Il gufo e l'usignolo

di Helmyra
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'ultimo canto dell'usignolo ***
Capitolo 2: *** La prigione di pietra ***
Capitolo 3: *** Segreti ***
Capitolo 4: *** Un gufo che voleva essere un usignolo ***
Capitolo 5: *** Il nemico del mio nemico ***
Capitolo 6: *** Fuga dalla voliera ***
Capitolo 7: *** Ad ali spiegate ***
Capitolo 8: *** Il tempo è rapace ***
Capitolo 9: *** La minaccia dal cielo ***
Capitolo 10: *** Il canto della verità ***
Capitolo 11: *** Il guscio si schiude ***



Capitolo 1
*** L'ultimo canto dell'usignolo ***



 
Una finestra, una folla di comignoli a rincorrersi l’un l’altro, l’azzurro perfetto delle montagne oltre le mura.
Anche le foglie degli alberi, i teneri papiri sul letto del fiume, vibravano al suono del diapason. Accordava il liuto, e in uno schiocco di dita le ore si fermavano all’imbrunire. Serrava il manico, ben attenta a non tirare troppo le corde e ad identificare il tono giusto. Uno, due, tre.
In un vasetto di vetro l’esile ramo di melo. Aveva studiato letteratura, geografia. Memorizzato lo spartito, declamando le note a bassa voce. Gli esercizi erano quotidiani, ma la speranza s’acquattava dietro le tende, sollevandosi al davanzale, nel giorno di Fridas.
Sarebbe giunto il suo turno, prima o poi avrebbe sceso la scalinata e partecipato con gli altri ospiti ai balli organizzati dal padre ogni settimana. Avrebbe incontrato il Conte, la nobiltà a corte, i letterati e gli artisti della città. Sarebbe stata condotta per mano dalla madre al centro della stanza, e avrebbe cantato; come già faceva durante le sere di festa dalla balaustra. Una pausa media, non più di tre battute, intervallava l’acuto finale dagli applausi entusiastici dei convenuti. Altre due battute, e anche la paura di sbagliare, un bandito nel fitto della Foresta Nera, si dissolveva in un lampo.
Immaginava il suo debutto in primavera. Con il risveglio della natura, un frizzante arpeggio. Sperava che, quella sera, il padre la facesse chiamare per cantare in platea, e non dall’alto della galleria.
Non chiedeva altro, Elanilde, nel fiore della gioventù e fantasticando ad occhi aperti; badando al rumore più impercettibile, sensibile ai significati delle parole, alla loro melodia.
Ancora ignara dei rivolgimenti in atto.
 
Voranil convocò la servitù al centro della sala, ed impartì ordini chiari, decisi; com’era di consuetudine. Fiori freschi, raccolti in giornata, per decorare la sala e suggerire un pizzico di novità. Arrosto di montone, patate al forno ben speziate, vino rosso dei fratelli Surilie accompagnato dal richiamo pungente di chiodi di garofano, dalla grazia semplice dell’anice stellato. Attorno ai candelabri, nastri cerulei e boccioli d’arancio. Un bardo, un flautista. Pochi accorgimenti, ma giusti. Cheydinhal attendeva Fridas, ed egli attendeva Cheydinhal in un continuo sfoggio di sottile ostentazione. Essere invitati alle cerimonie di Riverview non era un onore, quanto un privilegio. Parco nel distribuire gli inviti, e ancor più reticente ad allargare la cerchia, il padrone di casa deteneva le redini di un potere subdolo, quello dell’arte, del buongusto.
“Cosa deciderai di fare?” Chiese la moglie, Saranwe, posandogli una mano sulla spalla. “Si esercita da mane a sera, è ben allenata ormai. Non è saggio attendere oltre.”
“Al momento giusto,” Soggiunse Voranil con simulata disattenzione, studiando le mosse dei domestici, “è il nostro futuro, dobbiamo alimentare un clima d’entusiasmo, d’aspettativa. Si continuerà a parlare dell’usignolo di Riverview in paesi e contrade. Uomini di spicco onoreranno questa casa, si contenderanno il favore del Conte per una buona parola, pur di assistere ad uno dei suoi concerti. Ci pensi, cara? Il conte Farwil Indarys a rispondere per noi, a conferire il permesso di una visita. Nessuno varcherà la soglia senza un invito... finché i tempi lo permettono, le danze saranno aperte.”
Saranwe si ritirò in silenzio, incapace di opporre resistenza. Il marito era impegnato a rivivere i fasti di un’epoca andata, di stabilità politica e solidità dei valori. Cattive nuove giungevano da Leyawiin, racconti sconcertanti da Valenwood, Hammerfell, Skyrim. Le danze erano aperte, ciò era innegabile – quando sarebbe cessata la musica, quale sarebbe stato l’ultimo giro di rondò?
Si accostò alla toeletta, prese ad armeggiare con boccette di unguenti e recipienti di polveri finissime. Ogni giorno, ogni sera poteva rivelarsi fatidica. Si coricava a letto e si levava ripetendo le solite azioni, illudendosi di vivere una normalità fatta di facezie e insulse banalità. Le ore passavano, i rintocchi della campana la sfioravano col loro riverbero angosciante.
Intendeva far pressione sul marito, affinché si decidesse a fare di Elanilde una debuttante. Ed egli, intoccabile, sordo a qualsiasi supplica, rimandava all’infinito. Afferrava ago e filo, quando non riusciva a tollerare il peso dei suoi pensieri, e ricamava scene di festa, frutti in pieno fulgore; si concedeva la stravaganza di un disegno geometrico, di abbinamenti bizzarri. Poco le restava per sperimentare, per vivere.
Gli stranieri erano alle porte della città: avrebbe regalato alla figlia il primo e l’ultimo dei bei ricordi.
 
Entrarono in religioso silenzio, circospetti e rigorosamente in fila, l’uno dietro l’altro.
Il tempo di una preghiera, di una benedizione veloce. Tullius Favellio, cappellano del tempio di Stendarr, si sollevò dall’inginocchiatoio e andò loro incontro. In tempi ostili, pellegrini ed esuli rinfocolavano la fede, davano ad un vecchio parrocchiano la ragione per andare avanti. Ormai rassegnato a vivere nei suoi ultimi giorni il declino di un Impero, aveva consacrato se stesso alla contemplazione dei Nove, al culto di colui che fu.
Ritmando col bastone i passi verso l’ingresso, cantilenava un’antifona per accogliere i nuovi venuti. Sulla lingua del brav’uomo, i versi si coloravano di una malinconia placida, in un limpido struggimento.
“Stendarr sia con voi!” Esultò, chinando umilmente il capo. La vista offuscata gli aveva restituito delle figure sobrie, tutte velate da un cappuccio e dalla lunga palandrana. Alzò le mani al cielo e li benedisse nuovamente. L’individuo in testa alla fila, dopo essersi voltato per assicurarsi il tacito assenso dei seguaci, rinunciò alla copertura rivelando una chioma lunga, lattea; e profonde rughe altere sul volto smagrito dalla guerra.
“Inquisizione Thalmor.” Tuonò, gettando a terra la spada elfica. “Varelmo, Comandante in carica delle truppe di stanza a Cyrodiil. In questo momento, rappresento l’autorità del Dominio Aldmeri sul vostro territorio. Pertanto, in osservanza del Concordato d’Oro Bianco e in qualità di suo garante, dichiaro la confisca di qualunque oggetto che rechi l’effigie di Talos, più la sconsacrazione degli altari e, in caso di resistenza, la possibile dimissione.”
Recitò il proclama senz’anima, con la sua voce pedante, metallica; completamente estraneo al dolore che gli stava infliggendo.
Tullius giunse le mani al petto per sostentarsi, per non cadere, e comprese. Sicché, era giunta l’ora della resa: il disco calante del sole s’abbatteva su anni ed anni di odi innalzate al cielo come l’ascia del boia. Trattenne le lacrime, frastornato; tradito nell’intimo del suo essere.
“Lasciate che vi mostri il tempio.” Li dissuase, in una mossa disperata. “I nostri cittadini lo hanno abbellito, vezzeggiato per secoli. Il rosone risale a duecento anni orsono, fu il padre del famoso pittore Rythe Lythandas ad idearne il disegno, a sceglierne personalmente i vetri. E anche l’altare centrale, coi suoi fratelli minori nelle navate laterali, decorati con  le migliori stoffe ed aspersi ogni dì con l’incenso della foresta. Il nostro mecenate...”
“Il nome.” Biascicò Varelmo, oltremodo infastidito. “Il nome. Chi è che cura l’altare di Talos? Qual è la sua posizione in città? Avanti, parla!”
“Voranil, signore...” Spiegò Tullius, cercando di mantenere la calma nella disperazione. “Egli appartiene alla vostra gente, ma è figlio dell’Impero. Vive in una bella magione accanto al fiume, con la signora e la fanciulla più chiacchierata in città. Essi onorano gli Déi; essendo patrono delle arti e gentiluomo, lord Voranil crede nella pluralità d’idee, nella libertà di culto...”
“Basta così.” Con un gesto, il comandante richiamò il suo secondo, un giovane dal temperamento oscuro e gli occhi da lupo, animato da un ghigno arrogante. “E ora a te, vecchio. Rinunci a Talos? Rinunci al falso dio e al credo ad egli annesso?”
“Io...” Due soldati s’avventarono contro il piccolo altare. Svelsero i fiori dai vasi, e con essi volarono via anche le giare d’ottone. Nel cadere produssero un tintinnio sordo, un singulto strozzato. Quattro braccia lo bloccarono, lo braccarono; le giare, poco distanti, giacevano ammaccate, dimenticate.
La sua vita, il suo cuore!
“Allora, monaco?” Varelmo lo sovrastava, mentre gli altri erano impegnati nella profanazione, a far saltare in aria la colonna scanalata con globi infuocati. Tullius proruppe in un pianto agghiacciante, al tempo stesso liberatorio.
Si disputava a dadi la sua salvezza. Quella del corpo, quella dell’anima.
 “No!” Urlò, e una folgore argentea gli sconquassò il petto.  Un raggio di luce filtrò dal rosone, Tullius fu invaso da una scia di prismi iridescenti, di lampi colorati. Mara, pietosa, aveva steso la mano su di lui; era pronto, pronto per annullarsi nell’Etherius.
“Povero pazzo...” Sogghignò Varelmo, raccogliendo la spada. Non un’arma, non una goccia di sangue violarono la quiete del tempio. La morte, però, disponeva di svariati mezzi per incrementare il suo seguito.
E uscì spalancando il portone, così com’era entrata, avviandosi verso il centro della città.
 
Gli ospiti si erano riuniti nel bel mezzo della stanza, per onorare il signore della casa, per dare inizio alle danze. Voranil dispensò inchini e sorrisi affettati, al contrario di Saranwe, che se ne stava all’ombra del marito scongiurando il peggio.
Le era giunto alle orecchie il frastuono, l’eco delle urla provenienti dalla riva opposta. Dunque era iniziata l’epurazione; il gioco di convertiti e rinnegati, di eretici e sostenitori. Puntava uno sguardo vuoto sui cortigiani; passò in rassegna i volti, pronunciò a bassa voce i nomi per non dimenticarli. In un attimo di debolezza strofinò il naso, le guance, contro la schiena dell’amato. Esalò il suo profumo, fu appagata dalla morbidezza di velluto delle vesti. Gli cinse le mani attorno alla cintola: lui pose le sue su quelle della moglie.
“Ti amo.” Sussurrò, affinché lui solo udisse. L’altro apprezzò, senza capire.
Bussarono alla porta. Una volta, due, e una volta ancora. Il Conte si era assentato col pretesto di un impegno urgente; Voranil confidò fino all’ultimo in un ripensamento, in un mutamento delle circostanze.
Anton, arruolato nella guardia cittadina e guardiano di Riverview durante i balli, era piegato a terra e tossiva, sputando sangue. Cinque figure lo sovrastavano in cerchio, a compiere un insolito rituale.
“Cosa volete, signori?” Balbettò Voranil, riportato bruscamente alla realtà.
“Partecipare alla festa.” Asserì l’inquisitore, con le dita frementi sull’elsa. “Valermo, soldato e servo del Dominio Aldmeri, fratello altmer. Abbiamo il piacere di ricevere ospitalità nella vostra... casa?”
Dopo un attimo d’esitazione, Voranil fece loro cenno di seguirlo. Saranwe si era parata di fronte l’arco che dava sul salotto, per risparmiare ai convenuti un freddo benvenuto. Non riusciva a credere che il comandante e il suo giovane aiutante fossero elfi alti, proprio come loro: non traspariva alcuna simpatia, alcuna gioia dai loro volti barbuti. Le uniformi di foggia esotica suggerivano una falsa rassicurazione: di sicuro, sotto le lunghe palandrane, indossavano corazze e gambali che li avrebbero difesi da un attacco alle spalle. Calpestavano i tappeti senza riguardo, adocchiavano frenetici i quadri, gli arredi, le suppellettili sugli scaffali. Saranwe si scostò a lato, badando bene a tenere il capo chino, a non alimentare la rabbia dei soldati.
Per puro caso, o ineluttabile fatalità, la sua mitezza attirò l’attenzione di Valermo; e a quel punto le labbra taglienti si aprirono in una languida sorpresa, gli occhi torvi e infossati furono animati da una vitalità nuova.
Cedé all’impeto indescrivibile, capitolò di fronte all’ardore ritrovato, sepolto sotto cumuli di macerie. Non era affatto come le silfidi delle isole Summerset, esili e dall’incarnato pallido. Tutto, in quella dama, suggeriva floridezza, appagamento dei sensi. Ed egli stesso si sentì inadeguato, un vecchio ronzino con l’anima focosa del purosangue. Il viso tondo dalla fronte ampia, gli occhi grandi e leggermente inclinati verso l’alto, scuri come corteccia bagnata, gli suggerivano pensieri lascivi. Lo attiravano la curva tra il seno ed i fianchi, le rotondità castigate sotto un abito da donna maritata. Dimenticò la guerra, l’onore, il dovere verso la patria.
“Mia signora...” Salutò con un marcato accento aldmeri, scoprendo i lunghi capelli. Saranwe percepì la rapacità insita nella sua cavalleria, e ondeggiò indietro, aumentando le distanze.
Gli ospiti si radunarono attorno al tavolo, ignorando l’intrusione ed allietati da un sottobosco di note musicali. Attendevano l’approvazione e gli onori del padrone di casa, deciso a non cedere il potere del suo regno e a fornire rassicurazioni. La moglie, invece, chiamo a sé le gentildonne ed improvvisò dei giochi.
Non era abituato ad esser trattato come merce di second’ordine, non lui, che incuteva timore e soggezione al suo passaggio. L’inquisitore si staccò dalla sua costola, abbandonò le retrovie e raggiunse Voranil, proprio nel momento in cui era al centro della sala per annunciare l’evento più atteso della serata.
“Amici, ecco la gemma della casa, ecco il tesoro nascosto che io e mia moglie custodiamo tanto gelosamente. La notte è lunga, ahimè, e la vita talvolta ci sembra breve, troppo breve. La nostra dolce creatura vive notti brevi e ha davanti a sé un futuro brillante. A tutti voi, e soprattutto ai due stranieri, dedicherà una canzone che ella ama particolarmente, un capriccio di sentimenti. Odio e passione, dolore e abnegazione, tumulto ed estasi. Salutate Elanilde, infondetele un po’ di coraggio!”
Una manina percorse la balaustra, l’orlo del lungo abito di seta frusciava contro la ruvidità del pavimento. Un visetto tondo, timoroso, occhieggiò verso i presenti. Respirava lentamente, ricordando cosa le aveva consigliato il padre nei momenti d’ansia: evoca un pensiero lieto, fingi di essere davanti l’altare, ad offrire la preghiera agli Déi che accettano tutto, persino gli inceppi e gli sbagli.
“Ondolemar...” L’inquisitore aveva guidato battute di caccia, campagne di guerra, feroci stermini contro chiunque si fosse opposto alla nuova legge. Adesso puntava il mento verso l’alto, invitava il giovane alleato ad osservare quella figuretta timida, quella primizia acerba. Una folla di candele innalzava una barriera fra lei e il pubblico, ma il mistero durò poco.
Gli occhi azzurri della piccola cantante si fermarono proprio su di lui. Ondolemar ricambiò con diffidenza.
Intonò una strofa, poi un’altra. Le sillabe vibranti, gli acuti argentini, gli entravano nelle orecchie e s’insinuavano nel cervello, provocandogli un dubbio atroce. Era proprio sicuro di aver di fronte una ragazzina innocente, e non una consumata ammaliatrice? Il timbro di voce caldo, da sirena, lo invitava all’abbandono. Provava vanamente a convincersi che fosse la canzone ad ispirargli voluttà, non l’interprete. E malgrado ciò era rapito, completamente schiavizzato. Non aveva vergogna alcuna: della perdita di lucidità, della lussuria che gli riscaldava le membra.
In quella casa dimorava il peccato, era bene rifuggirlo.
E il senso di smarrimento – la sordida corruzione – stavano avendo la meglio su di lui: destinato a seguire le orme del suo mentore ed ossessionato dai codici morali.
Qualche volta, la musica si divertiva ad accendere il lume di un sentimento; l’interno del suo essere, di tanto in tanto, brillava come una cripta umida illuminata da ceri votivi. Le fiammelle fluttuavano nel vento e poi si spegnevano.
“Sono fiero di lei, un giorno andrà alla Città Imperiale e studierà presso la migliore insegnante che riuscirò a trovarle. È presto, adesso, per nulla al mondo mi priverei della sua compagnia!”
Il padre. Valermo sguainò il pugnale, la sala risuonò di un coro di gemiti.
“Mi hanno detto, al tempio, che l’altare di Talos è sotto il vostro patrocinio. Confermate?”
“È la verità.” Osservò Voranil, laconico.
Gli ospiti si trassero indietro: gli artisti, gli scrittori, i nobiluomini. Saranwe lanciò uno sguardo disperato alla figlia, che corse via, per barricarsi dietro le porte della sua stanza.
“Perché lo fate? I nostri numi sono Auri-el, Trinimac, Phynaster. Non abbiamo bisogno di un essere inferiore, che un popolo altrettanto inferiore ha assurto a divinità per motivare il proprio dominio. L’Impero crollerà, è già in crisi. Cosa vi spinge a rischiare?”
“Credo nell’uguaglianza, nella libertà d’idee.” Spiegò il mecenate, con calma. “Ho imparato ad apprezzare la bellezza in ogni cosa. Non mi ritengo superiore, né parte di un popolo eletto. Questa gente mi ha ospitato, ha dato una casa ai miei avi. Non conosco modi migliori per ricambiare, se non promuovere ciò che è ritenuto perfetto, assoluto.”
L’argento cesellato si fece minaccioso, inclinandosi in un arco subitaneo verso il costato.
“La vostra bellezza mi ripugna.” Berciò, come monito a se stesso, ai suoi istinti, e non al nemico disarmato. “Organizzate deprecabili festini, trattate la vostra carne come una teatrante, o alla stregua di una meretrice. Ah, accettabile, in fin dei conti – tanto basta donare al Tempio metà della rendita in oro di un terreno per ottenere un’indulgenza. Dite... anche vostra moglie è in vendita?”
Saranwe si parò davanti al marito, inondando lo straniero con tutto il suo disprezzo.
“Se non comprendete i nostri costumi, andate via da questa casa. Sgombrate il campo, abbandonate Cheydinhal. Volete un’abiura? Oh, certo – a parole saremo pronti a rinunciare a Talos, coi fatti, però... Non riuscirete ad impedire ai cittadini imperiali di amare un Dio, il loro Dio. Con un fendente di spada e qualche decapitazione non li dissuaderete, semmai, darete loro un motivo per imbracciare l’armi e farvi guerra.”
“Mia cara, va tutto bene. Sono colpevole, e alla fin fine non vi è nulla che possa fare per cancellare l’onta.”
Soldati! Al richiamo di Valermo, Ondolemar e la scorta, a cui si erano aggiunti altri guerrieri, si avventarono sugli ospiti. Indociliti dalle manette incantate, si abbandonarono alla disperazione e non opposero resistenza: li avrebbero interrogati, torturati forse, a meno che non avessero ostracizzato Voranil e rinunciato a secoli di spontanea venerazione. Seguirono l’esercito di altmer fuori al giardino, dove venne organizzata l’ordalia.
“Parla nella mia lingua,” insinuò l’elfo, assistendo inerme alla cattura di Saranwe, “la mia lingua, Thalmor, non la tua. Vuoi uccidermi? E sia, ma non farai mai del male a mia moglie e mia figlia... semmai puntassi la spada contro di loro, il mio spirito e la mia maledizione perseguiteranno tutta la tua genia. È questo che volete, vero? Seminare il terrore, dominarci con una sudditanza mentale e culturale. Sarà così, il nuovo Impero? Suppongo che non ci sia spazio per me, per nessuno di noi.”
Pose le mani in avanti, mostrando il segno della sua prigionia, di una paura incontrollabile che avrebbe contagiato i posteri, il frutto della disfatta.
“Solo per chi s’inchina e chiede la grazia.”
La risposta gli morì in gola. Si piegò in avanti, e non seppe, non volle. Le pupille dilatate fissavano il vuoto, Saranwe si contorse su se stessa e urlò, come se avesse una breccia aperta in petto; come se il corpo esanime sui mosaici le appartenesse; le era appartenuto in una comunione d’amore, in uno slancio di passione; e adesso?
Mia signora... Lo straniero, pronunciando frasi a lei estranee, le sfiorò una ciocca di capelli sfuggita al diadema. L’elfa chiuse gli occhi, e pianse lacrime ancestrali.
“Perché?” Domandò.
“Sarà il suo Dio a dargli la grazia, non io.” Proferì, con quella cadenza aldmeri che già detestava.
“Ho vissuto con lui alla vecchia maniera degli altmer. Senza Voranil, senza mia figlia, io non posso vivere. Uccidetemi...”
Afferrò il mento delicato tra le dita, studiò le guance pallide, le lentiggini sul naso, che prima non aveva notato. Saranwe evitò i suoi occhi gialli, malevoli; la barba e i baffetti oleati e ben pettinati. Scivolò indietro, scaraventando all’aria un vaso di porcellana e una statuina di vetro; mentre Valermo, spianando le ali, si gettava in picchiata verso di lei.
“Uccidetemi!” Lo pregò invano, urtando contro le gambe di una sedia e rannicchiata sulle piastrelle colorate. L’aveva immobilizzata col peso dell’armatura, ogni pezzo era una piuma che si librava in aria, per poi schiantarsi contro il muro di mala grazia.
Sei mia, adesso. Il vecchio ronzino aveva trovato l’amore in una donna che non ricambiava. Presto gli avrebbe dato dei figli, i suoi figli. Come schiava di guerra aveva ben poca scelta.
“Elanilde...” Boccheggiò, schivando una mano e prima che potesse imbavagliarla con un fazzoletto, “Elanilde... Scappa, mia vita. Va’ via!”
“Ondolemar!” Irruppe ancora una volta nel salotto intriso di sangue, e obbedendo al grugnito del superiore, consumò le scale in lunghe falcate. Apriva le porte delle stanze da letto una ad una; ogni cosa tremava attorno alla ragazzina, o forse, era lei stessa a farlo sotto lo scrittoio.
Si accartocciò, nascondendo il capo dietro le ginocchia, era uno scricciolo infreddolito tra la neve. Pregava e piangeva, colta dall’ansia di non poter scappare, di non poter sfuggire alla mano che la stava trascinando via.
“Finalmente ci incontriamo, viso a viso.” Non era una minaccia, quanto una semplice constatazione. Lo straniero la prese per le braccia e la scosse, per strapparle una reazione, ma non accadde nulla. Scostò la lunga treccia dalle spalle, le tirò un buffetto sulle gote umide: Elanilde piangeva, piangeva in silenzio e non fiatava, come una creatura ebete o una bambola di porcellana.
“Dovrò decidere cosa fare con te.” Continuò lui, in una totale mancanza d’empatia. “Non avrai vita lunga là fuori. Sarebbe un peccato...”
Ondolemar sfoderò il pugnale: la fanciulla aveva già chiuso gli occhi, serrando le labbra e digrignando i denti. Non te ne accorgerai, pensava. È solo un attimo, nulla poi avrà più senso.
La treccia cadde a terra, in un tonfo improvviso. Sentì la lama sul retro del corpetto, sulle maniche attillate dell’abito: non indossava più nulla; fuorché la sottoveste, in parte lacerata dal pugnale, e le scarpette di velluto che erano state di sua madre.
“Mi piace la musica,” commentava l’estraneo, nella vita e nel dolore di Elanilde, “e mi serve uno scudiero. Canterai per me di sera, quando i soldati saranno in congedo e noi due soli, in qualsiasi luogo che abbia attorno quattro mura. Ti terrò per questi motivi, e quando non sarai più utile... ti ucciderò”.
La sollevò da terra, portandola in braccio. L’elfa si rilassò, solo per brevi istanti: il silenzio era rotto da lamenti soffocati, singhiozzi che si succedevano l’un l’altro; una fontana rotta.
Poi lo vide: il taglio netto, la carne squillante, lo strazio sanguinolento. Il volto del padre, tanto orgoglioso di lei, raggelato in un’ultima manifestazione di sgomento.
E sua madre, legata e messa a tacere, tra le braccia del comandante Thalmor. Non ci credeva, non voleva crederci.
“No!” Strillò, caricando di pugni il torace dello straniero, dibattendosi come un’indemoniata e desiderando di addormentarsi in un sonno placido, da neonata, per non svegliarsi mai più.
Le avevano strappato tutto: l’affetto, i sogni da adolescente, le speranze, persino la vita.
Tuttavia, nessuno fece caso al cuore ferito di Elanilde, poiché assieme ad esso perse anche la voce. E così avvenne: rimase muta, subendo l’alternarsi di soli e lune per inerzia, augurandosi che presto la spada dei Thalmor sarebbe ricaduta anche su di lei.
 
 

A volte ritornano... presto. Come al solito mischio cose vecchie e cose nuove. Cerco di praticare strade in salita, e forse mi fisso coi personaggi meno simpatici o appetibili (thalmor più adolescente non è molto invitante, lo so... per fortuna, nei prossimi capitoli ci sarà una differenza temporale notevole). Questa storia è nata da una frase che ho scritto in quella che la precede, A wine of character. Se non l'avete letta, non c'è problema. Vi basta sapere solo che alcuni personaggi sono tratti da lì, anche se in questo capitolo c'è solo gente nuova, huh.
Forse sono un po' ripetitiva? Non lo so. Ogni persona ha delle fissazioni, dei temi che ama in particolar modo, ma per quel che mi riguarda cerco (e spero...) di essere originale.
A dopo. :) Non vi preoccupate se non aggiorno presto. Il tempo di documentarsi bene, magari di continuare le altre storie.

 
 
 

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Capitolo 2
*** La prigione di pietra ***


"E forse non è vero amore se ti dico che mi sei la cosa più cara; amore è il fatto che tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me stesso."

Franz Kafka, Lettere a Milena


Visse ancora. Visse per lunghi anni, serbando i segreti nel cuore e benedetta da un immacolato silenzio. Ondolemar si mostrò paziente; del resto, i supplizi peggiori portavano alla prostrazione psicologica, più che fisica; e da una situazione sfavorevole aveva imparato a trarne solo i benefici.
Elanilde trepidava, agognava la forca quanto un premio, una liberazione da quella vita orribile. Provava a proferire una sillaba, ad emettere un suono: la gola era una cavità vuota, talvolta e con grossi sforzi, riusciva a mettere in fila dei grugniti. Aveva imparato ad esprimersi a gesti e, all’occorrenza, metteva per iscritto i suoi pensieri su piccoli brandelli di carta, che allungava ai soldati nel momento in cui l’emissario Thalmor avesse messaggi da recapitare.
Era inutile; come soldato, come scudiero e come servo valeva ben poco. Era ribelle, per giunta: in passato aveva deliberatamente disubbidito agli ordini di Ondolemar. Si era divertita ad attirare la sua disapprovazione: prima o poi ne avrebbe avuto abbastanza, pensava; era pur sempre un elfo algido, severo, con una perenne espressione di disprezzo a deturpargli il volto. Mettere alla prova la sua sopportazione la infervorava in una sorta di rivalsa, avrebbe raggiunto il limite. Anche un’armatura d’acciaio cade a pezzi, se esposta alla violenza insistente del nemico.
Quando si stancava, Ondolemar ricorreva alle corde o alla frusta come se proprio non potesse farne a meno. Metteva così poca convinzione nell’atto da fomentare in lei rabbia e rancore... e non escludeva affatto che, durante quella parodia di castigo, lui ne traesse un sottile piacere.
Lurido porco. Era sempre stata un passatempo, un giocattolo divertente. Ora che era ormai adulta, avrebbe finalmente conosciuto il suo destino. Combattere per Alinor e i Thalmor la disgustava, ma desiderava brandire una spada e darsi da fare, proprio come gli altri soldati della scorta. Non avrebbe mai avuto un posto in prima linea, giacché il giustiziere Thalmor era molto geloso, e mai e poi mai avrebbe accettato che al suo bel burattino si spezzassero i fili. Anni ed anni di servizio non erano riusciti a piegare la sua brama di vendetta: unendosi all’esercito, avrebbe potuto allacciare i contatti con i rivoltosi, oppure diventare una spia fidata per l’Impero, a cui era ancora fedele.
Tempo al tempo. Di sera, Ondolemar si chiudeva nella sala preparata per lui nelle rovine dwemer di Markarth, e si tratteneva lì in un bagno ristoratore. Elanilde era sempre presente, per insaponargli le spalle, massaggiargli i muscoli e sostituire l’acqua tiepida con quella calda, che da un piccolo canale di scolo, dalla vasca fino al bordo della piattaforma, confluiva in uno dei canali interni del palazzo.
L’elfo aveva le sue manie, talvolta assurde. Sosteneva che i Nord fossero una popolazione incivile, dedita a bagordi ed inutili dispute territoriali. Da quando si era trasferito a Skyrim, aveva preso l’abitudine di farsi rasare il capo per scongiurare il pericolo dei parassiti. Ogni cosa attorno a lui era sporca, rozza, immeritevole di considerazione. Aveva preservato le usanze Aldmeri anche lì, e compieva gli stessi riti con una pedanteria asfissiante.
S’inginocchiava di fronte all’effigie in pietra di Auri-el, giungeva le mani e salutava la divinità, bisbigliando a bassa voce dei versi astrusi che non avevano nessun significato per lei.
Benché a pochi fosse garantito l’accesso ad una cerimonia così intima, Elanilde non aveva nulla di cui vantarsi. Anzi, imprecava contro la divinità e la malediceva, sebbene questo avvenisse solo nei suoi pensieri.
Cosa aveva Ondolemar? Il prestigio, il rispetto dei sottoposti, campo libero e potere di vita e di morte sui prigionieri. Poteva fregiarsi di un titolo nobiliare, del successo in numerose missioni... a parte questo, chiunque avrebbe disdegnato la sua compagnia. Un temibile alleato, ma un pessimo amico.
L’acqua scivolava sulla pelle lucida, sul torace irrobustito da anni di allenamento. Elanilde stava ben attenta a non irritarlo e a sfregare la spugna quel tanto che bastava: gli ultimi eventi l’avevano reso d’animo irascibile, per fortuna non l’avrebbe indisposto a parole.
“Elanilde...”
L’elfa drizzò le orecchie: da tanto non la chiamava così. Di solito, in pubblico e temendo di destare sospetti, si concedeva un blando Elanil, nome con cui era conosciuta.
Abbassò il capo, in segno di riguardo, e continuò il lavoro.
“Ho considerato la tua richiesta...” il comandante chiuse gli occhi, valutando ciò che aveva da dire, “so dei progressi alla forgia, di quanto ti stai impegnando. Mi hai chiesto di farti cavaliere... no, non posso concedertelo. Adesso, con troppa umiltà, mi chiedi di assegnarti come armaiolo agli accampamenti di frontiera, non posso concederti nemmeno questo.”
Strizzò gli occhi, scosse la testa: davvero avrebbe trascorso il resto dei suoi giorni a servirlo, continuando a fargli da lacché?
“Forse non capisci.” Spiegò Ondolemar, mellifluo. Aveva imparato ad interpretare ogni alterazione, ogni piccolo movimento del suo corpo. “Sì, molte figlie di Alinor sono al servizio della patria, e sanno difendersi con la lingua e con la spada. E tu? Gli uomini di queste lande sono barbari: l’ambasciatrice viaggia sempre sotto protezione, tu vuoi affrontare chiunque servendoti solo di tanto coraggio. Devo dedurre, però, che non vedi l’ora di andartene da qui... o di farla finita, in un modo o nell’altro.”
Non le importava di essere maschio, di essere femmina. Subiva le scelte altrui da quel traumatico giorno. Da quando aveva perso casa, famiglia e futuro. Senza conoscere la felicità, l’esaltazione, l’amore.
“Mi stai provocando incresciosi fastidi. In panni maschili non hai mai suscitato tanto rispetto... se non ti trattano con fraternità, spesso i soldati si divertono a tormentarti perché sei debole, ai loro occhi. E metterti nelle condizioni di dover assumere la tua identità femminile non è proprio semplice. Ha funzionato in passato, perché pochi avrebbero saputo notare la differenza, ma non ora... non più. È difficile nascondere quel corpo sotto un’armatura, avvolgere i fianchi in un paio di braghe che non rivelino ciò che sei. Vuoi diventare cavaliere, vuoi diventare armaiolo... va bene. Non pensi mai, però, all’altra strada.”
Elanilde sollevò il palmo della mano e stese il braccio in avanti, mimando il lancio di un incantesimo. Ondolemar scosse la testa, e per un attimo sembrò inabissarsi nell’acqua profumata.
“Sì, forse. Sei abbastanza versatile, questo devo ammetterlo. Tuttavia... io avevo immaginato un altro destino, per te.”
Si erse lentamente dalla vasca, in tutta la sua nudità. Quel corpo non era un mistero per lei, ma il fatto che avesse rinunciato così presto al bagno la insospettiva. Sviò lo sguardo, recuperò un telo e fece per avvolgerglielo attorno al bacino.
“No.” Tuonò lui, scostandolo via. “All’inizio volevo che cantassi per me. Sfortuna volle che perdesti la voce... non è questo, però, che mi ha spinto a prenderti. Sì, sei stata utile, sei alquanto abile. Non credo che qualcuno avrà da ridire se ti mandassi via. Se ti facessi sparire, per poi far ritorno nei panni di una gentildonna... ciò che dovresti essere. Dunque: cavaliere, armaiolo, mago. Hai mai pensato, invece, di essere una signora?”
Il telo sfuggì via, cadde in acqua. Elanilde lo raccolse, lo strizzò e si prostrò in mille scuse, sottraendosi alla sua riprovazione.
“Avrei voluto ucciderti e tener fede al monito. Devi vivere, piuttosto, e continuare a farlo. Per me.”
Di tutte le possibili alternative, non ne avrebbe auspicata una peggiore. Sì, la stava uccidendo, ma in modo differente.
“La guerra ha sterminato la tua famiglia, non io.” Osservò, saltando a conclusioni ovvie. “Ogni altmer serve uno scopo: magniloquenza, eccellenza, dominio incontrastato. In quel momento, il nostro era dimostrare agli uomini che hanno vinto solo contando sulla superiorità numerica. Hanno vita breve, queste creature indegne, ma si riproducono come cani. Spargono il loro seme al vento, e Talos è un falso dio. Quello che intendo farti capire, Elanilde, è che non siamo individui, quanto parte di un progetto. Ti ho adottata, e non l’ho fatto per compassione; ti ho mantenuta in vita, e non l’ho fatto per pietà. Mi sono reso conto che stavi crescendo quando hai iniziato a spogliarti lontano dalla mia vista. A cambiare, poi, è stato il tuo corpo. Il periodo di prova è durato abbastanza, non trovi? Per istituirti cavaliere ho bisogno dell’approvazione del Concilio, per promuoverti armaiolo dell’iscrizione alla corporazione. Per diventare una signora... solo di una notte.”
Il tocco dell’acqua calda sulla fronte sudata la fece rabbrividire. Socchiuse le labbra, incapace di esprimere un dissenso verbale, e lui v’insinuò un dito.
“I capelli ricresceranno presto, rinunciamo a questo taglio da paggio. Alla tua età, una donna avrebbe già partorito un esercito di figli, e sarebbe considerata matura. Basta coi giochi, dolce, fedele scudiero. Io...”
Scivolò a terra, scalciò per rimettersi in piedi e abbandonò la camera, la tenuta sotterranea di Markarth. Se avesse potuto avrebbe bestemmiato Auri-el, i suoi servi maledetti, gettato la rovina su Alinor e Ondolemar, quella serpe astuta, quel viscido verme che le le aveva tolto persino la speranza di morire.
Esiste qualcosa per cui non ti sia debitrice? Qualcosa che mi porti lontano da te? Non voglio il tuo amore, non voglio i tuoi figli. Non voglio!
Una delle guardie del corpo la ritrovò nel santuario di Dibella, a pregare davanti l’altare. Non sentì ragioni, e quando le strattonò il braccio capì che conveniva andar via.
Il tempo, lo spazio, le più elementari manifestazioni dell’anima... nulla di questo le apparteneva, neanche il suo corpo.
 
Dormiva ai suoi piedi, come un cane, in un sacco a pelo. Se avesse avuto la voce, avrebbe cantato delle canzoni per conciliargli il sonno, o letto romanzi d’avventure ed altre amenità letterarie per intrattenerlo sino a notte fonda. Gli scaldava il letto con un mattone caldo, batteva i cuscini per renderli più morbidi. Vagava avanti e indietro, accendendo e spegnendo lampade ad olio, candele di sego. E in un presunto attentato, sarebbe stata la penultima vittima dopo i soldati che montavano la guardia.
Ondolemar l’aveva lasciata macerare nel suo orgoglio, o s’augurava che stemperasse lo sbalordimento in una lenta assuefazione alla notizia. Ora che conosceva le sue intenzioni, aveva paura.
Le locandiere, le servette della taverna, parlavano sfacciatamente di certi argomenti. Elanilde si sentiva attratta da qualche viso dolce, dai tratti delicati di qualche commilitone, ma era costretta a rinunciare a un possibile approccio per via del suo travestimento.
Solo lui, e lui soltanto, era a conoscenza del segreto. Era curiosa di conoscere l’amore, di sperimentare ciò di cui parlavano le signorine della locanda con un uomo che non la rifiutasse.
No, Ondolemar non l’avrebbe rifiutata; se si fosse spogliata, truccata; se fosse sgattaiolata nel suo letto e avesse cominciato a baciargli la nuca, l’incavo tra il collo ed il mento. Lo disprezzava, ma il capriccio di una notte valeva come rivincita.
Aveva pochi tratti che considerava piacenti: gli occhi penetranti ed espressivi, di un tagliente verde ambra. Le labbra carnose, larghe, che attenuavano la ferocia del naso imponente, a becco; e la fronte alta, solcata da profonde rughe dettate dall’odio. Non era più il giovane dai capelli lunghi che aveva visto la prima volta dalla balaustra, ma un adulto autorevole, temprato dalle necessità e dalla guerra; fiero e orgoglioso.
Era stato Varelmo, dopo anni di devoto servizio, a nominarlo comandante delle truppe a Skyrim: aveva deciso di godersi gli anni che gli restavano ad Alinor, pianificando le spedizioni militari dietro una scrivania, in compagnia di sua madre. L’aveva amata, viziata con doni preziosi e parole dolci. Le aveva riempito la bocca di prelibatezze; tuttavia, aveva saputo che non riusciva ad amarlo, per quanto egli si sforzasse nel risultarle gradito. Quando il comandante supremo inviava una missiva al suo secondo, si premurava sempre di includere una nota della concubina per la figlia. Ondolemar le allungava le belle pergamene con un gesto sgarbato, livido in viso. A lei non importava, no; non le importava quanto gualcisse il foglio o si mostrasse sprezzante. Sapeva che la invidiava, per la confidenza e l’affetto che a lei soltanto avrebbe rivolto.
Forse per ripicca, o ineluttabilità delle circostanze, la corrispondenza si era interrotta: la rottura coincideva con il fiorire della sua femminilità, o con verità scomode che Ondolemar non intendeva rivelarle. Solo per puro caso, dopo molti anni, aveva saputo che Saranwe era stata costretta a sposare Valermo, e che gli aveva dato due gemelli. Si nascose agli occhi del padrone e pianse, pianse lontana dalla sua vista, per non concedergli l’ennesima vittoria. Pianse, perché non ci sarebbe stato più posto per lei nella vita della madre, e sarebbe stata costretta a dimenticarla per il bene di entrambe.
Ondolemar era l’unico, l’unico ad accoglierla tra le sue braccia. No, non l’avrebbe rifiutata.
Padrone, signore, amante.
Discese le scale e attraversò il corridoio dimesso fino al laboratorio di Cancelmo e del nipote. Il ragazzo era un elfo taciturno, aveva più o meno la sua stessa età e avrebbe fatto strada. Li osservò da lontano, senza intromettersi nei loro affari. L’acqua scrosciava rumorosa, l’assordava con un boato incessante, fastidioso. Attese il momento giusto, quando lo Jarl e il suo consigliere si sarebbero ritirati nelle loro stanze, quando la tenuta sotterranea di Markarth dormiva e le stelle danzavano in cielo, disseminando polvere iridescente in un blu terso, gelido, come i mari di Skyrim.
Era solo. Consumava il pasto serale in silenzio, meditando su chissà cosa. Elanilde s’affacciò alla porta d’ottone e s’inchino, ripetendo un rituale ormai consolidato.
“Sei tornata, ti stavo aspettando. Perché non sei venuta ad apparecchiare?”
Non era un rimprovero, quanto una domanda. Formalmente era lì per servirlo ma, di tanto in tanto, poteva assentarsi e avere un po’ di tempo per lei.
“Cosa c’è che non va?” Soggiunse bruscamente. “Siccome non hai nulla da dirmi, non startene lì impalata. Piuttosto, prepara un bagno... o è questo che intendevi evitare?”
Tenne la testa bassa e s’avvicinò, pian piano, raggiungendo il centro della stanza. Era dubbiosa, interdetta, ma allettata dalla propria audacia. Non avrebbe avuto altre possibilità, non ci sarebbe stato nessun altro accanto a lei.
La verità feriva, era una selce acuminata sottopelle, però... aveva un sapore nuovo.
“Muoviti, hai perso già troppo tempo. Te ne approfitti perché, alla fin fine, sono troppo buono con te. Megera, hai capito che non ti potrei fare del male, sì... hai capito che non ti tengo per servirmi.”
Elanilde socchiuse le labbra, lasciando trapelare un sospiro. Portò le mani al collo e disfece i lacci della casacca informe con uno strattone impacciato. Allargò i lembi dell’indumento, per mostrare la camicia al di sotto. L’inquisitore impiegò alcuni attimi per realizzare cosa intendesse, e sgranò gli occhi.
Le sue dita lunghe e nodose la liberarono senza sforzo da quella costrizione, non le concesse alternative né ripensamenti. La trasse a sé, vicino, troppo vicino. Alzò il mento per incontrare gli occhi dell’altmer, mai come prima le erano parsi così chiari, così vivi.
“Ti aiuto a svestirti, se vuoi.” Anche il tono di voce era cambiato, possibile? “Andiamo nella sala da bagno.”
Scosse la testa, e lui rise. Non lo aveva mai sentito ridere in quel modo, gli sembrava di stare accanto ad uno sconosciuto.
“Va bene, allora. Rimaniamo qui, se ti tranquillizza. Sono contento che sia finita così, io... sono davvero felice.”
Il cuore rimbombava in petto, solo le cascate d’acqua attenuavano quel suono cupo, il presagio di un legame ambiguo, un sentimento nato quando lei era troppo giovane per capire.
“Ho sempre pensato che quella sera mi hai guardato perché il tuo animo infantile rivolgeva a me quella canzone. Non hai più le parole, mio fedele scudiero... un gesto, però, dice tante cose. Solo così avrei potuto giustificare la tua presenza. Solo così ti avrei avuta accanto in ogni momento della giornata, proprio come detta la tradizione. Finalmente posso ringraziare Auri-el, mi ha concesso la compagna che più desideravo...”
I palmi incontrarono la rozza fasciatura, che a stento bastava per nascondere la sua natura femminile. Somigliava alla madre, fin troppo, si era coperta di stracci e di ridicolo solo per ingannare gli altri, ma non lui. Aveva atteso quel sogno snervante, ossessivo, con molta pazienza... e alla fine era stato debitamente ripagato. Le ingiurie contro le divinità aldmeri le si stavano ritorcendo contro, mentre l’altro disegnava le curve dei fianchi con le mani, incitato a farlo da un apparente assenso.
Elanilde non capiva: lo odiava, in quel momento lo stava solo sfruttando, ma si sentiva pervasa dalle sue attenzioni... come se non potesse farne a meno.
“Non sai quanto mi costa, ma... mi devi perdonare. Forse non sono stato gentile in tutto questo tempo, vero? Credevo che mi disprezzassi, e quindi... mi limitavo a recitare un ruolo, ancor più fermo nell’intento di incuterti timore, rispetto. Volevo essere il tuo padrone, perché ero incapace di ammettere questi sentimenti. Per negarli, cancellarli, sminuirli del tutto. Invece, tu mi hai scelto e io... ero troppo cieco per rendermene conto.”
Gli afferrò il bavero della lunga palandrana, e in tremito convulso provò a slacciar via gli alamari, provando a se stessa di potercela fare, sì... di andare oltre le parole e pensare solo all’atto.
Non cambierà nulla, sono tutte bugie. Ti sta ingannando perché è stato lui il primo a farsi avanti, alla sua maniera. Del resto, anche ora, non pensa altro che al profitto personale. Belle parole, per buttare giù il boccone amaro. Usa le tue debolezze contro di te, perché alla fin fine non hai nessuno... c’è lui, solo lui. Inabile ad allacciare qualsiasi rapporto col prossimo poiché perfido, subdolo. Non farti ingannare. Quel sorriso, quegli occhi sinceri, fanno parte della recita...
“Ah, come vorrei che il nostro incontro non fosse uno sterile monologo. Quanto desidero sentire il mio nome, pronunciato dalle tue labbra. Questo può aiutare? Non so... ma ti darò me stesso. Sì, ogni sera ho atteso, e pensavo di aver fallito. Sia ringraziato Auri-el! Ti tratterò bene, lo prometto”.
Pose le mani avanti. Mimò l’aggrovigliarsi di una corda sottile, soffice ma implacabile. Ondolemar restò interdetto, e similmente le sfiorò i polsi, in una risata roca, liberandola da quel ricordo.
“No, quello no. Nella frustrazione era l’unico modo per averti. Ti confesso, però, che mi piace. Non come questo, però...”
L’elfo chiuse gli occhi, e cercò le sue labbra, le sue guance. Sentì la barba improfumata contro il mento, i polpastrelli induriti dal metallo elfico. Ricambiò goffamente, ma non le importava. Sembrava che non fosse un problema: amava decidere, quindi l’avrebbe di certo compiaciuto.
Ogni volta che provava a scostarsi, lui rideva e la stringeva forte, facendo scivolare le mani dalle spalle al fondoschiena. Troneggiava carponi su di lei, contemplandola da capo a piedi. La spogliò ancora, e lei s’abbandonò fino a quando... fino a quando riaffiorò alla memoria l’immagine di quella violenza, di sua madre che dava piacere allo straniero. Colui che l’avrebbe costretta a sposarlo, perché le signorine della taverna erano sciocche, e lei era stata ancor più stupida a cadere nel tranello.
Mia signora.
Gli occhi vitrei di Voranil, l’insaziabile libidine di Valermo. La divisa Thalmor e l’animo sordo ad ogni protesta.
“Elanilde?”
Pianse, e raccolse in fretta gli abiti, pezze di poco conto. In un turbine di angoscia, ansia e dolore, si rivestì in fretta mentre Ondolemar la seguiva in silenzio, per venirle incontro.
Voleva urlare, maledire il mondo e se stessa, ma non riuscì. Disprezzava la cultura dell’opportunismo, della dominazione e della prevaricazione mentale. Apparteneva ad una stirpe infida, crudele. Sebbene fosse cresciuta a Cyrodiil, e avesse adottato i costumi imperiali, l’avrebbero odiata per ciò che rappresentava. Per ciò che era stata costretta a subire.
“Non lasciarmi adesso, Elan.”
Sorda alla preghiera, si voltò e serrò la pesante lastra d’ottone; i bassorilievi nel metallo e la grana fine della pietra erano punti confusi, figure sfocate che annegavano tra le lacrime.
Quando finirà questa sofferenza?
Si tuffò in acqua con addosso gli abiti. L’avrebbe purificata, lo schiaffo delle piccole onde sulla pelle le avrebbe fatto dimenticare la follia di quella sera, l’affetto represso di Ondolemar che veniva alla luce in un manto di carezze.
Vigliacco. Come tutti loro, sei solo un vigliacco.
E chiuse gli occhi, sotto una cascata di ghiaccio.
 
