Piove Sangue a Firenze

di lr_ff
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***
Capitolo 11: *** XI ***
Capitolo 12: *** XII ***
Capitolo 13: *** XIII ***
Capitolo 14: *** XIV ***
Capitolo 15: *** XV ***
Capitolo 16: *** XVI ***
Capitolo 17: *** XVII ***
Capitolo 18: *** XVIII ***
Capitolo 19: *** XIX ***
Capitolo 20: *** XX ***
Capitolo 21: *** XXI ***
Capitolo 22: *** XXII ***
Capitolo 23: *** XXIII ***
Capitolo 24: *** XXIV ***
Capitolo 25: *** XXV ***
Capitolo 26: *** XXVI ***
Capitolo 27: *** XXVII ***
Capitolo 28: *** XXVIII ***
Capitolo 29: *** XXIX ***



Capitolo 1
*** I ***


Aveva conservato il suo sorriso migliore per quell’occasione, ci avrebbe abbinato anche un paio di lacrime di gioia se ne avesse avuto il tempo. Il lieve torpore dell’autunno stava lasciando spazio al timido inverno, pensò che lei, di gioia, non aveva mai pianto: tutte le sue lacrime erano state intrise di sofferenza. Prese più secondi del dovuto per rifletterci e si addormentò su quel pensiero, mentre il freddo, fuori alla finestra, al sicuro, nascosto dalle tenebre, trovava a poco a poco il coraggio di mostrare il suo volto. La luna se la godeva ad esserne avvolta, anche le stelle sembravano felici, quasi riflettessero quell’abbraccio. Elena sognava, un volto, qualcuno a cui dedicare tutte quelle parole; qualcosa da salvare ricordandola. Quel volto aveva proprio una bella faccia, e due occhi così verdi che a confronto sbiadiva l’Amazzonia. Aveva incontrato per la prima volta quegli occhi due mesi prima e da quel momento tutto ciò che aveva visto si era colorato di quel verde. Elena Rossi stava seguendo un corso universitario di cui non le importava niente, pensando al manoscritto che aveva inviato ad una casa editrice in quei giorni, quando in un’aula vicina ammazzarono il professor Lorenzo Montecchi. Così conobbe l’investigatrice Alessandra Nigri; le due risolsero l’omicidio del professore in pochi giorni e divennero amiche; al punto tale che l’investigatrice iniziò a renderla partecipe dei suoi casi, al punto tale che Elena modificò il suo romanzo per metterci a centro un omicidio in metropolitana sul quale le due avevano indagato: L’ultima Corsa, e lo inviò a tutte le case editrici esistenti finché non le rispose una fiorentina.
 
C’erano i poeti, e poi ci c’erano gli scrittori. C’era lei, e poi c’era il resto del mondo. E se ne compiaceva, Elena adorava il fatto che il suo sogno fosse unico, ed ogni volta che ci pensava, senza saperlo, usava quel sorriso che stava gelosamente custodendo da mesi: il migliore. Si trovava a suo agio a riposare in una città diversa, forse è ciò che succede a chi non ha patria. Abbandonata fuori il portone del convento di Sant’Anna delle Vedove, su una busta di plastica, completamente nuda, il 18 agosto del 1991, Elena non aveva mai inteso il significato della parola ‘casa’. La colpa fu senza alcun dubbio delle suore, le quali, credendo che la bambina avesse il diavolo in corpo, a causa di quegli occhi di un castano così intenso da sembrar iniettati di sangue, usavano con lei una severità incomprensibile. L’unico posto in cui si sentiva a suo agio era nella piccola biblioteca del convento, dove leggeva Cicerone senza capirne una parola; San Girolamo apprezzandone l’indecisione. Qualche volta venivano donati al convento libri logorati dal tempo più che dall’uso, per fare spazio a cose ancora più inutili più che per bontà di cuore. Elena li leggeva tutti, più e più volte, fino ad impararli a memoria, fino a confondere le parole di quelli con le sue.
 
