certo. Va… va tutto bene?”
Anche Lucas alzò gli occhiali protettivi e si voltò a guardarla.
“Sì. Solo… ho appena avuto una notizia e ho bisogno di parlartene.”
“Va bene. Andiamo nel mio ufficio. Lucas, prosegui tu?”
Lucas annuì e si rimise al lavoro senza discutere.
Jo seguì Henry nel suo ufficio e si chiuse la porta alle spalle. Henry si appoggiò alla scrivania e la guardò interrogativo.
“Jo, tutto ok? Mi sembri agitata.”
“Sì. Solo che… ho appena parlato con il capitano. No, non si tratta di quello”, aggiunse subito, notando che Henry si era irrigidito al pensiero che lei fosse finita nei guai a causa della loro relazione, “Mi ha detto che negli ultimi mesi ho risolto più casi della media e che quindi vuole… insomma, vorrebbe propormi come candidata al ruolo di tenente.”
“Tenente?”, Henry sorrise e allungò una mano per toccarle la spalla, ma poi si ricordò che erano pur sempre sul luogo di lavoro e ritornò con le braccia abbandonate lungo i fianchi, “Ma è una splendida notizia, Jo!”
“Tu dici?”, chiese Jo, non convinta.
“Ma certo!”, confermò Henry, “Perché, non è una cosa positiva?”
“A dire il vero non lo so”, ammise Jo, sentendosi assalita dai dubbi, “Voglio dire, è un grosso cambiamento. Significherebbe più burocrazia e meno lavoro sul campo. E poi… c’è il rischio che mi trasferiscano. E io non voglio”.
“Se anche ti trasferissero, Jo, sai che verrei con te. Per me non ci sarebbe problema.”
“Ma il negozio? Abe?”
“Il negozio lo posso riaprire in qualunque altra città. Abe può scegliere se rimanere o venire con noi. Lo facciamo da sempre, ogni dieci anni. Si tratterebbe solo di anticipare la solita data di un paio d’anni.” Henry si interruppe, consapevole di non avere mai parlato a Jo della sua ruotine di spostamento ogni decennio. Jo però era assorbita da altri pensieri e non se n’era accorta.
“Però non si tratta solo del trasferimento, vero?”, chiese, scrutandola, “Che cosa ti preoccupa, Jo? Sai che mi puoi dire tutto”.
“Non lo so nemmeno io, che cosa mi preoccupa”, Jo si morse un labbro, indecisa, “Solo che… questi mesi sono stati così… perfetti. Io e te sul campo, una squadra perfetta. E ho paura di perdere tutto questo. Ho paura di venire relegata a una scrivania, di essere sepolta dalla burocrazia, di dover cominciare a preoccuparmi della politica, e delle apparenze, e… insomma, non lo so.”
“Puoi sempre dire di no, Jo”, osservò Henry.
“Lo so. Però al pensiero di rifiutare mi sento in colpa… è una grande occasione, un innalzamento di carriera e di stipendio, e… mi sembra di essere un’ingrata, a rifiutare. Che casino”, concluse, e si passò una mano sulla fronte.
“Jo, posso darti un consiglio?”, chiese Henry dopo averle lasciato qualche secondo per riflettere.
“Sono qui apposta, maestro Morgan”, Jo sorrise, nervosa, ondeggiando sui piedi, “Ho bisogno di un po’ di saggezza centenaria”.
“Non pensare in base a quello che gli altri si aspettano che tu pensi”. Jo lo guardò smarrita per qualche istante, cercando di afferrare la logica di quella frase apparentemente contorta. Henry proseguì: “Voglio dire, i soldi, la carriera, sono solo illusioni di cui di volta in volta gli uomini si dotano, per avere un obiettivo nella vita. Cent’anni fa il tuo scopo principale sarebbe stato sposare un buon partito e avere tanti figli. Adesso c’è il sogno della donna in carriera. Ma sono solo delle credenze vuote. L’unica cosa che conta è fare ciò che ti rende felice. E se sei felice a bere caffè davanti a un cadavere la domenica mattina, e a passare le giornate a indagare con un povero vecchio, allora questo deve essere lo scopo della tua vita. Quello che gli altri si aspettano da te, o che credono che tu debba aspettarti, non conta”.
Jo sorrise di nuovo, questa volta di serenità. Era esattamente quello che voleva sentirsi dire, e il modo in cui Henry lo aveva detto aveva lenito il suo nervosismo.
“Mi sembra un ragionamento saggio, Henry”, disse, facendo un passo verso di lui, e al diavolo se erano sul luogo di lavoro, “L’unica cosa che non ho capito è chi è il povero vecchio a cui facevi riferimento”. E gli fece l’occhiolino.
“Bah, un signore di mia conoscenza, un vecchio nostalgico, che a volte scrive ancora con inchiostro e pennino e ascolta il giradischi”, scherzò Henry, e non si oppose quando lei si sporse verso di lui e gli lasciò un leggero bacio sulle labbra.
“Grazie, Henry”, gli disse poi, “Sto meglio, adesso. Mi ero agitata per nulla”.
“Dirai di no, allora?”, le chiese lui, ritornando a una distanza di sicurezza.
“Probabilmente sì, ma non è detto. Ci penserò ancora un po’ su. In caso di bisogno, conosco una persona molto saggia a cui chiedere consiglio.”
“Per quando devi dare la risposta?”
“Entro due settimane. A proposito, c’è la cena di gala della polizia”, aggiunse Jo, e il pensiero di Isaac le fece tornate per un istante il nervosismo, “Il capitano mi ha detto che Isaac è uno dei finanziatori”.
“Isaac?”, chiese Henry alzando le sopracciglia.
“Sì. Credo che il capitano me lo abbia detto perché ha dei sospetti”.
“Sospetti?”
“Sì. Credo che lei creda che io e lui stiamo di nuovo insieme”.
“Tu e Isaac?” Henry provò una piccola e fulminea fitta di gelosia, che si affrettò a nascondere dietro a un tono diplomatico, “Beh, sì, capisco il suo ragionamento. Immagino che per comodità tu non l’abbia smentita”.
“No”, confermò Jo, “Però non ha detto niente di esplicito. È stata solo una mia sensazione”.
“Le tue sensazioni di solito sono corrette”, osservò Henry, prima di aggiungere, sempre l’immagine della diplomazia: “Ti crea disagio, il fatto che ci sarà anche Isaac?”
Jo ci rifletté per qualche istante.
“Credo di poterlo gestire”, rispose alla fine, “In fondo, ci sarai tu al mio fianco, no?”
“Io? Non credo di essere invitato. Non faccio parte della polizia”.
“Come, vuoi lasciarmi andare da sola a una serata di chiffon e champagne costoso? Lo sai che non è per niente il mio genere.”
Henry ci pensò su.
“Non credi che desteremmo sospetti, a venire insieme?”
“Sei pur sempre il mio partner”, rispose Jo, “Se facciamo imbucare anche Lucas, credo che potremmo cavarcela… voglio dire, sembreremmo semplicemente un gruppo di colleghi, no?”. Si interruppe un secondo, ricordandosi dell’imbarazzo che aveva provato all’ultima cena di gala a cui aveva partecipato, parecchi anni prima. Si era sentita un brutto anatroccolo in mezzo allo sfarfallio di abiti firmati e gioielli luccicanti. “Non ho niente da mettere”, si lasciò sfuggire, persa nei suoi pensieri, “L’ultima volta mi sono messa l’unico vestito che avevo, nero al ginocchio, ed ero l’unica che avesse le gambe scoperte. Avevano tutte l’abito lungo”.
Tornò a guardare Henry e si accorse che lui la stava guardando con affetto, trattenendo a stento un sorriso, forse per non offenderla.
“Jo, santo cielo, non ti preoccupare di questo. Starai benissimo con qualunque cosa indosserai, e poi non ti dimenticare che ho una discreta esperienza in fatto di balli e cerimonie.” Le fece un occhiolino, e Jo si sentì subito rilassata.
“Hai ragione. Ogni tanto mi faccio prendere da delle stupide paranoie, eh?”.
“Sarà perché hai la coda di paglia, detective”, scherzò Henry, “Che ne dici di venire a cena da noi, stasera? Abe ha fatto la torta al cioccolato. E possiamo continuare a parlare della promozione, e del ballo”.
“Va bene”. Jo si costrinse a tornare al lavoro, anche se avrebbe voluto restare lì a chiacchierare insieme a Henry, “Ci vediamo stasera”.
 
Lucas si abbandonò contro lo schienale della sedia, sbuffando. Era rimasto solo lui in laboratorio. Henry se n’era andato un paio di ore prima e gli altri avevano già staccato. Lucas, contrariamente alle sue abitudini, era rimasto lì a occuparsi delle scartoffie, anche se in realtà il suo orario di lavoro era terminato. La verità era che non voleva tornare a casa. Era il suo compleanno, quel giorno. Però nessuno se n’era ricordato, e a casa non c’era nessuno ad aspettarlo, né un parente, né una ragazza, nemmeno un cane o un gatto. Solo silenzio e biancheria sporca. Preferiva di gran lunga continuare a compilare rapporti lì, alla stazione di polizia, con la musica che gli pompava nelle orecchie.
A un certo punto sentì il cellulare vibrare nella sua tasca. Quando lo estrasse, vide lampeggiare sullo schermo il numero di Jo.
“Lucas!”, esclamò lei con urgenza, “Meno male che ti ho trovato!! Corri, presto, c’è un’emergenza!”
Lucas saltò su dalla sedia, improvvisamente emozionato.
“Un’emergenza?”, ripeté.
“Sì! Presto! Vieni al negozio! Corri!”
Jo riattaccò senza aggiungere altro. Non aveva specificato cosa intendeva per “negozio”, perché ormai l’unico negozio di cui parlavano e che aveva una qualche importanza era quello di Henry e Abe.
Lucas afferrò la giacca e corse fuori dal laboratorio, lieto che qualcosa avesse scosso quella che si annunciava come una serata solitaria e triste. Arrivò al negozio nel giro di dieci minuti: le luci erano accese, ma all’interno non sembrava esserci nessuno. All’ingresso c’era il cartello chiuso, ma la porta era aperta. Lucas entrò, circospetto.
“Jo? Henry?”, chiamò, guardandosi attorno, “Abe?”
Non vedendo nessuno, Lucas si portò sul retro, iniziando a salire le scale che portavano all’appartamento al piano superiore. Sentì delle voci, e dei passi.
“Jo?”, chiamò ancora.
“Lucas!”, rispose lei con tono urgente, “Corri!”
Lui ubbidì e si affrettò su per le scale, spalancò la porta e…
“Buon compleanno!”, si sentì dire, e Lucas si immobilizzò, basito.
Henry, Jo e Abe erano di fronte a lui, sorridenti. Jo teneva in mano una grossa torta con delle candeline. Alle loro spalle, al di fuori della portafinestra, scorse un tavolo imbandito e anche dei festoni appesi. Lucas spalancò la bocca ma non riusciva a dire nulla.
“Guardate la sua faccia!”, esclamò Abe ridacchiando, “Qualcuno gli faccia una foto, per favore!” Vedendo che però nessuno gli dava retta, prese lui stesso il cellulare e scattò una foto alla faccia pietrificata di Lucas. “Questa va su Facebook”, disse, ridendo.
“Su cosa?”, chiese Henry, perplesso.
Abe alzò gli occhi al cielo. “È un social network… Lascia perdere”.
“Ma… ma…”, riuscì a balbettare Lucas, “Ma che succede?”
“Mi dicono che si chiama ‘festa a sorpresa’, Lucas”, disse Henry, facendogli cenno di entrare, visto che lui era ancora bloccato sulla soglia.
“Mi sembra abbastanza sorpreso”, osservò Jo, posando la torta sul bancone della cucina, “Questa però la mangiamo dopo. Prima c’è la cena”.
Quando si voltò, aveva in mano un pacchetto.
“Questo è un regalo da parte mia e di Abe”, gli disse, porgendoglielo.
Lucas finalmente si era reso conto di quello che stava succedendo e fece qualche passo in avanti, commosso.
“Ma… ma non dovevate”, disse, scuotendo la testa. Prese comunque il pacchetto e iniziò a scartarlo. All’interno, c’era un fumetto. Superman, il primo numero.
“Jo ed Henry mi hanno detto che ti piacciono i fumetti”, disse Abe, “Questa è una prima edizione, del 1939.”
“Ma… è troppo. Abe, Jo, grazie infinite, non dovevate”. Si passò una mano sugli occhi, senza riuscire a nascondere la commozione. Jo lo abbracciò e gli diede una pacca sulla spalla.
“Anche Henry ha un regalo”, disse.
“In realtà, è più un prestito”, la corresse Henry, porgendo a sua volta un pacchetto a Lucas, “Pensavo che ti sarebbe piaciuto leggerlo”.
Lucas aprì il pacchetto e vi trovò all’interno un quaderno rilegato in pelle. Dentro, c’erano delle annotazioni, scritte a mano in una elegante grafia in corsivo. Solo dopo aver letto alcune righe capì di che cosa si trattava.
“Ma sono i rapporti originali su Jack lo Squartatore!”, esclamò, gli occhi illuminati di entusiasmo, “Ma come li hai avuti?”
Henry gli lanciò un’occhiata eloquente e Lucas aprì la prima pagina del quaderno, dove c’era scritto, in alto a destra: dr. Henry Morgan. Londra, 1888.
“Gesù Cristo! Non ci posso credere! Grazie, Henry!”, fece per abbracciarlo, ma Henry arretrò di un passo: “Lucas, ti ricordi cosa avevo detto riguardo agli abbracci?”
“Oh, sì. Scusa”. Entusiasta, Lucas cominciò a leggere velocemente le pagine del quaderno.
“Direi che quello te lo puoi leggere dopo, Lucas”, gli disse Jo sospingendolo delicatamente verso la terrazza, “Adesso mangiamo”.
Lucas alzò lo sguardo su di loro, poi sulla tavola imbandita, e di nuovo su di loro. Ancora una volta, sentì gli occhi lucidi.
“Grazie, ragazzi”, disse, grattandosi imbarazzato il collo, “Grazie. È il compleanno più figo della mia vita.”
“Come puoi dirlo, Lucas? Ne hai ancora tanti, davanti a te, da festeggiare”, osservò Henry sedendosi al tavolo sulla terrazza.
“Non quanti ne hai tu”, scherzò Lucas. E dopo piatti ricolmi di cibo, bicchieri altrettanti ricolmi e una buona dose delle storie di Henry, Lucas si dimenticò di tutti i tristi pensieri che aveva rivolto alla sua solitudine.
 
“Sei sicura al cento per cento della tua decisione, Jo?”, le chiese Henry, mentre l’aspettava seduto sul bordo del letto.
“Sì”, rispose Jo, armeggiando con il vestito dentro il quale si era costretta, “Ci ho riflettuto molto, e ho deciso. Ringrazierò per l’opportunità, ma… dirò di no. Non voglio diventare tenente.”
Dopo aver rinunciato a cercare di agguantare la chiusura lampo, uscì dal bagno, tenendo l’abito stretto al petto per evitare che le scivolasse di dosso.
“Non riesco a chiudere la lampo”, disse, e si voltò in modo che Henry potesse aiutarla. Lui eseguì, poi la fece voltare per osservarla.
“Sei stupenda”, le disse, e Jo rispose lisciandosi la gonna con gesti nervosi.
“Mi sento ingessata. Come si fa a camminare con una gonna così lunga?” Nonostante tutte le sue lamentele, però, Jo dovette ammettere con sé stessa che quell’abito le stava bene. Lungo e a campana verso la fine, viola scuro, vita stretta e spalle sottili. La scollatura era un po’ audace, per i suoi gusti, ma le avevano assicurato che era un abito da gala assolutamente appropriato.
“Ce la facevano le donne due secoli fa su e giù per le carrozze, Jo, ce la farai anche tu a New York in macchina”, scherzò Henry. Jo vide, nel riflesso dello specchio in cui si stava guardando, che lui stava estraendo qualcosa dalla tasca.
“Ho un regalo per te”, le disse, porgendole un cofanetto piatto di velluto, “L’avevo messo da parte per festeggiare la tua decisione, qualunque essa fosse stata”.
“Ma non dovevi!”, obiettò Jo, ma si lasciò subito prendere dalla curiosità: “Che cos’è?”
Aprì il cofanetto: su un cuscinetto di velluto giaceva una collana, con un grosso ciondolo che reggeva una luccicante pietra rossa.
“Henry!”, esclamò Jo, a bocca aperta, “Non sarà mica… un rubino?”
“Certo che è un rubino”, annuì Henry come se fosse stata la cosa più ovvia del mondo.
“Ma sei pazzo? Ti sarà costato una fortuna!”
“Non proprio. Era di mia madre”, spiegò Henry, e visto che Jo fissava ipnotizzata la collana, Henry la prelevò dal cofanetto e gliela passò intorno al collo, “Ci ho messo un secolo (letteralmente) a recuperare i miei vecchi cimeli di famiglia. Alcuni ormai sono andati irrimediabilmente perduti, ma alcuni gioielli sono riuscito a recuperarli. Questa collana e altre cose appartenute a mia madre sono riuscito a comprarli ad un’asta a Londra circa un decennio fa. Li conservavo per una persona speciale”.
Henry chiuse il gancetto della collana e il pesante rubino si posò sul petto di Jo, quasi illuminando il suo viso di luce riflessa.
“Ecco. Ora sei perfetta”, disse Henry, dandole un bacio sulla guancia, “Pronta per la tua cena di gala?”
 
La cena si sarebbe svolta in una sala del Waldorf-Astoria, hotel in cui Jo non aveva alcuna vergogna a dire di non essere mai entrata. Le livree, il luccichio dei marmi e gli inservienti addetti agli ascensori la facevano sentire a disagio: troppo lusso, troppo ossequio e troppa apparenza. Non vedeva l’ora che Henry arrivasse (lui sarebbe venuto in macchina con Lucas, per non destare sospetti), ma nel frattempo doveva mettersi alla ricerca del capitano, per comunicarle la sua decisione. Anzi, prima di tutto doveva trovare la sala dove si sarebbe tenuta la cena.
Ci mise parecchi minuti a trovare l’ala giusta dell’hotel, e quando entrò nella sala fu subito investita dall’alone costoso che alleggiava tutto intorno, nei vestiti, nei profumi e nel cibo. Il capitano, stretta in un abito di seta nero (era la prima volta che Jo la vedeva con qualcosa che non fosse il suo solito tailleur), stava sorseggiando champagne accanto a un uomo alto e brizzolato con guanti bianchi. Jo attese qualche secondo, guardandosi attorno, aspettando il momento giusto per avvicinarsi senza interrompere la conversazione. Stare lì, in piedi, senza un capannello di persone a cui fare riferimento, senza nemmeno un bicchiere in mano a cui ricorrere, era il suo incubo di imbarazzo peggiore.
“Bella serata, eh?”, le disse qualcuno che le si era avvicinato alle spalle. Jo si voltò e si trovò davanti a un omone ben piazzato, con la pancia che tirava sotto la giacca dello smoking, la fronte lucida e le guance già parecchio arrossate, forse per il caldo, o per l’alcool, o per entrambe le cose.
“Jimmy, del quattordicesimo”, si presentò, porgendole una mano.
Senza sapere in che modo sviare quella situazione, Jo si ritrovò costretta a presentarsi.
“Jo, ottavo distretto. Detective della omicidi”.
“Omicidi, eh? Non dovrebbe essere consentito avere delle detective così carine”, le fece un occhiolino che forse avrebbe dovuto lusingarla, ma Jo sorrise pacatamente, saettando gli occhi per la sala alla ricerca di una via di fuga, “Se lavorasse al mio distretto, sarei continuamente distratto.” Si fece impercettibilmente più vicino e Jo, altrettanto impercettibilmente, si ritrasse di un passo. Ci mancava solo uno di quei tipi appiccicosi di cui era quasi impossibile liberarsi. Il capitano era appena rimasta da sola e Jo voleva intercettarla prima che si ritrovasse di nuovo in compagnia.
“Posso portarle qualcosa da bere?”, continuò Jimmy senza dar prova di aver recepito i segnali di disagio di Jo.
“Ehm, no, grazie”, rispose Jo, cercando disperatamente una scusa per allontanarsi, “In realtà, ho…”
“… già ordinato da bere”, completò una voce che Jo riconobbe immediatamente. Henry comparve al suo fianco con un bicchiere di champagne e Jo tirò un sospiro di sollievo.
“Piacere. Io sono Henry”, si presentò lui prima che l’altro potesse aggiungere qualunque cosa, l’immagine della cortesia.
“Jimmy”, rispose l’altro, senza mostrare lo stesso entusiasmo di quando si era presentato a Jo.
“… sezione persone scomparse?”, azzardò Henry sempre cortesemente.
“Sì”, ammise Jimmy, che oltre al disappunto per aver fallito il suo tentativo di approccio ora si mostrava anche confuso, “Come fa a saperlo?”
“Ho tirato a indovinare”, rispose Henry prima di rivolgersi a Jo: “Jo, il capitano ti vuole parlare, subito”. Jo capì che in realtà quella era solo una scusa, ma accolse con gratitudine l’occasione di defilarsi. Sorrise tiepidamente a Jimmy prima di dirigersi verso il capitano. Quando la vide, Reece la salutò con un cenno del bicchiere.
“Jo! Sei arrivata, finalmente”. La squadrò da cima a fondo, ammirata. “Sei assolutamente uno splendore, Jo. Complimenti.”
“Grazie”, disse Jo imbarazzata. Si fece coraggio con un respiro profondo: “Capitano, a proposito di quella promozione, ci ho riflettuto, e… innanzitutto la vorrei ringraziare per l’opportunità che mi ha offerto, e per aver pensato a me. Non lo dimenticherò e le sarò sempre grata per questo.”
Il capitano le fece un cenno per farle capire che la stava seguendo, ma alzò interrogativamente le sopracciglia, forse già intuendo, dal tono che Jo usava, quale sarebbe stata la conclusione del discorso.
“Tuttavia, sono giunta alla conclusione che sicuramente ci sono agenti più in gamba e meritevoli di me di questa promozione. Quindi, sempre ringraziandola per l’offerta, vorrei però declinarla”.
Le sopracciglia del capitano si alzarono ancora di più. Rimase a fissarla per parecchi secondi, in silenzio. Poi disse:
“Jo, ne sei sicura? Una volta persa questa opportunità, non si ripresenterà più. Almeno, non per alcuni anni”.
“Sì, signora. Sicurissima”.
“Beh…”, il capitano sospirò e bevve un sorso dal suo bicchiere, “Allora non posso fare altro che accettare la tua decisione, Jo, anche se non capisco i motivi che ti hanno portato a prenderla”.
Jo non aveva alcuna intenzione di spiegare i suoi veri motivi, quindi si limitò a un grazie e a un cenno del capo.
“Credo che sia il momento di andare al nostro tavolo”, aggiunse il capitano, vedendo che tutti si stavano avviando verso i propri posti. “Come sta il figlio di Hanson?”, chiese, facendo riferimento al fatto che Hanson non era potuto venire perché uno dei suoi figli era ammalato.
“Credo bene”, rispose Jo, “L’ho sentito prima di venire qui. Ha la febbre, ma niente di grave”.
Il loro tavolo, piccolo e rotondo, era leggermente scostato dal centro della sala, verso sinistra. Henry e Lucas erano già seduti. Jo, mostrandosi il più possibile naturale, si sedette di fianco a Henry. Sapeva che l’assenza di Hanson aveva permesso a Henry di recuperare un invito (lo stesso era avvenuto con un altro detective che aveva ceduto il posto a Lucas), però Jo si sentiva in imbarazzo a essere allo stesso tavolo con Henry, Lucas e il capitano. Lei, Henry e Lucas erano accomunati dallo stesso segreto, e dalla stessa tensione che provavano nel mantenerlo tale: Hanson sarebbe stato un’utile aggiunta, un modo per riequilibrare le parti. Adesso, Jo percepiva una sottile ansia per ogni cosa che diceva o faceva, temendo di tradirsi.
Approfittando del fatto che il capitano stava parlando con Lucas, Henry si sporse verso di lei e le chiese, sottovoce:
“Com’è andata?”
“Bene. Ha accettato la mia decisione senza indagare troppo”, rispose Jo, cercando di mantenere un’espressione neutra. Stava per aggiungere qualcosa, quando il suo sguardo fu attirato da una figura alta e snella, bionda, che era in piedi accanto a un tavolo poco distante da loro.
“Mio Dio”, si lasciò sfuggire, “Ma quella non è la tua dottoressa?”
“La mia dottoressa?”, ripeté Henry perplesso, e seguì il suo sguardo fino alla donna bionda, “A parte la tua originale scelta di parole, che non sono sicuro di condividere, comunque sì, in effetti è Iona. Che cosa ci fa qui?” Alcune persone che stavano ostacolando loro la vista si spostarono, rivelando la persona con cui Iona stava parlando.
“Mio Dio”, disse Henry, imitando il tono di Jo di poco prima, “Quello non è il tuo milionario?”
“Il mio milionario?”, Jo si sporse di qualche centimetro e appurò che sì, era proprio Isaac. “Non posso crederci”, borbottò prima di potersi fermare, “Il mio ex e la tua ex insieme nella stessa sera.”
“Iona non è la mia ex”, la corresse Henry, “Non siamo mai stati veramente insieme… la stessa cosa non si può dire di te e Isaac”, aggiunse, senza comunque lasciar trapelare nient’altro che una semplice constatazione.
“Neanche noi siamo mai stati veramente insieme”, replicò Jo, sentendosi arrossire, “O meglio, un po’ più insieme di te e Iona, te lo concedo, ma non così insieme”.
“Per ‘non così insieme’ intendi niente sesso?”, chiese lui serenamente.
“Henry!”, esclamò Jo più forte del dovuto, e arrossendo ben oltre la normalità, “Non mi sembra il caso di… comunque no, niente di tutto questo!” Lucas e il capitano si voltarono a guardarli, sorpresi.
“Rilassati, detective”, disse Henry parlando pianissimo e cercando di evitare lo sguardo interrogativo del capitano, “Era solo una domanda. Nessun tipo di rimprovero o di giudizio. Ti assicuro che, nonostante i luoghi comuni, ai miei tempi ho visto e sentito cose che farebbero raddrizzare i capelli ai ragazzi d’oggi”.
“Va tutto bene, Jo?”, li interruppe il capitano, scrutando prima Jo, ancora rossa, poi Henry, l’esemplificazione dell’impassibilità, che sorseggiava placidamente dal suo bicchiere.
“Benissimo”, rispose Jo cercando di ricomporsi, “Stavo solo dicendo a Henry che ho visto il signor Monroe…”
“… che, tra parentesi, sta venendo qui”, aggiunse Henry facendo un cenno alle spalle di Jo.
Ci mancava questa. Jo si voltò e si ritrovò Isaac in piedi accanto a lei, il volto atteggiato in uno dei suoi sorrisi che sembravano esprimere indifferenza e tranquillità insieme. Jo scoprì di esserne irritata. Isaac tendeva ad avere sempre quella smorfia superficialmente simile a un sorriso, una specie di espressione perenne di menefreghismo, o di disinteresse, o di noia, o meglio un misto tra tutte quelle cose. Come aveva potuto non notarlo prima? O forse lo aveva notato e lo aveva ignorato, conquistata com’era da altre sue caratteristiche.
“Jo!”, la salutò, allargando le braccia, “Che piacere vedere che sei venuta alla nostra umile cena”.
Jo si alzò e rispose al suo saluto, stringendogli la mano e accettando un bacio sulla guancia, che lei ricambiò velocemente. Henry le aveva chiesto, un paio di settimane prima, se si sarebbe sentita in imbarazzo in presenza di Isaac: Jo si accorse che l’unico imbarazzo che provava era quello relativo alla sua incapacità di nascondere la propria indifferenza nei suoi confronti. Era molto più preoccupata dalla presenza della dottoressa Payne. Mai e poi mai lo avrebbe ammesso a sé stessa o a Henry, ma era gelosa al pensiero che lei fosse lì, quella sera.
“È una cena magnifica”, osservò diplomaticamente, e tornò a sedersi, cercando di coinvolgere anche il resto del tavolo nella conversazione, “Ti ricordi il resto della squadra, vero? Il capitano…”
“… sì, ci siamo già incontrati all’inizio della serata”, confermò Isaac, risalutando il capitano con un cenno.
“… Lucas, forse non lo hai mai conosciuto, di medicina legale…”, continuò Jo, mente Isaac salutava tutti cortesemente, “… Henry, il mio partner.”
“Ah sì, il dottore”, ricordò Isaac con un cenno del capo verso Henry.
“Esatto”, rispose Henry gentilmente, “Piacere di rivederla”.
Un silenzio imbarazzante minacciava di cadere su di loro. Il capitano, forse confusa dalla freddezza che percepiva tra Isaac e Jo, che lei credeva fossero tornati a essere una coppia, intervenne per mantenere viva la conversazione:
“I suoi finanziamenti sono di certo stati ben spesi, signor Monroe. Non ho mai visto così tanti poliziotti ubriachi insieme”.
“Sì fa quel che si può”, rispose lui sempre con quel sorriso-smorfia che irritava tanto Jo. “In realtà, ero venuto a congratularmi, Jo”, e si rivolse di nuovo a lei, “Ho sentito delle voci… a quanto pare d’ora in poi dovremmo chiamarti Tenente Martinez”.
Jo si morse il labbro, sorpresa che quella notizia (anzi, non-notizia, visto che lei non aveva accettato) fosse circolata così in fretta. Sperava che sarebbe rimasta una cosa tra lei e il capitano: com’era possibile che Isaac ne fosse a conoscenza?
“A quanto pare le voci circolano in fretta”, osservò in maniera neutra. Non voleva dire, davanti a tutti, che aveva rifiutato la promozione. Era una scelta sua, e come tale doveva rimanere privata. Percepì il capitano che la fissava, ma lei evitò di guardarla, rimanendo concentrata su Isaac.
“Beh, allora non mi resta che rinnovarti le mie congratulazioni”, disse lui, allargando le braccia come a voler includere tutti nel suo discorso, “E augurare a voi tutti una buona serata”.
“Grazie, Isaac”, rispose Jo con un sorriso tiepido. Quando (finalmente) si allontanò, Jo tornò a guardare gli altri membri del tavolo.
“Non sapevo della promozione, Jo!”, le disse Lucas sorridendo, “Congratulazioni, allora!”
“In realtà, Lucas”, intervenne Henry, vedendo che Jo non sembrava avere voglia di parlarne, “Jo non ha accettato.”
“Ah”, disse Lucas, e forse stava anche per chiedere perché?, quando uno sguardo di Henry lo incenerì e lo convinse che era meglio non indagare oltre, almeno non in quel momento.
“Perché non hai spiegato al signor Monroe che avevi rifiutato?”, chiese il capitano, incuriosita e perplessa allo stesso tempo.
“Beh, non sono affari suoi, no?” E con questa affermazione Jo seppe che aveva fugato ogni dubbio circa la sua presunta relazione con Isaac. Prima o poi, lei ed Henry sarebbero dovuti venire allo scoperto.
Dopo alcuni secondi di silenzio, Henry intervenne per spezzare la tensione:
“Altro champagne?”, chiese, e riempì i bicchieri di tutti mentre i piatti dell’antipasto comparivano magicamente davanti a loro.
 