“Sembra che abbia ingoiato il fiele, stamani. Certi capi-guerrieri della mia gente sembrano cuccioli infidesi, a confronto. Abbaia e ringhia contro le guardie, avresti dovuto sentirlo, Elanil. Non dirmi niente, ma a volte non capisco voi elfi.”
Si pulì il sudore sulla manica, mentre sotto il martello la lama incandescente si piegava al volere dell’abile fabbro.
“Passami le tenaglie, ragazzo... ecco, sì. Adesso va meglio. Dovrebbero essere tutti come te, muti e laboriosi. Non volermene a male, quella che per alcuni è una mancanza, per me è un tesoro. Niente chiacchiere inutili, niente giri a vuoto. Perderò un bravo aiutante quando andrai via, me lo sento. A me non importa, straniero o no, se l’acciaio è ben lavorato e le rifiniture sono fatte ad arte, chiunque va bene.”
Elanilde sorrise. Moth-gro Bagol aveva contribuito a migliorarle la vita a Markarth, il tempo passato alla forgia erano momenti in cui non le toccava prestare servizio come paggio. Ai doveri militari badavano i soldati, lei si occupava di dar da mangiare ai cavalli e provvedere ai bisogni del comandante.
“Quando si dice svegliarsi col piede storto...” Grugnì l’orco, piegato a riscaldare le braci. “Per gli Otto Déi, dovrebbe bere di più. Gli farebbe bene una sbornia, magari diventerebbe più allegro e ci lascerebbe in pace. Odio il frastuono... mi basta lo scoppiettare del fuoco, lo stridore del metallo sulla mola. So qual è il problema, ragazzo. Troppo lavoro e troppi uomini.”
Moth-gro Bagol le indirizzò un’occhiata esasperata.
“A volte serve per dissipare le energie,” spiegò, mantenendo il tono duro e trattando l’argomento come un dato di fatto, “ma a me non interessa. Una brava donna, onesta e lavoratrice, è il cardine per garantirsi una discendenza, per trovare comprensione ed invecchiare insieme. No, niente sordidi giochetti. Sai qual è la differenza... più stanno in alto e più si divertono. Posso capire la prigionia, i lavori forzati... ma la schiavitù, ragazzo? Un orco serve solo se stesso!”
Le dita sottili, sul telaio da conciatura, si muovevano veloci e nervose. Elanilde ondeggiava il coltello, infliggendo alle pelli lo stesso trattamento che avrebbe riservato ad Ondolemar, se fosse stata realmente un soldato. Anche la sua presunta inoffensibilità faceva parte del meccanismo di controllo ordito dall’inquisitore.
Il tempo passato alla fucina le dava un senso. Si trattenne fino a notte inoltrata, per cercare di evitare il padrone e sgattaiolare subito a letto, levandosi poi all’alba, prima del risveglio di Markarth.
Uno dei segugi dello Jarl le venne incontro, e si mise ad abbaiare facendole le feste: la fece cadere a terra e prese a leccarle il viso, contento di poter giocare con l’unica persona che non gli impartisse ordini, che gli offrisse qualcosa in più rispetto ad una ciotola colma di avanzi.
Lampo! Seduto, forza... altrimenti mi scopriranno!
Balzò in piedi poggiandosi sulle mani, mentre gli accarezzava il pelo tra le orecchie. La guardò con occhi tristi, riluttante a lasciarla andare.
Forse solo lui capiva quanto fosse difficile esprimersi e non avere la parola. Erano simili, dannatamente simili, perché lei stessa era il cane di Ondolemar.
Raccattò un rozzo telo da lavoro, se lo mise addosso a mo’ di mantella: guardandosi in giro, circospetta, eluse la sorveglianza delle guardie – statue marmoree sulla pietra della tenuta – e discese rapida gli scalini verso i quartieri bassi, ormai teatro di litigi ed omicidi per il controllo della città.
Era disposta a correre il rischio, perché erano le corde di un liuto ad attirarla alla locanda, legate alla sua natura così sensibile ad ogni nota musicale.
“Elanil, che ti succede? Sembri triste, va tutto bene?”
Ogmund le concesse un saluto gentile, mentre Frabbi le allungò un boccale di succo di mirtilli con fare complice. Si accomodò accanto al fuoco, di fronte il vecchio bardo, sentendosi finalmente risollevata.
Sfavillii arancioni marcavano le linee frastagliate sul suo viso, scolpendo i suoi lineamenti come una statua abbozzata nel legno. Le allungò il liuto, senza che se ne accorgesse; Elanilde se lo ritrovò sulle ginocchia e ne sfiorò le corde, riluttante a cedere.
“Avanti, suona. Non dirmi che hai dimenticato come si fa.”
Scosse la testa, aveva paura. Qualcuno poteva vederla, poteva scoprire il segreto; non quello che covava dentro da anni, ma un indulgenza troppo piacevole, troppo pericolosa. Giocava con un passato malandato, i ricordi. Non aveva più la voce, ma le note cantavano dentro di lei: così tradiva Ondolemar, senza che lui sapesse, per negargli l’unico piacere che avrebbe motivato la schiavitù e riacceso la parte di se stesso negata dietro un’uniforme.
Quella che a lei negava sotto abiti maschili.
 
Se le avesse ordinato di spogliarsi davanti a lui, di slacciarsi la tunica e stendersi sul letto a pancia in giù, non avrebbe avuto la stessa soddisfazione. Non avrebbe mai avuto la conferma che, dopo anni di controllo forzato e impliciti inviti a concedersi, lo scudiero ricambiasse tanto ardentemente. Era fuggita via, solo perché indossava gli abiti Thalmor: come poteva perdonarsi una tale svista? Non gli restava che rimediare.
Era affiorato tutto all’improvviso: quelle parole, il desiderio immutato dalla prima volta che aveva incrociato il suo sguardo. La dolce Elanilde; ingenua,  spaurita... sarebbe stato diverso, quella notte. Avrebbe battuto un ultimo colpo di martello sul chiodo che da anni era conficcato nel legno, tra la carne. Non sarebbe riuscito ad immaginare una tortura più dolorosa.
L’inquisitore passò la mano sui capelli corti, appena ricresciuti. Le incuteva timore, e a dirla tutta non faceva molto per migliorare la situazione. Cosa mai aveva visto in lui? Si era risolto ad attenderla, una volta smontato il turno alla forgia. Aveva indossato un abito di seta cangiante, di una tinta indaco scura e preziosa; si era oleato la barba chiara, di un biondo quasi bianco, e aveva disegnato sul volto i marchi della nobiltà di Alinor. Le si poneva innanzi come se avesse a che fare con la divinità. Era sempre stata una pari, la considerava tale, ma aveva bisogno di mantenere la stretta, per non mostrare alcuna debolezza.
Sarebbe scappata via, in quel caso... e non poteva permetterlo. L’elfa era più importante di quanto immaginasse, la proteggeva per proteggere se stesso, per salvaguardare i frammenti della propria individualità. Era un’appendice del Dominio, un servo, la cellula di un organismo che doveva nutrire e far sopravvivere a tutti i costi, col sangue e le risorse mentali. Elanilde era una concessione, un pensiero eversivo... ancora per poco. Valermo l’aveva addestrato bene, intendeva agire esattamente allo stesso modo: la necessità di sposarsi, di dare una discendenza alla famiglia... deboli scuse, per nascondere la verità.
Si alzò, spazientito: nel frattempo si era dedicato alla corrispondenza, alla gestione delle truppe per setacciare le zone rurali di Skyrim; aveva addirittura cominciato a leggere un racconto di fantasia su una casa stregata, col risultato di sentirsi ancora più indisposto.
“Dov’è il mio scudiero, il mio servo...” Sibilò le ultime parole quasi stesse sputando del veleno. Le guardie non si chiesero perché fosse in abiti da cerimonia, accennarono un inchino e cominciarono le indagini, quasi come se il ragazzetto altmer fosse una specie di criminale incallito. Uno di essi tornò, proprio quando Ondolemar stava per indossare il mantello e risolvere lui stesso la questione.
“È alla locanda, signore.” Annunciò Girdaren, un giovane dai capelli color cenere e gli occhi grandi, sotto addestramento per diventare un mago guerriero. “In compagnia di un anziano bardo. L’ho visto... L’ho visto attraverso i vetri della finestra, mentre suonava il liuto.”
“Il liuto, dici?” In quel momento pensò solo a se stesso, al presunto oltraggio, a ciò che avveniva fuori e dentro le mura. Avrebbe avuto l’imbarazzo della scelta: cosa lo aveva ferito di più? Sapere che la schiava aveva appreso qualche arpeggio di nascosto; o essere ridicolizzato, per il semplice fatto di avere lei, solo lei; di conoscerne la vita anche nelle minuzie superflue, come un albo di illustrazioni spaginato?
Aveva la bocca impastata, la rabbia che risaliva dall’interno. Si tuffò tra le strade spiraleggianti di Markarth, poi la vide. Stava improvvisando una melodia allegra, e rideva, rideva di buon cuore.
Un piede s’abbatté sulla porta e la spalancò all’improvviso: Ogmund alzò gli occhi, dalle dita di Elanilde congelate in un accordo alla fronte madida dell’elfo alto. Entrambi si scrutarono da lontano, il vecchio skald dalla sedia; l’altro sulla porta e coi denti scoperti, pronti a strappar via la carne.
Sapeva che sarebbe arrivato, quel momento. Elanilde si contrasse sullo strumento, quasi a proteggerlo, temendo che le venisse sequestrato per vederlo sparire in tante piccole schegge. Provò ad alzarsi, a giustificarsi, a raggiungere l’elfo.
“No.” Ogmund le si parò innanzi, aveva intenzione di difenderla, ma non poteva immaginarlo. Per lui era solo ciò che dimostrava di essere, un ragazzino senza speranze obbligato a servire.
Ondolemar lo ignorò e strisciò in avanti, lentamente.
“Perché mi hai mentito?”
Lei scosse la testa. Aveva detto mille volte a se stessa di avere il coraggio per affrontarlo, per rivelargli quanto lo disprezzasse. Sì, l’aveva costretta alla menzogna: voleva evitare che le lezioni di musica venissero contaminate dalla mortificazione di ogni giorno.
“Dimmi perché l’hai fatto.” La sua voce secca, una folata di vento improvvisa. “Hai degli obblighi nei miei confronti, e te ne vai a bighellonare. Ti ho aspettato... a lungo. Muoviti, vieni via, stupido ingrato. Faremo i conti altrove.”
“No.” Ebbe il coraggio di sfidarlo. L’elfa trattenne le lacrime e invano cercò di suggerirgli, a gesti, di lasciar stare. Era una prova d’affetto; Ogmund non aveva eredi e le aveva insegnato tutto ciò che sapeva, per lui era il figlio che avrebbe desiderato crescere. Forse per questo andavano d’accordo, insieme si completavano a vicenda. Erano quasi una famiglia.
“È solo un ragazzo.” Osservò lo skald, rammaricato. “Ha anche voglia di imparare qualcosa di diverso. Signore, vi prego...”
“È il mio servo, e da prigioniero di guerra qual è, deve ricordare che ogni giorno in più è solo frutto della mia benevolenza. Non è un ragazzo, ma un individuo a cui ho risparmiato la vita perché io ho voluto. E adesso, vecchio, tu stai lì a berciarmi contro proprio perché il Dominio Aldmeri ha deciso di risparmiarvi. Oh, sì... sono molto tollerante. Tollerante, proprio perché conosco la mia forza.”
“Non mi aspettavo altro da quelli come te, nemmeno il rispetto per un individuo della stessa stirpe.” Dichiarò Ogmund. “Sarebbe troppo facile, troppo umiliante... troppo simile a te, giusto? Non me la conti giusta... c’è qualcosa nel tuo sguardo, nella tua rabbia smisurata. Come se ti avessero preso il cuore per gettarlo nel profondo del mare”.
Con la sua saggezza secolare e le parole semplici, schiette, il bardo aveva stanato la volpe. Lo aveva costretto a uscire allo scoperto, a rivelare l’anima oltre il freddo conforto dell’ideologia. Ne usciva a pezzi, nella credibilità e nell’orgoglio... ma i pensieri vagavano, in un momento ben preciso.
Elanilde cantava, gli riempiva la mente di note. Ondolemar aveva dimenticato quanto i suoi accordi fossero sgraziati, la voce insicura e malferma sull’accompagnamento musicale. Eccelleva negli studi magici, però aveva il cuore chiuso alle emozioni. Lo spartito era un codice da decifrare, una reazione alchemica di toni alti e bassi... non aveva talento, e quando il maestro di musica lo aveva cortesemente invitato ad investire le energie in un’attività che mettesse a frutto la sua viva intelligenza, una corda si era spezzata.
Forse per questo desiderava la serva, nel fisico e nell’anima. Voleva assorbirne la vitalità, il fervore.
E la musica era tornata, in maniera differente, ad eccitare i sensi.
Un fiotto di sangue gli colorì il volto.
“Non lascerò questo affronto impunito, bardo. Stai attento: ti seguirò ovunque, non lascerò cadere la cosa e presto ti pentirai di aver parlato troppo. Sono un alto funzionario dei Thalmor, gli araldi di un nuovo ordine...”
“Una superiorità, un predominio che si fonda su fumosi preconcetti.” Lo interruppe Ogmund, secco. “Vai, Elanil, e stai sereno. Qualunque cosa io abbia fatto, sappi che è per il tuo bene.”
L’elfa si lasciò trascinare dalla mano salda del padrone, trattenendo a stento le lacrime. Rivide le scale illuminate dalla luce corposa delle torce, le porte di metallo dietro di lei, la lunga ascesa verso le stanze maledette... sapeva cosa l’attendeva, e non pensava a nulla, solo alla fine della tortura.
L’accompagnò in camera da letto, la fece sedere dietro un tavolinetto di ottone e pietra.
Un malloppo di fogli alla rinfusa, un calamaio riempito a metà e una penna di falco spuntata.
“Scrivi.” Ordinò Ondolemar, senza mezzi termini. “Ti farò delle domande, tu risponderai. Voglio sapere tutto, adesso.”
Non aveva scelta: le dita tremanti si avvolsero attorno alle morbide frange piumate e raggiunsero il pennino. Intingere la penna senza macchiare il foglio le costò uno sforzo immane.
“Chi è quell’uomo... quando l’hai conosciuto? Da quanto tempo va avanti questa storia?”
Mesi, scrisse Elanilde, senza altre spiegazioni.
“Perché non ne sono stato informato? Dunque, questo facevi in attesa che m’assopissi... scappavi via, andavi alla taverna e prendevi lezioni dal bardo. È per la tua voce che ti ho voluta... credevo che fossi incapace di produrre musica, invece non è così. So che significa, non mi devi giustificazioni.”
La punta sbeccata indugiò a mezza aria. Un rivolo d’inchiostro sembrava riversarsi sul foglio, ma la domanda seguente non le concesse attenuanti.
“Era meglio che continuassi a mentirmi, non è così?”
Volevo che non mi rovinaste l’unico piacere che mi è rimasto in questa vita.
Sentì la guancia gonfiarsi in un colpo secco, spietato. Elanilde urlò: non era il veleno, non era la magia, ma faceva ugualmente male.
“Ti sei divertita a farmi cadere in ridicolo, non è così? Ti ho aspettato per ore... credevo che fosse la divisa il problema, invece mi odi. Mi odi con tutte le tue forze.”
Non vi era motivo per negare.
Sì, vi odio. Vi odio perché non mi avete lasciata a morire. Vi odio perché mi avete precluso ogni via di fuga, imprigionandomi con questo travestimento. Vi odio perché siete un codardo... un gioco di potere, ecco cos’è, lo scudo dei vostri sentimenti. Sentimenti che non ricambio: per me eravate un oggetto, così come io lo sono per voi. Ero solo curiosa, e siete un uomo. No, non vi amo perché non mi avete mai dato ragioni per farlo.
“Idiota. Ti ho protetta, ho fatto in modo che avessi la libertà... la vita. L’ho fatto per te, non capisci?”
Solo una cosa ho capito: c’è una frattura in voi, un dolore che avete cercato di dimenticare, ma è vivo. Evoca pensieri negativi, frustrazione, inferiorità... sensazioni che scacciate via. Un fanatismo totalizzante, un ideale abbracciato per stare a posto con la coscienza. Non ho più parlato perché non ne ho avuto bisogno, e voi non avevate bisogno di dolcezze, di gioia. Non so più nemmeno come si faccia a cantare... e lo stesso vale per voi. Disillusione ed arroganza hanno avuto la meglio, non sapete amare.
Lo schiaffo si trasformò in una carezza.
“Ti ho salvata perché volevo proteggere me stesso. Ti prego, suona per me... suona per me, col liuto, la melodia del nostro primo incontro. Suona... voglio provare di nuovo quelle emozioni.”
Elanilde acconsentì: non poteva dar voce alle note, ma dentro di sé le parole fluivano in un guizzo di acque felici. La figura dell’inquisitore si piegò, si lasciò andare in un sospiro beato. L’elfa non perse la concentrazione, chiuse gli occhi e ogni corda vibrava in un gesto calcolato, sapiente.
Un fruscio di crespo, la stoffa cangiante a terra in un mulinello spiraleggiante. Non sapeva cos’era a darle il brividi, forse il sudore freddo, forse le nocche ossute di lui che percorrevano la curva delle sue guance.
“Non lasciarmi solo, Elanilde.” Pronunciò ancora, slacciando la camicia di cotone grezzo.
Sbagliò tono.
“Questa non è una punizione.” Sussurrò, cercando le sue labbra. “Ritroveremo noi stessi, in questo modo.”
Le sembrò di impazzire, di morire strangolata da una forza estranea, violenta. Elanilde prese a boccheggiare, a rantolare come un animale impazzito; dalla gola fuoriuscivano suoni rasposi, ma comprensibili.
“N...n...No.”
Ondolemar si ritrasse con la costernazione in volto.
“D’accordo.”
Aveva parlato. Quale sentimento l’aveva spinta ad infrangere anni di silenzio? La paura o l’incertezza?
“Ciò che voglio è che tu riprenda a cantare, che la trasformazione avvenuta in te possa essere invertita. Stammi accanto stanotte, ti prego. L’ho sempre desiderato...”
L’elfa scosse la testa, ancora incredula per aver dato voce ad un debole dissenso. Crollò sul suo giaciglio, così com’era vestita. Così come aveva sempre fatto, ogni notte della sua vita.
I letti di Markarth erano scolpiti in pietra, la realtà... la realtà, però, era più dura da accettare. Sarebbe sempre stato prigioniero di quell’identità che si era creato.
Esiste una divinità che può offrirmi il suo cuore su un piatto d’argento? Se sì, la invoco... chiunque essa sia. E contribuirò a glorificarla, qualora possa concedermi questa grazia!
Era quello che voleva sentire, finalmente era stato costretto dall’esasperazione... o dalla necessità?
Sam sorrideva, mentre riscaldava sullo spiedo carne fresca di capra appena cacciata. Markarth avrebbe accolto a braccia aperte la sua dolce ancella, che osservava il fuoco scoppiettante con sguardo stanco e assente.
“Manca ancora tanto, allora?” Domandò l’elfa oscura, con la veste che lasciava intravedere il misterioso intrico di tatuaggi a decorarle gli arti morbidi e flessuosi. Il mago bretone sorrise, fingendo di non cogliere l’allusione.
“Non ancora... c’è del sangue che cola sulle braci, ma ceneremo presto, mia cara.”
“Intendo per Markarth, briccone! Non ho idea perché tu mi abbia costretta ad intraprendere un viaggio così lungo... mi avevi promesso di aiutarmi a far luce sul mistero dei draghi, invece...”
“Porta pazienza, Dorisa, mia amata.” La blandì lui, con fare suadente. “Ogni cosa a suo tempo, voi mortali davvero perdete il senso dell’attesa, per certe cose.”
L’avrebbe detto anche all’elfo che si struggeva a qualche lega di distanza dal campo di fortuna allestito lungo la strada, sulle pendici montane.
“È un luogo meraviglioso per un tempio, accanto alle rovine dwemer, magari. Presente e passato, impulso e razionalità. Tutto così romantico.”
“Al momento, la cosa più romantica a cui riesco a pensare è il mio stomaco pieno, dopo settimane di cammino.” Commentò la maga, rannicchiandosi sul sacco a pelo.
“Sei diventata venale, non va affatto bene...”
Due braccia forti e muscolose l’attrassero a sé, a giocare con le orecchie a punta dell’elfa oscura erano un naso a punta, lungo e ben disegnato, le labbra sottili e nere che spiccavano su un volto tatuato.
“No, non ora!” Dorisa si scostò, stiracchiando un braccio verso lo spiedo e il catino in cui bolliva una zuppa vegetale. “La cena! Di sicuro si brucerà tutto.”
“Oh, certo... ma non puoi ignorare la passione che brucia dentro di me, bambina mia.”
“Padrone...”
Insistere in certi momenti era una battaglia persa: sarebbe rimasta a stomaco vuoto, Sanguine non aveva mai capito che, da mortale, doveva soddisfare anche appetiti che non fossero di un certo tipo.
Sbuffò, spazientita, ma ricambiò l’abbraccio.
“Va bene... se non fosse che la città è a poca distanza, e molto probabilmente sarà un’attesa breve...”
“E non solo per te...” Soggiunse il principe daedrico, lasciando la questione deliberatamente in sospeso.

 

Come al solito le scuse non bastano mai, qualcosa c’è da dire, però... ho sfruttato il primo giorno di “vera libertà” da tutti gli impegni per finire il capitolo che vegetava da mesi nella mia cartella dei documenti. Cerco di semplificare, di tentare nuove strade, di “modernizzarmi”. Mi dispiace per l’eccessiva mielosità di questa parte della storia (e anche per la lunghezza), ma dovevo dar senso a troppe cose. Ho reso Ondolemar un personaggio “in 3D”: non so se giocando avete avuto la stessa idea, ma per me era decisamente bidimensionale. Quale poteva essere la sua storia, il suo passato? Perché ha un carattere così scontroso, introverso? E come dare senso ad Elanilde? In passato, le donne costrette ad indossare abiti maschili lo facevano per sicurezza personale, per ottenere maggiori diritti o per affrontare situazioni durissime, come guerre e lunghi viaggi. Anche per nascondere la propria identità: è la reputazione di Ondolemar ad essere in discussione, quindi uno scudiero di sesso maschile genera meno pettegolezzi, senza contare che in questo modo “la vera Elanilde” è morta, come dovrebbe essere. Spero che mi seguirete ancora in questa storia un po’ particolare, forse insolita rispetto alle altre. Grazie per aver letto, e se avete dei pareri sarei felice se poteste condividerli con me! :)

 

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Capitolo 3
*** Segreti ***


Avevo le abitudini dell’infanzia solitaria, di inventare storie e discorrere con individui immaginari: per questo penso che, sin dall’inizio, le mie ambizioni letterarie fossero diluite con l’impressione di isolamento e disistima. Ero cosciente di avere una predisposizione per la parola e il potere di affrontare realtà spiacevoli: sentivo, quindi, di aver creato attraverso queste capacità una sorta di mondo a sé stante in cui avrei trovato rivalsa per i fallimenti della vita presente.

George Orwell, Perché scrivo

 
Spinse il portone di bronzo con la pianta del piede, gongolando per la voluta mancanza di rispetto. Una guardia affrettò il passo e volse a lato il cimiero, palesemente irritata ma con altre beghe a cui pensare.
“Cos’era questa, un’entrata ad effetto?” Commentò Dorisa, lasciando cadere bisacce e fagotti per adagiarsi lungo la muraglia della città di granito, “Per favore, non rendere tutto più difficile. Siamo forestieri, in un periodo di guerre civili, di prodigi arcani, e tu... e tu...”
“E io cosa?” Belò Sam, grattandosi la testa. I campanellini cuciti sulla manica della camicia tintinnavano rumorosamente, attirando l’attenzione di speziali, rigattieri e potenziali clienti nella piazza del mercato.
“E tu... hai deciso di vestirti in un modo assurdo, da buffone di corte!”
“Non dirmi che non è appropriato,” ghignò Sam, sfoderando uno dei suoi sorrisi più candidi, “tu stessa me l’hai detto, la prima volta che hai scoperto il mio reale aspetto. E poi ero stanco, bambina mia, di mantenere un profilo basso. Non pensi che, invece, la sacerdotessa di Sanguine abbia bisogno di una compagnia... colorata?”
“Certo, il modo migliore per farsi piantare una freccia dritta in petto, a piedi di distanza...”
“Sei sempre così prevenuta e razionale...” Sbuffò il mago bretone, studiando da lontano la prima insegna a sinistra. “Mm... Locanda Sangue d’Argento. Gente pratica questa qui, che apre un punto di ristoro proprio davanti l’unico ingresso...”
“Be’, rende tutto più semplice.” Cinguettò Dorisa, accollandosi volentieri le borse sulla schiena per l’ultimo sforzo della mattinata. “Mi devi una cena, zietto. Oggi offri tu!”
“D’accordo,” sbottò Sam, fissando in tralice la macchia scura che deturpava il grigio elegante del lastricato scolpito. “abbiamo tempo a disposizione, e credo che questa città si rivelerà presto per quello che è senza troppi sforzi da parte nostra”.
Nel vedere i due stranieri, abbigliati in modo eccentrico ma di sicuro estranei agli ultimi accadimenti, Frabbi tirò un sospiro di sollievo. Mai sarebbe arrivata a pensare che i continui rimbrotti del marito fossero il male minore, ma dopo aver assistito alla scenata della notte precedente aveva preso a sopportare Kleppr con rinnovata rassegnazione. Ogmund non era ancora passato a trovarla, e a buona ragione. Solo i Divini erano al corrente di quali astruse rivendicazioni aleggiassero nelle menti dei Thalmor, come se i Rinnegati non fosserò già abbastanza.
“Benvenuti, posso esservi d’aiuto? Avete fame, sete?”
“Fame!” Urlò Dorisa, facendo trasalire Kleppr che lucidava i boccali dietro il bancone. “Ehm... sì, gradirei davvero mettere qualcosa sotto i denti.”
“Siete nel posto giusto.” Frabbi li invitò a sedersi con un gesto affabile, e porse ai due viandanti dei teli umidi, intrisi di essenza di lavanda, e due bicchieri colmi di latte appena munto. “Qualcosa di rinfrescante, per scacciare la spiacevole calura estiva. Ecco, un omaggio della casa. Per il resto abbiamo frutta di stagione e caramellata, pasticcini al miele, succo di mirtilli e involti dolci...”
“Prendo un po’ di tutto, tanto offre lui.” Dorisa disfece le cinghie alle braccia e adagiò il mantello sullo schienale della sedia. Nello scorgere le fronde e i petali di rosa che formavano un morbido tappeto sulla pelle dell’elfa, la donna strinse gli occhi.
“Kleppr può darvi tutte le informazioni di cui avete bisogno,” si limitò ad aggiungere, indifferente, “perdonatelo se è un po’ brusco, Markarth non è una città che accoglie bene i viaggiatori. Lo conosco bene; non è cattivo, ma...”
“Tranquilla.” Dorisa socchiuse le labbra sporche di latte e briciole. “Amalo per quello che è, lui lo sa... ti vuole bene.”
“Per qualsiasi cosa ci sono i ragazzi, se volete prendere una stanza chiedete a mio marito.” Sorrise Frabbi, rincuorata.
“È così divertente vederti dispensare perle di saggezza.”
Sam se ne stava a braccia conserte, con le spalle al muro e i piedi poggiati sulla sedia di fronte. Nutrirsi era un vezzo: preferiva tracannare vini e liquori che gli capitavano sotto tiro e non accusava un colpo, perché era la sua natura immortale a sostenerlo.
“Vuoi averla vinta in qualche modo, soprattutto se hai il conto sulle spalle. Devi ancora dirmi perché hai insistito tanto a venire fin qui. So delle rivendicazioni dei Rinnegati... però, a parte questo, qual è il nostro scopo?”
“Non voglio rovinarti la sorpresa. Diciamo che, sotto la facciata lustra, Markarth nasconde delle belle gatte da pelare. Rimarremo per qualche settimana, c’è una casa abbandonata nei dintorni... meglio restare nella locanda. Risolveremo dopo la faccenda.”
“Ma...”
Sam Guevenne pose un dito sulle labbre carnose, anticipandola com’era solito fare.
“Ha a che fare con i draghi, te lo assicuro. Suvvia, pasticcino mio, ascolta zietto e piantala una volta tanto di fare troppe domande. Non hai idea del rumore che fanno quando si sovrappongono l’una sull’altra... essere un principe daedrico ha anche dei lati negativi, sai?”
“Mmh.” Sanguine poteva essere davvero subdolo, specie se voleva convincerla ad assecondare le sue richieste a tutti i costi. Aveva un atteggiamento cortese e premuroso, ma le disparità si notavano nel momento in cui lei si atteneva al ruolo di ancella, e lui a quello del potente immortale in vena di scherzi e strampalate imprese.
“Spero che tu non abbia scelto questa città solo perché le stanze delle locande hanno le porte.” Osservò Dorisa, affranta. “A volte fatico a comprenderti, sul serio... ti voglio bene, però mi sento estranea...”
“Resisti ancora, mia cara.” Sam le posò un bacio sulla guancia. “Non è detto che durerà a lungo. Forse ti lascerò assaggiare un po’ del mio potere, ma ogni cosa a suo tempo...”
“Sì, per ora mi è toccato assaggiare ben altro.”
Sam ondeggiò una mano – quella che non giocherellava con le trecce scure di Dorisa – e Kleppr si gli si parò avanti, ancora intento a ripulire un boccale.
“Dimmi, buon uomo, quali sono le nuove nei dintorni.”
“Nuove? Puah. Sempre le solite storie... attacchi da parte dei rinnegati, nel bel mezzo del mercato. Draghi liberi di scorrazzare per Skyrim. Stando alle parole dello Jarl, però, la città può resistere agli assalti dall’alto e al respiro infuocato di quelle bestiacce infernali. Ah, e i Thalmor nella Tenuta, sempre col benestare dello Jarl. Avrei chiesto ad Ogmund di allietarvi con della buona musica, sapete, è un esperto. Se non fosse per quel dannato elfo, a fare scenate a notte inoltrata, con le guardie sempre all’erta per chicchessia. Un servo fuggiasco, a quanto pare, anche se quel ragazzetto ha l’aria spaurita di chi non farebbe un passo senza il consenso del padrone. Elfi alti? Bastardi che se la prendono coi più deboli. Mi raccomando, se andate alla Tenuta, portate i miei saluti a quell’idiota, mi sta facendo perdere un sacco di clienti”.
Il locandiere sputò sul vetro, poi passò lo straccio. Dorisa inclinò il capo, sconcertata.
“Ho intenzione di pormi al servizio dello Jarl... e farò in modo di aiutarvi, per quanto possibile. Diteci solo dove sistemare le nostre cose, andremo immediatamente.”
“Buona fortuna!” Sbottò Kleppr, girando sui tacchi e indicando di seguirlo verso l’ala sinistra dell’edificio, dai soffitti alti e umidi.
Dorisa non aveva mai visto nulla di simile: come Morrowind, anche Skyrim era disseminata di fortezze dwemer con impianti meccanici e automi a vapore funzionanti. L’idea di sfruttare un intero museo a cielo aperto a beneficio della popolazione, però, l’affascinava ed incuriosiva.
Arrivarono alla residenza dello Jarl senza chiedere indicazioni. Gli stendardi sventolavano fieri, accompagnati dal soffio del vento, sugli stipiti di un enorme portico. Dorisa scostò le porte d’ottone, altrettanto imponenti, ed entrò timorosa. In quei momenti non era l’ancella di Sanguine, ma l’allieva del Collegio di Winterhold, dove aveva passato alcuni anni prima del fortuito incontro col sovrano di mille baccanali.
“Parlerò con lo Jarl, dovrà concedermi udienza!” Un uomo in armatura, consumato dagli anni e dalla rabbia, urlava con tutto il fiato in gola di fronte ai gendarmi, decisi ad ignorarlo ad oltranza.
Brutto segno, pensò Dorisa. La fortezza era cupa anche di giorno, illuminata da poche fiaccole che accentuavano l’odore di muschio, acqua stagnante e polvere sedimentata lungo l’interminabile corridoio.
Un debole bagliore la conduceva in alto: Sam la seguiva, i campanelli sulla camicia di seta blu e rossa tintinnavano incessanti.
L’ampia camerata era priva di mobili, in completo abbandono: il tempo sembrava essersi fermato dalla scomparsa dei dwemer. Vide un tavolo di pietra e alcune sedie in abete solo dopo la ripida rampa di scale: la servitù e il signore del luogo avevano altro a cui pensare.
Se i draghi avessero attaccato, la Tenuta Sotterranea sarebbe diventata un’implacabile fornace ardente.
“No, lasciatela passare... lei e il buffone.”
Sam si curvò in un baldanzoso inchino; l’elfa oscura, invece, ruminava le ultime parole di Jarl con la mente ottenebrata da un’unica sensazione, l’edificio non era altro che una prigione.
Una donna Redguard, dallo sguardo altero e con la spada sguainata, indietreggiò. Il comando aveva sortito effetto anche sul resto della scorta, che si dileguò per tornare alle postazioni d’ordinanza.
“Finalmente ci incontriamo, elfa.” Biascicò Igmund, ruvido lui e ruvida pure la voce. “Sei Thane di Winterhold e Whiterun, ti chiamano Sangue di Drago, ma per ottenere tali titoli verrai messa alla prova, qui a Markarth. E i tatuaggi... ne conosco l’autore.” Il sovrano storse il naso. “La città gode della protezione degli Otto Divini, non dei Daedra. Bada a chi offri i servigi, sacerdotessa. Non tollero dissolutezze in città.”
“Vi provocherò quanti meno fastidi possibili.” Sussurrò Dorisa.
“E fareste bene.” Sam aveva cominciato a scimmiottarlo sotto uno sguardo sussiegoso, e per farlo smettere aveva dovuto menargli una gomitata sulle costole. I cani dello Jarl si unirono alla sua dolorante protesta, imitandolo in un ululato collettivo.
Chi la fa l’aspetti, aveva pensato la sciagurata. A bocca chiusa, ma era in grado di sentirla.
Gliel’avrebbe fatta pagare quella sera stessa... la locanda Sangue d’Argento non era l’unica con le porte, delle tante in cui avevano soggiornato?
“Perdonate il giullare... è molto vivace.” Dissimulò l’evidente imbarazzo con un gesto educato. “Aspetto ordini, mio Jarl. Mi troverete da Kleppr, semmai aveste bisogno.”
Li congedò con un cenno e non pronunciò altre parole. Mentre si allontanavano, Sam aveva notato che l’irriverente scenetta aveva attirato degli spettatori indesiderati. Forse l’ancella era troppo impegnata a mantenere le pose da gentildonna per notarli, invece lui ne aveva percepito la presenza.
“Qualcuno verrà a farci visita.” Sogghignò il bretone, dimenandosi più del dovuto per indispettire ulteriormente gli occupanti della sala. Il continuo trillare dei campanelli le stava entrando nel cervello, quando avrebbe smesso la recita?
“Oh, finché mi va, cara. Sto solo cercando di aiutarti: fa parte del piano, tutto questo caos ha un senso. Posso solo anticiparti che cesserò di ammorbarti con questo assillo continuo, non appena il nostro ospite si deciderà a far tacere l’ultimo sprazzo di reticenza rimastogli. Carissima, sono tutti nelle stesse condizioni: sotto il mio dominio di piaceri e rilassatezze. Alla fine, quando decidono di gettare al vento i crucci morali, cedono all’impeto che agita il cuore, che bagna gli occhi... e pure il cavallo dei pantaloni. Be’, resistere per anni, con qualcosa che tende la stoffa in mezzo alle gambe non è proprio salubre, però...”
“Sam!”
“D’accordo, principessa, niente discorsi sconci che ti fanno arrossire.”
“Non ho idea quale piano tu abbia ideato, come faremo ad uscire dal caos. So solo che i sensi diventano doppi, quando pensi qualcosa...”
“Sono un tipo dalle mille risorse.” Un gruppo di elfi alti, in lontananza, aveva origliato l’intera conversazione. Thalmor: scorbutici, paranoici, terribilmente frustrati... probabile che uno di loro finisse a rimpinguare il branco già folto di seguaci dediti ad organizzare baccanali e a finanziare il nuovo tempio.
Soprattutto se c’erano un amore contorto in ballo, desideri repressi e una sana tensione morbosa a rendere l’aria viziata.
 
Ah... se tutto quello fosse stato un parto di Mephala, o un lurido tiro di Molag Bal, avrebbe avuto un valido concorrente. Un elfo alto, costretto a convivere con rimorsi e oppiacei ricordi. Il presunto sdegno verso l’ancella era evidente per un mortale, però un signore dell’Oblivion è in grado di andare a fondo, di scavare nella fossa comune dove erano sepolte le ossa di antiche pulsioni.
Ecco, del materiale valido su cui lavorare: delusioni cocenti, ossessioni laceranti. Il costante timore di non essere all’altezza, di non meritare la reverenza di una creatura tanto complessa e fragile.
La chiamava Elanilde, per lui era un’idea. Nascondeva, tuttavia, una sensualità repressa: l’elfa in sé non aveva nulla di seducente, tutt’altro. I sempliciotti Nord venivano soggiogati da un bel paio di seni, dalle mani operose e dal numero di mucche nella stalla di una donna. Invece, quest’elfo non aveva bisogno di consigli... di incentivi, piuttosto, ad abbandonarsi a quella follia. Solo l’etica morale, più forte in lui della passione, aveva evitato che l’avesse ai suoi piedi quella sera stessa in cui era divenuta di sua proprietà.
Fin dove poteva arrivare la paranoia? Vestirla da uomo, per averla accanto a sé, per provare un brivido di eccitamento continuo. Per vivere alla vecchia maniera altmer, perché in verità era sua, solo sua.
Tutto ciò di cui lo avevano privato, mandandolo alla scuola d’addestramento, lo rivedeva in lei. Gli sembrava di tornare indietro nel tempo, quando era solo un misero sbarbatello con tanti complessi e gli occhietti bassi e timidi. Un turbinio di nubi evanescenti, figure che rimbalzavano l’una sull’altra: la voce dura del maestro di canto, il pugno chiuso sul ponte del liuto, lo stridio degli anelli contro le corde.
Rassegnati, non è per te. Dipende da me salvarti dal servizio per Alinor? No, non addossarmi una responsabilità tale. Non sei fatto per la musica, torna sui libri, Ondolemar. Hanno scelto per il tuo bene, compensi in entusiasmo ciò che difetti in lungimiranza. Segui i loro consigli, figliolo, hanno ragione.
Non più spartiti, ma tediosi schemi di reazioni alchemiche; il continuo sferragliare di spade metalliche contro scudi ed armature. E una volta, e una volta ancora.
Quanta tristezza, ti ci vuole davvero una botta di vita, ragazzo.
Sam sorrise.
Li avrebbe seguiti di soppiatto, per combinare un incontro con la sacerdotessa.
 
Aveva corrotto una delle guardie dello Jarl a suon di monete trillanti, accompagnate da un bel barile di idromele. Il soldato, con la discrezione tipica del mestiere, faceva la ronda della città e spiava il vecchio bardo, per scoprire in quali altri luoghi Elanilde lo incontrasse, nutrendo in segreto la speranza che forse, forse...
L’ansia infondata rivelò, comunque, dei risvolti che né lui né il coscritto avevano saputo prevedere.
Protetto da un presunto anonimato e dalla complicità insperata del borgo, Ogmund aveva ingenuamente proseguito le passeggiate quotidiane, le visite alla locanda. Parevano svolgersi nella massima tranquillità, eppure vi erano dei momenti in cui gli occhi cisposi si voltavano indietro, abbacinati da un timore inspiegabile.
Virava verso stradine secondarie, cambiava percorso. Si schermava dietro un muro, all’ombra di un’arcata contornata da muschio verde giada. E poi svaniva nel nulla, ma la guardia sapeva cosa nascondeva il porticato stagnante.
La porta arrugginita, dimenticata, di un santuario ancora in piedi: era inammissibile che la statua fosse ancora lì, a prender polvere. Invece, da una crepa sul soffitto i fuochi dell’Aetherius illuminavano la superficie d’ebano, si prendeva gioco di tutti i proclami e le leggi su cui era spillato sangue.
“Talos!” Sibilò Ondolemar, quando la guardia fece rapporto. “Dunque, la porta è stata scassinata, ed è lui a porgere fiori sull’altare. Deve essere fermato.”
Giorni d’attesa ripagati bene, ma la guardia era tentennante. No, non spettava al ragazzo denunciare, come a lui sapere. Aveva bisogno di uno sconosciuto, un forestiero... peccato che l’ultima arrivata fosse sparita tra le montagne, alla ricerca di un vecchio cimelio appartenente ad un antenato dello Jarl.
In un’attesa durata anni, pochi giorni costituivano una differenza infinitesimale. Sperava che Elanilde non fosse coinvolta, che il bardo le avesse risparmiato il lamento degli indegni. L’aveva condotta sulla strada giusta, facendo sì che dimenticasse la follia imperiale, la divinizzazione di un uomo empio.
“Procurami un’armatura.” Gli ordinò, ficcandogli nel pugno una borsa d’oro ancor più colma.
“Signore? Ne avete un paio, delle migliori, a vostra disposizione.”
“Non una come le altre... come la tua.” Sorrise Ondolemar, puntando un dito verso di lui. “Sì, hai sentito bene. Mi sarà utile... per addentrarmi laddove non mi è possibile. Devo capire se mi sta ingannando, se mi sta tradendo, se... Vai via, ora. Fammi avere ciò che voglio entro stanotte, fa’ in modo che nessuno se ne accorga... non tardare”.
La corruzione, dunque, non era un cancro che affliggeva soltanto la provincia Imperiale. Una famiglia da mantenere, un piacere da appagare... era talmente facile scrostare la patina di correttezza dalla volontà di un militare. Molti lo fanno per l’impeto di un momento, perché non hanno scelta.
E lui non era certo superiore, in attitudine e liceità, poiché stava infrangendo le regole per sedare una mania che lo stava consumando.
Quale posto rimaneva, ora che erano stati scoperti alla locanda, ora che sapeva tutto?
Finì per occupare le ore serali allo stesso modo. Si era convertito alla finzione, indossava il mantello per celare al di sotto l’inganno. S’augurava che Elanilde fosse ingenua, sprovveduta... a tal punto da sfruttare la sua assenza per raggiungere Ogmund al tempio. E anche se fosse stato così, avrebbe continuato ad amarla. Ingenua e sprovveduta, sì... ma pure caparbia, appassionata, leale ai suoi principi.
Non a lui, purtroppo. Il padre defunto; la madre ormai lontana, ignara della sorte della figlia; la casa nel Nibenay e il culto paesano di Cheydinhal. Dibella, Mara, Arkay... Talos.
Stava reclamando il contrappasso per le profanazioni in nome degli dèi di Alinor, quel re del passato, vecchio condottiero, che tanto insistevano ad annichilire.
Classico itinerario, nuovo proposito: Ondolemar abbandonò il mantello e indossò l’elmo, vagando per Markarth fino a raggiungere il santuario. Si appostò nell’ombra, sarebbe stata solo questione di un’attesa. Di minuti, ore... se la fede fosse stata forte, l’avrebbe condotta lì, tra le sue braccia.
Il portone s’aprì, e la riconobbe subito per l’andatura, non per il sorriso e il desiderio d’infinito che brillava nei suoi occhi.
Elanilde aveva acquistato dell’incenso, con la mancia che Moth-gro Bagol le concedeva per il lavoro alla forgia. Giunse le mani e cadde in ginocchio, nel silenzio rassicurante. Per Ondolemar, solo la prova di ciò che aveva cercato di negare da anni.
Sbucò fuori dall’ombra: la ragazza non ebbe modo di udirlo, non immediatamente. Solo quando si fece vicino, minacciosamente vicino, capì chi si trovava lì ad attenderla. Saltò in piedi, ritraendosi in un gemito. Non servì raggiungere la porta, non più: il guanto di acciaio le stringeva i polsi, opporre resistenza non l’avrebbe aiutata.
“Continui ad ingannarmi, ad agire nottetempo e a nasconderti, topo insolente. Quindi, questo sarebbe il tuo Dio, qui vieni a pregare, vero? Perché rifiuti ciò che è bene per te, perché?”
Un interrogativo, poi la risposta. Nemmeno lei aveva intuito fino a che punto si spingesse la sua follia.
Amore mio, è me che devi pregare, adesso. Le parlava in Aldmeri, calcando le sillabe in maniera stucchevole. Odiava quanto fosse vezzosa quella lingua, le ore spese inutilmente ad apprenderla.
Sai come ho intenzione di sconsacrare questo luogo? Sai come? Non c’era bisogno di spiegarlo, la bocca di Ondolemar le suggeriva tutto. L’elmo a terra, come una pentola ammaccata. La vecchia corazza su di lui, penzoloni, mentre le infilava le dita sotto la camicia.
Non costringermi a farlo, Alinor è lontana e so bene che sarebbe più saggio spedirti lì. O assicurarti all’Ambasciatrice. Non posso fare a meno di vederti, di toccarti... ti darò i maestri migliori, ti insegneranno le canzoni delle Isole, e a disegnare fiori che diano anche l’idea di un profumo. Se solo la smettessi di mettere alla prova la mia clemenza. Non sono un mostro, Elanilde. Posso amarti, sai? Non sono un mostro...
Era pericoloso, però... e arrabbiato. Con le unghie le solleticavava la pancia, la curva dei seni non più fasciati. Fu invasa dalla vergogna, stesa di fronte al dio che era andata a pregare.
Salvami, gli chiedeva in silenzio. Dalla furia, dal calore che scivolava sulla pelle, in gocce di sudore.
Talos le stava di fronte, muto quanto lei.
L’avrebbe lasciato fare. Se serviva ad addolcire la solitudine, a rabbonirlo e non vederselo più alle calcagna, aveva tutto da guadagnare e nulla da perdere. Prima o poi sarebbe successo.
Elanilde chiuse gli occhi e tastò la polvere, in un completo abbandono. Una volta giunta alle isole Summerset, cercare la madre sarebbe stato facile. Era ancora viva, si ricordava di lei?
Finse un trasporto che non provava. Gli punzecchiò la barba, scorse la linea della mascella virile fino alle clavicole. Meglio imparare subito a recitare, ad essere una concubina come lo era stata Saranwe, fin quando...
“Elanil! Ragazzo mio, tu...”
La preghiera era stata accolta ma no, non voleva che la vedesse in quello stato. Non tra le sue braccia, non in quel luogo...
“Vecchio.” Sibilò Ondolemar, scivolando via mezzo nudo e con un falso sorriso. “Eri atteso, quindi? Mi spiace, sono arrivato prima.”
“Se me l’avessi rivelato... io ti avrei protetta, a tutti i costi.” Le lacrime di Elanilde si mischiavano al lamento del bardo. Non aveva il coraggio di guardarlo, di affrontarlo... tanto la situazione era chiara. Cos’era lei, se non una prostituta? “Ti avrei aiutata ad evitarlo. Signore, volevate umiliare me per mezzo della ragazza? Oh, perché?”
“Perché lei è mia.” Sotto la luce delle torce, il corpo dell’inquisitore brillava come quello di una statua d’oro. “E io sono tutto per lei.”
“Sarete tutto quando la lascerete libera.”
Non tollerò altre parole, altri indugi. Le lacrime sgorgarono dagli occhi, ma non un singulto la scosse. Coprendosi con un lembo della camicia, si alzò per raggiungere l’altare e per prostrarsi fino a terra.
“Elanilde, alzati.” Ondolemar la spinse via, per una caviglia.
“L’amore della tua donna è per il Dio, non per Alinor... non per te.” Lo schernì Ogmund. “E ora cosa farai, Inquisitore? Denuncerai me e la ragazza? Oh, no... la risparmierai invece, ma io attenderò la vendetta. Sempre se hai abbastanza fegato per esporti, per venire allo scoperto coi tuoi abiti... non mascherato come un assassino.”
“Tu le hai inculcato questa follia!” Sbraitò l’elfo.
“Qui ci siamo incontrati, qui siamo divenuti amici. Ti abbiamo ingannato? No... è il tuo popolo che s’inganna, che nega ad altre genti il richiamo del cuore. Eri troppo cieco, ma posso comprenderlo... in fondo, sono stato giovane anch’io e l’amore... porta a far vedere cose che non esistono. Porta alla pazzia, perché tale è il movente che ti ha spinto a mancare di fiducia. La ami, dunque? Liberala dalla schiavitù... e vedrai che tornerà da te”.
Lo Skald discese le scale, e si chinò per cullare Elanilde. Tremava, sotto le sue mani. Aveva la certezza che quando non era lui a consolarla, erano gli dèi a farle da padre.
“Sei stata brava, sai? A fingerti uomo per tutto questo tempo. Su, va tutto bene.”
Asciugò via le lacrime, lo guardò per l’ultima volta negli occhi. Aveva intuito cosa cercasse di spiegarle.
Sarebbe stata l’ultima preghiera. L’ultimo incontro, poi l’addio. Sì, lo avrebbe rivisto tra le stradine di Markarth, solo per evitarlo e cancellarlo dai suoi pensieri.
Gli strinse la mano, prima di raggiungere il comandante. Gliel’avrebbe fatta pagare in qualche modo. Aveva provato a volergli bene, era troppo in difetto, però. Troppo in là nella gelosia, nel terrore.
“Cercala ancora e giuro, avrò la tua testa.” Sogghignava beffardo, nel delirio della vittoria. “Dille una parola, vedrai che non ci sarà occasione per discutere ancora. Conosco il segreto, scappa via, sei ancora in tempo.”
“Dimentichi, Inquisitore, che anch’io conosco il tuo.” Ribatté Ogmund. “Falle del male, ci metterò poco a farti cadere in disgrazia. A quanto pare, lo Jarl ti digerisce perché rappresenti un compromesso, un mezzo per assicurarsi il quieto vivere. In realtà, per gli altri sei un boccone amaro”.
Se ne andò a malincuore. Sottrarre il dio allo scempio dell’altmer era la cosa migliore da fare, ma era solo. Non avrebbe osato sfiorare la ragazza, ormai era al sicuro. Conosceva lgmund: era un subdolo opportunista, un voltagabbana quando si trattava di volgere le situazioni a proprio favore. Di fronte a un pretesto altrettanto valido, la reazione non si sarebbe fatta attendere.
Aveva guerreggiato, sfidato contendenti abili quanto lui in battaglie di forza e intelletto. In minoranza, in reato... certo. Tuttavia, Talos l’avrebbe sostenuto. Gli avrebbe sussurrato di tollerare, di armarsi di onore e pazienza, perché è forte anche colui che accetta, nella perdita, la sconsideratezza del proprio accusatore.
Una risoluzione, sì... se l’augurava per tutto il bene che le portava. Il Dio sapeva cosa c’era nel suo cuore, di sicuro l’avrebbe apprezzato. Anche se non ci sarebbero stati più né incenso né fiori. Anche se tutto, da quella notte in poi, sarebbe stato più difficile. Non poteva dire, però, che le cose fossero semplici a Skyrim. In effetti, non lo erano mai state.
Giunse le mani e affrettò il passo verso casa.
 