L’ansia per il grande incontro la fece destare più volte: era così strano essere svegliata da qualcosa che somigliava, per la prima volta, ad un’ipotesi di felicità e non da quel solito paio di rimorsi. Temeva che non avrebbe provato abbastanza soddisfazione nel veder realizzato il suo sogno; questo malumore veniva sommerso dalla gioia di sapere che sconosciuti o poco conosciuti si sarebbero cercati nelle parole in cui lei si era persa. Aveva perso tante parole quante occasioni, e troppe, troppe persone. I suoi rimpianti andarono ad infittire quella nebbia fuori alla finestra. Il suo romanzo stava per uscire, chissà se sarebbe mai uscita lei dalla sua testa, occupata principalmente da ansie e paure. Richiuse gli occhi, riprese a respirare, rivide quel volto. Le disse ciò che aveva sempre saputo: era costretta ad andare avanti guardandosi indietro, a tentare di capirsi leggendosi, e a sognarla per sperare ancora in qualcosa. Quel romanzo sarebbe stato la sua rivincita, avrebbe dato un senso ad ogni cosa. I suoi pensieri erano novelli sposi che andavano, andavano nel chiarore di una certezza, nell’illusione di una vita bella come le promesse che si erano scambiati la sera prima.

Bella la notte di chi spera ancora in qualcosa, ammira se stessa riflessa in uno specchio che continua a ripeterle ossessivamente quanto sia unica; e buona la notte di chi dorme sognando tutto quello che non ha, s’accontenta di ritagliarsi tutto per sé quell’attimo eterno di felicità, collocato in una realtà che non esiste se non nel suo cuore. Cattiva la notte di chi deve allontanarsi da un balcone per paura di essere scoperto, fugge in lungo e in largo per leggere inciso, finanche nei sassi, sempre e solo lo stesso maledetto nome; pessima la notte di chi sta per morire, fa il conto alla rovescia dei suoi minuti per ritrovarsi in mano nient’altro che la sabbia che ha sprecato condannando se stesso a morte. La notte con i sogni segregati più lontano delle stelle, col cuore che, stanco di contorcersi allungandosi verso essi, li spegne tutti ad uno ad uno, e soltanto al buio riesce a guardarsi finalmente in faccia, e vede che non ha più l’età per sognare, non ha più parole da dirsi, né tempo da sprecare; vede che batte perché deve, e al buio, sottovoce, si ferma prima ancora di averne capito il motivo.

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Capitolo 2
*** II ***


I sogni costano, letteralmente. Gli sarebbe piaciuto essere un poliziotto, portarsi sempre una pistola appresso e puntarla contro ogni brutta faccia che vedeva. Se ne stava nascosto in mezzo a quei libri che odiava. Ne aveva visti tanti da fargli venire la nausea. L’editore più famoso di tutta Firenze era diventato, ma non gliene importava niente. Nato nel lavoro del padre, con scarpe troppo grandi per lui, Pietro, aveva cercato per tutta la vita di farsi spazio. Quanto ci costa fare spazio. Ci tranquillizziamo ad occuparlo tutto con la nostra ingombrante presenza, e fingiamo fastidio quando ce ne viene chiesto un po’, soltanto per non perdere quell’equilibrio che abbiamo conquistato con ogni nostra forza. Allineiamo parole una dopo l’altra col proposito di non farci capire, divoriamo ogni piccolo spazio tra loro e lo sputiamo su ogni singolo tentativo di silenzio per non ascoltare il loro reale significato. “Sto bene”, ed ogni singola lettera nascondeva una bugia; “Non sto così male”, si avvicinava alla verità; “Io non riesco a sentirmi”, avrebbe dovuto dirsi, ma quelle parole l’avrebbero terrorizzato.
Sbuffò, aveva una pila di dattiloscritti da leggere, e nessuna voglia di farlo. Miliardi di battute e nessuna risata. Gli sembrava assurdo che in Italia tutti scrivessero e nessuno leggesse. Tendeva a non pubblicare nulla di nuovo, almeno che non fosse d’oltralpe, ma, purtroppo, una proposta gli piacque più del dovuto, e, a malincuore, fu costretto a convocare un’esordiente.
L’ennesimo omicidio da risolvere, pensò.
La morte proprio non se la spiegava. Non si spiegava come avesse potuto tirar avanti tutta la vita senza sentirsi bloccato dallo stesso tumore alla spina dorsale che aveva ammazzato il padre.
Né tantomeno sapeva con quale faccia pregare più Dio, chiedendogli di proteggere un suo caro dai mali del mondo, dopo aver sentito la madre rivolgergli la stessa inutile preghiera per mesi inginocchiata ad un capezzale.  Era terrorizzato dall’idea di morire, ed ogni accidente della vita glielo ricordava. Era fortunato Pietro, e sguazzava in quella fortuna cercando in tutto ciò di cui disponeva un rimedio alla sua paura.  Ma la vita non la si trova nei libri, quelli si scrivono e si leggono per passare il tempo. La vita si trova fuori, e la morte dentro, e lui non stava vivendo, ma continuava ad andargli bene purché non si trovasse in un fosso. Eppure sarebbe successo, notti insonni o no, sarebbe morto, così come tutti i suoi cari. Allora voleva baciarla, sentire il cuore battere nel petto, e l’ansia chiudere lo stomaco, voleva vivere e non voleva nient’altro.
 