Con l’aiuto delle ingenue battute di Lucas, i diplomatici interventi di Henry e la miriade di persone che li circondava e che offriva loro interessanti spunti di conversazione, la cena trascorse abbastanza allegramente. Jo, ogni tanto, rimuginava su Isaac e su come lui poteva essere venuto a conoscenza della sua promozione. L’unica spiegazione plausibile era che il capitano ne avesse accennato al capo della polizia, che a sua volta doveva aver fatto circolare la notizia. E poi, c’era Iona, la cui presenza Jo non riusciva a spiegarsi. Non era un membro del corpo della polizia: forse era venuta in veste di accompagnatrice di qualcuno? In quel caso, si sarebbe sentita decisamente sollevata. Non l’aveva più vista da quando l’aveva scorsa mentre parlava con Isaac, nonostante avesse scandagliato la folla con sguardo attento. Magari era stata solo una comparsa e se n’era andata senza partecipare alla cena.
Jo appoggiò il cucchiaino da dessert sul piattino, sazia. Era stata una cena abbondante, e ora l’aria si stava saturando dell’odore dei sigari e del caffè. Un signore anziano, in divisa da cerimonia, si era avvicinato al loro tavolo e stava parlando con il capitano. Jo ne approfittò e prese la mano di Henry sotto il tavolo, senza farsi vedere. Lui si chinò verso di lei con fare noncurante.
“Ti annoi?”, le chiese a voce bassa.
“Un po’. Non vedo l’ora di andare a casa, farmi una doccia e ficcarmi a letto”.
“Come sei pigra. Ci sono centenari più attivi di te”, e le fece un occhiolino veloce.
“Sapete ragazzi”, Lucas si era sporto verso di loro avvicinando la sua sedia, “Non so voi, ma mi sento un po’ un pesce fuor d’acqua.”
“Henry no”, rispose Jo scherzando, “Lui è nel suo elemento”.
“Mmh non sono d’accordo”, disse Henry con lo stesso tono, “Non per offendervi, ma ve lo devo dire. Voi yankee non siete un granché a organizzare feste”, e nel dire yankee accentuò scherzosamente il proprio accento.
Sia Jo che Lucas scoppiarono a ridere.
“Sai che ci vorrebbe, adesso?”, disse Lucas quando smise di ridere, “Uno di quei cicchetti che ha preparato Abe alla cena del mio compleanno. Non so cosa ci fosse dentro, ma era una bomba”.
“Ricetta segreta”, spiegò Henry serissimo, “Non sono ancora riuscito a capire gli ingredienti.”
“Adesso che ci penso, non vi ho ancora ringraziato per quella cena”, continuò Lucas, “Davvero, mi sono divertito un casino…”
“Figurati, Lucas. È stata una bella cena…”, rispose Henry, ma Lucas era partito in quarta:
“E poi… Henry, cavolo, immagina se ci fossimo conosciuti prima… cioè intendo conosciuti per davvero… sai che pacchia in laboratorio? In questi mesi ho imparato più storia che in tutti gli anni di scuola…”
“Beh, Lucas, in questi mesi ti ho raccontato sì e no un paio di decenni. Sporadicamente, per di più. Ci sono ancora più di…”, e Henry, istintivamente, abbassò la voce, “… più di duecentoquindici anni di cui parlare. Direi che il tuo divertimento è assicurato per almeno un paio d’anni”.
Dopo che ebbero bevuto il caffè (Henry ebbe la strana sensazione che il capitano lo stesse osservando con più attenzione del solito), un’orchestra attaccò a suonare musica da sala, e lo spazio davanti al palco si popolò di due o tre coppie stagionate che abbozzarono passi di valzer.
Molti si alzarono, rimanendo in piedi ai margini della pista, alcuni tentennanti finché non venivano convinti dal proprio partner a ballare. Henry guardò Jo in maniera eloquente.
“Non ci penso neanche, a ballare”, balbettò lei imbarazzata.
“In realtà”, replicò Henry, “Volevo chiederti se volevi… com’è che si dice…? Defilarti? Tagliare la corda?”
Jo sorrise di sollievo.
“Oh sì. Questa idea mi piace decisamente di più. Ma… insieme?”
Jo lanciò uno sguardo al capitano, che nonostante orbitasse da un conversatore all’altro sembrava sempre tenere gli occhi su di lei e Henry. O forse era solo Jo che si sentiva paranoica.
“Forse è meglio di no.”, rispose Henry, “Il capitano ci ha puntati”.
“Allora non sono solo io che ho questa sensazione”, sospirò Jo di nuovo.
“No no. Ci sta puntando come il missile di un sottomarino. Se vuoi vado via prima io… magari mi raggiungi tra una mezz’ora?”
Jo annuì, anche se non sprizzava gioia al pensiero di trascorrere una mezz’ora da sola senza sapere con chi parlare.
“Lucas ti farà da spalla”, aggiunse Henry intuendo il suo disagio.
“Jo, è la nostra occasione per sparlare di Henry alle sue spalle”, scherzò Lucas dondolando sui piedi.
“Scordatelo, Lucas. Ricordati che io poi vengo sempre a sapere tutto.”
Henry li salutò entrambi, evitando il capitano che intanto era impegnata in una conversazione, e si mischiò tra la folla, diretto verso l’uscita. Una voce giunse alle sue spalle:
“Te ne vai già così presto?”
Henry l’aveva riconosciuta, ma si girò comunque lentamente, per avere il tempo di pensare a come reagire a quella situazione. Iona, sinuosa e longilinea in un abito nero lungo monospalla, gli sorrise, sporgendosi verso di lui per dargli un bacio sulla guancia. Henry la salutò a sua volta, ma cercò di mantenersi il più formale possibile.
“È un piacere rivederti, Iona”, le disse, evitando di rispondere direttamente alla sua domanda. “Che cosa ti porta qui?”
“Beh, non hai saputo?”, gli rispose lei, continuando a sorridere, “Ora lavoro come psicologa della polizia. Mi occupo in particolare di stress post traumatico dovuto a sparatorie o ferite, sai… casi comuni tra gli agenti.”
“Davvero? Non lo sapevo”, osservò Henry sorridendo gentilmente, “Sono sicuro che stai svolgendo un lavoro splendido. I tuoi pazienti sottomessi sentiranno la tua mancanza.”
“Non completamente, svolgo ancora quel lavoro, ogni tanto”, gli fece l’occhiolino, “E come sai, la mia offerta di prova è sempre valida”.
“Ti ringrazio, Iona. Lo terrò in considerazione”.
Iona non era una stupida, e aveva capito, dall’atteggiamento di Henry nei suoi confronti (perfettamente cordiale, ma anche formale), che lui non era più disponibile. Armandosi di un altro sorriso e di un po’ di autoironia chiese:
“Allora, chi è la fortunata?”
Henry sapeva che negare non sarebbe servito a nulla. Era meglio essere sinceri, fornendo una versione riadattata della verità (cosa in cui, peraltro, lui era esperto):
“Non ti sfugge nulla, Iona. Non mi stupisce che ti abbiano scelto come psicologa del dipartimento”.
“In realtà, ho iniziato come sostituta del dottore che c’era prima di me… un certo Louis”, spiegò Iona, ma si interruppe quando vide l’espressione di Henry cambiare radicalmente, come se gli avessero dato un pugno in faccia. “… lo conosci?”, chiese, incuriosita.
“Mi è capitato di incontrarlo un paio di volte”, rispose lui asciutto, ricomponendosi, “Di sfuggita. Dunque il lavoro temporaneo è diventato permanente?”, continuò, riprendendo le fila del discorso.
“Sì, a quanto pare. Alla fine dell’anno dovrebbero offrirmi un contratto definitivo”.
“Sarebbero stupidi, se non lo facessero”, osservò Henry, tornato perfettamente in sé, “Ti auguro ogni bene, Iona. Davvero.”
“Grazie. Anche a te”. Questa volta si salutarono con una stretta di mano. “E se mai la tua… situazione, dovesse cambiare… sai dove trovarmi.” Gli fece un occhiolino e si voltò, sparendo tra la folla. Henry attese qualche secondo fino a che non la perse di vista, poi uscì dalla sala. Anziché dirigersi verso l’uscita, però, si rintanò in un vano laterale del corridoio, leggermente nascosto dalla vista. Lì c’erano un telefono e una sedia: si sedette, inspirando profondamente. L’accenno ad Adam lo aveva turbato più di quanto volesse ammettere. Lo sapeva che ormai era fuori gioco, eppure ricordarsi di lui lo metteva in agitazione. Non era tanto il pensiero di essere stato ingannato, anche se era un duro colpo alla sua autostima, visto che credeva fermamente nella propria intelligenza o intuito. Il fatto che qualcuno lo avesse ingannato, che fosse stato più furbo di lui, lo poteva anche accettare. Quello che non riusciva a sopportare era il pensiero di essere stato così ingenuo da esporsi. Là, in quello studio, anche se non sapeva che Adam era Adam, aveva commesso un grave errore: era stato sincero. Si era aperto con uno sconosciuto, e in quel modo aveva rivelato qual era la sua più grande paura: che le persone che lui amava si facessero male. Non avrebbe dovuto farlo, a prescindere. Era una sua regola: mai rivelare qualcosa che poteva mostrare chi era davvero. Indossare la maschera e continuare a portarla. Il pensiero di Iona in quello studio si sovrapponeva al ricordo di Adam, a lui che sedeva placidamente, e che con pazienza e astuzia carpiva le sue debolezze per poi usarle contro di lui. Non importava quante volte Adam l’avesse ucciso, o avesse provato a farlo: era la minaccia costante contro Abe e Jo a spaventarlo davvero.
Henry scosse la testa come a scacciare il pensiero: quella minaccia ormai era svanita. Ora le cose stavano andando bene. Doveva calmarsi o il suo turbamento sarebbe apparso all’esterno.
“Henry?”, Jo fece capolino dal corridoio, oscurando in parte le luci che si riflettevano sul marmo. “Tutto bene?”
“Jo. Che ci fai qui? Non dovevi aspettare una mezz’ora prima di uscire?”
“Ecco, io… ti ho visto uscire e mi sembravi turbato. Quando ho chiesto al portiere se ti aveva visto uscire in strada lui mi ha detto di no, quindi… sono tornata indietro e ti ho visto seduto qui. Va tutto bene?”
“Sì. Non ti preoccupare. Tutto bene.”
“Il fatto che tu mi dica non ti preoccupare mi fa preoccupare abbastanza”, osservò Jo, avvicinandosi a lui. Non c’erano altre sedie, ma Henry si scostò e le fece un po’ di spazio. Jo si sedette sul bordo della sedia, con la spalla premuta contro quella di Henry.
“Non è niente, davvero”, la rassicurò Henry, anche se non era riuscito ancora a togliersi di dosso completamente la sensazione di disagio causatagli dal ricordo di Adam.
“È per Iona?”, chiese Jo con cautela.
“Non proprio”.
Jo ormai lo conosceva abbastanza per capire quando era il momento di lasciare stare. Quando avesse voluto, Henry gliene avrebbe parlato, qualunque cosa fosse. Tuttavia c’era un altro pensiero, un po’ infantile, doveva ammetterlo, che tormentava Jo. E visto che erano soli, spalla contro spalla, nel vano di un corridoio, tanto valeva togliersi il pensiero.
“Henry, posso farti una domanda?”
“Pensavo che ormai ti fossi aggiudicata il diritto di farmi domande quando e come volevi, detective”, rispose Henry con un mezzo sorriso.
“Non è una solita domanda sul tuo passato. È una cosa personale”.
“Perché, le domande sul passato non sono personali?”
Jo sbuffò. “Sai cosa intendo”.
Anche Henry sbuffò. “Va bene, spara”.
“Perché ti piaceva Iona?”
“Prego?”
“Perché ti piaceva Iona?”, ripeté Jo, “Voglio dire, senza offendere nessuno, lei è sicuramente uno schianto, una donna intelligente, anche, sensuale e tutto quello che vuoi. Ma… sinceramente, non mi sembra proprio il tuo tipo. Soprattutto dopo tutto quello che mi hai raccontato.”
Henry ci rifletté per qualche istante.
“Non ti so dare una risposta”, disse, “Però immagino che sia proprio perché non era il mio tipo, che mi piaceva.”
“Cioè?”, chiese Jo, confusa.
“Voglio dire… immagino che sia stato più facile sentirmi attratto da una persona alla quale sapevo già in partenza di non potermi affezionare. Non so se mi spiego. Era qualcosa come… curiosità. Qualcosa di nuovo.”
Jo annuì, e scoprì con sorpresa che in effetti lo capiva.
“E oserei dire”, continuò Henry, “Che a me piaceva Iona come a te piaceva Isaac. Nemmeno lui mi sembra il tuo tipo, eppure siete usciti insieme.”
“Già. Immagino che come al solito tu abbia ragione, dottor Morgan”.   
“Capita, quando si ha una certa dose di esperienza alle spalle”.
Jo posò la testa sulla sua spalla, sospirando. Visto che erano in argomento, aveva un’ultima domanda da porgli, per togliersi ogni dubbio.
“Ti piace ancora? Iona, intendo”.
“Così mi ferisci nel profondo, detective”, replicò lui, voltando la testa per poterla vedere in viso, “Sei seria?”
“Sì, sono seria”.
“No”, rispose allora lui senza esitare, “Nel caso non te ne fossi accorta, sei l’unica persona che mi conosce veramente, e l’unica di cui mi fidi. A parte mio figlio.” Si fermò un istante, forse temendo di non essere stato abbastanza convincente. “Voglio dire, sei tu quella che ho scelto come confidente. Non Iona. E questa credo sia la dimostrazione più valida del fatto che ti amo”.
Jo sorrise contro la sua spalla, completamente rassicurata. A essere sinceri, era la prima volta (anzi, la seconda, se si contava quel ti amo pronunciato di sfuggita quando avevano cenato insieme la prima volta), che Henry le diceva esplicitamente ti amo. Nemmeno lei, a dirla tutta, l’aveva mai ammesso ad alta voce.
“Anch’io ti amo”, disse allora, “Che ne dici se mettiamo in atto il nostro piano di svignarcela? Chissenefrega della mezz’ora in più o meno”.
“Non potrei essere più d’accordo”. 

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Capitolo 5
*** One year later ***


5
One year later

 
“Allora, io direi venti dollari sulla prossima risposta”, propose Abe, mettendo una banconota sul piatto delle scommesse.
“Sì, però non vale”, disse Lucas mentre buttava giù un altro sorso di liquore, “Non posso stare io in squadra con Henry? Non è una cosa equa”.
“Ehi, razza di ingrato”, lo riprese Abe dandogli uno spintone, “Guarda che nemmeno io sono da buttare via, sai?”
“Guarda che Abe è un bravissimo giocatore”, disse Jo pescando una carta, “Allora, pronti per la domanda da venti dollari?”
“Spara, dolcezza”, Abe si strofinò le mani come per prepararsi alla battaglia.
“Mmh, allora, tecnologia”, lesse Jo. Lucas tirò un sospiro di sollievo per aver avuto la fortuna di imbattersi in un ambito in cui si sentiva abbastanza ferrato. “Che cos’è una backdoor? A: un sistema antivirus; B: un software di riconoscimento OCR; C: una porta di accesso nascosta a un sistema, D:…”
“C!”, rispose Lucas trionfante.
“Ci potevo arrivare anch’io”, osservò Henry sorseggiando il suo cognac.
“Seh, come no”, disse Abe. “Ora tocca a voi.” Estrasse una carta e lesse: “Storia. Merda”, aggiunse, “Se è una domanda di storia siamo fottuti in partenza”. Fece un respiro teatrale e continuò a leggere: “In quale anno avvenne quella protesta nota come Boston Tea Part…
“1773”, rispose Henry immediatamente, “Sei anni prima che nascessi, e dieci anni dopo mio padre ancora se ne lamentava, perché a causa di tutto il thè perduto la Compagnia delle Indie non aveva saldato il debito per le tre navi Morgan che aveva noleggiato”.
“Potevi almeno farmi leggere le possibili risposte”, borbottò Abe, lanciando lontano la carta che aveva appena letto. “Ed evitarti la lezione di storia”.
“Ma era per dare un po’ di contesto”, replicò Henry.
“Siamo pari, comunque”, disse Lucas.
“Facciamo un altro round, allora, per quei 20 dollari”, propose Jo, e prese un’altra carta:
“Moda e design”. Sorrise, ammiccando verso di loro: “Mi sa che siete fregati, ragazzi. Qui ci vuole una donna. Dunque: a quale famosa celebrità Hermes dedicò una sua creazione? A: Audrey Hepburn; B: Grace Kelly; C: Marilyn Monroe; D: Elizabeth Taylor”.
Seguirono alcuni secondi di silenzio.
“Io non so neanche chi sia, Hermes”, ammise Lucas, rifugiandosi nel suo bicchiere, “Abe, a te l’onore.”
“Ehm…” Abe rifletté, sotto lo sguardo ironico di Henry e Jo che già pregustavano la vittoria.
“Avanti, Abe”, lo incitò Henry scherzosamente.
“Ehm… Elizabeth Taylor?”, azzardò.
“No! Grace Kelly”, lo corresse Jo, e lei ed Henry batterono il cinque, ridendo.
“Non cantate vittoria troppo presto, voi due”, li riprese Abe, “Dovete ancora rispondere alla vostra domanda. Lucas?”.
Lucas prelevò una carta e lesse: “Storia. Gesù Cristo, ma non vale! Non possiamo togliere tutte le domande relative a storia?”
“Leggi e basta, Lucas!”, esclamò Jo, ridendo.
“Chi fu la prima donna a essere ammessa come insegnante all’università Sorbone?”
“Marie”, rispose di nuovo Henry senza permettere a Lucas di leggere le possibili alternative. “Curie”, aggiunse, quando tutti lo fissarono perplessi. “Subito dopo la morte di Pierre”, continuò Henry, come se fosse una cosa ovvia, “Gran bella donna, tra parentesi. Si divertiva un mondo a far finta di essere francese, quando in realtà era polacca”.
“Va bene, avete vinto”, concesse Abe, allungando la banconota verso di loro.
“Sì, però, non vale giocare a Trivial contro di te, Henry”, si lamentò Lucas, “Non dovreste darci dei punti di vantaggio o qualcosa del genere?”
“Che ne dite se ordiniamo delle pizze, con questi venti dollari?”, propose Jo, afferrando la banconota.
“Pizze??”, ripeté Henry, quasi scandalizzato, “Lo sai cosa ci mettono, lì dentro?”
“Eddai, papà, di cosa hai paura? Di morire per il colesterolo alto?”, sghignazzò Abe. Sia Lucas che Jo scoppiarono a ridere a quella battuta.
“E va bene, va bene”, Henry alzò le mani in segno di resa, “Se volete deturparvi con il cibo spazzatura, io non mi oppongo.”
“Amen”, disse Abe. “Jo, io prendo una pizza con salame e peperone”.
“E una confezione di bicarbonato”, aggiunse Henry ironico.
“Io una pizza prosciutto e funghi”, disse Lucas mentre Jo digitava il numero della pizzeria, “Tu, Henry?”
Tutti fissarono gli occhi su di lui, sfidandolo scherzosamente. “Una margherita, sicuramente”, borbottò Abe senza farsi sentire da Henry.
“Una margherita”, concesse Henry dopo parecchi secondi di silenzio.
“Come volevasi dimostrare”, disse Abe con un occhiolino rivolto a Jo.
 
“Allora, chi è la nostra vittima?”, chiese il capitano Reece avvicinandosi al tavolo dell’autopsia.
“Sarah Conrad”, lesse Jo dai propri appunti, “Venticinque anni, americana di New York. Laureata da poco in scienze politiche all’università di New York, ha sempre abitato qui. I genitori sono entrambi morti e non sembra ci siano altri parenti. Lavorava come stagista presso il senatore Christopher Elliott che si sta preparando per le prossime elezioni.” Controllò che non ci fosse altro da aggiungere, poi si rivolse a Henry: “Henry?”
“Sì, allora, è stata strangolata”, prese la parola Henry, “A mani nude, probabilmente da un uomo, a giudicare dalla dimensione dei segni”, e con una penna indicò i segni violacei sul collo del cadavere, “Nessuna impronta digitale, ma ho comunque trovato qualcosa di interessante”. Prese delicatamente una mano del corpo e la sollevò in modo che tutti potessero vederla. “Notate qualcosa?”
Jo osservò le dita della ragazza, con le unghie tagliate corte e la pelle abbastanza morbida e ben tenuta.
“… mani ben curate?”, azzardò Jo.
“Mani troppo ben curate”, la corresse Henry, “Qualcuno le ha ripulito le dita con dell’acetone, probabilmente per rimuovere eventuali tracce dell’assassino. Si deve essere difesa.”
“Quindi c’è la possibilità che l’assassino sia stato graffiato, magari in viso”, concluse il capitano, “Altro che ci può dire, dottor Morgan?”
“Sì”, rispose Henry, “Era incinta di due mesi”.
Hanson mandò un fischio di sorpresa.
“Questa sì che è una notizia”, affermò, “Troviamo il padre del bambino e almeno avremo una pista. Magari non voleva che lei avesse il bambino”.
“Possiamo capire chi è il padre dal DNA, Henry?”, chiese Jo.
“Sì, ma solo se mi portate un campione da confrontare.”
“Bene, ragazzi”, disse il capitano, “Al lavoro. Cerchiamo di capire se aveva una relazione, e con chi. Cominciate da colleghi e amici”.
 
“Novità sul caso Conrad?” Il capitano si avvicinò alla scrivania di Jo che era intenta ad analizzare alcuni fogli insieme ad Henry.
“Meno di quanto sperassimo”, ammise Jo, “Abbiamo interrogato tutti i suoi conoscenti. A dire il vero, non aveva amici. O almeno, non aveva amici al di fuori del lavoro. A quanto pare, viveva per il lavoro. Stava lì anche più di dodici ore al giorno. Nessuno sa se avesse un fidanzato”.
“Di qualcuno però è rimasta incinta”, intervenne Henry, “E visto che pare non avesse una vita sociale al di fuori del lavoro, mi viene da pensare che il padre del bambino sia da ricercare fra i suoi colleghi, o comunque qualcuno sul luogo di lavoro”.
“Esatto”, concordò Jo, “Senza contare che la reazione di alcuni colleghi quando ho chiesto se Sarah aveva una relazione non mi ha convinto”.
“È vero”, annuì Henry, “Sembravano imbarazzati. Forse è un uomo sposato, o comunque qualcuno che si comprometterebbe, se avesse una relazione… oppure…”.
“Oppure cosa?”, lo incitò Reece, incuriosita dal suo ragionamento.
“Oppure aveva una relazione con il senatore in persona”.
“Mi sembra un’ipotesi azzardata, dottor Morgan. Ha qualche prova?”, chiese il capitano aggrottando le sopracciglia.
“No”, dovette ammettere Henry, “Ma è l’unica teoria che acquisisce un senso. Voglio dire, Sarah Conrad aveva una vita assolutamente ordinaria. Niente droga, né debiti, né compagnie pericolose. Viveva sul lavoro. L’unico movente che mi viene in mente è la sua gravidanza, perché poteva compromettere qualcuno. In più, è stata strangolata, segno che è stato un delitto passionale, un gesto di impulso”.
“Ha senso, capitano”, disse Jo con una velocissima occhiata di orgoglio indirizzata a Henry.
“Sì, ma non avete prove”, ribatté il capitano.
“Possiamo cominciare con interrogare il senatore, vedere come reagisce”, suggerì Henry.
“Non potete convocare un senatore per un interrogatorio senza avere validi motivi”, osservò il capitano.
“Beh, perché no?”, chiese Jo, “In fondo, Sarah era una sua dipendente. Mi sembra normale fargli qualche domanda senza per questo accusarlo di nulla.”
Il capitano Reece rifletté per qualche istante.
“Procedete con cautela”, disse alla fine.
 
“Grazie per essere venuto, senatore Elliott”, disse Jo cortesemente, indicando al senatore (e al suo avvocato che lo aveva accompagnato) una sedia su cui accomodarsi.
“Qualunque cosa, per aiutare le nostre valevoli forze di polizia”, rispose il senatore con un sorriso a trentadue denti. Henry trattenne una smorfia di sarcasmo. Quell’uomo non gli piaceva. Alto, magro e in forma anche se si avviava verso i sessant’anni, la pelle con una tinta abbronzata quel tanto da dare l’impressione di condurre una vita sana all’aperto (ma Henry era sicuro che quell’abbronzatura fosse il risultato di costose lampade di bellezza), mani curatissime, denti sbiancati, capelli brizzolati quel tanto da donargli un’aria volutamente sbarazzina. Insomma, era un vero e proprio personaggio, costruito ad hoc per fare presa su un numero il più ampio possibile di elettori: dai ricchi ai borghesi, dai professionisti agli operai. Era un attore. E sembrava godere appieno del proprio ruolo, emanando un’aurea di pericolo se qualcuno avesse osato mettere in dubbio la sua messinscena.
“Dunque, come forse saprà, vorremo discutere con lei dell’omicidio di una sua dipendente, Sarah Conrad”, cominciò Jo, “La conosceva?”
“Ho molti dipendenti che lavorano per me”, rispose il senatore sempre sorridendo.
Risposta evasiva, pensò Henry, che non si trattenne dall’intervenire:
“Ma lei, nello specifico, la conosceva?”
“Forse”, concesse il senatore Elliott con un lievissimo lampo di irritazione nei confronti di Henry, “Probabilmente l’ho incrociata e ci ho parlato, ma non mi ricordo. Parlo con moltissime persone ogni giorno. C’è altro?”
“Quali erano le mansioni della signorina Conrad?”, chiese ancora Jo.
“Come le ho già detto, non mi ricordo nello specifico della signorina Conrad. Dovrebbe chiedere al capo del personale, sarà mia premura farle avere il numero”. Detto questo, prese una gomma da masticare alla menta e sa la mise in bocca, poi si alzò, come a sancire la fine della conversazione.
“Aspetti, non abbiamo ancora finito…”, si alzò Jo a sua volta, ma il senatore le sorrise di nuovo con finta cordialità:
“Invece credo proprio che abbiamo finito, detective Martinez. Come le avevo già detto, non conoscevo la signorina Conrad, quindi non posso aiutarvi. Per domande sulle sue mansioni, rivolgetevi al mio capo del personale. Per qualunque altra domanda nei miei confronti, rivolgetevi al mio avvocato”.
E se ne andò senza aggiungere altro.
“Ci scommetto i miei duecento anni di vita che è stato lui”, disse Henry. Jo, al suo fianco, annuì per dargli ragione. “Dobbiamo interrogare di nuovo i suoi colleghi”, decise Jo, “Andiamo”.
 
“È sicura di non avere idea di chi potesse essere il suo ragazzo?”, chiese di nuovo Jo, “In fondo, lavoravate insieme tutto il giorno”.
La ragazza scosse la testa, stringendosi nelle spalle. Era alla terza sigaretta nel giro di dieci minuti, continuava a battere il piede per terra e a guardarsi attorno allarmata. Li aveva portati in un vicolo sul retro prima di rendersi disponibile a rispondere a una qualsiasi domanda. Poco ma sicuro, quella ragazza sapeva qualcosa.
“Jenny”, cominciò Henry con tono persuasivo e rassicurante, “Sono sicuro che tu sai qualcosa, come sono sicuro che l’unico motivo per cui sei così reticente a parlare è che hai paura per il tuo posto di lavoro. Ho ragione?”
Jenny non confermò né smentì. Si limitò a un’altra boccata dalla sua sigaretta e a guardare fisso a terra.
“Ci puoi almeno dire quali erano i compiti di Sarah? Questo non credo che sia compromettente, per te”.
La ragazza sembrò rilassarsi un pochino.
“Sì. Beh… Sarah lavorava principalmente con Elliott. Collaborava con gli addetti stampa e si occupava di tutte le relazioni con i media: interviste, interventi in tv, comunicati, discorsi…”
Henry e Jo si scambiarono un’occhiata.
“Con il senatore, hai detto?”, chiese conferma Jo dolcemente.
Jenny annuì, ma sembrò messa in allarme da quella domanda.
“Il senatore Elliott ci ha detto di non conoscere Sarah”, osservò Henry.
“Ha detto questo?”, gli occhi della ragazza di spalancarono di stupore e paura, “Beh, ecco, forse… non lavorava proprio con Elliott. Forse comunicava con i suoi addetti… in ogni caso… devo andare, adesso”. Gettò la sigaretta a terra e sparì in fretta e furia.
Henry guardò Jo in maniera eloquente.
“L’ho già detto che secondo me è stato lui?”
Jo alzò gli occhi al cielo, trattenendo un sorriso.
“Sì, Henry, forse una volta o due”.
Rientrarono nel quartier generale della campagna elettorale attraverso la stessa porta utilizzata da Jenny. Erano tutti indaffarati a parlare al telefono, correre da una scrivania all’altra, accumulare plichi di fogli. L’attenzione di Henry fu attirata da una scrivania non occupata, in fondo alla stanza.
“Mi scusi”, chiese cortesemente alla prima persona che riuscì a intercettare, “Quella scrivania è del senatore Elliott, vero?”
“Più o meno”, rispose il ragazzo, che sembrava non vedere l’ora di liberarsi dalla montagna di volantini che stava trasportando, “Non è proprio sua, ma la usa sempre quando viene qui a fare il punto della situazione. Visto che ci sono le sue cose, nessun’altro la usa”.
“Grazie infinitamente”, disse Henry con un sorriso smagliante, e senza aggiungere altro si diresse dritto verso quella scrivania.
“Henry!”, sussurrò Jo per non farsi sentire dagli altri, “Ma che fai? Henry!” Lo seguì, evitando il via vai ininterrotto di gente. Henry stava fissando la scrivania, assorto. Come previsto, era in perfetto ordine. Troppo in perfetto ordine. Gli oggetti erano allineati in maniera simmetrica, le penne erano ordinate in base al colore, non c’era un filo di polvere né tantomeno graffi o segni lasciati dalle tazze di caffè. A destra, nascosto dietro al server del computer, c’era un piccolo bidone della spazzatura. Henry si chinò per sbirciare all’interno e trovò quello che stava cercando: una gomma da masticare. Con noncuranza prese un sacchettino di plastica dal cappotto, recuperò la gomma da masticare e se la mise in tasca.
“Henry!”, sibilò Jo, “Ma che stai facendo? Lo sai che non puoi procurarti delle prove senza mandato”.
“Ma questa non è una prova”, rispose Henry tranquillamente, “Diciamo che è solo un mezzo per ottenere una conferma. Voglio solo controllare se il DNA corrisponde a quello del feto. Se sarà così, almeno avremo la sicurezza di muoverci sulla pista giusta.” Jo si limitò a scuotere la testa in segno di rassegnazione, ma non obiettò.
Quando Henry arrivò in laboratorio, trovò Lucas che picchiettava nervosamente una penna sulla scrivania. Appena lo vide entrare, si rivolse a lui: “Henry! Meno male che sei arrivato. Sei stato tu a spostare il cadavere della Conrad?”
“Spostare?”, lo stupore di Henry si trasformò in un brutto presentimento. “Io non ho spostato nulla. Perché?”
“Allora abbiamo un problema”, disse Lucas, “Perché il cadavere di Sarah Conrad è sparito”.
 
“Sparito? Che intendete dire con sparito?”, il capitano Reece si sporse in avanti sulla propria scrivania.
“Lo giuro, capitano, non so come sia successo”, balbettò Lucas, “Per tutto il tempo in cui Henry è stato via con Jo io sono stato in laboratorio. Non mi sono mosso”.
“Devono aver agito di notte”, intervenne Henry, “Lucas era lì stamattina, e io ero lì ieri pomeriggio. Non c’è altra spiegazione.”
“Ma perché rubare un cadavere su cui era già stata fatta un’autopsia?”, chiese Hanson.
“Per impedirci di scoprire chi era il padre del feto”, rispose Henry convinto, “Peccato che io avessi già prelevato un campione di DNA, in attesa di trovare un altro campione con cui fare un confronto”.
“E…?”, incalzò Reece.
“… e il padre del bambino è sicuramente il senatore Elliott. Ho fatto il test.”
“Non ricordo che qualcuno di quest’ufficio l’abbia autorizzata a prelevare un campione di DNA dal senatore Elliott, dottor Morgan”, il capitano lo fulminò con lo sguardo e sia Henry che Jo al suo fianco abbassarono gli occhi a terra, “Non voglio sapere come ha fatto a procurarsi quel campione”.
“Ho solo raccolto una gomma da masticare da terra”, tentò di giustificarsi Henry, “Giusto per sapere se eravamo sulla strada giusta”.
“Però adesso non abbiamo più un cadavere”, intervenne Hanson, “Sarà meglio che lo metti in cassaforte quel campione di DNA, Doc.”
“Vedete di scoprire chi ha avuto la faccia tosta di entrare in questo dipartimento e rubarci un cadavere”, ordinò il capitano, “E convocate di nuovo Elliott. Anche se in maniera non ufficiale”, e fulminò di nuovo Henry, “… ora sappiamo che aveva una relazione con la vittima. Avete l’autorizzazione a forzare un po’ la mano”.
 