Sullo scudo morivano le deboli luci delle candele, la piacevole frescura dei fiumi sotterranei. Stonava con lo sporco sui volti, con le armature di cuoio e placche intrise di fango e sangue. Aveva i capelli che somigliavano al pelo incrostato di un cane sotto la pioggia, non batté ciglio e avanzò verso la rampa, verso il seggio dello Jarl.
Quasi ebbe un mancamento: la prima cosa che Igmund notò fu lo scudo, bello come gliel’avevano descritto, come ricordava in una lontana immagine. Dorisa lo stringeva davanti a sé, un po’ per riverenza, un po’ per risparmiarsi la vergogna.
Il proprietario si sciolse in mille ringraziamenti, in promesse che valevano quasi il disgusto provato mentre ficcava nella gola dello sciamano una lama d’argento. Sam si era divertito a deturpare i corpi, ad aprire un sorriso sui volti irosi dei Rinnegati. Che scempio n’era stato.
Il Padrone aveva avuto un’idea geniale nel presentare lo scudo in ghingheri, e i due combattenti come due cenciosi reduci.
“Ti concedo l’onore di acquistare una proprietà a Markarth.” Sentenziò Igmund, rimirando il manufatto. “E il titolo di Thane, sacerdotessa. Resta il fatto che i tuoi... consulti dovranno rispettare il decoro della città.”
“Mio Jarl.” Cinguettò Dorisa, adoperando le ruffianerie insegnatele da Sanguine. “La mia vita è girovaga e ahimè, per me una nuova residenza sarebbe un piacevole tesoro, nient’altro.”
“Rimarrete qui a corte e usufruirete dell’ala ovest, allora. Farò montare dei tramezzi all’ingresso delle rovine dwemer, e pulire la zona più sicura. Avrete dei letti di legno, e dei bauli per riporre le vostre cose...”
“Per fortuna!” Sghignazzò Sam. “Non ci tenevo affatto a dormire ancora su un letto di pietra!”
Igmund represse un colpo di tosse e proseguì.
“Anche la pietra vive, qui a Markarth. È un peccato che tu non possa apprezzarla, altrimenti saresti poeta, e non buffone.”
Non provare a dire altro, non farlo... ti prego! Ogni tanto le tornava utile farsi leggere il pensiero. Sam abbassò le braccia e chiuse la bocca, cercò le sue mani. Dorisa la strinse.
“Ah, gli sciocchi sono sempre i più fortunati.” Rise lo Jarl, porgendole una spada incantata. “Almeno accetta questa, sacerdotessa, come segno della mia riconoscenza. D’ora in poi sarai cittadina di Markarth, e ti sarà concesso il rispetto che il titolo comporta. Anche se... no, non potrò finanziare il tempio. Cerca altri mecenati, Thane, perché io non oso legare il mio nome ad un opera così... controversa.”
“Il principe è paziente, mio Jarl. Non obbliga i seguaci con la forza, ma lascia che essi lo scelgano.”
“Ne sono lieto.” Li salutò con lo stesso cenno. Dorisa aveva imparato che certe espressioni, certe pose dure, rappresentavano la personalità dello Jarl ma non la fiducia, la soddisfazione verso i propri vassalli. Come la statua di un antico eroe, dalle fattezze dure e arcigne, ma dall’indole condiscendente.
Igmund le aveva assegnato una montagna di nome Aegis, un uomo brusco, dalla voce bassa. Montava a guardia davanti la porta, spesso perlustrava le gallerie iniziali delle rovine per assicurarsi che nessun ragno velenoso, o di fattura dwemer, sconfinasse nel piccolo dormitorio. Bastava il rumore di un passo leggero, o un vocio concitato ad attirarli verso la parte alta della costruzione. Per fortuna, il corridoio appariva desolato, proprio come lo Jarl l’aveva descritto.
“Controverso, io? Puah. Questi Nord, in realtà, sono tutti spilorci. Ho fatto bene a scegliere te.” Ammiccò Sam, posando il pollice e l’indice sul suo mento.
“Una studentella sotto le mentite spoglie del Sangue di Drago?”
“No, una dunmer.” La interruppe, sussurrandole la frase in un orecchio. “Se siete stati capaci di costruire per Azura un altare talmente maestoso... diamine, il mio potrebbe eguagliarlo in grandezza. E in abbondanza di risorse!”
“Oltre a doppi sensi, ti prodighi anche in secondi fini...” Sussurrò Dorisa, prendendo posto su un pilastro monco e attendendo che i garzoni finissero di sistemare la loro nuova casa. “Ci penso, a volte. Ho lasciato Azura, Winterhold. Mi sono gettata nell’avventura, dando conto ai sentimenti che nutro per te. Come sarebbe stata la mia vita, se non t’avessi incontrato?”.
“Mm. Noiosa?” Suggerì Sam, massaggiandole le spalle. “Sto mantenendo la promessa. Di starti vicino, ovunque tu vada. Non dirmi che vuoi già gettare la spugna, signorina. Di solito non prendo mai cantonate.”
“Sono stanca.” Confessò le proprie emozioni a mezza voce. “Ho vagato e vagato per Skyrim. Credevo di poter sopravvivere a tutto ciò, di poter tollerare gli sguardi obliqui dei paesani. La parte timida e solitaria che è in me reclama la casa, la sedia davanti al focolare e il nostro amico peloso steso sul tappeto. Mi sto rendendo conto di non esser fatta per le grandi cose, piuttosto per la vita semplice.”
“E allora?”
“Allora... be’, Sam. Non mi sento all’altezza, nonostante i tatuaggi, la Rosa, le imprese eroiche e questa immagine da amazzone che mi hai cucito addosso.”
“Neanche la compagnia di un principe daedrico ti alza l’autostima? Sei davvero strana... per questo mi piaci.”
“Non sono strana... sono solo mortale.”
“Ah, certo... me ne stavo dimenticando.”  La pausa di un respiro. Non le diede tempo di raccogliere i pensieri, di mantenere la linea ché subito cambiò argomento. “Di’ un po’... non è che forse ti serve una cameriera? Una confidente, o una specie di fratellino da accudire? Non hai mai avuto molti amici, Brelyna e gli altri... forse hai riso, scherzato con loro... però, ora che non ci sono, potresti soffrire la solitudine.”
“E tu... non pensi di esser abbastanza, Sam?” Da tanto tempo non parlavano in quel modo. Sembrava che tutto fosse tornato ai vecchi tempi, quelli al Focolare Gelido, davanti ad una crostata di bacche e una pinta di birra. “Alla fine, se ho accettato di seguire il destino, l’ho fatto anche per te.”
“È questo che mi spaventa... sei sensibile, altruista.” Commentò, facendosi serio tutt’un tratto. “Una parola sbagliata e mi sarò giocato tutto.”
“Perché pensi che voglia abbandonarti? Stai parlando come se dipendesse da me. Come se fosse possibile rinnegarti.”
Sì, poteva farlo, e in qualsiasi momento. Più il potere del Sangue di Drago cresceva, più la volontà di Dorisa trascendeva le cose mondane. A Martin Septim era accaduto lo stesso: illegittimo figlio dell’Imperatore, prima sedotto da una vita di sregolatezze, poi il pentimento, l’abbraccio di Akatosh.
Era sempre un drago a vegliare sulle sue malefatte...
“Signora, abbiamo finito.” Tuonò una guardia dal marcato accento dell’ovest. “Tutto a posto. Lo Jarl offre vivande, carta e inchiostro, cuscini e lenzuola pulite. C’è bisogno d’altro?”
“A dire il vero... sì.” Squittì l’ancella, saltando giù dal pilastro. “Una domestica, se qualcuno in paese è disponibile. Non mi aspetto d’esser inondata di richieste, so come funzionano le cose quando si ha a che fare con qualcuno come me.”
“Vi temo, Signora... più per sentito dire, ma alla fine siete a posto. Volete un consiglio? C’è Hroki, la figlia del locandiere. Cairine, purtroppo, è troppo malata per lavorare... ma se volete fare comunque una buona azione, quell’elfo, lì... quello che somiglia a una donna. Come si chiama? Elanil. Un povero diavolo, lo schiavo dell’Inquisitore. Lavora tutti i giorni alle fucine, però, stando a quello che mi ha detto la fantesca, che ha origliato di nascosto una conversazione mentre passava a lucido davanti la forgia, non ha un gran futuro.”
“Perché? Non lo conosco... e pure se fosse, un giovane così laborioso sembra una brava persona.”
“Ah, certo. Ora l’Inquisitore lo tiene segregato nella Tenuta perché gli ha disobbedito. Non fa altro, quindi, da mane a sera. Batte il ferro, lo fa raffreddare, ribatte il ferro... sapete come funziona.”
“Vorrei parlargli, se è possibile.”
La guardia rise della grossa.
“È questo il problema, muto come una tomba. Lo vedo bene nella sala dei defunti, ha il contegno giusto per imparare il mestiere.”
“Lo faccia chiamare.” Insisté Dorisa, mentre Sam la fissava, intento.
“Ci posso provare, ma non garantisco successi. Parlate con l’Inquisitore, sempre se riuscite a superare la scorta e la propaganda politica dei Thalmor. Buona fortuna!”
Voltò le spalle, e assieme a lui sgombrarono il campo altre tre guardie. Da lontano li osservarono andar via, mentre alle narici giungeva un odore di acqua calcarea, muschio ed esalazioni alchemiche dal laboratorio del ricercatore altmer, poco più in là.
“Buona fortuna... è la seconda volta che me lo dicono, qui a Markarth. E comincio a pensare che sia ironico.”
“Capisco, lo Jarl non s’è mostrato collaborativo. Senza contare che, secondo me, non sa nulla di draghi. Oh, Sam... non comprendo perché dobbiamo rimanere ancora qui. Stiamo solo perdendo tempo.”
“Ah, no.” Il bretone le girò attorno, piantonandosi di fronte. “Dimentichi il tuo lavoro, cara. Stasera avremo visite.”
“Cosa te lo fa pensare?” Dorisa saltò sulle scale e gli fu accanto, con la fronte aggrottata e un broncio d’irritazione. “Anche se avessimo acquistato Vlindrel, lo Jarl avrebbe fatto in modo di tenerci chiusi dentro... o di renderci inoffensivi. Non te ne sei accorto? Si fida, però teme che gli portiamo lo scompiglio in città. Preferisce, forse, che i cittadini sudino giorno e notte nelle miniere. O che i Sangue d’Argento non si mischino a clan altrettanto influenti, con chissà quali alleanze matrimoniali. Questi hanno il cuore di pietra, altro che notti di piacere...”
“Sciocca.” Sam si pulì le unghie con un fazzoletto attorcigliato su se stesso, esasperato. “Togli la libertà ad un individuo... ingabbialo dietro le sbarre delle regole. Sottraigli il tempo, dagli i soldi necessari per procurarsi di che vivere, senza frivolezze... e avrai l’ambiente ideale per pascere un gregge di gozzovigliatori. Per questo i piaceri migliori non sono alla portata di tutti, o meglio... faccio in modo che non lo siano. Altrimenti, tutto scadrebbe nella noia.”
“E un tipo come me, una finta seduttrice, è l’ideale per richiamare file e file di spettatori...”
“Sono un buffone di successo.” Ghignò Sam, cacciandosi il fazzoletto in tasca. “Avanti, finta-cattiva-ragazza, vatti a preparare. Fai in modo che tutto sia organizzato per benino, e soprattutto, con naturalezza. Credo che il nostro ospite, stanotte, avrà un paio di segretucci da confessare, e aiuto da offrire. Ogni cosa ha un prezzo, però... e certe informazioni non crescono sugli alberi”.

 

Mentre scrivevo Il sonno della belva ho terminato anche questo capitolo. Be', diciamo che l'introspettività è la stessa... sarà il periodo.
Momento di transizione, perché dovevo spiegare la rabbia di Ondolemar verso il mondo e verso il povero Ogmund, in qualche modo. Almeno avere dei motivi plausibili per rendere l'odio tra i due reciproco, non solo ideologico. Siamo ai livelli della malattia mentale, forse, ma un inquisitore come lui, tutto frasi fatte e misteri, non me lo immagino così equilibrato. 
E più spazio a Dorisa e Sam... ho saltato la descrizione delle battaglie contro i Rinnegati perché ai fini della storia era inutile. Ehm, ammetto che questi paragrafi sono infarciti di chiacchiere, ma non sono un riempitivo. 
Piccola precisazione di turno: se scrivo altre storie, non intendo lasciar perdere quelle già in corso, anche se sono in standby per un po'. Se non continuo una storia in particolare è per ragioni personali, però, questo non esclude che io intenda portarle a termine. So che un atteggiamento simile può dar fastidio e alla lunga provocare frustrazione... mi auguro che chi mi segue continuerà a farlo, anche se non riesco a concentrarmi su una sola cosa per molto tempo. In verità, nella mia mente, ogni storia ha un inizio, uno svolgimento e una fine. Sono già complete, il problema è scriverle. Purtroppo, anche se ho le idee, esprimere un concetto non mi è poi così semplice. Più che altro è una questione di concentrazione, o di essere "dell'umore giusto". Il regalo migliore che posso farvi, quindi, è pubblicare i capitoli quando so di dare il massimo ed essere all'altezza delle vostre aspettative. Il tempo che mi dedicate per la lettura delle storie è prezioso, io posso ricambiare solo in questo modo. :)
Anche se sono cose scontate, ci tenevo a ribadirle. A presto! :D

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Capitolo 4
*** Un gufo che voleva essere un usignolo ***


 "Mia cara, nel bel mezzo dell'odio ho scoperto in me un invincibile amore. Nel bel mezzo delle lacrime ho scoperto in me un invincibile sorriso. Nel bel mezzo del caos ho scoperto in me un’ invincibile tranquillità. Ho compreso, infine, che nel mezzo dell'inverno vi era in me un'invincibile estate. E ciò mi rende felice. Perchè afferma che non importa quanto duramente il mondo mi vada contro, in me c'è qualcosa di più forte, qualcosa di migliore che mi spinge subito indietro."

 Albert Camus




“I polsi.”

Allungò le braccia, riluttante. La rabbia era palese sul suo volto inclemente. Di colpo le sembrò più vecchio, più afflitto. Costretto a svolgere uno dei tanti lavori sporchi che spesso gli toccavano, ma non quello, no. Non la tortura.

“I polsi, Elanilde. Sai che non l’avrei mai voluto, sai cosa ho cercato di dirti. Continui a dar di matto, a ribellarti inutilmente. A che serve, poi? Ti ho trattata bene. Non avresti mai accettato che, come tua madre... sì, sai cosa avrei potuto fare, ma ho chiuso un occhio su certe follie. Adesso basta.”

Stavolta non pianse, continuò solo a dargli filo da torcere scalciando e tentando di morderlo mentre le infilava la corda tra le gambe, ribadendo le sue ragioni a testa alta. Ah, se doveva accadere meglio che fosse lui. Se doveva accadere, meglio che sapesse cosa provava realmente. Rabbia, impotenza? Sarebbe stato discreto, veloce. Forse, il suo amor proprio avrebbe accusato un duro colpo.

Il codice morale era più importante... c'era da aspettarselo.

“No, non ti ucciderò.” Ondolemar strinse poi un nodo, reprimendo un ringhio tra i denti. “Meriteresti la pietà di Mara, come le prostitute, ma non arriverò a tanto. Passerai il resto delle notti qui, nella mia stanza e ai piedi del letto. Posso rischiare di far trapelare dicerie sul tuo conto? Che lo scudiero dell’Inquisitore e l’apprendista armaiolo Thalmor sia un fervente fedele di Talos? Oh, no.”

Elanilde trattenne un sorrisetto ironico. Dopo tutte le brutture a cui aveva assistito, credeva ancora che fosse lei quella ad aver bisogno di redenzione? Che sciocchezza, come la vecchia vita altmer a cui aspirava: chissà quanto doveva esser bella per il suo vecchio mentore di sciagure, e quanto piacere doveva provare la madre nell'averlo tra le braccia.

“Non potremmo essere più diversi, ma c’era d’aspettarselo... io, con un’elfa Imperiale. Qualcuno che considererei un antico o potenziale nemico. D’accordo, se Auri-el lo permette. Non riesco ad odiarti, e tu non riesci ad amarmi. Potrebbe essere più difficile di così?”

Scosse la testa e crollò sul pavimento. Nessuna collera da parte sua, solo la fredda razionalità di un uomo che si sente sconfitto. Tutto gli era contro, ma era deciso a vedere nelle avversità l’azione del divino. Eppure, quasi lo invidiava... ormai non aveva più fede in nulla.

“Il tuo amico Skald ci andrà di mezzo. Ho bisogno di prove per incastrarlo, stai certa che le troverò. Per il bene che ti voglio, so già come risolvere la faccenda. Sì, un altro peso che ti ritroverai sulla coscienza... magari non sarai più tanto testarda e accetterai di buon grado il tuo ruolo. Sono stato spregevole al santuario... ma non potevo permetterti di distruggermi la reputazione. Di distruggermi dentro, perché è ciò che vuoi, vero? Farmi patire, restituendomi angoscia su angoscia. Invece...”

Ti ho scelta quel giorno, avrebbe pronunciato, ma represse lo sfogo. Lo represse nel timore che potesse ritorcerglielo contro, più di quanto gli pesasse addosso la casacca scura dei Thalmor.

Non le serviva un bavaglio, solo un rozzo ammasso di briglie a tenerla avvinta al letto, a lui. Tremò al tocco delle sue dita, dentro di lei il tempo si era fermato – amava contraddirlo per il gusto di suscitargli una reazione. Si divertiva a stuzzicarlo, a smontarne la falsa contrizione.

“Sarà così ogni sera, devi farci l’abitudine.”

Farci l'abitudine. Solo una bestia da soma poteva tollerare una vita simile. O una giumenta bardata e indocilita, pronta a seguire il padrone ovunque, a farsi carico dei suoi pesi... Un essere stupido, affezionato all'irriconoscente che fustiga, urla e costringe all’obbedienza, fino allo stremo. Eppure, quell'animale vive solo per lui, o addirittura lo ama.

“Buonanotte, mia cara. Spero che il senno torni a farti visita domattina.” Elanilde fu costretta a sorbire una bevanda dolciastra, fruttata. Involontariamente ne leccò dalle dita dell'inquisitore, e il fiato gli si bloccò in gola, folgorato. Ne avrebbe voluto ancora, ma un'ultima goccia cadde dall'ampolla, mentre sospirava lentamente con le palpebre già pesanti.

Mara, veglia su di me! L’ultima sillaba si confondeva con la prima e alla fine fu incapace di distinguerne il suono. Quando se la ritrovò ai suoi piedi che sonnecchiava serena, Ondolemar lasciò la stanza e perlustrò la residenza dello Jarl, ansioso di poter stanare presto chi cercava.

L’ancella, la dunmer, il Sangue di Drago. Colei che sosteneva di essere stata scelta da Sanguine per riunire gli amanti nella spregiudicatezza dell’alcova.

Per la prima e l’ultima volta, Elanilde sarebbe stata più importante di Trinimac, di Auri-el, dell’etica morale che serviva. Sarebbe stata più importante di tutto, perché lei era tutto e solo il Divo sapeva quanto bramasse unirsi a lei. Di condividere un affetto represso da anni.

La mia reputazione l’hai già frantumata, sciocca creatura. Che i Supremi mi perdonino!

Avrebbe scommesso il resto della sua esistenza, se fosse bastato il voto di un momento a scioglierlo dall’infelicità.

 

 

“Devi rimanere sveglia.”

Dorisa lo ignorò totalmente, tirando su le coperte di pelliccia e girandosi verso il lato opposto del letto.

“Dovresti ascoltarmi, dolcetto adorato.”

“Smettila di darmi nomignoli insulsi!” Scatto in su e si mise a sedere. “Se volevi farmi passare il sonno, be’, ci sei riuscito!”

“Ho detto che avremo visite e sai che non sbaglio mai.” Sam strizzò un occhio. “O vuoi, piuttosto, che te lo dica con un bel tatuaggio rosso in viso e un paio di corna?”

“Non farebbe differenza.” L’ancella incrociò le braccia. “Va bene, hai vinto... leggerò qualcosa finché non arriverà questo ospite tanto importante. Hai sempre un vantaggio in queste situazioni...”

“Sono più abile a non fartelo pesare.” Sam le pizzicò una guancia, e sull’altra posò un bacio veloce. “Sarà qui tra uno, due...”

“Qualcuno bussa alla porta.” Aegis era tornato a custodire Vlindrel Hall, ma Dorisa sospettava che obbedisse al comando dello Jarl per evitare di suscitare trambusto a Markarth. Tra le mura della tenuta, Igmund credeva di tenerla sotto controllo... ma chi sarebbe riuscito ad eludere le guardie nel corridoio e ad avvicinarsi di soppiatto e con tanta disinvoltura? Scostò leggermente la lastra decorata, poi si fece coraggio e la spalancò ancora. Lentamente, per evitare che cigolasse.

Era un Thalmor in divisa, quello che tutti chiamavano l’Inquisitore. Le dita intrecciate fremevano, il cappuccio proiettava un’ombra inquieta sul volto, ma il naso era abbastanza imponente da esser in parte rischiarato dalla luce del candelabro.

“Buonasera, signore.”

L’altmer rispose con un cenno.

“Siete qui per interrogarmi.” Un sorriso incerto curvò le labbra di Dorisa. “Non ho nulla da dire su draghi e Manto della Tempesta. Le notizie girano veloci, ma non mi farò estorcere confessioni sotto il peso delle minacce. Mi spiace deludervi... se è un’alleanza quella che desiderate propormi, sono costretta a ribadire che non prendo le parti di nessuno.”

“Aspettate, signora.” L’elfo le afferrò la mano, proprio mentre stava per richiudere. “È vero, le apparenze ingannano... ma anch’io, come voi, sono qui a titolo personale.”

“In nome di chi?” Dorisa sbatté le palpebre, incredula.

“In nome dell’amore.” Sibilò l’altro, per quanto gli costasse ammetterlo.

“Entrate.” Lo fece accomodare senza indugio, mentre Sam scattava in piedi e gli offriva la sedia in un gesto di risentimento. “Quindi... un offerente, come tutti gli altri.”

“Già... come gli altri.” La situazione le appariva sempre più imbarazzante.

“Non dovete temere sotterfugi. Ciò che mi confiderete sarà un segreto, e tale resterà.” Dorisa gli versò un bicchiere di vino, nelle coppe d’argento che lo Jarl aveva procurato loro. Per pura precauzione, o deformazione di carattere, l’elfo annusò la bevanda e diede un breve sorso. Quando capì che nessuno dei due intendeva avvelenarlo, si mise a proprio agio.

Diamine, se è paranoico! Il pensiero di Sanguine le saettò in testa, e l’elfo alto aggrottò la fronte perché, senza motivo, Dorisa si era girata verso il giullare per guardarlo male.

“Dunque, qualcuno ha in pugno la vostra mente e non sa.” Strano che lo stesso concetto potesse essere applicato agli scambi telepatici tra lei e Sanguine. “Qualcuno di cui siete innamorato... prima di andare avanti, però, vorrei essere sicura...”

“Ho meditato a fondo sulla faccenda.” La interruppe, pizzicando la barba corta. “Ondolemar, se vi fa piacere. Sono stato incaricato dal dominio Aldmeri di tenere sotto controllo la provincia di Skyrim, e di diffondere e difendere l’ideale di perfezione in cui crediamo, ma...”

“Ma?” Lo incitò Dorisa. Sam li osservava in silenzio, a braccia conserte, con il fondoschiena poggiato sul ripiano del comò.

“Chiunque penserebbe che ho raggiunto lo scopo.” Sorrise, impacciato. “Mi sono distinto in guerra e come stratega, e in tutta sincerità basta poco per essere rispettati. Bisogna solo farsi temere, e colpire prima che ti colpiscano gli altri...”

“Nella vostra vita non c’è spazio per i sentimenti,” dedusse l’ancella. “e men che meno per l’amore.”

“Precisamente.”

“Quindi... desiderate che io preghi il Principe di farvi incontrare l’amante che accenda in voi la passione?”

L’Inquisitore scostò appena il cappuccio dalla fronte, leggermente bagnata di sudore.

“Oh, no. So già chi è...” Si aggiustò le maniche della palandrana, con la mano tremolante. “il mio servo.”

L’ancella impallidì, anche se aveva avuto uno strano presentimento.

Adesso viene il bello! Sam, alle loro spalle, non era nella pelle dall'emozione.

“No, non è come pensate.” Gli angoli della bocca si aprirono in un ghigno storto. “Per evitare che altri soldati approfittassero di lei, ho preferito travestirla da uomo; la notte dell’incontro. E per comodità l’ho obbligata a mantenere la copertura: avevo la mia compagna, sempre accanto e senza correre il rischio di venire accusato di licenziosità.”

“Molte elfe prestano servizio nei vostri eserciti, per quale ragione?” Chiese Sam, facendo il finto tonto.

“È moralmente inaccettabile e contro il contegno militare. Si suppone che le notti vengano trascorse dormendo, riposando... non in un tormento insonne verso chi è a portata di mano ma non puoi avere...”

“Che bella prigione dorata!” Concluse l’altro, scostandosi via dal mobile. “Siete tutti infelici perché tutto è un obbligo. Svegliarsi la mattina, mangiare... anche dormire. C’è qualcosa ad Alinor che non somigli ad un’esecuzione pubblica?”

“Sam!” Arrossì Dorisa, osservando l’ospite che brontolava.

“Ha ragione.” Concluse Ondolemar, facendosi avanti con la sedia. “Ho sempre fatto tutto per dovere, non mi sono mai goduto la vita. Da giovane... volevo diventare musico, ma la famiglia me l’ha impedito. Poi, è stata la volta dei tutori presso cui ero a carico, e dopo ancora dell’accademia. Adesso, penserete, sono libero e indipendente. Ah, non è vero!” E rise, rise mestamente. “Non è affatto vero. Se non avessi cucita addosso quest’uniforme, avrei iniziato a corteggiarla quella sera stessa. Mi sarei fermato alla locanda di Cheydinhal finché suo padre non avesse acconsentito al fidanzamento. Invece no...”

“Cos’è successo?” Dorisa era completamente avvinta dalla storia.

“All’epoca il mio superiore era Valermo, ora capitano supremo della Divisione Imperiale. Durante un banchetto abbiamo imprigionato e torturato l’intera comitiva, tranne lei e la madre. A dire il vero, l’elfa desiderava morire dopo aver visto il marito crollare davanti ai suoi occhi. L’invidia e il risentimento guidarono Valermo, fu il primo che uccise... si era invaghito della signora, e attese che i soldati portassero via i commensali per possederla nella sua stessa casa, senza riguardi...”

“Per quale ragione?” Chiedeva conferma, ma in fondo la conclusione era scontata.

“Un pretesto per averla come concubina... si sarebbe salvata grazie a una veloce conversione, per il gentiluomo invece non c’erano speranze. Li accusammo di empietà, eresia e dissolutezza. Esagerammo i loro crimini per coprirne uno maggiore... solo perché entrambi erano orgogliosi della figlia, che intratteneva gli ospiti con canzoni d’amore.”

Dorisa mise il dito nella piaga, con un’innocente leggerezza.

“Signore... ma il vostro servo non è muto?”

“Non ha più parlato da quel giorno.” Fissò un punto imprecisato della camera ma il principe intuì. Non voleva che lo vedessero nella debolezza, a rievocare il senso di colpa. “Ho trascinato nella mia infelicità quella creatura, ma intendevo salvarla. Lei mi odia, ma se non avessi agito in quel modo brusco... sarebbe morta, e mai me lo sarei perdonato.”

“Ecco cosa sei...” Sam gli puntò contro l’indice. “Un gufo che voleva essere un usignolo. Pensavi che, grazie ad una buona azione, avresti compensato un passato di sogni infranti. E come un gufo non fai altro che lamentarti, bu bu bu! Di’ un po’, cos’hai fatto nel frattempo per migliorarle la vita?”

La risata di Ondolemar sembrava un mugugno, un rantolo strozzato. Si alzò per raggiungere Sam, per guardarlo faccia a faccia. In quel momento lo sovrastava, ma era del tutto sconfitto.

“Non ho fatto nulla. Potrei lasciarla libera, ma non sarebbe abbastanza. Voglio che canti ancora, che capisca quanto la amo... che abbia di nuovo la voce. Sono pronto a rinunciare, ma non voglio più provocarle dolore. Non è troppo tardi, magari, per un futuro migliore... sono stato stolto ad insistere, a pretendere l’impossibile”.

“E che ci guadagneresti?” Sanguine conosceva già la risposta.

“Una notte, se basterà a convincerla. Una notte per sfogare il desiderio represso. Per farle tutto ciò che ho immaginato senza inibizioni. E se non mi amerà per quel che sono... pazienza.”

“Non è per niente semplice.” La voce del giullare si fece bassa, seria. “I ricordi e le ferite rimangono, e chiedi al principe di restituirle non la voce, ma il dono di cantante. Inutile parlare di grana, sono le informazioni dei Thalmor che cerco. Ciò che sapete riguardo i draghi.”

Quella divisa non era facile da sbottonare.

“La posta è troppo alta... Prima le prove contro un cittadino che mi sta dando filo da torcere. Sono fascicoli importanti, dovrei farvi accedere agli archivi segreti.”

“Hai paura di giocarti la reputazione, eh? Sei proprio un altmer.”

“No, di furbi come te ne ho visti parecchi. Mi fido della signora, cosa mi dice però di far lo stesso verso un lacchè? Potresti rivelare tutto al migliore offerente, tradiresti la mano che ti nutre, purché ti paghino bene...”

“Ammesso che io sia un bastardo.” Sorrise Sam, sollevandosi appena dal pulpito provvisorio. “Ammesso che di informazioni, in effetti, ce ne siano. Ne sei proprio sicuro?”

Non si aspettava una contrattazione: Ondolemar rimase in silenzio, ammirando l'audacia del giullare ma disprezzando l'aria fin troppo confidenziale con cui gli si rivolgeva. Un velo di diffidenza offuscava la sua lucidità, era come se non vi fossero più espedienti, risoluzioni, se non la segretezza appena strappata ad Elanilde, la sicurezza verso una docilità venuta a mancare o mai esistita.

Una smorfia di contrarietà, poi il viso si distese, arrendendosi all'evidenza. Che altre vie esistevano?

“E va bene, ho deciso di fidarmi.” Il tono della voce cambiò, sembrava che un altro Ondolemar avesse preso il posto del primo. “Sarà uno scambio su un terreno d'incertezza. Vi farò pervenire i documenti che ho inviato personalmente all'Ambasciatrice, quel che so nero su carta. Però... desidero mandar via il cittadino sgradevole che m'ha recato offesa. Lo voglio qui, davanti a me, con le prove schiaccianti della colpevolezza. Voglio l'amuleto di Ogmund lo Skald, nascosto negli angoli dei cassetti, o negli anfratti di casa. Non è un prezzo alto, se rifletti bene, giullare.”

“Mi auguro che non sia alto quanto la vita di un uomo.” Sam tornò ad eclissarsi dietro un paravento, dopo aver attraversato lo spazio che divideva Ondolemar dalla sua protetta. L'elfo lo vide sparire senza fiatare, e posò di nuovo lo guardo su Dorisa, rimasta muta sino ad allora.

“E sia.” Confermò lei, con un sorriso spento. “Lasciate, però, che faccia il possibile per mettere una buona parola tra voi e la ragazza. Sapete... desidero compagnia. Spesso sono circondata dalle persone, e pare che io abbia davvero il potere di influenzare pensiero ed emozioni altrui. In realtà, quando la giornata finisce, mi ritrovo sola come tutte le serve che, finito il lavoro, si tolgono gli abiti, danno un calcio alle scarpe e si stendono sul letto senza energia. Mi piacerebbe parlare con... qual è il suo nome?”

“Elanilde.” Pronunciò Ondolemar, con dolcezza.

“...Con Elanilde, se parlare è il verbo giusto. Ci sono cose che arrivano comunque al cuore, non importa in che modo vengono comunicate. Sono sicura che c'intenderemo benissimo. Potreste, dunque, mandarla per un po' qui?”

“Certamente.” Rispose l'altro, abbassando il capo. Sam scosse la testa, cogliendo dei sottintesi a lei oscuri.

“Mi fido.” Ribadì Dorisa, più al principe che a se stessa. Ondolemar aggrottò le sopracciglia, presto però tornò all'usuale compostezza, e si congedò in un saluto frettoloso.

“Sai meglio di me quanto è importante il dono della Voce, Sam.” La maga gli si rivolse ad alta voce, non temendo di destare i sospetti di chi era appena andato, o delle guardie dello Jarl. “Anch'io sono uno strumento per la gloria, la mia sorte non è molto differente. Cambiano solo i padroni.”

“Non hai visitato i Barba Grigia, quindi non conosci cosa significhi usarla,” Sanguine, nello splendore della sua armatura e la seduzione degli occhi le stringeva i polsi, non avendo nessuna intenzione di lasciarla andare. “È il tuo potere, hai preferito servire me e non quelle cariatidi che sprecano ciò che resta della vita mortale. Ti ho regalato avventure, piaceri e storie avvincenti da raccontare, puoi esser il bardo di te stessa senza aver bisogno di lodi a poco prezzo. Non è questo che sognavi, quando leggevi la notte, a lume di candela?”

“La realtà è diversa.” Dorisa venne meno, chinando il capo sui pettorali della corazza. “Nulla è eterno, solo il punto di vista del poeta più abile, che può tramutare un mascalzone in eroe. Sai, forse era solo superficialità. Hai presente, invece, quando pensi di aver fatto torto a qualcuno? Cosa ho tolto ai Barba Grigia, reclamando questo potere? Cosa ho tolto a Skyrim, ad un vero eroe? Esiste, piuttosto, qualcuno che può esserlo davvero e al posto mio?”

“Hai visto troppe cose e tutte insieme, ti ci abituerai, cara...”

“A quello che vuoi farmi credere, che non so. Di', allora, perché hai scosso la testa mentre l'inquisitore parlava? Cosa ti ha colpito, se ho deciso di considerare indizi rimasti in sospeso?”

“Ah, nulla di speciale, tortino alla cannella.” Sam si chinò a baciarle la nuca, appena sotto l'attaccatura dei capelli. Dorisa rabbrividì, stringendolo più forte. “Ho scosso la testa perché, come tutti gli uomini, quell'altmer ha un'unica cosa nella mente. Crede che tu insegnerai alla servetta metodi segreti per infiammare le ventose notti di Markarth e sciogliere un po' il ghiaccio, quello in mezzo alle gambe.”

Dorisa impallidì. “Come se ne fossi capace!” Esclamò, tornando in sé e recuperando le distanze.

“Sì, ma lui non lo sa.” Rise il principe dei bagordi, stuzzicandola ancora e tirando leggermente una ciocca di un nero quasi blu. “Sei troppo buona, non stiamo togliendo nulla a nessuno. Perlomeno, non puoi affermare di rubare, se non sai cosa e a chi rubi. Poi, se cerchi una guida al furto, ti stai rivolgendo alla divinità sbagliata...”

“Non so proprio cosa fare, con te...” Dorisa pose le mani sulle sue guance, avvicinò a sé il volto cornuto e ne baciò le labbra con timidezza e devozione. Aveva riportato il discorso su un terreno più solido, e riguardo l'arte dello scassinamento, era entrato nel suo cuore facendosi beffe della serratura. La vita dei Barba Grigia era inutile, ma la sua? Cambiavano i punti di vista, i dilemmi rimanevano gli stessi.

Trovare una risposta a quelle domande era il vero male. In quell'istante capì che spesso gli uomini trascurano i propri dubbi non per ignoranza, ma per il semplice fatto che rischiano di aggravarli con scelte di cui non conoscono le conseguenze.

 

 

La pietra sotto le sue dita era fredda, la sensazione non le era nuova, ma ben levigata. Poteva essere la stanchezza ad ingannarla, per convincersene aprì gli occhi e restò immobile, non sapendo che risoluzioni prendere. La stanza era bagnata da un lucore blu cobalto, profilava un candelabro, la statua di una divinità nuda, alcuni libri impilati alla rinfusa su uno scrittoio. Elanilde provò ad alzarsi e scoprì di non avere più le corde attorno ai polsi e alle caviglie, ma la ritrovata libertà non servì a tranquillizzarla. Dove fuggire? Non conosceva la casa, gli abitanti, né tanto meno dove si trovasse. In fondo al corridoio lo stesso scintillio del cielo notturno. Due ombre si materializzarono per poi convergere, rapide, verso di lei: dei servi che, svoltando l'angolo, discesero le scale verso la cucina e il ripostiglio. Non diedero affatto segno di notare la sua presenza.

Ancora stentava a riprendersi dallo spavento quando la luce riflessa su uno specchio si levò poco a poco, agglomerandosi in una sfera a mezz'aria. Abbandonò la stanza, saettò verso il lato opposto del corridoio, invitandola a seguirne la scia. Una piccola cometa, attratta dalle corde di un liuto e da una voce timida, lontana lontana.

Il globo svanì in particelle minuscole, in un salotto ricoperto di dipinti che facevano venire la voglia di sfiorarli, tanto che sembravano reali. Un tralcio d'edera s'arrampicava pigro su un'asta d'ottone ancorata a un cero profumato, e su un basso tavolino spartiti, carboncino sbriciolato e una sorta di righello.

“No, non così. Riprovaci ancora, ripeterai l'esercizio finché non ti sentirò sbagliare neanche una volta.”

Di fronte al maestro di musica, una figura slanciata dai capelli fulvi e lucidi, sedeva un ragazzetto chiaramente in difficoltà, dalla carnagione di un dorato smorto. Una goccia di sudore gli scese sulla fronte, e di primo acchito Elanilde pensò che stesse piangendo, tanto era lo sconforto provato nel riaccordare lo strumento e riprendere la melodia.

Non aveva una voce eccezionale, con i dovuti accorgimenti però avrebbe potuto arricchirla con qualche tocco personale, perché il timbro era particolare, roco e penetrante. Sapeva tener bene il tempo, magari sarebbe venuto fuori un buon musicista piuttosto che un menestrello. Purtroppo, era così spaventato dalla possibilità di sporcare la composizione con la minima imprecisione da attirarsi da solo la peggiore delle eventualità. Il maestro tollerò una volta, e una volta ancora. Al terzo errore, afferrò una bacchetta e picchiò sulle nocche.

L'allievo urlò di dolore.

“Tanto non ti servono a nulla quelle dita,” lo schernì l'altro, ma lei gli lesse sul volto i sensi di colpa, “non so quante volte te l'ho ripetuto. Devi essere più veloce, far vibrare meglio quelle corde. Ti rimane poco tempo e di questo passo non andremo da nessuna parte.”

“Ancora, per favore!” Lo supplicò il ragazzo.

L'altmer era attraente, aveva belle mani inanellate e un naso regolare e appuntito. L'esatto opposto del viso contratto, timido e sgraziato; messo in ombra da ciglia sotto le quali occhi freddi, sofferenti, non spiccavano. Il maestro scrutò l'allievo nelle profondità del suo scoramento, e già rimpiangeva l'obbligo a cui era sottoposto.

“Rassegnati, non è per te.” Gli tolse via lo strumento, con delicatezza. Non voleva trattarlo male, avrebbe solo squarciato più a fondo la ferita, la stessa che si stava procurando. “Dipende da me salvarti dal servizio per Alinor? No, non addossarmi una responsabilità tale. Non sei fatto per la musica, torna sui libri, Ondolemar. Hanno scelto per il tuo bene, compensi in entusiasmo ciò che difetti in lungimiranza. Segui i consigli, figliolo, hanno ragione.”

“On... Ondolemar?” Bisbigliò Elanilde avvicinandosi, provò a sfiorargli le guance, i capelli lunghi e chiari, era evidente però che non potesse udirla. Tuttavia, lei si sorprese a udire la sua voce dopo anni di silenzio. Cosa stava succedendo?

“Ancora...”

“Non c'è più tempo. Né adesso, né domani, nei giorni a venire. Ammiro la determinazione, però, meglio investire queste capacità laddove dimostri talento...”

“Se mi alleno, mattina e sera, posso riuscire. Devo crederci... credere è il primo passo, forse l'unica certezza che non mi strapperete. Ma non sono io il problema, è lui, vero?” Il ragazzino spaurito si trasformò, tirando fuori una rabbia frutto dell'incomprensione. “Mi giudicate severamente, maestro Undaril. Siete gelido e sprezzante come quei critici dalle logge, che macellano gli artisti con sarcasmo. Quanto vi ha pagato, eh?” Ondolemar scattò dalla panca. “Molto più delle ore spese ad insegnare. Quanto vi ha pagato, affinché rendeste un inferno i momenti in cui sono davvero me stesso?”

“La musica non è per i militari.” Le posizioni si erano capovolte, Undaril represse un fremito. “Hai una carriera promettente davanti agli occhi, sicurezza, prestigio. Non sprecarlo a cercare di elemosinare patronato, protezione e fama... fumo, tutto fumo.”

“Perché vi soffermate sui lati negativi. Ditemi del generale Vessarion, allora. Perché vi cerca, ogni volta che date luce ad una nuova ballata?”.

“Non parlare di ciò che non conosci.” Abbassò il capo e stritolò gli spartiti, dalla carta non sarebbe mai sgorgato sangue. “Credimi, Ondolemar, ti auguro il meglio. Se ne avessi avuto modo, ti avrei detto la verità diversamente.”

Il grande candeliere scolpiva il naso aquilino, faceva brillare gli occhi grigi, quasi bianchi per lo sdegno. Senza una parola marciò verso il corridoio, continuò a tenere il tempo, mentre i respiri affannati si trasformavano in singhiozzi smorzati. Il tamburo era un palpito celere, le note del liuto voci allegre divenute ingiuriose, stridenti e ostili. Trattenne le lacrime, e quando fu solo, afferrò la spada corta con l'emblema di famiglia e la gettò a terra. Si ritirò dietro alle cortine del letto, tra i libri, le figurine in bronzo di cavalieri e soldati, a vegliare sulla camera del ragazzo un'immaginetta di Mara e un insolito idolo cornuto.

L'aveva inseguito fin lì, anche se era un'ombra invisibile. Elanilde si accovacciò all'angolo, desiderando essere sorella o madre. Adesso capiva, sì... capiva quanto l'avesse invidiata, quella notte in cui tutto andò distrutto.

“Uh?” Si sporse da uno spiraglio fra i drappeggi di velluto, su cui aveva asciugato le lacrime. “Chi sei? Tu, all'angolo del letto.”

“Puoi vedermi?” Domandò lei, sorpresa.

“Sì.” Sorrise il ragazzo, meravigliato. “Scusami. Non sono un bello spettacolo, vero?”

“Non c'è nulla di male.” Finalmente, poté toccargli i capelli. “Ci sono momenti tristi, eppure passano. Abbiamo il potere di dimenticare, c'è chi ci riesce meglio e chi peggio. Credo che i più bravi alla fine riescano a sopravvivere comunque.”

“Ovvio.” Rispose il giovane.

“Un fallimento... può istigarti al male, al rancore. Oppure, può migliorarti... Scegliere chi essere dipende da te.” Strano che fosse una schiava a lanciarsi in simili osservazioni. “Tu che dici?”

“Sei un sogno.” Ondolemar conobbe emozioni nuove, lo sguardo s'incupì. “Sei bella.”

Si sentì afferrare le guance e strofinare contro un volto su cui la barba cominciava a spuntare. Cercò le sue labbra, e non era più lui. Un segno scuro gli marcava le palpebre, le dita dell'elfa si incrinavano sul cuoio lucido della divisa. Elanilde gli alitò sul viso, sopraffatta.

“Non lasciarmi adesso, Elan.” Ricordava quella sera, al bagno. “Non abbandonarmi.”

Si voltò. Nello sgomento, immaginava che l'idolo cornuto ghignasse, che li schernisse mentre cresceva, e cresceva ancora in dimensioni, superbia, maestosità.

“No.” Rantolò lei, e tutto si fece fosco, torbido e sfuggevole, nel baratro di un sonno profondo.

 


Presa dagli impegni, la mia routine è cambiata all'improvviso. Mi sono concentrata esclusivamente su quello che dovevo fare, promettendo a me stessa che, come premio, sarei tornata a scrivere... prima o poi. Questo capitolo è il frutto di mesi in sospeso, passati a immaginare come continuare questa storia quando dovevo staccare la spina. Ho annotato le idee sui quaderni o, più spesso, le ho fissate nella memoria. Dico sempre che nella mia mente c'è tutto, a volte anche gli eventi centrali e la fine di un racconto... il problema è trovare il tempo e la disposizione giusta per scrivere. Ho cambiato alcune cose, specialmente all'inizio. Il resto è venuto fuori da solo. Devo dire che poter pubblicare questo capitolo mi fa sentire meglio, come mi rende felice poter leggere le storie e i messaggi che sono rimasti senza risposta per un tempo indecente. Mi dispiace, so quanto faccia male aspettare.

Ondolemar continua a comportarsi da maniaco del controllo e amante degenere, per redimerlo almeno in parte ho inserito degli eventi che fanno luce su quanto siano stati generosi ed empatici i suoi genitori. :) A mia discolpa, dico che leggere troppi classici della letteratura inglese e saggi di psicologia mi ha fatto male. Ah, e anche guardare i documentari di storia della Seconda Guerra Mondiale su History Channel.

Molta musica ha ispirato questo capitolo. Love to hate di Tarja, e poi dei progetti dungeon synth ispirati a Skyrim e all'universo di Elder Scrolls (Moonshadow di Azurah ed Expanses of Skyrim di Elador).

Per la prima volta, le note sono lunghe quasi come una flashfic. Ma dopo tutto il tempo che è passato, per favore, concedetemelo! :) A presto!

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Capitolo 5
*** Il nemico del mio nemico ***


Sei un sogno.

Ah, ecco. Giusto, pensò Elanilde. Troppo facile, possibile in un'altra dimensione, muoversi liberamente ed esplorare palazzi senza il timore delle corde. L'aveva lasciata dov'era dopo averla sedata, avendo comunque l'accortezza di riservarle una piccola comodità. Giaceva di fianco, con la testa affondata in un cuscino di piume, mentre altri tre più robusti formavano un materasso sotto la spalla destra, le anche, fino all'altezza delle caviglie.

Aveva dormito imbrigliata, sì, ma meglio degli ostinati cittadini sui loro letti di pietra. Lo stomaco a digiuno brontolava, in una mattinata qualunque sarebbe sgattaiolata in cucina per trafugare qualche fetta di torta alle mele e per riempire di latte un intero boccale. In mancanza dei Thalmor e dei sospetti di Ondolemar, la vita da manovale alla residenza dello Jarl non sarebbe stata poi tanto male.

Moth-Gro Bagol doveva aver attizzato il fuoco da solo, mentre inveiva bonariamente contro di lei. Su cosa c'è da lavorare oggi? Bisognava temprare due o tre spade, saldare il manico di uno scudo venuto via durante l'addestramento delle guardie, riparare le ammaccature sull'alambicco di Cancelmo, e nei lassi di tempo tra le commesse impegnative modellare chiodi, plasmare serrature e cardini per la manutenzione delle impalcature nelle miniere dei Sangue d'Argento...