Credeva che il suo ultimo pensiero sarebbe stata sua moglie; che le voci che lo avrebbero accolto in paradiso sarebbero state quelle dei due figli, armonizzate a quelle degli angeli, e invece, quando sentì una forza stringergli violentemente il collo, strozzandolo, e il fiato venir meno; quando s’accorse d’aver usato le frasi sempre al contrario, concedendosi il lusso di dire che gli mancava l’aria al primo caldo di un assopito Giugno; di sentirsi morire a causa di una giornata trascorsa tra la noia e il rancore; di sentirsi in trappola in quattro mura, a lui, tristemente, troppo note, frasi che se quel nodo che gli stringeva la gola non glielo avesse impedito, se le sarebbe rimangiate ad una ad una; il suo ultimo pensiero fu un’estranea.
Chissà com’era quella ragazza che avrebbe dovuto incontrare. Non l’avrebbe mai saputo. Fu insanguinato di tristezza il suo ultimo pensiero; gli dispiacque quasi più l’impossibilità di poter dare un volto a quelle parole che aveva letto che di star morendo in quel momento.

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Capitolo 3
*** III ***


Le strade in Italia hanno tutte lo stesso nome. C’è sempre Via Mazzini, Cavour, Diaz, Vittorio Emanuele. Pensava che il ripetersi degli stessi nomi dipendesse dalla penuria degli eroi che la nostra penisola poteva vantare. Però le strade di Firenze erano più belle. Quelle strade erano state calcate da quello che s’appostava ogni nove anni fuori casa di Beatrice per riceverne il saluto; da uno che s’affaticava a mettere il timbro in Cancelleria; e da un altro, il più velocemente possibile, per fuggirne in tempo di peste. Arrivata a Santa Croce, Elena si fermò davanti al Monumento a Dante Alighieri.  La notte prima aveva nevicato, e quella mattina il sole non era ancora abbastanza alto per sciogliere la neve che si era posata sui severi lineamenti del poeta. Osservandoli giunse alla conclusione che quelli si erano serviti dell’amore come scusa per scrivere canzoni bellissime; e che lei non faceva altro che cercarsi ossessivamente in quella scusa perché cercarsi altrove le sembrava un girare a vuoto.  Doveva perdere tutto per trovare se stessa, era quella la terzina che la statua le stava citando. Dante le metteva addosso la voglia di comporre intricate sestine soltanto per ritenersi degna di pronunciare il suo nome.  Se avesse potuto vivere soltanto di letteratura, Elena avrebbe potuto trarre un bilancio positivo della sua vita, ma c’era una verità nascosta sotto alle parole che la spaventava a morte: si usava, usava quello che sentiva cercando di ricavarne qualcosa di poetico. O forse usava quegli artifici che la statua che si ritrovava di fronte le aveva insegnato per rendere degno di essere letto ciò che sentiva, o forse, doveva soltanto consumare il suo tempo facendo qualsiasi cosa che non comportasse la possibilità di viverlo.
Proseguì, non poteva visitare quella splendida città, tuttavia non aveva fretta di arrivare a destinazione: la lentezza dei movimenti, dei respiri che prendeva, la rilassava; le lasciava l’illusione di potersi appropriare del proprio tempo. Chissà dove l’avrebbe portata il futuro; temeva di non venir spinta da un vento favorevole, però ci sperava. Era l’unica cosa in cui realmente sperava.
Tutta la vita a non sentirsi abbastanza, ripudiata da chi l’aveva messa al mondo, abbandonata da loro come da tutti, e ci sperava. Tutta la vita a disperare e ritrovarsi d’improvviso a mandar giù un paio di lettere per concedersi il brivido di un’illusione. Undici gradi e non sentirli. Come quella casa editrice, rifletté. Non ne aveva avuto notizie da quando l’avevano contattata la settimana prima con la preghiera di recarsi in sede il prima possibile per firmare il contratto di pubblicazione. Le buone notizie a non ripetersele spesso, si dimenticano; forse per questo una brutta sensazione le vibrò sotto quel sorriso esibito a forza, trasformandolo incautamente in una profetica smorfia di delusione.
Superata Santa Croce, si inoltrò in un vico stretto, come quelli di casa sua. Una colonia cinese ben nascosta da lana di vari colori si allontanava a passo svelto dal luogo dove invece lei si stava recando, con la stessa agitazione degli animali che avvertono per primi un terremoto. Pochi passi più avanti si ritrovò davanti a quell’antico palazzo giallo, cui fregi aveva imparato a memoria osservandoli dalle mappe del suo portatile.
 