 
“Non capisco perché mi avete di nuovo convocato”, il senatore Elliott aveva abbandonato il suo tono affabile per adottarne uno decisamente più scocciato, “Non conoscevo Sarah Conrad e non ho altro da dirvi”.
“Strano che lei dica così”, Jo non si lasciò provocare, “Perché abbiamo dei testimoni che ci hanno detto che lei e Sarah Conrad lavoravate a stretto contatto. Doveva conoscerla per forza”.
“Lavoro a stretto contatto con molte persone, non significa che io le conosca”, sibilò il senatore.
“Inoltre la signorina Conrad era incinta”, buttò lì Jo senza esporsi troppo.
“Buon per lei”, gli occhi del senatore si strinsero a due fessure.
“Ha idea di chi potesse essere il padre?”
“Come le ho già ripetuto mille volte, detective”, Elliott quasi sospirò come se stesse parlando a un bambino, “Non conoscevo quella donna. Se ho avuto contatti con lei, non me lo ricordo. Non so nulla di lei né delle sue relazioni personali. Se non avete capi d’accusa o mandati con cui trattenermi, questa conversazione si conclude qui”. Si alzò, come aveva fatto l’altra volta, e senza salutare si diresse verso l’ascensore.
“Signor senatore, le consiglio di smetterla di fare finta di niente. Abbiamo testimoni, e anche prove, del fatto che avesse una relazione con la signorina Conrad”. Jo inseguì il senatore lungo il corridoio, con Henry che le stava accanto, in silenzio.
“Vorrei proprio vederle, queste prove e questi testimoni”, il senatore alzò le sopracciglia in un’espressione di sfida, “E se posso permettermi, vorrei dare io un consiglio a lei. La smetta di perseguitarmi, detective. Non vorrà certo finire a dirigere il traffico, vero?”
Nonostante il suo sangue freddo, Jo si sentì sbiancare di fronte a quella provocazione.
“È una minaccia?”, chiese a denti stretti.
"Io non minaccio, detective", disse Elliott con un sorriso strano, "Non ne ho mai avuto bisogno".
Quando lo vide sparire dietro le porte dell'ascensore, Jo scoprì di essere infuriata. Non solo Elliott si era palesemente preso gioco di lei negando di conoscere Sarah, ma le aveva sbandierato davanti il potere della propria posizione, sminuendo tutto il lavoro onesto che lei aveva svolto nel corso degli anni. Si voltò verso Henry, pronta a dare il via a una battaglia personale contro il senatore, quando si accorse che lui non era lì. Doveva essere sceso in laboratorio senza che lei se ne accorgesse. E infatti era là, seduto alla scrivania del suo ufficio, che fissava il vuoto con occhi assorti. Jo entrò e chiuse la porta alle sue spalle.
"Hai sentito quel… quel bastardo che cosa ha detto?", esclamò Jo per sfogare la sua frustrazione.
"Sì, ho sentito", rispose Henry posando il suo sguardo su di lei. I suoi occhi erano imperscrutabili.
"Quel… non posso credere che abbia avuto una tale faccia tosta da minacciarmi di farmi perdere il lavoro se avessi continuato a indagare. Voglio dire… è un senatore! Mi aspettavo che tenesse un profilo basso, almeno, ma invece…" Jo si aspettava un intervento di Henry, ma lui non diceva nulla, e Jo prese il suo silenzio come un invito a proseguire la sua filippica, "Invece non solo mi ha mentito spudoratamente, ma mi ha fatto anche capire di essere intoccabile, e che lui può fare quello che vuole! Ma ti rendi conto? Ha apertamente buttato nel cesso la legge, i diritti, la giustizia… e chi più ne ha più ne metta! Oh ma non finisce qui", Jo si scostò i capelli che per la foga del discorso le erano caduti davanti al viso. "Giuro che non finisce qui!"
"Sì invece", la interruppe Henry in tono fermo, "Finisce qui".
Jo era così basita da quell'intervento che rimase per alcuni secondi in silenzio.
"Che stai dicendo, Henry? Non possiamo permettere che la faccia franca!"
"Sì, invece. È esattamente quello che faremo".
"Ma… Henry, non ti farai spaventare da una minaccia, vero? Non è la prima volta!"
"Quella non era una minaccia, Jo", disse Henry con fermezza, "E non era neanche un avvertimento. Era una constatazione. E ho visto il suo sguardo. Se continuerai a dargli la caccia, non arriverai viva alla fine della settimana. No, Jo, te lo assicuro, so quello che dico", aggiunse vedendo che Jo stava per replicare, "L'uomo che mi ha ucciso la prima volta aveva lo stesso identico sguardo. E non è una minaccia a vuoto. Ha già deciso di ucciderti. Anzi, probabilmente ti ucciderà comunque, anche se ti fermerai".
"Henry, non starai dicendo sul serio", disse Jo, "Sì, è una persona potente, ma non può ammazzare i poliziotti a suo piacimento. Non la farebbe franca…"
"Sto parlando sul serio, Jo", replicò Henry, "Sono serissimo. Quando Abigail se n'è andata…" il suo tono si fece leggermente meno fermo, come ogni volta che parlava di Abigail, ma continuò comunque imperterrito, "… e poi non si è fatta più viva, io sapevo che era successo qualcosa. Me lo sentivo nelle ossa. E ora ho la stessa sensazione. E mai, per nulla al mondo, permetterò che a te succeda lo stesso che è successo a Abigail. Dovessi chiuderti all'interno di una stanza contro la tua volontà, non permetterò che ti succeda qualcosa. Vivrei l'eternità senza riuscire a perdonarmi". Si interruppe, abbassando lo sguardo per un istante, prima di fissarlo nei suoi occhi: "Per cui ti chiedo, Jo, te lo chiedo supplicandoti, lascia perdere. Prenditi una settimana di ferie, fai la valigia e andiamo via fino a che le acque non si saranno calmate. Ti scongiuro."
"Henry", esordì Jo portandosi al suo fianco, "Io capisco la tua preoccupazione, ma… credo che sia esagerata. Tutti i criminali minacciano. Sono un poliziotto, sono abituata a queste cose. Non posso permettere che un omicidio rimanga impunito perché mi hanno lanciato qualche minaccia. È contro tutto quello in cui ho sempre creduto".
"Lascia perdere", ripeté Henry, e le prese le mani, stringendole, "Ti prego, lascia perdere".
"Non posso", ribadì Jo, "Non posso lasciar perdere! Non riuscirei più a dormire. Non verrei mai a patti con la mia coscienza se sapessi di aver volontariamente lasciato libero un assassino. Non me lo perdonerei mai."
Henry abbassò gli occhi a terra, ma continuò a tenerle le mani. Rimase in silenzio per parecchi secondi prima di sussurrare: "Lo sapevo che avresti risposto così. Ma dovevo tentare comunque". Si alzò in piedi, e cominciò a passeggiare nervosamente davanti alla scrivania.
"Jo, se non vuoi lasciar perdere, almeno promettimi una cosa", si posizionò davanti a lei guardandola dritto negli occhi, "Promettimi che farai tutto quello che ti dico senza obiettare. Giurami questo, e non ti chiederò più di lasciar perdere".
Jo esitò, cercando di carpire dalla sua espressione quali fossero le sue intenzioni.
"Henry, se dopo avermi fatto promettere mi chiederai di rinunciare al caso, sappi che io…"
"No, non ti chiederò di rinunciare. So che non lo farai. Ma conosco gli individui come Elliott, ne ho incontrati così tanti nel corso della mia esistenza che ho perso il conto. Per sconfiggerlo bisognerà giocare il suo stesso gioco. E dobbiamo essere preparati al peggio."
"Il peggio?", ripeté Jo confusa, "Dobbiamo?"
"Sì, il peggio. Ci ho pensato per ogni secondo da quando sono sceso qui. Lui ha già un piano in mente. Dobbiamo essere pronti a contrattaccare."
"Henry, sai che mi fido di te. Ma questa volta credo che tu stia esagerando. Forse la tua preoccupazione nei miei confronti ti sta facendo vedere le cose in…"
"Non sto esagerando, Jo", la voce di Henry si alzò di una tacca, "Te lo assicuro. Non sto esagerando. So perfettamente quello che sta succedendo. L’ho capito sin dal primo momento in cui l’ho visto."  Sospirò, nascondendo per qualche istante il viso tra le mani. Quando tornò a fissarla, il suo sguardo era di nuovo irremovibile.
"Ti chiedo una cosa, una cosa sola. Vai al negozio adesso usando la mia bici, e dammi le chiavi della tua macchina".
"Come?"
"Dammi le chiavi della tua macchina, e vai a casa mia in bici. Ti chiedo solo questo. Se la mia idea era sbagliata, non dirò più nulla. Ma se avevo ragione, voglio che mi prometti che farai tutto quello che ti dirò".
"E che idea dovresti dimostrare?", chiese Jo, ancora tentennante.
"Lo vedrai. Dammi le chiavi della tua macchina", ripeté Henry.
Dopo aver soppesato le implicazioni di quella richiesta, Jo decise che in fondo questo poteva anche concederglielo. Estrasse le chiavi dalla tasca e gliele porse.
"Pensavo che non sapessi guidare", osservò cercando di alleggerire la tensione da cui Henry sembrava essere permeato.
"Io so guidare", rispose lui, "Solo che lo faccio molto male. Questa è la chiave del lucchetto della mia bici", aggiunse, dandogliela, "Prima di partire chiama Abe e digli che se non mi vede arrivare tra una ventina di minuti, deve venire a prendermi".
"A prenderti dove?", chiese Jo, anche se nel profondo credeva di averlo intuito.
"Al fiume", rispose Henry asciutto, e senza aggiungere altro uscì.
Jo impiegò una mezz'ora a raggiungere il negozio in bicicletta. Quando arrivò, la porta era chiusa, e le luci sia all'interno del negozio che al piano superiore erano spente. Un brutto presentimento si fece strada nel suo stomaco. Se Abe non era in casa, allora voleva dire che…
Arrivarono circa dieci minuti dopo. Henry scese dalla macchina di Abe, e quando lo vide Jo capì che lui aveva avuto ragione: era ancora fradicio dalla testa ai piedi, e indossava un paio di pantaloni della tuta e una t-shirt.
"Che cosa è successo?", chiese, e si accorse di avere la voce strozzata.
"Freni manomessi", rispose lui, "Sono riuscito a far deviare la macchina giù dal ponte senza ammazzare nessuno, a parte me stesso, ma tu non avresti avuto scampo". Entrò nel negozio e accese le luci. "Lo sapevo che aveva già deciso, l’ho capito quando ha detto quel non ho bisogno di minacciare. Non ha bisogno, perché l’oggetto della minaccia è già condannato. Ovviamente nessuno avrebbe potuto ricondurlo a dei freni tagliati. Sei una detective, chiunque tu abbia messo in prigione o arrestato avrebbe potuto farlo." Si diresse verso la sua scrivania e si versò un bicchiere di cognac. "E appena scoprirà che il piano A è fallito, sono certo che ha già pronto un piano B".
"Porca miseria, Jo, hai fatto incazzare un pezzo grosso", osservò Abe raggiungendo Henry e versandosi a sua volta del cognac, "Sarà meglio che calcoli le tue mosse con cura, d'ora in poi".
Jo non rispose niente. Non poteva credere che la minaccia fosse davvero così reale, e imminente. Ma tutto quello non faceva altro che rafforzare il suo proposito: Elliott andava fermato.
"Tu l'hai già fatto, vero, Henry?", chiese alla fine, "Le mosse. Hai già un piano in mente, vero?"
Henry annuì con un cenno del capo, e bevve un sorso di cognac.
"Allora farò tutto quello che mi dirai di fare", disse, risoluta, "Basta che alla fine dei giochi quel bastardo vada in prigione".
"Iniziamo subito, allora", Henry indicò con un cenno la botola che portava al suo laboratorio, "Scendi, ho bisogno di farti un prelievo di sangue".
Jo annuì e obbedì senza chiedere spiegazioni.
 
Jo aveva mantenuto la sua promessa, ed Henry la sua. Lui non le aveva più parlato di rinunciare al caso, e lei eseguiva ciecamente tutto quello che lui le chiedeva di fare. Ogni giorno, le prelevava un po’ di sangue e lo metteva da parte, anche se Jo non sapeva perché, ma sospettava che lui temesse il peggio e si stesse preparando a una trasfusione di emergenza. Insisteva per dormire da lei tutte le notti, ma entrava sempre dal retro, convinto che lei fosse sotto sorveglianza. Le impediva di usare l’auto, e l’accompagnava sempre da e per il lavoro.
“Non puoi proteggermi da tutto, Henry”, gli disse Jo una mattina, mentre camminavano fianco a fianco sul marciapiede. “Se ha deciso di uccidermi, non puoi impedirglielo. Può accadere in qualunque modo, in qualsiasi momento”.
“Non dirlo neanche per scherzo”, replicò Henry, “E qualunque cosa provi a farti, se ti sono vicino hai sempre una possibilità in più di sopravvivere. Metti che paghi qualcuno per investirti. Se mi metto nel mezzo, hai pur sempre la possibilità di salvarti e scappare”.
Jo non disse nulla, sospirando di fronte alla sua ostinazione. Henry aveva due scure occhiaie sotto gli occhi. Oltre a fingere di venirla a prendere tutte le mattine (per cui dormiva da lei, usciva di nascosto, poi tornava da lei simulando di essere appena arrivato, sempre perché era convinto che qualcuno la tenesse d’occhio), di notte la raggiungeva tardissimo, e dormiva solo per poche ore. Jo non sapeva cosa facesse, in quelle ore che passavano da quando uscivano dal lavoro al momento in cui lui veniva da lei. Sapeva solo (e lo aveva scoperto tramite Abe), che lui trafficava moltissimo nel suo laboratorio.
“È preoccupato”, le aveva confidato Abe di sfuggita, un pomeriggio che lei era venuta al negozio, “Non l’ho mai visto così preoccupato dalla scomparsa della mamma.”
E nonostante Jo tentasse di tenere i nervi saldi e gli occhi sull’obiettivo, ovvero incriminare il senatore Elliott, doveva ammettere che le preoccupazioni di Henry si stavano mostrando sempre più fondate. Tutte le prove e gli indizi che pensava di trovare scomparivano alla velocità della luce, mentre al contempo comparivano ostacoli, mozioni, ordini dall’alto, altri casi che richiedevano la precedenza. Il capitano stava cercando di sostenerla nella sua indagine, ma si vedeva che anche lei era sotto pressione dei suoi superiori. Se non avesse trovato una prova schiacciante subito, il caso sarebbe stato archiviato. Eppure Jo non demordeva. Più la combattevano, più lei si sentiva determinata.
Quella mattina, Jo sbatté con violenza la cornetta del telefono mentre riattaccava. Era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Trattenne l’istinto di alzarsi, mettersi a urlare e rompere qualcosa.
“Che è successo?”, le chiese Hanson di fronte a lei.
“Fanculo”, borbottò Jo, sospirando di frustrazione, “Hai presente quella ragazza che lavorava nello staff di Elliott? Quella con cui avevamo parlato io e Henry, Jenny? Doveva venire qui oggi per essere interrogata ufficialmente.”
“Sì, ce l’ho presente”, annuì Hanson.
“È stata trasferita. All’estero. E l’ufficio del personale casualmente ha perso il suo fascicolo e non sa dov’è”.
“Speriamo almeno che sia davvero all’estero”, osservò Hanson, condividendo la sua rabbia, “E non in fondo all’Hudson”.
Jo appoggiò i gomiti sulla scrivania e la testa tra le mani. Dopo quella notizia si sentì improvvisamente sfinita. Il suggerimento di Henry di lasciar perdere, fare le valigie e andare via insieme per una settimana non le era mai sembrato così allettante.
Jo passò il resto della giornata a cercare di rintracciare il testimone sfuggente, senza risultati. Non aveva altre piste, altre prove, altri appigli a cui aggrapparsi. Il test del DNA che Henry aveva fatto non sarebbe mai stato ammesso in tribunale. Non avevano prove sufficienti per chiedere un test del DNA ufficiale. Elliott stava vincendo. Alla grande.
Mentre tornava a casa insieme a Henry, lasciò che la sua rabbia si sfogasse in un monologo che Henry ascoltò pazientemente. Non le era rimasto altro, se non la rabbia.
“Lo so, Jo”, disse Henry alla fine del suo sfogo, “Lo so. Individui del genere esistono da sempre e continueranno a esistere. Bisogna prenderne atto.”
“Dimmi che almeno in qualcuna delle tue storie c’è il lieto fine”, sospirò Jo, “Dimmi che alla fine il male perde e il bene trionfa”.
“Preferisci una bella menzogna o una cruda verità?”
Jo si concesse un sorriso, se non altro di rassegnazione.
“Credevo avessimo pattuito ormai da tempo che dovessi dirmi sempre e soltanto la verità, dottor Morgan”.
“La verità è che bene e male non esistono, Jo. Ci sono solo gli esseri umani, e le bassezze a cui possono arrivare. Non importa quanto progresso abbiamo vissuto in questi anni, gli esseri umani sono sempre gli stessi”.
Jo rifletté su quelle parole, e le venne in mente che mai, nonostante stessero insieme da più di un anno, Henry le aveva raccontato delle circostanze in cui era morto, la prima volta. Gliele aveva accennate, ma mai raccontate nello specifico.
“Com’è successo, Henry? La prima volta. Non me lo ha mai raccontato”.
“Perché non mi piace parlarne”, rispose lui asciutto, “E preferisco non farlo. Scusami.”
“Va bene”, acconsentì Jo, anche se ascoltare una delle storie di Henry avrebbe potuta distrarla. O comunque, rimettere le cose in una giusta prospettiva.
Arrivati al portone di casa sua, Jo estrasse le chiavi per aprire.
“Torni più tardi?”, gli chiese.
“Sì. Devo fare alcune cose. Ma ci vediamo fra un’ora, va bene?”
Jo annuì, sia perché era stanca, sia perché non aveva senso discutere con Henry. Nel frattempo si sarebbe fatta un bagno caldo e avrebbe cercato di calmare la rabbia.
Entrò in casa, posò la pistola e il distintivo sul bancone della cucina, si tolse la giacca e l’appese all’attaccapanni. Anzi, meglio di un bagno sarebbe stato un bicchiere di vino. Si servì un calice di vino rosso e si sedette su uno sgabello, riflettendo su tutte le ingiustizie che aveva dovuto affrontare in quelle settimane. Cercò di spostarsi su pensieri più piacevoli, per esempio alle cene con Henry, lì in quella stessa cucina. Era solo un caso, continuava a ripetersi. Henry aveva ragione, bisognava fare i conti con la realtà: non sempre si poteva vincere. Doveva darsi una calmata, e avere un minimo di prospettiva. Insomma, se pensava a tutto quello che Henry aveva vissuto, la sua ingiustizia diventava un semplice sassolino in una scarpa. Ormai quella povera ragazza era morta e sbattere il senatore in prigione non le avrebbe ridato la vita. Era un ragionamento che le dava la nausea, ma era l’unico che riuscisse a formulare per dare un senso a quella mancanza di giustizia.
Mentre stava finendo il suo calice di vino, sentì bussare alla porta. Strano. Era passata solo mezz’ora, ed Henry di solito entrava dal retro. Chi poteva essere?
Guardò attraverso lo spioncino, e vide il tessuto di un berretto da baseball, gli zigomi pronunciati di quello che sembrava un ragazzo giovane e, accostato alla strada, un furgone della FedEx. Consegne a quell’ora? Stava per tornare indietro e prendere la pistola dalla penisola dalla cucina, quando la porta tremò, e un colpo potente la scaraventò a terra, mentre tre uomini armati facevano irruzione.
Jo reagì di istinto, anche se il vino, la stanchezza e la sorpresa l’avevano lasciata spiazzata. Da terra, facendo leva sul primo gradino della scala su cui era caduta, scalciò, colpendo il primo uomo che aveva davanti prima al ginocchio e poi in mezzo alle gambe. Quello ondeggiò e cadde, ma gli altri due uomini le erano già di fianco e l’afferrarono ognuno per un braccio, trascinandola verso la cucina. Jo provò a divincolarsi, ma erano troppo forti, e riuscì solo a farli sbandare mentre cercavano di costringerla su una sedia. Jo, in mezzo alla sua lotta disperata, cercò di trovare degli indizi sulla loro identità, ma erano completamente vestiti di nero, con un passamontagna, a parte il primo uomo, quello che aveva colpito ed era caduto, e che ora si stava rialzando, che era a volto scoperto e indossava il cappellino da baseball. Lo sguardo di Jo saettò al bancone della cucina, dove aveva la sua pistola, ancora nella fondina, ma era troppo lontana, e i due uomini la tenevano premuta contro la sedia. Non aveva scampo. Tranne…
Con tutte le sue forze lanciò un urlo (perché non ci aveva pensato prima, a gridare?) e si spinse contro lo schienale della sedia, rovesciandosi per terra. Gli uomini persero la presa su di lei e Jo fece partire un altro calcio, che centrò uno dei due aggressori dritto in faccia, facendolo cadere addosso all’altro. Jo rotolò di lato verso il bancone della cucina e si sporse per prendere la pistola. Un colpo attutito, probabilmente a causa di un silenziatore, risuonò nella cucina. Jo non sapeva chi aveva sparato né cosa avesse colpito: continuò a sporgersi verso la sua pistola, l’afferrò, l’estrasse dalla fondina e in un unico movimento inserì il primo colpo in canna: voltandosi verso i due aggressori che l’avevano spinta sulla sedia, fece fuoco. Quelli sussultarono e si accasciarono a terra, poi un altro sparo, di nuovo attutito, risuonò nella cucina. Questa volta Jo sentì una fitta al fianco, che nel giro di un secondo si trasformò in un dolore tale che si ritrovò a cadere per terra, la testa che le girava vorticosamente. Perse la presa sulla pistola, e cadendo il suo sguardo volò verso l’ingresso: il tizio che aveva sparato era quello con il cappellino da baseball. C’erano stati due spari, l’aveva colpita due volte o soltanto una? Jo cercò di guardare verso il punto di origine del dolore, ma attraverso la sua vista annebbiata vide solo sangue. Poi il tizio con il cappello si avvicinò di un passo e le puntò di nuovo la pistola contro, questa volta alla testa.
È finita, pensò, e in quel momento tutta la sua rabbia, la sua sete di giustizia, la sua determinazione nell’incastrare Elliott svanirono: non voleva morire. Non adesso. Perché non aveva dato ascolto a Henry? Perché era stata così cieca nella sua testardaggine? Le si strinse il cuore al pensiero di quanto Henry avrebbe sofferto perdendola. Non se lo meritava. Avrebbe vissuto l’eternità convinto di non essere riuscito a proteggerla. Avrebbe tanto voluto fargli sapere che non era colpa sua…
Un terzo sparo rimbombò nella stanza, ma era diverso. Non era uno sparo con il silenziatore, ma uno sparo normale. Jo pensò che uno dei due a cui aveva sparato probabilmente non era morto e si era rialzato, sparandole a sua volta. Invece, il tizio con il cappellino sussultò e cadde in avanti.
Jo cercò di mettere a fuoco, gli occhi appannati. Una figura scura si profilò alle spalle dell’uomo appena caduto a terra. Non riusciva a vedere bene… era…
Henry!
Il sollievo la investì come un’ondata, tanto che per qualche millesimo di secondo non provò più dolore. Poi, si sentì di nuovo sommersa dalla sofferenza, e rinunciando a ogni resistenza si abbandonò completamente a terra.
“Jo!”, sentì urlare, “Jo, resisti, ok? Ci sono io. Resisti!”
Sto resistendo, avrebbe voluto dire Jo, ma non era sicura di aver mosso veramente le labbra o di averlo solo pensato, sono sveglia. Mi dispiace.
“Mi dispiace”, riuscì a mormorare a stento, “Mi dispiace… avrei dovuto… ascoltare…”
“Shh, stai zitta e resta sveglia, ok? Resta sveglia!”
Jo annuì, o almeno credette di annuire. La stanza iniziò a ondeggiare paurosamente. Il bancone della cucina era proprio all’altezza del suo viso. Henry l’aveva sollevata? Stava diventando tutto così difficile da distinguere… a un certo punto, fu semplicemente nero.
 
Svegliarsi fu come emergere attraverso una nebbia profonda. Cominciò a percepire il proprio corpo da lontano, e un dolore sordo, costante, al fianco destro. Poi il pulsare alle orecchie, e alla testa. La gola secca, le labbra aride. La luce la ferì attraverso le ciglia socchiuse. Immagini chiazzate di bianco e nero si affollavano nella sua testa, cercando di acquisire un senso. Cos’era successo? Dov’era? Che ore erano?
Lentamente, con un respiro sempre più affannoso a causa dello sforzo, riuscì ad aprire gli occhi.
La prima cosa che percepì fu la luce. Una luce bianca, forte, puntata contro di lei. Poi sentì delle coperte sfregare contro la sua pelle nuda. Un odore forte e pungente di disinfettante le pizzicò le narici. Un senso di nausea la prese, facendo accelerare ulteriormente il suo respiro. Quando riuscì a riprendere il controllo di sé, strinse gli occhi cercando di analizzare l’ambiente attorno a lei.
Era sdraiata su un letto. Di fianco a lei, sulla destra, c’erano due comodini messi vicini per formare una specie di tavolo. Sopra, un asciugamano bianco, una vaschetta di plastica con all’interno dell’acqua rossa, bisturi, forbici, pinze, una boccetta di vetro. Jo si accorse che aveva un ago infilato nel braccio, collegato a una flebo in plastica attaccata a una gruccia di metallo che era stata ripiegata su stessa in modo da poter usare l’uncino come appendino.
Quando Jo cercò di alzarsi, la testa le girò così tanto che ricadde all’indietro sul cuscino. Rimase dov’era, ma abbassò lo sguardo sul proprio petto, scostando le coperte con la mano sinistra: indossava solo i pantaloni e il reggiseno, e metà del suo busto era avvolto in bende bianche. Mentre cercava di capire dove si trovava, sentì dell’acqua scorrere, e si accorse di una porta in fondo alla stanza, aperta, che dava su un bagno piastrellato in bianco e giallo. Jo mise a fuoco, e riconobbe la schiena di Henry, mentre, chino sul lavandino, sembrava intento a lavarsi con cura le mani e le braccia.
“Henry…?”, riuscì a mormorare. Temette di aver parlato con un volume di voce troppo basso, ma Henry la sentì lo stesso, e in pochi secondi fu al suo fianco accanto al letto.
“Jo! Jo, come ti senti?”, le chiese preoccupato.
“Io… io sto…”, balbettò Jo con la testa che le vorticava anche se era saldamente appoggiata al cuscino, “Sto bene, credo… gira tutto… dove siamo? Cos’è successo?”
“Gira tutto perché hai perso molto sangue, e l’anestetico che ti ho somministrato sta finendo il suo effetto”, spiegò Henry, e delicatamente le tirò le coperte fin su sotto il mento, “Ti ho estratto le pallottole. Appena te la senti, ti darò qualcosa da mangiare. Hai bisogno di rimetterti in forze. Hai sete?”
“Sì”, rispose Jo, e Henry si affrettò a procurarsi un bicchiere d’acqua e ad accostarglielo alle labbra, delicatamente. Jo bevve un po’ d’acqua ma fu come ingerire dei chiodi.
“Ma…”, continuò Jo nonostante la debolezza, “Che è successo? Dove siamo?”
“Siamo in un posto sicuro, non ti preoccupare”, le rispose Henry. Le posò una mano sulla fronte per verificare se aveva la febbre.
“Ma casa mia… quegli uomini…”
“Ti ho detto di non preoccuparti”, ripeté Henry con fermezza, “Devi solo pensare a guarire”.
“Ma… non riesco a non preoccuparmi, se non so cos’è successo”, ribatté Jo con un po’ più di forza nella voce, forse anche grazie all’acqua che aveva bevuto.
Henry sospirò, ma poi le sorrise pieno di affetto.
“Jo Martinez, sei la donna più testarda che abbia mai conosciuto”, le disse, baciandola sulla fronte, “Ora ti dico cos’è successo, ma solo se mi prometti che poi te ne stai tranquilla, mangi quello che ti do da mangiare e poi dormi, intesi? Ordini del medico”.
Jo annuì, anche se quel movimento le causò un ulteriore giramento del capo.
“Siamo in un hotel”, spiegò Henry, “Tranquilla, stanza prenotata con un nome falso, e da più di una settimana. Nessuno farà caso a noi.”
“… da più di una settimana?”, mormorò Jo confusa.
“Te l’ho detto che ero preparato al peggio, Jo. Questo è il peggio”, le disse Henry, “I tre uomini che ti hanno aggredito sono morti. Due li hai uccisi tu con la tua pistola, uno io, quello con il cappellino da baseball. Ma quello che tutti penseranno è che ti abbiano aggredita, tu ti sei difesa uccidendone due, e uno di quei due, nella lotta, ha sparato un colpo che ha ucciso il terzo uomo. Poi tu ti sei trascinata fuori, perdendo sangue, in cerca di aiuto, e le tue tracce si perdono poco distante da casa tua”.
“Ma… ma come…?”, obiettò Jo cercando di capire tutta la scena.
“I due tizi che tu hai ucciso non avevano sparato. Avevano ancora la pistola nella fondina. Così ho sostituito una delle loro pistole con quella che ho usato io per uccidere il terzo uomo. Non ti preoccupare per il guanto di paraffina, ho pensato anche a quello”, aggiunse Henry vedendo che Jo stava per interromperlo, “Poi ho spostato i cadaveri, fatto qualche ritocco alla scena del crimine, e sparso in giro un po’ del sangue che ti avevo prelevato. Con un tale quantitativo di sangue perso, si viene dichiarati morti anche se non c’è cadavere.”
M…morta?”, balbettò Jo, “Che… che intendi dire? Non hai… non hai chiamato… Hanson o…”
“Riceveranno una chiamata anonima tra un paio d’ore e arriveranno sulla scena del crimine in mattinata”, continuò Henry.
“Ma io… non capisco…”
“Jo, quello era il piano B”, sospirò Henry, “Non capisci? Non si fermerà finché non sarai morta. Ha provato con i freni manomessi, ma ha fallito. Allora ha mandato un commando di mercenari a casa tua ad ammazzarti senza troppi complimenti. Se sapesse che ha fallito di nuovo, ci riproverebbe. Manderebbe qualcuno in ospedale a staccarti la spina, o iniettarti qualcosa. Prima o poi ce la farà. Il modo migliore per essere al sicuro è essere morta. Se crede di essere riuscito nel suo intento, si fermerà, si rilasserà e magari commetterà anche qualche errore”.
Jo cercò di riflettere sulle parole di Henry, ma si sentiva stanchissima, e i pensieri non si articolavano in maniera compiuta.
“Quindi… quindi fra poco tutti penseranno… penseranno che sono morta?”
“Sì”, rispose Henry, “E mi dispiace Jo, mi dispiace moltissimo, ma ci ho pensato e ripensato, ed è la soluzione migliore. Resterai nascosta finché Elliott non finirà in prigione.”
“Ma non abbiamo prove…”, ribatté debolmente Jo, “Tutto quello che avevamo sull’omicidio di Sarah… non riusciremo a incastrarlo.”
“Ma io non voglio incastrarlo per l’omicidio di Sarah”, disse Henry con un’espressione misteriosa, “Io voglio incastrarlo per il tuo omicidio.”
“Cioè vorresti… lasciarlo libero per un omicidio che ha commesso… e metterlo dentro per un omicidio che non ha commesso?”
Henry la guardò con una di quelle occhiate che, per un brevissimo istante, lasciavano trapelare la sua vera età a dispetto del suo aspetto.
“Sì.”, rispose semplicemente, “A mali estremi, estremi rimedi”.
 
Jo cadde in un sonno agitato, popolato da flashback di quello che era successo, fitte al fianco, mal di testa, gola secca e momenti di panico in cui si immaginava lo sguardo dei suoi colleghi quando avessero visitato la scena del crimine. Casa sua.
Quando riaprì gli occhi, il sole trapelava attraverso le tende tirate della stanza. Si sentiva la testa pesante come piombo. Avrebbe voluto raggiungere il bagno per fare pipì, ma anche solo provare a scostare la coperta la fece ricadere all’indietro in preda ai capogiri. In quel momento, la porta d’ingresso si aprì.
Henry entrò di fretta, e il suo sguardo corse subito verso di lei, preoccupato.
“Come stai? Ti gira la testa?”, le chiese concitato.
“Sì”, ammise Jo, “Da dove vieni? Da… casa mia?”
Henry annuì, grave. Si sedette accanto a lei, tastandole il viso per verificarne la temperatura.
“Niente febbre… bene, è un buon segno”, disse a bassa voce tra sé e sé.
“Beh, sono in cura dal miglior dottore del mondo”, mormorò Jo, abbandonandosi al tocco tranquillizzante della sua mano.
“Non sono sicuro di essere il migliore, ma quello con più esperienza sì”, scherzò Henry, accarezzandole la guancia.
“Allora…”, cominciò Jo dopo qualche secondo di silenzio, “Com’è andata?”
“Direi bene”, rispose Henry dopo un attimo di esitazione, “Anche se non è facile definire il bene, in questo contesto. Però sia Hanson che il capitano hanno subito pensato a un attentato di Elliott senza nemmeno indagare troppo. Non ho nemmeno dovuto indirizzarli verso la pista giusta”.
“C’era anche il capitano?”, chiese Jo, sentendo il disagio del senso di colpa farsi strada nel suo stomaco, “Come hanno reagito?”
“Hanno reagito come reagirebbe chiunque quando qualcuno fa del male a una persona a cui vogliono bene”, rispose Henry evasivamente. 
“Soffrono?”, domandò Jo con una punta di dolore nella voce.
Henry evitò di guardarla negli occhi.
“Sì, Jo, soffrono. Ti vogliono bene, sei una di loro. Sono arrabbiati e addolorati”. Henry si interruppe, le prese una mano e gliela strinse. “Jo, so che è dura. Ma te l’avevo detto: avrei fatto qualsiasi cosa, intendo qualsiasi cosa per proteggerti. Anche a costo che tu mi odi, farò tutto ciò che serve per salvarti”.
“Oh, Henry”, mormorò Jo stringendo a sua volta la sua mano, “Io non ti odio. Non l’ho mai neanche pensato.” Sospirò per cercare di rallentare i giramenti di testa. Un’idea la colpì e si sentì ulteriormente in colpa per non averci pensato prima.
“E tu come stai, Henry?”, gli chiese, notando solo in quel momento il suo viso stanco, un filo di barba sul mento, e le occhiaie scure sotto gli occhi.
Io come sto?”, ribatté Henry perplesso, “Sei tu quella a cui hanno sparato, Jo. Io sto bene.”
“Non mi mentire”, replicò Jo, “Lo sai cosa intendo. Non deve essere stato facile per te far finta di niente mentre gli altri facevano teorie sulla mia aggressione e sulla mia… morte”, aggiunse l’ultima parola dopo una pausa.
“No, non è stato facile”, ammise Henry dopo qualche secondo di esitazione, “Io mento tutti i giorni per proteggere me stesso, ma non mi piace farlo. Quando posso, preferisco stare in silenzio piuttosto che mentire. È quello che ho fatto oggi. Ho cercato di evitare di… ingannarli di proposito.”
“Henry, mi dispiace”, Jo quasi si sentì le lacrime agli occhi, “È tutta colpa mia. Se ti avessi dato ascolto sin dall’inizio…”
“Shh, Jo, non dire così”, Henry le posò un dito sulla bocca per zittirla, “Il piano è mio, non tuo”.
“Sì, ma se avessi lasciato perdere, come avevi detto...”, replicò Jo, “Non avresti avuto bisogno di attuarlo…”
“Jo, basta”, il tono di Henry si fece improvvisamente severo, “Recriminare non serve a nulla. Quello che è stato è stato. Credimi, sono un esperto di rimpianti. E ti assicuro che pensare al passato, a quello che avrei o non avrei dovuto fare non serve a nulla, se non a farti soffrire”. Sospirò, guardandola dritto negli occhi. “Mi hai chiesto della mia prima morte. Credi che non ci abbia pensato, in tutti questi anni? Ogni giorno, pensavo che se avessi compiuto scelte diverse, se non avessi litigato con mio padre, se non fossi andato a studiare a Londra, se non fossi stato così cieco da non accorgermi di quello che succedeva, se fossi stato più attento… forse non sarei mai salito su quella nave, non sarei mai morto, magari a quest’ora sarei sepolto nel cimitero di famiglia di fianco alla mia legittima moglie, che non mi avrebbe mai tradito, con i fiori freschi dei nostri figli e nipoti sulle lapidi”. Henry si alzò e iniziò a camminare davanti al letto, preso dalla foga del suo discorso. “E sai dove mi hanno portato tutti questi ragionamenti? A niente. Assolutamente niente. Quindi smettila di pensarci, Jo, perché la tua vita è troppo breve per sprecarla a commettere errori. Il passato non si può cambiare, e ripensarlo e cambiarlo nella propria testa è inutile. Ora tu devi pensare a rimetterti al più presto, perché appena sarai in piedi dovremo prendere un aereo.”
“Un aereo? Per dove?”, chiese Jo, rendendosi conto che non sapeva nulla, in effetti, dei piani di Henry.
“Ogni cosa a suo tempo, Jo. Non ti stancare troppo.” Tornò a sedersi accanto a lei. “Ti serve qualcosa? Hai fame, sete? Fra poco devo tornare al distretto, ma Abe verrà a darmi il cambio.”
“Dovrei andare in bagno”, ammise Jo con una punta di imbarazzo, “Ma non riesco ad alzarmi”.
“Ti accompagno”, disse Henry, e senza aspettare obiezioni le passò un braccio dietro alla schiena e l’aiutò a sollevarsi. Una volta in piedi, Jo si accorse di quanto deboli fossero le sue gambe. Ondeggiò, ritrovandosi appoggiata quasi per interno a Henry. Lui, senza dire nulla, si chinò e la prese in braccio, portandola verso il bagno.
“Niente male per un vecchietto”, scherzò Jo per evitare di pensare all’imbarazzo del dover essere portata in bagno come una bambina.
“Mi tengo in forma nonostante l’età”, rispose lui con un occhiolino.
 