Perché si ostinava a rimanere coi piedi per terra, a ricordare dettagli insulsi e non i ricordi di un sogno vivido, se non un mistero, un viaggio nel passato? Elanilde sapeva che era possibile, talvolta, sviluppare connessioni emotive così forti da poter ascendere i piani astrali e acquisire saperi arcani, profezie celate. Che accadesse proprio a lei, comunque, era un'eventualità assurda. Meglio credere, invece, che la sua mente avesse fabbricato un conforto involontario ai ricordi difficili da accettare.

I peggiori timori, invece, erano riservati ad Ogmund. Era convinta che l'amico versasse in cattive acque fintanto non vide Ondolemar giungere circospetto nella stanza, accompagnato dal tintinnio delle stoviglie. Era stato costretto a servirsi da solo per sviare strane congetture? Stupidaggini. I morti fioccavano in città, e presto venivano dimenticati nell'indifferenza comune.

Poggiò il piatto e il bicchiere sul tavolo, ancora sporco di briciole di pane, e le s'inginocchiò davanti per tastarle la fronte, il collo.

“Non fingere, si vede che sei sveglia.” Cominciò da dove aveva iniziato la sera precedente, dai polsi. “Ho avvisato l'orco, mi ha detto che per qualche giorno puoi stargli alla larga, lo aiuterà la sorella. C'è una sorpresa, un cambio di programma. Ti farà piacere sapere che anch'io non avrò modo di vederti spesso. Nella tenuta alloggiano ospiti da trattare con il maggior riguardo. Prova a contrariarli, ad irritarli con la tua testardaggine molesta, e ti assicurerò un viaggio di sola andata in fondo agli scavi delle rovine”.

Dunque, si trattava di gente importante. Sua graziosità Elenwen non si sarebbe abbassata a soggiornare in un rudere polveroso, e i dispacci partivano velocemente, tanto da costringere i soldati a soste di poche ore.

“Seguimi.” Ondolemar ignorò il muso imbronciato, gli arti tesi e piantati a terra. La trascinò senza cerimonie fino alla porta, poi Elanilde si persuase ad assecondarlo, benché non capisse il motivo di tanta fretta.

Scivolarono oltre le scale, al di là dell'anticamera segnata dai canali, fino a un corridoio angusto in fondo alle scale, limite ultimo tra le zone abitabili e quelle in fase di studio.

Elanilde, pietrificata, s'impuntò sul primo gradino come un asino sfiancato. Non avvedendosene, Ondolemar la strattonò e frenò la sua caduta stringendola col braccio destro sul fianco. Una volta, durante le poche missioni erranti in cui aveva riempito le file di un corteo militare, aveva scorto su un ramo una coppia di passeri nell'atto di proteggersi a vicenda dalla pioggia. La presa dell'inquisitore le ricordò la stessa scena, la stessa delicatezza.

“Piano.” Sussurrò, staccandosi da lei. “Resta immobile e ascolta. Fa' quello che ti viene chiesto.”

Annuì, mentre il metallo cesellato vibrava sotto il suo pugno. Venne ad aprire un uomo piacente, un bretone dalla fronte ampia e il sorriso sempre dipinto sul volto. Intravedeva dallo spiraglio una casacca colorata, meno eccentrica dell'abito descritto dalla squadriglia Thalmor che commentava l'arrivo di un bislacco buffone e di una dunmer altera.

“È qui.” Fu la spiegazione spiccia. “Elanil in pubblico, Elanilde in privato. Aiutatela a migliorare, e verrete ricompensati.”

“Come d'accordo?” Sussurrò il commediante.

“Sì.” Rispose Ondolemar, criptico.

“Vieni, la Signora ti aspetta.”

Strisciò via, lasciandola davanti al portone socchiuso. Il corridoio era un crepaccio, o una grotta umida in cui non filtrava mai la luce. Aspirò polvere, un pesante lezzo di teloni ammuffiti, gli acri accenni di una candela di sego. La tenuta sotterranea le risultava opprimente quanto la camera sepolcrale poco distante, ma quello stambugio superava davvero ogni limite. Un'ospitalità cordiale, quella che lo Jarl offriva ai suoi benefattori.

Si aspettava una messinscena, trucchi da artisti girovaghi per impressionarla. Invece, la sacerdotessa sedeva di profilo, al centro del letto, con le gambe distese di lungo e le caviglie accavallate. Teneva gli occhi socchiusi, puntava dritto a terra e rivide in lei la stessa ansia, la stessa incertezza. Meditava in silenzio, con le dita intrecciate. Già, si sentiva messa alla prova.

“C'è una sola sedia, ma non preoccuparti, puoi prenderla. Sam può anche farne a meno, è lui a tenere in piedi tutto, quindi non gli spiace stare alzato.” Trovò la battuta priva di spirito, ma il servo non fece una piega. Le ricordò la prima visita all'ambasciata, quando la divorava ancora la curiosità di partecipare alle cene più ambite della nobiltà Thalmor a Skyrim. Le aspettative vennero presto deluse alla visione dell'austero maniero, sepolto tra la neve e spazzato da continue tormente. Si ritrovò a rimpiangere Markarth: le piaceva la città, era lì che sentiva odore di famiglia, non lassù. Non potendo girovagare in giardino, s'accontentò di ascoltare Elenwen, Ondolemar e i soldati mentre faceva da coppiere. Erano continui sospetti, congiure. Dubitavano degli Jarl, del generale Tullius, avevano spie ovunque.

Persino l'amicizia veniva meno, eppure Elenwen era convinta di riconoscere un vero alleato da un compiacente adulatore. Bastava indossare gli abiti della simulazione e fingere, subissare di saggezza spicciola e battute di bassa lega il malcapitato. Se questo falliva l'esame, lodando anche la peggiore assurdità, di sicuro avrebbe fatto lo stesso con chi gli avrebbe garantito una maggior guadagno.

Almeno è sincero. Pensò Elanilde.

“Avrai fame.” Aggiunse lei, porgendole un piatto di leccornie. “Preferisci la mela caramellata o gli involtini alla cannella? Ti prego, se prendi i dolci al mirtillo, lasciamene almeno uno, li adoro!”

Era basita da tanta cordialità, notava comunque un leggero nervosismo. È perché non posso dirle nemmeno una parola, si maledisse l'elfa alta, mordendosi un labbro. Fissava il pavimento, interdetta; tormentando le dita in preda all'agitazione. Un silenzio spettrale riempì la stretta anticamera e il giullare, piuttosto che sfruttare i suoi talenti, decise di darsela a gambe, dopo un seducente occhiolino.

Di certo persone simili non avevano una vita normale, ma Elanilde trovò inquietante il modo in cui lo sguardo della sacerdotessa mutò, passando dall'apatia allo stupore.

“Ah, aspettavi il momento giusto?” Sbottò senza un motivo apparente. Il bretone saltellò verso la porta e se la filò, fischiettando allegramente. “Perché ho deciso di darti corda, quel giorno? Così ci penso due volte prima di lamentarmi ancora, facile a dirsi per te che sei allenato. Pretendi di farla franca in questo modo? Giuro che un giorno io, io...”

Déi, cosa ho fatto di male per mischiarmi coi seguaci dei Daedra? Elanilde si ritrasse in se stessa, desiderando sparire. Dopo il danno, la beffa. Disprezzo le voluttà, Sanguine, le passioni che mi hanno ridotta a questo. Ogmund... adesso ho capito. Mi ha lasciato qui perché è impegnato a sbarazzarsi di lui, questa donna è un'altra vittima, però...

“Non è colpa sua.” Ribatté Dorisa, annullando altre insinuazioni. “Il mio signore ama paradossi e intrallazzi, ma non è mai crudele. Non priva della vita uomini e mer, a cui è affezionato! Cosa ti fa pensare che sia lui, e non la maledizione di un altro divino, ad aver agito sul tuo destino? Lui, che vorrebbe il Mundus gaudente, spensierato, sempre a cimentarsi in imprese ardimentose? Dimmelo!”

Il finto elfo impallidì, ritto sulla sedia.

Tu... puoi sentirmi.

“Eh?” Era vero. Dorisa stentava a crederci.

Sì, puoi sentirmi. È... è strano. Dopo anni qualcuno mi ascolta. Pensavo che non sarebbe più successo.

Elanilde aveva le lacrime agli occhi. Non avrebbe saputo spiegare la sensazione che provava, dentro di lei balenò la speranza. Rimpiangeva di essere stata tanto impulsiva, mentre la dunmer – incredula quanto lei – inclinò il volto a bocca aperta.

“Sanguine.” Minimizzò, scrollando la testa. “È stato molto magnanimo e mi ha concesso parte delle sue facoltà. Davvero gentile, mi toccherà ringraziarlo.”

Ti devo delle scuse. Lo scudiero si fece indietro, ritirandosi verso il muro crepato. Sono arrabbiata, e voi non avete colpa. Così arrabbiata con tutto e tutti da non distinguere più con chi valga la pena prendersela. Devi aiutarmi, il mio amico è in pericolo. Conosco bene Ondolemar, ha avuto una buona scuola e quindi non si pone troppi scrupoli ad eliminare chi non gli va a genio. Sa che Ogmund è un seguace di Talos...

“Ogmund?” Molti nodi stavano venendo al pettine.

Sì, Skald e bardo della locanda. Forse lo avrete sentito suonare, se vi è capitato d'andare. Ero solita farlo anch'io, quando Ondolemar mi concedeva d'uscire la sera. Vederlo cantare mi ricordava il passato, e... credo che abbia notato. La nostalgia è difficile da nascondere.

“Sembra un uomo discreto, non riesco a figurarmi come i Thalmor lo abbiano colto alla sprovvista, mentre venerava Talos. Di solito, sono i ribelli ad esser catturati, non le persone che continuano ad onorarlo con culti privati...”

Elanilde le raccontò in breve cosa era successo quella notte, al tempio.

“Questo cambia le cose.” Si toccò il mento con le dita di una mano. “Sanguine considera la dimensione mortale una reggia... una reggia dove organizzare banchetti. Non tollera l'infelicità e soprattutto, non ama che durante uno dei suoi scherzi qualcuno venga ferito sul serio. Se catturare Ogmund significa provocarne la morte, è anche compito mio difenderlo.”

Dunque l'ha fatto. Il pensiero di Elanilde si sovrappose a tali deduzioni. Vi ha chiesto di ucciderlo.

“No, sarebbe stato troppo prevedibile. Gradiva un incentivo, piuttosto, per poterlo giudicare ufficialmente di fronte alle autorità.”

E lo lasceranno fare. Sono sorpresa del fatto che i nord tollerino tante ingerenze alla loro sovranità territoriale, con l'Impero a spalleggiarli solo per salvare il salvabile. Se non sarà Skyrim a insorgere, lo farà Cyrodiil presto o tardi. C'è sempre una scheggia d'orgoglio in un animo oppresso.

“Non vieni da Summerset, allora? Appartieni a queste terre quanto me e capita di sentirmi fuori luogo, anche... per altre cose”.

Elanilde scavò a fondo, recuperando del vecchio metallo. Lo stesso materiale di scarto che nessuno avrebbe voluto, su cui nessuno avrebbe scommesso un septim, per forgiare una nuova arma. Tagliente, letale.

Se è vero che il tuo Padrone disprezza l'omicidio degli innocenti, aiutami. Metto in ballo me stessa, se sono qui c'è un motivo. Rise. Ogmund non è giovane, ma non tollero affatto che una vita gloriosa si spenga per un capriccio egoista, un'accusa deplorevole. È capitato in passato e non succederà più, ora che ho l'occasione per reagire. Sì, lo accetterò come amante, è per questo che mi ha lasciata vivere. Perciò, vivrà anche Ogmund.

“Sei coraggiosa.” Non era da tutti mettere le esigenze di qualcuno prima delle proprie. Dorisa ammirava la lealtà della presunta allieva, benché odiasse farle torto. C'era tempo, sicuro... tempo per ideare una strategia. Banale, scontata, poteva comunque funzionare. All'improvviso le rimbombò dentro la voce di Sam: non puoi affermare di rubare, se non sai cosa e a chi rubi. In tal caso, sapeva di barare e che stessero conducendo un brutto gioco alle sue spalle. Si ripresentava lo stesso dilemma: per promesse ed affari assurdi era meglio rivolgersi a Clavicus Vile, tuttavia non lo avrebbe scomodato per così poco, quel guazzabuglio poteva affrontarlo da sola. “Il punto è questo... far sì che tutti siano convinti di aver ottenuto quel che cercano. Credo di avere una soluzione, sperando... di trovare il mio Padrone ben disposto. Una domanda... perché ti fidi di me?”

Non ho scelta. Sorrise Elanilde, in un raro impeto di sicurezza. Non pretendo di aver ragione, ma c'è una linea sottile. Un male oscuro e ancestrale sembra avvolgere la città, non lo senti? Se sono qui, non è per caso. Vale lo stesso per Ondolemar... mi sono ritrovata a sognarlo, la scorsa notte. Era un ragazzo... diverso. Se tutto tornasse com'era, se fossimo felici entrambi... Sarebbe perfetto. C'è ancora spazio per i sogni, considero il mio un presagio. Capire qual è stata la fonte della delusione, del rancore. Annullarlo... per sconfiggere il male celato dietro di esso.

“Purtroppo, non esistono trincee, solo zone d'ombra. Questo umano mi appartiene, questo è tuo... non ragionano così, e l'ho compreso per caso.” Dorisa si fermò, non trovava le parole per esprimere concetti tanto astratti. L'unica prova inequivocabile era l'esperienza diretta. “Ci consacriamo a Talos, a Mara, ad Azura. Poi spunta fuori qualcuno che ci ha puntati dalla nascita. La battaglia è su più fronti, sarà paradossale a dirsi, ma siamo noi a decidere. Siamo noi la zona d'ombra... è per questo che mortali, Aedra e Daedra... si temono a vicenda.”

Elanilde l'ascoltava, del tutto avvinta.

“Va bene.” Sdrammatizzò la sacerdotessa, sfilandosi il corpetto. “Mi spiace cambiare argomento così bruscamente, è bene comunque che svolga il mio compito... ovvero, cercare di illustrare a parole tutto ciò che il Signore mi ha elargito di prima mano.”

Cosa significa... di prima mano? Trillò Elan, come un campanello d'emergenza.

“Nient'altro quello che vuol dire. Sono la portavoce di Sanguine, quindi... aspettati degli scambi non solo verbali. Sai, sei fortunata... l'amore è fatto anche di gesti, a volte contano più delle parole. Qui abbiamo di fronte un tipo raffinato, allora fa' così... vuoi sedurlo? Sfila prima il giustacuore e mostrati in camicia. Dimentica di fasciarti il petto. Inventa una scusa... un modo semplice per mostrarti sicura seppur compiacente. Un messaggio comprensibile anche a un draugr in una cripta. Ecco come si resuscitano i morti, certi negromanti hanno ancora molta strada da fare.”

L'elfa scoppiò a ridere.

Sai, Signora.

“Dorisa, è meglio.”

Dorisa. Esitò Elanilde. Sono curiosa... avverti i miei pensieri. E dopo tutto questo tempo, credo che tante cose siano cambiate, anche la mia voce. Perciò ti chiedo... potresti descrivermela? Perché riesco a farmi udire da te, ma non a sentirla.

La maga fece del suo meglio, nonostante la paura d'illuderla.

“È pastosa, calda... fluida. Mutevole, posso avvertire l'odio, la tenerezza, il risentimento. Peccato che sia rimasta muta tanto a lungo.”

Potrò parlare di nuovo? Chiese, con l'entusiasmo che le luccicava negli occhi.

“Forse.” Si tirò su le maniche della camicia, scoprendo l'intrico di rose, i tralci di vite e i fiori sulla pelle grigiastra. “Per ora, limitiamoci a trovare un modo per irretirlo.”

Tra gli arzigogolati disegni sul braccio, spiccava un'ombra intravista in precedenza. Elanilde impiegò qualche minuto per elaborare la simiglianza, per identificare il perché della sua ossessione. Magari era l'origine arcana dei tatuaggi, la loro eccentricità o... un legame. Sì, riconosceva una presenza nota, con un calice baldanzosamente cinto tra le dita.

L'idolo cornuto. Sanguine era lì per darle un monito nel sogno, accanto a Mara, la nemesi. Oppure, le indicava la strada da seguire. Compassione attraverso la lussuria? No, assurdo. Si lambiccò, risalendo a ogni possibile interpretazione su cosa presiedesse Sanguine, rendendolo una presenza importante nella sua vita, allo stesso livello di Mara. Una premonizione... impossibile.

Era impaurita, allo stesso tempo eccitata. Fremeva, poiché non s'aspettava la diversione... l'eventualità di vivere una vita normale, come le famose signorine della locanda.

Mise da parte i dubbi e aprì bene le orecchie.

 

 

“Polvere di steeeelleeeee...”

Se l'era filata proprio nel momento più opportuno, piantando la sua ancella preferita e la piccola altmer a disquisire su crucci amorosi. Aveva ben altro da fare, ed era giusto che i cittadini di Markarth tollerassero per il bene comune. La faccia di Dorisa al suo repentino colpo di testa era stata impagabile.

Devo andare, bambina mia. Le aveva spiegato. Ti do una solenne investitura, più preziosa di quella dello Jarl e del suo pulcioso scudo, cianfrusaglie da mettere a lucido con un vecchio straccio e sonore sputacchiate. Me ne vado, è il momento opportuno perché tu comprenda cosa si prova ad essere il sublime, magnifico e inarrivabile Sanguine, un portento che scruta le menti mortali trapassandole parte a parte.

“Ah, aspettavi il momento giusto?” Oh, no... era l'inizio della tiritera. Se fosse stata più saggia, lo avrebbe ringraziato, anziché abbaiargli contro. Come i cani accucciati fuori la residenza dello Jarl: presero a guaire proprio mentre lui si stava accingendo a cantare la strofa principale della sua nuova composizione.

“Polvere di steeeelleeeee... sulle tue mammelleeeeee!”

“Piantala, screanzato!” Urlò una donna di mezz'età, paffuta e tarchiata, urtata per lo sdegno.

“È tutta per te, tesoro!” Fece di rimando Sam, con una bottiglia di vino in mano. “Le tue sono stupende!”

Persino i mendicanti andarono a nascondersi nei sotterranei, temendo di essere associati a quel trambusto.

Nel bel mezzo di un acuto sgraziato udì un fragore proveniente dalle balconate superiori. Una massa liquida maleodorante e viscida per poco non gli era piombata addosso, era riuscito a schivarla contando esclusivamente sull'abilità – che lì aveva acquisito – di saltellare gli scalini due per volta.

“Siete delle frigide ingrate!” Sbraitò Sam, portandosi la bottiglia alle labbra. “Solo dei bifolchi come voi potevano convertire inestimabili vasi dwemer in volgari pitali! Puah. Non è tutto oro ciò che luccica!”

“La cosa peggiore che Igmund potesse concepire era farli Thane, a quei due.” Ebbe da ridire Bothela la strega, il che rendeva la scena ancor più bizzarra. Le guardie avevano le mani legate, aspettarono che entrasse nella locanda dei Sangue d'Argento, da lì in poi sarebbero stati affari loro. Tanto, quel covo era pieno zeppo di gente abile a menar le mani. Lo avrebbero messo a posto per benino, eccome.

Era proprio bello tornare alle vecchie passioni; vino, canti goliardici e donnette reticenti.

“Polvere di steeeeelleeeee...” Esordì ancora. Kleppr, ormai abituato ad esser invaso da un momento all'altro, aveva perso la cattiva abitudine di sobbalzare per qualunque amenità gli passasse per le cervella.

“Dagli il solito.” Sbottò a Frabbi. “Mettici dentro abbastanza lavanda da fare in modo che dorma per una settimana. E se lo vedo allungare le mani verso Hroki, anche solo una volta, giuro che gli spezzo i polsi e pure la schiena... così dormirà per un mese intero.”

“È questo il tuo bardo, oste?” Azzardò un legionario bretone, storcendo il naso. “Bravo questo tizio lo è, senza dubbio. A spaventare le galline nel tuo pollaio.”

“Soprattutto le pollastrelle.” Concluse Sam, piroettando a vuoto e accasciandosi su una sedia.

“Che gli Otto mi risparmino una tale disgrazia!” Fu con quell'invocazione del padrone di casa che terminò la follia di Sam, piegato su un tavolo... con una tazza d'infuso davanti e il collo della bottiglia ancora stretto. Il giullare osservò il pubblico imbambolato: oltre ai beoni della prima ora, un manipolo di soldati dell'Impero convenuti dai rispettivi accampamenti a Skyrim. Uno di essi si era risolto a non concedergli la minima attenzione: un volto grigio, orbite profonde e una cicatrice simile ad un sentiero sterrato che portava dal sopracciglio destro fino a metà guancia. Ligio nella disciplina e composto nei modi, con un boccale di succo di mirtilli dietro le dita intrecciate.

“Torna a Winterhold, Sevan.” Il bretone prese le redini di un discorso lasciato a metà prima della sua irruzione. “La regione ha bisogno di costante vigilanza. Per quanto potrei azzardare, i Manto della Tempesta non avrebbero remore neanche ad insediarsi in un vecchio cimitero ghiacciato.”

“È in buone mani, l'assenza peserà poco.” Il militare dunmer giocherellò a far girare la tazza su se stessa, spingendo il manico con un dito per farla danzare sul tavolo spoglio. “C'è un mucchio di macerie e qualche abitazione rimasta in piedi da sorvegliare. Lì mi ha condotto Azura: la chiave per cambiare il futuro è tornare indietro e rimediare agli sbagli. Una mano serve qui, Emmanuel... ben venga se riesco a raccattare qualche recluta in questa roccaforte.”

“I Sangue d'argento te lo impediranno, serve manodopera.” Un ringhio rese più truce la mascella barbuta e il naso contuso, messi in risalto dal capo rasato militaresco. “Risparmierò ai miei uomini morte certa, abbiamo ben altre priorità. Guardali, adesso stanno qui e si godono una pinta in santa pace. Solo agli Déi è concesso sapere cosa troveranno sulla strada, e persisti nel vano tentativo di far pace con te stesso. Combattono per sopravvivere e dar da mangiare alle famiglie.”

“Raggiungerò la pace quando conoscerò il destino di mia sorella.” Obiettò Sevan, meditando. “Perlustrerò gli abissi di Markarth per accertarmi che sia viva, e semmai le fosse accaduto il peggio, ne brucerò il corpo per darle la pace meritata. Questo chiede la mia, di famiglia, null'altro.”

“Non esistono morti di prim'ordine, ma cadaveri sconosciuti.” Emmanuel scosse il capo. “Tieni, ne ho fatto riprodurre un paio dallo scrivano qui al Reach... insegne pubblicitarie. Spero che si presenteranno meno sfaccendati del previsto, altrimenti sarò nei guai.”

“Ti devo un favore, amico”. Sevan sorrideva di rado. Quando accadeva, un barlume di pietà si accendeva nell'animo impassibile di Emmanuel.

“Voglio vederti saldo, con la spina dorsale intera a reggere quella brutta zucca che ti ritrovi come testa.” Lo apostrofò scherzando, dandogli una pacca sulla nuca. Il collega accennò persino una risata.

“Stavolta non mancherò l'obiettivo. Conta poco quanto tempo impiegherò a cercare degli alleati disposti a calarsi nel baratro. Ho pregato ogni notte, interpretato i segni... è qui chi sto cercando. Basta individuarlo.”

Di certo, non tra quegli opportunisti approfittatori. Aveva scandagliato la verità sfuggente, separato gli artifici fantastici dal messaggio inciso nei simboli. Doveva rimanere se stesso, non lasciarsi condizionare, seguire la guida di Azura. La luce della regina degli astri, fuoco di stelle, furore di sole, a dargli sostentamento nella giusta vendetta e non crollare.

Detestava la fortezza, immersa in una palude di escrementi e foglie putride. Anche dai cubicoli in cima, arieggiati e lontani dai fumi delle fonderie, permaneva il lezzo della decomposizione, se non di carne umana. Da ragazzo, probabilmente, avrebbe evitato di farsi carico di questioni estranee a qualunque forma di vanagloria, e mai più, aveva giurato. Mai più sarebbe accaduto.

Con indolente indifferenza abbracciò la pila di foglietti e si mise all'opera, andando a caccia della fortuna mentre gli altri tornavano alle tende. Scovò un chiodo allentato sulla parete accanto all'ingresso, grosso al punto giusto per sigillare una bara. Ironico, pensò – del tutto inutile. Orfano di quadri, di mantelle, di messaggi di benvenuto per illustrare agli avventori il menù del giorno. Puntato nella feritoia del muro, inosservato, nella pietra più dura di Skyrim. Scostò una sedia vuota, proprio accanto a Sam, che consumava la sbornia in un russare sommesso.

Kleppr lo tollerò a malapena, proseguendo intanto la solita, stizzosa lucidatura delle stoviglie. Un'abitudine a cui s'appigliava per impotenza. Gli faceva comodo, del resto. Ci avrebbe pensato qualcun altro, secondo l'usanza di Markarth. Un gioco di occhiatacce, di limiti invalicabili.

“Ehi, cosa intendi fare?” Gli avambracci muscolosi gli arrivavano all'altezza del petto, e un viso squadrato, risoluto, incrinava le linee del tatuaggio dipinto su una tempia. “Mi pagano per mantenere l'ordine. Tu e la tua roba, fuori da qui... e se non vuoi saperne, accetta il mio consiglio. Non ti immischiare nelle faccende di Markarth. Questa città appartiene ai suoi abitanti e a nessun altro.”

La testa del chiodo bucò il volantino, lentamente. Con altrettanta lentezza Sevan voltò le iridi purpuree verso l'energumeno, rimanendo dov'era.

Avvenne tutto in una manciata di brevi secondi.

Il mercenario non sfilò il volantino dal chiodo, non ne avrebbe ricavato soddisfazione. Preferì, piuttosto, infierire e sbrindellare la carta in minuscole foglie d'acero, tale appariva in mezzo alle fiamme mentre essa si consumava in cenere. Sevan sorbì l'ultimo sorso della bevanda al proprio tavolo e gli s'avvicinò per ricambiare la cortesia, allo stesso modo, a braccia conserte.

“Ti avevo avvisato.” Ghignò il mercenario, convinto d'averlo ferito. Fu lui a cadere a terra.

Sevan gli si lanciò addosso, in un balzo lupesco. Le nocche, schermate dall'acciaio, vibravano sulle guance pallide un pugno, un altro, ancora uno. Il gigante lo strinse per la cintola e provò a catapultarlo verso l'ingresso, accanto al tavolo dove Sam era appisolato – invano. Si accontentò di fiaccarlo con una poderosa spallata, il legionario crollò a terra e il bancone, i tavoli, traballarono rintoccando all'unisono.

“Per la barba di Shor, adesso basta. Date fine a questa pagliacciata!” Sevan riprese il controllo, torno a caricare l'avversario che per poco non divenne una torcia umana, capitombolando nel caminetto. Si rimise in piedi e allungò quei pali che si ritrovava al posto delle braccia in direzione degli spallacci lucidi dell'elfo. Il soldato schivò un manrovescio, poi il Nord ebbe un'idea. Sfilò la bottiglia dalle mani di Sam e cominciò a brandirla minacciosamente. Fu solo in quel momento che il giullare si svegliò.

“Ridammi il mio vino, manigoldo, il vino dei fratelli Surilie! Questo imperiale ha ragione da vendere, Cyrodiil coi suoi vigneti vi dà il benservito!”

“Fosse solo per il vino!”

Sferrò un poderoso dritto prima in petto, poi si divertì a conficcare la guardia ondulata dei guanti proprio sopra al tatuaggio, marchiandolo per una seconda volta.

“Farò rapporto allo Jarl!” Piagnucolava, coprendosi le labbra grondanti di sangue.

“Oh, sì. Vai pure a lamentarti, se ci tieni tanto a finire nelle miniere. Ricorda chi comanda davvero la città.”

Il bestione sputò a terra e svanì dalla circolazione. Non lo avrebbero rivisto per giorni.

“Alla tua salute, amico!” Esultò Sam, la bottiglia ormai vuota e il vino rovesciato sul basolato, col rosso altrettanto vivo del sangue.

“Alla tua salute.” Contraccambiò Sevan, aggiustandosi la gorgiera.

“Quel tipo non mi è stato mai simpatico.” Biascicò, cingendogli le spalle col braccio libero. “Una testa calda. Quando provo a intonare una nuova ballata... mi viene sempre a zittire mostrando le zanne bianche. Non avrò più da temere, da oggi sei mio amico, e riderò della grossa, qualora mi capitasse di incrociare ancora il suo brutto muso. Allora... cosa facciamo stanotte?”

“Sono in servizio.” Lo dissuase, rimettendo a posto le sedie e i boccali di peltro finiti a terra. Hroki, rassegnata, stava già bagnando un canovaccio.

“Ah, è il minimo che possa fare, per un favore eccellente. Conosci il detto, no? Il nemico del mio nemico è mio amico. Dunque, d'ora in poi ho deciso di far bisboccia con te. Hmm... come ti chiami?”

Il dunmer aggrottò la fronte. “Sevan. Sevan Telendas, legato di Winterhold.”

“Vieni, ti porto dalla padrona.” Ridacchiò Sam, barcollando verso l'uscita. “Visiterai lo Jarl, suppongo. Va bene, ti raccomanderò di persona. Mi conoscono tutti oramai, qui a Markarth. Sono un apprezzato giullare, non lo sai?”

“Dubito che qualcuno ignori tanta fama, messere.” Si cautelò il militare, provando a scrollarselo di dosso.

“Prima, però, devo saldare i conti con qualcuno... un semplice avvertimento.” Saltellò verso un portone coperto di tralci d'edera e vecchie corone di bacche. Era il degno benvenuto di una dimora incassata dietro due colonne austere, che facevano da cornice a una distesa di bronzo ossidato. Da parecchio qualcuno non vi ci metteva piede, e l'ultimo visitatore – poteva giurarlo – era stato proprio lui.

“Polvere di steeeeelleeeee...” Che folle sprovveduto. Non immaginava affatto il guaio in cui si stava cacciando. “Polvere di steeeelleeeee... Ah, vecchio mio. Tu solo soletto, al buio, io alla luce del sole. Donne, festini, tanto buon cibo! Rosicchia le ossa, brutto idiota. Hai i giorni contati, contro di me non puoi niente. Nel frattempo... Polvere di steeeeelleeeee, sulle tue mammeeeelleeee...”

Cosa recita il detto... il nemico del mio nemico è mio amico, giusto? Faticava a trovare un alleato altrettanto stravagante, gli doveva però una bottiglia di vino. L'ennesimo segno, seppure auspicasse un esito diverso. Dopotutto, la natura dei portenti era sempre stata, dagli albori del Mundus, estranea al volgo.

E va bene, mostrami la strada. Convenne Sevan, procedendo compìto verso la rocca.

 



Credo che questo sia stato uno dei capitoli più difficili che abbia scritto. Dovrebbe rispecchiare le idee di base, le riflessioni che mi hanno portato a sviluppare la serie Daedric Maidens per quella che è. Diciamo che questo capitolo parte con due svantaggi: è un attimo di transizione, serve a legare non solo la presenza di Sanguine nella vita di Elanilde, ma anche gli eventi delle vicissitudini di Sevan e della sorella Varasa. Se avete letto Il sonno della belva, avrete intuito di cosa sto parlando. Un altro problema è stato il ripetersi di ulteriori dialoghi. Per evitare l'effetto noia, ho cercato di inserire scene divertenti e presunti colpi di scena. Non sono sicura che lo siano. :)

Siccome sembra tutto abbastanza statico, sono le transizioni ad esser veloci. Di argomenti, di sensazioni. Spezzare un dialogo drammatico è logico anche nella realtà, soprattutto se non porta a nulla o evita di svelare troppe cose anzitempo. Ho corretto degli errori nello scorso capitolo, gli occhi di Ondolemar non sono grigi, ma verdi. Be', può essere importante. A presto! :D

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Capitolo 6
*** Fuga dalla voliera ***


Dentro di noi abbiamo un'Ombra: un tipo molto cattivo, molto povero, che dobbiamo accettare.

 

Carl Gustav Jung



Non accade nulla per una vita intera, poi tutto all'improvviso. All'inizio, le visite imposte erano un pretesto per spiare Dorisa, nel timore che potesse deluderla, rompendo la promessa. Le ore scorrevano, gli scambi telepatici divennero confidenze, scherzi tra amiche. Le diffidenze vennero meno, Elanilde abbassò lo scudo e ritrasse gli artigli. Iniziò a respirare il cambiamento, a trovare un posto nel Mundus. Trovò la forza di abbandonarsi alla gioia, di non fingere, assaporò la libertà e si lasciò indietro le macerie del passato. Dorisa non la trattava come un oggetto, sebbene avesse accettato il compito di insegnarle a saziare gli appetiti di Ondolemar. Nei bauli, la sacerdotessa serbava monili d'argento, gocce di cristallo sospese su filigrane tanto leggere da far apparire la collana il getto di una cascata. Nella fucina faceva i conti con le diverse sfaccettature del suo carattere. Le lame, il vorticare delle fiamme attorno all'asta su cui modellava l'acciaio, e i riccioli invitanti incisi su un pendente d'argento, disseminato di lucciole diamantate.

Sì, stava cambiando. Rideva, o almeno provava, espirando aria in brusche emissioni vocali. Per quanto si sforzasse, ancora non parlava. Dava tempo al tempo. Si contentò, quel giorno, di increspare l'organza scintillante dell'abito da cerimonia per i baccanali. Stoffa lucida, cangiante, le elitre di una libellula.

“Prova a metterne uno.”

Rifiutò. Non perché si sentiva indegna, non per vergogna della nudità. La ragione era semplice: quella toga non le apparteneva. Un'armatura l'avrebbe indossata, pure una casacca bordata di pelliccia. Elanil era nato nella guerra, nel fuoco che aveva avvolto Cheydinhal e Riverview tra grida di morte, di giubilo. La vergine di ferro, il gladio. Il bacio della cicogna a tenerla chiusa in un antro, la gabbia sospesa a reclamare il suo corpo, gli strumenti che si era fabbricata.

Viveva nell'ossessione di creare. Di modellare, fondere e torcere. Era convinta di dar vita e far rinascere appelli alla giustizia e pulsioni mortifere. Aveva la vita nelle mani, donava di sua spontanea volontà e non per comando. Non le serviva un grembo per partorire, di figli metallici ne aveva avuti tanti. Sperava che non seminassero discordia per cause ingiuste.

Non sarò e non vorrò mai essere una signora, motivò dopo una lunga insistenza. Tuttavia, Dorisa la conosceva abbastanza per pungolarla nel suo punto debole.

“Nemmeno una volta? Per sapere che effetto ti fa.”

Prima fu pari ad una bestemmia. Man mano che il livore veniva meno, però, cresceva uno strano desiderio, la smania della trasformazione.

Solo una volta, per capire. Per sapere come ci si sente... finché non sopravveniva di nuovo lei, la realtà dei fatti.

Tirò via il cordone della camicia sformata, si abbassò le braghe dal cavallo ampio per rivelare due gambe polpose, i fianchi larghi. Celò il petto con le braccia; era sul punto di rinunciare, però Elanilde ricordò a se stessa che mai le era mancato l'ardore per affrontare un'insidia. Mai si sarebbe mostrata debole, specie per una piccola tribolazione.

Mancò di grazia nel gettarsi addosso la stoffa leggera. Conservava ancora i modi spicci di un garzone ma, quando essa le lambì la pelle, il suo essere brillò. Aveva le labbra umide, gli occhi contornati da ciglia sottili, tante ispide spine. Ammirò se stessa alla luce della candela mentre in silenzio Dorisa assisteva alla nascita di una nuova seduttrice. Dimostravano suppergiù la stessa età, però era come se Elanilde non avesse cognizione di sé, come se si stesse mirando allo specchio per la prima volta.

“Bussano.” Sussurrò Dorisa, invitandola a raggiungere il divisorio.

È Sam? Sperò che la propria ombra non risultasse troppo apparente dietro gli strati di carta sovrapposta.

“Sam entra e basta. Credo che sia... un visitatore.”

Aveva impresso nella mente il rumore dei passi, lo scricchiolio del cuoio a ogni movimento. Appestava il vestibolo con la sua tracotanza, Ondolemar, anche lontano dalla vista.

“È qui, vero? La sto cercando.”

“L'avete autorizzata, quindi viene quando vuole.”

“Ho bisogno di lei, adesso.”

La difese con tutte le sue forze, ma non approvò. Si fece avanti, così com'era: l'Inquisitore esaminò prima le bende e gli stracci sul letto, poi il paggio a capo chino, il rossore in viso, i segni delle fasce sul torace. Il respiro gli divenne pesante.

“Copriti e vieni con me.” Tagliò corto. “Lo hanno visto in città. A quanto pare non è ancora scappato, di sicuro avrà riparato in qualche canale prima di raccattare le sue cose e svanire. Occorre agire, adesso o mai più”.

Dorisa avrebbe rinunciato con piacere al dono di Sanguine: fu inondata da una ridda di sentimenti contrastanti, di paure e ansie. Rabbia e risentimento, il sangue di Ogmund e la seta delle lenzuola sulle gambe di Elanilde in una camera lussuosa dell'ambasciata. In entrambi i casi, l'eccitazione alla vista delle ferite, la frusta, le suppliche.

“Vai... è tutto a posto.” La illuse in quel gioco impari, la illuse e si condannò da sola, infliggendo su se stessa il marchio scarlatto del boia. Nessuno aveva il diritto di ordinarle come agire, di estorcerle con l'usura un favore e venire a patti con le sue pretese assurde. Aveva dell'inquietante la furia con cui fustigava lo spettro nella visione, risucchiava in un vortice di sopraffazione chiunque avesse osato illuderlo, deluderlo; venir meno al bisogno di tenerezza e accettazione sfigurato in crudele brutalità.

È davvero questo che vuoi? Non ebbe risposta. Svelta infilò gli stivali, coprì i capelli sciolti con un cappuccio che le arrivava a ridosso delle spalle e si ritrovò sola, a dipendere dalle proprie scelte. Recuperò un grimaldello dal fagotto di Sam, prese le vie di Markarth come se tutto fosse lecito, con un prezzo da pagare.

La tramontana agitò gli orli della cintura, alzò il mento verso il cielo e scorse le lune nembifere, irradiate dal guizzo dei lampi. Un odore di carne arrostita attenuava l'umidità di muschio e calce, proveniva dalla locanda dove si stavano consumando i festeggiamenti di una caccia fortunata. Non bastarono quelle voci allegre a calmarla, sotto i drappi della mantella il cuore batteva incessantemente, era l'acqua viva di un ruscello sotterraneo. Cercò di mettere le cose in prospettiva, per fortuna la casa di Ogmund era a pochi passi dalla residenza dello Jarl.

Si mise perciò all'opera: al tocco del grimaldello, la serratura schioccò immediatamente, permise senza troppa fatica l'accesso nell'alloggio. Neanche il proprietario si aspettava di esser invaso in maniera così meschina, doveva godere di grande rispetto. Bene, un'altra azione ignobile da aggiungere al conto che avrebbe presentato ai Thalmor.

Dorisa esplorò l'ambiente, che accusava le tracce di una forzata assenza. Le braci di un vecchio fuoco in un catino emanavano un leggero sentore di cenere, ginepro e lavanda, i resti di un decotto o incenso artigianale. L'abitato era situato nella parte alta della rocca, eppure poca luce filtrava dalle feritoie nelle pareti. Dorisa provò a far risplendere la stanza, ma non le restava animo per credere, agire, figurarsi evocare un incantesimo che non somigliasse a una pallida fiammella. Il corredo era essenziale, gli arredi esigui. Bastò un giro veloce per individuare un baule, scoperchiarlo con accortezza, trovare ciò che stava cercando. L'atto si consumò allo scandire della campana, le pesava come un calcio nello stomaco. Stava per uscire quando udì un rumore alle sue spalle.

Una botola, nascosta sotto un grosso cesto. Appena svelata, e di fronte a lei Ogmund, il volto calmo, la barba cosparsa di polvere fine. Si striò la pelle con un pigmento scuro, pastoso, ricavato da resina e carbone. Le vesti erano impregnate dell'odore della foresta.

“Finalmente ci incontriamo.” La trattò d'amico. “So perché sei qui, so chi ti ha mandato. Quell'elfo non si lascia sfuggire un affronto, piuttosto venderebbe l'anima ai signori dell'Oblivion. Sono nelle tue mani: verrò dunque giudicato?”

“Non sta a me decidere.” La voce della sacerdotessa tremolò, mentre stringeva più forte la catenina dell'amuleto.

“Sei tu, però, che ho di fronte. La donna che stabilirà il mio destino... spesso le scelte non dipendono da noi, è qualcuno che segue i dettami di un codice o il proprio guadagno a imporcele. Sono anziano, devo dire che la mia vita l'ho vissuta... e l'hai notato, conosco bene come eludere chi m'insegue. È un'arte che ho imparato al Collegio dei Bardi, per seminare le ire di un marito cornuto. Non pensavo di metterla nuovamente a buon uso.”

In un altro momento Dorisa avrebbe riso a crepapelle.

“Per questo verrò giudicato, un amuleto...” Glielo sfilò dalle mani con devozione, non gli negò il gesto. “Una cosa da poco. Non è tanto l'oggetto in sé quanto il simbolo... e a lui ho consacrato l'esistenza. Le sue gesta mi hanno ispirato ballate lodate da nugoli di guerrieri... morti in guerra, nel fiore degli anni. Nella spada spezzata, nel soldato caduto, rivedo Talos. Oggi toccherà a me, non mi dispiace... non rimpiango nulla. È così che lascio tutto... non una morte gloriosa, perché di gloria credo di averne avuta abbastanza in vita.”

“Non potrei essere io a condannarti.” Replicò la dunmer. “Non ne ho i meriti, so come ci si sente. Nel silenzio, ad ascoltare la voce divina nel vento. A interpretare un segno... a credere che qualcuno al di sopra di noi ci prenda per mano e ci guidi, nell'arco di decenni.”

“Ti sono grato.” Ogmund le si avvicinò, l'occhio cieco e la vecchia cicatrice non le incutevano soggezione, le infondevano rispetto. “L'ultima grazia è stata questa, di trovare una donna sensibile, che comprendesse. E lei... come sta?”

“Bene.” Lo rassicurò. Le rughe sul viso s'incrinarono in un sorriso affabile.

“Dille che le ho insegnato tutto ciò che so perché in lei ho trovato un'erede. Dille di non soffrire la mia assenza, se Talos me lo concederà, tornerò a farle visita.”

“Sarebbe un suicidio!” Obiettò, rivelando le sue vere intenzioni.

“Un bardo è la memoria di Skyrim: la conosce quanto le linee sul palmo della mano. Ora devo andare, o sarai tu a trovarti in difficoltà. Il Grande Re è infallibile... durante la lettura delle rune, ha predetto che un folle mi avrebbe concesso il senno, che avrei trovato un alleato nel mio nemico.”

“Non riuscirei a cavare un ragno dal buco da un responso tanto astruso.”

“Ci sfidano coi misteri.” Ogmund le rivolse un ultimo, potente monito. “Per capire bisogna vivere e aver fede. Spesso, solo credere... e gli ho creduto abbastanza per rendere una figlia dei Nove felice, anche nei giorni a venire. L'amuleto... puoi tenerlo. Raccontale la verità e fa' in modo che ognuno abbia ciò che cerca, non ne ho più bisogno.”

“Aspetta.” Lo trattenne con un cenno della mano, riducendo poi le distanze con deferenza. “Ero un sicario, ora ti sono amica e debitrice. Il folle, però? Cosa ha fatto, in che modo ti ha salvato?”

“Semplice.” Sogghignò il vecchio Skald, lisciando i baffi radi. “Prima di sparire ho avuto il tempo necessario per guardarmi in giro e onorare Markarth con un ultimo saluto. Avevo l'animo addolorato, fintanto che è apparso un beone dagli abiti variopinti. Le grida, gli insulti... per delle canzonacce da bettola, nulla in confronto alle goliardie del Collegio. La gente dell'ovest si offende per un nonnulla... il giullare barcollava. Era tanto inebriato dalle gioie del vino da non badare a dove mettesse i piedi. Be', ha inciampato sul bordo di un canale scosceso ed è rimasto lì per un pezzo a sguazzare, coi mercanti che si godevano lo spettacolo e il piacere della rivincita. Ho ricordato di avere anch'io una scappatoia, la botola è uno degli ingressi alle gallerie sotterranee. Se non l'avessi visto cadere, probabilmente ne avrei fatta una questione d'onore e sarei rimasto. Continuare a divertire... talvolta è più importante dell'orgoglio.”

“Il mio padrone ne sarebbe lieto.”

“Non lo metto in dubbio.”

La fiammella si estinse, tornò ad opprimerla il buio, non l'incertezza. Ovunque avesse deciso di andare sperava che fosse lontano a sufficienza da poter ricevere le nuove di Markarth e osservare la vita altrui scorrergli davanti, all'ombra degli alberi. Non li avrebbe abbandonati, era la sua presunta mancanza di fede a spiazzarla. Sam si era prodigato sin da subito, utilizzando il tempo che passava con Elanilde per tessere le sue trame. Del resto, non era stato lui a far dono a Mephala di oggetti preziosi con cui spargere invidia e dissidio? Pensò alla Rosa, gelosamente custodita tra una girandola di rovi, in modo da averla sempre sigillata nel corpo, nell'anima. Quando voleva ci sapeva fare, creava delle opere dalla bellezza inaudita. Magari aveva preso in simpatia Elanilde perché era capace di forgiare dal nulla, come lui.

Aspetta che ti metta le mani addosso, azzardò, ficcando l'amuleto in tasca. Avrebbe accampato una scusa con l'Inquisitore, ma col Padrone non avrebbe funzionato. Era sempre lui ad avere l'ultima parola.

 

Giunse un calesse da Solitude quella mattina. Da pochi giorni Elanilde aveva ripreso il suo posto in officina e con solerzia passò in rassegna le spade, gli arnesi, le lamine d'acciaio fuse e appena abbozzate. Moth-Gro Bagol piegò la testa in un fugace saluto, stava molando uno spadone e non amava perdere la concentrazione per evitare di livellare troppo la superficie e raschiare più metallo di quanto fosse necessario. Vide le guardie alternarsi per il cambio, un'ora era andata senza che l'uno o l'altro, di propria iniziativa, avesse rotto il silenzio. Lui per orgoglio, lei per l'imbarazzo.

Affondò le tenaglie nel forno dove prendeva forma un nuovo pugnale, mancò la stretta, e il cilindro incandescente rotolò verso l'incudine. L'orco si piegò per recuperarlo e metterlo in sesto, non nascondendo un'imprecazione.

“Come devo fare con te, ragazzo? Con voi elfi?” Berciò, non per rabbia. Era esasperato, allo stremo. “Viene quel muso storto del tuo padrone, sparisci all'improvviso e non ti fai più vedere. Per dieci giorni... fosse il lavoro arretrato il problema, no. Ti batto sul tempo ancora di parecchio. Immaginavo di cavare i denti a quel viscido altezzoso quando stringevo le pinze, di sfondargli a calci il nobile deretano. Mi chiedevo cosa avessi fatto per meritare una punizione, poi sbuchi all'improvviso e vedo che sei tutto intero. Tanto ho capito... non me lo racconteresti mai, nemmeno se potessi parlare. Ci sono i legionari in città, andrò a mettere una buona parola se ti ha recluso qui dentro, ma dipende da te. Dimostrami che non tollererai ad oltranza e ti farò entrare nella legione. Non ammetto che passi un giorno in più da schiavo, più di quanto tu ne sia cosciente. Se non puoi parlare, fammi capire. Dimostramelo.”

Elanilde piegò le braccia in grembo, lungo i fianchi, a disagio. Era uno dei pochi a preoccuparsi per lei, eppure rimase immobile in un'ingrata segretezza.

“E va bene, vuoi fare il duro.” Commentò il mastro fabbro, colpendo più rapido. “C'è un caporeparto in città, sta attaccando questi. Ha il permesso dello Jarl, ma qualcuno non è d'accordo e li sta facendo sparire, quindi sbrigati. Ecco, leggi.”

Una domanda di reclutamento. Nelle lande non ribelli, la Legione cercava braccia robuste o lavoratori volenterosi per ingrandire gli schieramenti. La forza dell'Impero è il tuo impegno, il tuo cuore. A Cyrodiil avevano sempre saputo come comprare al miglior prezzo. Certi nord avrebbero riso perché il motto suonava ridicolo, lo avrebbero sbeffeggiato in taverna per intere serate.

Sebbene apparisse ruffiano e sentimentale, colpiva nel vivo. Il suo cuore.

“Sapevo che l'idea non ti era indifferente.” Ridacchiò, scoprendo le zanne. “Sei fortunato, incontra lo Jarl ogni sera, s'appartano e discutono. La trattativa va per le lunghe, Igmund promette e nega, e quello se ne va via con un pugno di mosche. C'è un grosso affare in ballo, altrimenti non se la menerebbe tanto... qualcosa che rischia di compromettere Markarth, di certo non è un nuovo filone d'argento nella miniera, avrebbe già radunato i suoi uomini. Per fortuna c'è quel giullare a fargli fare il giro turistico, semmai fallisse potrà raccontare in giro che effetto fa dormire in una camera dove, secoli addietro, viveva un tizio che è svanito nel nulla con tutta la sua schiatta. Bah.”