Pensò che dovesse trattarsi di uno scherzo, tante ore di viaggio, minuti di aspettative e secondi di nervosismo per ritrovarsi cacciati fuori dalla porta in cui aveva aspettato tutta la vita di entrare:
«Scusi, che succede?», riuscì a chiedere ad uno degli agenti di polizia accorsi in quel palazzo.
«Signorina, lei non può stare qui…», gli rispose quello avvicinandosi.
«No, ma io…»
«Conosceva la vittima?»
«Quale vittima?»
«Il signor Pietro Dinasti, direttore della Casa Editrice Il Foglio, lo conosceva?»
«No», rispose Elena, rimanendo a bocca aperta più a lungo di quanto l’emissione di quella sillaba richiedesse.
«Allora», fece l’agente spingendola all’indietro, «Devo chiederle di allontanarsi.»
 
Quant’erano brutte quelle strade ripercorrendole all’indietro.
Sconsolata, desiderava buttarsi sul letto di casa sua e coprirsi la testa con un libro per ripararsi dall’uggiosità del giorno, ma non poteva: si accorse di non trovarsi a casa sua non soltanto perché non c’era il suo letto, ma anche perché non trovò nessuna bancarella per strada dove comprare un libro. Priva di idee, decise di entrare negli Uffizi: avrebbe sopperito all’impossibilità della cultura con la sua messa in mostra. In fondo, ci avrebbe pensato la lunga fila all’ingresso a concederle il tempo necessario per rimuginare sull’accaduto.

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Capitolo 4
*** IV ***


Se ne rese conto troppo tardi che non bisognava aspettare che le foglie cadessero a terra per osservarne la bellezza. E se avesse avuto anche un po’ di buon senso in mezzo a tutta quella forza, l’avrebbe capito molto prima che non bisognava calpestarle. Non voleva tornare a casa quella sera Alessandra. Da settimane, lunghe mesi, al piano di sopra andavano martellando una nuova Roma per la tenacia e continuità del lavoro. Avrebbe voluto che quelle martellate fossero sincronizzate al suo orologio, così almeno avrebbe saputo quanto tempo stava aspettando per chiederglielo. Invece quelle s’affaticavano a correre più veloce dei secondi, rompendo gli attimi di silenzio in cui poteva finalmente ascoltare se stessa raccontarsi la solita bugia. Comprese d’avere anche lei un cuore soltanto quando lo confuse con la parete che stavano trapanando al piano di sopra. Odiava ascoltare il rumore di entrambi. Sulla soglia del palazzo, cercò il mazzo di chiavi nella borsa e notò che il suo telefono vi stava agitandosi.

«Sì?... Quando?... », rispose all’impazienza dell’altro lato, «Firenze ha detto?... No, no prendo il primo treno!»

E riagganciò sorridendo.
Avesse dovuto salvare qualcosa di quella giornata, Alessandra avrebbe salvato, senza dubbio, ciò che ogni giorno, realmente, salvava lei: il suo lavoro.

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Capitolo 5
*** V ***


Il viaggio in treno era andato, finendo chissà dove; era troppo stanca per elencarsi tutti i fastidi ricevuti in quelle poche ore; desidera soltanto silenzio, lo desiderava impazientemente. Trovava paradossale che la morte generasse tanto chiasso.
 