L’intero distretto era in fermento. Anche chi non era strettamente legato a Jo era all’opera: avevano aggredito, in casa, un poliziotto. Il senso di fratellanza che nasceva con quel mestiere si era risvegliato in tutti, dal capitano ai detective fino agli addetti della scientifica. Henry cercò di raggiungere il laboratorio evitando più gente possibile: alcuni gli lanciarono uno sguardo senza dire nulla, altri gli toccarono fraternamente la spalla in segno di sostegno. La sua espressione sfatta e stanca era stata scambiata da tutti per dolore per la sua partner scomparsa e, probabilmente, morta. Mai come in quel momento Henry aveva bisogno di ricorrere alla corazza che aveva faticosamente costruito nei suoi decenni di vita: si nascose dietro a un’espressione indecifrabile e a un animo di ghiaccio. Se avesse cominciato a sentirsi in colpa per le occhiate di compassione che in realtà non si meritava, perché Jo non era morta come tutti credevano, non avrebbe avuto la forza di portare avanti il suo piano.
Quando entrò in laboratorio, scorse Lucas seduto al suo sgabello, che fissava il vuoto con espressione triste. Era pallido e aveva gli occhi arrossati. Se non altro, pensò Henry, almeno Lucas avrebbe smesso di soffrire, quel giorno.
“Lucas”, gli disse con il tono più autoritario di cui si potesse armare, “Seguimi e non fare domande”.
Lucas alzò lo sguardo su di lui, interrogativo, ma obbedì senza ribattere. Una luce di speranza si accese per qualche istante nei suoi occhi. Henry fece strada fino a un corridoio buio, che conduceva alle celle frigorifere. Lì non c’era nessuno e non c’era il rischio di essere ascoltati, se non dai morti.
“Henry”, esordì Lucas con tono malfermo, “Mi dispiace per Jo, so che…”
“Lucas, ascoltami bene”, lo interruppe Henry, “Ascoltami con attenzione, perché dopo oggi non ne parleremo più. Hai capito?”
Lucas annuì, interrompendo quello che stava per dire, e lo osservò, perplesso dalla sua fermezza e apparente mancanza di dolore.
“Jo è viva e sta bene…”, disse Henry velocemente.
Lucas sospirò di sollievo e quasi si chinò in avanti, sopraffatto dalla notizia.
“Oh, grazie. Grazie. Grazie al cielo”.
“… ma per tutti gli altri è morta e deve rimanere così”.
Lucas riacquisì la sua postura normale, interdetto.
“Come… cosa…?”
“Elliott ha tentato di uccidere Jo due volte…”
Due volte?”, Lucas strabuzzò gli occhi.
“Lucas, ti prego, non abbiamo tempo. Lasciami parlare senza interrompermi”, lo riprese Henry, “La prima volta le ha manomesso i freni della macchina, ma ero io alla guida e sono morto solo io. La seconda volta ha mandato quei tizi che sono stati trovati morti sulla scena del crimine. Lei era ferita ma sono riuscita a operarla e portarla in salvo. Ora è al sicuro, ma se Elliott scopre che è ancora viva non esiterà a tentare di ucciderla di nuovo. Capito?”
Lucas annuì.
“Sì, ho capito. Che cosa hai mente? Cosa posso fare?”
“Ho un piano in mente, ma non te lo posso dire, non perché non mi fidi di te”, aggiunse, posandogli una mano sulla spalla, “Ma perché è meglio che tu non sia coinvolto, e poi credo ci siano delle spie all’interno del dipartimento”. Quest’ultima informazione Henry se l’era inventata sul momento, ma preferiva che Lucas non pensasse che mancava di fiducia nei suoi confronti. “Quello di cui ho bisogno è che tu mi copra. Mi dovrò assentare spesso per controllare Jo e portare avanti il mio progetto. Se mi cercano, dovrai dire che sto indagando da solo, che sono al telefono, che sono uscito un attimo, che sono a letto con la febbre… qualunque cosa, purché io abbia almeno una settimana di tempo per fare tutto senza che nessuno mi intralci. Lo puoi fare?”
“Sì, Henry. Farò del mio meglio, contaci”, rispose Lucas con foga, “Dì a Jo che l’abbraccio con affetto. Non sai come sono stato da schifo in queste ore pensando che lei… insomma, dille che le voglio bene. E grazie per avermelo detto”.
“Grazie a te, Lucas”, disse Henry, sollevato che il coinvolgimento di Lucas fosse stato così facile, e indorando un po’, per sicurezza, la pillola, “Senza di te, non potrei farcela. Mi darai un aiuto prezioso.”
Lucas si riempì di orgoglio di fronte a quell’ultima affermazione.
“Che cosa facciamo, allora?”
Tu ora torni in laboratorio e fai finta che questa conversazione non sia mai avvenuta”, ordinò Henry, “Io invece mi devo occupare di mandare in prigione il senatore Elliott”.
 
“Abe, grazie”, disse Jo dopo che Abe ebbe finito di aiutarla a mangiare del brodo di pollo.
“Ma figurati, dolcezza”, rispose lui posando la ciotola e il cucchiaio sul comodino, “Come ti senti?”
“Uno schifo”, sospirò Jo, “Come se mi avessero sparato”.
Abe ridacchiò.
“Tu sì che sei dotata di senso dell’umorismo”. L’aiutò a sedersi un po’ più dritta e le sistemò i cuscini dietro alla schiena. “Te la sei vista brutta, Jo. Ma proprio brutta brutta.”
“Lo so”, Jo sospirò di nuovo, “Non sai quanto mi sento stupida per questo”.
“Ti senti stupida perché un commando di militari è entrato in casa tua e ha cercato di ucciderti? Tra parentesi, dolcezza, ne hai fatti fuori due. Mica male, eh?”
“Non è per questo, Abe”, Jo scosse la testa, e scoprì che se non altro non aveva più capogiri forti come prima, “È che… Henry me lo aveva detto. Sin da subito. Mi aveva detto: lascia perdere. Prendiamo un aereo e andiamocene. Ma io mi sono intestardita, e ora guarda come sono conciata”.
“Non ti biasimare, Jo. Hai fatto quello che ritenevi giusto. E poi, senza offesa, Henry è l’ultima persona che può giudicare, in questo caso”.
Come al solito quando si parlava del passato di Henry, la curiosità di Jo si risvegliò. C’erano ancora moltissime cose di cui non era a conoscenza.
“In che senso?”, chiese.
“Beh, quando mamma se n’è andata, lui ha continuato a cercarla per più di un decennio, anche se io gli avevo ripetuto mille volte di lasciar perdere. Quando vorrà, tornerà, gli dicevo. Ma lui non voleva saperne. È stata una delle poche volte in cui abbiamo litigato sul serio. Anzi, una delle due volte, adesso che ci penso.”
“Solo due volte?”, domandò Jo sorpresa, “E l’altra volta per cosa litigaste?”
“Non ti stanchi mai di fare domande sul passato di papà, vero?”, scherzò Abe.
“No. Considera che sono un poliziotto e fare domande ce l’ho nel sangue. Poi con tutto quel materiale a disposizione… è impossibile stancarsi”, rispose Jo quasi ridendo.
“Beh, la seconda volta fu quando mi arruolai per la guerra nel Vietnam. Papà si oppose. Litigammo per giorni, non voleva che partissi. Continuava a ripetermi che la guerra era un’esperienza terribile che dovevo evitare, se ci riuscivo. Ma io mi sarei sentito un codardo a non partire, con tutti i miei coetanei che si erano arruolati. Il giorno della partenza c’era solo mamma e io temevo che papà fosse così arrabbiato da non venire a salutarmi.”
“Ma alla fine è venuto, vero? Ci scommetto”.
“Sì, alla fine è venuto”, confermò Abe, “E sì, la guerra è stata un’esperienza terribile, come lui aveva detto. Ma non mi pento della mia scelta… credo che non sarei diventato quello che sono, senza la guerra. Tornare a casa è stato… come rinascere, come avere una nuova prospettiva sulla vita”.
Jo si abbandonò contro il cuscino. Era piacevole sentire Abe parlare. Le sembrava che la distraesse dal suo dolore, e dal suo senso di colpa.
“Ti va di continuare a parlare, Abe? Raccontami quello che vuoi.”
Abe ci pensò su per qualche istante.
“Mmh, quello che voglio? A tuo rischio e pericolo, Jo, quando vado a braccio divento incontenibile”.
“Beh, raccontami qualcosa di quando eri piccolo”, lo incoraggiò Jo, “Com’era avere uno come Henry come padre?”
“Ah, hai scelto il tasto più dolente, Jo”, rispose Abe in tono grave, “Avere Henry come padre è stato terribile. Sin da bambino mi parlava in cinque lingue diverse per farmele imparare, a tre anni pretendeva che sapessi elencare i nomi delle ossa del corpo, a cinque si mise a insegnarmi il pianoforte, a sette…”
Jo spalancò gli occhi, stupita, fino a che non si rese conto, dall’espressione di Abe, che la stava prendendo in giro.
“Dio santo, Jo, dovresti vedere la tua espressione. Sto scherzando”.
Jo rise, e il movimento le causò una fitta al fianco. Si portò una mano sulla ferita e cercò di smettere di ridacchiare.
“Henry è stato un padre fantastico”, continuò Abe, “Dico sul serio. Sì, ci sono stati momenti duri. Non ti mentirò su questo. Cambiare scuola e città così spesso non è stato piacevole… ho perso degli amici e delle opportunità perché a volte dovevamo spostarci all’improvviso. Al mio matrimonio mio padre era seduto in fondo e si spacciava per un amico. Certe cose… non abbiamo potuto farle insieme come padre e figlio. Guardaci adesso, che ci spacciamo per partner d’affari e sono costretto a chiamarlo Henry in pubblico… anzi, spesso lo chiamo così anche a casa, tanto ci sono abituato.” Abe si interruppe per qualche secondo. “Però non avrei mai voluto una vita diversa”, proseguì, “Non avrei voluto genitori diversi. Sono stato fortunato, soprattutto se consideri che venivo da un campo di concentramento. Era già tanto che fossi vivo, ma essere adottato da due persone come Henry e Abigail è stata una fortuna… una cosa di cui sarò sempre grato” Lo sguardo di Abe si fece fisso, perso nei ricordi. “Mamma mi ha raccontato di avermi sentito piangere e di avermi cercato per un bel po’, perché non capiva da dove venisse il pianto. Alla fine mi ha trovato in fondo a un camion, quasi nascosto sotto delle coperte, in mezzo a una decina di altri feriti che erano stati portati al campo per le cure. Secondo lei, è stato il destino a portarci insieme. Mi ha raccontato che fu proprio in quello stesso giorno che lei incontrò papà per la prima volta. Dopo avermi recuperato dal camion, stava cercando un dottore per verificare le mie condizioni di salute… e vide Henry che si stava occupando di alcuni feriti nella tenda del pronto soccorso. A quanto pare, quando lui mi prese in braccio io smisi di piangere. Almeno, così diceva sempre mamma”
“Sembra proprio che fosse destino”, osservò Jo, rapita da quella storia.
“Già. A quanto pare io ero intrattabile, piangevo sempre e le infermiere del reparto pediatrico mi odiavano. Ma se mi prendevano in braccio l’infermiera Abigail o il dottor Morgan, allora improvvisamente smettevo e mi addormentavo. Sembra che alcune infermiere avessero iniziato a fare la spola tra pediatria e pronto soccorso, così quando Henry era in pausa mi affidavano a lui e io dormivo. Alla fine, Abigail mi prese e mi portò a casa. Considera che con tutti gli orfani di guerra che c’erano, nessuno obiettava se qualcuno si prendeva in carico un bambino. Anzi. Henry e Abigail si sposarono qualche mese dopo e poi si trasferirono qua a New York. Il resto è storia”.
Jo sospirò, improvvisamente colpita da un pensiero che non aveva mai preso in considerazione. Esitando, perché temeva di essere indiscreta o di sfociare nell’imbarazzo, chiese:
“Abe, posso farti una domanda personale?”
“Certo, cara.”
“Ti dispiace che io e Henry stiamo insieme? Voglio dire, ti dà fastidio…?”
“Ma no, Jo, certo che no”, rispose Abe ridendo, “Anzi, ne sono felice. Lo sai, no? Te l’ho già detto. Basta che non mi chiedi di chiamarti mamma o cose del genere”, le fece un occhiolino, e nonostante il dolore al fianco Jo rise di nuovo. “Papà si merita di essere felice. Ha sempre sacrificato tutto, per me e mamma. Mi ha insegnato tutto quello che sa, mi ha protetto e mi ha sempre sostenuto, anche quando non condivideva le mie scelte. Si è preso cura di me e continua a farlo anche se potrebbe andare in giro a devastarsi di droga, alcool e sport estremi, tanto che gli importa?”
Jo continuò a ridacchiare al pensiero di Henry che si fumava uno spinello in una discoteca. No, era un’immagine che non riusciva a concepire.
“E invece mi è sempre rimasto vicino, per quanto gli è possibile, ed è consolante, per me, sapere che si prenderà cura di me anche quando io magari non sarò più autosufficiente. Insomma, averlo accanto mi fa avere meno paura della morte, sai? Perché lui ci sarà sempre, a conservare un ricordo di me… è come se, alla fine, non morissi per davvero”.
“È bello quello che hai detto, Abe”, Jo smise di ridere e sospirò, commossa, “Ed è bello fare parte di tutto questo, a modo mio.”
“Già. Siamo una grande famiglia americana”, commentò Abe con una vena ironica. “Parli del diavolo”, aggiunse, sentendo la porta della stanza che si apriva.
 
“Niente, niente, niente!”, esclamò Hanson, gettando con violenza il fascicolo che aveva in mano sulla scrivania, “Sappiamo che quei tizi facevano parte di un commando speciale finanziato dal dipartimento della difesa, a sua volta finanziato dal senatore Elliott, ma a parte questo non abbiamo niente”. 
Il capitano annuì, chiudendo per un istante gli occhi, sconsolata. Henry ascoltava in silenzio, seduto sulla sedia di fianco alla scrivania di Hanson.
“Conti bancari? Trasferimenti di denaro sospetti? Telefonate, email?”, chiese il capitano dopo il suo momento di raccoglimento.
“Un cazzo di niente”, rispose Hanson con rabbia. “Se ha usato un telefono, sarà stato un prepagato non rintracciabile. Eventuali pagamenti li avrà fatti in contanti, oppure non li aveva ancora pagati…”
“Niente a casa delle vittime?”, chiese ancora Reece.
Hanson scosse la testa.
“E… per quanto riguarda… Jo?”
“Niente”, rispose di nuovo Hanson, “Le tracce svaniscono a metà del marciapiede. Forse c’era un’unità di rinforzo e… quando lei si è trascinata fuori… forse l’hanno caricata su un furgone. Non lo so. In quella via non ci sono negozi con telecamere. Solo case, e nessuno ha sentito niente”
“Henry…?”, il capitano si rivolse a lui, che fissava assente il vuoto, “Qualche idea? Qualche teoria? C’è qualche possibilità che Jo sia ancora…”, esitò un istante, “…viva?”
Henry non rispose subito, e la sua espressione si fece di pietra, così come il suo tono si fece freddo come il ghiaccio.
“Da un punto di vista strettamente medico”, disse, lentamente, “Con una tale quantità di sangue perso, le probabilità di sopravvivenza sono praticamente nulle”.
Hanson sbatté una mano sulla propria scrivania, incapace di trattenere la rabbia. “Fanculo”, borbottò, “Bastardo figlio di puttana. Sappiamo che è stato lui, ma non abbiamo niente per incastrarlo”.
“Continuate a cercare”, ordinò il capitano ignorando lo sfogo di Hanson, “Troveremo qualcosa, dovessi metterci cent’anni”.
Detto questo, si voltò e si avviò verso il proprio ufficio. Senza dire nulla, Henry la seguì, lasciando Hanson alla propria frustrazione.
“Capitano, le posso parlare un minuto?”
Il capitano, che non si era accorta che Henry era entrato nel suo ufficio, si voltò sorpresa.
“Certo, Henry, si sieda pure”.
“No, non sarà necessario”, replicò lui, “Volevo solo darle questo”. Estrasse un foglio dalla tasca della giacca e glielo porse.
“Che cos’è?”, chiese il capitano.
“Le mie dimissioni”, rispose Henry asciutto.
Il capitano lo fissò per parecchi secondi in silenzio, basita, prima di riuscire a parlare:
“Henry… so che è dura, ma… quello che è successo a Jo… non è ancora detta l’ultima parola, e abbiamo bisogno di lei, qui. Non può andarsene adesso”.
“Ho già deciso”, ribatté Henry, “Volevo solo dirglielo di persona. Lucas potrà prendere il mio posto… ho anche scritto una lettera di raccomandazione per lui, se può servire” Estrasse un’altra lettera e la porse a Reece, che però, immobile, non la prese, allora Henry si avvicinò alla scrivania e la posò lì.
“Spero che prenderete in considerazione l’idea di promuovere Lucas”, aggiunse, “È pronto per questo ruolo, ne sono certo”.
Fece per andarsene, quando il capitano lo richiamò:
“Henry, non sia sciocco, non prenda decisioni affrettate. Qualunque cosa lei pensi di dover fare…”
“Quello che io penso di dover o non dover fare non è più affare di questo dipartimento”, la interruppe Henry, e quelle parole misero in allarme il capitano Reece più di tutto il resto.
“Henry, non avrà intenzione di fare qualcosa di stupido, vero? Incastreremo Elliott. Ce la faremo”.
“Non ne dubito”, rispose lui, anche se lasciava intendere esattamente il contrario.
“Dottor Morgan”, disse il capitano cercando di riacquistare un tono autoritario, “Non ce la farà mai a prendere Elliott da solo”.
“Non ho mai detto di volerlo fare”, commentò Henry, e prima che Reece potesse aggiungere qualcos’altro aprì la porta e se ne andò.
 
Jo si sentiva meglio. Erano passati cinque giorni dalla sparatoria e cominciava a riacquistare le forze. Si sentiva ancora debole, ma la testa aveva smesso di girare, camminava tranquillamente da sola e aveva anche abbozzato qualche piegamento ed esercizio per sgranchire il corpo.
Henry continuava a fare la spola tra lei e il distretto. Sempre più pallido e dimesso, si rifiutava categoricamente di dirle che stava succedendo là fuori. Jo sapeva che lo stava facendo per il suo bene, ma quell’attesa e quell’ignoranza dei fatti la stavano snervando.
Quando Henry entrò nella stanza, quella sera, portava con sé un sacchetto di cibo, o almeno quello sembrava dato il profumino invitante.
“Come ti senti, Jo?”, le chiese immediatamente, come ogni volta che arrivava.
“Sto bene, Henry, ora sto davvero meglio”, rispose Jo, e per dimostrarglielo si alzò in piedi e gli andò incontro. “Che novità?”
“Va tutto bene”, rispose lui evasivamente, e posò il cibo sulla scrivania in truciolato della stanza.
Jo attese per qualche secondo, ma lui non aggiunse altro.
“… e non hai intenzione di spiegarti meglio, vero?”, domandò ironica.
“Non voglio che ti preoccupi, Jo, non ti fa bene. Devi pensare a guarir…”
“Anche il non sapere mi fa preoccupare, Henry. E non mi fa bene alla guarigione. So che pensi di farmi un favore, ma…” Jo gli posò una mano sulla spalla, avvicinandosi ancora di più, “Ho bisogno di sapere. Posso darti una mano.”
Henry sospirò come se si fosse aspettato una simile richiesta da un momento all’altro e si stesse arrendendo all’inevitabile.
“E va bene, Jo”, concesse, “Ma prima mangia. È il primo vero e proprio pasto dopo giorni di brodi e minestre”.
Jo sancì l’accordo con un cenno del capo, ma non trattenne a sua volta un sospiro di impazienza. Lui, con nonchalance, le scostò la sedia della scrivania e la fece sedere. A quel gesto gratuito di galanteria Jo si lasciò scappare un mezzo sorriso.
“Che hai da ridere?”, chiese Henry incuriosito. Recuperò uno sgabellino che c’era nel bagno e si sedette vicino a lei, distribuendo sulla scrivania il contenuto del sacchetto.
“Niente”, liquidò Jo velocemente, “Una cosa stupida”.
“Illuminami, detective Martinez”, la incitò lui, “È bello vedere che pensi anche a qualcos’altro oltre a farmi degli interrogatori.”
Jo lo fulminò con lo sguardo ma poi suo malgrado rispose.
“Pensavo… che tutte le donne, anche le newyorkesi più isteriche, sognano il perfetto gentiluomo, anche se non lo vogliono ammettere. E io ne ho proprio uno tutto per me, originale, per di più, non un’imitazione”, aggiunse scherzando. Addentò un pezzo di carne bianca dal contenitore di plastica che aveva di fronte.
Anche Henry si concesse un sorriso, e continuò con lo scherzo:
“Sì, se guardi bene dovrei avere ancora da qualche parte l’etichetta con su scritto made in England”.
“Un pezzo unico”.
“Più o meno… quasi unico”, la corresse Henry, e per un brevissimo istante un’ombra passò sul suo volto. Jo terminò di mangiare e decise che era il momento di ottenere risposte.
“Allora? Parli tu o ti devo interrogare?”
Henry la evitò ancora per qualche secondo, con la scusa di bere un bicchiere d’acqua. Poi iniziò a parlare:
“Allora, sta andando tutto come previsto. Solo che il mio piano A non ha funzionato, quindi adesso devo ricorrere al piano B”.
“Sarebbe così gentile da erudirmi su questi piani, dottor Morgan?”
“La mia idea era incastrare Elliott per il tuo omicidio”, spiegò Henry, “Ma purtroppo lui è stato prudentissimo. A parte un solo indizio, che non reggerà mai in tribunale, non c’è altro collegamento tra lui e i mercenari che ti hanno aggredita. Ma diciamo che me lo aspettavo, quindi ricorriamo al piano B”.
“… che sarebbe?”, chiese Jo incalzante.
“… farlo confessare e registrare tutto”.
Jo rimase per qualche istante in silenzio, confusa e perplessa.
“Henry, senza offesa, ma non mi sembra la tua idea più geniale. Come pensi di riuscirci? Un uomo così furbo, come hai ammesso anche tu, non si lascerà mai ingannare a fare una confessione”.
“Sì, se è convinto che la persona con cui sta parlando non vivrà abbastanza per raccontarlo”.
Il battito del cuore di Jo cominciò ad aumentare man mano che iniziava a capire dove Henry voleva andare a parare.
“Aspetta, aspetta un attimo”, lo interruppe, “Non mi vorrai mica dire che…”
“È furbo, ma è anche arrogante, e vanitoso”, continuò Henry, “È intelligente e ci gode a esserlo. Non vede l’ora di vantarsi con qualcuno del suo potere e della sua furbizia. Ed è esattamente quello che voglio.”
“Quindi tu vuoi provocarlo e farlo confessare? E poi farti… ammazzare? Perché è questo che farà, sicuro”
“Beh, farmi ammazzare non è mai stato un problema”, disse Henry, “Ed è esattamente quello che voglio. Registrerò tutto, e così ci sarà un altro omicidio di cui accusarlo”.
“Ma Henry”, protestò Jo per nulla convinta, “Ti rendi conto di quello che dici? Farti uccidere davanti a lui… e se ti vede scomparire?”
“Prenderò delle precauzioni. Metterò un giubbotto…”
“Ma se ne accorgerebbe.”
“… un giubbotto un po’ riadattato, Jo, fammi finire di spiegare”, proseguì Henry imperterrito, “Il giubbotto antiproiettile comune è concepito per salvarti la vita, ma a me non interessa salvarmi la vita, ma rimanere vivo abbastanza a lungo perché mi seppelliscano da qualche parte, mi gettino nel fiume o mi sciolgano nell’acido, insomma finché non si sbarazzano di me. Una guaina sottile sugli organi vitali basterà”. 
“E se ti spara in testa?”, obiettò Jo.
“Non lo farà”, replicò Henry con convinzione, “È un sadico. Vorrà vedermi soffrire e godersela il più a lungo possibile. Ovviamente sarà mia premura fingere di essere morto prima del dovuto.”
Jo non disse nulla per parecchi secondi, provando orrore di fronte alla prospettiva di quello a cui Henry aveva intenzione di sottoporsi.
“Henry, non posso permettere che tu lo faccia. Farti sparare così… so che non puoi morire, ma soffriresti comunque, e io non vogl…”
“Jo, per l’amor del cielo”, la interruppe Henry sbuffando, “Cosa vuoi che sia? Mi hanno sparato, avvelenato, sono saltato in aria, morto di fame, affogato, investito, pugnalato, per quattro fottuti anni mi hanno messo la testa in acqua ghiacciata e coperto il viso con asciugamani bagnati per farmi guarire, come dicevano loro”. Henry si fermò, forse stupito lui stesso di essersi lasciato andare così. Jo lo guardò, allibita:
“Non so cosa mi sconvolge di più, l’elenco delle tue morti o il fatto che tu abbia detto una parolaccia”.
“In ogni caso”, riprese Henry ricomponendosi, “Qualche minuto di sofferenza non significa nulla, per me. Una volta che la registrazione sarà in mano alla polizia, potranno arrestarlo”.
“Ma la registrazione?”, domandò Jo, “Non riuscirai a portare con te un microfono, poco ma sicuro. E se anche ci riuscissi, una volta morto… scomparirebbe, giusto?”
“Per questo”, rispose Henry con un sorriso, “Domattina incontrerò un supporto tecnico”.
“Supporto tecnico?”, chiese Jo dubbiosa.   
 
“Grazie per aver accettato di incontrarmi”.
Liz Chamberlain si voltò verso di lui quando lo sentì rivolgersi a lei. Lo salutò con un lievissimo cenno del capo, senza dare segno di volersi alzarsi dalla panchina su cui era seduta. Aveva il cellulare stretto in una mano e una sigaretta nell’altra, lo sguardo già di per sé cupo appesantito ulteriormente da del make-up scuro sulle palpebre.
“Confesso che mi ha incuriosito il tuo modo di metterti in contatto con me”, disse Liz lentamente, “Nascondere un messaggio con un codice all’interno di un altro codice. Come facevi a sapere che l’avrei letto, e decifrato?”
Henry si sedette al suo fianco, stringendosi nel cappotto. Il suo sguardo corse verso i lampioni lì vicino: come aveva calcolato, in quel punto del parco non c’erano telecamere.
“Ero sicuro che ci saresti riuscita”, rispose, “Sei una ragazza intelligente.”
Lei accolse il complimento con una specie di scrollata di spalle.
“Beh, che cosa vuoi?”, chiese bruscamente.
“Ho bisogno del tuo aiuto”, disse Henry, “In cambio ti darò qualsiasi cosa vorrai. Posso pagarti in denaro, o darti quel certificato di morte a cui aspiravi tanto, anche se adesso non ti serve più”.
A quelle parole Liz si voltò a guardarlo apertamente in faccia, con un vago sorriso sulle labbra.
“Curioso”, osservò, “Quando te l’ho chiesto, sembrava fossi disposto a tutto pur di non tradire i tuoi principi, dottore. E adesso mi dici che sei disposto a darmi qualsiasi cosa?” Soffiò un po’ di fumo che si disperse di fronte al suo viso. “Sei proprio un tipo strano”.
“Senti chi parla”, ribatté Henry, accennando ai suoi tatuaggi, piercing e pantaloni di pelle.
Liz lo ignorò e tornò a guardare di fronte a sé. Henry aspettò che dicesse qualcosa, ma lei sembrava assorta nei propri pensieri.
“Lascia stare”, disse Liz alla fine, aspirando altro fumo dalla propria sigaretta, senza guardarlo, “Non credevo che l’avrei mai detto, ma sono in debito. Le infermiere mi hanno detto che se non fosse stato per te sarei morta. Il sistema era rotto e non era suonato l’allarme… ma hai tentato di rianimarmi e hai chiamato aiuto”. Fece una pausa, continuando a fumare con lo sguardo perso nel vuoto.
“Hai già pagato quel debito, te ne sei dimenticata? Hai rintoccato il mio passato digitale”, osservò Henry.
Liz scosse la testa, sempre evitando di guardarlo.
“Quella è stata una stronzata, per una come me. Ci ho messo cinque minuti. No… quello che non capisco è perché tu l’abbia fatto. Voglio dire, io ti stavo ricattando. Avrei potuto rovinarti. E mi hai salvato la vita, quando avresti potuto lasciarmi morire, e i tuoi problemi si sarebbero risolti. Voglio dire, io l’avrei fatto”, questa volta si voltò brevemente verso di lui, “… se fosse stato il contrario”.
Henry sorrise debolmente.
“No, non l’avresti fatto”, le disse.
“E tu che cazzo ne sai?”, ribatté lei gettando via il mozzicone della sigaretta.
“Lo so e basta. Tu sei brava con i computer”, rispose Henry, “Io sono bravo a capire le persone. E tu non sei un’assassina. Magari ci avresti fatto un pensierino, sì, ma poi avresti fatto la cosa giusta. Ne sono convinto”.
Liz scosse le spalle come a voler scacciare l’idea di essere una brava persona. Si accese un’altra sigaretta, ignorando il commento di Henry (“il fumo uccide, sai?”), e si appoggiò allo schienale della panchina.
“Allora, che vuoi che faccia?”
“Ho bisogno di registrare una conversazione senza usare una cimice. Qualcosa che non possa essere individuato. E ho bisogno che la registrazione sia su un dispositivo esterno, non addosso a me”.
“Che genere di conversazione?”, chiese Liz.
Henry decise di ricorrere alla storia che aveva messo assieme nel caso Liz gli avesse chiesto spiegazioni. Storia che, tra parentesi, equivaleva alla verità. Più o meno.
“Ti ricordi la mia partner, la detective Martinez?”
“Sì, la stronza che mi ha inseguito per mezza New York”, rispose lei sbuffando.
“È morta”, continuò Henry.
Liz perse per un istante la sua espressione arrabbiata a favore di una genuinamente sorpresa.
“Cazzo. Ci andavi a letto, per caso?”.
“Il tizio che l’ha fatta ammazzare”, proseguì Henry ignorando il suo ultimo commento, “È un senatore. Non abbiamo prove né testimoni a suo carico. Ma so che è stato lui”.
“Vuoi che guardi nel computer di un senatore?”, gli chiese Liz mostrando una certa curiosità.
“Non serve. Non ha lasciato tracce, ne siamo sicuri. No. Quello che voglio è provocarlo a tal punto da spingerlo a confessare, ma per farlo lui deve essere certo che io non lo stia registrando. Ed è qui che mi servi tu.”
Liz soppesò la questione per qualche istante.
“Posso fornirti un auricolare wireless”, azzardò, “Opportunamente modificato affinché funzioni anche da microfono. Lo nascondi nell’orecchio, è invisibile, e posso inviare la registrazione in streaming al mio computer. Il problema è che ti serve anche un cellulare, e ci scommetto che il tipo ti controllerà e ti toglierà tutti i dispositivi elettronici.”
“E se il cellulare non fosse addosso a me, ma già all’interno della stanza?”
“Potrei accenderlo a distanza”, rifletté Liz, “Ma come fai a sapere in quale stanza parlerete?”
“A questo lascia che ci pensi io”, replicò Henry, “Tu credi di potermi procurare il necessario?”
“Ho dei contatti”, rispose Liz con un sorriso, “Certo, potevi dirmelo subito che il tuo scopo era estorcere una confessione di omicidio a un senatore del cazzo. Posso coinvolgere anche qualche amico, se vuoi. In fondo, è questo quello che fanno i faceless”.
“Meno siamo, meglio è, ma grazie comunque”, disse Henry, “Ce la fai a procurarmi il tutto entro oggi pomeriggio? Ne ho bisogno per domani”.
Liz annuì in una voluta di fumo.
“Comunque, senza offesa, Doc, ma andare da un senatore accusandolo di omicidio per farlo confessare… mi sembra proprio un bel modo per farti ammazzare”.
Questa volta toccò a Henry sorridere.
“È proprio quello che voglio fare”.
 
Jo cercava di sfogare la propria frustrazione camminando avanti e indietro nella stanza. Henry le aveva categoricamente proibito di uscire: nessuno doveva sapere che lei era lì, nemmeno il portiere dell’hotel. Il piano di Henry era folle. Il pensiero che lui si autobuttasse in una missione suicida aumentava i suoi sensi di colpa, già rumorosi di per sé per il fatto di non aver lasciato perdere il caso Elliott. Sì, era vero, Henry non poteva morire, ma farsi sparare di proposito… prolungare apposta la propria sofferenza per evitare di morire subito… insomma… Jo sospirò, divisa tra il senso di colpa, la sensazione di impotenza, e anche la consapevolezza della genialità del piano di Henry. O follia. Più volte la follia di Henry si era rivelata genialità, e sperava con tutto il cuore che sarebbe successo anche questa volta. E neppure conosceva il piano nella sua interezza. Avrebbero dovuto prendere un aereo, per dove? Le parole di Abe le tornarono alla mente: ha sempre sacrificato tutto... Mi ha insegnato tutto quello che sa, mi ha protetto e mi ha sempre sostenuto... Si è preso cura di me e continua a farlo…
Sta facendo tutto questo per me, pensò, e io per ringraziarlo che faccio? Lo ostacolo e lo metto in dubbio.
Erano le quattro del pomeriggio. Non aveva idea di dove Henry fosse e cosa stesse facendo. L’unica cosa che poteva fare era fidarsi di lui, e aspettare.
 