Non le sarebbe dispiaciuto sparire, trasferirsi in un mondo sconosciuto o una dimensione parallela. Di sicuro avrebbe trovato pace, accoglienza; oppure gli stessi mali del presente. Ad ogni modo, avrebbe deciso da sola la propria vita.

“Cerca di non metterci un'eternità.” Era proprio determinato a farle da consigliere. A coprirla a tutti i costi. Elanilde piegò il foglietto e lo spinse dietro l'orlo della tasca. “Ti procurerò un'armatura decente e una spada affidabile, non parlo a vanvera. Sono un veterano, ma mi è rimasto abbastanza ardore da scagliarmi contro il nemico e cercare una morte onorevole. A meno che non siano quei petulanti Thamor ad uscirne col collo spezzato”.

Aveva smesso di picchiare, il metallo si era indurito, ma non era quello il motivo. Il garzone gli si avvicinò, quatto, e gli aveva posato la mano sulla spalla: un gesto fine, a tal punto da provocare in lui un dubbio atroce. Era sempre troppo vestito, ben rasato, non dormiva coi soldati e nemmeno coi domestici. Molti dettagli stridevano, Elanil appariva e scompariva su ordine del padrone che, di persona, lo cercava, lo rimproverava. Gli schiavi che aveva liberato non ricevevano altrettante attenzioni: non può essere, pensò. Una risposta ambigua contro un riscontro palese: era uno sventurato, un prigioniero di guerra, la stessa che aveva combattuto. Perché badarci, allora?

Il ragazzo annuì, col mento un po' inclinato. Un cortese, discreto ringraziamento... e un implicito invito a tenersi in disparte. Moth-Gro Bagol faticava a intuire chi stesse realmente proteggendo l'altro, tra i due. Alimentò il fuoco, arroventò l'acciaio ancora grezzo assieme ai sospetti. Rabbia e distacco, caldo e freddo.

“Non metterci un'eternità.” Ripeté, rivolto a se stesso. Un'ammaccatura era comparsa al centro della lama, di questo passo si chiedeva cosa ne sarebbe stato di essa dopo la tempra. Farfugliò frasi indistinte e riprese a battere, mantenendo la calma.

 

La forgia richiama uomini e donne che non disprezzano la solitudine, e Moth-Gro Bagol non faceva eccezione. Avere attorno l'apprendista imperiale di Ghorza lo ispirava a ideare nuove e ardite imprecazioni, e quando non poteva fare a meno d'assistenza prediligeva braccia su cui realmente contare. Aveva accettato Elanil per una fortuita coincidenza, possedeva due doti inestimabili: agiva secondo ordini precisi e parlava poco, al contrario di Tacitus. Anzi, era meglio dire che non parlava affatto.

Ciò era allo stesso tempo fonte di calma e frustrazione. Elanilde aveva costruito attorno a sé un eremo che attirava e atterriva. Come individuo ispirava comprensione, fiducia... era sicura che Lampo si lasciasse accarezzare da lei perché era una dei pochi a non urlargli contro. Qualunque segreto custodisse, non avrebbe mai più visto la luce del giorno. Eppure si sentiva un fantasma, quando versava il vino ai banchetti di Elenwen. Mutismo e tacito assenso: aveva imparato ad ascoltare e ancor di più a fingere. S'inchinava distinta, sorrideva beatamente come un povero imbecille. Lo spettacolo convinceva, attirava gli sguardi delle apprendiste, figlie di nobiluomini che avevano donato sangue e futuro ai Thalmor. A riservarle maggiori attenzioni, però, erano i potenti comandanti rimasti misteriosamente scapoli. Ondolemar assisteva alla commedia, nutrendo un'ilarità maligna. Gli sciocchi s'illudevano, perché fraintendevano la realtà. In fin dei conti, era una causa persa.

In fin dei conti, lei gli apparteneva.

Le campane annunciavano il tramonto, la chiusura dei negozi e una fila di figure sbiadite far capolino dalle miniere. Il vapore alimentava il cuore di Markarth, le torce lungo i pendii delle mensole i tanti occhi con cui s'insidiava nel privato dei cittadini. Spaventavano più delle storie divulgate dalle vecchie, specie degli aneddoti sui Rinnegati, che avevano contagiato anime pure negli anni bui del dominio infame...

Elanilde conosceva molti racconti del terrore, ma pochi eguagliavano in oscenità quelli ambientati nell'antica rocca.

Preferiva letture migliori, preferiva la forgia e il sacco a pelo. Aveva solo voglia di gettarsi sul giaciglio, ignorare che tipo di premi sarebbero stati elargiti a nuovi e vecchi amici. Lo trovò fuori posto, arrotolato in un angolo del corridoio. Un trio di soldati scelti si erano ridotti a trasportare arredi come facchini: l'ultimo della giornata era una sedia intarsiata con decori in ottone. Entrò nella stanza che fino ad allora le era stata familiare: un materasso di lana era stato deposto sul letto in pietra, costretto a fargli da sostegno. Facevano subito seguito un'elegante scrivania dai mille cassetti, in sosta accanto all'entrata per la sala da bagno, e pannelli divisori dipinti ad olio da disporre al suo interno. Arazzi Thalmor coprivano il vuoto sui muri, e per scongiurare il grigiore dwemer vi erano cuscini, cuscini ovunque.

“Lì, per favore.” Ondolemar tamburellò le dita su un basso comò, animato dall'immancabile astro di Auri-el. Portò le mani ai fianchi e ammirò il nuovo museo della tenuta con gli occhi di un bambino. I soldati abbandonarono lo studio, sigillarono l'entrata: rimasero soli.

“Sei tornata.” Impiegò parecchio a notare la sua presenza. “Ti piace? Dopo le buone notizie che ho comunicato, l'Ambasciatrice ha pensato d'inviare qualche comodità dalle isole, per rendere meno disagevole la restante permanenza. Ho programmi per te, dopo aver arrestato il bardo potremmo considerare la missione quasi al termine. Rimarremo il necessario per far intendere a questi nord che non devono alzare la cresta. Nel frattempo, partirai per un breve viaggio in barca, una piccola crociera. Apri l'armadio.”

Elanilde s'inchinò, riluttante, e obbedì com'era solita fare. Socchiuse le ante per procurargli una veste da camera, invece trovò toghe scollate in finissima stoffa e ricche cinture d'oro acciambellate, che la intimorirono coi loro occhi da serpente.

“Non ho saputo resistere.” Spiegò, accarezzandola con la voce. “Non so come ti abbia convinta, ma... vederti con quegli abiti mi ha stregato. Ancora pochi giorni, Elan... manca poco.”

Prese posto sulla sedia dall'alto schienale, un piccolo trono per chi si riteneva il vero sovrano di Markarth. Intrecciò le dita e si morse il labbro, incapace di contenere la frenesia.

“Leggi tu stessa.” Un altro foglio, obbedì nuovamente. “L'ambasciatrice, con il potere a lei conferito dall'Ordine Supremo e alla luce dei progressi avvenuti nella zona posta a sovrintendenza, dichiara che l'eresia è stata annichilita, i suoi fedeli puniti e debellati. Concede, dunque, ad Ondolemar – Inquisitore Capo a Skyrim e Agente di Markarth – il privilegio di poter onorare i Thalmor ed Alinor nella vita privata, e il tempo necessario a far in modo che ciò avvenga nella maniera più consona agli usi e costumi degli Altmer. Sai che significa?”

Ipocrisia, pomposità. Risposte scontate dietro giri di parole inutili. Dopo tre mesi dall'incidente al tempio, ritrovò il coraggio per non vergognarsi di piangere.

“Posso scegliere una compagna.” Braccò l'elfa con poche, veloci falcate. Le sollevò il mento con l'indice destro, mentre le dita dell'altra mano erano impegnate a mietere lacrime. “Non pensare al bardo, al passato... ma al nostro futuro. Potremo mettere in discussione tutto, ripartire da zero. Provare a conoscerci realmente perché io non so chi sei, Elan... e tu ignori quanto abbia voluto mostrarti quella parte di me stesso che continua a sperare.”

Il sogno testimoniava la sua innocenza, smentendo ogni accusa d'imbroglio. Come se si trattasse di una prova attendibile... volle crederci, fidarsi sino alla fine.

“La verità è che non sono chi hai di fronte. Ho imparato a fare bene quello che mi hanno insegnato, perché non ho avuto alternative. Detesti le frasi che recito: 'Salvezza dei Mer', 'Veri vincitori della Grande Guerra'. Non sono diverso dal centurione dwemer che difende un angolo remoto di queste rovine, ignaro del destino dei suoi creatori... ti prego, credimi. Sono un essere irrecuperabile, ma se ci sei tu, forse posso sopportarlo... Ti prego!”

L'elfa chiuse gli occhi e poggiò la testa sul suo petto. Sfiorò col naso gli alamari della palandrana, mentre i polsi sottili s'avventuravano sotto il cuoio, a ridosso della casacca. Stupida, a farsi raggirare con trucchetti meschini: non avrebbe ceduto l'incolumità di Ogmund in cambio di docili moine. E nonostante tutto, lo strinse tra le sue braccia come se nulla contasse, provando a restituire al ragazzino timido della visione parte della vita che gli era stata negata.

Elanilde, mia gioia. Veniva allo scoperto, con le lacrime e la sua lingua natale, oltre la vergogna e il rimpianto. Se fosse stato indulgente, avrebbe imparato ad amare se stesso e perdonato gli sbagli di chi l'aveva rovinato per troppa premura, troppo vanto. Divorava e torturava le labbra dell'amata nel bisogno viscerale di averla accanto e non separarsene mai e poi mai.

L'elfa sussultò, la porta vibrava restituendo battiti intermittenti. Prese le distanze mostrando lo strascico dell'uniforme, dimenticò l'apparente debolezza.

“Il nome, la ragione per cui mi cercate.” Sospirò, sfibrato. “E se ho motivo di ricevervi, prego, entrate.”

“La sacerdotessa desidera parlarvi.” Udì la voce gracchiante del buffone, spazientito. “E voi piano, miserevoli tirapiedi. È qui per onorare un accordo, mica per mangiarlo!”

“Avanti.” Ordinò, riprendendo l'usuale simulazione. “Vi attendevo con ansia.”

“Ho qui quello che avevate chiesto.” Tagliò corto, facendo tintinnare l'amuleto sul tavolo di pietra sguarnito. “Una prova materiale per l'interrogatorio. L'ho recuperato quel giorno stesso, ma sapete... una donna come me ha bisogno di tempo, tempo per adorare il suo Padrone.”

Elanilde la odiò. Di rimando, Dorisa le rivolse uno sguardo supplichevole, invocava pazienza.

“Proprio quando era necessario per stabilire i termini dell'interrogatorio? L'ambasciatrice attende un rapporto, le ho annunciato che il fascicolo completo perverrà entro sette lune. Rimedierò, ora veniamo al dunque. Lui dov'è?”

L'ho visto, sta bene. Il pensiero scosse Elanilde, le infuse fiducia. Erano ancora tante le preoccupazioni: il luogo, le modalità della fuga. Domande a cui Dorisa non seppe rispondere, nemmeno a monosillabi. Si pentì d'aver accusato l'amica, di aver involontariamente imitato Ondolemar nella foga, negli intenti.

“Vi ho consegnato l'amuleto, ho trovato la casa vuota. Avrà intuito che stavate per agire contro di lui, specie se vi ha fatto torto, quindi non so.”

“Fuggito, allora.” Scaraventò a terra i calici appena traslati da un bauletto allo scaffale, il cristallo si volatilizzò in una miriade di frammenti appuntiti. “Non è potente, il vostro Padrone? In cosa ha mancato, per guidarvi tanto maldestramente? Cosa gli sfugge all'intelletto? Visioni, prodigi, sussurri dall'Oblivion... nulla di più terreno dell'inettitudine, piuttosto.”

“Mi sono attenuta a quanto ordinato.” Sibilò Dorisa, il suo essere ribolliva in una tempesta di rabbia e lapilli. “E se proprio ci tenete ad esser illuminato sulle vie di Sanguine, vi posso assicurare che, con tutta modestia, l'unica inettitudine è stata fornire ordini vaghi e cantar vittoria troppo presto.”

Gli occhi dell'Inquisitore, prima umidi, si iniettarono di sangue.

“Taci, megera!” L'ira lo trattenne a poche spanne di distanza, anzi, era stata Elanilde a frapporsi tra i due, con le braccia in fuori. Il lupo perde il pelo, ma non il vizio.

“Ora ti ci metti anche tu, sempre a difendere amici discutibili e non la dignità. Sono stato accondiscendente, ma qui si rasenta il limite. Guardie!”

“Cosa?” Vennero a prelevarla gli stessi altmer armati che l'avevano separata da Sam. Le acciuffarono gli avambracci con lunghe, dorate falangi e la trascinarono verso l'anticamera nonostante le proteste, le urla, il fracasso.

“Avevamo un patto, messere.” Intimò la sacerdotessa, a testa alta. “Dimostrate, almeno, di tener fede alla parola data.”

“Elanil, secondo cassetto, primo tomo in fondo.” Sbraitò, indicando la scrivania. “E adesso, abbiate la creanza di lasciarmi solo, dato che non siete stata in grado di esaudire almeno uno dei miei desideri.”

“State commettendo un madornale errore. Non temete, comunque... tornerete molto presto. Avrò la creanza di accogliervi a braccia aperte”.

“Indietro! Dove stai andando?” La serva prese a rincorrerla, agitando un cumulo di pagine rilegato sotto una copertina di cuoio nero.

“Che mi prenda un colpo, vecchio mio!” Sam aveva ripiegato nelle cucine per trafugare dell'arrosto di carne in compagnia di Sevan, divenuto ormai un salvacondotto per l'impunità di fronte allo Jarl. “La mia padrona, trascinata come un sacco per il corridoio e scacciata dalla rocca! Simili affronti non si possono ignorare, facciamo vedere a quei brutti ceffi di cosa siamo capaci!”

“Hai bevuto troppo vino, giullare.” Lo blandì il legionario, dandogli dei colpetti sulla schiena. “E peggiorerai la situazione. Lascia fare a me, nel frattempo riempi lo stomaco.”

Un'altra serata, un altro giro a vuoto. Starsene in disparte con il bretone, rivelatosi poi l'attendente della chiacchierata sacerdotessa degli intrallazzi, era per Sevan un passatempo per leccarsi le ferite e rallegrare l'umore. Doveva ammetterlo: lo aveva conosciuto per caso e all'inizio gli aveva provocato non poche noie, però gli stava già a cuore. Si faceva voler bene, aveva spirito ed era un gran cantastorie, specie quando metteva in note la grandezza di Sanguine...

Avrebbe composto ballate su di lui, su come avesse difeso l'onore della Signora? Così la chiamava, una sorella dunmer dal viso tondo e i capelli scuri. Non gli faceva una buona impressione, non perché fosse poco raccomandabile, no... gli ricordava Varasa, lo zelo con cui lo seguiva, finché giunse quel giorno maledetto.

“Adesso basta. Gli ordini sono ordini, qui però si esagera.” Bene, un conflitto di interessi servito su un piatto d'argento. Al richiamo del legato Telendas, la scorta dell'Inquisitore si fece indietro e lasciò la maga ansante sul lastricato. L'aiutò a rialzarsi, consapevole di averla spuntata per evitare presunte rappresaglie. Era conveniente sbilanciarsi in un atto di forza, intimidire e non passare dalla parte del torto con gesti spropositati. La caccia all'intruso avveniva sempre allo stesso modo: isolare l'elemento singolare, che destabilizza l'equilibrio nel mucchio, per dimostrare di appartenere in un contesto a cui si è altrettanto estranei. Nella sacerdotessa, Sevan vedeva una donna che andava avanti da sola, credendo in un ideale.

Una donna graziosa, che arrossì non appena accettò il suo braccio per muovere qualche passo. Per Azura, cosa doveva fare?

“Lei è mia!” Esclamò Sam, in uno stridulo avvertimento. “Se proprio vuoi darti delle arie, guarda! C'è il servo muto del Thalmor che ti viene dietro... con uno strano libro appresso!”

“Già... il libro! Grazie, Elanil.” Tossì Dorisa, in un veloce elogio.

Dovresti tornare dall'Inquisitore, non aggravare la situazione rimanendo qui. È stato uno scatto d'ira, domani andrà meglio...

Il volantino, non lo aveva dimenticato.

Ho poco tempo e una decisione da prendere. Ondolemar intende allontanarmi da Markarth, ma sarò la prima a farlo. Non c'è rimedio, s'è gettato nello stagno e affonda nel suo stesso fango... non trascinerà anche me lì dentro.

Spiegò il foglio dritto in faccia al legionario, puntandolo a due dita dal naso, in modo che solo lui potesse leggerlo.

“Ehi, amico, lo riconosco. Questo è uno dei primi volantini, l'inchiostro è meno sbiadito e la carta bianca, non macchiata come quelli che hai sparso in giro oggi. Quella rissa alla locanda è stata fenomenale! Ci farei una breve postilla... La forza dell'Impero è il tuo impegno, il tuo cuore. E anche l'arguzia di schivare un gancio ben assestato e vincere un gruzzoletto niente male, dopo una sonora scazzottata!”

“Soldi che, ovviamente, finiscono nelle mani dello scrivano. Qui a Markarth sono degli imbroglioni, guarda se ti sembra il modo di lavorare! Carta ammuffita, inchiostro vecchio quanto i tempi del Nerevarine. Se mi dicessero che la carta la fabbricano con la pelle avvizzita dei draugr e il resto con la polvere delle loro ossa, ci crederei!”

Elanilde batté i piedi, richiamando l'attenzione su se stessa.

“Sei proprio deciso, vuoi entrare nella Legione? Ci potrai essere utile, sperando che non giocherai a fare la spia.”

“Credo che abbia tutto l'interesse ad esservi fedele, messere.” Commentò Dorisa, perorando la sua causa. “È uno schiavo di guerra, e prima di finire nelle mani dell'Inquisitore, viveva con la famiglia a Cheydinhal. I Thalmor gli hanno portato via tutto e hanno incendiato la città prima del Concordato, quindi è motivato più dalla vendetta che dalla lealtà.”

“Bentornato, allora, ragazzo. Presto avrai compagnia, per ora pochi ma buoni, giusto?” Sembrava che l'elfo avesse dimenticato la diffidenza, in un'esultanza giovanile. “Sam mi ha parlato tanto bene della Signora che, oh, adesso anch'io pendo dalle sue labbra. Cosa sai fare?”

Elanilde imitò i movimenti del fabbro, incudine e martello.

“Perfetto, sarai di grande aiuto al campo. Ah, tanta fatica ma ne è valsa la pena! Ti manderò un mago guerriero, allora, qualcuno che conosce bene l'arte di passare inosservato. Starà a te decidere il momento opportuno, sei d'accordo?”

Annuì. Era fatta: non le importava che Ondolemar, dopo aver sfogato la frustrazione per la mancata cattura, notasse l'assenza e giungesse a recuperarla. Non le importava, perché il foglietto era tornato nel bavero della casacca mentre era lì, a custodire un segreto a due passi dalla libertà. Si era condannato, dando adito ad una distrazione che aveva attirato i Thalmor verso il suo alveare. Con le guardie del corpo a sciamare lontane, l'ape sovversiva poteva tranquillamente ambire al miglior miele.

“Elanil.” Fu turbato alla vista dei tre, percepiva un'aura ostile. L'inquisitore li degnò di un'occhiata fugace, quasi paventasse affrontare i latori della sua presunta disfatta. Non avrebbero mai più messo piede nella dimora dello Jarl, giurò. Gli bastava cambiare le carte in tavola per dare agli intrusi, i veri intrusi, il trattamento meritato.

Elanilde si voltò ancora, all'angolo del corridoio, verso i suoi alleati. Divennero una macchia lontana, un alone fluido al di là del dardeggiare incostante delle fiaccole. Non le importava, non l'addolorava... Era una momentanea tregua prima dell'attacco. Il dominio dell'Inquisitore aveva le ore contate mentre lei si rafforzava, complice un nuovo destino. Custodiva un segreto, e una certezza, che nessuno le avrebbe tolto.


 


 

Non so se ci saranno altri aggiornamenti, questo fine settimana o durante la prossima. Spero solo di finire la storia entro i primi d'ottobre. Il bello è che per scrivere queste pagine ho seguito delle note sgrammaticate che ho appuntato a parte, nello stesso file in cui sto portando avanti il racconto. Se le leggeste vi mettereste le mani nei capelli. :) Interi paragrafi riassunti in una decina di righe dove sono descritti gli eventi, tipo una scaletta. Pensavo che scrivere il capitolo precedente fosse stato difficile, ma per questo ho davvero penato, cercando di legare frasi ed eventi, in modo che ogni cosa avesse una logica... spesso determinata da piccole azioni, come quel “volantino” che Elanilde fa sparire in una tasca e che si rivela poi cruciale. Gli espedienti possono essere discutibili, ho cercato di fare del mio meglio. Se ci sono dei punti rimasti in sospeso, verranno approfonditi prossimamente. Forse pubblicherò altri due capitoli prima dell'epilogo, tutto però dipende da quanto scriverò (non voglio punirvi più di quanto abbia fatto ora). Potrei correggere e modificare qualche frase, per migliorare il testo in generale. Con Ondolemar... non so se ho esagerato. All'inizio il dialogo con Elanilde era più drammatico, poi ho cambiato qualche parola per non sfociare nell'OOC, sempre che non l'abbia fatto, mi rimetto a voi.

Be', a presto. <3

 

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Capitolo 7
*** Ad ali spiegate ***


La nebbia aveva voce. Non era il vapore leggero dell'alba, ma un crepitio roboante che si ripeteva, e s'intensificava, laddove essa appariva più fitta. Dorisa faticava a riconoscere i volti tesi, nello sgomento della bufera incipiente. Ognuno correva ai ripari, alcuni soldati imperiali sotto le barricate, altri direttamente nel forte. Poco a poco, l'erba e il suolo arato delle fattorie circostanti vennero ricoperti da uno spesso strato di cenere. C'era chi gemeva crollando a terra, dopo esser stato colpito dai lapilli incendiari che piovevano dalle nuvole nere, infernali.

“Presto, nei sotterranei!” Il comandante impartì l'ordine, seguito dal segnale del corno. L'obbedienza dei sottoposti fu unanime, ma per coloro che erano a Forte Frostmoth come semplici attendenti e manovali, ogni risoluzione era una tappa obbligata verso la fine.

“Andiamo anche noi?” Una ragazza in abiti da cuoca s'aggrappò al braccio di un uomo più in là con gli anni. Spiccavano nell'ombra gli occhi grigi e gli zigomi pronunciati, i solchi resi ancora più profondi da una barba brizzolata, che non vedeva da giorni il filo del rasoio.

“Se l'edificio crollasse, moriremmo come topi in trappola.” Replicò lui, categorico. “I guerrieri vogliono ritirarsi nel sottosuolo, li lasceremo fare. Sono un mago e non comprendo le loro strategie, più che altro... se voglio sopravvivere, preferisco mezzi alternativi.”

Altri membri del gruppo erano impegnati a spargere liquido refrigerante sui mattoni della torre, alternandosi in una staffetta. Un khajiit e un dunmer, invece, avevano le braccia tese verso il soffitto e un alito di ghiaccio risaliva in su, dalle loro mani agli architravi in legno. Ben presto il tetto sarebbe crollato, era inevitabile.

“J'Drasha vuole che Oldis riposi.” Disse il khajiit all'elfo oscuro, entrambi appena promossi al rango di mago specializzato nella gilda. “Pensa lui al tetto, tu va' da mastro Iunius, ha bisogno di aiuto.”

“Ma...”

“Niente ma per J'Drasha.” Lo zittì, con l'unghia davanti al muso e continuando il lavoro con l'altra mano. “Non vedi? Gli altri hanno paura. Togli la paura, in qualsiasi modo, con qualsiasi cosa. Forse potremo andare via da qui.”

Il nome di Oldis e il suo volto sembrarono a Dorisa insolitamente familiari. Sedeva tra una dozzina di persone all'addiaccio sulle scale, ma nessuno sembrò far caso alla sua presenza. Era piombata lì all'improvviso, per chissà quale portento divino. Li studiava con attenzione, uno ad uno... uno scudiero, uno stalliere e una governante imperiali. La cuoca bretone, un argoniano che distillava pozioni con un armamentario da viaggio; due guerrieri nord, forse membri del villaggio Skaal che si ritrovavano lì a commerciare con gli occupanti; una mercante bosmer e infine i maghi, compresi J'Drasha e Oldis, col loro precettore a completare il numero.

“Cosa ci resta da fare?” Chiese Malvedir, abbandonando la merce in un angolo e nascondendo il volto e le lacrime dietro le ginocchia. “La Montagna Rossa si è ribellata, il cielo ci è contro. Anche se fuggissimo da qui, nessuno riuscirebbe a raggiungere le montagne. L'unica cosa che si può fare è sperare di trovare una caverna.”

“L'unica cosa da fare è pregare.” Fece lo scudiero, battendo i pugni contro il muro. “No, non può finire così. Da quando si sono aperti i portali è stato un ciclo di sventure continue. Credevo che i Daedra ci avessero risparmiato, invece tocca subire questo...”

“Dov'è finito il tuo coraggio, Gnaeus?” Tuonò il nord, ritto contro il muro e a braccia conserte. “Facci il favore di mantenere il silenzio, così non sei d'aiuto.”

“Hai ragione.” Il ragazzo si levò per raggiungere mastro Iunius, poi fu il turno di Oldis. “Credo che qui non reggeremo a lungo. Bisognerà trovare una via di fuga verso gli alberi, a nord.”

L'uomo non ebbe da ridire quando gli giunse accanto. Colse il suggerimento implicito e prese a recitare orazioni, con le dita accavallate sopra un intrico di vene pulsanti. Oldis lo imitò, sussurrando invocazioni a Mara, ad Akatosh. Aveva lasciato a casa la futura moglie, a Raven Rock: l'aveva convinta a partire per Solstheim, dopo anni passati insieme a Blacklight, ma non ad unirsi a lui nella fede per il culto dei Nove. Singhiozzi e colpi di tosse interrompevano il flusso mentale di frasi imparate a memoria, lodi che in altri momenti avrebbe pronunciato a cuor leggero, canticchiandole durante la colazione o rimarcandole fermo tra gli sbadigli, quando il sonno era pronto a reclamarlo. Avvertì una fitta al petto, un boato, lo sfavillio della lava rovente sibilare a pochi passi di distanza. Il nero si crepò, i contorni prima sfumati delle nubi vennero alla luce designando una figura altera, sinuosa, una vana allucinazione.

“Sento che c'è speranza.” Una certezza intangibile per mastro Inunius, che dentro di lui acquisiva forza, coerenza. Il mago era ritto in piedi, proprio innanzi l'immagine di un drago spettrale che ruggiva spianando la via tra detriti e fiamme. Oldis non poteva credere ai propri occhi, era lì, a lambire la cima della collina.

“Maestro, avete visto?” L'elfo oscuro puntò il dito in alto, convinto che anch'egli fosse spettatore del portento. Invece, il mago si limitò a sorridere e con una serenità abbacinante gli confermò la presenza di un'entità che soltanto lui era in grado di vedere.

“Lo sento, è qui con noi... ha ascoltato le preghiere. S'è aperta una breccia nel cielo, tra i due crinali, e oltre la collina. Raccogliamo i fagotti con le provviste e partiamo subito, se ci sbrighiamo potremo approfittare del diradarsi della colata e raggiungere in tempo un anfratto nella roccia... roccia millenaria, più dura e resistente di qualsiasi edificio.”

“Sei convinto di quello che stai dicendo?” Fu la risposta di Gnaeus.

“Non ne sono convinto, ne sono sicuro”.

Oldis sapeva di essere privilegiato ad assistere all'apparizione del drago. Aveva squame splendenti, movenze umane: Dorisa provò la stessa beatitudine, lo stesso sbigottimento. Per un attimo, la sua mente si fuse con quella del ragazzo, fu testimone dell'estasi e della gratitudine verso colui che chiamava guida, protettore.

Non un brandello di polvere osò sfiorarli. Inunius e Oldis erano a capo del gruppo di rifugiati, spronati all'azione dallo stesso intento. Dorisa li seguì fino a quando trovarono riparo in una grotta ai piedi del monte, come avrebbero vissuto da lì in poi sarebbe stato favore divino: speravano di trovare animali ancora in vita, carcasse commestibili, o meglio ancora una sorgente interna e pesci d'acqua dolce. La voce di Akatosh era rassicurante, paterna, portava al cuore un messaggio diverso a ognuna di quelle anime.

Oldis, hai creduto in me nonostante il disprezzo e le insidie. I conterranei ti hanno chiamato traditore, gli uomini ti hanno accettato, ma per loro sei sempre stato un forestiero. Eppure ti sono caro e hai continuato a vedere il futuro e il prossimo senza rancore, con una fiducia inscalfibile. Questo è il segno della mia grazia, il tuo premio: continua a donare il massimo a questi miei figli, e io ti donerò giorni ed anni più lunghi. Fallo sempre, non perderti mai nel risentimento. Proteggerò te e la creatura che Elmussa porta in grembo. Anche lei è benedetta e in qualunque momento le sarò vicino, sempre.

Dorisa emise un sospiro e cercò di sfiorare la fronte senza rughe di colui che amava con tutta l'anima. Non aveva più dubbi... ecco cosa era accaduto, quel giorno. Ecco perché aveva ereditato una parte di quel potere.

“Papà...” sorrise, certa del fatto che il suo affetto l'aveva seguita fin lì, che restasse immutato. Si sentì colpevole perché aveva messo tutto in discussione: unendosi a Sanguine stava utilizzando la Voce per i suoi fini. Invece, lui aveva agito per il bene altrui, per Akatosh.

“Adesso tocca a me scegliere.” Disse a se stessa, mentre cominciava a dissolversi in minuscoli atomi, a sparire.

 

“Sapevo che ti avrei trovata qui... fra tutti, questo è il regno a cui sei più affezionata.”

Sanguine si divertì a scostare le foglie che le erano piovute addosso. Riposata accoccolata sulla panca, di fronte ad una tavolata vuota, la stessa che mesi prima pullulava di gozzovigliatori giunti per assistere al primo incontro tra il principe e la prescelta. Da quando si era insediata a Markarth, invece, il boschetto sacro era diventato un'oasi di silenzio, un tempio in cui Dorisa meditava. Riposava in una capanna nascosta nel sottobosco, l'esatta replica del rifugio accogliente in cui lo spiritoso amante l'aveva condotta dopo le numerose peripezie per infondere nuova vita alla Rosa. Le era accanto, sotto un manto di capelli scuri ad avvolgere spine di bronzo. Spine che le ricordavano la natura dell'amore e di ogni altro sentimento: piacere e dolore, bellezza e fatalità.

Scosse la testa, ancora insonnolita. Da giorni riviveva le scene del passato sotto forma di viaggio onirico, ma non avrebbe mai immaginato che con la memoria si potesse risalire allo stato embrionale. Ogni episodio era un passo edificante, insegnamenti pari a quelli del grande Vivec, ormai recluso nei recessi della terra.

“Cosa c'è?” Chiese l'elfa, con la bocca impastata.

“Hai anche il coraggio di domandarmelo? Non ti sei fatta più vedere. Da quando ci hanno... cacciati dalla città, il tuo umore è crollato a picco e anche la lussuria.”

“Non ho voglia di passare la notte a divertirmi... anzi, vorrei che mi lasciassi sola.”

“Diamine, ragazza.” Una mezzaluna candida spuntò tra le pieghe della pelle d'inchiostro. “Se ti avessi voluta scosciata, desiderabile e altera, avrei preferito la statua di Meridia sul monte Kilkreath e non una donna in carne ed ossa.”

“Mi piace Meridia, almeno veste con stile.” Ribatté, chinando di nuovo la testa sul tavolo.

“L'ho vista e ti posso assicurare che le renderesti giustizia, per essere una mortale. Non so quali idee tu abbia, quali scelte rischiarano il futuro. È vero, ci sono cose che un bruto come me non capisce. Sensazioni che mai mi hanno toccato, neanche di sfuggita... la sconfitta è l'inizio della rivalsa. Invece, un essere terreno ha una sensibilità diversa: teme la morte, l'abbandono. Affianco a me sei sempre al sicuro. Spero che ti entri bene in testa, se ti ho scelta è perché sei preziosa”.

“Tanto lo so che mi tieni solo perché ti piacciono i sederi grossi, furfante.” Dorisa si versò una tazza di tè, ormai freddo. Che infamia! I tini erano vuoti, le lucciole a danzare lontane dai festoni e le braci sotto il calderone gelide da un pezzo: quale altro castigo si sarebbe inflitta?

“Di notti bianche ne ho consumate molte, mia cara. Di corpi ne ho visti sfilare un'infinità... ma i cuori, Dorisa. Quanti cuori adoranti un principe che si ritiene divinità può dire di possedere? La merce rara cresce sui rami alti degli alberi. Sono quei frutti succosi toccati dal primo raggio di sole, dolci e polposi. C'è chi si accontenta di tendere la mano, chi di scrollare la pianta, io preferisco arrampicarmi. Volevo il tuo cuore puro, l'ho conquistato. Faresti lo stesso per quel marpione di zio Sanguine, mia cara?”

“Andrei in capo al mondo” sussurrò. Si era voltata di scatto, per poi poggiare una guancia sulla porpora della lunga tunica. Quanto si era sentita sola a Winterhold, prima d'incontrarlo al Focolare Gelato. E quanto la torturava l'incomprensione, il fatto che una tazza fumante – o un libro – erano lì ad attenderla all'ennesimo tentativo di salvataggio finito male. Sì, era ostinata: pensava che bastasse poco per migliorare la vita di qualcuno – qualcuno a cui si sarebbe presto affezionata, tanto da considerarlo amico. Quanto era stupida a pensare di poter aiutare tutti...

“Non è vero.” Le sussurrò lui all'orecchio, solleticandole il collo. “Perché te la prendi a male? Per un elfo saccente e piantagrane, che ricambia i favori con un cumulo di informazioni inutili ben rilegate? Se fosse stato capace di amare davvero quella poveretta mica sarebbe venuto da te! Evita di imputarti le mancanze di chi ti vuole schiacciare a terra, a tutti i costi.”

“Così non cambia nulla,” Gli strinse il collo forte, mentre sfiorava col naso i contorni sbalzati della fibula nera, metallo dell'Oblivion, “altrimenti perché viaggiare, perché vivere se poi tutto deve rimanere uguale?”

“Nonostante i torti subiti sei sempre ottimista, anche se lo Jarl e i suoi cittadini sono come cani fedeli finché c'è una mano che dà loro da mangiare. Vuoi il cambiamento, allora perché sei triste?”

“Cerco di farne a meno ma non riesco.” Dorisa si strinse le spalle tra le mani, nascondendosi tra i petali, nuda quanto un fiore appassito. “Bloccherei questi pensieri se ne fossi capace, direi a me stessa di valere qualcosa...”

“Chi vale davvero non ha bisogno di attaccare l'amor proprio altrui. La pausa di riflessione è durata abbastanza. Dunque che si fa, ricominciamo daccapo?”

Dorisa annuì, incapace di opporgli rifiuto. La cannella e i chiodi di garofano l'avevano inebriata, le fronde degli olmi protetta, ogni schizzo d'acqua vibrava una nota nell'armonia naturale della selva. Eppure, quando si è soli, anche una reggia può sembrare opprimente come una cella.

“La Rosa, tortino alla crema...” Sghignazzò Sanguine, recuperando una bottiglia di vino buono dalla cassa con fare indifferente; mentre il bellissimo manufatto aleggiava a mezz'aria, davanti agli occhi umidi e le labbra dolci e socchiuse che avrebbe presto bagnato. “Non l'hai mai adoperata come si deve. Sai, manchi ai cani di Markarth ora che si parla del drago.”

“Non mi dire che l'odore del sangue continua ad attirarli ovunque vada...”

“Certo.” L'afferrò con una piroetta, esibendosi poi in uno smaccato inchino. “Sei una brava evocatrice, eppure ti ho donato un potere degno di una regina. Un esercito irrefrenabile”.

“Giungerà a rendermi giustizia o a difendere la roccaforte?” Il tappo venne via dalla bottiglia con un ridicolo effetto da fuochi d'artificio. Dorisa lo afferrò al volo, per poi portarselo sotto le nari ed esalare l'aroma di rosa canina e frutti di bosco. “E soprattutto, com'è possibile che un bastone sia capace di evocare un plotone armato fino ai denti?”

“Prova tu stessa.” Raccolse il guanto di sfida. Entrò in comunione con le energie del bosco, immaginò palazzi di basalto e distese lussureggianti, pozze d'acqua sulfurea e caserme dove lo sferragliare di catene e lame era accompagnato da risa, danze e musica. “Eccola qui, la guardia del corpo... ha giurato di proteggerti e non vedeva l'ora di essere convocato”.

Tutto s'aspettava, tranne quella figura curva, inginocchiata e scarna. Un furetto tra le sterpaglie, un piccolo predatore senza prestanza ma con lo sguardo calmo, intelligente.

“Mia signora, aspettavo questo momento.” Il dremora era poco più che un ragazzino, coi capelli lunghi e arruffati. L'armatura appariva fuori misura sui muscoli snelli, l'estremità contundente del mazzafrusto era grande quasi quanto la sua testa. Dorisa era preparata a tutto, ma non ad accoglierlo in modo da non offenderlo. Si limitò a inclinare il capo, a porgergli la mano e a studiarlo con notevole interesse.

“È carino, vero?” Sanguine ignorò ogni reticenza e s'avventò sul ragazzo, finendo di spettinarlo. Prese a ringhiare come un cagnolino che non voleva essere coccolato. “Shamna, prode guerriera e scudo di Dragonstar, ebbe la sfortuna di ostinarsi contro ogni forma di licenziosità che animasse le notti buie, noiose. All'inizio era un fastidio trascurabile: entrava nei postriboli e da comandante delle guardie minacciava di sbatter fuori chiunque macchiasse l'onore di uomini e donne ignari di un tradimento, delle divinità a cui il proprio corpo va consacrato. I nobili non ne volevano sapere di fare carte, perciò decise di recarsi al santuario dove i tenutari dei bordelli pregavano per garantirsi locali pieni e succulenti banchetti. Non ti dico lo scempio! Perciò le mandai Grammok, dalla lingua affilata quanto la spada.”

“E cosa fece?” Dorisa s'accigliò, non sapendo cosa c'entrasse tutto ciò col nuovo arrivato.

“Ovviamente cerco di mediare e fu molto civile, posso assicurartelo. Shamna terminò la sua, ehm, profanazione... ma dentro di lei s'era insinuato il morbo che aveva cercato di combattere. Sentì il peso della colpa, perché aveva appoggiato una causa giusta attraverso la violenza. A chi avrebbe dovuto chiedere scusa, comunque, a un gerarca dremora? Peccato che i suoi occhi neri e tanta rettitudine avessero fatto colpo. Be', quando Shamna tornò al santuario per affrontarlo in un ultimo duello verbale, perse su tutti i fronti. Grammok la sconfisse e di lei non si seppe più nulla.”

“Quindi... Shamna è morta?” Azzardò la sacerdotessa mentre il dremora impallidì, per quanto un volto scuro e non del tutto ricoperto di tatuaggi potesse darlo a vedere.

“Certo che no! Altrimenti come farebbe il mio adorato Sulak ad essere qui?”

“Ah”.

“Non devo mica chiedere il permesso, sono grande abbastanza!” Il dremora, anzi Sulak, scrollò la testa e alzò il mento. “Risparmiatele la storia della mia vita, vecchio, e ditemi se c'è un piano in atto. Non vedo l'ora di infilzare quel drago come un vitello allo spiedo!”

“Calma, calma. A quanto pare hai preso da lei.” Non gradiva che si facesse beffe di lui. Finalmente Dorisa s'alzò dalla panca e gli venne incontro per dargli una pacca sulla spalla. Rimpiangeva di non avere un fratello, altri su cui contare, se non i genitori. Gli scostò un ciuffo dalla fronte e lui la osservò in silenzio. Stai dalla parte del vecchiaccio, vero? Lo dava per scontato, sebbene avesse tutte le ragioni per pensarlo.

“Benvenuto a casa.” Esordì Dorisa per riappacificare gli animi. “Hai tutto il diritto di decidere quando agire, dato che il vecchio ti ha ordinato di proteggermi. Ci saranno sicuramente delle guardie ai bastioni di Markarth e faranno di tutto per evitare che io rientri in città. Quindi ti chiedo... puoi cercare di aggirarle?”

“M'inventerò qualcosa.” Rispose, grattandosi la testa. “Per fortuna abbiamo il fattore sorpresa dalla nostra parte. Ditemi, Signora, perché vi interessa tanto aiutare un branco di idioti che vi ha ostacolato? Non meriterebbero niente, invece ve ne state qui in disparte a pensarci su. Non capisco...”

“Sai, in mezzo a un branco di idioti c'è sempre qualcuno che salveresti. A Markarth vive una ragazza che non merita di rivivere la catastrofe, di vedere ancora un incendio. Per lei sono rimasta e per dimostrare che l'amore non è una debolezza... semmai lo è troppa intransigenza.”

“Ben detto, bocconcino caramellato!” Riusciva sempre a rovinare tutto, a sminuire qualunque affermazione seria. Però non era male... se non ci fosse stato Sanguine a rallegrarla, quante volte avrebbe gettato la spugna? “Potrei mostrarti ciò che intendo per amore proprio qui, adesso...”

“Con me presente e con una uguale a mia madre quando parla?”

“Ah, taci, marmocchio. Cosa ne sai tu?”

“Poco, ma mi basta per intuire che vi state comportando come lo scemo del villaggio o un damerino da strapazzo. Tutte queste smancerie inutili, avete addirittura osato chiamarla bocconcino caramellato... si può essere più stolti di così?”

“Se ti becco!” Urlò il principe dei bagordi, mentre rincorreva il malcapitato ragazzino brandendo la Rosa come un bastone da passeggio in mano ad un anziano collerico. A quanto pare sia il tè che i giorni di ritiro erano agli sgoccioli: poteva contare sul responso di Sanguine e un nuovo aiuto, benché non proprio valido.

Forse così ci si sente. Il pensiero balenò per un attimo, poi volò via col fumo della candela. Non le faceva male, almeno per un po', tornare ad essere una ragazza comune.

 

Elanilde ricordava ancora la scena. Rimaneva un mistero per lei la remissività con cui l'ancella di Sanguine e il giullare avessero affrontato l'ordalia. I due avevano oltrepassato le mura con i Sangue d'Argento e le guardie a urlargli i peggiori insulti. Li avevano accusati di empietà, sacrilegio, persino di aver violato il tempio di Dibella dato che, col favore della notte, qualche ladruncolo vi si era introdotto per trafugare una statuetta antica, ricoperta d'oro e fili di perle. Non molte ragioni erano state fornite al popolo, le si potevano leggere su manifesti diffamatori affissi in ogni angolo della città. Perciò, tutti erano convinti che scacciare la sacerdotessa e rinnegarne i consigli non fosse solo necessario, ma anche la scelta più giusta.

L'unica amica si era così volatilizzata nel nulla e lei aveva ripreso la solita vita in officina. Talvolta si fermava a guardare l'acqua scorrere nei canali lo scroscio era invitante; desiderava tuffarsi e non riemergere. Vedere la luce e rimpiangerne il calore, nell'apatia, nell'assenza di sollecitazioni. Esserci o no avrebbe fatto di poco la differenza.

Il distacco attira, è inevitabile. Cancelmo e il nipote allungavano ogni tanto un'occhiata furtiva, non si sentivano invasi, piuttosto cercavano un modo di coinvolgere il garzone Elanil, per distoglierlo dalla solitudine. Quanto era goffo Aicantar, a cercare di incuriosirla con alcuni frammenti d'iscrizione dwemer e degli ingranaggi di metallo, particolari che un fabbro avrebbe apprezzato, poiché i pezzi provenivano da una di quelle famigerate e mortali balliste. Prese a farlo sempre più spesso e con piacere Elanilde gli concedeva il proprio tempo.

Aveva notato la solidarietà delle persone estranee. Accortezze capaci di migliorarle la giornata, piccoli gesti che qualcuno era incapace di apprezzare.

Ondolemar... senza dubbio era stato lui a esasperare lgmund, a strappargli quel bando, nel fallimento costante di volersi rendere gradevole ai suoi occhi, di essere preferito a coloro che considerava mezzi di realizzazione personale. Più volte le aveva fatto trovare, come monito e sul sacco a pelo, uno degli abiti che aveva preso ad odiare. Stanca, delusa e amareggiata, aveva tirato fuori il coltello e per assicurarsi di non ritrovarli ancora li aveva fatti a brandelli.

La paura la bloccava, la rabbia la spingeva avanti. Moth-Gro Bagol non aveva posto rimostranze quando, il giorno seguente alla malefatta, Elanilde aveva accantonato il lavoro per appropriarsi di una pila di lamine d'acciaio per cominciare a lavorare su un progetto totalmente nuovo.

“Prima le armi, eh? Poi la fuga. Menomale che hai capito.”

Sevan era rimasto nella rocca perché sarebbe stato poco prudente per l'Inquisitore attuare la vendetta fino in fondo. Il legato era alleato dello Jarl, in pace con il Dominio Aldmeri e non dava segni di ostilità. Accusarlo avrebbe significato agire nel momento sbagliato, giacché i minatori al di là delle mura avevano avvistato un drago oltrepassare in volo gli scavi, per poi dirigersi verso le montagne ad est. Difendere Markarth era diventata una priorità, non c'era più tempo da perdere nelle dicerie. Tuttavia, nulla sarebbe accaduto, poiché i cittadini si affidavano alla pietra e a costumanze durate secoli. Prima veniva lo Jarl, poi l'Impero e infine Alinor, come ultima ruota del carro.

Gli armamenti arrivavano da Solitude, degli orchi non c'era da fidarsi: se il drago avesse attaccato, i Thalmor avrebbero difeso da soli la loro postazione. I nodi erano venuti al pettine, un'emergenza aveva svelato le posizioni reali sulla scacchiera. L'inquisitore era in cima ad una torre d'avorio, una torre che tutti desideravano veder crollare.

Elanilde non l'avrebbe seguito. Era stata schiava per una vita intera, le spettava decidere come morire.

L'ira arroventava l'acciaio: cieca, inestinguibile. L'anima della spada acquisiva spessore, veniva fuori in un'assurda semplicità. Pochi ornamenti, solo una facciata lucida su cui specchiarsi e l'elsa guarnita con ossa di cervo. Andava a caccia, di fronte non aveva la preda, bensì il futuro. Poteva lasciarlo scappare o trafiggere l'ultima occasione: nulla senza dolore e cicatrici. Il sangue era il sentiero oltre la montagna, alimento dell'erba, cancrena e sutura.

Si spegneva il sole, s'accendeva un lume. Aveva smesso di contare le ore, di dar retta ai pensieri, si era annullata nella sua ultima speranza. Elanilde era conscia che fosse l'abito a dettare timori, disprezzo e aspettative. Negli abiti risiedeva la coercizione di Ondolemar e un affetto perverso, fatto di quadri già dipinti appesi con foga su pareti nude. Immagini per compensare debolezze, inesperienza.

Gli occhi le lacrimavano, magari era il calore della forgia, la polvere metallica raschiata dalla ruota. E mentre infilava un perno per fissare le guarnizioni sull'impugnatura, immaginava uno stiletto tra le costole, il bavaglio di cuoio per renderlo muto quanto lei. E muta era pure la pelliccia d'orso con cui foderava la giubba, perché la nuova compagna sarebbe stata una valida custode.

Non accade nulla per una vita intera, poi tutto all'improvviso. Le attese sono fatte di attimi persi nel fluire del tempo, ma la vendetta... la vendetta reclama pochi, spontanei gesti.

 

 

Igmund serrò le mascelle, inarcò le ciglia e si erse dopo un profondo respiro. Scese gli scalini, impettito, tenendo le braccia indietro per indicare a Faleen e Raerek di stargli alla larga. L'avrebbe sistemato in fretta, quel dunmer che tornava a palazzo solo per ficcare il naso e sparare sentenze, senza riguardi.

“Mio Jarl, non avevo intenzione di offendervi.” Sevan scrollò la testa, sapeva di aver superato il limite e avrebbe continuato a farlo. “Eppure, se ritenete importante il consiglio di un alleato, è bene che riflettiate su quanto ci tengo a sostenere, da giorni ormai.”

“Vi nego ogni possibilità, Legato.” Biascicò, trattenendosi a fatica da una sfuriata. “Non pronunciatevi più a favore di quella sgualdrina e del suo attendente. Da quando hanno messo piede a Markarth, la moralità latita: gli schiamazzi si sono fatti più rumorosi, il tempio di Dibella ha perso l'immagine venerata dai pellegrini, un cittadino è scomparso e i Thalmor mi si sono scagliati contro perché non è altro che un ricercato. Ah, ci mancava solo il drago a dare il tocco finale. Ciò che chiedo è di poter governare questa città e di mantenerla nella quiete che merita.”