Arrivata alla stazione della polizia locale, si diresse, senza esitazione, nell’ufficio verso il quale la telefonata della sera precedente l’aveva indirizzata.
Ercole Grassi, sessantaquattro anni, troppi dei quali trascorsi a dar la caccia a teppistelli per strada, prima insieme al padre, il Colonello Vittorio Armando Grassi, marinando l’inutile scuola, poi con la stolta compagnia di un poliziotto qualunque, stanco di consumare le sue ore leggendo parole che non capiva, se ne stava attaccato alla stufa a guardare l’ultimo episodio della sua fiction preferita, seduto alla scrivania del suo ufficio. Accanto allo schermo del computer le foto dei suoi cinque figli e sei nipoti facevano a gara per farsi notare, oscurate dalle immagini dell’imponente colonnello e della bellissima seconda moglie. Non riuscì neanche a mettere in pausa l’episodio che stava guardando, che alla bussata che aveva appena avvertito seguì l’ingresso di una bionda mozzafiato.
 
«Salve, Detective Alessandra Nigri, cosa abbiamo qui?», gli chiese porgendogli la mano.
«Oh, detective!», iniziò quello, ricambiando affettuosamente il saluto, «Mi lasci dire che è un onore conoscerla, la sua fama la precede…»
«Sì, certo», lo interruppe Alessandra cercando di andare al sodo, «Il piacere è tutto mio, mi dica cos’è questa storia della falsa impiccagione?»
«Beh», sintetizzò il ruffiano, stretto dalla necessità di non poter far altro, «è molto semplice: abbiamo trovato il signor Pietro Dinasti appeso nel suo ufficio con un cappio al collo, abbiamo pensato subito ad un suicidio, ma non abbiamo trovato nessuna lettera d’addio, né tantomeno la famiglia o i colleghi hanno confermato tale ipotesi.»
«E?», chiese l’investigatrice travestendo l’impazienza d’interesse.
«E, devo dire che è stato un vero colpo di genio il mio!», disse il poliziotto, innalzando goffamente il tono della voce, «Ho pensato che potesse trattarsi di una messa in scena! Cioè in realtà, non è stata tutta farina del mio sacco», ed iniziò ad ammiccare in maniera imbarazzante, «Sto seguendo questo telefilm, dove per l’appunto…»
«Mi scusi, tenente, cerchiamo di attenerci ai fatti, mi dica, in che modo si è accertato che non si trattasse di un suicidio?»
«Certo, certo, come vuole lei... Vede, in primo luogo la scena del delitto presentava segni di colluttazione: alle spalle del morto vi era una grande libreria e abbiamo trovato libri sparsi un po’ dappertutto, inoltre la vittima non aveva il collo rotto e…», si fermò un attimo per creare suspense, «cosa più interessante», esclamò in un crescendo di estasi, «i segni sul collo della vittima non coincidevano con la corda che aveva intorno al collo!»
 
“E bravo Poirot!”, pensò tra sé e sé Alessandra.
 
«Interessante», si limitò a dire, «Accetto il caso, ma devo avvertirla che io lavoro da sola.»
«Ma come! Io pensavo che…»
«Guardi non è nulla di personale, è il mio modo di procedere nell’investigazione.»
Il sovraintende chiuse la sua delusione in un silenzio bambinesco.
«Avrei bisogno però di tutte le foto scattate sulla scena del crimine e delle trascrizioni degli interrogatori svolti nella giornata di ieri.»
«Ma certo! Glieli vado a prendere subito!», disse il poliziotto tornando ad un tratto euforico. 

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Capitolo 6
*** VI ***


Passarono alcune ore e quelle foto non le dicevano ancora niente; si sentì come se qualcuno le avesse chiesto il significato di tutte le parole che non aveva mai sentito pronunciare. Decise allora di recarsi sul luogo del delitto, deserto dal giorno prima. Spostò accuratamente i sigilli e attraversò la hall stando bene attenta a non alterare nulla. Entrata nell’ufficio di Pietro, si guardò intorno: c’era qualche targhetta affissa qua e là alle pareti; delle foto dell’editore con qualche collaboratore della casa editrice o scrittore per quello che ne poteva sapere lei; e un calendario fermo al mese di Ottobre. Era uno di quelli che comprano i turisti, strano che ce l’avesse appeso nello studio un fiorentino; ad ogni mese vi era l’illustrazione di un monumento della città, Ottobre esibiva la bellissima Cattedrale di Santa Maria del Fiore. Andò ad osservarlo da vicino, sfogliandolo si rese conto che non c’era una sola data evidenziata, né un appunto, forse l’editore ricordava tutti i compleanni e gli impegni da sé, lei però dedusse altro: per quell’uomo nulla era degno di essere ricordato. Nemmeno la curiosità di scoprire quale fosse l’immagine successiva! Rimproverò al morto, riattaccando il calendario alla parete.