Il sole stava tramontando, e lanciava bagliori rossi sulla superficie grigia dell’Hudson. Henry controllò per l’ultima volta che non ci fossero telecamere nelle vicinanze, né che nessuno lo stesse tenendo d’occhio. Aveva già recuperato il necessario da Liz Chamberlain e doveva solo incontrare un’altra persona prima di mettere in atto la prima parte del piano B.
“Henry!”
Lucas si sedette di fianco a lui, stringendo il casco della moto al proprio petto. “Sono venuto appena ho potuto. Che succede?”
“Lucas, innanzitutto ti voglio ringraziare per il tuo aiuto”.
“Non ho fatto niente”, sminuì Lucas con genuina modestia, “Sono tutti così presi dal caso di Jo che nemmeno ci hanno fatto caso, a te e a me.”
“Comunque, so che per te non è stato facile”, proseguì Henry, “E mi dispiace dovertelo chiedere, ma ho ancora bisogno del tuo aiuto”.
“Qualunque cosa”, rispose Lucas raddrizzando la schiena.
Henry gli porse una sacca da palestra che aveva portato con sé.
“Qui ci sono due cambi di vestiti”, spiegò, “Avrei bisogno che tu mi venga a prendere, due volte”.
“Venirti a prendere… dove?”, chiese Lucas confuso.
Henry accennò eloquentemente alle acque del fiume. Lucas ci impiegò qualche secondo a capire.
“Ah”, disse, “Ma… due volte? Quando?”
“Una stasera, fra poche ore”, continuò Henry, “Poi domani, sempre alla sera. Devo essere sicuro al cento per cento di non essere visto, e di allontanarmi da qui il prima possibile.”
“Ma… ma…”, balbettò Lucas, stringendo senza motivo i manici della sacca da palestra, “Come fai a sapere che… insomma… mi dici che hai in mente?”
“Domani io e Jo scompariremo”, disse Henry ignorando di proposito la domanda di Lucas, “E se tutto andrà secondo i piani, prima di partire avrò recuperato abbastanza materiale da mandare Elliott in prigione.” Fece una pausa, indeciso se rivelare o meno una parte del piano. “Domani sera io e Jo saliremo su un aereo e lasceremo il paese, subito dopo che il senatore mi avrà ucciso, se farà come previsto”. Lucas ascoltava, ipnotizzato e a bocca aperta. “Per questo ho bisogno di te. Non ho tempo da perdere, deve essere tutto preciso al secondo. Appena muoio, mi recuperi, mi vesto, mi dai un passaggio con la moto fino al luogo che ti dirò.”
“…e poi?”, chiese Lucas con il fiato sospeso.
“Poi ce ne andremo fino a che tutto qui non si sarà risolto”.
“Ma…”, Lucas si ritrovò a fissare l’acqua del fiume che diventava sempre più scura, “Questo significa che… non ci rivedremo più?”
“Non ti preoccupare per il lavoro, Lucas”, lo rassicurò Henry, “Ho dato le mie dimissioni ieri e ho consegnato personalmente al capitano una lettera di raccomandazione che caldeggia una tua promozione al mio posto”.
Che cosa?”, esclamò Lucas, “Dimissioni? Io prendere il tuo posto? Io non voglio prendere il tuo posto, Henry!” Si interruppe, leggermente affannato per il suo sfogo improvviso. “Voglio dire…”, riprese, più calmo, “… non te ne puoi andare, Henry. Io pensavo… pensavo che nascondessi Jo per un po’ ma che tu rimanessi, se non altro per gestire la situazione... Senza di te non sarebbe lo stesso…”
“Lucas, non dire stupidaggini”, lo rimproverò Henry, anche se nel profondo era commosso e imbarazzato da quella dimostrazione di affetto nei suoi confronti, “Hai imparato tanto in questi anni e sono certo che ricoprirai il mio ruolo in maniera egregia.” Giusto per rassicurarlo, gli sfiorò brevemente la spalla. “E poi, prima o poi sarebbe successo”, aggiunse con una punta di amarezza, “Mi sposto ogni dieci anni, per evitare che qualcuno si accorga… hai capito, no?”
Lucas annuì, desolato.
“Succederà solo un po’ in anticipo sulla tabella di marcia”, concluse Henry.
“Però…”, Lucas sospirò, “Mi mancherai, Henry. Senza di te al lavoro non sarà lo stesso.”
“Anche tu mi mancherai, Lucas”, ammise Henry un po’ riluttante, “Ma non è un addio, solo un arrivederci. Appena tutto sarà finito, ti scriverò per farti sapere dove ci troviamo. E ci potrai venire a trovare, se vorrai”.
Di fronte a quella promessa Lucas si rincuorò un po’.
“Allora sarò qui ad aspettarti, stasera”, disse, alzandosi in piedi. “Non ti invidio, sai? Fa un freddo cane”.
“Lo so”, concordò Henry, “Detesto morire di inverno”.
     
Henry aveva studiato accuratamente l’edificio dove si trovava l’ufficio del senatore Elliott e aveva calcolato di riuscire a smontare e rimontare la grata della ventola di aerazione in quaranta secondi. Dal momento in cui sarebbe scattato l’allarme, le guardie avrebbero impiegato circa sessanta secondi per uscire dalla guardiola, salire tre piani, percorrere il corridoio e raggiungere l’ufficio del senatore. Gli rimanevano quindi venti secondi abbondanti, più che sufficienti per ingoiare la pasticca di cianuro che si era portato indietro. Il servizio di sicurezza del palazzo era molto efficiente, come aveva appurato durante i suoi appostamenti nel corso della settimana: si poteva eludere forse in entrata, ma non in uscita. Soprattutto per quanto riguardava l’ufficio di Elliott, che si trovava in fondo al corridoio, in una zona senza uscita. La cosa positiva e che tornava a vantaggio di Henry era che lui non aveva nessuna intenzione di uscire, almeno non attraverso le vie canoniche.
Penetrò nei sotterranei dell’edificio attraverso la cantina del negozio di fronte, in cui era entrato semplicemente scassinando la porta sul retro. Erano dei vecchi passaggi, costruiti nel XIX secolo per facilitare lo scambio delle merci. Sulla pianta dell’edificio quel passaggio non era segnalato, ma grazie al cielo lui aveva una buona memoria e si ricordava perfettamente del suo amico Halliday che aveva abitato in quell’edificio ed era appassionato di costruzioni. E gli aveva raccontato nel dettaglio la conformazione di quel quartiere.
Arrivato di fianco al locale caldaia, trovò la centralina elettrica. La aprì con un cacciavite gentilmente fornitogli da Liz e, seguendo le istruzioni che lei gli aveva dato, recise il cavo che alimentava il server centrale dell’edificio. Gli allarmi avrebbero continuato a funzionare, ma le telecamere sarebbero state disattivate, ed era quello che a lui interessava. Le guardie, secondo il protocollo, avrebbero effettuato una diagnostica di rete prima di inviare qualcuno alla centralina a controllare che tutto fosse a posto. Questo gli avrebbe fatto guadagnare altri sessanta secondi, prima di varcare la soglia dell’ufficio del senatore e far scattare l’allarme.
Henry iniziò a correre, senza perdere nemmeno un secondo. Ringraziò mentalmente la propria attenzione alla salute: riuscì a raggiungere il terzo piano in meno di un minuto, e con ancora abbastanza fiato in corpo. Si prese mezzo secondo di raccoglimento, e prima di aprire la porta fece partire il cronometro al polso: sessanta secondi.
L’ufficio era esattamente come lo aveva memorizzato studiando alcune foto ricavate dai giornali. In alto sulla parete, a sinistra, c’era la grata di ventilazione. Henry spostò la poltrona, vi si arrampicò, svitò le due viti inferiori. Quarantacinque secondi. Aprì la grata quel tanto che bastava per inserire al suo interno il cellulare che Liz gli aveva dato. Trentotto secondi. Ripose al suo posto la grata, la riavvitò velocemente grazie alla sua mano ferma da chirurgo, scese dalla poltrona. Ventisette secondi. Rimise la poltrona al suo posto davanti alla scrivania, amalgamando con il piede i segni lasciati sulla moquette. Ventitré secondi.
“C’è qualcuno?”, sentì gridare dal corridoio. La luce di una torcia si rifletté sulle pareti del corridoio. Ventun secondi. Henry scostò ad arte un paio di fogli sulla scrivania e aprì un cassetto di qualche millimetro. Diciotto secondi.
“Sicurezza, mani in alto!”, urlò qualcuno a qualche metro dalla porta.
Henry prese la pasticca di cianuro e con un morso deciso la ruppe. Fu colto da un unico, doloroso e intenso spasmo, come se avesse inghiottito dell’acido. Scorse (o forse credette di scorgere), il profilo di un uomo al di là del vetro della porta, con la pistola sfoderata. Poi, il freddo.
Quando emerse, annaspando, nel fiume, vide Lucas che lo aspettava poco più avanti sulla destra, con la sacca della palestra in una mano e due caschi nell’altra.
 
Nonostante la sua intenzione di rimanere sveglia ad aspettare Henry, Jo si era appisolata. Quando sentì la porta aprirsi, Jo sobbalzò, e il suo sguardo corse all’orologio: erano appena scoccate le 21.
La prima cosa che notò era che Henry non era vestito come al solito: indossava un paio di pantaloni scuri e un giubbotto grigio, niente sciarpa né cappotto. Ai piedi, un paio di scarpe da ginnastica. Henry entrò nella stanza rabbrividendo e la prima cosa che fece fu avvicinarsi al calorifero, dove posò le mani per scaldarsi.
“Ma che…?”, chiese Jo, prima di rendersi conto che lui aveva i capelli appiccicati alla fronte. Perché erano ancora umidi.
“Henry! Non sarai…?”
“… morto?”, completò Henry sarcastico, “Sì. Purtroppo in questa stagione l’acqua del fiume è gelida. Mi ci vuole sempre un po’ per riscaldarmi”. Dopo essersi scaldato abbastanza, si tolse il giubbotto e mise a bollire un po’ d’acqua usando il bollitore di plastica in dotazione alla camera. “Ti dispiace se mi cambio, nel frattempo?”
“No… fai pure”, rispose Jo, seguendolo con lo sguardo mentre scompariva oltre la porta del bagno.
Quando ritornò, indossava la sua solita camicia e panciotto. Si versò una tazza di thè, si sedette accanto a lei sul letto e allungò le gambe, appoggiando la schiena alla testata del letto.
“Com’è successo?”, chiese Jo dopo che lui ebbe bevuto qualche sorso di thè.
“Tutto secondo i piani”, disse Henry, “Ho sistemato il telefono con cui registrerò la conversazione nell’ufficio di Elliott.”
“Come hai fatto a entrare?”, esclamò Jo, stupita.
“Dai sotterranei, passando dal negozio di fronte”, spiegò Henry, “Sono passaggi che non compaiono nelle planimetrie moderne. Sono riuscito a fare tutto prima che la sicurezza mi sorprendesse.”
“E per uscire…”
“… ho usato la via più breve”, rispose Henry con un occhiolino per sdrammatizzare. Jo però non riuscì a calmare la propria inquietudine. Allungò una mano e gli sfiorò i capelli ancora umidi, con tenerezza.
“Henry”, iniziò con un groppo alla gola, “Non riesco a sopportare che tu stia facendo tutto questo per togliermi dagli impicci, io…”
“Jo, farei qualunque cosa, per te”, la interruppe Henry, prendendole la mano che ancora indugiava sul suo viso, “Qualunque cosa. E visto che ci siamo, sappi che domani partiamo. Quindi riposati, e tieniti pronta.”
“Partiamo? E per dove?”
“Casa mia”, disse lui fissandola negli occhi, “Non hai paura dei fantasmi, vero?”
“Non ho paura di niente, se tu mi sei di fianco”, rispose Jo sinceramente, “Ma per casa tua intendi… Inghilterra? Come faremo a lasciare il paese?”
Per tutta risposta Henry si alzò, e raggiunta la tasca del giubbotto recuperò una busta sigillata, che le porse.
“Con questi”, le spiegò, “Nuovi passaporti e nuovi numeri di previdenza sociale. E spero che non ti dispiaccia, ma ho fatto un piccolo… cambiamento, al tuo status”.
Jo fece scivolare i documenti fuori dalla busta e aprì il proprio passaporto: Josephine Morgan, recitava la scritta sotto a una sua foto che però era stata rintoccata, perché sembrava avere i capelli più corti e il viso più magro. Quel tanto che bastava a creare un’altra persona.
“L’ho fatto solo perché nel caso qualcuno non sia ancora convinto della tua morte, e ti cercasse, cercherebbe una donna sola… non una coppia sposata”, si giustificò Henry.
Jo non rispose. Fissò ipnotizzata quelle due parole, Josephine Morgan, e percepì uno strano groppo allo stomaco.
“Josephine Morgan. Jo Morgan”, ripeté tra sé e sé, “Suona bene”.
“Davvero?”, le chiese Henry con uno di quei suoi sguardi che sembravano perforare la parete.
Jo si sentì arrossire. “Sì”.
“Jo, lo sai come la penso su di te che stai con me, no?”
“Intendi il fatto che se fosse per te ti rintaneresti in cima a una montagna senza parlare con nessuno, che secondo te tu non mi meriti, che sarei più felice con un altro uomo, eccetera eccetera?”, lo rimbeccò Jo.
“Sì. E…”
“… E sai anche come la penso io, al proposito”, lo interruppe immediatamente Jo.
“E non c’è possibilità di farti cambiare idea, vero?”, le chiese Henry.
“Assolutamente no”, Jo lo fissò dritto negli occhi per trasmettergli la propria determinazione.
Henry si lasciò sfuggire un sospiro.
“In questo caso…”, esordì, “… visto che sei determinata a rovinarti la vita, forse sarebbe il caso di farlo… di farlo in maniera ufficiale”.
Jo sentì uno sfarfallio nello stomaco tale che provò l’impulso di scattare in piedi.
“È… è una proposta?”, chiese, con la voce che un po’ le tremava per l’emozione.
“Forse”, rispose Henry prudentemente, “Più avanti, quando le cose si saranno sistemate… se tu vorrai, ovviamente, e magari in un luogo e situazione più consoni, se…”
“Sì”, lo interruppe Jo con forza.
Henry si voltò a guardarla, gli occhi accesi di stupore.
“Sul… sul serio?”
“Sì”, ripeté Jo sempre più convinta.
“Saresti così pazza?”
“Sì”, disse ancora Jo, e rotolando sul fianco sinistro si sporse verso di lui e lo baciò. Quando lui rispose al bacio e l’abbracciò, Jo sussultò sentendo una fitta di dolore al fianco destro.
“Scusa”, mormorò Henry, e dolcemente l’aiutò a risdraiarsi sulla schiena. “Come va la ferita?”
“Sto molto meglio, davvero”, rispose Jo sinceramente, “Ma se la premo fa ancora male, tutto qui”
“Jo, io…” Henry si adagiò accanto lei, “Sei sicura della scelta? Perché ci sono così tante cose che non sai di me…”
“Prima o poi me le racconterai tutte”, lo rassicurò Jo, “Mi fido di te.”
“Ma ci sono cose del mio passato… cose che ho fatto…”
“Che cosa avrai mai fatto di male, tu?”, Jo gli accarezzò il viso posizionandosi di nuovo sul fianco sinistro per poterlo vedere in faccia.
“Cose di cui non vado fiero”, ammise lui con un sussurro.
Jo continuò a carezzargli la guancia, aspettando che lui continuasse. Henry abbassò gli occhi, incapace di guardarla in faccia.
“Una volta abbandonai una donna che avevo promesso di sposare”, confessò, “Era il 1893. Suo padre in punto di morte mi fece promettere di prendermi cura di lei, che sarebbe rimasta senza dote e senza mezzi. Io promisi. Non la conoscevo bene… ma era una donna dolce, onesta. Le volevo bene, a modo mio, ma dopo Nora non riuscivo più ad affezionarmi. Era troppo pericoloso, troppo doloroso. Credo che lei fosse innamorata di me, ma all’epoca ero troppo codardo per adempiere alla promessa che avevo fatto. Così scappai. È stata la cosa più disonorevole che abbia mai fatto”.
Jo attese qualche secondo, ponderando quella rivelazione. In realtà, scoprì di non provare nulla. Né gelosia, né stupore, né si sentiva di giudicarlo. Forse era perché lo amava veramente tanto, o perché era così certa di conoscere l’Henry del presente che non le importava quello che l’Henry del passato poteva aver fatto.
“Dimmi cosa pensi, Jo”, le chiese Henry dopo altri secondi di silenzio, “Lo so, è stata una cosa imperdonabile. Non ti biasimo se mi stimerai di meno, per questo”.
“Non ti stimo di meno, Henry”, ribatté Jo, “Stavo solo riflettendo. Sì, forse non è stata la cosa migliore che tu abbia fatto, ma… nessuno è perfetto. E forse è perché sono una donna del XXI secolo e infrangere una promessa di matrimonio non mi sembra la cosa peggiore del mondo… comunque no, non cambia la mia opinione su di te. Il fatto che tu ancora ti senti così in colpa per quella faccenda mi riconferma che tu sei esattamente l’uomo che penso che tu sia”.
“Ma avrei potuto farlo”, mormorò Henry, “Con il senno di poi… non era necessario che sapesse. Avrei potuto sposarla, darle un cognome e una rendita, e poi morire, e andarmene. Almeno avrebbe avuto la rendita da vedova, e una vita agiata.”
“Non eri tu quello che diceva che i rimpianti non servono?”
Henry sospirò. “Sì, hai ragione. È solo che… era una ragazza così innocente. Spero di non averla fatta soffrire”.
Henry si voltò sulla schiena, fissando il soffitto. Jo fece lo stesso, e rimasero entrambi in silenzio per un po’.
“Hai altro da dirmi, Henry?”, domandò Jo, “Intendo, delle cose che tu credi siano gravi”.
“Ho aiutato una condannata a morte a scappare”, ammise Henry all’improvviso, senza guardarla.
Questa notizia colpì Jo più di quella precedente. Non si aspettava proprio che Henry potesse essere capace di agire contro la legge… a parte il necessario per nascondersi, ovvio. Tornò a stendersi su un fianco:
“Racconta”.
“Si trattava di Elizabeth. Te la ricordi, no? Quella che avevo portato a teatro”. La voce di Henry si fece più grave. “Credo di averla amata, nel profondo. Forse l’unica altra donna che abbia veramente amato, a parte Abigail e te. Ma all’epoca ero giovane… non sapevo cosa fosse l’amore”.
“Ma… tua moglie, Nora?”, chiese Jo cercando di reprimere il disagio che provava nel nominare il suo nome, “A parte quello che ti ha fatto… prima, voglio dire, non l’amavi?”
Henry sospirò come se trovasse difficile trovare le parole giuste per esprimersi.
“Le volevo bene, ma non credo di averla mai amata sul serio. Mio padre mi disse di sposare Nora Grey e io lo feci. Era quella che si diceva un buon partito: figlia di un rinomato pastore anglicano, bella, istruita, con una buona dote. All’epoca mi ritenevo fortunato: era una donna piacevole con cui vivere, spiritosa, una buona padrona di casa. Un matrimonio di affetto e rispetto reciproco era già molto più di quello in cui speravo”.
Henry si fermò e deglutì, travolto dai ricordi.
“Elizabeth la conoscevo fin da quando eravamo piccoli. Ci siamo realmente parlati solo quando eravamo adolescenti, quando abbiamo inscenato quella pagliacciata a teatro. Ma con lei era diverso. Con lei potevo parlare sul serio, e anche lei si confidava con me. Il fatto che fosse una cosa sconveniente forse aggiungeva un po’ di fascino alla questione.”
“Sconveniente perché lei era una serva?”, lo interruppe Jo, “Scusami, ma per me è difficile immaginare quel contesto, sai?”
“Sì. Già di per sé la società di quell’epoca era molto rigida… quella inglese poi viveva di reputazione. La reputazione era la cosa più importante”, spiegò Henry, “Elizabeth poi era veramente bella. Ed essere bella, per una serva, poteva essere rischioso. Non fraintendermi, in casa nostra non è mai successo nulla del genere”, aggiunse in fretta, “Io e mio padre non andavamo d’accordo, ma se non altro lui non avrebbe mai permesso che in casa sua succedessero quelle cose”.
“Per quelle cose intendi…?”
“… Intendo padroni che si approfittano delle serve”, confermò Henry con tono freddo, “Ed Elizabeth era esattamente quel tipo di bellezza che avrebbe potuto attirare attenzioni indesiderate. Inoltre era intelligente, più intelligente e buona di molti rampolli dell’aristocrazia, ma lei purtroppo era nata da una cuoca e non da una lady. Quando mi sposai, la presi a servizio nella nostra casa. Volevo… volevo proteggerla, volevo che continuasse ad avere una vita agiata. Casa nostra era piccola, con pochi servitori, e io la nominai governante. C’era una specie di patto silenzioso, tra noi due. Quando nessuno ci vedeva, rompevamo i protocolli, e magari bevevamo insieme un bicchiere di vino, io semplicemente Henry e lei semplicemente Elizabeth. Era appassionata del mio lavoro… non come Nora, che sopportava a stento i miei turni in ospedale.” Come ogni volta che nominava Nora, la sua voce sembrava emanare rabbia. Jo non disse nulla e attese che continuasse. “Quando morii, e poi ritornai a casa, Elizabeth non c’era più. Nora disse che si era licenziata, ma solo più tardi scoprii che era stata lei a licenziarla, perché temeva che noi…”
“… aveste una relazione?”, completò Jo al posto suo.
“Sì”, disse Henry quasi a fatica, “Ma non era mai successo nulla, e mai sarebbe successo. Magari io e Nora non eravamo la coppia dell’anno, ma non l’avrei mai tradita. Poi… successe quello che sai. Anni e anni dopo, mentre lavoravo in ospedale, mi giunsero delle voci su un certo lord Blackwood.” Anche solo a pronunciare quel nome, la voce di Henry si indurì. “Non aveva una buona reputazione, tra la servitù. Anzi, si diceva che avesse più figli bastardi che legittimi, non so se mi spiego. Dopo che Elizabeth fu licenziata, fu presa a servizio in quella casa”.
Jo, da quelle premesse, cominciò a intuire quello che era successo dopo.
“Le successe qualcosa di brutto, vero?”, Jo non riuscì a dire ad alta voce le parole violenza o stupro.
“Sì. Non ci volle molto prima che lord Blackwood mettesse gli occhi su Elizabeth. Ne abusò per anni, e lei non poteva opporsi perché aveva bisogno di denaro per mantenere sua madre, né poteva andare a lavorare da un’altra parte”, aggiunse a beneficio di Jo, perché capisse meglio il contesto, “Perché bastava una cattiva parola di lord Blackwood, dire che lei era una ladra o beveva durante il servizio, e la sua reputazione sarebbe stata rovinata per sempre”.
“Bastardo”, commentò Jo condividendo la rabbia che trapelava dalla voce di Henry.
“E la cosa peggiore era che io non potevo fare nulla, anzi non sapevo nulla, perché in quel periodo ero in manicomio. Tutto quello che ti sto raccontando lo seppi solo in seguito”. Henry sospirò per nasconder il tremolio della propria voce. “Elizabeth rimase incinta, e lord Blackwood la picchiò talmente forte da provocarle un aborto. Lei pensò che, se non altro, dopo quell’evento l’avrebbe lasciata in pace, e si sarebbe trovato una nuova serva di perseguitare. Ma lui non la lasciava in pace. Forse perché Elizabeth, alla fine, non si era mai sottomessa davvero. Era troppo fiera, troppo orgogliosa per lasciarsi schiacciare. Sopportava in silenzio, ma non si abbandonò mai alla disperazione. Restò sempre a testa alta. Tutto questo lo so perché ho letto il suo diario”, spiegò Henry, “Un giorno però ci fu la goccia che fece traboccare il vaso. Elizabeth reagì e… pugnalò lord Blackwood al collo con un tagliacarte”.
Jo trattenne il respiro, in attesa del seguito.
“Alle urla e al rumore, la servitù accorse. Tutti sapevano cosa faceva lord Blackwood alle giovani serve, ma non c’era modo per aiutare Elizabeth: era ricoperta di sangue, e aveva ancora il tagliacarte in mano. L’arrestarono, la processarono e la condannarono per omicidio”.
“Ma le violenze?”, obiettò Jo indignata, “Non costituivano un’attenuante? Non poteva invocare la legittima difesa…?”
“Era una serva che aveva ucciso un Lord, punto”, commentò Henry, “Nessuno avrebbe trascinato il nome Blackwood nel fango. Chiunque poteva sostenere che Elizabeth era consenziente, che lo faceva per ottenere favori dal padrone. Lei non aveva scampo”.
Jo mise a tacere la sua indignazione per ascoltare il seguito.
“Io seppi tutto proprio il giorno in cui fu pronunciata la sentenza. La morte di lord Blackwood aveva fatto scandalo, soprattutto per le circostanze in cui era avvenuta. Nessuno lo diceva apertamente, ma tutti sapevano. Io stesso sapevo che era stato ucciso da una serva, ma ignoravo che fosse Elizabeth. Quando seppi che era lei e che era condannata all’impiccagione…” Henry scosse la testa come a voler scacciare il ricordo, “… mi si spezzò il cuore. Forse fu solo allora che mi resi conto che l’amavo, o che comunque provavo per lei più affetto di quanto ne avessi mai provato per chiunque altra. Avevo solo tre giorni di tempo, dovevo fare qualcosa”.
Jo attese, trepidante.
“Raccolsi tutto il denaro di cui potevo disporre, corruppi l’ufficiale addetto all’impiccagione e il medico incaricato di accertare la morte dopo l’esecuzione. Al suo posto, andai io. Elizabeth fu attaccata a un’imbracatura supplementare che impedì alla corda di spezzarle il collo. Lei non sapeva nulla del mio piano, ma capì che stava succedendo qualcosa, e quando si accorse che non stava morendo fece comunque finta di essere morta, in attesa di scoprire che stava succedendo. Io mentii quando mi sottoposero il cadavere per l’accertamento, e dissi che era morta. Lei continuava a fingere in tal senso, ma sono quasi certo che riconobbe la mia voce, quando mi sentì parlare”.
“Ma non ti vide in faccia, quando la dovetti esaminare?”
“Gli impiccati hanno un sacco sulla testa, Jo, non riescono a vedere nulla. Mi presi carico del corpo per portarlo all’obitorio cittadino, e invece la portai via, in un rifugio in campagna che avevo affittato. Quando le tolsi il sacco dalla testa, rimasi sconvolto nel vedere quanto era cambiata”, le confidò, la voce che si abbassò impercettibilmente, “Era ancora indubbiamente bella, ma il suo viso era solcato dalla sofferenza. Era magra, patita, gli occhi scavati. Non dimenticherò mai finché avrò vita le parole che mi disse quando mi vide e mi riconobbe: La padrona mi aveva detto che eravate morto! Puoi immaginare come questo abbia aumentato il mio odio già profondo per Nora. Poi mi abbracciò, e mi disse: non sapete quanto ho pianto sulla vostra tomba. Io ero paralizzato. Da una parte avrei voluto fuggire con lei, ma dall’altra c’era la mia condizione, che avevo appena cominciato a gestire. Gli anni del manicomio erano appena dietro l’angolo e non ce l’avrei fatta a sopportare altre ferite. Così le diedi tutto il denaro che potei, vestiti, un cavallo e un falso certificato di nascita che la eleggeva a Lady Smallwood”. A quel nome, Henry sorrise per la prima volta da quando aveva iniziato quel racconto. “Lei all’inizio rifiutò. Non voleva essere in debito, non voleva fuggire. Ma doveva fare i conti con la realtà, non poteva più stare a Londra. Così alla fine fece come le avevo detto, montò a cavallo e si rifugiò in Scozia.”
“… e poi? Che ne fu di lei?”, chiese Jo dopo qualche secondo di silenzio.
“So che si rifece una vita, che sposò un proprietario terriero scozzese. Non so altro”.
“Ogni tuo racconto è sempre una sorpresa, Henry Morgan”, disse Jo per sdrammatizzare. “E lo sai cosa? Solo tu avresti potuto fare una cosa del genere”. Si voltò verso di lui e seguì il profilo del suo viso con un dito. “E stai facendo lo stesso, adesso, per me. E ti amo, per questo.”
“Adesso dormi, signora Morgan”, la incitò Henry cercando di adottare un tono leggero. Evidentemente quel racconto del suo passato l’aveva stancato e fatto sprofondare in una nube oscura di ricordi. Allontanò la mano di Jo e le diede un affettuoso bacio sulla fronte. “Domani è il giorno della grande fuga”. 
 
Jo, quella notte, si girò e rigirò nel letto. La storia di Elizabeth prese vita nella sua testa e si immaginò una donna bellissima, che nella sua fantasia era bionda e con gli occhi azzurri, che veniva trascinata al patibolo e impiccata. Il suo corpo in preda alle convulsioni si trasformava e diventava il suo, mentre veniva aggredita e quasi uccisa nella propria cucina. Cercando di liberarsi dalle mani che nel sogno la ghermivano e la spingevano, scalciò e mosse le braccia. Percepì la presenza di Henry al suo fianco, che le diceva: “Non ti preoccupare, Jo, è tutto a posto, è solo un sogno…”, ma non si svegliò. Continuò a vagare nella propria mente, recuperando spezzoni del proprio passato che agli occhi dell’inconscio assumevano un nuovo significato. Vide Henry con un braccio ferito, che avanzava ponendosi davanti a lei e diceva: spara a me. Sentì la voce di Abe al telefono, preoccupata: non so che fine abbia fatto, sono sicuro che è successo qualcosa, stasera c’era un evento importante e non sarebbe mai mancato… e poi di nuovo Henry, che si lanciava su di lei urlando: no, Jo, non andare lì! Fermati!
Jo si svegliò all’improvviso, sudata e con il respiro affannoso. Una debole luce mattutina filtrava attraverso le tende e il rumore di clacson e automobili era ancora scarso.
Henry stava dormendo: si era addormentato con addosso gli stessi vestiti che aveva la sera prima. Jo rimase a osservarlo per un po’, rimuginando su tutto quello che lui le aveva raccontato. Non c’era niente da fare: non riusciva ad avere una cattiva opinione di lui, in nessun caso. Non capiva come lui potesse biasimarsi per cose che agli occhi di Jo non avevano alcun significato, o comunque non quel significato cattivo che lui vi attribuiva. Forse dipendeva dal fatto che lui era pur sempre nato in un’altra epoca, rifletté Jo. Cos’è che aveva detto? La reputazione era la cosa più importante. Il che spiegava perché Henry era sempre così fissato con l’abbigliamento e il contegno. Era stato educato così, ed era difficile staccarsi dalla propria educazione, anche con il passare dei secoli.
“…Jo?”, Henry si svegliò, stiracchiandosi la schiena, “Stai bene, tutto ok?”
“Sì, Henry, tutto ok”, rispose Jo, “Sei proprio sicuro di volerlo fare, Henry?”
“Te l’ho già detto, Jo. Sì. Ormai non si torna più indietro”, si alzò dal letto e fece qualche passo per sgranchirsi le gambe, “Alle sette e mezza di stasera Abe ti verrà a prendere e ti porterà all’aeroporto. Il nostro aereo parte alle dieci. Io ti raggiungerò lì quando sarà tutto finito”.
“Quando hai intenzione di incontrare Elliott?”
“Verso le sette. So che stasera sarà nel suo ufficio, ha una conference call alle sei e mezza.”
“Henry, hai considerato la possibilità che… che insomma, che non funzioni? Che non confessi? E se non ti spara? In fondo, è nel proprio ufficio. Non sarà così imprudente da commettere un omicidio lì.”
“La rabbia rende imprudenti”, commentò Henry, “Comunque sì, Jo, ho considerato tutte le possibilità, come in una partita a scacchi. Se non confessa, non importa. Me ne vado e ti raggiungo all’aeroporto. Troverò un altro modo. Se non mi spara, lo stesso. Ma credo che lo farà proprio perché è il suo ufficio. Lì è il suo mondo, si sente potente. Le guardie sono sue amiche. I suoi dipendenti non oserebbero mai mettersi contro di lui. E per ottenere un mandato ci vorrebbe tempo, e lui potrebbe ripulire tutto. Se l’ho capito bene… vedrai che andrà come previsto”.
“Se lo dici tu, Henry”, sospirò Jo, “Fino a stasera, che intendi fare?”
“Riposare. Ricontrollare gli ultimi dettagli. Perché, hai altre proposte, detective?”
Jo gli lanciò uno sguardo malizioso. “Dimmelo tu, dottore”.
 