“E non pensate che, da buon nord, sia onorevole prestare ospitalità?” Sevan rincarò la dose. La mano s'avvicinò di sfuggita al pomo della spada. “Questi stranieri hanno moltiplicato gli avventori della Locanda Sangue d'Argento. Nei borghi vicini si elogia Markarth come luogo scelto dall'amore e dalla bellezza... nonostante gli omicidi, i sotterfugi, qualcuno è disposto a vedere il lato buono delle cose. E credo che i mercanti non si siano lamentati troppo quando tutto filava liscio e le tasche grondavano oro.”

“Cosa intendete insinuare?” Gli era a poche spanne di distanza, a sputacchiargli sul naso. L'elfo restò inamovibile, tanto da evitare di pulirsi il viso.

“Non insinuo, espongo semplicemente il mio punto di vista.” Aveva sentito abbastanza, era ora di andar via. “Se avete ritenuto opportuno bandire dei viandanti senza fondamento, allora identificare l'autore dei furti non sarà faticoso, dato che continuano ad avvenire. O è forse meglio servirsi di un capro espiatorio per metter fine a dilemmi irrisolti? La casa abbandonata, ad esempio... non so se mia sorella è morta, se il custode l'ha assassinata o peggio...”

“Ho usato nei vostri confronti fin troppa cortesia... adesso, fuori di qui!”

“Provvedo subito, grazie.” Prima di andare lo ossequiò coi dovuti omaggi. Un inchino con le ginocchia a terra, lento e formale: immaginava innanzi il dovere e l'autorità, non l'ipocrisia attuata per puro guadagno. Ben lieto, Sevan voltò le spalle a Igmund e al suo trono.

“Tenete a mente, però, quali sono i vostri veri alleati, mio Jarl.” Un briciolo di fiducia gli suggeriva che, forse, alla fine il buonsenso avrebbe prevalso. “Si faranno avanti quando sarete in difficoltà, senza pretendere nulla in cambio, neanche la lealtà”.

Aveva fortuna per essere un povero diavolo, con quel cimelio affisso lì in alto, tra drappi di velluto scarlatti. Lo scudo dell'amato padre, che aveva rivisto la luce grazie al sudore altrui.

Doveva essere una prova? Allora Sevan si sentiva provato da tante, troppe situazioni. La guardia armata gli permise riprendere la via della locanda, di sparire per un paio di giorni evitando di piantar grane. Le due facce della politica imperiale, l'intrigo contro l'azione esplicita, bene si accordavano col cinismo di cui era stato oggetto... anche se comprendeva le ragioni, poiché erano le stesse che lo avevano spinto, anni prima, a intraprendere la carriera militare.

Ragioni futili, ma pesanti come macigni.

Il presente e il passato erano fusi in una linea continua, priva di cambiamenti. Continuava a vedere ciò che aveva smarrito nelle piccole cose, risvegliavano in lui spiacevoli connessioni. La stessa permanenza in quella città odiosa, da cui desiderava disintossicarsi, incatenava una parte dell'anima al rimorso. Che fosse vigile o meno, poco contava... l'incubo era un'ombra incombente.

Scattò all'indietro, convinto d'esser inseguito, il presentimento si dimostrò reale. Una figura svelta era venuta fuori dalla fucina, altri non era che il servo dell'Inquisitore, Elanil. Prevedeva quale sarebbe stato il motivo dell'incontro, perciò preferì distanziarsi dal corridoio e raggiungere l'anticamera degli scavi dwemer; sarebbe bastato a non tradirlo, a garantirgli la sicurezza che cercava. L'ininterrotto rombare dell'acqua gli ovattava la voce, quasi quanto il vapore delle cascate sfumava la geometria dei canali.

“Hai le orecchie attente, mi fa piacere.”

Il garzone annuì, com'era solito fare quando ascoltava.

“In caso spettasse anche a me la sorte degli indesiderati... vuoi cogliere l'occasione per dartela a gambe, giusto? Ti manderò un corriere, uno che non desti troppi sospetti, verrà a chiedere delle riparazioni. Hai un'arma o dovrò procurartene una?”

Elanil delineò i contorni del filo, dell'elsa, sembrava che la spada fosse lì o pronta ad esser evocata attraverso l'immaginazione.

“Bene. Avrai dei complici nell'impresa, se ci ripensi... mandalo via con una scusa qualunque. Non preoccuparti: le persone che ti tireranno fuori da qui non verranno dichiarate responsabili. È tutto nelle tue mani, mi affido alla tua prontezza, al tuo coraggio. Può darsi che non ci sarà modo di rivedersi ancora, in tal caso... addio e buona fortuna!”

La storia del ragazzo gli stava a cuore, ma non avrebbe messo a repentaglio la vita di un sottoposto. Aveva imparato a non dare per scontato un gesto amichevole, la presenza di chi si professava compagno. Azura l'aveva visto nello sconforto, poteva testimoniare sull'arroganza infantile e le scelte sbagliate che l'avevano trasformato nell'uomo distaccato con cui scendeva a patti quotidianamente. La vecchia impulsività era la malinconia di qualcuno che aspirava a credere, a fidarsi ancora, nell'incapacità di perdonare se stesso.

“Presto, alle postazioni di vedetta. Hanno avvistato il drago!” Le urla di Faleen avevano interrotto il flusso di memorie, Sevan le corse dietro mentre le guardie si unirono presto al corteo allarmato. Varcati i bastioni della tenuta, ognuno prese la propria strada o cercò un luogo adatto a colpire. Purtroppo, il soldato imperiale scoprì che in una città fortificata verso l'alto una spada non gli era di grande utilità, se non nel corpo a corpo. Indugiò per qualche attimo, poi ebbe un'idea.

Discese le scale in fretta e furia, guidato dal serpeggiare del fumo: trovò Ghorza riparata dietro un pilastro, con l'arco pronto a scoccare e l'apprendista, Tacitus, a reggere la faretra balbettando frasi incomprensibili.

“E non stare lì a frignare, hai detto che te la cavi un po' con la magia. Vedi, qualcosa sai fare... altrimenti queste frecce non avrebbero la punta! Almeno le hai affilate a dovere?”

Il ragazzo ebbe solo la forza di assentire con un cenno. Ghorza riprese a scrutare il cielo, nauseata.

“Lo prendo in prestito.” Nell'emergenza un arco mancante non avrebbe fatto la differenza tra la merce in vendita. Il sole stava per calare, avevano pochi minuti di luce a disposizione: Faleen era di fronte l'ingresso del salone di Vlindrel con Aegis a darle manforte. Sull'altro versante, Bothela e le sacerdotesse di Dibella, di solito sempre a battibeccare sulla condotta dell'alchimista verso la natura, si erano unite contro l'avversario comune. Avvertiva il crepitio delle fiaccole, lo sventolio degli stendardi sulla torre di guardia e il respiro farsi affannato, mentre martoriava la piuma tra le dita.

Strisce ramate permanevano all'orizzonte, e al di là di esso una cortina scura s'infittiva poco a poco. Vennero giù travi e pietrisco dalla muraglia, si susseguirono strilli, passi concitati. Non era lo sprazzo celeste tra i due bastioni a spegnersi tra le nuvole, piuttosto una sagoma spinosa, ad ali e fauci spiegate.

I soldati lungo la passerella saggiarono in pieno la colonna di fuoco che la creatura gli soffiò contro. Accecati dal panico, dal dolore, si dispersero verso i portici e in vie differenti. Le guaritrici in cima non attesero oltre e si diressero in soccorso, mettendo a repentaglio la loro sicurezza. Il drago seminava panico, volando in circolo e puntando le guardie in una cruenta gara di tiro. A tutti spettava la propria dose, quindi Sevan ricambiò con impeto e furia, mentre s'immaginava da funambolo a traballare sulla corda, a cercare un equilibrio o a strappare alla bestia il ruolo di predatore.

Sussultò quando si ritrovò qualcuno alle spalle, era Elanil, attirato dal trambusto e in compagnia di una spada appena forgiata. Gli stava accanto, reggeva uno scudo rettangolare per rendere la sua mira più sicura, l'ansia meno palpabile. Sevan si parò dietro l'insegna di Akatosh, urlando imprecazioni e indenne per una manciata di secondi, da cui era dipesa la sua vendetta. Sopravvivere ad un combattimento è questione di distanze.

L'aveva visto di sfuggita, però era servito a sgomentarlo.

“Questa fottuta bestia non è un drago, Azura sa con che razza di demone abbiamo a che fare!” Scese dagli spalti per scivolare dritto nell'arena, la piazza del mercato era divenuta un ammasso disordinato di roghi, membra maciullate e cadaveri ustionati. Tra il fumo e gli stendardi strappati, i minatori colsero l'occasione di venire allo scoperto e di piantare, su dorso e coda del drago, le punte dei loro picconi. Volarono via, come gocce d'acqua sulla pelliccia bagnata di un orso. Altre guardie, altri cittadini gli si scagliarono contro. Uno straniero rinfoderò la spada d'acciaio e svelse l'ascia dal cinturone. Era un uomo nord d'età indefinita, sul viso portava i segni dei giorni passati in una prigione naturale, le linee del vento, del gelo, degli artigli che quasi gli avevano portato via un pezzo di guancia.

“Hai le ossa contaminate... non è Akatosh a sorreggerti!” Prima una curva, poi un affondo dritto che la creatura schivò, provando ad azzannargli un braccio. Sevan si ritrovò a imitarlo, a non intralciarlo mentre sfidava la bestia a farsi avanti. Un folle, un avventuriero? Era già tanto se non l'aveva ammazzato, impegnato com'era a sostenere il disprezzo millenario delle pupille striate.

“Scansa, a destra!” Il dunmer gli si parò avanti con lo scudo, per scongiurare gli uncini appuntiti sull'estremità delle ali: gli si spezzò dritto di fronte al naso, ma sostenne ancora il moncone attaccato all'impugnatura. Era chiaro che reclamasse la sua carne, che volesse inghiottirlo nel profondo del crepaccio in cui dimorava. I gambali cedevano, aveva abbandonato l'arco e presto si sarebbe difeso solo con la spada. Diamine, si stava dando da fare anche per lo straniero, era ora che pure lui facesse qualcosa...

...e rimase immobile, chino sull'elsa, quando il nord pronunciò minacce in una lingua a lui incomprensibile. La bestia prima ringhiò a zanne scoperte, poi indietreggiò e spiccò il volo, abbandonando la battaglia all'improvviso, così com'era iniziata.

“No... non ci posso credere.” Farfugliò Sevan, conscio delle implicazioni di tale scoperta. “Tu... Sei un Sangue di Drago. E io credevo che lei fosse l'unica!”

Un sussurro che interruppe la breve meditazione del guerriero, con gli occhi fissi ad est, verso le vette sepolte da ghiacciai perenni.

“Conosci chi si fa chiamare Sacerdotessa di Sanguine?” Domandò, andando dritto al sodo e senza convenevoli.

“Sì, e non rivelerò dove si trova. L'hanno scacciata, i bastardi, e adesso ne pagheranno le conseguenze. Ho abbastanza buonsenso per ringraziarti, se sono vivo dipende in parte da te. Ma lei, cosa vorresti farle... ucciderla?”

Non si accorse di aver sibilato, incurante della folla che gli si stava radunando attorno. Una sola ragione lo spingeva a voler proteggere la sorella dunmer, con cui di rado aveva avuto l'opportunità di conversare. Andava al di là della convenienza, somigliava ad un filo invisibile che univa le loro vite. Qualche sprovveduto avrebbe riso, giudicando dalle apparenze: la sacerdotessa, poi, era tanto affabile da invogliarlo ad offrirle più della sua amicizia. E così non era, perché il passato gli impediva di andare avanti. Gli impediva di considerare quella donna una fiamma, anzi, lo spronava alla resa dei conti. Ci contava, serviva il nemico del suo nemico. Aveva consultato mistici ed evocatori, si era offerto di rimanere di stanza a Winterhold per stare a contatto coi maghi in grado di indicargli come liberare Varasa.

Si somigliavano molto e capiva. Capiva cosa volesse dire servire i daedra. Sentirsi benedetti o sporchi; reietti, peccatori. Vestigia di rabbia ed eccessi di ira ancora lo visitavano nello sconforto: metteva in riga i cattivi pensieri, quando ne era in grado. Quando non poteva, afferrava l'ascia e abbatteva abeti e carcasse di horker. Scaricare le proprie responsabilità sul riflesso dell'odiato maestro non lo esimeva dall'ammettere gli errori... eppure, ciò che aveva costruito era andato in frantumi. Un'innocente era stata plagiata perché l'aveva affidata all'uomo sbagliato, aveva valutato le parole di un estraneo più di quelle del suo sangue. Solo la rabbia lo mandava avanti, nel tormento gli dava un motivo per non farla finita.

Lo straniero si strofinò il naso. “Non intendo ucciderla. Qualcuno ci andrà vicino, comunque, se mi precludi di vederla. L'entità che ha attaccato la città non è un drago qualunque... sono stato mandato da chi ne ha avvertito la voce. L'essenza è la stessa, inconfondibile... però, una magia oscura la contamina. Esiste un signore dell'Oblivion che è noto come il Mietitore delle Anime. La sua perversione è tale che, nel delirio, ha tarpato ali nate per librare al vento. Ne hai visto uno, ma potrebbero essercene ancora. Per questo chiedo di vederla, devo evitare che accada.”

“E va bene.” Si risolse il legato. “Il nemico del mio nemico è mio amico, ma non torcerle un capello. Ti farò pagare anche il minimo sfregio, lo prome...”

“Haraldur.” L'altro gli porse la mano. “Non ci saranno conflitti d'interessi. Prima andiamo e meglio è, non vorrei ritrovarmi segugi alle spalle...”

“Lui, dici? Nah, è un pezzo di pane.” Il servo del Thalmor raccolse i pezzi scheggiati dello scudo e li fissò inebetito, sentendosi un peso morto. Piegò leggermente le ginocchia e filò via, prima che si ripetesse la prassi agli occhi di Markarth. Detestava quando la mettevano da parte: Elanilde era persa nel vuoto che i due combattenti lasciarono dietro, estromessa dal calcarne coi propri piedi le impronte. Se era un uomo d'onore, avrebbe mantenuto la promessa; non si sarebbe dimenticato di lei, non l'avrebbe costretta a imputridire dietro un velo di cipria o a consumarsi tra la cenere della fucina. Il presente era a pezzi, ma l'avrebbe ricostruito, riforgiato, con le sue stesse mani.

Guardava avanti, al futuro.



Pensavo che non l'avrei pubblicato più, che ci volesse più tempo. E invece eccolo qui, senza troppe pretese perché così mi dicevo, mentre buttavo giù frasi che non mi piacevano. Scrivi, scrivi per raccontare la storia. Puoi tornare indietro,  l'importante è che vai avanti.

La cosa strana è che sono stati introdotti nuovi personaggi, proprio mentre la storia dovrebbe volgere al termine. Perché? Sentivo che era arrivato il momento. Una nota breve: per questione di realismo, anche “mitologico”, ho preferito che per i dremora fosse possibile scegliere un compagno umano. A dire il vero, ci saranno anche altre “stranezze”, chiamiamole così. Non so se mettere diciture particolari per i fedelissimi del lore, a questo punto, o dire semplicemente che mi sono presa delle libertà. Se avete giocato ESO, forse vi sarà più chiara la tipologia del drago apparso in questo capitolo. Purtroppo, devo ancora correggere alcune frasi nel capitolo precedente. Altre note potrete leggerle nel blog.

A presto, spero. :)

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Capitolo 8
*** Il tempo è rapace ***


Il drago era tornato. Lo scudo che aveva fabbricato l'aveva servita bene in battaglia, e ora giaceva a pezzi tra i rottami della fucina. Elanilde era certa di esser sopravvissuta, di aver trattenuto le lacrime fino a mozzare il respiro, mentre cercava la quiete tra le pellicce. Aveva sempre ovviato all'angoscia con sedativi e false rassicurazioni: all'inizio era stata dura ma poi, col passar del tempo, assistere ad una tortura o al pianto di un prigioniero durante un interrogatorio le provocava una fitta allo stomaco e non il tormento che la costringeva in ginocchio, con gli occhi barricati dietro i pugni per non guardare, scaturito dalla consapevolezza di essere sola in un'infamità perenne.

Ripercorreva gli eventi a ritroso nel dormiveglia, per non dimenticarli. Lo scudo, lo straniero. Sevan, l'arco, lo spiraglio attraverso il portone. La cascata scrosciante, la fuga.

Tremava, non per la spregiudicatezza del piano attuato con Sevan per tirarla fuori dalla rocca, era il ricordo di quella creatura maledetta a sconvolgerla. Anche un'elfa semplice come lei intuiva di non trovarsi di fronte a un prodigio comune, ammesso che la visione stessa di un drago potesse definirsi tale. Trasudava indifferenza, crudeltà... i figli di Akatosh seguivano dettami giusti. Forse aveva di fronte un essere deviato, ridotto a una larva senza volontà. Già, così doveva essere. Se avesse mostrato un briciolo di compassione non avrebbe avanzato per primo... sembrava conoscere i punti deboli di una città che stava in piedi solo per orgoglio.

Era sicura che fosse una visione, che la visione fosse una trappola per istigarle il suicidio al culmine della disperazione. Elanilde desiderava rivolgere la spada verso il petto e farla finita perché la bestia, anche nell'illusione, era invincibile. Né umani né mer attorno a lei erano in vita, giacevano l'uno sopra l'altro tra montagne di ossa e terra riarsa, mentre un uragano rabbioso sovrastava il ruggito del drago.

Erano le anime dei disperati, giunte a punire il male che l'avevano straziate, in una tromba d'aria che si abbatteva su qualunque cosa come una furia cieca. Non aveva molte possibilità: forse anche lei avrebbe raggiunto i morti. Si sarebbe unita a quel coro urlante, e allora sì, avrebbe avuto una voce prima di finire all'Oblivion.

“No!” Ebbe la forza di ribellarsi, spiccare il volo e puntare al muso della bestia. Valeva la pena provare, combattere e opporsi per renderle parte dello stesso dolore. Andare via, certo, ma non col rimpianto di aver assistito alla propria fine.

La curva del ciclone deviò, la scansò consapevolmente, per inghiottire il drago. Fu sorretta da una forza invisibile, infusa a parole da spiriti sconosciuti.

“Non ancora, figlia mia... non ancora.” La lasciarono con poche parole, le ultime che udì prima della fine di un incubo sventato.

“Elan, Elan. Non ignorarmi e per quanto è vero Auri-el, calmati!”

Ondolemar le tergeva le labbra con un fazzoletto mentre le sue braccia, mai così calde e accoglienti, le impedivano di agitarsi e tremare. Lo strinse forte, per accertarsi che fosse davvero lì con lei.

“Questo è troppo... perché ti chiedo di rimanere nella rocca? Per evitare disastri. A quanto pare, un residuo di energia negativa ha contaminato la tua mente. Hai battuto i denti, pianto e ringhiato tutto il tempo, sai perché? Prendere quella pozione è stata l'idea peggiore che potessi avere. Gli hai offerto l'anima su un piatto d'argento! Ringrazia gli Déi se tutto è andato bene... ignori i pericoli di queste rovine, altrimenti non ti azzarderesti a fare la sbruffona contro un'entità ignota. Mettitelo bene in testa, sei uno scudiero, un fabbro...”

Si chiuse ancor di più nell'abbraccio, per evitare di sentirsi persa, sola. L'Inquisitore rinunciò alla predica per indulgere in un piacere più gratificante. Era sempre stato combattuto tra l'affetto e la necessità di doverle impartire ordini, però... non era tardi, magari, per lasciarle intendere quanto desiderasse risparmiarle la guerra. Tenerla fuori dal pericolo, sebbene ciò significasse essere veicolo di odio, disprezzo.

Riemergeva a galla il rimpianto, assieme alle travi carbonizzate della bella casa di Cheydinhal.

“Adesso capisco.” Le sussurrò, pettinandole la frangia. “Mi ostino a tenerti perché sono un debole. Avrei potuto contravvenire all'ordine di Valermo, invece non l'ho fatto. Ho preferito ubbidire perché era comodo, il modo più semplice per guadagnarmi la stima e il rispetto della mia famiglia. Non posso cambiare il passato, ma migliorare il presente. Ti prego, scappa via: affitterò una casa per te a Solitude, per ridarti ciò che ti ho tolto. Sposami. Può darsi che questa città balorda diventerà la mia tomba... se vivrò ancora, sceglierai se togliermi la vita. Sposami, però, eredita ciò che possiedo e vivi. Vivi meglio di quanto tu abbia fatto con me... non sei tu a meritare di morire.”

Gli sfiorò il viso, marcando la fossetta sul naso, le linee dure ai lati della bocca. In modo terribile e maldestro l'aveva sempre protetta, sebbene ciò non le restituisse gli anni tumultuosi passati in schiavitù. Era giunta l'ora di decidere, la scelta o il compromesso.

Che sciocco! Aveva di fronte il vero prigioniero, colui che per amore era disposto ad annullarsi, pur di garantirle un futuro felice e redimersi. Altmer stupido e ostinato, fino alla fine seguace di cause perse.

Elanilde non condivideva la passione per il dramma, preferiva le favole sugli animali, le storielle dei villaggi presso il lago Rumare. Gli avrebbe donato un briciolo di tenerezza, una scintilla di pazzia: accostò le labbra alle sue e lo baciò, come avrebbe fatto una sposa. L'avrebbe ricordata così, fino alla fine; si sarebbe illuso di averla avuta solo per un attimo.

“Senza di te sarei comunque morto. Arriverà il calesse tra quattro giorni, non c'è modo di fare più in fretta. Se vorrai... donarmi l'estasi, al sorgere delle lune, sentirò meno la mancanza. Anche se non ricambi sei tu l'unica che vorrei come compagna”.

Legare ad una persona limitata, imperfetta, il proprio destino. Un errore di calcolo madornale per l'Inquisitore, osannato ad Alinor e inviso alla nobiltà di Skyrim, credere ad un effimero senso di sicurezza dato dall'amore. Ripudiava ogni logica, cedeva al romanticismo.

Ecco, alla fine, il vero Ondolemar.

Gli sfiorò la punta delle orecchie e volò via, tenendo fede al pericoloso scambio di promesse. L'aspettava il calore dell'officina, un armamentario di spade da molare e scudi scalfiti, lavori estenuanti e intrapresi a cottimo che in periodo di guerra sono la norma.

Era un uomo come tutti, glielo leggeva nel sorriso, negli occhi sbiaditi che cercavano in lei la proiezione di un ideale. Elanilde ricambiò, avendo pena e rimpiangendo ciò che poteva essere.

Prima dell'ultimo giorno.

 

Sevan aveva congegnato un sotterfugio ideale, garantendo al servo del Thalmor una breccia tra la postazione di Moth-Gro Bagol e la rivendita di Ghorza, al di là delle arcate. Messo alle strette, Igmund aveva ceduto alle pressioni dello zio e convocato ufficialmente un presidio imperiale. Ad Emmanuel spettava il controllo del Reach per costringere il drago – o qualunque cosa fosse – a rimanere confinato tra le montagne. Il legato dunmer, nominato un sostituto a Winterhold, si era guadagnato per merito il diritto di gestire l'emergenza a Markarth e mediare tra lo Jarl e i cittadini. Igmund, ovviamente, avrebbe preferito altre soluzioni, tuttavia vinse il buonsenso e abbandonò ogni antipatia e screzio. Anche se i dissapori stentavano ad estinguersi, i colloqui ripresero e divennero più lunghi e frequenti. Con incredibile sollievo per Raerek e Faleen.

Alla forgia, invece, i colpi di maglio si erano fatti assordanti. Il fabbro orsimer era stato costretto a prolungare il lavoro, a molare le lame nottetempo per effettuare la battitura nelle ore di luce. Non rischiava, comunque, di esaurire spazio sulle rastrelliere, dato che un emissario di Sevan Telendas – o meglio, un cadetto sempre diverso – giungeva a reclamarle prima che penzolassero dai ganci tra le fenditure nella roccia.

Ne aveva visti passare tanti, nessuno però era tanto improbabile quanto quello che gli avevano inviato quel giorno. Era un ragazzetto bretone dinoccolato e lentigginoso, di certo alle prime armi, ma sfacciato come pochi. Giocherellava con una moneta da un septim che, non sapendo se per scherzo o segno di devozione, aveva forato e appeso al collo come portafortuna. L'aveva sfilata dal laccio di cuoio ed era irritante vederla scintillare oltre il fumo acre delle braci, mentre piroettava in aria tra un'acrobazia e l'altra.

“Testa, rimango qui e aspetto che mi rivolgete la parola. Croce, mi prendo le spade e me la filo comunque...”

“Ah, piantala, novellino!” Grugnì Moth-Gro Bagol, tentando di risultare minaccioso ma finendo per esalare un sospiro stizzito. “Ti diverti a indossare l'armatura, eh? Sono quelli come te che muoiono per primi sul campo di battaglia. Fossi in te ci avrei pensato due volte ad arruolarmi!”

Il cadetto ridacchiò, per nulla risentito. Lanciò la moneta un'ultima volta, gli finì sul dorso della mano senza troppe cerimonie e in un tintinnio secco.

“Testa!” Sbottò sottecchi. “La fortuna vi arride, vecchio stivale rattrappito.”

Cosa?” Conosceva Emmanuel e Sevan, la loro solerzia durante l'addestramento, ma per l'ultimo squadrone di sicuro avevano dato fondo alle campagne. Un tipo del genere lo vedeva bene in una taverna, col liuto in una mano e il boccale nell'altra, non ad onorare l'Impero.

“Ripetilo ancora se hai il coraggio, sbarbatello! Rattrappito, a me? Non hai nemmeno idea di cosa significhi rimanere serrato nei ranghi, con il sole di Hammerfell che ti brucia le pelle. Piuttosto stammi a sentire e tieni bene a mente le mie parole. Vuoi mollare? Fallo appena puoi e se cerchi qualcuno che ti spiani la strada nella vita, be', trovati un bardo! Per la barba di Malacath, quel giullare maledetto, perché l'hanno cacciato via? Ti avrebbe risposto per le rime e non avresti fiatato oltre!”

Il ragazzo, niente affatto intimorito, sghignazzò a bocca chiusa. Moth-Gro Bagol scosse la testa, si arrese e decise che continuare a lavorare era la soluzione migliore per non infilarlo di testa nella fornace. D'altronde, aveva abbastanza sale in zucca da capire che certe battute non erano gradite.

Il giovane bretone passò in rassegna con lo sguardo le spade di ferro, quelle di metallo dwemer; molte in stili comuni, altre più insolite e decisamente frutto della fantasia dell'armaiolo. Tra quelle riposte nell'angolo più lontano dell'officina vi era una spada d'acciaio lucente e un giustacuore leggero, di cuoio indurito sul fuoco, con foderatura ed inserti in pelle d'orso.

Si lasciò sfuggire un fischio di apprezzamento.

“Bella questa.” Si piegò e distese una mano verso il corsaletto imbottito. “A quanto, fabbro?”

“Dubito che ti paghino abbastanza per potertela permettere, e comunque non è in vendita.” Ribatté Moth-Gro Bagol, in segno di sfida e al contempo fiero del suo aiutante. “Se t'interessa, però, l'ha forgiata Elanil, un elfo che risiede qui alla rocca. Spero che oggi sia il giorno giusto, gli avevo detto di non metterci troppo... è davvero ingenuo!”

Non capì di cosa andasse cianciando, anche se il tipo doveva essere davvero in gamba per strappare un complimento a un orco tanto burbero. Continuò ad ammirare da lontano ciò che avrebbe potuto renderlo il vanto dell'accampamento.

Tra un rintocco e l'altro intravide alla porta un altmer che indossava una casacca sformata e delle braghe acciambellate sugli stivali, all'altezza delle ginocchia. Dalla familiarità con cui si muoveva intuì che dovesse essere il talentuoso autore delle armature. Si presentò in un cenno deferente e prese ad arroventare sul fuoco una lastra di metallo: in quei movimenti frettolosi avvertiva il desiderio di diventare una figura di sottofondo e scomparire.

“Elanil.” Chiamò l'orsimer. Il garzone sgranò gli occhi.

“Allora, ce l'hai un nome, tu?” Il bretone si accorse d'esser stato interpellato solo quando lo vide fare un cenno col capo. “Non hai voglia di parlare ora?”

“Ba... Bastian. Mi ero fermato a curiosare, tutto qui.”

“Bene, Bastian: prendi quello che ti serve, con la spada e l'armatura che ti piacciono tanto, e va' via. Elanil verrà con te: per effettuare le saldature ho bisogno di stagno, qui non ce n'è abbastanza. Appena fuori, manda a dire a quello smidollato di Tacitus che è più utile come fattorino e non da armaiolo. A mia sorella non dispiacerà l'assenza.”

L'elfo cominciò a sudare freddo.

“Ce l'hai ancora il volantino in tasca, vero? Mostralo a questo galantuomo, di certo saprà che la strada a a sud-est è quella migliore per passare indisturbati e raggiungere l'accampamento. Ah, e prima di uscire, recluta, di' alle guardie al portale che sono i lingotti di primo conio che cerco per la prossima forgiatura, e quelli si trovano solo alla miniera fuori le mura. Elanil è muto, non so quanto bene faccio ad affidartelo, ma se è una divinità o il caso che ti ha mandato qui, allora sono obbligato ad accontentarmi. Non c'è più tempo da perdere, che tu lo voglia o no. Puoi tornare a lavoro quando i Thalmor avranno smontato le tende, Elanil. Non serbarmi rancore se ti congedo senza troppi complimenti, ma ti serviva una scusa e uno stratagemma per uscire fuori dalla fortezza. Un paio di mesi alla Legione ti faranno bene.”

Moth-Gro Bagol diede una pacca affettuosa sulla spalla dell'apprendista, che a stento tratteneva le lacrime. A Bastian parve una separazione sofferta, che passava inosservata quanto tutti gli anni d'amicizia trascorsi a temprare lame e colare metalli. Elanil si curvò in un profondo inchino, degno di un re, il massimo rispetto che potesse elargire al maestro, non avendo parole per farlo.

“Seguite attentamente le istruzioni, sono un veterano.” Moth-Gro Bagol colse la nota di preoccupazione e fece di tutto per rassicurarlo. Bastian credeva di rimediare delle vecchie spade tirate a lucido o scudi per la fanteria, invece si ritrovò a scortare un aspirante commilitone verso l'accampamento, dove si sarebbe unito al resto dell'esercito.

“Non c'è bisogno che tu mi mostri il foglio, è il Legato che cerchi, giusto?” Sorrise. “Ho sentito dire che avremmo avuto un nuovo fabbro, ma mai mi sarei aspettato di essere io a compiere la missione. Be', spesso la gloria arriva quando non la si cerca. Faremmo meglio a muoverci!”

La messinscena si svolse nel modo in cui venne dettata dal mastro fabbro. Prima una puntata da Ghorza e l'incerimonioso commiato per Tacitus, poi l'avviso alle guardie, che lasciarono uscire Elanilde dopo aver udito le motivazioni dalle labbra del soldato. Giunti oltre i bastioni la corsa si fece man mano più rapida, fino a divenire una fuga bella e buona dalla città che, da mesi, era stata la sua prigione.

Ondolemar. Una parte di lei provava timore di fronte alla probabile vendetta che l'Inquisitore avrebbe cercato di scagliare contro Moth-Gro Bagol e il presidio, complici volenti e nolenti dell'azione. Appesantiti com'erano dalle armi non avrebbero potuto ponderare altri diversivi, se non intraprendere la strada tra gli sterpi evitando il sentiero a ridosso del fiume, scoperto e in piena vista dalle vie d'accesso principali. Sollievo, costernazione e nervosismo si alternavano l'un l'altro, mentre Bastian scostava gli arbusti, evitando di fenderli con la spada.

“Ci potranno seguire solo con un segugio alle calcagna, in mezzo all'erba e agli sprazzi di terra dove brucano i cervi e cacciano i lupi gli odori e le impronte si confonderanno. Sarà un fastidio per noi, ma anche un diversivo, dovranno abbattere qualche bestia feroce nel frattempo. Ti assicuro che ne verremo fuori, ho in serbo un bel piano.”

A Elanilde non restò altro che concedergli fiducia ad oltranza. Il sole di metà mattina aveva ormai scalato i picchi ad est, ombreggiandone le cime; baluginava tra il velo fitto di nebbia che offuscava i monti a confine. La conoscenza del territorio non giocava a loro favore: tra i crinali aguzzi e le rocce contornate dai cespugli di ginepro, Rinnegati e mercenari del Reach erano del tutto a loro agio. Risalendo il profilo del versante a est, Elanilde si sentì afferrare da sensazioni che la scaraventavano in basso, di colpevolezza e ingratitudine. Davvero era così stupida, al punto da rimpiangere un legame durato anni, contro il suo volere? Perché non la serenità, invece, di giorni, decisioni e conquiste che le sarebbero sempre appartenute? Scrollò le spalle, imputando all'abitudine l'insensatezza dei propri dubbi. Un legame illusorio...

E se tale lo riteneva, perché indugiare nel piacere che le regalava il calore delle sue braccia, le note profonde e carezzevoli della sua voce? Momenti felici, una scialuppa su un mare tempestoso fatto di rimproveri, castighi e goffe lusinghe.

Sei una sciocca, ciò non basterebbe mai a farti tornare indietro. Adesso puoi andare ovunque, essere chiunque. Puoi avere il meglio, è la libertà che ti spetta. Non fermarti!

Avrebbe preferito morire, nel vedere la casa natale affossarsi tra le braci. Desiderava consumarsi nel fuoco, piuttosto di servire il nemico che l'aveva insultata tenendola in vita. Eppure era morta quel giorno, a Cheydinhal, e ogni giorno moriva nella città antica. Il favore di Kynareth dimorava nel Reach se avesse saputo cercarlo, se avesse deciso di vivere e spezzare i legami col passato.

E decise di vivere, accelerando il passo. Di vivere, perché non aveva nulla da perdere.

Bastian si fermò ad annusare l'aria. Sembrò interdetto, incerto sulla direzione da prendere. Elanilde lo osservò in silenzio, ma quando riprese il cammino notò che aveva scelto il sentiero a sud, di raccordo con la destinazione opposta. Si affrettò ad andargli incontro, lo trattenne per un braccio e indicò l'altra riva con una brusca bracciata.

“No.” Le strinse il polso con un sorrisetto da brigante. “Non ho detto che ho un piano in serbo? Allora non essermi d'intralcio e muoviti. Abbiamo già sprecato troppo tempo alla miniera.”

Provò a divincolarsi, ma il legionario serrò le dita con maggior forza.

“Sei testardo, bene! Abbiamo qualcosa in comune. Che ne dici di fartene una ragione e basta? Sai, non mi piace dare ordini e sei una bella gatta da pelare. In marcia!”

Non le restò altro che assecondarlo. Un impeto di collera, di livore, la convinceva a inchiodare a terra i calcagni e resistere. Per tutta risposta, Bastian prese a trascinarla lungo la rupe, verso un anfratto di roccia scavata nascosto dietro delle colonne rocciose e acuminate che ne schermavano l'entrata.

Ebbe subito un cattivo presentimento. Il ragazzo aveva mostrato di desiderare ardentemente il corsaletto e la spada, ma scacciò l'infausta eventualità mantenendo calma e nervi saldi, risalendo il pendio assieme. Entrambi si fermarono di fronte a un'apertura che sembrava una caverna naturale, sebbene il fondale fosse illuminato da ciò che apparivano torce fissate alla parete in roccia. Elanilde si chiese quale motivo avesse la Legione Imperiale di Skyrim, un corpo armato legale, per nascondersi al buio alla stregua di briganti e impostori. Era bastato il precedente cambio d'atteggiamento a convincerla che, forse, Bastian potesse avere dei secondi fini.

“Avanti, entra. Perché te ne stai lì impalato, ora? Ah, forse perché questo non è il campo del Reach? Infatti è un covo segreto. Muoviti, su!”

I sensi di Elanilde si allarmarono, temendo di finire in trappola: le armature bramate dalla recluta, trascinate in un fagotto di iuta tra le spade d'ordinanza, le suggerirono la mossa da attuare.

Fu un atto repentino, liberatorio. Bastian finì muso a terra, dopo un violento calcio nelle reni. Il grosso sacco gli finì addosso, impedendogli di riaversi dal colpo e dando all'elfa il tempo necessario per prendere lo slancio verso il fiume e non guardarsi indietro.

“Cosa aspettate? Avanti, inseguitela, idioti!” Giunsero stridule urla ed insulti di bassa lega dalla caverna, che la esortarono ad accrescere il ritmo della corsa. Dall'entrata della grotta fuoriuscirono, come uno sciame di vespe impazzite, un manipolo di dieci legionari armati e intenzionati ad avere la meglio nell'inseguimento. Da futuro fabbro imperiale si era trasformata in una sorta di improbabile fuggiasco, con alle calcagna grossi energumeni che parevano scelti apposta per braccarla su ogni fronte.

Questo è un incubo, pensò, scavalcando un recinto sgangherato e in rotta verso il nord. La permanenza alla rocca non l'aveva favorita in agilità, perciò investì tutte le forze restanti nell'assurdo tentativo di scalare la muraglia rocciosa e recuperare terreno. Aveva sorpassato di molto la fattoria oltre il ponte, e già intravedeva da lontano una costruzione tetra, immonda, che pareva scavata nella montagna contro il volere della natura stessa. Secoli, o millenni di perdizione, fatti di sacrifici umani e oscenità inenarrabili.

Il pericolo immediato prevalse sulla superstizione, sui mostri che forse avrebbe ritrovato solo nella sua mente. Cercò riparo dietro le arcate di quelle rovine sconosciute, di cui non conosceva neanche il nome. Scivolò di schiena lungo il profilo di una colonna e s'accovacciò a terra, credendo di aver posto fine alla corsa. Un respiro, poi un altro, a labbra schiuse e col fiato mozzo. Non l'avrebbero rincorsa sin lì, non avrebbero mai osato. Si concesse il tempo di recuperare le energie, quanto bastava per riaversi e strascinarsi fino al portone di bronzo segnato da crepe e ragnatele.

E lo sentì scricchiolare sotto le dita. Prima la meraviglia, poi lo sgomento. Un artiglio freddo e metallico l'afferrò per il collo e temé il peggio. Forse le storie sui draugr erano vere, forse era stata sventata a sottovalutare le leggende e a confidare sulla paura ancestrale dei locali. Eppure, alla luce del sole, la cosa che tanto l'aveva atterrita si rivelò come il guanto di un soldato. Di un legionario, ed Elanilde sgranò gli occhi perché credeva di averlo ingannato.

Invece, il trucco le si era ritorto contro perché non riusciva a spiegarselo, era quasi impossibile che fosse lì, che si ritrovasse la sua mano sul volto a impedirle la vista, a tapparle la bocca; a costringerla con l'incanto in un sonno dal quale non si sarebbe più destata.

“Anche questo faceva parte del piano, o almeno, il Capo l'aveva immaginato.” Commentò Bastian, mentre una fila di seguaci gli si faceva largo alle spalle. “Ora che è qui dobbiamo solo attendere che l'altro cada nel tranello, e poi, direi che è fatta!”

Voleva ribellarsi e non aveva forze, urlare ma non aveva voce. E perdendo i sensi, si giocò pure la facoltà di resistere.

 

“È scappato, Signore.” Fu il laconico verdetto del cadetto Thalmor. “Durante il servizio in officina. Pare che abbia persuaso un legionario imperiale ad accompagnarlo oltre le mura, le guardie ai bastioni non lo hanno fermato. Aveva propositi leciti.”

“Leciti?” Sibilò l'Inquisitore, voltandosi ad affrontare lo sguardo dello sfortunato messaggero e battendo il pugno sulla bella scrivania. L'attendente trasalì.

“Pa-pare una mansione alla miniera.” Balbettò. “Sarebbe dovuto rientrare in breve tempo, però, sia lui che il soldato sono svaniti dal circondario. Il resto della scorta...” Indugiò, facendosi coraggio. “è sulle sue tracce, se è necessario perlustreranno tutto il Reach. Nel frattempo, saremmo lieti di potervi assistere in qualunque mo...”

“Non avete idea di cosa significhi perdere uno schiavo in cattività da anni?” Tuonò Ondolemar. Un calamaio si rovesciò, macchiando il ripiano e le pergamene lì accanto. “Qualcuno che considereresti la tua ombra, soldato. Incaricato di sottostare ad ogni compito, di custodire ogni minimo segreto. È come se aveste regalato agli Imperiali tutte le informazioni – finanche le più riservate – sul mio conto.”

“Un errore madornale a cui intendiamo riparare, mio Signore.”

“Non cercare di blandirmi con la tua cortesia!” Urlò, gettando sia le carte imbrattate che il vetro vuoto in un vaso dwemer. “E no, non sarà la scorta a rimediare. Manda un comunicato all'Ambasciata e chiedi dell'Inquisitore Rulindil. Metterò fine a questa storia personalmente.”

“Ma...”

“Basta con le chiacchiere! Farà bene il Terzo Emissario, se userà il terrore per inculcarvi un po' di buon senno! Non ho bisogno di ulteriori spiegazioni: finché non avrò delle buone ragioni per convocarvi, siete tutti richiesti di guardia fuori l'ufficio, l'accesso alla rocca e i bastioni. E adesso, fuori di qui!”

Il giovane altmer s'inchinò, quasi quanto un fuscello pronto a spezzarsi, congedandosi col peso che quell'ordine aveva sull'intero avamposto a Markarth.

Non mi posso fidare di nessuno, fu la magra conclusione dell'ufficiale. E così, la sua priorità è sempre stata la fuga. E io, un intralcio... un ostacolo tra il presente e la sua libertà. Allora era tutto una finzione. Sono stato io lo sciocco, lei, invece... ha sempre pensato a se stessa. Soltanto a se stessa.

Se lo meritava, qualunque prigioniero a vita si sarebbe affrancato cogliendo al volo il primo barlume di speranza. Anzi, doveva ammettere che era stata abbastanza coraggiosa da osare, fortunata poi nell'aver trovato i giusti alleati che patrocinassero l'impresa.

Ondolemar aprì la cristalliera e si versò una coppa di vino di Auridon. Accavallò le gambe, chiuse gli occhi e meditò. Un tradimento simile le sarebbe costato la vita, lui non intendeva sprecare il tempo che gli restava dietro la carriera, le regole, i conflitti. Gli stessi eventi che avevano permesso alle loro strade di incrociarsi, di proseguire su fronti opposti. Rigirò il tronco della coppa tra le dita, cercando nella bevanda una risposta, se non al dolore, almeno ai dubbi che lo incalzavano.

Sfiorò la catenella che indossava al collo, e dopo aver forzato la chiusura ne sfilò una chiave d'ottone leggero ornata di riccioli e volute. La pose nella serratura e lentamente tirò la maniglia con l'indice della mano destra. L'amuleto di Ogmund spiccava tra lettere private e referti, rubando un brillio alla luce ovattata delle candele. Gli scivolò tra le dita e lo fissò con astio, come se l'oggetto stesso fosse la causa della sua dannazione.

Poi, dallo stesso cassetto, prelevò una pergamena fosforescente, l'ultima rimasta di una serie di orpelli magici provenienti dall'Ambasciata. Un potente incantesimo di tracciamento, che aveva serbato appositamente per il bardo. L'unico espediente rimastogli per una vendetta dalla quale l'attacco del drago l'aveva distolto.

Qual è la mia scelta? Si chiese. Quella ragionevole, che avrebbe perpetuato l'infelicità e l'assuefazione al dovere, oppure quella irrazionale, dettata dal desiderio?

Sei solo un sogno, si disse stringendo i denti, con la rabbia che gli torceva le membra. Il futuro sarebbe stato tetro perché lui l'aveva voluto. Avrebbe compianto la sua assenza, questo era certo, e con cosa si sarebbe consolato, con la certezza di esser sempre stato un militare ineccepibile? Uno stregone a cui non restava altro che il rango e la divisa cucitagli addosso dal padre?

Meritavano, quei sogni, di bruciare su una pira per convenienza personale?

Ah, no.

Scaraventò il monile a terra, aveva preso la sua decisione. E fu una risata compiaciuta quella che risuonò nello studio dell'Inquisitore, mentre strappava via il sigillo.

 



Potrei dire che il titolo del capitolo mi si addice, dato che aggiorno a cadenze bibliche...

Ultimamente ho ritrovato lo spirito per scrivere e mettere insieme delle frasi. Il “copione” della storia è sempre lì, a fondo pagina... mi limito a sviluppare i concetti e a descrivere gli eventi di questa storia che, in teoria, avrebbe già un finale. Ho provato, come sempre, a cambiare e sperimentare. Le ultime parti dovrebbero essere più veloci, più scorrevoli, sto cercando di essere più moderna e di mantenere lo stile descrittivo, andando però al punto. Ci sono delle cose lasciate volutamente in sospeso e dettagli insoliti.

Vi ringrazio, come sempre, per la pazienza nell'attesa e i consigli.

A presto, spero! :)

EDIT (02\09\2017): Il testo, nella parte iniziale, è stato modificato. Non è cambiato sostanzialmente nulla, ho mantenuto i particolari della descrizione e la sequenza di azioni. L'ho reso solo più scorrevole.

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Capitolo 9
*** La minaccia dal cielo ***


Le rose sulla sua pelle vibrarono, nel momento in cui Dorisa attraversò il portale, ritrovandosi nell'anticamera della fortezza. Il cuore prese a battere incessante, non s'aspettava che lo sbalzo d'energia tra i piani dell'Oblivion e il Mundus le togliesse il respiro in uno spasmo violento. Pochi attimi di permanenza nel sepolcro e già saggiava dentro di sé l'aura negativa di una forte interferenza magica. Scomodare un maestro sarebbe stato eccessivo, non aveva le conoscenze vantate dai maghi anziani del Collegio, ma di sicuro poteva identificare l'effetto nefasto di una potente, antica maledizione.

“Non perdiamo tempo.” Fu la spiccia sentenza di Sam, mentre l'ancella tastava sarcofagi ed urne per rintracciare la fonte del campo di forza. “Anzi, qualunque cosa sia, farebbe bene a starsene rintanata in un angolo e a prestarci ospitalità, finché avremo bisogno di questa cantina polverosa”.

Dorisa si avvicinò al tavolo, posto proprio al centro e sotto una vertiginosa arcata, tastò il legno ormai imputridito. Si teneva in piedi solo perché il suo occupante, una mummia di donna, non gravava su di esso. Per un istante la sua mente fu fulminata da un presagio, ma la visione venne subito bloccata da un ostacolo alla comunicazione spirituale.

“Percepisco una presenza, una presenza che mi disprezza.” Dorisa sfiorò le falangi del povero abitante, come a volergli infondere fiducia. “Forse ha capito chi sono... e qual è la tua natura, Sam.”

“Meglio se non si rivela, non sono in vena di presentazioni.” Sbottò lui, srotolando i sacchi a pelo e raccogliendo le poche provviste che aveva raccolto nel sottobosco. “Vado a cercare della legna per appiccare il fuoco. Siamo due esiliati e dobbiamo sembrarlo, se a qualcuno verrà in mente di venirci a cercare fin qui.”

“Ti riferisci al Legato Telendas, giusto?”

“Proprio così.” Il giullare emise un sospiro rassegnato, mentre spingeva il portale con l'agio che avrebbe avuto un ratto a penetrare in una feritoia. “Mi raccomando, stai all'erta. Non so porti la questione alla leggera, pare però che alla fine il drago abbia attaccato Markarth... e forse, sotto c'è dell'altro.”

Restò perplessa dalla sua mancanza di ritegno, dava per scontato che lei avrebbe accettato qualunque ordine a discapito delle proprie emozioni, del rifiuto provato da chi non capiva, chi non l'approvava. La passione e l'amore portano a decisioni affrettate – spesso rimpiante – e lo scotto di una vita avventurosa la stava bruciando, debilitando.

L'ancella strinse le dita in un pugno e rimpianse d'aver seguito Sam troppo presto, fuori da quella dimensione dell'Oblivion che amava tanto. Si stava trasformando in una parte di Sanguine e non lo accettava. Anche gli spiriti, in quel momento, mancavano di palesarsi per via del pregiudizio nutrito verso i Daedra.

“Perché non la fai finita e mi racconti tutto?” Dorisa evocò una sfera di luce, che si andò a posare proprio sulla sua giubba colorata. Il bagliore iridescente evidenziò le fattezze di Sam, avvolte da un velo di riluttanza. “È da quando siamo stati scacciati via da Markarth che cerchi di nascondermi qualcosa. Mio caro Sam, purtroppo non ho i sensi di una volta, soprattutto se la mia magia è adesso frutto del tuo potere. Ho contemplato visioni, sogni, mentre meditavo nel boschetto. E sai cosa ho capito? Sono sì una Sangue di Drago, ma non per diritto di nascita. È stato mio padre a garantirsi il favore di Akatosh, perché parte di una profezia... una profezia che mi lega a un altro uomo.”