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Capitolo 7
*** VII ***


Camminando su quel vecchio ponte, Elena cadette nella tentazione di tener d’occhio i propri passi per paura di inciampare in qualcosa di diverso dalla sua amarezza; notò una serie di lucchetti attaccati ad un asse ferrata del ponte. Che cosa romantica, pensò, prendere il proprio voto d’amore e chiuderlo insieme a quello di qualcun altro. Ma che c’era andata a fare lì, dal momento che l’acqua che passa sotto ai ponti è la stessa dovunque. Avrebbe dovuto rinunciarci, ma tanto valeva buttarsi giù da quel ponte se doveva scordarsela la sua felicità. Bisognava vivere, bisognava scrivere e bisognava morire. Bisognava non affezionarsi troppo, non esagerare troppo, non pensarci troppo. Bisognava guardare avanti e mai indietro, un solo tuffo nel passato per annegarci dentro. Ma chi le aveva inventate queste regole? Uno che non aveva mai scritto niente, qualcuno a cui non era mai morto un professore, e l’editore! Forse si portava sfortuna da sola, “la maledizione della ragazza dagli occhi di sangue”, l’avrebbe chiamata qualcuno.
D’improvviso, una voce, in lontananza, le tornò a canticchiare note di felicità possibili. Non la sentiva da giorni, non sapeva come evitare di dirglielo non volendoglielo dire, per questo smise di parlarle. E adesso lo stesso amato passo le stava venendo incontro in una città diversa:
«Che diavolo ci fai qui?»
Alessandra quasi l’accusò dell’omicidio su cui stava indagando, non avendo avuto il tempo di formulare nessun altro pensiero.
«Che cosa ci fai tu qui?», puntualizzò Elena.
«Lavoro», rispose seccamente la detective, se Elena se la era immaginata delusa dal suo silenzio, lungo un incerto numero di giorni, di certo non aveva immaginato fosse così incazzata.
«E’ morto qualcuno?»
 
Entrambe, sospirando, fissarono l’Arno, piuttosto che guardarsi dentro. La stessa immobile acqua avvolge tutto il mondo, che è pieno di persone che si trovano e si allontanano. La stessa sporca acqua che ci portiamo dentro affogandovi le nostre colpe. La stessa stupida acqua che attraversa l’Italia intera e non riesce ad avvicinare due persone distanti pochi centimetri. Risciacquarsi la bocca nell’Arno, rimangiandosi tutto quello che si è detto a propria insaputa.
 
«Hai avuto da fare?», chiese Alessandra fissando l’altra di traverso.
«Mi avevano proposto un contratto editoriale.»
«Davvero?», esclamò e la sorpresa le fece cercare il volto dell’amica.
«E’ morto...»
Alessandra scoppiò a ridere.
«Ma chi, Pietro Dinasti?», aggiunse.
Elena fece cenno di sì, trattenendo l’amara risata che aveva sulle labbra.
«Piantala di ridere!», le urlò contro.
«Lo so, lo so, scusa. Non è per il morto, è per te!»
Dopo qualche secondo, tornò in sé, intimorita dalle guardatacce di Elena.
«Certo che porti proprio sfiga eh!»
«Vaffanculo Ale.»
Alessandra afferrò per un braccio la maleducazione dell’altra che stava andando via con lei.
«Volevo dire che sei sfortunata.»
«Lo so. Ho prenotato l’albergo per tre giorni, sto cercando di godermi il viaggio.»
«Ci credo», ironizzò una volta di troppo la Detective.
«Adesso, se non ti dispiace, mi aspetta la Casa di Dante.»
«Oh, certo va pure! Cosa ti trattiene qui? È solo un omicidio, niente di serio.»
E ottenne un’altra occhiataccia per arrivederci.
Forse si era innamorata di una serial killer e il suo cuore le impediva di vederlo.