Henry entrò dalla porta principale. Liz era riuscita a craccare il sistema in modo che agli addetti alla sicurezza risultasse un appuntamento tra Henry e il senatore alle 19, mentre tale appuntamento non compariva sull’agenda personale di Elliott. Lo scopo di Henry era duplice: cogliere il senatore di sorpresa, anche se sapeva che non sarebbe bastato a farlo crollare, ma soprattutto avere un video registrato del proprio ingresso. Se poi tutto fosse andato come previsto, Elliott avrebbe avuto due possibilità: confermare che lui era venuto e poi se n’era andato, oppure negare che lui fosse venuto e provvedere a rimuovere il nastro di sorveglianza, o almeno cancellarne una parte. In entrambi i casi, il suo comportamento sarebbe stato sospetto e avrebbe suscitato delle domande.
“Avanti”, disse bruscamente Elliott quando lui bussò alla porta del suo ufficio.
Per un istante, gli occhi di Elliott si accesero di stupore vedendolo entrare.
“Dottor Morgan”, lo accolse, ricomponendosi con un sorriso di circostanza, “Che cosa ci fa lei qui? Come ha fatto a entrare?”
“Dall’ingresso”, rispose cordialmente Henry come se non avesse capito la vera natura della domanda. Senza attendere un invito, si sedette comodamente nella poltrona di fronte alla scrivania. Elliott lo guardò per qualche secondo, palesemente irritato, ma anche incuriosito. Come Henry aveva predetto, Elliott era una personalità vanitosa. Provava irritazione ma anche attrazione nei confronti di ciò che lo stupiva e lo prendeva in contropiede: era la sua occasione per giocare una partita di astuzia e dimostrare all’avversario quanto lui fosse intelligente.
Seguendo l’esempio di Henry, anche il senatore si sedette. Incrociò le mani in grembo e assunse un’espressione di cordiale benevolenza.
“Allora, dottor Morgan, cosa la porta qui?”
“Credo che lei lo sappia perfettamente”, rispose Henry calmo, scegliendo con cura le parole, “Sono venuto qui per una risposta”.
“Una risposta di che genere?”, sorrise Elliott pacatamente.
Henry fece una pausa ad effetto per lasciare al senatore il tempo di azzardare qualche ipotesi.
“Perché ha fatto uccidere la detective Martinez?”
Elliott non smise di sorridere, ma un lampo attraversò i suoi occhi e scavò qualche minuscola ruga di apprensione ai margini della sua bocca. Sempre in tono benevolo, come se si stesse comportando in maniera accondiscendente con uno scocciatore che non voleva saperne di andarsene, disse:
“Dottor Morgan, non so a quale gioco lei stia giocando, né che cosa voglia insinuare con la sua domanda. Non ho idea di che cosa lei stia parlando.”
“Io non sto giocando nessun gioco”, continuò Henry pacatamente, “Né sto insinuando nulla: la mia è una certezza. Credevo che ormai avesse capito”.
“Capito cosa?”, chiese Elliott stringendo un poco gli occhi.
“Che ormai aveva vinto”, rispose Henry. “Lei è un uomo furbo, e intelligente. Per questo sono venuto qui a chiederle, per pura curiosità personale, come mai ha fatto una mossa così stupida come far uccidere la detective Martinez”.
Una nuova ombra passò sul viso del senatore, e questa volta lui non si premurò di nasconderla. Il sorriso gli si congelò sulle labbra.
“Lei trova che sia stata una mossa stupida?”
Perfetto, pensò Henry. Elliott era furbo e ovviamente non aveva ancora ammesso nulla, ma se non altro lo stava irritando mettendo in dubbio la sua intelligenza.
“Mi sembra ovvio, no?”, lo stuzzicò Henry senza dargli la soddisfazione di rispondergli subito.
“Davvero?”, domandò il senatore a denti stretti. Stava freneticamente rivivendo nella propria testa il suo piano per vedere se aveva tralasciato qualche falla.
“È stata una mossa inutile e avventata”, spiegò Henry con un vago sorriso di superiorità che fece irritare Elliott ancora di più, “Che bisogno c’era di farlo? Dopo essere stato così astuto da far sparire ogni prova, aver convenientemente trasferito o promosso chiunque fosse coinvolto, e aver addirittura pagato qualcuno per trafugare il cadavere…” Henry allargò le braccia, come a voler dire sono proprio deluso da questa sua mossa sbagliata, “… era chiaro che il caso sarebbe caduto da solo. Senza contare le pressioni dall’alto che continuavano ad arrivare al distretto. La detective Martinez avrebbe rinunciato, o comunque sarebbe stata obbligata a farlo. Quindi glielo richiedo: perché l’ha fatta uccidere?”
Le spalle di Elliott si rilassarono, come se la conversazione si fosse di nuovo spostata su un terreno che lui poteva controllare.
“Oh, dottore, lei mi delude profondamente”, e questa volta fu lui a sorridere, “È venuto qui a provocarmi, sperando… sperando che cosa? Che io mi comprometta con qualche affermazione? Come se non sapessi che lei ha un microfono addosso. Senza contare che, ipoteticamente parlando, si tratterebbe di una confessione non valida in tribunale”.
“Oh, andiamo, senatore, lei crede davvero che io sia venuto con un microfono?”, Henry si alzò, e allargò teatralmente le braccia, “Mi perquisisca pure”.
Ci fu un attimo di esitazione, di dubbio, da parte del senatore. Poi riprese il controllo: “Non sarò io a farlo. Nick?”
Un uomo, probabilmente un ex soldato, a giudicare dalla corporatura, dal taglio di capelli e dal tatuaggio sul collo, fece il suo ingresso nell’ufficio. Elliott doveva avere un tasto per le chiamate di emergenza al di sotto della scrivania, come quelli che si trovano nelle banche. Ovviamente, quel tasto avviava una chiamata nei confronti di un suo scagnozzo personale. Non delle guardie di sicurezza ufficiali.
L’uomo che si chiamava Nick gli tastò le braccia e le gambe alla ricerca di armi, microspie, o qualunque altra cosa sembrasse sospetta. Alla fine, scosse la testa. “È pulito”, disse.
“Come le dicevo”, Henry si risedette tranquillamente, “La mia è una curiosità personale”.
Dopo aver appurato che non c’era la possibilità di essere registrati, Elliott si rilassò visibilmente. Sorrise, quasi genuinamente divertito, e si lanciò con ancora più fervore nel gioco di allusioni che avevano iniziato.
“Confesso che sono stupito”, ammise, come se gli stesse concedendo una grazia, “Ma la tolga a me, una curiosità: una volta ottenuta… come possiamo dire? Una volta soddisfatta la sua curiosità, dove crede di andare, esattamente?”
“Probabilmente sotto terra”, rispose semplicemente Henry.
Il sorriso di Elliott si allargò ulteriormente.
“Lo sapevo che lei era un uomo intelligente”, disse, “Anche se devo ammettere che continuo a non capire il motivo per cui lo sta facendo”.
“Che vuole che le dica? Devo risolvere sempre qualunque rompicapo, altrimenti non ci dormo la notte”.
“E quale rompicapo non riesce a risolvere?”
Lei”, rispose Henry, sporgendosi leggermente in avanti, “Come le ho già detto, lei è estremamente intelligente. Un sociopatico narcisista, probabilmente. È dotato di un’acuta intelligenza, capacità di analisi e di adattamento, ma è anche narcisista, egocentrico, manipolatore, con totale mancanza di empatia. Non riesco a spiegarmi come una personalità come la sua, così fredda e calcolatrice, si sia lasciata prendere dalla rabbia così facilmente”.
Gli occhi di Elliott mandarono lampi. Henry si interruppe, come se stesse pensando solo in quel momento al discorso che invece aveva preparato con molta cura, parola per parola: “Ma d’altronde, non è la prima volta. Forse soffre di scoppi d’ira improvvisi. Capita, anche ai sociopatici, soprattutto se perdono il controllo e si sentono vulnerabili.”
“Non so di cosa stia parlando”, sibilò il senatore risentito, “Non mi sono mai trovato in una tale situazione.”
“Oh, invece sì”, replicò Henry implacabile, “Con Sarah Conrad, no? Ucciderla così, a mani nude, è stato un gesto passionale. Una cosa da dilettanti, di qualcuno che non è in grado di controllarsi”.
Elliott si alzò di scatto dalla sedia, quasi emanando furia.
“Non sa di cosa sta parlando”, disse, “Non conoscevo Sarah Conrad.”
“Però era incinta di lei”, continuò Henry, “Prima che il suo cadavere sparisse ho fatto un’analisi del DNA del feto e l’ho confrontato con il suo. Corrispondono: era lei il padre del bambino.”
“Che diavolo sta blaterando?”, una vena cominciò a pulsare sulla fronte di Elliott ed Henry sorrise tra sé e sé, “Non ho fornito nessun campione di DNA. Lei non ha fatto alcun test”.
“Diciamo che il campione di DNA me lo sono procurato”, spiegò Henry, “Prendendo in prestito una delle sue gomme da masticare alla menta. Non dovrebbe masticarne così tante nel corso della giornata, sa? Rovinano lo stomaco. Ma immagino che l’aiutino a sopportare lo stress”, aggiunse Henry con una nota provocatoria.
Il senatore Elliott non replicò. Sembrava pronto a scagliarsi su di lui attraverso la scrivania, ma strinse i pugni e si trattenne.
“Ammesso che tale prova esista… Non è una prova valida in tribunale”, sancì alla fine.
“Non ho nessuna intenzione di portarla in tribunale”, Henry assunse un’aria sorpresa, come se fosse stupito che Elliott fosse arrivato a quella conclusione. Doveva continuare a tenere alta la sua attenzione, e a provocarlo. “Come le ho già detto più volte, io voglio solo capire. Immagino che il problema siano i suoi scoppi d’ira, vero? Non sopporta le provocazioni. E Sarah l’aveva provocata, vero? Magari voleva addirittura tenere il bambino, o pretendeva dei soldi per il mantenimento.”
“Quella stupida puttanella”, si lasciò sfuggire Elliott, perdendo per la prima volta il controllo, “Non aveva ancora capito come stanno le cose”.
“Così lei l’ha rimessa a posto, vero?” Henry lanciò un rapido sguardo alle sue spalle. Il tizio di nome Nick stava immobile in un angolo, ascoltando ogni parola. Probabilmente anche lui era coinvolto.
“Ho fatto ciò che un uomo nella mia posizione deve fare”, rispose Elliott sollevando il petto in un eccesso di orgoglio, “Un uomo come me non si abbassa certo a compromessi con una stagista”.
“Ma ancora non ha risposto alla mia domanda principale”, incalzò Henry approfittando del momento di debolezza del senatore, “Perché ha fatto uccidere la detective Martinez?”
“Perché quella stronza non avrebbe mai lasciato perdere”, sbottò Elliott abbandonando ogni ritegno. “Mi stava con il fiato sul collo, come se una detective qualunque potesse permettersi di minacciarmi. Doveva capire chi comandava.”
Henry annuì con un sorriso cordiale, come se avesse avuto esattamente la risposta che si aspettava.
“Bene, la ringrazio per la sincerità”, disse. Sembrava stesse ringraziando per aver ricevuto una tazza di caffè.
Dopo quello sfogo, lo sguardo acceso del senatore si calmò e sembrò riacquistare il controllo. Si sistemò il nodo della cravatta in un gesto automatico e sfoderò uno dei suoi sorrisi da telecamera:
“Sono lieto di essere riuscito a soddisfare la sua curiosità”. Il sorriso si trasformò velocemente in una smorfia di minaccia.
“Allora… chi avrà il compito di farmi fuori? Lo farà lei personalmente, o delegherà il compito al signor Nick qui presente?”, chiese Henry con la massima tranquillità.
“Lei è per me una continua fonte di stupore, dottor Morgan”, ammise Elliott quasi con ammirazione, “Non ha paura dell’aldilà?”
“Sono stato in posti peggiori”, rispose Henry enigmaticamente.
“Di solito è Nick che si occupa di queste cose”, spiegò il senatore come se stessero parlando di una transazione di affari, “Ma nel suo caso mi sembra giusto farlo personalmente. Si è guadagnato il mio rispetto, con la sua faccia tosta”.
“Quale onore”, commentò Henry ironicamente.
Il senatore Elliott aprì il cassetto destro della scrivania ed estrasse una pistola.
“Visto che siamo in vena di confidenze”, disse Henry mentre il senatore metteva il primo colpo in canna, “Come ha intenzione di sbarazzarsi del mio cadavere? Non è facile, uscire non visti da quest’ufficio. Ci sono le guardie all’ingresso.”
“Nick sa come fare, in questi casi”, rispose Elliott con tono quasi paternalistico, “Non è la prima volta che si sbarazza di un cadavere”.
“Spero che faccia un lavoro migliore di quello fatto con Sarah Conrad, senza offesa…”, ed Henry si voltò lievemente verso Nick, facendogli un cenno, “… ma quella messinscena della rapina finita male non ha convinto nessuno”.
“Beh, visto che ne è rimasto così deluso, chiederò a Nick di essere più creativo, questa volta”, disse Elliott puntandogli la pistola al petto. Ancora una volta Henry sorrise tra sé e sé. Il braccio del senatore era fermo, ma la sua mira lasciava a desiderare: da quella posizione, lo avrebbe colpito esattamente in mezzo al petto, evitando però il cuore e i polmoni. Sarebbero passati parecchi minuti prima che Henry morisse. Abbastanza affinché il signor Nick avesse il tempo di portarlo fuori da quell’edificio e abbandonarlo da qualche parte.
Il colpo di pistola risuonò fragrante nel silenzio dell’ufficio.
Henry non sentì neanche così tanto dolore. Forse perché aveva subito ferite peggiori, o forse perché era preparato. Come previsto, la pallottola penetrò nel petto mancando il cuore. La sottile guaina metallica che Henry aveva indossato al di sotto della camicia attutì il colpo abbastanza da non fargli perdere conoscenza. In ogni caso, si accasciò di proposito sulla poltrona e chiuse gli occhi, fingendosi già morto. Ci furono alcuni secondi di silenzio, durante i quali probabilmente il senatore Elliott meditò se sparargli un altro colpo o meno. Alla fine, un secondo sparo risuonò nella stanza.
“Sbarazzati del corpo”, disse, la voce tornata calma e pienamente in controllo di sé.
Sì, Nick, sbarazzati del mio corpo, pensò Henry, e si rifugiò in un angolo della propria mente mentre aspettava il momento giusto per morire. 

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Capitolo 6
*** After death ***


6
After death

 
 
Il capitano Reece entrò nel proprio ufficio dopo un’ennesima nottata in bianco a leggere rapporti, fare schemi, sintetizzare ipotesi. Da quando Jo era morta, un enorme peso era calato sul suo stomaco e non riusciva più a liberarsene. Continuava a pensare che avrebbe dovuto stare più attenta. Era un suo detective, quello che era stato aggredito in maniera così sprezzante delle leggi. Avrebbe dovuto dare retta a Jo ed Henry, che sin dall’inizio erano persuasi della colpevolezza di Elliott, ed essere più aggressiva nei confronti del senatore. Invece si era lasciata mettere sotto pressione dai superiori, dalla stampa, dalla paura per la propria carriera.
Si sedette alla sua scrivania sorseggiando un sorso del caffè che aveva in mano. Non fece in tempo a far partire i propri pensieri organizzativi per la giornata, che squillò il telefono.
“Capitano Reece”, disse, rispondendo.
“Sono Isaac Monroe”, si presentò la voce dall’altro capo del filo, “Mi scusi se la disturbo a quest’ora, capitano. Volevo solo sapere se c’erano novità”.
Il capitano sospirò.
“Purtroppo no, signor Monroe. Stiamo facendo tutto il possibile, ma… non abbiamo ancora alcun elemento concreto in mano”.
Ci fu qualche secondo di silenzio da parte del signor Monroe.
“Va bene. La ringrazio… mi farà sapere quando avrete risolto il caso, vero?”
“Certamente, signor Monroe. Sarà uno dei primi a saperlo”, lo rassicurò il capitano.
“Grazie. Allora la saluto. A presto”. Il signor Monroe riattaccò e il capitano Reece fece lo stesso. Erano anni che non si sentiva così sfinita. Come se la sua frustrazione per la mancanza di prove non fosse già stata abbastanza, si aggiungevano anche pressioni e telefonate come quella del signor Monroe.
Reece chiuse gli occhi per un istante per raccogliere i pensieri e fece per accendere il computer, quando si accorse che era già acceso. Posò la tazza sulla scrivania, interdetta. La schermata iniziale era accesa e c’era un file sconosciuto che spiccava nel bel mezzo del desktop: un_nuovo_omicidio_per_il_senatore_elliott.mp3. La mano di Reece corse al mouse ma poi esitò, dubbiosa: se si fosse trattato di un virus, di un trojan per craccare la rete della polizia di New York? Come aveva fatto quel file a entrare nel suo computer? Chi era riuscito a bypassare la sua password? Fu tentata di chiamare la sezione informatica e chiederle di analizzare il computer prima di eseguire il file, ma la sua denominazione continuava a lampeggiarle davanti agli occhi: un nuovo omicidio per il senatore Elliott. Senza pensarci troppo, prima di cambiare idea, cliccò sul file e fece partire l’audio.
“Avanti”, disse la voce del senatore Elliott. L’audio era leggermente disturbato, o meglio attutito, come se la fonte della registrazione si fosse trovata sotto a un altro oggetto che ne copriva il microfono. Ma la voce era inconfondibilmente quella di Elliott.
“Dottor Morgan”, continuò la voce con una leggerissima punta di sorpresa, “Che cosa ci fa lei qui? Come ha fatto a entrare?”
Il capitano Reece fermò la registrazione, improvvisamente agitata. Un presentimento, un brutto presentimento, si fece strada nel suo petto. Si alzò di scatto e quasi corse alla porta del proprio ufficio:
“Hanson!”, gridò, rivolgendosi al detective che si era appena seduto alla propria scrivania, “Hanson!”
“Capitano…?”, chiese lui confuso, facendo cadere un paio di carte dalla scrivania a causa dell’urgenza del suo tono.
“Vieni qui, subito!”
Hanson ubbidì, perplesso. Reece tornò rapidamente dietro alla propria scrivania e fece ripartire l’audio dall’inizio.
“…. Che cosa ci fa lei qui? Come ha fatto a entrare?”
“Dall’ingresso”, rispose Henry con il suo inconfondibile accento inglese.
“Ma che cazzo…?”, borbottò Hanson, e si appoggiò alla scrivania sporgendosi verso il computer.
“… perché ha fatto uccidere la detective Martinez?”, continuò la voce di Henry.
Sia Reece che Hanson trattennero il fiato, e probabilmente anche il senatore Elliott, perché impiegò qualche secondo prima di rispondere.
“Dottor Morgan, non so a quale gioco lei stia giocando, né che cosa voglia insinuare con la sua domanda. Non ho idea di che cosa lei stia parlando.”
Cristo Santo, pensò il capitano. Appoggiò i gomiti sulla scrivana e strinse le mani a pugno davanti a sé. Che cosa aveva fatto Henry?
“…Che ormai aveva vinto”, stava dicendo Henry. “Lei è un uomo furbo, e intelligente. Per questo sono venuto qui a chiederle, per pura curiosità personale, come mai ha fatto una mossa così stupida come far uccidere la detective Martinez”.
Hanson stava sudando. Si allentò il nodo della cravatta e quasi si sdraiò sulla scrivania, come se avvicinandosi al computer potesse in qualche modo avere controllo su quella conversazione.
“…. sperando che cosa? Che io mi comprometta con qualche affermazione? Come se non sapessi che lei ha un microfono addosso. Senza contare che, ipoteticamente parlando, si tratterebbe di una confessione non valida in tribunale”. Non c’erano volti da studiare, ma il capitano sospettò che quello del senatore stesse diventando terreo. Il suo tono era falsamente tranquillo, quando in realtà stava trasudando rabbia.
“Mi perquisisca pure”, disse Henry.
Alcuni suoni si sostituirono alle due voci: una porta che si chiudeva, il rumore lievissimo di una sedia che veniva spostata, il fruscio di tessuto che strusciava contro tessuto. “È pulito”, disse una terza voce che né Hanson né il capitano riuscirono a identificare. Da dove viene la registrazione, allora?, fece in tempo a pensare Reece prima che le voci ricominciassero a parlare.
“… la mia è una curiosità personale”.
“Confesso che sono stupito… Ma la tolga a me, una curiosità: una volta ottenuta… come possiamo dire? Una volta soddisfatta la sua curiosità, dove crede di andare, esattamente?”
“Probabilmente sotto terra”.
Hanson ebbe uno scatto involontario e per poco non fece cadere per terra la lampada. Si passò una mano sul viso per togliersi il sudore che gli colava lungo la fronte.
“… Un sociopatico narcisista, probabilmente. È dotato di acuta intelligenza, capacità di analisi e di adattamento, ma è anche narcisista, egocentrico, manipolatore, con totale mancanza di empatia. Non riesco a spiegarmi come una personalità come la sua si sia lasciata prendere dalla rabbia così facilmente”.
“Cazzo”, borbottò Hanson, “Oh cazzo”.
“Che diavolo sta blaterando?”, la voce del senatore si alzò di una tacca. Il capitano non si perdeva una sillaba, come ipnotizzata. Stringeva così forte i pugni che le unghie le si erano conficcate nei palmi. “…Non è una prova valida in tribunale”.
“… Immagino che il problema siano i suoi scoppi d’ira, vero? Non sopporta le provocazioni. E Sarah l’aveva provocata, vero?...”
“Quella stupida puttanella”, il tono di voce di Elliott era cambiato così all’improvviso che sia Hanson che il capitano sobbalzarono. Henry lo stava provocando intenzionalmente e lui stava crollando.
“Perché ha fatto uccidere la detective Martinez?”, chiese ancora Henry. La sua voce era incrollabilmente calma, come se stesse parlando del più e del meno. Di fronte a una tale freddezza, il capitano Reece percepì un brivido lungo la schiena.
“Perché quella stronza non avrebbe mai lasciato perdere”, rispose Elliott aggressivo. Hanson trattenne il respiro, e il capitano raddrizzò la schiena, all’erta, per non perdersi neanche una parola: era una confessione. Era un’ammissione bella e buona.
Un silenzio carico di cattivi presagi alleggiò nella stanza, interrotto solo dal brusio di fondo della registrazione.
“Bene, la ringrazio per la sincerità”.
“Sono lieto di essere riuscito a soddisfare la sua curiosità”. Il tono di Elliott non poteva trasudare più pericolo neanche se lo avesse minacciato apertamente di morte.
“… Di solito è Nick che si occupa di queste cose, ma nel suo caso mi sembra giusto farlo personalmente. Si è guadagnato il mio rispetto, con la sua faccia tosta”.
“Quale onore”.
Hanson si allontanò dalla scrivania come a voler scappare da quello che entrambi sapevano sarebbe arrivato.
“…chiederò a Nick di essere più creativo, questa volta”.
Ci fu un momento di silenzio così carico di minaccia che la minaccia stessa sembrò aleggiare dal computer verso di loro.
Bang.
Quel rumore esplose nella stanza e parve aleggiare nell’aria anche per parecchi secondi dopo che si era consumato. Sia Hanson che Reece rimasero immobili, pietrificati. Quello che stavano ascoltando non poteva essere successo davvero.
Bang.
Un secondo sparo li fece sobbalzare come se l’arma fosse stata puntata contro la loro testa. Hanson si portò una mano alla bocca. Il capitano fissò il vuoto, immobile.
“Sbarazzati del corpo”, disse il senatore Elliott, la voce calma e neutra come se avesse detto vai a prendermi un caffè doppio. Si udirono rumori indistinti, qualcosa di pesante che colpiva terra, un mobile che veniva spostato, una porta che si apriva, qualcuno che ansimava. Poi, con uno strano suono metallico che assomigliava all’agganciare di una cornetta del telefono, la registrazione si interruppe. Nello stesso istante, sul desktop del computer si aprì una finestra e delle parole comparvero velocemente: avete 24 ore per l’incriminazione per vie legali, altrimenti questa registrazione verrà spedita a tutti i giornali, siti web e network del pianeta. Il capitano e Hanson ebbero appena il tempo di leggere quella riga di testo che la finestra scomparve con un din.
Un silenzio agghiacciante calò su di loro. Hanson, con gli occhi lucidi, respirava affannosamente come nel tentativo di calmarsi. Il capitano sentiva una gelida furia montare all’interno del suo petto. Lentamente, con le mani appoggiate alla scrivania che le tremavano, si alzò.
“Hanson”, disse, la voce che trasudava rabbia, “Chiama il procuratore legale. Chiama l’FBI. Chiama anche il presidente e il papa, se è necessario, ma…”, si interruppe per controllare il proprio tono, “Voglio un cazzo di mandato di arresto per quel figlio di puttana. ADESSO.”
 
“Il problema è che Elliott ha ragione”, disse il procuratore legale dopo aver ascoltato la registrazione, “Non è una prova valida in tribunale. È una confessione estor…”
“Non me ne frega un cazzo se la prova è valida o no”, lo interruppe il capitano Reece, con un’aggressività tale che il procuratore legale quasi si premette contro lo schienale della sedia per allontanarsi da lei, “Come se fosse la prima volta che una confessione viene estorta o registrata di nascosto. Non mi importa come, ma voglio un mandato di arresto. SUBITO. Quel bastardo ha ucciso due dei miei uomini.”
“Signora Reece, capisco la sua rabbia, ma…”
Capitano Reece”, lo corresse Reece ancora più furibonda, “E tanto per la cronaca, un hacker ha craccato il sistema. Ci ha fatto sapere che se Elliott non verrà arrestato entro ventiquattro ore, provvederà a far avere la registrazione alla stampa. Ora, a lei la scelta”, il tono del capitano si abbassò di qualche tacca, e si fece ancora più minaccioso, “Provocare uno scandalo, mostrando le lacune e l’incompetenza dell’ufficio del procuratore che non ha saputo incriminare un uomo per due omicidi, oppure arrestarlo cercando di mitigare i danni, e dimostrare come la giustizia non faccia sconti per nessuno”.
Il procuratore tenne a freno la lingua di fronte a quello scenario. Se si fosse sparsa la voce che lui aveva agito in maniera negligente nelle sue indagini perché il sospettato era un senatore, la sua carriera sarebbe stata rovinata.
“Le farò avere il mandato al più presto”, concesse alla fine, “Ma ci vorrà qualche ora. Non sarà facile trovare un giudice disposto a firmarlo.”
“Lo trovi e basta”, sibilò Reece, battendo un pugno sul tavolo, “Subito”.
 
Quando il mandato arrivò, il capitano Reece volle eseguirlo personalmente. Hanson era al suo fianco, con le manette già in mano, pronto a usarle. Entrarono dalla porta principale e si recarono direttamente nell’ufficio di Elliott, ignorando le proteste delle guardie di sicurezza, i tentativi di fermarli del personale, e le obiezioni dell’avvocato del senatore che, casualmente, si trovava lì.
“Christopher Elliott”, disse il capitano Reece non appena entrò nell’ufficio, con Elliott già in piedi, indeciso se sfoderare un sorriso di circostanza o affrontarli di petto, “La dichiaro in arresto per l’omicidio di Henry Morgan e Jo Martinez. Ah, e di Sarah Conrad”.
“Che cosa state blaterando?”, gli occhi di Elliott schizzarono fuori dalle orbite, ma nonostante tutto trovò l’arroganza di indirizzare verso di loro un sorriso di sufficienza, “Con quali prove?”
“Una registrazione dell’omicidio del dottor Morgan le è sufficiente?”, ribatté il capitano fissandolo con uno sguardo di ghiaccio, “Detective Hanson, mostri al senatore il mandato e gli legga i suoi diritti”.
“Registrazione?”, ribatté Elliott basito, e in un istante la sua aria di sicurezza scomparve, “State mentendo. Non avete nessuna registrazione. È impossibile.”
“Ha il diritto di rimanere in silenzio”, Hanson intanto si avvicinò al senatore e con rabbia malcelata gli strinse le manette ai polsi, “Qualunque cosa dirà potrà essere usata contro di lei in tribunale…”
“Perché ha fatto perquisire il dottor Morgan prima di confessare?”, il capitano Reece raddrizzò le spalle per poter guardare Elliott dritto negli occhi, “Forse avrebbe dovuto fare meglio i compiti a casa, signor Elliott”, tralasciò appositamente il titolo di senatore per irritarlo, “Il dottor Morgan era uno dei nostri migliori collaboratori. Un tipo astuto. Tirava sempre fuori qualche asso nella manica. Ha fatto male a sottovalutarlo”.
“… gliene sarà dato uno d’ufficio”, concluse Hanson, e senza troppe cerimonie spintonò il senatore fuori dall’ufficio.
“Questo è abuso di potere”, esclamò Elliott mentre lo conducevano lungo il corridoio, “Vi farò causa. A voi e all’intero dipartimento di polizia”.
“Faccia pure”, disse il capitano, sprezzante, “Tanto avrà un sacco di tempo libero, in prigione”.
 
Il capitano Reece si sedette alla sua scrivania, improvvisamente calma dopo settimane di turbamento. Mai, come in quei giorni, si era sentita così offesa e arrabbiata, e mai aveva sofferto così tanto per la perdita dei suoi uomini. Quando avevano trovato tutto quel sangue di Jo, l’immagine della detective, morente o cadavere, le era balenata davanti agli occhi e per qualche istante aveva temuto di perdere il controllo di sé. Avrebbe voluto gettare alle ortiche qualsiasi principio, andare dal signor Elliott e dal suo sorriso di sfida e sparargli un colpo in testa. La soddisfazione, brevissima, che aveva provato quando aveva udito quel nastro con la confessione del senatore era rapidamente precipitata nell’orrore quando aveva sentito quei due spari, e poi quella voce, che ora le era insopportabile anche solo udire: sbarazzatevi del corpo. Il corpo. Aveva detto la stessa cosa, quando aveva fatto uccidere Jo? Quei corpi di cui lui parlava con tanta indifferenza erano state due delle persone più straordinarie che avesse mai conosciuto. Perdere Jo era stata dura, perdere anche Henry era stato come perderla di nuovo. Perché Henry e Jo erano colleghi, partner, una coppia investigativa perfetta, che inconsciamente erano stati registrati nell’immaginario collettivo come una coppia inseparabile. Dopo la morte di Jo, Henry era quello che rimaneva di lei. Anche dopo che aveva dato le dimissioni. Ma adesso che anche Henry era morto… Jo se n’era andata, definitivamente. Tutti e due, non c’erano più.
Il capitano si accorse di avere gli occhi lucidi di dolore e di rabbia. Era abituata all’idea di perdere le persone, era normale, in quel lavoro, ma perderne due così speciali, insieme, per mano di uno stronzo senza scrupoli… l’unica sua consolazione era sapere che quel figlio di puttana aveva avuto quello che si meritava. Grazie a Henry. Se non altro, aveva ottenuto quello che sperava con il proprio sacrificio.
Reece strinse involontariamente i pugni, e respirò a fondo. Henry e Jo sarebbero rimasti per sempre nel suo cuore come due dei migliori agenti con cui aveva mai avuto la fortuna di lavorare. Ma ora era tempo di andare avanti.
Abbassò gli occhi sulla scrivania, e solo allora si accorse della busta bianca appoggiata contro il portapenne. Il capitano la prese, perplessa. Non c’era timbro postale, né il nome del destinatario scritto sul retro.
Dopo aver appurato che, dato il peso e le dimensioni, la busta non poteva contenere nulla di pericoloso, il capitano la aprì. All’interno c’erano un biglietto aereo e un foglio di carta scritto a mano.
Spero solo che con il tempo capirà perché l’ho fatto e trovi la forza di perdonarmi. Sotto, un indirizzo: Skyhall, Dorset, Regno Unito.
Il biglietto aereo era datato per venerdì, due giorni dopo: New York – Londra Heathrow. Il capitano stava cercando di capire chi poteva aver scritto il biglietto e per quale motivo, e come era arrivato sulla sua scrivania, quando Hanson entrò, agitato, nel suo ufficio.
“Capitano, guardi cosa ho trovato sulla scrivania”, e le mostrò una busta bianca, identica alla sua. Il capitano sollevò a sua volta la propria busta e il proprio biglietto.
Skyhall, Dorset, Regno Unito, c’è scritto sul mio biglietto”, lesse Hanson ad alta voce, “Che significa?”
“Non ne ho idea, Hanson. Mi stavo chiedendo la stessa cosa”, il capitano si alzò in piedi, percependo un presentimento a cui non riusciva a dare una forma precisa, “Non ha nessun senso. Da dove arrivano questi biglietti? Non sono stati spediti per posta. E chi sarebbe il mittente? Non abbiamo legami con l’Inghilterra.” Si interruppe, riflettendo che però non era del tutto vero. Avevano un legame con l’Inghilterra.
“Henry è… era… inglese”, disse Hanson, e la voce gli si spezzò quando dovette usare il verbo al passato.
“Non può esserci un collegamento”, ragionò Reece ad alta voce, “È una coincidenza. E che io sappia Henry non ha parenti. O sì?”
“Non saprei”, ammise Hanson, “In effetti, adesso che ci penso, non ne ho idea. Forse Lucas… lui forse sa qualcosa. In fondo lavorava con Henry già da prima.”
“E poi il messaggio”, continuò il capitano, “Spero solo che con il tempo capirà perché l’ho fatto e trovi la forza di perdonarmi. Che significa?”
“Posso?”, chiese Hanson prendendo il biglietto del capitano, “Strano. Il biglietto aereo è uguale, ma il messaggio è diverso. Il mio dice: Mi dispiace molto, ma ho dovuto farlo. Spero che capirai e mi perdonerai.
“Il concetto è lo stesso, ma con parole diverse”, osservò il capitano.
“Capire che cosa? Perdonare chi?”, domandò Hanson a sua volta.
“E poi i pronomi”, proseguì Reece, “Nel tuo messaggio usa il tu, mentre nel mio il lei”.
In quel momento, entrambi furono attraversati dallo stesso pensiero, ma avevano tutti e due troppa paura ad ammettere quella possibilità: sperare sarebbe stato troppo doloroso.
“Jo… il suo corpo…”, disse alla fine Hanson, quasi sottovoce, “Non è mai stato ritrovato…”
“Henry stesso aveva detto che con tutto quel sangue era impossibile che fosse sopravvissuta”, obiettò il capitano, “Se ci fosse stata una possibilità, anche una sola…”
“… neanche il cadavere di Henry è stato ritrovato”, continuò Hanson.
“Hanson, hai sentito anche tu la registrazione”, lo interruppe il capitano, sospirando di stanchezza, “Henry è morto, punto. Purtroppo lo scagnozzo di Elliott deve aver fatto un buon lavoro, per questo non troviamo il cadavere”. Quando disse cadavere percepì una sensazione acida allo stomaco, e si fermò un istante.
“Ma… Jo?”, replicò Hanson, con i suoi occhi che, pian piano, si accendevano di speranza: “Il suo … corpo… ormai non avremmo dovuto trovarlo?”
“Anche quello, purtroppo, sarà stato nascosto bene”, disse il capitano sconsolata.
“Ma allora, questi due messaggi?”, chiese Hanson rileggendoli poi ad alta voce, “Chi li ha scritti, perché? Che cosa ha fatto che deve essere perdonato?”
“Non lo so, Hanson”, ammise Reece con rassegnazione, “Forse è solo uno scherzo”.
“Uno scherzo che include due biglietti aerei da mille dollari l’uno?”, ribatté Hanson.
“Beh…”, stava per dire il capitano, ma Hanson continuò:
“C’è un solo modo per scoprirlo, signora.”
 