“Questa poi!” Sanguine si prese gioco di lei. “Ti seguo dappertutto, ti sto alle calcagna come un cane, in che modo potresti mettermi le corna? Dico, corna più grandi di quelle che mi ritrovo.”

“In realtà avevi altri progetti.” Dorisa si mosse a lente falcate, lambendo le lastre di granito con le punte degli stivali. Voleva chiarire la faccenda, una volta per tutte, e non avrebbe più accettato intermezzi comici al posto della verità, la verità che le spettava. “Desideravi sottrarre un eroe ad Akatosh. Sento la sua Voce farsi nitida, è potente e sfida i cieli. Ti è negata una parte di me, Zietto. Sai quale? Quella che appartiene al Drago... se riuscissi a possederla, potresti aprirti una breccia nell'Aetherius, nevvero? Un primato niente male per un principe dei Daedra. Sei meno spiritoso di quanto vuoi far credere, e io più importante di quel che sembra.”

“Hai colpito il bersaglio, che parole mirate!” Mimò una freccia dritta in petto, un gesto abbastanza esaustivo. Aveva avuto dubbi in passato sul fatto che la stesse manipolando in maniera sottile. Gli altri detentori della Rosa erano stati membri di famiglie reali, potenti eroi e maghi, lei invece?

“Non è come pensi, all'inizio doveva essere così... poi tutto è cambiato perché sono rimasto coinvolto, ecco.”

“Ah, sul serio?” Lo mise spalle al muro. “Coinvolto. Attraverso la Rosa ho sentito l'essenza di coloro che mi hanno preceduta. L'ultimo era quasi un colpaccio, vero? Quasi, perché ti è stata restituita prima che appassisse. Ha prevalso l'avversario e non te ne sei fatto una ragione. Ci hai riprovato con me... perché era più semplice.”

“Non è come pensi!” Sam le si gettò addosso, la strinse tra le braccia. “La verità è che questa vita mi piace. Quante volte mi sono finto mortale? Non saprei dirtelo... è durato giorni, al massimo settimane. Quest'incarnazione, però, se ne avesse la possibilità... morirebbe per tenerti al sicuro.”

Dorisa tenne gli occhi di sbieco, intorpidita da una rivelazione che non riusciva a interpretare. Gelida, al pari dei draugr nelle nicchie, tenne le braccia incrociate e la bocca distesa in un pallido solco ricurvo. E lui ebbro, nell'attimo di debolezza umana che aveva osato concedersi in secoli di predominio, vittima della lussuria e degli equivoci di cui era padrone. Sam era un personaggio, una fra le creazioni più riuscite della sua folle inventiva. L'aveva plasmato apposta per irretirla, per ghermirla, col suo fare suadente e il sorriso sincero a infonderle sicurezza. E adesso la sua stessa creatura lo tradiva, permettendo all'ancella di attuare un ricatto di cui non era al corrente. L'affronto maggiore che un principe Daedrico potesse subire, quello del libero arbitrio, dell'abbandono.

Se l'avesse persa avrebbe decretato la vittoria del nemico che aveva deciso anch'esso di incarnarsi nello stesso luogo e tempo. E del terzo contendente, saggio e paziente, un nume a cui stava a cuore l'ordine cosmico e la sopravvivenza di ogni essere, anche il più abbietto.

“Vado io a prendere la legna.” Dorisa si scostò via da lui, infilandosi nel varco che aveva aperto. Se la sarebbe cavata da sola, non si aspettava di meno. Era da più di un anno che vagabondavano insieme per Skyrim, eppure era cambiata. Le sembrava coraggiosa, risoluta, per maturare avrebbe avuto l'eternità che un giorno intendeva concederle. Troppo presto, comunque, per rivelarle tali disegni.

“Stai attenta.” Mormorò. Aveva bisogno di riflettere in una rinnovata solitudine, di superare la diffidenza e accingersi a trasformarsi ancora, stavolta col potere dell'Oblivion. Avrebbe dovuto tranciare ogni legame col Nirn e per farlo serviva che gli donasse anche l'anima.

 

Il servo del Thalmor era fuggito, e Sevan immaginava su chi sarebbe ricaduta la colpa. Un acquazzone aveva lavato via l'inchiostro dagli ultimi volantini, sparpagliati agli angoli delle scale e sepolti sotto la patina stagnante dei canali. Rimpiangeva le belle giornate, non tanto il sole sulle pietre riarse, ma la presenza del giullare, dell'ancella, le risate che risonavano dagli alti corridoi. Con la pioggia era arrivato il momento di andare oltre, di abbandonare una città che si era dichiarata ostile. L'ultima visita della scorta dorata, di fronte a un pranzo ormai freddo, non gli tolse solo l'appetito, ma anche la forza di giustificarsi e tentare una riappacificazione, semmai vi fosse una reale colpa nel suo operato.

Era una vendetta personale, calcolata. Soffiò per l'ultima volta sulla fiamma della candela, nella sua stanza alla locanda, raccolse i pochi averi e arrancò verso l'entrata, tirandosi dietro l'armatura in un fardello.

“Dov'è che hai intenzione di andare?” Haraldur lo squadrò da capo a piedi, appoggiato agli stipiti con le braccia conserte.

“Markarth è una puttana ingrata.” Fece lui, conservando il fiato per il viaggio ad est. “Ho combattuto contro un drago e lo Jarl mi ringrazia, certo. Non gli importa così tanto degli onori, se lascia che un Thalmor si accanisca contro un soldato per una manciata di volantini. E questo, perché il suo servo è scomparso.”

“Bisognerebbe capire se non ha tutti i torti.” Il guerriero gli rivolse un sorriso complice. “Ai ragazzi la libertà fa gola. Mi hai detto che lo hai incontrato, forse hanno estorto la confessione a una guardia sul posto. Ad ogni modo non importa, stiamo andando via.”

“Eh?”

“Sì, hai capito bene, vengo con te.” Mostrò la bisaccia, quel poco che ci aveva messo dentro trillò mentre la tenne sollevata per la tracolla consunta. “Dobbiamo attaccare il drago prima che torni di nuovo, ci serve tutto l'aiuto di cui abbiamo bisogno. Non credo che raggiungerai il resto dell'esercito, dopo quello che è successo”.

“E confermare i sospetti dell'Inquisitore? Ovvio, girerò alla larga. Piuttosto, perché vuoi starmi alle calcagna?”

“Sei di parola e non abbandoneresti un amico in difficoltà.” Haraldur tenne gli occhi fissi verso i banconi del mercato e la strettoia buia tra il rigattiere e gli argini del canale. “Kleppr diventa un tipo loquace se gli regali una bottiglia di buon sidro e fai le domande giuste, con il giusto riserbo. Mi ha raccontato del giullare e di come vi siete incontrati la prima volta. Un evento memorabile, ci ha tenuto a sottolineare. Farà parlare questa città cruenta per un po' di tempo.”

“Vai dritto al sodo, sai dove sto andando.” L'elfo gli strinse il bracciale di cuoio sull'avambraccio, siglando un'implicita alleanza. Ad incrociarsi non erano solo i lacci che lo tenevano saldo sulla camicia di cotone rigido, ma anche i loro destini in cui ogni fazione, benché contraria, avrebbe giocato la propria parte. “Preferisco precederti, ho preso a nolo dallo stalliere un carretto: ci ho caricato su viveri e pozioni, casomai ve ne fosse bisogno e per salvare le apparenze. Tornerà utile. Sei di stazza robusta e ti hanno visto poco in giro... se tu prendessi posto a cassetta e io mi nascondessi sotto il tendone, con le armi e il resto delle cianfrusaglie, passeremmo totalmente inosservati fino al punto in cui il sentiero diventa praticabile solo a piedi. D'accordo?”

“Va bene, buon piano.” Sussurrò Haraldur, staccandosi da lui e tornando al tavolo, davanti un boccale di birra e lo stufato di cervo. “Rimarrò qui quel che basta per agevolarti l'uscita dalle mura e per non destare sospetti.”

“Mi trovi poco distante la miniera di Kolskeggr, tra la strada per Markarth e la biforcazione a sud. Mantieniti sempre a nord, pare che oltre un covo di Rinnegati ci siano anche i Manto della Tempesta a bazzicare nei dintorni. Ti aspetto tra due ore sotto la palizzata, per fortuna le lune sono scure e la notte si perde nelle profondità dell'Oblivion. Goditi la serata e l'ultima cena a Markarth, quanto a me sono stanco degli imprevisti durante i pasti.”

Haraldur accennò un sorriso e bevve il brodo dal bordo dalla ciotola, lasciando i bocconi di carne a macerare sul fondo. Ne raccolse uno col cucchiaio, fumava ancora ed era caldo al punto giusto. Addentò un tozzo di pane e si girò verso l'uscio, per la seconda volta: erano state accese le fiaccole per rischiarare la piazza; nell'intervallarsi di nuovi avventori e facce conosciute lo scenario all'esterno era pressoché immutato, ma Sevan, Sevan era scivolato via tra la folla. Un gruppo di pellegrini si confuse tra le nubi d'incenso bruciato a grani nelle stanze e gli aromi pungenti delle erbe che insaporivano la carne allo spiedo. Le lune nuove passarono inosservate, così lui seduto sul bordo della sedia, con le gambe accavallate a rubare un'occhiata fuggente alle trecce bionde di Hroki. L'allegria era altrove, la giovialità pure: chissà cosa avrebbe trovato, lì sulle montagne; lieto almeno di avere un compagno di viaggio per spezzare le traversate solitarie.

Frabbi gli indicò la scodella vuota, all'inizio non ci aveva fatto caso, poi capì l'antifona.

“Quant'è la cena, donna? Vado via, è già tardi.” Prelevò dalla bisaccia una sacca di cuoio di alce, una delle tante prede cacciate e vendute ai macellai per sostentarsi. Le posò sul palmo una dozzina di septim e poi sloggiò, per lasciare spazio agli altri occupanti.

Ignorava i sottintesi dei locandieri, i loro modi diretti e sbrigativi nel fargli pesare una vita senza fissa dimora. Da mesi vagava per le regioni di Skyrim in cerca di un'identità, tra larici e cespugli di mirtilli. Aveva dimenticato chi fosse il vecchio Haraldur, un taglialegna di Ivarstead ritrovato dai genitori adottivi sotto il portico di un sepolcro, a poca distanza dall'abitato. Non aveva memoria né del padre né della madre; a lui era estranea qualsiasi reminiscenza sul dove, quando e perché la piena del fiume non l'avesse inghiottito, così come il buio dell'antica tomba. Aveva avuto visioni, era stato visitato da strani figuri da quando era bambino, li vedeva comparire all'improvviso e svanire tra gli schizzi delle cascate. Divennero per lui un peso, un mistero insondabile relegato nel silenzio. Certi prodigi erano concessi ai profeti, ma anche ai poveri di senno: per questo lasciò che l'acqua lavasse via le ombre, fino a renderle invisibili, quasi quanto lo era il riflesso della cima di Alto Hrothgar nel bacino a valle.

E fu la montagna a chiamarlo, contro la sua volontà.

Attraversò le mura, con andatura dimessa e il cappuccio calato sul capo, appoggiandosi sul bastone che aveva sfilato dallo spallaccio. Poi alzò gli occhi al cielo: le nubi si stavano addensando e non presagivano un cammino agevole. Calcò l'orlo sulla fronte e qualche ciocca biondo cenere sfuggì via, ondeggiando al vento.

Giunsero i tuoni e alla fine una pioggia, placida e fresca, ad annunciare l'ultimo rigoglio dell'estate. Spiccava sul rosso rassicurante delle foglie d'acero che gli avvolgevano i piedi. Come il vino dolce nelle botti, nel buio di una cantina, lo inducevano a meditare sul significato delle cose, lungo la salita che portava al ponte.

Appena arrivato alla biforcazione, Haraldur si fermò a scrutare l'orizzonte.

“Amico, sono qui!” Vedeva il profilo di Sevan agitarsi dietro i rovi, venirgli incontro e farsi consistente. La lampada ad olio all'entrata della miniera, distante dal punto in cui aveva posteggiato il carretto, gli restituiva un sorriso illuminato a metà. “Piove, maledizione, e temo che i pendii siano scivolosi. Al limite porteremo solo il cavallo, mi dispiacerebbe lasciarlo indietro.”

“Verrà con noi.” Haraldur carezzò il capo dell'animale, che nitrì spazientito perché la pioggia accennava ad aumentare. “Non attardiamoci troppo.”

Il sentiero non era erto, ma la ghiaia e i detriti della miniera resero il primo tratto instabile. Sevan montò in vettura, fedele alle istruzioni; Haraldur preferì condurre il cavallo a piedi e tranquillizzarlo, lisciandogli il crine e dandogli leggere pacche sul fianco.

“Ci sai fare.” Il legato e la sua voce erano quasi impercettibili sotto il rozzo telo. “Con me era nervoso, non faceva altro che scalciare e nitrire allo scoppio dei tuoni. Ho sempre marciato a piedi e viaggiato in calesse, abbiamo uno stalliere al campo che si occupa delle cavalcature.”

“Purtroppo le parole non bastano, hanno bisogno di sensazioni fisiche, del tocco giusto.” Nel momento in cui superarono la colonna di massi che segnava l'inizio della mulattiera, Haraldur montò a sedere. “Non ho mai vissuto in città, e quando ne ho vista una per la prima volta, ci ho trascorso il tempo necessario per dormire e ripartire il giorno seguente. Tuttora la mia casa è a Ivarstead, anche se non ci torno da tempo. Ho lasciato il castrone e la mucca a Jofthor, un mio vecchio amico. Se ne prende cura lui, spero stiano bene.”

“Ivarstead è un bel posto, tranquillo. Mi piacerebbe abitarci.”

“Era meglio prima della guerra.” Rispose il nord, senza approfondire la questione. Sevan colse la nota di nostalgia insita nella frase e non aggiunse altro.

L'erba era umida, lungo la serpentina che portava alla Pietra dell'Amante. In quella notte senza lune, lo sfavillio delle costellazioni e degli astri solitari regalava all'oscurità una parvenza di sicurezza. Sotto la cupola celeste, Haraldur recitò una preghiera a Kynareth.

“Non ha senso rimanere qui sotto e odio starmene con le mani in mano.” Sevan scoperchiò improvvisamente il telo, mentre se ne stava disteso era riuscito ad infilarsi gli stivali e ad allacciarsi i bracciali d'acciaio. Il carretto sostò in una piccola radura per permettergli di indossare con calma la corazza. “Bene, con l'uniforme d'ordinanza mi sento sempre a posto. Non ci tengo affatto a fare la figura del lavativo.”

“Mai pensato, eh.” Ridacchiò il Sangue di Drago, balzando giù e tenendo nuovamente il cavallo per le briglie. “Comunque, dovremmo stare attenti. Percepisco il residuo di una Voce nei dintorni, questa zona è intrisa del potere degli Antichi.”

“Infatti, è alle rovine di Ragnvald che siamo diretti.” Commentò il dunmer, appuntando la fibbia in uno dei passanti del cinturone. “Un posto vicino alla città e dove nessuno si sognerebbe di rincorrerli. Igmund ha piagnucolato tanto per strappare uno scudo ai vivi, figuriamoci i morti che effetto possono fargli. Negli ultimi giorni ho trovato solo il giullare, mi ha detto che la signora era altrove, in riflessione. Spero che a quest'ora si sia schiarita le idee.”

“Lungimiranti, i due.” Haraldur percepiva il terreno brullo sotto i piedi – in cui la pioggia penetrava a malapena – e la pendenza verso il dirupo, sovrastato dalla Pietra stessa. Oscillava lentamente, forse era il crepitio delle ruote sulle radici secche, infossate tra le zolle brulle o il vibrare dei passi sull'erba. Il Legato si accordò alla sua andatura e proseguì a piedi il cammino, con la mano sul pomolo del gladio e gli occhi puntati al cielo.

Al di là della linea che delimitava il successivo tornante, si imbatterono in una struttura in pietra circolare, elevata pochi piedi da terra e molto più antica. Il Sangue di Drago si avvicinò al punto in cui la curva si restringeva e, accovacciatosi, partì in perlustrazione del monticello.

“Aspettami qui, devo accertarmi che non sia accaduto ciò che penso.” S'infilò tra i rovi e i bassi cespugli di ginepro, procedendo con cautela e attento a non spaventare gli uccelli assiepati sugli abeti. Col loro frinire cadenzato, i grilli gli fornirono la giusta copertura per diventare un tutt'uno con la natura.

Aveva appena superato il perimetro di mattoni e già si ritrovò col respiro pesante per lo sgomento. Qualcuno, o qualcosa, era riuscito a penetrare al di sotto del tumulo e a prelevare le ossa del drago che lì giaceva sepolto da tempi immemori. Quel poco di malta restante fornì ad Haraldur un appoggio per le ginocchia, dato che si era piegato per tastare ciò che si trovava sotto la fessura, nient'altro che polvere.

Col cuore che gli squassava il petto e il passo di chi è falsamente padrone di sé, tornò da Sevan per comunicargli la sua teoria.

“Si è avverato quel che temeva Arngeir”. Sentenziò. “Mi ha detto di aver individuato un'anomalia nella Voce, in questa zona. Il drago che riposava sotto il tumulo è stato risvegliato, ma non è Alduin l'artefice.”

“Alduin?” Domandò il dunmer, incredulo. “Va bene, mi spiegherai più tardi. Questo significa... che qualcuno ha profanato la tomba ma non è chi ti aspetteresti?”

“Quasi.” Haraldur raccolse le briglie del cavallo e gentilmente lo invitò a seguirlo. “Credo che a massimo una lega di distanza ci sia l'ingresso alle rovine. Dobbiamo stare attenti a non farci notare, perché è molto probabile che venga a riposare qui, dove è rimasto per millenni.”

Notò che l'amico aveva il sudore sulla fronte, lui, il Sangue di Drago. Forse non era stato saggio percorrere quella strada di notte, ma sin dal principio si erano limitati a seguire l'unico piano possibile e non avevano avuto scelta.

“Sarà bene disfarci del carro. Abbiamo le armi, le pozioni... il resto non ci serve o potremmo recuperarlo dopo. Nulla di valore che possa far gola a un ladro o invogliarlo a rischiare la vita.”

“Non credo che questo luogo attiri molti turisti o borseggiatori.” Scherzò Sevan, per dissimulare l'ansia. “Il drago è scaltro, quindi il nostro viaggio sullo sterrato finisce qui. Tocca solo addentrarsi nel fitto della vegetazione... e sperare per il meglio”.

Prese a spiegare il telone come poteva, fino a coprire buona parte del carro. Haraldur lo assisté, cercando di strappare alla terra tralci d'edera, muschio e foglie morte per mascherarlo alla vista. Si mossero di soppiatto e, quando individuarono un corridoio scalabile che portava in cima alle rovine, vi si diressero con la speranza di raggiungerle quanto prima.

Presto si ritrovarono a dover lottare contro le asperità, schegge di legno e spine di rovo frustavano le armature, graffiavano loro i palmi delle mani e le parti del corpo non protette. Sevan si proiettava in avanti, superando Haraldur di alcuni passi, la distanza giusta per guidarlo e permettere a lui e al cavallo di anticipare il pericolo. Il Sangue di Drago gli copriva invece le spalle, assicurandosi che nessuna minaccia provenisse dal tumulo ormai lontano.

“Tieni duro, purtroppo la strada di ripiego è quella peggiore.” Lo consolò il dunmer, che avrebbe volentieri risparmiato l'impresa all'alleato. Haraldur si terse la fronte con il dorso del bracciale di cuoio e restò in silenzio, imperterrito.

Ad un tratto le stelle scintillarono in un bagliore intermittente, o forse erano i venti boreali che spiravano a quell'altitudine. Tuttavia, a Sevan parve di cogliere – con la coda dell'occhio – un'ombra grigia e fumosa muoversi tra quelle cavità. Aveva membra svelte, ciocche lunghe e sensuali... i suoi occhi mortali erano stati incapaci di coglierla tra la natura viva e brulicante ma tra quelle rocce e i gusci vuoti di lucciole assiderate si stagliava chiara, palese.

“Che cosa?” L'ombra alzò un braccio armato di spada e improvvisamente i ciottoli lungo la scarpata rotolarono giù, verso i piedi della collinetta. Haraldur si tenne saldo a un macigno, simile a una colonna spezzata, con un solo braccio. L'altro arto arrancava verso il fodero e sguainò maldestramente la spada d'acciaio. Il cavallo prese a scalciare e a nitrire.

“Tienilo fermo!” Lo supplicò il Legato, mentre da nord cominciò a rivelarsi una figura nera e frastagliata, la peggiore delle eventualità.

Il drago.

“Come ha fatto a scovarci? Akatosh ci sia testimone!” Urlò Haraldur che, incurante della sua salute, abbracciò il collo del destriero per tenerlo a freno, attento a non ferirlo.

“Non è lui ad averci scovato, ci è stato aizzato contro.” Spiegò Sevan, con un ghigno amaro. “Se nel giro di qualche minuto non riusciamo ad inventarci qualcosa, è finita. Il cavallo non ce la farà mai a montare fino in cima, senza contare che non ti lascerei indietro a batterti da solo. Quella bestia è troppo per noi!”

Entrambi abbassarono il capo, assaporando una morte che sarebbe stata gelida e repentina, come il soffio di ghiaccio del dragone. Il legato sapeva chi incolpare per la mancanza di pietà, era sangue del suo sangue, macchiato da anni di solitudine e torture in un sotterraneo di Markarth. Quando era andato a riprendersela l'aveva supplicato di fuggir via e non tornare mai più. Aveva tenuto fede all'ammonimento, era stato un abbandono obbligato, ma necessario per diventare forte – forte abbastanza da contrastare il mostro che lo aveva imbottito come un fantoccio di vanagloria e premi fasulli, allo scopo di strappargli via una sorella.

E così tutto finisce, pensò allora, percorrendo la cicatrice sul volto con un dito e augurandosi di cadere con onore, sperando di dimostrarle in battaglia cosa fosse pronto a fare per lei, quanto quella vita infame lo avesse cambiato.

“Sevan.” I polpastrelli di una mano tozza e muscolosa gli tastarono gli spallacci, in un impulso frenetico. “Sevan! Monta a cavallo.”

Il dunmer sgranò gli occhi, era come se Haraldur lo avesse fulminato a parole.

“Che sconsideratezza! A cosa servirebbe?”

“Monta a cavallo, per i Nove Déi!” Strillò, dimentico delle eresie. Il drago alitò su alberi e rocce, spaventando i corvi e congelando i loro compagni più lenti in un abbraccio letale. Era questione di passi, brevissimi passi. “Sono convinto che riuscirete a riparare nel Tempio. Al campo avevate uno stalliere, ma di sicuro vi avranno insegnato a cavalcare come gli Skaal.”

Non era il caso di chiedere all'amico una lezione sui costumi dei nord, per questo agì d'impulso e balzò in groppa. Senza sella, senza gualdrappa, la vedeva dura... e il cavallo era recalcitrante quanto lui a partire.

“Via, figlio di Kynareth, via!” Sbraitò il Sangue di Drago, ma non bastò. Udì un rantolo soffocato, dunque la voce cambiò e si fece morbida, suadente. Erano le stesse sillabe gutturali che l'aveva udito pronunziare quando avevano affrontato il titano per la prima volta. Il cavallo ne fu ammaliato e si ammansì all'improvviso.

“Corri, bello, corri!” Lo esortò Sevan di rimando e lui partì al galoppo, accelerando l'andatura e scavalcando i massi impervi quanto una libellula sulla superficie dell'acqua. Strinse a sé le redini e urlò, con le lacrime che gli offuscavano l'unico occhio buono e nominando più volte l'amico. Anche il cavallo sembrava partecipe della sua angoscia e corse, corse a perdifiato per evitare il gettito d'aria dalle fauci assassine.

Il destriero doppiò la tormenta, una volta, una ancora. Sevan si volse indietro per evitare che lo azzannasse di tergo e notò che era fuori pericolo, al di là della sua portata. Il nemico, ora, planava in basso.

“Haraldur!” In risposta, udì una voce di giovane donna ridere sgraziatamente. L'ombra svanì, rimpicciolendosi fino a tramutarsi in un fuoco fatuo, ma prima degnò il cavaliere di un'occhiata rapace, simbolo di tutto il disprezzo che nutriva in seno.

Stava raggiungendo le scale del tempio, convinto che Haraldur l'avesse protetto fino alla morte, poiché il drago ruggì facendo tremare la terra e le colonne del Tempio. Invece, lo vide virare a destra e battere in ritirata, con le scaglie irte e le zanne che, insoddisfatte, reclamavano le carni di un grosso cervo.

Feim Zii Gron! Un'entità azzurrognola si profilò a qualche passo di distanza, saltellando tra gli arbusti. Sevan portò avanti il braccio armato e attese. Il sudore gli impregnava la camicia e le braghe, rendeva l'armatura una costrizione immane. Non era pronto per altri portenti, era scampato al drago e ne aveva abbastanza: non sapeva se l'Oblivion fosse un posto adatto per i dovah, ma ce li avrebbe mandati tutti senza esitare.

“A quanto pare siamo sopravvissuti entrambi.” Credeva fosse un fantasma, invece non era altro che Haraldur. In qualche modo era riuscito a rendersi invisibile, impalpabile. “L'ho attirato a me e poi ho concentrato la forza del mio Thu'um. Credevo funzionasse solo contro i figli di Kynareth, non l'ho mai provato contro un drago.”

“Che Azura sia benedetta!” Era etereo, ma se avesse potuto l'avrebbe stritolato in un abbraccio. “Ora che abbiamo guadagnato la vetta, non voglio rimanere qui un minuto di più. Persino il cavallo entrerà con noi nel Tempio, dopo quello che è accaduto non mi va di lasciarlo fuori. Mi auguro che ci sia qualcuno ad accoglierci.”

“Le provviste rimangono a valle.” Osservò Haraldur, invitandolo a spalancare il portone con un cenno. “Dopo quello che è accaduto... io dico, non scenderei nemmeno per tutto l'oro del mondo!”.

 

Le aveva provate tutte, a quanto pare era dura a cedere.

“Dai, biscottino.” Cinguettò Sam, giungendo indici e pollici delle mani ad imitare un cuore. “Non puoi tenermi il muso lungo per tutto questo tempo. Sono passati due giorni e ancora non mi parli!”

“Meriteresti di essere randellato da un intero esercito di dremora!” Tuonò Dorisa, mentre intrecciava una corona di bacche, agrifoglio e alloro seduta a gambe incrociate su un drappo sfilacciato. “Potrei usare i miei poteri per aiutare qualcuno, anziché passare le ore a fabbricare inutili decorazioni. Hai totalmente ignorato il punto della questione e, come se non bastasse, mi hai liquidato con l'ordine più sciocco che potessi concepire... raccogliere fiorellini di montagna!”

“...Ma ci serviranno, Dorisuccia-uccia.” Il bretone la marchiò con un bacio sulla guancia e lei, per ripicca, gli sbatté la corona in faccia. “Va bene, va bene! Fa' quello che ti pare, allora!”

“Qualcosa di utile...” Mormorò Dorisa, afferrando la Rosa e adagiandola sulle ginocchia. Persino Sulak aveva smesso di rispondere al suo richiamo. Forse era impegnato in chissà quale parte del regno di Sanguine ad azzuffarsi con altri dremora di basso rango, oppure doveva sottostare alle richieste della madre che, ne era sicura, non lo mollava un istante.

Peccato, di sicuro è più obbediente. La Rosa sembrò cogliere il suo malumore, passando da una sfumatura cremisi intensa a una tinta violacea molto cupa. Contemplare il simbolo del proprio status, come unica ancella di Sanguine in quel luogo e tempo, le strappò un debole sospiro.

“Non startene lì impalata...” La blandì Sam, restio a leccarsi le ferite. “Qui è tutto sporco, sembra che la polvere non ci dia tregua. Abbelliamo questa spelonca ammuffita! Anche la Rosa non se la passa meglio... ah, ecco cosa puoi fare. Su, lustrami la lancia!”

“Eh?” Sobbalzò Dorisa, confusa.

“Dunque non l'hai mai letto!” Stavolta lo stupore fu di Sam. “Peccato, avresti colto la citazione. Di rado ho trovato opere pari a La lussuriosa cameriera argoniana... un gioiello di ingegno mortale, non c'è che dire!”

Lei lo guardò sottecchi.

“Nah, lascia stare. Prima o poi è una commedia che leggono tutti... sperano di trovarci sempre chissà cosa, ma una ragazza perbene come te non va oltre la scena rappresentata.”

La stava prendendo in giro, ci avrebbe giurato. Doveva essere di certo un'opera brulicante di doppi sensi, arguzie verbali che lei non riusciva a comprendere. Con risultati esilaranti, almeno per Sam.

Comunque, aveva deciso di non preoccuparsene, almeno per il momento. Sentiva che qualcosa stava avvenendo alle sue spalle, poiché stava facendo di tutto per trattenerla lì, pigramente acquattata sul lastricato di una cripta. Era una solitudine apparente in un caos di trame e intenti: ognuno era fin troppo impegnato a fabbricarsi un destino ma lei, la Sacerdotessa, disdegnava la parte dell'oracolo.

Che senso ha rimanere qui a farsi pregare, quando c'è un'intera città che ha bisogno di noi? Si ritrovò a pensare. Giocherellò con lo stelo di un fiore, agitandolo in avanti e indietro, incapace di piantarlo lì e prendere la sua strada. Una parte del suo essere le diceva di pazientare e non agire d'impulso, del resto nutriva dei sentimenti per Sam. Sentimenti, e quali? Gratitudine, affetto? Oppure...

Un brusco tuono sembrò scuotere le fondamenta dell'edificio. Dorisa poggiò le mani a terra e balzò in su, come un coniglio. La cima stessa della collina oscillava, in preda a una bufera di neve che non aveva nulla di naturale.

Trattenne il respiro, poi scattò in avanti per dare una certezza alle mille idee che le erano affiorate in mente. Quale avversario era venuto a reclamarla? L'entità che stava riesumando le ossa dei draghi, oppure quella che si era divertita a pervertirne la sostanza? Forze opposte si stavano scontrando al di là del portone, e lei si sentiva in dovere di prestare aiuto a quelle anime che riusciva a riconoscere, chissà per quale ardore di misticismo.

Crollò a terra, con le dita sulle tempie. Il dolore era atroce, le frantumava il cranio come un colpo d'ascia. Sam biascicò un'imprecazione e si gettò carponi su di lei, mentre si contorceva a terra in preda alle convulsioni.

“Devo andare! Devo anda...”

“Da nessuna parte!” Il potere di Dorisa cresceva, così come la sua sensibilità agli attacchi di Molag Bal. Ondate di odio, distruzione e morte, a cui era ancora troppo esposta. “Non vedi che li sta usando come esca? È un tentativo per farti venire allo scoperto. So che ti fa male, ma devi rimanere... fidati, se la caveranno.”

E come avrebbero fatto? L'interrogativo l'allibiva. Non immaginava che potesse esistere un cratere buio, nauseabondo, dove gusci mortali vagavano privi di ricordi e sentimenti. Erano esseri traslati in sotterranei e caldaie, semplicemente per servire. Vide i laghi di ghiaccio, gli sterpi, le spine che perforavano il terreno e ferivano le carni putrescenti dei non-morti. Un immenso crepaccio, separato da un ponte che collegava l'unica città ospitale con la dimora di Molag Bal. Attraversò corridoi stagnanti, celle anguste, fino a raggiungere un enorme vestibolo in cui incontrò se stessa... con le ossa divelte, le carni sfregiate ed ancora la forza per urlare e piangere, di fronte a una carceriera dalle lunghe ciocche nere, sposa di Molag Bal.

La somiglianza col suo corpo mutilato era impressionante.

“No!” Urlò, tentando di dimenticare l'orrore che si sarebbe avverato, qualora avesse fallito.

“Non gli credere, non cedere!” Sam strinse i denti e le posò una mano sul cuore, l'altra le stringeva saldamente il polso destro per auscultarle i battiti del cuore. L'aveva colpito sul vivo, quel figlio di puttana, gliel'avrebbe fatta pagare.

“Conosci il mio punto debole, eh, Molag?” Urlò, dopodiché fu un ghigno ad alterargli i lineamenti. “Adesso so anche che intenzioni hai. Prenditela con qualcuno della tua misura!”

Sotto di lui Dorisa boccheggiava, col sudore che le scendeva a fiumi dalla fronte. L'incantesimo stava funzionando, la maledizione stava confluendo in lui assieme alla sua negatività. Di rimando udì il ruggito del drago e il battito fragoroso di ali che prendevano il volo, verso anfratti sconosciuti.

Rimase chino su di lei finché non la vide respirare flebilmente. Esanime, sì, ma salva.

Credeva che nulla più li avrebbe disturbati, ma il portone si aprì sotto una poderosa pedata, e dietro di esso Sam vide profilarsi le ombre di due guerrieri acciaccati. Uno di essi era Sevan, ancora stravolto dallo scontro che, forse, era avvenuto fuori le rovine.

Il suo sguardo, però, non dava segno di benevolenza.

“Che cosa le stai facendo?” Berciò il Legato, gettandosi su di lui.


 

Un capitolo difficile, forse il più ricco d'azione che abbia scritto, rispetto alla sua lunghezza. Avevo anticipato nelle recensioni che Elanilde e Ondolemar sarebbero ricomparsi più tardi, qui invece lo scontro è su due fronti ma contro lo stesso nemico, Molag Bal e i suoi seguaci assetati di sangue.

Se avete letto Il sonno della belva conoscerete sicuramente l'identità di chi è intenzionata ad avere le anime di Haraldur e Sevan.

A proposito di Haraldur: negli scorsi capitoli è stato poco più che una comparsa, qui invece ha una parte attiva e mette i suoi poteri al servizio della causa. Ho introdotto brevemente la sua storia, il resto dei dettagli su di lui sarà approfondito in seguito. Forse in alcune one-shots, chissà.

Dorisa, per ora, rimane a Ragnvald in compagnia di Sam, anche se ha dovuto subire l'attacco spirituale di Molag Bal. Lui è riuscito in qualche modo a svegliarla dall'incubo, ma la situazione rimane in bilico.

Come al solito, i dettagli “liberi” sono ispirati al lore di ESO (la sessualità dei Dremora, lo scenario di Coldharbour, l'aspetto del drago-titano servo di Molag). Invece, per quello che riguarda il rapporto tra Sanguine e Dorisa, la situazione è ambivalente. Lei ovviamente lo ama, ma percepisce che i suoi poteri stanno crescendo, che sta diventando in qualche modo parte del reame di Sanguine, quindi nutre sentimenti contrastanti... di accettazione e rifiuto.

Solo il tempo dirà come andrà a finire. :)

Grazie per avermi letto anche stavolta, per tutte le segnalazioni e consigli (le correzioni verranno aggiunte tutte a fine opera). A presto! :)

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Capitolo 10
*** Il canto della verità ***


Benedetta la rabbia, che rende le parole vane e le membra pronte all'azione. Benedetta in guerra e nelle calamità, pane del soldato sempre vigile nel punire i torti. Benedetta, certo... ma non in quel frangente.

Sevan si avventò sul giullare bretone, negandogli qualunque giustificazione e agendo per partito preso. La furia lo aveva reso cieco.

“Lasciala andare immediatamente!” Lo sollevò per la collottola, sostenendolo con un solo braccio. “Altrimenti, io...”

“Cosa c'è...” Sam sputò a terra. “Sei sorpreso, adesso? Di vedermi chino su di lei, per caso? Oppure... per questo?”

Il Legato si ritrasse: era letteralmente coperto di lividi. Una maledizione – o chissà quale diavoleria dell'Oblivion – stava agendo dentro di lui e il suo corpo pareva corrodersi dall'interno. Sotto pelle le vene avevano assunto una tinta violacea, cariche di un veleno peggiore di quello dei ragni del gelo, l'unico di cui conosceva l'antidoto. Era incredibile che riuscisse ancora ad affrontarlo, anche solo a parole; che avesse la forza di contrastare il suo sguardo di rimprovero senza perdere i sensi. Aborrì la sua irruenza e s'inginocchiò, facendo coricare l'amico di schiena sulle gambe.

“In che modo posso aiutare?” Haraldur legò il cavallo ad un anello di ferro cementato tra le fenditure della pietra. Raggiunse l'amico e si sfilò la bisaccia, cercando al suo interno qualcosa che somigliasse ad una fasciatura.

“Perché hai portato quest'uomo?” Tanta gentilezza incontrò un netto rifiuto. “Avrei preferito che venissi qui da solo.”

“Allora devi perdonarmi due volte, Sam.” Si giustificò, poggiando una mano sulla sua fronte per controllare se avesse la febbre. “Si chiama Haraldur ed è un guerriero. L'ho accompagnato perché sono stati i Barbagrigia ad averlo mandato qui a Markarth. Vorrebbe incontrare la sacerdotessa...”

Le labbra del bretone si curvarono. “I Barbagrigia, ah. Allora non per un consulto amoroso. ”

Lo straniero era di certo in grado di percepire la Voce di Dorisa, non il suo influsso, altrimenti lo avrebbe smascherato immediatamente.

“No.” La sua risposta fu secca, ma il tono lasciava trapelare incertezza. “Intendo discuterne solo con la Signora.”

“Be', ora la Signora sta riposando e io sono colui che ne conosce i segreti, anche quelli intimi.” Che strazio essere un mortale e tollerare tutta quella sofferenza in un sol colpo. Se si fosse rivelato per quel che era ci avrebbe pensato due volte ad esporsi in modo tanto spavaldo, giusto perché l'abito non fa il monaco.

E i monaci, si sa, sotto sotto sono dei gran porcelli, osservò in silenzio mentre digrignava i denti, perché un ghigno di sfida sarebbe stato troppo sospetto, date le condizioni in cui versava.

“Se avessi voluto farvi del male o screditarvi in qualche modo, sarei stato il primo a gettarvi in una fossa.” Spiegò Haraldur senza risentimenti. “O uno dei tanti ad accusarvi, assieme allo Jarl... in realtà detesto infangare la reputazione di chi non conosco in base a un pregiudizio.”

“Credi di avere tanto potere?” La voce di Sam suonò roca e insinuante, come quella di Sanguine. “Va bene, supponiamo di essere entrambi ad un passo dalla morte e di sgravarci dell'ultimo cruccio di un'intera esistenza... quindi, solo la verità. L'influenza del Principe mi permette, come seguace scelto, di conoscere le intenzioni di chi m'è di fronte... qual è la tua?”

Haraldur sgranò gli occhi, trovandosi tutt'a un tratto spiazzato.

“Cerco la Sacerdotessa... per ricevere la sua Voce.”

“Una richiesta non da poco.” Sam si piegò verso di lui, per entrargli con uno sguardo fin dentro l'anima. “Soprattutto se richiede un dono... o un sacrificio. In fin dei conti, in qualunque modo la si chiami, una privazione è una privazione. E sono sicuro che non vorrà separarsi dalla benedizione che ha ricevuto così alla leggera.”

“E se fosse Akatosh stesso a reclamarla... a reclamarla servendosi di me? Allo stesso modo in cui l'entità che veneri ti ha dato la saggezza che millanti?”

“A nessuno, però, interessa il modo in cui intende agire.” Sevan fece adagiare il bretone sul sacco a pelo, per poi rialzarsi e prendere tra le sue braccia Dorisa. Almeno lei sembrava dormire profondamente. “Non ho rischiato la pelle per vedervi litigare, specie se Molag Bal ci sta col fiato sul collo. Prima organizziamo un piano contro il drago, meglio è. Ve la sentite di rimandare tutto a un futuro prossimo e di ragionarci su a mente fredda? I complimenti ve li scambierete più tardi.”

“Ha ragione.” Sam voltò la testa verso la fiamma della lampada ad olio, che aveva recuperato da un'offerta votiva nelle catacombe, dove i morti riposavano in pace. “Non ne vale la pena, adesso. Rischieremmo di mettere in secondo piano quel poco che ci unisce.”

“E dire che un tipo come te non ha la fama di essere così mal disposto nei confronti del prossimo...” Haraldur frugò ancora nella bisaccia: tirò fuori una fiaschetta di idromele e la stappò, per alleviargli le ferite. Anche se di malumore, Sam non poté rifiutare l'offerta e bevve. “E io non mi ritengo tanto arrogante. Ti chiedo la cortesia d'assistermi in questa missione che, mio malgrado, devo portare avanti. Questa non è che una conseguenza di quella piaga chiamata Alduin, il Divoratore di Mondi.”

Akatosh, vecchio furfante, alla fine ti fai beffe di me per l'ennesima volta e mi riveli tu stesso la verità che andavo cercando, per mano di un uomo che non ha scelto il suo destino.

“Alduin...” Balbettò Sam, soffermandosi sulle sillabe del nome che ritmò come un canto. “Sarebbe un guaio se gli alberi da frutto, le locande e i vigneti svanissero. Avanti, sono a tua disposizione. Dimmi cosa intendi fare.”

“Innanzitutto, dovremmo cercare anche noi di che proteggerci, per superare la notte e non gelare.” Rispose per lui Sevan, rimboccando le coperte al bretone. Nel frattempo aveva già assicurato a Dorisa un giaciglio decente, utilizzando il proprio mantello per dare volume al cuscino. “Aspetterò l'alba per recuperare le provviste e portare il cavallo al pascolo. Finché siamo qui dovremo arrangiarci con quello che troveremo nei corridoi lì in fondo, qualcuno sarà pur venuto a pregare per l'anima di questi defunti, no?”

“Non fraintendermi, Sevan, ma è più probabile che qualcuno ci sia morto qui dentro.” Lo interruppe Haraldur. “Tuttavia, non ci sono alternative. Qualcuno dovrà rimanere al tempio e siccome sei una vecchia conoscenza, sarebbe opportuno che fossi tu ad assisterli. Ho combattuto contro i draugr e ti posso dire che basta un po' d'astuzia, il più delle volte.”

“Vai con lui.” Osservò Sam, muovendo lievemente la mano. “Nulla potrà danneggiarci. Un attacco simile è costato a Molag parte della sua energia e, per quanto un santuario possa corroborarlo, di sicuro dovrà pazientare per il prossimo. Senza contare che i draugr dovrebbero affrontarvi comunque, casomai fossero tanto indispettiti da volerci venire a trovare fin quassù. Godetevi il giro turistico e, se trovate qualcosa d'interessante, non esitate a farmi sapere.”

“Ma...” Sevan spalancò la bocca, incredulo.

“Dai, non temere. Sono uno che si rimette in sesto molto in fretta.”

“Vorrei dirti che questa è una delle tante idee strampalate che hai avuto... ma mi costringi a cedere.”

Lo vide discendere la scalinata verso il sotterraneo assieme a quell'uomo che, troppo in buona fede, aveva accettato nella compagnia. I nervi fremevano e i sensi, più fini di un comune mortale, gli restituirono la foga di un cuore in tensione e sul punto di lacerarsi.

Si poggiò su un braccio e rotolò di fianco, attese il giusto per far sì che i due guerrieri sparissero nei sepolcri. Fu allora che protese una mano verso quel viso, quei capelli che avrebbe accarezzato, assaporato, in una notte piacevolmente più suggestiva di quella che il fato gli aveva concesso.

“Mia cara, è l'ora di rimetterci al lavoro.” Le bisbigliò in un orecchio. Rise, nel constatare che riposava come un bimbo nella culla, mentre il veleno di Molag diventò polvere sulla punta delle sue dita: sgorgava da esse come il vino dal collo di una bottiglia, una fontana di fumo nero e denso che cadeva a terra, ridotto in cenere. Il trucco magico, che avrebbe attirato l'attenzione delle folle in piazza, riportò Sam in salute. Peccato che l'unico spettatore presente, la mummia di donna sul tavolo, preferisse piuttosto il sonno eterno.

“Che scemo!” Lo canzonò una voce che vibrò col fumo delle candele. “Mi chiedevo fin quando sarebbe durata tutta questa messinscena.”

Sam accennò una breve risata, quando vide apparire fra le tenebre non un fantasma, ma la sagoma tangibile e reale di una giovane recluta della Legione, che sembrava portare in braccio una donna dormiente. “Anche a te donano i panni che lo Zio ti ha scelto, perciò ti chiedo... fin quando vuoi giocare a fare il mortale, Sulak?”

“Bastian!” Esclamò lui, rivelandosi alla luce della lampada e sdraiando l'altmer sul sacco a pelo da cui era sgattaiolato il giullare.

Bastian contrario, oserei dire!” Lo rimbeccò lui, dandogli uno scappellotto. “Disubbidisci sempre, è un miracolo che la serva del Thalmor non abbia beccato la strada giusta per il campo imperiale. Poche miglia ad est e ce l'avrebbe fatta, per fortuna ti ho affidato a una scorta decente. Dobbiamo aspettare che pasticcino si svegli, farle trovare di che abbigliarsi per l'occasione e, in particolar modo... decorare questo mortorio fuori moda.”

“Ah, e chi farà tutto ciò?”

“Zuccone! Chi, se no?” Sghignazzò Sam, grattandosi la pancia. “Avevamo iniziato bene con gli ornamenti, vedi di recuperare il tempo perduto... quel puzzone di Molag ama impicciarsi dei nostri affari ed ecco il risultato!”

“Perché devo fare sempre io questi lavori ignobili?” Riprese le sue sembianze, il giovane dremora cominciò a scegliere i fiori dallo stelo più lungo, per intrecciare le corone floreali. “Mi hanno insegnato a combattere, a muovermi tra le ombre senza farmi scoprire... se lo sapessero i miei compagni!”

“Rimarrà un segreto.” Odiava quando gli arruffava i capelli, per consolarlo, sì... ma lo faceva sentire dannatamente idiota. “Hai preso il vino, hm?”

“È nello zaino senza fondo... cercare qualcosa lì dentro è un incubo, ma ho contrassegnato le bottiglie con un nastro vistoso. Cosa intendete farci, vecchio?”

“Serve per mettere in atto il rituale... anche se il tizio non ci piace, dobbiamo molto a questa creatura. Almeno ci ha diretti sulla strada giusta. Nel registro del Thalmor figurano due nomi, tali Esbern e Delphine. Si dice che siano affiliati ad un'organizzazione ormai allo sbando, però... forse il santerello nord potrebbe saperne di più, in merito...”

“O magari li conosce già...” Alla supposizione di Sulak, Sam rivelò una punta di preoccupazione. Era stato predisposto tutto in modo che i loro cammini s'incrociassero e il principe sembrava essere in difetto, anche in fatto di preveggenza. Non sarebbe venuto meno al suo proposito di garantirsi un corridoio verso l'Aetherius, eppure i presupposti – già presenti secoli prima – si stavano sgretolando come torri di sabbia al sole.

Si diresse al centro della stanza e descrisse un arco col braccio destro: vennero meno i perni che assicuravano al pavimento uno dei tavoli marmorei posti accanto all'ingresso. Con fare deciso continuò a mantenere il contatto oculare tra lui e il pesante oggetto, che prese a fluttuare in mezzo al pulviscolo dell'anticamera. Lo trasse a sé con entrambe le mani: il tavolo sembrò sostare a mezz'aria per un attimo, poi aderì di nuovo alla pietra, scivolando lievemente e nascondendo la mummia sul retro.

“Cerchiamo di trasformarlo in un altare.” Canticchiò sottovoce. “Dobbiamo fare bella figura con il prossimo ospite e ci spetta l'ingrato compito di rendergli l'esperienza indimenticabile.”

“Come?” Domandò Sulak, agitando l'indice sinistro in aria dopo essersi punto con la spina di una rosa.

“...Nel modo che s'aspetta, donandogli tanto piacere alla vista!” Gioì Sam, in un gesto plateale. Il vecchio amava le idee balzane, certo la cripta non era uno splendore, ma decidere di adibirla a tempio provvisorio... era come rendere Coldharbour un'oasi paradisiaca.

“Dai, non esagerare...” Un'incursione nei suoi pensieri che gli guadagnò un altro colpetto alla testa. “sarà magnifico, te lo assicuro!”

“Ci scommetterei un dito, nonnetto.” Piagnucolò, succhiandosi il pollice dopo l'ennesima puntura.

 

Nei sotterranei il vapore gelido si dipanava lento, era schiuma sulle onde fredde dell'oceano. Il lezzo di putrefazione, dopo centinaia di anni, si era attenuato in un'esalazione stagnante che s'insinuava tra le narici e non andava più via. Sevan, abituato alle sferzate di Winterhold ma non alla costrizione di una catacomba, tossiva mentre avanzava con la spada puntata in basso, quasi a tagliare un varco tra la nebbia.

Haraldur lo precedeva di una spanna, con lo scudo chiodato fisso al cinturone e la lama di fronte al viso, per parare un probabile assalto. Scrutava di continuo le pareti lungo il canale, le nicchie e i suoi occupanti, cadaveri che senza preavviso avrebbero potuto abbandonare la propria alcova e avventarsi su di loro. Solo lo scalpiccio dei loro stivali nelle pozzanghere interrompeva una quiete abissale, desolante, che gridava sconforto solo nell'animo.

Ogni tanto sensazioni piacevoli, il tocco leggero del muschio tra i lastroni e sotto le suole. Sevan si appigliava a quelle, immaginava la volta sconfinata e gli astri brillare ad indicargli la strada. Lo tenne fermo nell'incedere la convinzione di aver visto di peggio, non in una catacomba, bensì nella cantina di una casa abbandonata, in un passato mai sopito.