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Capitolo 8
*** VIII ***


C’era una volta, e adesso non c’è più, un’amicizia forte come il sole a metà agosto. Sciolta dal suo stesso calore, lasciata essiccare da qualche parte, mentre si era occupati a farsi del male. Manuel, a distanza di anni, ancora non riusciva a capacitarsi della velocità con cui l’aveva lasciato andare, come se lo avesse avuto già tra le mani pronto a gettarlo. A quella velocità pensò per tutto il viaggio in treno verso Firenze. Firenze, non l’aveva mai vista. Chissà se era così bella come dicevano.
Il tempo non passa più quando cerchi una risposta che non trovi o quando fingi di essertela data.
Minuti bloccati in un’ora, un ora bloccato nel presente, un presente bloccato in uno schema. Quante parole buttate via, quanto fiato sprecato, quante ore vuote. Vuoto è l’aggettivo che più s’accorda al tempo: le ore, i minuti, i secondi sono vuoti, sta a noi riempirli in qualche modo. E lui il suo tempo continuava a svuotarlo di senso con sterili elucubrazioni su qualcuno che non c’era più. Aveva voluto rimediare, ma non ci era riuscito; adesso aspettava impazientemente che la vita lo mettesse di nuovo alla prova per dimostrare a se stesso di essere in grado di non sbagliare più.

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Capitolo 9
*** IX ***


La sua infelicità, Chiara, pur di dirsi felice, se la era sempre fatta andare bene. Ma da un paio di giorni non riusciva a fare altro che piangere, piangere tutte le lacrime trattenute in diciotto anni di matrimonio, quelle lacrime che, lui, col suo sorriso e con le sue parole riusciva a ricacciarle dentro.
“E’ solo un mutuo, che sarà mai! L’importante è la salute!”; “E’ solo una slogatura, mica sono morto!”. E adesso era morto e lei, che non ci voleva credere, annegava quel pensiero nelle lacrime per farlo scivolare via con la pioggia e con il freddo di quell’irreale pomeriggio di dicembre. I suoi due figli, Mario e Lucia, sedevano accanto a lei fissando il vuoto, cercando in quello una buona ragione per farsi forza, e non trovandola alimentavano con le loro lacrime il mare in cui andava sprofondando la madre.
Alessandra odiava quella parte del suo lavoro, per questo mandava sempre Manuel ad interrogare i familiari delle vittime, ma poiché il suo partner non c’era e le trascrizioni degli interrogatori non le avevano rivelato alcunché, non poté esimersi dal  guardare in faccia il dolore per raschiarne dal fondo un po’ di verità.
La vedova Dinasti ci mise un po’ a trovare la lucidità necessaria ad andare ad aprirle la porta di casa e per tutta la durata della conversazione né lei né i figli furono in grado di dirle qualcosa di utile.
«Vi prego, lo so che è difficile», andava sollecitandoli l’investigatrice,  «Ma dovete cercare di ricordare se qualcuno ce l’aveva con lui. Un particolare, un piccolo diverbio, una lettera gettava senza leggerla, una chiamata velocemente riagganciata!»
A quelle parole, Mario alzò il suo lungo ciuffo biondo verso la Detective, mostrandole gli occhi arsi dalle lacrime che non smettevano di scendere da troppo ore.
«Aveva un nemico», disse il ragazzino, e la madre e la sorella lo guardarono stordite come se stessero ascoltando quella cosa per la prima volta, «Antonio da Tempo», fece con fare accusatorio, «Erano amici, poi lui e papà…», e scoppiò di nuovo a piangere.
«Sì», confermò Lucia, «Ha una casa editrice anche lui, erano concorrenti.»
«Ha mai ricevuto minacce da lui?», tentò di sincerarsi Alessandra.
I due ragazzi scossero la testa.
«Litigavano ogni tanto», disse la maggiore soffocando  quelle parole nelle lacrime.
 
Chiara Dinasti non aveva aperto bocca; cosa avrebbe potuto dire all’Investigatrice dal momento che quello che provava per Pietro non entrava dentro alle parole? Sarebbe servito a qualcosa dirle che si era riconosciuta per la prima volta guardandosi negli occhi di lui? Che lo amava di un amore troppo grande per essere contenuto in due parole? Che aveva davanti agli occhi ancora il suo sorriso e che la consapevolezza che tutto quell’Amore che le scoppiava dentro e le cadeva dagli occhi non avrebbe più potuto essere raccolto da lui, la stava uccidendo per la seconda volta?
 
Dopo qualche convenevole Alessandra alzò i tacchi e voltò le spalle a quella casa che galleggiava sul pianto di quei tre poveri cuori spezzati. Spronata da quel dolore a cercare, ora come non mai, l’assassino, si diresse di nuovo verso la stazione della polizia locale per cercare notizie su quel Da Tempo.
«Ale! Ale!», sentì una voce chiamarla in strada.
Si girò verso quella e incontrò la faccia insciarpata di Manuel che affannando imprecava contro di lei.
«Ma che ci fai qui?», gli chiese.
«Come che ci faccio? Non hai saputo? Abbiamo un nuovo caso!»
«Io ho un nuovo caso.», puntualizzò.
«Hanno chiamato anche me, e ho preso il primo treno. Allora che ha scoperto fino ad ora?»