Appena scesero dall’aereo furono investiti da un vento così freddo che si sentirono tagliare in due.
“Cazzo”, borbottò Hanson stringendosi nel cappotto, “Non mi lamenterò mai più del freddo di New York”.
Lui e il capitano avevano parlato ben poco nel corso di tutto il viaggio. Tutti e due si erano abbandonati alle proprie riflessioni senza avere il coraggio di condividerle con l’altro, forse perché si vergognavano anche solo di prendere in considerazione che Jo potesse essere ancora viva. Diavolo, erano entrambi poliziotti da anni. Quel tipo di colpo di scena nella realtà non esisteva. Il bene non trionfava sul male. Gli eroi non tornavano in vita alla fine del film. Erano degli sciocchi a coltivare quella speranza. Eppure, eccoli entrambi all’aeroporto di Heathrow, a inseguire una chimera. Con un biglietto aereo pagato da uno sconosciuto (avevano fatto delle ricerche, cercando di rintracciare il compratore, ma i biglietti risultavano pagati in contanti, comprati in un’agenzia di Londra. Come poi fossero arrivati sulle loro scrivanie a New York, era un mistero) e un messaggio anonimo in tasca.
Scovarono un banco informazioni e si misero in fila.
“Salve”, li salutò una giovane ragazza con la coda di cavallo, “Come posso aiutarvi?” Il suo accento era così forte e somigliante a quello di Henry che sia il capitano che Hanson si lanciarono un’occhiata, colpiti dalla stessa somiglianza.
“Ehm… salve”, disse il capitano, “Abbiamo bisogno di informazioni su come raggiungere Dorset.”
“Dorset?”, ripeté la ragazza, “Intendete la contea?”
“Credo di sì”, rispose il capitano, anche se in realtà non ne era sicura.
“Beh, per prima cosa dovete prendere un treno per Londra. Potete prendere una navetta, un treno regionale o la metropolitana. Una volta a Victoria, prendete un treno per Dorchester. Da lì non saprei, dipende da dove dovete andare di preciso”.
“Skyhall”, disse Hanson leggendo il nome dal proprio biglietto.
“È un paese?”, chiese la ragazza, aggrottando le sopracciglia.
“Non ne abbiamo idea”, ammise Hanson, e la ragazza li soppesò per qualche istante, perplessa. Alla fine però prevalse la cortesia e continuò: “In ogni caso, vi stampo un itinerario fino a Dorchester. Sono sicura che da lì qualcuno vi saprà dare indicazioni.” Porse loro un foglio stampato e, una volta ringraziatola, Reece e Hanson si misero alla ricerca di un mezzo per Londra.
Mentre erano sul treno, il capitano rifletté:
“Non credo che riusciremo a raggiungere questo posto oggi. Il viaggio è stato lungo e chissà quante altre ore di treno ci aspettano. Dovremmo trovare una sistemazione per la notte e partire domattina”.
Hanson, che si era appisolato, si riscosse annuendo: “Sì, sono d’accordo. Sono distrutto. Guardo su internet se trovo un paio di stanze”.
Trovò due singole nella zona di Camden (“Cento sterline per una notte? Ma sono pazzi!”, borbottò mentre prenotava), poi, visto che nessuno dei due aveva idea di dove si trovasse Camden, rifecero la fila al banco informazioni della stazione.
“Prendete la Victoria fino a Euston”, rispose loro un vecchio signore con il cappello delle ferrovie, “Poi la Northern fino a Camden Town”.
“Mi scusi, signore, visto che ci siamo, mi saprebbe dire come arrivare nel Dorset?”
“Dorset?”, ripeté il vecchio con lo stesso tono stupito della ragazza in aeroporto, “Prendete il treno per Dorchester. Ce n’è uno ogni ora. Ma perché mai dovete andare nel Dorset?”
“Non lo sappiamo neanche noi”, osservò Hanson ironico. “Ma gli inglesi sono tutti così?”, chiese poi al capitano.
“Così come?”
“Non lo so. Sembrano tutti… scocciati. Irritati. Quasi peggio dei newyorkesi. In confronto Henry è un’esplosione di gioia”. Si interruppe, consapevole di quello che aveva appena detto. “Era”, si corresse a malincuore.
Seguirono le indicazioni che erano state date loro e raggiunsero il loro hotel, dove si sistemarono per la notte dopo aver mangiato un cartoccio del tipico fish and chips (altre otto sterline!) in un pub lì di fronte. Hanson dormì un sonno agitato. C’era qualcosa, in tutta quella storia, che continuava a punzecchiarlo. Come erano state consegnate le lettere? Avevano controllato le telecamere ma nessuno di sospetto si era avvicinato alle loro scrivanie. Tranne Lucas, ma non poteva essere stato lui. Oppure sì? Lucas era cambiato, negli ultimi mesi. Era diventato più serio. E quando Henry e Jo erano… però, insomma, era normale. Era il suo modo di affrontare il dolore. No? Poi, perché i messaggi erano diversi? Chi si poteva rivolgerle a lui dandogli del tu? Cosa doveva perdonare? Nonostante tutti i suoi sforzi, i suoi pensieri tornavano sempre e irrimediabilmente a un solo nome: Jo. Magari si era nascosta. Magari aveva aspettato che Elliott venisse condannato… magari…
Il mattino dopo, lui e il capitano tornarono alla stazione di Victoria, presero il primo treno per Dorchester e arrivarono in una cittadina spazzata da un vento ancora più freddo che a Londra. Il cielo era gravato da nuvole scure e l’aria era satura dell’odore del sale. Erano proprio veri gli stereotipi sul clima inglese.
Chiesero informazioni a un bigliettaio, ma lui scosse la testa, rispondendo loro in un inglese così stretto che fecero fatica a capirlo: “Skyhall? Se è un paese, non so dove sia, mi dispiace.”
“Merda”, disse Hanson, “E adesso che facciamo?”
“Scusate”, una giovane ragazza, la pelle chiara chiazzata di rosso a causa del vento, si avvicinò a loro, “Scusate l’impertinenza, ma ho sentito la vostra conversazione. State cercando un posto chiamato Skyhall?”
“Sì”, annuì Reece, rabbrividendo nel suo cappotto, “Sa per caso dove si trova? Ci salverebbe la vita.”
“Io no”, ammise la ragazza, “Ma mio nonno lo sa sicuramente. Vive qui da sempre e conosce il Dorset come le sue tasche. Se volete chiedere a lui, lo trovate allo Swann”.
“Lo Swann?”, chiese Hanson interrogativo.
“Sì, il pub. In fondo alla strada a destra. Se volete, vi ci accompagno”.
“Grazie”, dissero Hanson e Reece contemporaneamente, “Non sa che favore ci fa”.
“Siete americani?”, chiese loro la ragazza mentre faceva strada verso il pub.
“Sì. Di New York.”, rispose Hanson.
“Che figata! Non sono mai stata a New York”, esclamò la ragazza. “E cosa vi porta nella nostra graziosa contea dimenticata da Dio?”
Reece e Hanson si scambiarono un’occhiata.
“Abbiamo ricevuto un invito”, rispose Reece in maniera neutra.
Quando entrarono nel pub, furono investiti dal piacevole caldo dell’interno, e sostarono per qualche secondo nell’ingresso, cercando di scongelarsi. La ragazza li precedette e raggiunse un signore solcato da rughe chino su una pinta di birra al banco. Stava chiacchierando con il barman, che al loro ingresso li aveva squadrati da cima a fondo con aria perplessa.
“Nonno, questi due signori sono americani”, stava dicendo la ragazza, indicandoli.
“Americani?”, ripeté il barman come se avesse detto che venivano da Marte.
“Stanno cercando un posto che si chiama Skyhall. Tu lo conosci?”
“Skyhall?”, borbottò il vecchio sputando un po’ di saliva e sigaro, “Diamine, se lo conosco!”
“E… sarebbe così gentile da indicarci come arrivarci?”, chiese Reece gentilmente.
Il vecchio la fissò a lungo prima di rispondere.
“È sulla costa”, disse alla fine, “A una cinquantina di miglia da qui.”
“Ma…che cos’è? Un paese?”, azzardò a chiedere Hanson.
“Ci dovete andare e nemmeno sapete cos’è?”, chiese il vecchio ironico. Poi però rispose: “È una mansion. Una residenza. È su quella scogliera da più di trecento anni. Quando ero piccolo ogni tanto ci entravamo di nascosto. È rimasta disabitata per parecchio. Poi mi sembra che qualcuno l’abbia comprata… anche se non ci ho mai visto nessuno.”
“Qualcuno?”, chiese Reece, abbandonando il tono gentile e riprendendo il piglio di poliziotto, “Ha idea di chi?”
Il vecchio non apprezzò quel tono da interrogatorio e rimase a fissarla, senza rispondere.
“Non ha sentito la domanda?”, chiese Hanson ingenuamente. Il vecchio si irritò ancora di più.
“Certo che ho sentito, mica sono sordo. Ma a voi americani cosa importa?”
“Nonno!”, esclamò la nipote, imbarazzata da quel tono scortese.
“Mi scusi se le sono sembrata sgarbata”, Reece si affrettò a correggere il tiro, “Ma abbiamo ricevuto un invito a raggiungere Skyhall, che però non ci forniva alcuna indicazione sul luogo. E visto che non siamo di queste parti, avevamo bisogno di una fonte autorevole a cui chiedere. Ci dispiace se l’abbiamo disturbata”.
Fece per voltarsi e andarsene, ma come previsto quel “fonte autorevole” gettato lì per caso aveva sortito il suo effetto. Il vecchio sorseggiò un po’ della sua birra e continuò a parlare:
“Non so chi l’abbia comprato, ma so quando. Circa 28 anni fa. La signorina qui”, e fece un cenno alla nipote, “Non era ancora nata. Mi sono accorto della vendita perché ho visto del movimento, lì nella proprietà. Per curiosità sono andato a controllare nei registri della contea.”
“E ha scoperto qualcosa?”, chiese Hanson incuriosito.
“No. So che la proprietà è stata data in trust a una amministratrice di Londra, una certa Ellen. Ma il compratore era anonimo, non compariva nel registro”.
Reece si avvicinò di un passo, con un sorriso persuasivo.
“Ma sono certa che un esperto della contea come lei si sia fatto un’idea”, osservò.
“Ci scommetto la testa che è uno della zona, anche se non so chi”, rispose il vecchio, cominciando a provare gusto a snocciolare le sue teorie di fronte a quel pubblico così entusiasta, “Se fosse uno di quei miliardari americani o indiani che comprano le vecchie residenze per farci dei rave party, lo avremmo sicuramente saputo. Come minimo ci sarebbe stata un’invasione della stampa. Invece è stato tutto molto discreto. Chi l’ha comprata ha fatto dei lavori e l’ha rimessa a nuovo, deve averci speso parecchie migliaia di sterline. Secondo me è uno della famiglia. Nessun altro si sarebbe comprato una vecchia casa corrosa dal sale se non per un valore affettivo”.
“Della famiglia?”, chiese il capitano con una strana sensazione allo stomaco.
“I Morgan”, disse il vecchio, “Skyhall è appartenuta ai Morgan fino alla morte del discendente diretto. Poi è passata in mano ai rami cadetti fino all’inizio del XX secolo. Poi la residenza è stata usata come ospedale durante la seconda guerra mondiale e da allora è rimasta disabitata. Fino a che qualcuno non l’ha comprata”.
Al cognome Morgan Hanson e il capitano erano quasi sobbalzati, e si erano lanciati uno sguardo significativo e pieno di domande. Il collegamento che tanto avevano desiderato e temuto si stava delineando davanti ai loro occhi.
“Che lei sappia, c’è ancora qualcuno della famiglia da queste parti, quindi?”, indagò il capitano cercando di mantenere un tono di voce fermo.
“Ufficialmente la famiglia si è estinta”, spiegò il vecchio, “Non c’erano più eredi maschi in grado di portare il cognome. Ma magari qualche erede nato da una donna Morgan esiste ancora. Con un altro cognome, si intende.”
Reece rimase per qualche secondo a ponderare quelle parole.
“Quindi mi sta dicendo… mi sta dicendo che in teoria non dovrebbero esistere uomini con il cognome Morgan, giusto? Perché la famiglia è estinta”
“Sì, è quello che ho detto”, rispose il vecchio, svuotando la sua pinta di birra.
Reece e Hanson si lanciarono un’altra occhiata.
“Quindi lei non conosce… non ha mai sentito parlare di un certo Henry Morgan?”
Henry Morgan?”, il vecchio voltò lo sgabello verso di loro, “Che diamine, certo che sì. Ne giravano di voci sul suo conto”.
Sia Hanson che Reece sentirono il cuore aumentare i battiti.
“Quindi lei lo conosce?”, incalzò Reece.
“E che diamine, signora, mica sono così vecchio”, e lui e il barman si scambiarono un’occhiata e si misero a ridere.
“In che senso?”
“Ma si può sapere da dove vengono tutte queste domande, eh?”, sbottò il vecchio, irritato; poi però vide il loro sguardo acceso di curiosità e continuò, “Henry Morgan era l’ultimo erede diretto della famiglia, prima che la proprietà passasse agli eredi di secondo grado. È morto più di duecento anni fa in circostanze misteriose. Alcuni dicono che morì in un naufragio, altri che fu assassinato e che tentarono di far passare la sua morte per un incidente. Sta di fatto che giravano voci sul fatto che non fosse morto, e che fosse tornato, e che per non so quale motivo era stato rinchiuso in prigione, dove probabilmente morì definitivamente, se non era già morto prima. Insomma, vecchie leggende. Si dice che da allora la casa sia infestata, o spiritata o come si dice, e che il suo fantasma portasse conforto ai feriti durante la seconda guerra mondiale. Molti dei feriti a Skyhall giurano di avere visto un uomo identico a quell’Henry Morgan di cui si può vedere il ritratto appeso nel corridoio, che li curava mentre deliravano. Anch’io l’ho visto, quando ero bambino. Strano che quel ritratto sia rimasto lì nonostante tutti quelli che sono passati per quella casa.”
“Che li curava mentre deliravano?”, ripeté Hanson, inconsciamente colpito da quelle parole.
“Sì. A quanto pare era un dottore, il miglior dottore della contea, a            quanto risulta dai registri”, il vecchio fece un cenno verso il barman, “Ci sono alcuni documenti su quel periodo nel nostro museo di storia, vero Bill?”
“Verissimo”, confermò Bill, “Se volete andarci, sareste i primi turisti della stagione. Anzi, i primi turisti in generale”.
“Lì dovreste trovare un po’ di informazioni sulla famiglia, se siete interessati”, spiegò il vecchio, “Io non sono un esperto, conosco solo le storie più famose delle famiglie della zona. Quella dei Morgan è un po’ la nostra leggenda locale”.
“Storie del genere attirano i turisti”, intervenne il barman, “Soprattutto se ci metti nel mezzo una vecchia dimora, un po’ di nebbia e un cimitero in abbandono. Gli europei vanno pazzi per queste stronzate gotiche”.
Il cervello di Reece stava lavorando freneticamente. C’era qualcosa che le sfuggiva, una qualche evidenza davanti ai suoi occhi che non riusciva a vedere.
“Quindi voi… ehm… non avete mai visto chi abita a Skyhall adesso, vero?”
Sia il vecchio che il barman scossero la testa.
“Io sì”, rispose una voce dal fondo del pub. Tutti si voltarono in quella direzione: una donna anziana, avvolta in un maglione blu, stava bevendo una tazza di thè nel tavolo ad angolo più buio del locale. Il suo volto era in parte in ombra, ma si vedeva che il suo sguardo era fisso davanti a sé.
“Proprio tu, Betty, che sei mezza cieca?”, commentò infatti il vecchio, sottolineando la sua affermazione con uno sputo.
“Sono andata lì insieme a mio nipote”, continuò la signora ignorando il commento del vecchio, “I nuovi proprietari avevano ordinato delle scorte di cibo. Mio figlio gestisce una drogheria”, aggiunse a beneficio degli stranieri.
Reece intervenne: “I nuovi proprietari? Vuol dire che sono più di una persona?”
“Sono sicuramente in due”, affermò la signora, “Se poi ce ne sono altri non ne ho idea.”
“E… li ha visti? Li ha visti bene?”, chiese Hanson sentendo il cuore in gola.
“Ho visto bene solo la signora”, disse la vecchia.
“Per quanto ci possa vedere bene Betty con un occhio accecato”, borbottò il vecchio al bancone.
“Una straniera”, continuò imperterrita Betty, “Una bella donna. È stata lei a ritirare il cibo e a pagare mio nipote. L’uomo invece l’ho visto solo di sfuggita.” La donna si interruppe e sorseggiò un sorso di thè.
“Ah ah Betty”, intervenne il barman, “Lo conosciamo tutti quel tono. Confessa: sei andata a spiare, non è così? Sei una terribile curiosona”.
“Non sono andata a spiare”, ribatté la donna anziana, anche se si mosse leggermente a disagio sulla sua sedia, “Ho solo chiesto un bicchiere d’acqua e andando verso la cucina ho sentito qualcuno suonare il pianoforte. Ho solo gettato un’occhiata all’interno per vedere chi era, tutto qui” Poi la donna si rivolse al barman con un gesto accusatorio: “Perché tu non ti impicci mai degli affari altrui, vero Billy?”
“Perdonateli”, intervenne la ragazza che li aveva accompagnati al pub, abbassando la voce, “Non sanno che altro fare e passano le giornate a punzecchiarsi in questo vecchio pub. In ogni caso, ho capito dov’è Skyhall. Il modo migliore per andarci è in auto, credo.”
“La ringrazio molto, davvero. Non sa quanto ci è stata utile”, le disse il capitano, prima di rivolgersi di nuovo a Betty, “Mi scusi, signora, se insisto, ma l’uomo e la donna che ha visto… li saprebbe descrivere? Sarebbe molto importante.”
La donna rifletté qualche istante, godendosi nel frattempo l’atmosfera di attenzione nei suoi confronti.
“Mediamente alta, magra, capelli scuri, occhi scuri. Sui trenta, trentacinque anni, credo.”
Sia Hanson che il capitano trattennero il respiro di fronte a quella descrizione. Jo. Poteva veramente essere lei?
“… e l’uomo?”, chiese Hanson, la voce leggermente inferma.
“Lui l’ho visto solo di spalle”, ripeté Betty, “Ma era anche lui giovane, con i capelli corti scuri”. Non aggiunse altro, ma il modo in cui aveva terminato la frase lasciava presagire che volesse aggiungere altro, ma si fosse trattenuta.
“Ci nascondi qualcosa, Betty?”, la incalzò il vecchio, “Hai visto anche un fantasma, tanto che c’eri?”
La signora anziana non rispose, ma voltò lentamente il suo sguardo cieco verso il vecchio e il barman.
“Voi ridete”, disse in tono solenne, “Ma io potrei giurare sulla testa di mio nipote, e che Dio mi sia testimone, che quell’uomo era identico al ritratto che si trova all’ingresso. Se non è lui, allora è un suo diretto discendente, perché erano assolutamente identici.”
“Ma non l’avevi visto solo di spalle?”, chiese il barman, ironico.
“Quando mi ha sentito si è voltato. Ho visto di sfuggita il suo profilo. Giuro che era identico.”
“Sì, certo, come no Betty”, bofonchiò il vecchio, “Magari è proprio il vecchio dottore tornato dal regno dei morti per dare una spolverata alla villa di famiglia”.
Hanson e il capitano erano rimasti in silenzio di fronte a quello scambio di battute, ma erano entrambi attraversati dallo stesso pensiero. Fu il capitano a dare voce alla domanda fondamentale: “E l’uomo… l’uomo del ritratto… lo può descrivere?”
“Mmh… un viso particolare. Naso e zigomi pronunciati, capelli scuri. Alto, magro.”
“… occhi verdi?”, suggerì Hanson, quasi trattenendo il fiato.
“Sì. Occhi verdi”.
“Dobbiamo raggiungere Skyhall al più presto”, disse il capitano dopo qualche secondo di silenzio. “Non abbiamo un’auto, come possiamo arrivarci?”
“Senza auto sarà dura”, commentò il vecchio.
“Potete prendere l’autobus fino a St. Mary, però”, suggerì il barman.
“Da lì saranno due miglia a piedi, ma se passate per i campi dovreste accorciare la strada”, osservò il vecchio.
Due miglia a piedi con quel gelo? Hanson si sentì rabbrividire, ma c’era qualcosa, in tutto quello che avevano ascoltato, che gli aveva acceso una fiamma nel petto. Una donna straniera che rispondeva alla descrizione di Jo, insieme a un uomo che rispondeva alla descrizione di Henry. Tutto quel contorno di leggende e fantasmi non lo interessava. L’importante era che davvero c’era la possibilità che Jo fosse ancora viva. E anche Henry, nonostante ciò che avevano udito nella registrazione. E una possibilità era sufficiente.
“Dove lo possiamo prendere questo autobus?”, stava chiedendo Reece.
“Dietro la stazione dei treni”, rispose la ragazza.
“Grazie. Grazie a tutti, davvero.”
“Io non ho ancora capito che ci dovete andare a fare, a Skyhall”, borbottò il vecchio mentre loro si dirigevano verso l’uscita.
“Lo scopriremo quando ci arriveremo”, rispose Hanson con un tono quasi misterioso.
Il freddo li investì di nuovo, ma questa volta lo affrontarono con foga, ansiosi di raggiungere l’autobus che li avrebbe portati verso la verità. L’autista degli autobus li squadrò con la stessa attenzione che il barman aveva riservato loro all’ingresso nel pub. Si capisce che non erano abituati a vedere degli “stranieri”. Non in quella stagione, se non altro.
Il viaggio fu estenuante. L’autobus ondeggiava su strade strette e tortuose spazzate dal vento. La vista, però, era spettacolare. A tratti le curve mostravano una distesa verde che si perdeva in uno strapiombo sull’oceano. In lontananza, all’orizzonte, si scorgevano schizzi di schiuma bianca in contrasto con il cielo grigio piombo. Hanson aveva lo sguardo fisso al di fuori del finestrino, ma il capitano sapeva che non era il panorama ad assorbirlo così tanto.
“Hanson, non crederai a tutte quelle storie sui fantasmi, vero?”, gli chiese alla fine dopo un’ora di viaggio immersi nel silenzio.
“Non so a cosa credere”, ammise Hanson, “Quello che so è che i corpi di Jo e Henry non sono stati ritrovati, e che due persone che corrispondono alla loro descrizione vivono in questa residenza isolata dal mondo, e che entrambi abbiamo ricevuto un biglietto anonimo che ci invitava lì.” Hanson si voltò a guardarla. “Capitano, io non so in che altro modo spiegarmelo. Io credo che Jo abbia finto la sua morte per nascondersi e incastrare Elliott. Henry l’ha aiutata. Quello che non so è come abbiano fatto. Voglio dire, di Jo non abbiamo trovato il corpo, e può essere scappata dalla scena del crimine, anche se c’era tutto quel sangue… magari Henry si è sbagliato, o… se lui era d’accordo… ci ha mentito, o magari Jo è sopravvissuta e basta. Magari le hanno fatto una trasfusione. Voglio dire, è di Doc che stiamo parlando, no? Una volta ha salvato Jo che era sotto minaccia di una pistola facendola andare a sbattere contro una barriera. Se c’è qualcuno che può farlo è lui.” Si interruppe, forse aspettandosi un commento da parte del capitano. Lei però si limitava ad ascoltare, in silenzio. “Però Henry… abbiamo sentito la registrazione. Gli spari. La voce che diceva: sbarazzatevi del corpo. Quante probabilità ci sono che si siano sbarazzati di una persona ancora viva? A meno che Doc…”, si fermò di nuovo, riflettendo, “A meno che Doc non avesse previsto tutto e non avesse preso qualche precauzione. Un giubbotto antiproiettile, per esempio, magari sangue finto, non lo so… sono uno stupido a fare queste ipotesi?”, disse, sospirando.
“No, Hanson, non sei stupido”, rispose il capitano, “La verità è che ci sto pensando anch’io. E più ci penso, più comincio a crederci.”
“Ehm… signori?”, sentirono l’autista rivolgersi a loro, “Mi avevate chiesto di avvisarvi quando saremmo arrivati a St. Mary. Beh, ci siamo. È fra un paio di miglia.”
“Grazie”, rispose il capitano. L’autobus accostò dopo qualche minuto e li lasciò sul ciglio di una strada di campagna, costeggiata da un basso muretto di tufo. Se non fosse stato per un sgangherato cartello con il disegno di un autobus, nessuno si sarebbe accorto che quella era una fermata. Hanson e il capitano si guardarono attorno. Ovunque, c’erano distese di verde percosse dal vento, che ogni tanto mandavano dei bagliori argentati. Sulla sinistra, si scorgeva la linea dell’oceano fondersi con quella del cielo. E oltre, verso nord, stagliata contro il grigio delle nuvole, c’era una casa. Una villa, una mansion, come l’avevano chiamata quelli del posto, o un castello, a seconda dei punti di vista. Solida e squadrata, ma con i lati che si innalzavano in quelle che sembravano delle torri, sembrava un faro a protezione della costa. Anche se erano lontani, riuscivano a scorgere un lungo viale che si allontanava dall’ingresso verso la strada: probabilmente c’era un cancello, ma non potevano vederlo a causa di una curva che tagliava loro la visuale. Se avessero seguito la strada, comunque, ci sarebbero arrivati.
Si incamminarono, ognuno immerso nei propri pensieri tanto da non sentire più il freddo.
Incrociarono una coppia sui quarant’anni con un cane, che disse loro di tagliare per il campo sulla sinistra fino al “muretto” (glielo indicarono, anche se a Hanson e il capitano i muretti sembravano tutti uguali) e poi girare a destra per raggiungere il cancello principale tagliando fuori circa mezzo miglio. Reece e Hanson seguirono il consiglio e si addentrarono per i campi. Il terreno era indurito dal freddo ma l’erba era umida, e ben presto si ritrovarono gli scarponi bagnati. Ogni tanto dei fili di nebbia emergevano dal manto d’erba, e, uniti al sibilare del vento sempre più misto al rombo del mare man mano che si avvicinavano alla scogliera, facevano sì che le storie di fantasmi non sembrassero poi così tanto storie. Hanson rabbrividì, e non solo per il freddo. Lui, nato e cresciuto a New York, che si credeva impermeabile a tutto e che di tutto aveva visto, nella sua vita, si sentiva a disagio in quell’atmosfera da brividi.
Dopo più di quindici minuti di camminata, finalmente arrivarono in vista del cancello d’ingresso: una grossa struttura in ferro, con volute e intarsi che, in cima, si articolavano in una scritta in corsivo. Skyhall. Il cancello era sostenuto da due colonne di pietra, da cui partiva, da entrambi i lati, un muretto di tufo che circondava la proprietà. A causa della conformazione ondulata del terreno la casa era ora leggermente nascosta, se ne scorgeva solo un lato, come se si trovasse in una posizione più bassa rispetto al cancello. Anche da quella distanza, però, riuscivano a scorgere le mura di pietra scolpite, le finestre strette e alte, alcune mosaicate, e angoli ricoperti di muschio e di edera. Sembrava in tutto e per tutto una residenza uscita da un documentario sulla storia inglese.
Quando raggiunsero il cancello, si fermarono per qualche istante, affannati. La camminata attraverso il campo era stata più impegnativa di quanto si aspettassero. Ora che erano così vicini, il cancello, le colonne e il muretto sembravano enormi. Spinsero contro la struttura di ferro, e quella si aprì, senza resistenza, cigolando.
Iniziarono a percorrere la strada d’ingresso. Quella curvò leggermente verso destra, e all’improvviso la residenza si stagliò davanti a loro in tutta la sua imponenza. Uno spiazzo lastricato, a cui si accedeva tramite qualche scalino, si estendeva di fronte alla porta di ingresso. Sulla sinistra, al di là del lato della casa, si scorgevano delle lapidi; sulla destra, invece, ciò che rimaneva di quello che doveva essere stato un labirinto. Ora era completamente secco, e in parte abbattuto, e si riusciva a intravedere la fontana, fredda e asciutta, che si nascondeva al centro. Arrivati di fronte al portone, squadrato e in legno scuro, Hanson e il capitano si fermarono di nuovo, in parte per prendere fiato, in parte per raccogliere i pensieri. Era arrivato il momento. E se… e se quello che avevano sperato si fosse rivelato un’illusione? Se Jo e Henry non fossero c’entrati nulla con tutta quella storia?
Il capitano abbassò lo sguardo sulla lastra di pietra davanti al portone, sospirando. Jo ed Henry dovevano c’entrare per forza, pensò. Hanson aveva ragione: non c’era altro modo per spiegarlo. Mentre stava alzando il braccio verso il portone, notò una scritta incisa nella pietra sotto i suoi piedi: una grossa m in corsivo e, al di sotto, super marum imperamus. M come Morgan? Possibile?
Hanson seguì il suo sguardo, lesse la scritta sottovoce, poi disse, in tono fermo: “Capitano, entriamo e basta.”
Reece annuì e spinse la mano contro il portone. Quello si aprì: era aperto. Un sibilo d’aria s’insinuò all’interno insieme a loro.
Si ritrovarono in un corridoio tappezzato di legno e arazzi, che sfociava in un ampio salone con i soffitti così alti che Reece si ritrovò a bocca aperta suo malgrado, lo sguardo perso verso l’altro. In fondo, di fronte a loro, c’era un imponente camino di pietra bianca, con un fuoco che mandava un piacevole tepore attraverso la stanza. Ai lati del camino, c’erano due porte di legno strette e alte, apparentemente chiuse. Sulla sinistra, c’era una vetrata che dava sul cimitero che avevano intravisto dell’esterno. Sulla destra, una scala di marmo si sviluppava contro la parete, sparendo al piano superiore. Ai piedi della scala, un altro corridoio.
Il capitano e Hanson si diressero lì d’istinto. Il corridoio, più ampio e lungo di quello d’ingresso, era ricoperto di quadri su entrambi i lati, e interrotto a tratti da qualche statua o busto appoggiato su una colonna. Il capitano aveva abbassato lo sguardo sul tappeto che ricopriva il pavimento, quando si accorse che Hanson era immobile, e fissava come imbambolato un punto alla fine del corridoio.
“Hanson?”, gli chiese, allarmata, la mano che si portava rapidamente verso il fianco a prendere la pistola, prima di ricordarsi che la sua pistola d’ordinanza era rimasta a New York.
“Porca puttana”, rispose Hanson, e solo quando seguì la direzione del suo sguardo Reece capì cosa lo aveva sconvolto.
In fondo al corridoio, sopra a un altro camino di pietra, questa volta spento, c’era un ritratto a grandezza umana di un uomo. C’era un ritratto di Henry. O almeno, quello fu il suo primo pensiero, prima di rendersi conto che ciò era impossibile. Perché l’uomo nel ritratto indossava un panciotto viola al di sotto di una giacca nera a doppio petto, pantaloni neri, stivali alti da cavaliere, aveva in mano un bastone da passeggio, aveva al fianco un cane da caccia. Era il ritratto di un gentiluomo ottocentesco. Non poteva essere Henry.
Come in trance, il capitano aveva percorso tutto il corridoio, seguita da Hanson. Arrivata vicino al ritratto, lesse la didascalia incisa sul bordo della cornice: Henry Morgan, 1804. Milleottocento quattro! Ancora una volta, Reece ebbe la sensazione che qualcosa le stesse sfuggendo. C’era qualcosa, qualcosa che avrebbe dovuto vedere, eppure non ci riusciva. Quel ritratto… doveva essere quell’Henry Morgan di cui aveva parlato il vecchio, l’ultimo discendente diretto. Ma se quell’Henry nel ritratto era morto, chi era allora il loro Henry, che tagliava cadaveri in un laboratorio di New York? Se solo…
“Lo sapevo! Cazzo se lo sapevo! Dio ti ringrazio”, sentì esclamare Hanson.
Quando si voltò, il capitano si sentì investire da un’ondata di sollievo.
Sulla sua sinistra si apriva un altro salone, con un altro camino acceso, un pianoforte in un angolo, un divano sulla sinistra, un tavolo di legno al centro, una portafinestra che dava su un balcone di pietra. E sul balcone, con alle spalle le onde grigie dell’oceano, i capelli mossi dal vento, c’era Jo. La loro Jo, in carne e ossa. Viva.
Hanson attraversò il salone e raggiunse Jo sul terrazzo, dove l’abbracciò, con le lacrime agli occhi. Anche Jo aveva gli occhi lucidi, e rispose all’abbraccio con fervore.
“Oh Mike, non sai quanto sono felice che tu sia qui”, disse Jo, sorridendo di felicità, “Non vedevo l’ora che tutta questa storia finisse. Non vedevo l’ora di potervi contattare per dirvi la verità, per farvi sapere che stavo bene… Ti prego, perdonami. So che è stato… è stata dura credere che io…”
“Non dirlo neanche, Jo”, Hanson la interruppe, scuotendo la testa, “Non dirlo neanche, cazzo. È tutto il viaggio che ci scervelliamo. Se lo hai fatto per nasconderti da quel figlio di puttana, e per incastrarlo una volta per tutte, allora hai fatto bene. L’importante è che… l’importante è che tu sia tutta intera”.
“Grazie Hanson”, rispose Jo, piena di gratitudine, “Grazie. Vieni, entriamo. Fa un freddo cane”.
“Puoi dirlo forte, cazzo”.
Jo rientrò nel salone e chiuse la portafinestra alle sue spalle. Solo allora il suo sguardo si fermò sul capitano, che era rimasta immobile all’ingresso.
“Capitano io… mi dispiace. Spero davvero che capisca… ho dovuto farlo. Non c’erano prove, non ce l’avremmo mai fatta per le vie legali, e in più temevo che ci avrebbero riprovato…”
Il capitano alzò una mano per zittirla, e Jo lo fece, in ansia per la sua reazione.
“Jo, io non so ancora che cosa sia successo esattamente”, disse, “Né perché. Quello che so…” e in quel mentre la sua voce si incrinò leggermente, “Quello che so è che sono d’accordo con Hanson. L’importante è che tu sia tutta intera”.
Grazie”, sorrise Jo, e le lacrime fecero di nuovo capolino nei suoi occhi. Poi fece un paio di passi in avanti e, esitante, abbracciò il capitano.