Il passaggio era sgombro o era solo un'impressione. Quegli esseri macilenti prediligevano le zone oscure e fredde dei sepolcri e Haraldur lo sapeva bene. Strinse un braccio all'amico e gli intimò di procedere con cautela: uno scricchiolio aveva risvegliato in lui il sospetto e presto si ritrovarono braccati da una serie di mezzelune – ricurve e affilate – che oscillavano su per la volta.

“Lascia fare a me.” Si offrì il nord, indicandogli l'estremità opposta. “Mi basta raggiungere l'altra sponda, disinnescare il meccanismo che le fa ruotare e poi avremo campo libero.”

“Non è meglio se vado io?” Propose Sevan. “Ho un'armatura più resistente e riuscirei a passare sotto le scuri strisciando a terra.”

“Così corri il rischio che ti trancino la schiena! Queste sono trappole escogitate da chi ha imparato a usare la Voce, per costringere chi ha il dono a indietreggiare. Ci vogliono pazienza e nervi saldi... non seguirmi. Passa quando le lame si ritraggono nella roccia.”

Sevan acconsentì di malavoglia. Confidò nei consigli del guerriero perché, molto probabilmente, aveva già affrontato in altre imprese ostacoli simili. In effetti, la guerra gli aveva dato numerose occasioni per mettersi alla prova, ma sfidare i draugr era per lui cosa nuova. Per un dunmer gli antenati erano dei protettori, degli alleati... non esseri violenti pronti a mettere le mani addosso.

I polsi gli tremavano, la punta della spada tintinnava a terra, nervosa. Vedere l'amico affrontare quei triboli, uno ad uno, era una visione estenuante. Haraldur mosse un passo, poi un altro. Gettava gli occhi a terra per calcolare la distanza tra i piedi e i graffi sul lastricato, poi s'imprimeva a mente il vorticare di quei ferri.

Ran-tra-tram. Odiava già quel suono, lo assordava e gli ricordava come colpisse la morte in battaglia. Senza preavviso, ciecamente.

Il filo lucido dell'ultima scure non gli sfiorò la punta del naso per un dito o poco più. Haraldur sudava e lui stava impazzendo, nell'impossibilità di dargli una mano. La traversata era durata qualche minuto ma sembrava che fossero passate ore... e quanto meno se lo aspettava, il ronzio cessò.

“Non credere che il resto sia meglio.” Gli sussurrò il nord, mentre lui tirava fiato. “Questo significa solo altri pericoli, oltre queste barriere. Perlustriamo la prossima camera, magari qualcuno è stato qui prima di noi e ce l'ha fatta.”

Il Legato ne dubitava, poiché polvere ed ossa raschiate erano deposte laddove le lame avevano colpito; eppure cercò di convincersi che fosse accaduto. La stanza successiva era rischiarata da una fioca luminescenza, insolita in un luogo rimasto inesplorato tanto a lungo. Le fiamme sulle candele guizzavano, librandosi a poca distanza dalle nicchie, e il loro brillio non aveva nulla di rassicurante. Era una magia ancestrale a tenerle in vita, attive, quanto le lame troppo lustre che avevano appena evitato. Sevan si soffermò su ogni dettaglio, alla ricerca di qualcosa che si potesse rivelare inaspettatamente utile. Haraldur, invece, procedé spedito verso un cumulo di panni di lana ammucchiati in un angolo, assieme a uno zaino in cui trovarono dei grimaldelli e delle torce per illuminare il percorso.

“Pace all'anima di tutti gli aspiranti scassinatori.” Commentò il nord, per nulla meravigliato dalla scoperta. “Non mi sorprenderei a trovare i resti di questi avventati banditi più avanti.”

“Non credo che troveremo altri segni di precedenti visite.” Avvicinò una fiaccola spenta a un braciere, lentamente prese fuoco. “Abbiamo quello che ci serve, direi di fare ritorno al tempio.”

Tra la stoffa, Haraldur rinvenne un arco. Il proprietario doveva esser stato sorpreso nel sonno, oppure aveva mancato di opporre resistenza al pericolo giunto troppo in fretta. Strinse il sacco di lana in un fagotto, ne porse uno al legionario e, mentre se lo caricava indosso, udì un gorgoglio fuori posto; poi un sibilo sordo farsi sempre più pressante.

Aveva schivato il dardo per poche spanne e la creatura muggì di sdegno. Tornò alla carica, recuperando un'altra freccia e incoccando in rapida successione: fu allora che venne allo scoperto, rivelandosi nel corridoio sottostante. La distanza non rendeva al morto la mira agevole, per cui mancò ancora il bersaglio. Sevan, colto da un'ispirazione estemporanea, imbracciò l'arma di fortuna e prese a tastare il pavimento, con l'intenzione di raccogliere almeno una delle frecce che gli erano state scagliate contro.

“Lo vedi?” Intanto, Haraldur era scivolato dietro un pilastro e lo attendeva furente, con la spada pronta a colpire.

Non avrebbe concesso al draugr il vantaggio del corpo a corpo. Gli lanciò contro la torcia e lo costrinse ad indietreggiare, recuperando in tal modo attimi preziosi per sottrarre alle tenebre almeno una freccia. Ironia della sorte, ne trovò una proprio accanto al braciere, che sembrava agitarsi fiero e incandescente, come la sua rabbia.

La fiaccola aveva fatto il resto: gli bastò prender la mira e rilasciare la corda.

“Ora!” Gridò Sevan, incitando il Sangue di Drago a gettarsi su di lui. La freccia aveva bucato la casacca logora del draugr, conficcandosi nel suo petto imputridito. Scalpicciava per evitare che il bruciore incandescente avesse la meglio e intanto barcollava, permettendo una breccia di Haraldur dall'alto.

Un affondo obliquo lo sventrò da parte a parte, dalla spalla destra fino al bacino, a sinistra. L'imprecazione furiosa – lanciata prima che crollasse a terra – attirò gli altri custodi della tomba. Sevan guadagnò terreno, con l'arco teso e un ghigno disegnato sul volto. Aveva recuperato la faretra dal draugr caduto e stavolta puntava dritto verso un otre di fuoco vivo, che solo un laccio di cuoio tratteneva al soffitto.

“È il momento di fare un bagno, ragazzi!” Berciò, mirando alla corda e lasciando andare la freccia. Il contenuto si rovesciò sul basolato, per la sfortuna dei cadaveri viventi che stavano marciando contro di loro.

Il sotterraneo vibrò in una subitanea e letale combustione.

“Hai fantasia, devo ammetterlo.” Fischiò Haraldur, attendendo che le braci rivelassero i resti carbonizzati degli assalitori. Sevan fece spallucce e sputò a terra, disgustato.

“Torniamocene al tempio. Se vogliono davvero vederci morti, più morti di quanto lo siano già, li attenderemo a braccia aperte nel vestibolo.”

“Aspetta...” Sussurrò il nord. “Io vado avanti.”

“Questa è bella.” La risata del dunmer non celò incredulità e nervosismo. “Siamo seri, cos'altro c'è là in fondo? Altre trappole, bacini che grondano acqua? Eh, no... li ho fatti fuori tutti insieme proprio per levarmeli di mezzo, ma... dove corri?”

Saettò veloce tra le urne, le giare e le ragnatele, incurante delle ombre che imperversavano man mano che si avvicinava verso il centro della caverna. Al Legato non rimase altro che seguirlo, schivando i cocci e le vecchie cianfrusaglie capovolte dagli scaffali. Trattenne un'imprecazione solo perché gli aveva salvato la vita, all'imbrunire. Non pensava, però, che avrebbe ricambiato il favore così presto.

“Haraldur!” I graffiti erano spettacolari, a loro modo. Sembravano incisi con uno scalpello e brillavano, in tutta la loro arcana maestria. Sevan non aveva mai visto niente del genere: le pareti semicircolari del complesso erano infuse di un potere che proveniva dalle viscere della terra. La roccia era antica, gli riportava alla mente i dolmen presso cui aveva sostato col reggimento, durante la tratta per Solitude. Tuttavia, gli incutevano un timore reverenziale, la loro forza era palpabile: un sogno lucido gli stimolò le sinapsi, facendo convergere immagini mai vissute nel suo pensiero.

Giungevano a frotte, decine e decine di seguaci; s'inchinavano di fronte un uomo che pareva giunto da un'altra dimensione. Indossava una maschera e, al suo tocco, incitava i fedeli a cantarne il nome. Inebetiti, quei volti scavati – senza dignità – s'inchinavano baciando la terra su cui metteva piede. Le vesti erano sgargianti, non vive nei colori, ma alla luce del sole emanavano uno splendore pari alle scaglie di un pesce. Cangiante, iridescente: le pelle abbagliava i loro occhi spenti e sobillava in loro fervidi tormenti.

Lo veneravano – lo acclamavano – come un Dio caduto dai cieli.

Sevan era un amante di storia, ma quella conoscenza non era stata acquisita di suo pugno. Piuttosto, gli veniva inculcata da un'entità che stava giocando con i suoi ricordi, modificandoli a piacimento per rinnovare un patto di schiavitù. Lo attirava verso l'ara al centro della camera... e quanto quei seguaci, ritenne blasfemo che fosse lì nelle profondità del suolo e non alla portata di tutti.

Non si rese conto di aver mosso dei passi verso l'altare, di aver quasi innescato una trappola che avrebbe siglato il possesso della propria anima nelle grinfie dello spettro.

“Stai indietro!” Il braccio di Haraldur lo bloccò, nel momento in cui la cosa venne fuori dalla tomba, emettendo strida che riecheggiarono nelle sue orecchie come il coro di un esercito di aquile.

“Scappa!” Gli intimò il Sangue di Drago, parando gli artigli del sacerdote draconico con lo scudo chiodato. “Spetta a me duellare contro di lui, per contenderci l'anima e capire chi dei due è più forte. Fus Ro Dah!”

Lo spettro balzò indietro, fluttuando come una tenda al vento, ma si riebbe presto. Gli lacerò le orecchie con un urlo, deciso ad avere la meglio.

E fu la spada di Sevan che incontrò. Digrignava i denti, allibito e al contempo motivato all'affronto.

“Permettimi di farti compagnia, amico... mi hai già salvato la vita una volta e non mi piace stare con le mani in mano, ti ricordi?”

“Ho presente.” Ribatté Haraldur, sguainando la sua lama d'acciaio e parando un incantesimo con lo scudo. “E così, comincia una nuova battaglia... in guardia, allora!”

 

La traccia aerea dell'incantesimo lo condusse prima lungo il declivio in fondo al fiume, presso l'ingresso di una grotta, poi di nuovo sulla strada a est, dritto verso le montagne. Ondolemar tastò la sabbia con le dita, era già secca e le orme impresse sul terreno davano adito ad un sotterfugio, alla marcia frenetica di un intero corteo militare.

Maledetti cani! Ringhiò, non diversamente dalla bestia che aveva preso a paragone. Girovagò in lungo e in largo, si rassegnò dunque a seguire il sottile filo etereo così come gli appariva innanzi. Risalì il declivio, giunse alla fattoria e scavalcò le rocce fino a raggiungere il pascolo più in alto, dove s'innalzava una misteriosa costruzione circolare che i suoi colleghi maghi avevano studiato in altri luoghi della regione.

A-ha! Impossibile che Elanilde fosse stata tanto scaltra da procurarsi di che sopravvivere, data la fuga tanto spiazzante. Si soffermò ad osservare il paesaggio e notò, tra la vegetazione, un mucchio di foglie a ridosso di un alto e folto cespuglio di ginepro. Ripulì la sagoma rettangolare dal telone e dai rami, biecamente posti per celare un carro e alcune provviste a malapena sufficienti per un giorno o due.

Andò oltre con l'immaginazione, sperando che a nessuno avesse rivelato l'identità del proprio sesso. Un impeto di gelosia lo portò ad artigliare il telo e strapparlo, laddove era così fragile da poter esser ridotto a brandelli. Cos'era successo sul quel carro? Lei era sua, soltanto sua...

Non era comunque quello il momento per abbandonarsi all'ira e alla rivalsa. Rintuzzò il desiderio di legarla al letto e punirla in un canto e risalì la scalinata verso le arcate dell'antico tempio sovrastante, una rovina che per maestosità e dimensioni sfidava ogni legge dell'architettura.

E così giochiamo ai piccoli archeologi, non è vero, mia cara? Insinuò, in un presunto dialogo con l'oggetto delle sue più recondite pulsioni. Notò segni di smottamento e grossi macigni scardinati dalla terra, forse a causa di qualche improvvisa frana o calamità naturale. Era sì caduta la pioggia di recente, ma divellere rocce tanto pesanti? Ondolemar non lo credé possibile. Continuò ad indagare, cauto, con l'indice puntato in avanti pronto a sferrare un incantesimo elettrico.

Giunse in cima, dove trovò come unica compagnia delle poiane che circuivano la cupola. Il luogo pareva disabitato da tempo, e nonostante ciò la scintilla eterea culminava proprio di fronte al gigantesco portale... l'ultimo ostacolo che si frapponeva tra lui e le sottili dita di Elanilde.

Senza troppi complimenti spalancò la porta con la pianta dello stivale, pressando con forza sul bronzo lavorato. Lo scricchiolio lento dei cardini lo introdusse in un'anticamera semibuia, umida, da cui la luce filtrava solo attraverso anguste fessure attorno alla base della copertura. L'intero scorcio sarebbe stato perfetto per una storia del terrore, se non fosse per un cavallo baio che scalciava, nervoso, di fronte una catasta di erba secca.

“Tutto torna, allora.” Disse a se stesso, andando oltre la prima fila di archi.

Fu allora che la vide... distesa supina su di un tavolo di pietra, ricoperto da un drappo rosso e petali di rosa. Sfioravano la pelle delicata dell'elfa, le cui forme seminude erano graziate da una toga d'organza. Rivelava ciò che, per anni, era rimasto celato sotto una fasciatura. Il respiro gli si bloccò in gola.

“Elanilde, cosa ti hanno fatto?” Le posò una mano sul cuore, sperando che fosse viva... lo era. Respirava beata, dava segno di apprezzare non solo il suo tocco, ma anche le dolcezze regalate da un sonno profondo e incantevole. Le dita di Ondolemar, involontariamente, scivolarono sulla punta del seno, ne descrissero l'areola appena visibile, fino a scendere verso la curva dell'addome. Morbida, invitante.

“Ah.” Era il profumo dei fiori, la leggiadria delle corolle attorno ai capelli castani, a decorarne il capo e anche l'altare? La divisa aderiva al suo torace umido, si strappò il cappuccio e rivelò la fronte, madida di sudore. Cos'era quell'incantesimo, cosa stava succedendo?

“Benvenuto nel mio piccolo santuario improvvisato, Inquisitore.” Lo salutò una voce femminile. Era la Sacerdotessa, abbigliata di una veste tagliata al busto, senza maniche. Aveva il colore dell'uva matura.

“Tu!” Le puntò il dito contro, pronto ad aggredirla.

“Ma come?” Rise lei, sminuendo la minaccia. “L'avevo detto che sareste tornato. Ed io, come promesso, vi sto accogliendo a braccia aperte”.
 


Con leggero ritardo ritorno con un capitolo che risolve almeno in parte i dubbi. A quanto pare, non è solo Ondolemar che cerca una voce, ma anche Haraldur, giunto da Hrothgar Alto su richiesta dei Barbagrigia. Bastian non è altro che Sulak: Sanguine stesso gli ha chiesto di assumere le sembianze di un legionario per catturare Elanilde ed attirare Ondolemar nelle rovine... il resto verrà raccontato nel prossimo capitolo!

Rispondo ad alcune probabili domande: perché, nonostante l'incantesimo di Molag, Sanguine è a suo agio anche nei panni di Sam? In lui coesistono sia la natura mortale che quella daedrica. Anche se l'incantesimo intacca la parte corporea, in realtà è perfettamente in grado di assorbirlo e neutralizzarlo, a tempo debito. Cosa che Dorisa non sarebbe stata capace di fare.

Nel frattempo, Sulak ha vegliato su Elanilde in una delle dimensioni di Sanguine, facendo in modo che l'incantesimo soporifero non si spezzasse. Dorisa è fuori gioco per buona parte di questo capitolo (anzi, compare solo alla fine), ma nel prossimo verrà raccontato il suo risveglio, andando un po' indietro nel tempo... e il resto.

Credo che mi serviranno almeno altri tre capitoli, non lunghi come questi, per terminare la storia. Scrivere e gestire le trame sta diventando sempre più difficile, perché ci sono delle parti con cui mi sento a mio agio, altre che devo costruire attentamente.

Vi ringrazio, come sempre, per la pazienza, per l'attenzione, i consigli e le recensioni. A presto!

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Capitolo 11
*** Il guscio si schiude ***


Aveva vissuto la scena, erano passati mesi, forse più di un anno. I continui pellegrinaggi per le città di Skyrim l'avevano fortificata, ma anche estenuata. Provava l'ardente desiderio di tornare a Winterhold, in quella casa che lei stessa aveva reclamato, dopo aver lasciato la natia Solstheim per studiare al Collegio.

L'attendevano una tisana alla lavanda e un piatto di biscotti, mentre il fuoco scoppiettava vivace e l'intero ambiente veniva rischiarato dal chiarore proveniente dalle braci. Sam propiziava il suo risveglio, spaccando legna nell'orto o abbrustolendo patate sulla graticola.

Proprio com'era stato nel giorno in cui avevano sancito il loro eterno legame, quando l'aveva resa totalmente sua, pegno di una strenua lotta contro il drago di monte Anthor.

Casa... lì avrebbe preferito stare, era lì che voleva tornare.

“Ehi, bella addormentata... il dovere ci chiama”.

Sam aveva vegliato su di lei, durante il sonno, prima del risveglio. Dorisa schiuse appena le palpebre e tese le dita per carezzargli il viso. Giocò con una lunga ciocca che gli incorniciava la guancia e, delicatamente, gliela appuntò dietro l'orecchio. L'uomo, rallegrato, ricambiò, posandole le labbra sulla fronte, con dolcezza.

“Tirati su, mia cara, c'è anche Sulak a farci compagnia.” Già, l'ospite inatteso. L'ultimo sprazzo di lucidità l'aveva abbandonata mentre aggrovigliava gli steli rugosi della lavanda attorno ai soffici fiori di campo. Ebbe l'impressione di essere in uno stato di semi-coscienza, in una morte apparente che l'aveva sottratta all'innocenza della sua occupazione per catapultarla nei tortuosi oblii di Coldharbour.

E ne era venuta fuori, respirando aria a piene boccate, risalendo le correnti sotterranee fino alla piena vista della luce. Sanguine l'aveva avvinta a sé, facendole scudo con l'armatura e incidendole i polsi con la punta sottile di un guanto. Di lì a poco era come se tutto il veleno fosse sgorgato via, purificandole le vene.

Almeno era ciò che credeva di aver visto.

“Eravamo insieme.” Balbettò, incerta. “Mi hai sospinto verso la fine dell'abisso e...”

“...Adesso, olio di gomito!” Sulak le si era inchinato davanti, porgendole l'abito porpora, riservato per i rituali più sontuosi. “Girati a lato e accogli la festeggiata. Anche lei ha bisogno di un bel vestitino, non trovi?”

“Che ci fa qui Elanilde, come...!” Dorisa sussultò, alla vista della ragazza stesa sul sacco a pelo affianco, in totale catalessi. Poi inarcò le sopracciglia, contrariata. “Mi dovete una spiegazione.”

“Presto detto.” Sam si lustrò la punta del naso con un dito. “Sulak si è travestito da legionario e l'ha attirata qui, sono stato io a fargli la soffiata. Non è il massimo scegliere una rovina draconica per aprire un portale verso l'Oblivion, tartina alla crema, ma è anche vero che nessuno avrebbe mai messo piede qui dentro se non ti fossi intestardita a isolarti per meditare. Come sempre, prendi le cose alla lettera.”

“C'è dell'altro?” Osò domandare, osservando Sulak con espressione supplicante. Lui scrollò le spalle, vittima quanto lei delle vicissitudini.

“Sì, Sevan e il suo nuovo amico nelle catacombe.”

“E hai permesso che andassero da soli? Ti rendi conto di cosa...”

“Sono dei maestri in battaglia.” Troncò il discorso con un gesto affettato. “Se ci tieni a sapere tutta la storia, te la racconterò dopo. Non è carino che due bulli mettano le mani sul corpicino di questa elfetta illibata... specie se c'è un toro scatenato lì fuori che non vede l'ora di reclamare la giovenca! Le modiste dei miei Reami hanno dedicato un modello anche a lei, cosa ne pensi, Dorisuccia-uccia?”

“Osceno.” La sacerdotessa storse il naso, quando le venne presentata una toga di organza iridescente, sottilissima al tatto. “Come i nomignoli che continui a darmi. È praticamente nuda!”

“E questo è il bello!” Sam schioccò le dita, trionfante. “Lui la vede e sotto l'armatura, il fuoco purificatore di Auri-el fa yee-ah, hai presente?

“Come quando si incita un cavallo già imbizzarrito?”

“Stai migliorando!” Lui batté le mani. “Almeno quella parte l'hai capita, il resto no.”

“Battutacce da quattro septim!” Commentò Sulak, stanco di sporcarsi le mani e stare in silenzio. “Il buon vino invecchia bene... ma voi, capo, avete perso lo smalto!”

“Misero fanfarone! In tal modo ripaghi la generosità di chi ti concede un ruolo di prim'ordine nelle trame più dissolute?”

“Ora basta.” Strillò Dorisa, estenuata dalle loro smargiassate. “Vi sarei grata se giraste alla larga per il cambio d'abito, ovviamente senza sbirciare. Vero, Sam?”

“D'accordo, mia cara.” La canzonò, esagerando un inchino formale e ritirandosi nel retro del vestibolo. “Adesso tocca a te.”

Finalmente un po' di tranquillità. Dorisa emise un sospiro di sollievo, sollevando la toga e lisciandone gli orli spiegazzati. La tinta viva, luminescente, attirava su di sé i fuochi fatui dei bracieri. Non scorse la patina comune degli oggetti incantati, ma la veste pareva persuaderla a farsi indossare, rivelando il suo potenziale seducente. Non indugiò troppo sulle sensazioni, passò direttamente all'azione: barattò il cuoio e il lino dell'esploratrice per la più sontuosa seta.

I fiori le avrebbero fatto da gioiello, non chiedeva altro. Aveva conservato una certa praticità verso rituali che avrebbero solleticato curiosità e meraviglia negli astanti, durante lo spettacolo di un bardo. Magari era quella la dote dei musici... rendere eclatanti atti che, in realtà, erano semplici come la giornata di un contadino.

Chissà, forse un giorno qualcuno scriverà una canzone su di me, ridacchiò Dorisa, svolgendo con dolcezza i legacci della brutta casacca di Elanilde. Era una madrina per lei, e lei una bambola tra le sue braccia, che sarebbe stata presto esibita sull'altare per una nuova consacrazione. Un sordido sospetto la bloccò, mentre svolgeva le bende sul seno: temeva che la festa giocosa si tramutasse, ad un certo punto, in un'offerta cruenta. Sam non si era dilungato troppo, aveva illustrato il rito in maniera scanzonata, com'era solito fare. E se quei fiori adornassero l'altare proprio per suggerire all'inquisitore di macchiarli con la propria voluttà, colorandoli col rosso del vino e della vergogna?

Non poteva opporsi, era uno strumento. Eppure, la coscienza la invitava a porre un limite a quelle follie dei sensi, ad evitare che una ragazza finisse nelle grinfie di un amante burbero e ambiguo, solo perché aveva stretto un patto con la divinità. Il dubbio di esser stata oltremodo sfruttata alimentò il paradosso della vicenda.

“Sono come te.” Le bisbigliò in un orecchio. Elanilde rimase ferma nel sogno. “Servo, non ho scelta e forse... pagherò le conseguenze delle mie decisioni obbligate.”

Invidiò coloro che si dichiaravano senza dio. A loro spettava il premio dell'assoluta libertà.

La consolò la vista delle stelle scintillanti, di cui tracciò la scia su quel tessuto trasparente. L'altmer era radiosa, improvvisamente e violentemente donna, pronta ad attendere colui che da anni era stato il tormentatore dei suoi pensieri sul drappo rosso, come un trofeo di caccia.

Sarebbe arrivato presto, molto presto.

Perciò non aveva fatto altro che adagiarla sull'altare e ritirarsi dietro il colonnato, in una vigile attesa.

Sperava che non accadesse mai. Invece, il portone cigolò senza troppe cerimonie, e una figura incappucciata varcò la soglia con intento ferale. Si lanciò in un'osservazione da poco, poi si diresse senza indugio verso l'altare, colto dalla peggiore angoscia.

“Elanilde, cosa t'hanno fatto?” La lussuria prese il posto dello sgomento, quando si avvide che ogni sua forma, ogni suo segreto, era esposto ai suoi occhi. Ansimava, preso dal dilemma del peccato, colto dal delirio di voler divorare quelle carni che lambiva tentennando. Quando strattonò il cappuccio, imperioso, ebbe un sussulto. Dorisa disse a se stessa di far prevalere la calma, la ragione.

Non attese oltre. Sbucò dal suo nascondiglio e lo salutò deferente.

“Benvenuto nel mio piccolo santuario improvvisato, Inquisitore.” Non mancò di calcare le ultime sillabe, per ricordargli il peso della sua posizione.

“Tu!” Era lì, incredulo, colto sul fatto. Pronto per essere ricattato ancora una volta, almeno secondo la sua mentalità da Thalmor.

“Ma come? L'avevo detto che sareste tornato. E io, come promesso, vi sto accogliendo a braccia aperte.”

“Non ho bisogno della tua ironia, serva d'un demonio!” L'apostrofò Ondolemar, rosso in viso. “Il nostro accordo è cessato nel momento in cui vi ho consegnato il registro con i dettagli che abbiamo raccolto.”

“E io vi sto ricompensando in modo adeguato. Sanguine non dimentica nessuno, aiuta persino coloro che sono reticenti ad affidasi a lui. O a ricordare il perché di tanta devozione.”

“Cosa significa? Io onoro Auri-El, Trinimac, Pynaster. Il tuo è un falso dio!”

“Ah, non funziona con me.” Dorisa sottolineò l'ironia della situazione, agitando l'indice, quasi stesse rimproverando uno scolaretto. “Conservate le frasi fatte per i poveri paesani, che temono per i loro pochi averi e la vita. Io non ho nulla da perdere poiché Sanguine mi ha dato tutto. E tutto darà a voi, se lo permettete, messere. Oggi avverrà un miracolo, a voi piacendo.”

“Cosa vai insinuando, strega?” A quell'epiteto, Dorisa scoppiò a ridere. Avrebbe tirato fuori tutto il repertorio riservato agli eretici, se gliene avesse dato il mezzo. “Non permetterò che tu abbia la meglio su di me con false lusinghe. Puoi anche gettare il tuo incantesimo, ma non sarò mai schiavo!”

“Voi avete deciso di chiedere aiuto, e no, non è la vostra dura cantilena che desidera. Lui... lui... ha scelto questa ragazza.”

Vi fu un silenzio improvviso. Ondolemar la fissava esterrefatto, offeso da tale presunzione. Dorisa, invece, non sapeva più cosa dire per motivare le proprie pretese.

Fu in quel momento che un profumo di rose e mosto si diffuse nell'aria, al suono di cimbali e tamburi roboanti. Una risata gracchiante echeggiò nel tempio dei morti e le pietre su cui si reggeva furono scosse dalle fondamenta.

“Oh, misero mortale!” Lo canzonò una voce. Ondolemar cominciò a guardarsi intorno, a scostare le offerte votive gettandole a terra. Il cavallo, quieto fino ad allora, nitrì impennando, nonostante la corda gli impedisse i movimenti. Tutto era confusione, strida disarmoniche. “Puoi anche non credere alle parole della mia ancella, sta di fatto che non puoi negare l'evidenza di fronte all'abilità ventriloqua di Sanguine, proveniente dalle viscere della terra!”

“È lui?” Sibilò l'Inquisitore, parandosi le orecchie con le mani.

“Sì, proprio lui.” Confermò Dorisa, sorridendo.

“Lascia che ti tranquillizzi, pudico elfo, rendendoti partecipe di ciò che sta per accadere. Ho scelto questo usignolo proprio perché, con il suo canto, è stato capace di risvegliare la passione anche nei cuori più induriti. Tu ne sei l'esempio, vile bigotto! E non sai quale dispiacere m'arreca sapere che un talento così brillante non verrà mai fuori solo perché tu – sì, solo tu! – l'hai messo a marcire sotto strati e strati di contrizione! Tieniti i tuoi déi se vuoi, ma lei... non l'avrai mai. Non si sveglierà più dal sonno che l'ha rapita finché non sarai sincero con te stesso!”

“Sincero con me stesso?” Ripeté Ondolemar, come un ebete.

“Già.” Un coro di voci maschili concordò con il responso del principe daedrico. Erano due giullari bretoni, di cui il più anziano era Sam. L'altro, giovane e lentigginoso, si mostrò ai due per la prima volta, ma non aveva meno sfrontatezza rispetto alla controparte. “Parole sacrosante!”

“Che scherzo è mai questo?” Tuonò il Thalmor, l'unico essere rabbioso fra le danze irriverenti dei nuovi arrivati. “E di quale perversione siete figli? Potrebbe rimanere così per sempre... e voi siete lieti d'aver causato la sua dannazione?”

“Se sarà dannata o no... dipenderà solo da te.” Fischiettò Sam, dandogli una pacca alla nuca. Sulle sue brache a sbuffo, strisce di velluto cremisi spiccavano sul nero della seta, in un gioco allegro e al contempo inquietante. Il ragazzo, invece, aveva indosso le tinte della volta celeste, blu scuro e argento. Al primo era riservata un'anfora di terracotta, su cui erano dipinte scene orgiastiche presiedute da un idolo suadente, cornuto. La sua ombra occupava tutto lo sfondo della composizione, e i corpi dei fedeli, avvinghiati l'un l'altro, suggerivano quale potere infondeva sui seguaci mortali.

Il secondo giullare, invece, gli porgeva il calice in un tacito, eloquente invito.

L'Inquisitore ne fu inorridito, sdegnato. Sentiva che qualcosa stava venendo meno, dentro di lui. I balletti dei due comici erano ridicoli, ma lo era pure la sua vita, costruita su menzogne alle quali aveva fatto affidamento. Una visione gli restituì una parte del suo vissuto: era piegato sul liuto, piangente. Provò un'infinita pena.

“No, basta!” Era sul punto di impazzire. L'ansia e la frustrazione erano uguali a quelle d'un tempo, se non avesse avuto abbastanza autocontrollo – così come gli avevano insegnato – sarebbe scoppiato a piangere davanti la sacerdotessa che, invece, gli faceva da guaritrice in quel passato malato.

Infine, la vide: raggiante, innocente, con la soffice mano poggiata alla balaustra di legno. La lunga treccia graziava un volto candido e i suoi occhi erano per lui, lui soltanto.

“Ondolemar.” La pronuncia non era perfetta, dato l'accento nella lingua comune, ma che gioia incontenibile udire il suo nome, sebbene fosse cosciente di vivere un sogno ad occhi aperti! Anziché cantare, la piccola Elanilde scese le scale. Non le importava della differenza d'età, che fosse lì come un nemico. Prima o poi le cose sarebbero cambiate, sarebbero cambiate e...

“Non può essere!” Urlò. “Non può essere... perché Valermo le ha ucciso il padre, ha ordinato di dar fuoco alla casa e di torturare i prigionieri, e lei... lei! Si è salvata a causa di un capriccio, ero io a volerla baciare, ma lei no... rifiuta il mio affetto, le mie attenzioni...”

“Non puoi esserne certo.” Lo consolò Dorisa, stringendo le sue dita attorno al fusto del calice. “Però, puoi annientare il dolore e tu hai intuito... hai intuito cosa fare.”

“Il mio dolore...” Cercò dentro di sé, andò nel profondo. Identificò le cause, col pensiero le trasformò in idoli dorati, scintillanti, che gettò in un pozzo nero. Uno dopo l'altro.

Le labbra di Ondolemar si aprirono in un sogghigno isterico.

S'avventò sull'anfora e la strappò dalle braccia di Sam, scoperchiandola in una presa convulsa, feroce. Vino! Nessuno l'avrebbe visto, nessuno avrebbe saputo: ficcò il calice sotto l'orlo del recipiente e ne versò in gran quantità. E bevve, a sorsate folli, finché l'alcol non gli bruciò la gola.

I giullari si burlarono di lui, ridendo a crepapelle.

“Non basta.” Strillò, gettando il bicchiere a terra. Il vetro s'infranse in una miriade di punti luminosi.

“Ancora?” Chiese Dorisa. L'anfora si era riempita per magia, il vino avrebbe saziato un intero reggimento. E lui ne era soggiogato, contemplava i movimenti del dolce succo come se fosse una fonte purificatrice, sgorgata dalle rocce di un sacrario.

Ondolemar non rispose e trangugiò direttamente dall'apertura. Stava dimenticando chi fosse, scuoteva l'otre e si dimenava avanti e indietro. L'ancella e i suoi accompagnatori si erano dileguati, o forse era l'ebbrezza ad averli cancellati dalla visuale. Adesso c'era solo Elanilde distesa tra i petali dei fiori, bella quanto quella sera, prima dell'inferno.

Le posò un tenero bacio sulla guancia, nulla accadde. Temeva di corromperla, di imbrattare per sempre quell'animo candido con un fervore animalesco, celato per anni. Percorse con la punta del naso la strada che congiungeva gli zigomi rosei fino alle labbra, le accarezzò con le proprie, ma non bastava ancora.

“Cosa devo fare per risvegliarti? Sanguine... canaglia che non sei altro. Mi rendi tutto ciò che desidero e non ho il coraggio di farlo, io...”

L'avrebbe perdonato... l'avrebbe ucciso, nel peggiore dei casi. Le spostò le gambe a lato, creando un varco, e subito s'arrampicò sul tavolo. Ora che le stava sopra, sostenendosi con le braccia, il suo ventre, il suo petto, gli parvero ancora più invitanti. Ansimò di fronte quelle curve che ondeggiavano tenui, sospese in una serie di lunghi respiri. Il vino l'aveva disinibito, dato che – senza rendersene conto – le sue dita erano sotto l'organza, ad assaporare il calore di ciò che ricopriva.

“Elan... non mi odiare. Non mi lasciare!” Aveva intuito, già... c'era solo un modo. Si strappò la divisa da dosso, sferrò pugni al cielo ed esultò, urlando con tutto il fiato che aveva in corpo. Si era liberato di un peso ed ora era un nuovo Ondolemar a sollevarle il mento per baciarla sul collo. Ingabbiò Elanilde col proprio peso, il torace formava con le braccia un giogo di ferro al quale l'elfa era incatenata. Lei non avrebbe pianto, non avrebbe opposto resistenza... e fu quel pensiero che lo convinse ad agire.

Si slacciò le braghe, poi si coricò tra le sue gambe. Aveva i lombi in fiamme e non poteva più resistere, colmo com'era di fervida smania. Tutto ciò che aveva immaginato divenne reale, la sfiorò ancora, e ancora una volta... Non si era mai sentito così felice, se solo avesse ricambiato!

“Ritorna a vivere, mia cara.” Le raccomandò, scivolandole su come un rettile e negandole un gemito. Non seppe quanto a lungo l'aveva baciata, solleticata, pizzicandole perfino le natiche per strapparle un gridolino di sorpresa. Dormiva, e Ondolemar si perse d'animo.

Era tentato di rialzarsi, di tornare col triste bottino a Markarth per poi adagiarla tra la seta, su cui avrebbe giaciuto finché gli déi lo avrebbero concesso. Qualcosa, comunque, gli sfuggiva. Nonostante avesse bevuto fino ad avere la vista annebbiata, gli arti intorpiditi, non era sceso nel più buio dei peccati.

Aveva di fronte degli indizi per risolvere il mistero, ma nulla aveva senso. A meno che...

“Il vino...” Era una fantasia assurda, eppure avrebbe potuto funzionare. Distese un braccio per afferrare l'anfora che aveva deposto sotto l'altare e buttò giù un'altra sorsata. Trattenne il respiro e parte della bevanda in gola; poi si sporse su di lei e le socchiuse la bocca, facendo scivolare le mani fino a chiuderle con decisione sui seni.

Bevi, bevi dalle mie labbra! Sgranò gli occhi e riversò il contenuto dentro di lei, esitando a mollare la presa. Gli era rimasta un'ultima possibilità, leccò via il residuo agli angoli della bocca e tirò giù la parte superiore dei calzoni, guidato da un proposito che i sacerdoti di Alinor avrebbero considerato oltraggioso.

Prima, però, carpì l'ultimo aroma di vino adagiandosi su di lei. Ondolemar le alitò sul viso, poi divaricò le gambe in un gesto amorevole. Il cuore gli scoppiava, poteva finalmente esultare e infonderle col corpo una devozione inespressa. Stava per diventare tutt'uno con lei, in un morbido, appagante abbraccio... e qualcosa lo fermò. Non lo scrupolo morale, non il castigo divino.

“Brutto stronzo!” Volò letteralmente giù dal tavolo e la caduta fu addirittura più ridicola, con i pantaloni attorno alle ginocchia e le pelvi del tutto scoperte. All'urlo infuriato seguì un singhiozzo, quando si voltò di fronte seminudo, per abbigliarsi come meglio poteva sul basolato.

“Elanilde?” Strascicò Ondolemar, incredulo. “Sei tu, non è vero?”

L'elfa cercò di ricomporsi, seduta sul tavolo. Notò, allarmata, che la stoffa trasparente le dava poco di che coprirsi, perciò portò le mani al petto e lo guardò sottecchi, dopo essersi assicurata che lui avesse allacciato la cinta in vita.

“Mi sarei aspettato qualcosa di più... carino, non importa, comunque. Puoi parlare ed è questo ciò che conta.”

Davvero era stata lei? Credeva di aver udito i propri pensieri ad alta voce. Tastò la gola con il palmo della mano, si fece forza e provò di nuovo a pronunciare delle frasi.

“E cosa v'aspettavate che dicessi? Cerco di liberarmi di voi, colgo al volo la prima occasione che ho per rifarmi una vita... ma no! Proprio quando credevo di aver raggiunto l'intento, scopro di essere stata ingannata e poi attirata dentro queste mura da un falso esercito imperiale. E come se non bastasse, qualcuno mi ha sedata, svestita e poi messa qui sopra con lo scopo di farvi piacere, padrone! L'empatia non è mai stata il vostro forte e me lo confermate, viscido maniaco.”

Ondolemar si grattò la testa, in imbarazzo.

“So che non potrai mai metterti nei miei panni e lo capisco. Ho usato le maniere forti e compiuto azioni ingiustificabili. Ho cercato di fare qualcosa di buono, stavolta; ho tentato di tutto, pur di destarti e rompere l'incantesimo! Siamo stati condotti qui dai seguaci di Sanguine... ricordi la sacerdotessa?” Provò a distogliere la sua attenzione e, soprattutto, a infilarsi di nuovo la palandrana. “Le ho chiesto di intercedere per te, in modo che riavessi la voce. A quanto pare, il Principe della Dissolutezza ha potere laddove i miei déi falliscono.”

Elanilde saltò giù dal tavolo. S'era fatta una ragione della propria nudità, era più interessata a vedergli confessare un fiume di peccati. Accorciò le distanze e prese a squadrarlo, scorgendo in lui un carattere diverso. Una debolezza.

“Certo è strano vedere fino a che punto può avervi spinto il senso di colpa... giocarvi la perfezione, dopo la transizione mortale... per me? È questo che avete sempre voluto?”

Tamburellò sul dorso duro della casacca, mettendo a dura prova la sua presunta impassibilità. Era risoluto a non ripetere l'assalto, decise di fidarsi.

“Mi basta e sono stato debitamente ripagato.” Asserì, lanciando un'occhiata in tralice verso quei seni che l'aria fredda della cripta rendeva ancora più invitanti. “Ricordi ciò che ti dissi quella maledetta sera, quando ti rifugiasti nella tua stanza, rannicchiandoti sotto lo scrittoio?”

“E come potrei dimenticare?” Ribatté Elanilde, girando a largo. Gli occhi dell'Inquisitore erano puntati su di lei come la punta lustra di un dardo. “Avrei cantato per voi, ovunque voleste... finché la cosa non vi sarebbe venuta a noia. In tal caso, mi avreste tolto la vita.”

“Cambiamo le regole, invece.” Le propose lui, con un'espressione eloquente sul volto. “Puoi far sì che avvenga in modo lecito, in tal caso ti conviene sposarmi. Altrimenti, se hai fretta, puoi farla finita qui. Ecco, ti do un lasciapassare per il futuro, il mio desiderio s'è avverato. Arruolati, impossessati del mio denaro, fa' quel che t'aggrada. Per quel che mi riguarda, posso agevolarti il compito.”

Intrufolò la mano in una tasca segreta della palandrana, dove v'era nascosto il fodero d'un pugnale di vetro. Si soffermò a giocarci un po', rigirandoselo tra le dita, e infine glielo porse con la lama rivolta verso la giugulare.

Elanilde sbiancò, disorientata e punta sul vivo.

“Avanti, non hai desiderato altro, per tutti questi anni.” Le suggerì, rapito dal suo sguardo da cerbiatto. “Falla finita, tanto prima o poi qualcuno mi ficcherà una lama in petto o ci penserà il drago... preferisco, allora, che sia tu a colpirmi. Almeno saprò che sarà stato per una buona ragione... una ragione che condivido, e non il male che quella sera Valermo ha perpetrato, schermandosi dietro il Credo, la Nazione e gli Antenati.”

“Non rendetemi difficile la decisione.” Elanilde abbassò le iridi verso il filo acuminato del coltello. La curva ondulata del metallo accentuava la letalità dell'arma. “Invitante come proposito, ma finora, padrone... quante volte, nella rabbia e nel rancore, avete dissimulato? E tra le varie ombre, sarò certa di identificare il vero Ondolemar?”

“Ho imparato a essere crudele, persino con te, per farmi rispettare. A giocare sporco, ma ti posso assicurare che non sono mai stato più sincero di così”.

Le rimase una questione irrisolta, sulla punta della lingua. Avrebbe potuto ferirlo a parole, dato che ora disponeva dell'arma definitiva per sentenziare l'inizio o la fine di quel sogno che l'aveva riportata indietro nel tempo, in una specie di dimensione parallela. Il cinismo della fredda villa paterna l'aveva intossicato.

“A tutto c'è un prezzo, cos'è che chiedete prima di rendermi il favore?” Sorrise Elanilde, in apparente accondiscendenza.

“Vuoi donarmi l'estasi?” Domandò Ondolemar. “Dammi l'unica cosa in cui ho sperato per tutti questi anni e sei libera.”

“Libera... se faccio l'amore con voi?”

La vista gli s'intorpidì. “Sì.”

Ponderò la richiesta e presto arrivò la conclusione. Non gli doveva nulla: essere lì in piedi, di fronte a lui e in posizione di potere era un evento incidentale, ucciderlo sarebbe stato un danno collaterale. Se ne sarebbe andato prendendosi tutto ciò che voleva, avrebbe ottenuto da lui una sorta di indennizzo, come se tutta la sofferenza e l'umiliazione patita per anni non fossero altro che parte del disagio di una lunga e fruttuosa trattativa commerciale.

“Oh, no.” Elanilde recuperò la daga e la sollevò, strappandogliela dalle mani nell'ira. Ondolemar non doveva uscirne come un santo, tuttavia tale sarebbe stato l'esito, se lei avesse colpito.

L'avambraccio le tremava, incapace di risolversi nel gesto.

“Non è così che risolverete i problemi.” Dorisa la bloccò, annullando qualunque ricorso alla violenza. “Finché sono qui presente, è anche a me che dovrete rispondere.”

“Credevo fossi dalla mia parte,” Elanilde stentava a riprendere il controllo, tanto salda era la sua presa. “preferisci invece che finisca tra le sue grinfie, perché è questo che vuole Sanguine, vero?”

“Nessuna passione scaturisce dalla schiavitù o dalla brama di sangue. Se colpisci gli renderai facile l'espiazione e perpetuerai la scia di morte che ha intaccato il tuo dono. Allora, cos'è che tu preferisci? Lasciare che ti chiamino ingrata, assassina... o rendergli la vita difficile?”

“Hai ragione... Codardo!” Gettò l'arma a terra, non appena si liberò da quelle mani scure ed eleganti. Ondolemar, incredulo per l'improvviso rivolgimento, cercò di impossessarsene nuovamente, ma Elanilde nullificò ogni intento calpestandogli la mano. L'elfo trattenne un lamento, ritraendosi nell'orgoglio.

“Non mi lasci altra scelta.” Ridacchiò l'Inquisitore, mentre lei spingeva il piede più in fondo. “Non posso morire, e di certo da qui non posso uscire. Intendi farmela pagare? Ci stai riuscendo bene.”

“Potevo sposarvi, siete voi che non me lo permettete.” Lo spirito di rivalsa s'esaurì ben presto, quelle pratiche non erano per lei. Non le davano gusto. “Vi do la chiave per risolvere il mistero... come pretendete d'amarmi se, per anni, non avete mai amato voi stesso?”

“Ben detto!” Alla vista dei due giullari, Elanilde comprese i dettagli del piano. Riconobbe Bastian ma rimase fissa dov'era, mentre lui allungava all'uomo più anziano l'estremità di una lunga corda, recuperata da chissà quale recesso delle rovine.

“Legatelo.” Ordinò Dorisa, indicando il prigioniero e raccogliendo il pugnale. “Vuoterà il sacco, perché sono sicura che su questi presunti registri è stato omesso del materiale. A quest'ora i Thalmor staranno già setacciando le province per identificare il nascondiglio dei ricercati. Dunque, cos'è che sapete di Esbern e Delphine? Avanti, confessa.”

“Niente di tanto importante, rispetto a quello che già è stato scritto.” Rispose Ondolemar, indignato. “Potete farmi ciò che volete, non mi metterò a sbandierare segreti di stato come uno strillone al mercato. Cos'è la mia vita rispetto al Dominio Aldmeri?”

“Si vede che non parliamo la stessa lingua.” Dorisa si morse il labbro, stizzita. “Troveremo un modo per intenderci meglio, in futuro. Sarà il caso di dormirci su, non ti pare?”

Andò a recuperare l'anfora, e Ondolemar prese a scalpitare, a scalciare, non appena ebbe addosso i servi della dunmer. Nella foga non distinse chi fra i due lo piegò ai piedi del tavolo, mentre l'altro lo costringeva a ritrarsi, attanagliato in un groviglio di corde.

“Quella bevanda ha sortito su di lei l'effetto contrario, non mentire, strega.” La schernì. “Questi giochetti mentali non hanno effetto su di me.”

“Peccato che il vino sia reattivo e comprenda i nostri desideri più profondi.” Smentì Dorisa, pulendo le gocce che stillarono dall'otre prima con la punta dell'indice, infine della lingua. “E in questo istante desidero vedervi mite come un agnellino. Che dite, Sanguine accetterà?”

“Saranno i miei protettori ad impedirlo.” Fu l'ultimo moto di protesta, seguito da uno scherzo malevolo che Sam attuò, per obbligarlo a bere. Gli tappò le narici con le dita, e lui si ritrovò a spalancare la bocca per poter respirare. Fu così, con sottile ignominia, che trangugiò il liquido; poteva sentire i muscoli paralizzarsi e cadere poco a poco in un molle riposo.

“A dopo, signorino reticente.” Le concesse la beffa, ma gliela avrebbe fatta pagare. Oh, sì... lo avrebbe giurato ad Auri-el e di fronte a tutti gli splendenti. Nel suo cuore era ancora la nera ritorsione ad avere la meglio sul ragazzo tradito.


 

Avrei potuto interrompere la narrazione più in là, ma avrebbe richiesto almeno un'altra pagina, e non sono cattiva come Ondolemar. Descrivere la scena dell'incantesimo, senza farla apparire troppo stucchevole, è stata un'impresa. Non potevo trascurare i dettagli, perché questo è il momento che inizia a svelare tutti gli intrecci, almeno quelli disseminati nel corso della storia. Quindi, avevo una certa responsabilità nel curare al meglio questa parte, sperando che sia degna di quello che ci si aspettava.

Potevo utilizzare un linguaggio più elegante nel momento del risveglio, ma... sarebbe stato innaturale, almeno per Elanilde. Credo che quelle siano davvero le parole che ha tenuto in serbo per Ondolemar, un uomo con chiodo fisso. Che tipo. :)

Il ruolo dei personaggi, quindi, cambia a seconda delle situazioni. Cambia perché ero incerta se calcare troppo le emozioni. Quindi, speriamo che così ci sia equilibrio...

Ho cercato anche di fornire delle illustrazioni, come meglio potevo. Insomma, tutto il capitolo è dettato dallo sforzo, quindi, che lo sforzo sia con me!

Grazie per le recensioni, i consigli e i pareri su tutto, sempre così sentiti e costruttivi. A presto! :)

 

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