“Volevo dirle”, aggiunse, dopo che il capitano, impacciata, aveva a sua volta risposto all’abbraccio, “Volevo dirle che mi dispiace molto avervi ingannato. Sul serio. Voi siete un po’ la mia famiglia… lei… lei è stata la mia mentore fin dall’inizio, e tu Hanson…”, si rivolse a lui ponendogli una mano sulla spalla, “Tu mi sei sempre stato amico, oltre che collega. Mi sei stato vicino quando è morto Sean. Mi dispiace terribilmente avervi fatto soffrire. Ma ho dovuto scegliere.”
“Scegliere cosa?”, chiese Hanson, “Jo, che cazzo è successo di preciso? Ce lo vuoi spiegare?”
“Adesso vi racconto tutto”, li rassicurò Jo, “Perché non vi sedete? Preparo del thè caldo, che ne dite?”
“Del thè caldo? Mi sembri Henry”, commentò Hanson, prima di capire quello che aveva detto: “Henry!! Dio Santo, me n’ero dimenticato. Henry è qui, no? Sta bene, vero?”
“Sì, sì, sta bene”, Jo sorrise di fronte alla sua preoccupazione, “Certo che è qui. Solo… credo abbia voluto lasciarci un po’ di privacy, quando vi ha visto arrivare. Ora non so dove sia, ma arriverà presto. Questo posto è enorme, sapete? Ci si può vivere in più persone senza mai incontrarsi”.
“Ma cos’è questo posto, esattamente?”, chiese il capitano, nella cui mente continuavano a frullare tutte le informazioni che aveva raccolto al pub.
Jo esitò un istante, quando qualcuno la precedette e rispose al posto suo:
“È casa mia”. 
Il capitano si voltò. Henry era in piedi nella cornice della porta da cui erano entrati. Era vestito come al solito: elegante, con la giacca, la cravatta, il suo immancabile orologio appeso al fianco. Eppure, in quella casa, quel suo modo di vestire, di muoversi e di parlare assumeva un significato nuovo, una sfumatura quasi sinistra. Reece provò ancora una volta la sensazione che qualcosa le stesse sfuggendo, la sensazione che l’uomo che aveva di fronte le fosse un perfetto sconosciuto.
“Doc!”, esclamò Hanson, e senza tanti complimenti lo raggiunse e lo abbracciò con la stessa foga con cui aveva abbracciato Jo. “Lo sapevo, Doc, che c’era dietro il tuo zampino. Ci avrei giurato”.
Henry si separò da Hanson e salutò Reece con un cenno del capo: “Capitano. Benvenuti a Skyhall”, e con un gesto indicò loro il tavolo, invitandoli a sedere.
Reece e Hanson accolsero il suggerimento e si sedettero, e mentre Henry faceva il giro del tavolo per posizionarsi di fianco a Jo, il capitano identificò finalmente la sensazione che aveva provato quando aveva visto Henry: timore. Era intimorita. Perché c’era qualcosa, in lui, che non riusciva a cogliere. E quello che non riusciva a capire la intimoriva.
“Henry, metteresti su del thè? Mi sa che sono congelati”, stava intanto dicendo Jo, sedendosi a sua volta.
“Certo”. Henry si diresse verso il camino e appese una teiera a un gancio di ferro, in modo che pendesse al di sopra delle fiamme. Poi sparì al di là di una porta, e ritornò poco dopo con un vassoio rifornito di tazze, cucchiaini e zucchero.
“Ora capisco perché voi inglesi siete fissati con il thè”, osservò Hanson scherzando, “Con questo clima da cani, ci credo che vi bevete acqua calda tutto il giorno”.
“Clima da cani?”, rispose Henry con lo stesso tono divertito, “Non dire sciocchezze, oggi è una giornata idilliaca. Dovresti vedere quando nevica”. Versò l’acqua, che nel frattempo si era scaldata, nelle loro tazze, poi chiese: “Avete anche fame? Abbiamo dei tramezzini, in cucina”.
“E anche un po’ di quella poltiglia inglese di cui non mi ricordo il nome”, aggiunse Jo.
Henry sorrise nella sua direzione. “Il pudding”, disse.
“Il pudding, giusto”, Jo fece una smorfia, “Non ho ancora capito se mi piace o meno”.
“Ti assicuro che dopo due o tre bicchieri di brandy il sapore non è poi così male”, disse Henry, “Comunque, ne vado a prendere un po’, se avete fame”. E sparì attraverso la stessa porta di prima.
Il capitano era rimasta a osservare la scena, in silenzio. Un’altra sensazione l’aveva colpita: Henry e Jo si comportavano come una coppia sposata. E dopo quel pensiero, un altro fece capolino, con tale forza che Reece si maledì per non esserci arrivata prima: Henry e Jo stavano insieme. Era ovvio. Come aveva potuto non notarlo? Si era lasciata sviare dal proprio pregiudizio, secondo cui Jo aveva una relazione con il signor Monroe. Ma ora era chiaro come la luce del sole che la relazione ce l’aveva con Henry. Sotto il suo naso. Chissà da quanto tempo andava avanti? Si ricordò dell’imbarazzo di Jo quando l’aveva convocata nel suo ufficio, più di otto mesi prima, per proporle la promozione; di come lei avesse sostenuto che quei casi non li aveva risolti da sola, di come avesse risposto vorrei parlarne con… e poi si era corretta. Ovvio. Voleva parlarne con Henry. Doveva ammettere che erano stati assolutamente discreti. Se non fosse stato per un leggero cambiamento, in positivo, nel comportamento di Jo, il capitano non si sarebbe accorta di nulla. In Henry, per esempio, non aveva notato nulla di diverso. Doveva essere un abile dissimulatore. A quel pensiero, il suo disagio nei confronti di Henry si acuì. Sapeva che c’era qualcosa che non andava. Ma non sapeva cosa.
Quando Henry ricomparve, posò davanti a loro un altro vassoio pieno di tramezzini e ciotoline di una specie di budino bianco. Hanson, che continuava a lanciare occhiate a Henry e Jo come per assicurarsi che fossero effettivamente vivi e vegeti, si buttò sul cibo senza farselo dire due volte.
“Che fame. Mmh, buoni questi affari. Che c’è dentro?”
“Ricetta segreta di famiglia”, rispose Jo con un occhiolino a beneficio di Henry.
Alla parola famiglia, il capitano risentì risuonare le parole del vecchio del pub nella propria testa: scommetto che è uno della famiglia. Tutta quella faccenda sulla famiglia Morgan avrebbe avuto bisogno di un chiarimento. Ma ora c’era una spiegazione ben più urgente da spiegare.
“Jo, credo sia il momento di dirci cosa è successo”, disse, e sorseggiò il thè, che era piacevolmente caldo e anche buono, doveva ammetterlo.
“È iniziato tutto quando abbiamo interrogato Elliott la seconda volta”, cominciò Jo, scaldandosi le mani attorno alla tazza di thè, “Ve lo ricordate? Dopo che Henry aveva scoperto che il bambino di Sarah Conrad era il suo”.
Sia Reece che Hanson annuirono.
“Durante quell’interrogatorio, Elliott mi ha apertamente minacciata. Mi ha fatto capire in maniera chiara e tonda che se avessi continuato con l’indagine mi avrebbe rovinato la carriera. Ovviamente io non mi sono lasciata spaventare, anzi. La sua reazione mi aveva confermato che lui era colpevole. Però Henry…”, e lì Jo si interruppe, lanciandogli un’occhiata, perché non poteva certo dire Henry ha guidato l’auto al posto mio e ha scoperto che i freni erano manomessi. Ah, sì, è anche morto nel frattempo.
“… io avevo dei sospetti”, continuò Henry al posto suo, ricambiando la sua occhiata, “E allora ho detto a Jo di non prendere la macchina, e ho… abbiamo… controllato… e abbiamo scoperto che i freni dell’auto erano manomessi”, improvvisò, senza specificare in che modo avevano scoperto la manomissione.
“Porca puttana”, commentò Hanson.
“Ovviamente non c’erano prove che fosse stato Elliott”, proseguì Jo, “Ma era una coincidenza un po’ strana, no? Mi minaccia e nello stesso giorno qualcuno mi manomette i freni. Comunque, da quel momento siamo stati molto attenti”. Jo aveva iniziato inconsciamente a usare il plurale e il capitano si concesse un sorriso tra sé e sé, perché era ancora un’ulteriore conferma del fatto che avesse una relazione con Henry. “Però, come sapete, tutte le prove scomparivano alla velocità della luce. Non c’era nulla con cui incriminarlo. Poi una sera…”, la voce di Jo ebbe un lieve cedimento al ricordo, “Ero appena tornata a casa. Henry mi aveva accompagnata. Lui se n’era appena andato…”, non era del tutto vero, ma Jo stava modificando leggermente le tempistiche della storia per non rivelare che Henry dormiva da lei, anche se ormai non aveva più importanza mantenere nascosta la loro storia, “… quando un corriere ha bussato alla porta. Quei tre uomini hanno fatto irruzione e…”, Jo distolse lo sguardo da loro, fissandolo sul tavolo, “… hanno tentato di uccidermi. Io sono riuscita a prendere la pistola che avevo lasciato sul bancone della cucina, e ho sparato a due di loro, ma il terzo… il terzo ha sparato a me e mi ha piantato due pallottole nel fianco”, istintivamente si portò la mano sulla ferita quasi rimarginata, “Sono caduta a terra e ho perso la pistola, e il tizio mi stava per sparare alla testa… sarei morta se non fosse arrivato Henry”, sospirò, con un sorriso stanco.
“Avevo notato il furgone della FedEx”, spiegò Henry, “E mi sembrava un’ora strana per fare le consegne”.
“Comunque, Henry ha sparatp al terzo tizio”, Jo riacquistò la sua voce ferma, “Mi ha portata via e mi ha operata. Per quella parte della storia dovete chiedere a lui, io non mi ricordo nulla, ero svenuta”.
“Ma come hai fatto a sparare a quel tizio, Doc?”, intervenne Hanson mentre si serviva di un altro sandwich, “Utilizzando la pistola dell’altro?”
“Ehm… non è andata esattamente così”, ammise Henry un po’ imbarazzato, “Diciamo che la scena del crimine che avete visto voi l’avevo leggermente rintoccata… e vi chiedo scusa, ovviamente, per avervi ingannato di proposito. Ma era per proteggere Jo”.
“Hai usato un’altra pistola, vero? E poi l’hai scambiata con quella dell’assalitore”, disse il capitano dopo averci riflettuto per qualche istante.
“Esatto”, confermò Henry con un cenno del capo, “Ho dovuto fare in fretta, Jo stava perdendo molto sangue, doveva essere operata il prima possibile per fermare l’emorragia.”
“Ma perché non ci avete detto nulla, ragazzi?”, chiese Hanson, “Potevamo aiutarvi…”
“Non c’erano prove”, rispose Jo, “Come facevamo a dimostrare che era stato Elliott? Io all’inizio volevo dirvelo, ma… ne ho parlato con Henry, e… abbiamo deciso…” Utilizzò appositamente il plurale per far capire a Henry che non lo biasimava per aver scelto anche per lei, “… che era meglio restare morta. Voglio dire, ci aveva già provato due volte, cosa gli avrebbe impedito di provarci anche una terza?”
“In ospedale Jo sarebbe stata ancora più vulnerabile”, intervenne Henry, “Chiunque poteva procurarsi un camice bianco, entrare e iniettarle qualcosa, o metterle un cuscino sulla faccia. Anche con una sorveglianza ventiquattro ore su ventiquattro. No. Era troppo pericoloso. Era meglio se Elliott continuava a crederla morta”.
“L’ideale sarebbe stato trovare le prove che aveva assoldato quei mercenari”, disse Jo, “Ma come avete visto anche voi, non ce n’erano. Oltre alle vostre indagini, Henry e Lucas hanno fatto i salti mortali per scoprire qualcosa, purtroppo senza risultati.”
“Lucas?!”, esclamò Hanson sgranando gli occhi, “Vuoi dire che anche Lucas è coinvolto??”
Jo si morse il labbro pentendosi di essersi lasciata sfuggire quell’informazione.
“Sono stato io a coinvolgerlo”, Henry riprese il discorso per togliere Jo dall’imbarazzo, “Avevo bisogno di qualcuno che mi coprisse in laboratorio mentre mi occupavo di Jo. E poi… di qualcuno che vi consegnasse il messaggio, senza ricorrere a email o telefonate che potevano essere rintracciate”.
“Allora è stato Lucas a mettere quelle buste sulle nostre scrivanie!”, il capitano scosse la testa come se si ritenesse stupida per non esserci arrivata prima, “E abbiamo anche controllato le telecamere di sorveglianza, eppure non ci aveva nemmeno sfiorato il sospetto che fosse stato lui”.
“Lucas ha fatto solo quello che io gli ho chiesto di fare”, lo difese Henry, “Non ha alcun tipo di responsabilità. Si sentiva in colpa a mentirvi, ma lo ha fatto per mantenere una promessa fatta a me”.
“Io… non lo sto giudicando”, disse Hanson, “Però… diavolo, lo sapevano tutti tranne noi due?”
“No, solo io e Lucas”, lo rassicurò Henry. Evitò di menzionare Abe. Tanto lui non faceva parte del dipartimento, quindi tecnicamente non contava.
“E allora visto che non si poteva incriminare per l’omicidio di Jo, hai deciso di accollargli un altro capo d’accusa?”, lo incalzò il capitano per fargli proseguire il racconto.
“Sì. Ero sicuro che sotto pressione, e con la sicurezza di non essere ascoltato da nessun’altro, avrebbe confessato. Era troppo narcisista per non farlo”, Henry quasi fece una smorfia a ripensare a quell’individuo.
“Ma… la registrazione, allora? Come hai fatto a non morire? Gli spari e tutto?”, chiese Hanson a raffica.
“Trucchi di scena”, mentì Henry, e Jo trattenne involontariamente il fiato, “Il giorno prima mi ero introdotto nel suo ufficio e avevo collocato una microspia nella presa di ventilazione. Poi avevo controllato i cassetti e avevo visto che aveva una pistola, e ho sostituito i proiettili veri con un caricatore a salve”, Henry lo disse con convinzione, sperando che loro ci credessero senza indagare ulteriormente, “Poi un po’ di sangue finto, una pallina da tennis sotto l’ascella per rallentare il battito cardiaco in caso di un controllo… quando mi hanno gettato nel fiume, ho nuotato fino a riva, ho raggiunto Jo e insieme siamo venuti qui”.
“E come ci è arrivata quella registrazione sul mio computer? Come avete fatto a lasciare il paese?”, interrogò il capitano perplessa.
“Ecco…”, esitò Jo lanciando uno sguardo a Henry.
“… questa parte potrebbe essere un tantino illegale”, ammise Henry.
“Perché fino ad adesso era tutto perfettamente nei limiti della legge”, commentò Hanson ironicamente.
“Diciamo che sono ricorso a qualche conoscenza con un lavoro di dubbia reputazione”, rispose alla fine Henry restando sul vago. “Si conoscono tanti falsari, quando si commercia in antiquariato”.
“Vi abbiamo contattati il prima possibile”, aggiunse Jo, “Aspettavamo solo la condanna per essere sicuri che Elliott fosse fuori gioco e non avesse più scagnozzi in giro a eseguire i suoi ordini”.
“Ma…”, il capitano aggrottò le sopracciglia, riflettendo, “Tutta questa storia… mi sembra un azzardo enorme. Soprattutto nel tuo caso, Henry”, senza rendersene conto continuava a dargli del tu, “Voglio dire, se non fosse stato Elliott a spararti? Se fosse stato quell’altro? Se ti avessero buttato da… da, che ne so, il quinto piano? C’erano troppe variabili di rischio…”
Henry e Jo si scambiarono un’occhiata fulminea. Ovviamente Hanson e Reece non avevano idea della condizione di Henry, e le obiezioni del capitano erano del tutte legittime.
“Ehm… sono stato fortunato”, disse Henry evasivamente, “Diciamo che ho… scommesso… e sono stato fortunato”.
Troppo fortunato”, commentò il capitano sempre con quell’espressione pensosa.
“Fortunato o non fortunato”, intervenne Hanson, “Sei stato maledettamente geniale, Doc.”
“Posso affermare senza dubbio che se non fosse stato per Henry io non sarei qui”, disse Jo, approfittando del commento di Hanson per sviare il discorso dalle domande del capitano, “Anche se i rimedi che abbiamo adottato possono sembrare estremi. Ma dopo che sono entrati in casa mia… non mi sentivo più al sicuro”. La sua mano si mosse per prendere quella di Henry sul tavolo, ma poi si fermò a metà strada e tornò discretamente indietro. Il capitano però colse quel movimento, a ulteriore conferma dei suoi sospetti. Ancora una volta si diede della stupida per non esserci arrivata prima.
“Jo, saresti dovuta venire da me”, osservò, accantonando per un attimo tutte le domande che le si accavallavano in testa, “Lo sai che avresti potuto contare su di me”.
“Non sarebbe stato giusto”, rispose Jo scuotendo la testa, “Avrei compromesso la sua posizione, la sua carriera… per aiutarmi in un’impresa che probabilmente si sarebbe conclusa male, per entrambi. Non potevo accettarlo. E lo stesso valeva per te, Hanson. Tua moglie, i tuoi figli… Non avrei mai potuto coinvolgervi e chiedervi di aiutarmi.”
“Ma hai coinvolto Henry, però”, il tono del capitano si fece leggermente insidioso. Non riusciva a capire perché Henry e Jo continuassero a nascondere il loro rapporto.
“Sarebbe più corretto dire che io mi sono coinvolto da solo”, intervenne Henry precedendo la risposta di Jo. “Non mi ha chiesto di fare nulla, semmai il contrario”.  E senza esitazione prese e strinse la mano di Jo. Lei rispose alla stretta intrecciando le proprie dita alle sue.
“Henry”, disse il capitano dopo aver osservato quel gesto senza commentarlo, “C’è una cosa che ti devo chiedere. Una cosa che mi frulla in testa da quando siamo arrivati qui”. Henry le fece un cenno del capo per farle capire che stava ascoltando. “Certo”.
“Quando siamo arrivati qui, abbiamo parlato con un tizio in un pub, uno che la zona la conosce bene”, continuò il capitano. Hanson si raddrizzò sulla sedia, incuriosito, capendo dove stava andando a parare il discorso. “Ci ha raccontato un po’ di… leggende, su questo posto. E ha detto che la famiglia Morgan si è ufficialmente estinta”.
Il capitano non staccava gli occhi da Henry, aspettandosi una sua reazione rivelatrice. Lui, invece, era completamente impassibile.
“Quindi quello che ti voglio chiedere”, proseguì Reece, “È se quello che ha detto è vero”.
“Scommetto che avete parlato con il vecchio Nathan, vero?”, rispose Henry con un mezzo sorriso, “Fa lo scorbutico, ma gli piace far vedere che è informato sulla storia locale. Per rispondere alla sua domanda… sì e no”.
“Che significa, sì e no?”, chiese Hanson aggrottando le sopracciglia.
“Significa che sì, la famiglia si è ufficialmente estinta. Ma no, non si è estinta per davvero”. L’espressione di Henry continuava a essere impassibile, mentre Jo stava dando dei segni di nervosismo. Strinse ancora più forte la mano di Henry e gli disse, a bassa voce anche se sapeva che gli altri l’avrebbero sentita: “Non sei obbligato”.
“Non fa differenza a questo punto, non credi?”, le rispose lui guardandola dritto negli occhi per qualche secondo. Il capitano provò ancora quella sensazione di ignoranza, la sensazione che le stesse sfuggendo qualcosa. Qualcosa che, a quanto pareva, Jo sapeva.
“Quindi questo posto è tuo?”, intervenne Hanson.
“Sì”, rispose Henry staccando gli occhi da Jo, “Sì. È mio. L’ho comprato un po’ di anni fa.”
“Ventotto anni fa”, precisò il capitano, “Ventotto anni fa, così ci ha detto quel… Nathan. Epoca in cui tu avresti dovuto avere sì e no dieci anni”.
“Sì”, confermò Henry con un’espressione indecifrabile, “Avrei dovuto”.
“Ma quindi… che stai cercando di dire?”, chiese Hanson appoggiando i gomiti sul tavolo.
“Sto cercando di dire”, disse Henry, e il suo tono divenne leggermente più distaccato, quasi autorevole, un tono che il capitano non gli aveva mai sentito, “Che c’è sempre un fondo di verità, nelle leggende. E che a volte è meglio starne lontano” Si voltò per un secondo verso Jo, poi tornò a guardare Hanson e il capitano, “Ora che sapete che Jo sta bene, e che non avete alcun tipo di responsabilità per quello che è successo, è meglio se tornate a New York, riprendete le vostre vite, e dimenticate quello che avete visto o sentito qui.”
Era stata una risposta talmente elusiva che il capitano sentì di saperne ancor meno di prima. Di nuovo, quel tono, quell’espressione di Henry le risultavano del tutto nuovi: era veramente lo stesso uomo che lavorava per lei a New York?
“Ma quindi tu sei o non sei un Morgan? Il tuo nome è… vero?”, incalzò il capitano assumendo d’istinto il tono degli interrogatori.
“Sì, è vero”, rispose Henry senza sbilanciarsi.
“Ma se l’ultimo discendente diretto è morto più di due secoli fa, com’è possibile?”, intervenne Hanson.
Henry fece una pausa, abbassando lo sguardo per la prima volta. Jo si mosse a disagio sulla sedia. Alla fine Henry riprese a guardarli, e disse, in tono quasi misterioso:
“E chi l’ha detto che l’ultimo discendente diretto è morto?”
Reece si stava stancando di quel gioco di allusioni e di non risposte.
“Quell’uomo nel ritratto”, sbottò, indicando il corridoio, “È un tuo antenato?”
Jo lanciò un’occhiata ad Henry e trattenne visibilmente il fiato. Sembrava in ansia per quella risposta più di quanto non lo fosse Henry.
“No”, rispose Henry, e quel no suonò lapidario come una pietra che cade in acqua.
“Quindi non sei della famiglia”, concluse Reece.
“Non ho detto questo”, ribatté Henry.
“Non ci sto capendo più niente, Doc”, ammise Hanson, “Famiglia o non famiglia, Morgan o non Morgan…”
“Non è necessario che voi capiate”, disse Henry, “L’importante è che sappiate che Jo sta bene. Tutto il resto non conta. Ci sono segreti che è meglio che rimangano tali”. 
“Che tipo di segreti?”, incalzò Reece ignorando il suggerimento di Henry di lasciar perdere.
“Non importa”, fu Jo questa volta a rispondere, “Davvero, non importa. Non fate altre domande, per favore. Non costringeteci a mentire, non sarebbe giusto né per voi né per noi”.
Il capitano si stupì dell’utilizzo di quel plurale. In che cosa erano coinvolti lei ed Henry?
“Jo, tu sei al corrente di questa cosa, qualunque essa sia?”
“Sì”, rispose Jo, stringendo forte la mano di Henry.
Reece esitò per qualche istante. Era la prima volta che vedeva Jo così. La conosceva ormai da anni e l’aveva sempre considerata una sua protetta, una sua favorita. Ne aveva seguito la carriera e l’aveva guidata, rivedendo in lei sé stessa da giovane, quando si era fatta faticosamente strada verso il titolo di capitano a suon di arresti e nottate in bianco. In Jo riscopriva la stessa tenacia, determinazione e intuito che aveva anche lei, quando era detective. Ma ora la Jo che aveva davanti sembrava un’altra persona: aveva preso le parti di Henry, qualunque cosa questo significasse, e non dava segno di voler tornare indietro. La Jo Martinez che conosceva lei era una persona retta e onesta: se stava difendendo Henry, non poteva essere nulla di grave o di immorale. Oppure sì?
“È qualcosa di illegale?”, chiese alla fine il capitano, cercando di mettere ordine nella miriade di dubbi e indizi che le vorticava in testa.
Jo ed Henry si scambiarono uno sguardo sinceramente dubbioso.
“No”, rispose Jo esitando.
“Non proprio”, corresse Henry a sua volta.
“Dipende dai punti di vista… cioè, dipende dagli aspetti considerati”, aggiunse Jo.
“È complicato”, disse ancora Henry.
“Ma niente di criminale”, specificò Jo.
“Illegale ma non criminale?”, chiese Hanson confuso.
“Diciamo che è un’illegalità necessaria ma non voluta”, disse Henry.
Il capitano si appoggiò allo schienale della propria sedia, stanca di tutta quella confusione. Guardò a lungo Jo, la sua mano in quella di Henry, la sua espressione risoluta nel voler tenere segreta qualunque cosa stesse nascondendo, e per la prima volta in vita sua Reece pensò che poteva lasciar perdere. Per affetto verso di loro, poteva lasciar perdere. In fondo, fino a poche ore prima provava solo rabbia e dolore perché credeva fossero morti. Invece erano vivi e stavano bene. Non poteva bastare?
“Se mi garantite che non è nulla di grave, né di criminale, e che posso stare tranquilla, e non siete coinvolti in niente di pericoloso allora… smetterò di fare domande”, disse il capitano, con un sospiro.
Jo sospirò a sua volta di sollievo.
“No, niente di grave”, garantì, “Assolutamente niente di criminale, anzi, semmai il contrario”, aggiunse con un’occhiata a Henry.
“Insomma”, borbottò lui in risposta, “Non esageriamo”.
“Nulla di pericoloso”, continuò Jo, “Solo qualcosa di molto complicato.”
“Va bene”, concesse Reece, “Mi basta sapere che state bene”.
“Anche a me”, annuì Hanson, e Jo ed Henry si scambiarono un’altra occhiata, commossi.
“Che farete adesso?”, chiese Hanson, “Siete ufficialmente morti”.
Jo guardò Henry per qualche secondo prima di rispondere.
“In realtà, non ci abbiamo ancora pensato”, disse, “Aspettavamo la condanna di Elliott. Poi volevamo metterci in contatto con voi… e adesso… non lo so. Ci penseremo”.
“Ma questo significa che non… non ci rivedremo più?”, Hanson sembrava affranto di fronte a quella prospettiva.
“Beh, non negli Stati Uniti, no”, rispose Henry.
“Però ci possiamo tenere in contatto”, aggiunse Jo, “Vi faremo sapere dove ci troveremo e… potrete venire a trovarci quando volete. Probabilmente resteremo qui in Europa… qui in Inghilterra, anche… magari in un posto più caldo, eh?”, scherzò rivolta a Henry.
“L’Inghilterra non è nota per il clima caldo”, rispose Henry ironicamente, “Sud della Francia, che ne dici?”
“Non parlo francese”, obiettò Jo.
“Lo parlo io”, ribatté Henry.
“Se andate nel sud della Francia”, intervenne Hanson dopo aver osservato, divertito, quello scambio di battute, “Mi raccomando, procuratevi una casa con una bella stanza degli ospiti, perché è sicuro che vi vengo a trovare.”
“Visto che non sei mai stata in Europa, Jo, magari possiamo fare un giro delle capitali…”, suggerì Henry, “Poi potrai scegliere la città che ti piace di più”.
Nonostante la sua promessa di non fare più domande, il capitano Reece non poteva fare a meno di chiedersi come Henry e Jo avrebbero finanziato tutti quei progetti di viaggio di cui stavano parlando. Anche i biglietti aerei con cui erano arrivati in Inghilterra… li aveva pagati Henry? Da dove proveniva tutto quel denaro?
“Ma…”, domandò prima di riuscire a trattenersi, “Ma come farete a mantenervi? A pagare i viaggi, a trovarvi un lavoro? Jo, tu sei prima di tutto una poliziotta.”
Jo sembrò ancora una volta a disagio.
“Ehm… pensavo di… insomma, magari potremmo aprire un’agenzia investigativa privata”, rispose Jo, “E fino ad allora… Henry ha qualche risparmio da parte”, aggiunse, vaga.
“Io posso pur sempre lavorare in ospedale”, disse poi Henry, “Prima di passare a medicina legale lavoravo in pronto soccorso.”
“Davvero, Doc? Non lo sapevo”, Hanson spalancò gli occhi, stupito. “Non eri tipo un becchino?”
Per la prima volta il capitano scorse una nota di disagio sul viso di Henry.
“Sì… ecco… prima di quello lavoravo al pronto soccorso”.
“Tra le altre cose”, borbottò Jo con un mezzo sorriso.
In quel momento gli occhi di Hanson si spalancarono ancora di più, e il detective proruppe in una esclamazione del tutto inaspettata:
“Ma porca puttana! Ci sono arrivato adesso!”
Henry e Jo si scambiarono un’occhiata perplessa prima di rivolgersi a Hanson:
“Arrivato… a cosa?”, chiese Henry con una leggerissima punta di ansia nella voce che non sfuggì al capitano Reece.
“Che voi due andata a letto insieme! Figli di puttana, e non mi avete detto niente!” Vedendo l’espressione di Henry e il rossore sulle guance di Jo, scoppiò a ridere. “Me l’avete fatta sotto il naso”, sghignazzò, “Che bastardi!”
“Beh ecco noi…”, cominciò Jo guardando Henry in cerca di aiuto, che intervenne:
“… non era nostra intenzione, solo non volevamo…”
“… non volevamo creare situazioni imbarazzanti”, concluse Jo.
“C’è da dire che non vi manca il talento della discrezione”, disse Hanson sempre ridendo tra sé e sé, “E io che ci lavoravo fianco a fianco ogni giorno. Però forse ci sarei dovuto arrivare… arrivavate insieme, andavate via insieme, e le serate in laboratorio… E lei, capitano, l’aveva capito?”
“No”, ammise il capitano, divertita, nonostante tutto, dalla reazione imbarazzata di Henry e Jo, “L’ho capito anch’io solo oggi”.
“L’idea originale era semplicemente dimostrarvi che potevamo lavorare insieme senza problemi”, si affrettò a spiegare Jo, “Ma poi i giorni sono diventati settimane, le settimane mesi, e sembrava non ci fosse mai il momento buono per dirlo…”
“Aspetta, aspetta”, la interruppe Hanson, “Le settimane sono diventate mesi? Da quanto tempo va avanti?”
“Quattordici mesi”, rispose Henry.
“Più di un anno”, rispose Jo contemporaneamente.
Più di un anno?”, Hanson strabuzzò gli occhi, “Più di un anno? E io non mi sono accorto di niente!”
“Ehm… siamo stati discreti”, disse Jo con ancora un po’ di rossore sulle guance.
“C’è qualche altra sorpresa, visto che siamo in tema?”, chiese Hanson facendo roteare la propria tazzina vuota sul piattino, “E, non avrei mai pensato di dirlo, Doc, ma si potrebbe avere dell’altro thè?”
“Certo”, Henry fu evidentemente grato di quella interruzione e si alzò, portandosi dietro la teiera, “Un solo giorno di vento e nebbia, e sei già diventato un inglese”. Sparì dietro alla stessa porta che aveva già utilizzato, e quando ricomparve rimise la teiera a scaldare sulla fiamma del camino.
“Volete fermarvi per la notte qui? Di stanze ce ne sono in abbondanza”.
“Per essere di ritorno a New York entro lunedì dobbiamo partire domattina”, rispose il capitano, “Quindi no, sarà meglio che torniamo a Londra, entro stasera.”
Henry annuì e si premurò di riempire sia la tazza di Hanson che del capitano con l’acqua che si era appena scaldata.
“Vi posso accompagnare in macchina fino a Dorchester, se volete”, propose Henry, “O potete prenderla voi, una macchina, e lasciarla poi in paese, poi la recupero. Se non avete problemi a guidare dal lato sbagliato della strada… che per noi sarebbe quello giusto”.
“A vostro rischio e pericolo”, commentò Jo sogghignando, “Henry alla guida di un’auto è un pericolo pubblico”.
“Questo non è vero”, ribatté Henry fintamente indignato, “Non ho mai imparato a guidare dal vostro lato della macchina, ma dal nostro lato della macchina me la cavo benissimo”.
“E poi hai la patente scaduta”, aggiunse Jo.
“Questo…”, cominciò a ribattere Henry, prima di correggersi, “Sì, ok, questo è vero.”
“L’autobus andrà benissimo”, disse Hanson sorseggiando il suo thè, “Sempre che ci sia”.
“Sì, c’è…”, confermò Henry, e con un gesto che gli avevano visto fare molte volte afferrò il suo orologio e lo aprì per verificare l’ora, “Fra mezz’ora”.
“Allora sarà meglio muoversi”, disse il capitano controvoglia, “Se vogliamo raggiungere la fermata tra mezz’ora”.
Ci fu qualche secondo di silenzio di fronte alla prospettiva di separarsi.
“Sicuri che dovete andare?”, chiese Jo, e nonostante tutto la sua voce vacillò, “Ci mancherete”.
“Anche tu, Jo”, sospirò Hanson, “Ma ci vediamo in Provenza, eh? Io ci vengo di corsa, appena vi siete sistemati”.
“Contaci”, disse Jo, e a malincuore si alzò per accompagnare Hanson e il capitano all’ingresso. Quando entrarono in corridoio, i loro sguardi furono di nuovo inevitabilmente attratti dal ritratto sopra al camino. Nonostante la promessa di smetterla con le domande, i loro occhi lampeggiavano di punti interrogativi. Henry li sorpassò e li precedette per fare loro strada verso l’ingresso, ma quando vide che non lo stavano seguendo, immobili com’erano a fissare quel ritratto, tornò indietro di qualche passo, le mani nelle tasche.
“Sì, in effetti quel ritratto non è un granché”, commentò misteriosamente, “Non mi è mai piaciuto.” Poi si voltò e continuò a percorrere il corridoio. Hanson e il capitano si scambiarono un’occhiata perplessa ma poi decisero di non dire nulla, e s’incamminarono a loro volta, seguiti da Jo che chiudeva il corteo.
Aperta la porta di ingresso, furono investiti da una ventata di aria gelida.
“Sicuri di non volere un passaggio?”, chiese Henry vedendoli rabbrividire. “Non sono così pessimo alla guida come dice Jo”.
“Grazie, ma camminare ci farà bene”, rispose il capitano, con uno sguardo di intesa in direzione di Hanson, “Abbiamo molte cose su cui riflettere”.
“Allora… addio”, Hanson aprì lievemente le braccia e i suoi occhi si inumidirono di tristezza.
“No, Hanson”, lo corresse Jo abbracciandolo, “Arrivederci”.
Dopo che furono spariti lungo la strada che portava al cancello, Jo si voltò verso Henry, chiudendosi la porta alle spalle.
“In effetti, Henry”, disse, posandogli le mani sulle braccia, “Che cosa faremo, ora? Non ne abbiamo mai parlato”.
“Sbaglio, detective, o avevi un viaggio in sospeso a Parigi?”, replicò lui circondandole la vita con le braccia.
“Sì, hai ragione. Stavo aspettando l’uomo giusto con cui andarci.” Jo si strinse a lui e appoggiò la testa sul suo petto, “Sai, una volta qualcuno mi ha detto che a Parigi ci si può perdere solo con una persona speciale”.
“E l’hai trovata, la persona speciale?”
Jo alzò lo sguardo eloquentemente verso di lui.
“Allora facciamo le valigie, detective Martinez?”
“Sì, facciamo le valigie, dottor Morgan”. 

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