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Capitolo 10
*** X ***


Al liceo, per la gita dell’ultimo anno, la portarono a Verona. Certo, l’Arena le piacque, anche il Teatro Romano non fu male, ma ciò che non riuscì a togliersi dalla mente per un bel po’ fu la vista di quel letto. La chiamano casa di Giulietta, ma Giulietta per di lì non ci è nemmeno mai passata; chissà se sia mai esistita. Le mura imbrattate dalla proteiforme calligrafia di Amore, il balcone, il mezzo busto di Shakespeare. E quadri e dipinti a ricordarle quella tragedia e poi quel letto: il letto di Romeo e Giulietta, non ancora rifatto per la fretta di vederlo volar fuori dalla finestra e correre a farsi ammazzare. E accanto al letto, i loro vestiti. Elena credeva che non le sarebbe più piaciuta così tanto nessun’altra stanza; poi quel dodici dicembre si ritrovò in quella di un certo Dante, e nonostante fosse ancora più inverosimile che il poeta avesse posato soltanto un dito su quel letto, e che quelli che aveva davanti fossero davvero i suoi vestiti e quelli di Beatrice, se ne stava lo stesso lì, incantata ad osservarlo, pensando a quanto sarebbe stato bello - ed opportuno - portarsi su quel letto chi voleva lei.

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Capitolo 11
*** XI ***


Ercole Grassi aveva fornito in fretta e furia ai due Detective l’indirizzo di casa e dell’ufficio dell’editore Antonio da Tempo, e questi, ancora più velocemente, si precipitarono a parlargli. «Ma state scherzando?», l’uomo rispondeva alle domande dei due come se dovesse difendersi da una pesante accusa, «Non l’avrei mai toccato quello!» Ad Alessandra sarebbe piaciuto che si trattasse davvero di uno scherzo, che tutti quei morti visti in quei pochi anni di servizio, prima o poi, si sarebbero rialzati da terra gridando un euforico: “Sorpresa, ve l’abbiamo fatta!”. Ma purtroppo quella faccenda chiamata morte richiedeva il massimo grado di serietà. «Si attenga a rispondere alle domande o la sbatto dentro per ostruzione alla giustizia!», urlò sopra alle urla dell’uomo. «Non l’ho ammazzato io!», ribadì per la seconda volta l’editore. «Non le abbiamo chiesto questo», fece Manuel, «Vogliamo semplicemente sapere quali erano i suoi rapporti con il signor Dinasti.» «Era un bastardo!» «Cristo!», urlò Alessandra, «Si può sapere da quando vi conoscevate?» Quella detective era nata con l’unico scopo di dargli fastidio. «Da sempre», rispose l’uomo, con il sangue che andava raffreddandosi, «Da quando avevamo vent’anni, poi abbiamo… insomma, abbiamo smesso di parlarci. E sì, litigavamo e ho maledetto il giorno, il mese e l’anno della sua nascita, ma non l’ho ammazzato io!» «Dove si trovava ieri mattina tra le sette e le nove?» «Qui, arrivo alle otto e apro la bottega.» Manuel si segnò tutto sulla sua agenda, «Dovremmo verificarlo», aggiunse, «si renda reperibile per ulteriori domande.» Antonio da Tempo annuì, ricambiò il freddo saluto dei due ed andò a chiudere il suo ufficio. Come se la sfortuna non si fosse già abbastanza accanita contro di lui quel giorno, appena varcò la soglia della porta per tornarsene a casa, iniziò a piovere. Odiava la pioggia: in ogni pozzanghera d’acqua sporca vedeva riflessa la sua coscienza. Decise di rientrare nella bottega, si posizionò davanti ad una finestra ad aspettare che quell’odiosa acqua smettesse di scendere. Tutta la vita a scontare sempre lo stesso errore. Non si vedeva nulla da quella finestra. Lui che guardava sempre fuori e mai dentro, da una finestra, da un’emozione, lui che trovava maggior interesse in altro e non in sé, lui che concentrandosi su tutto, si distraeva per niente, non riusciva a vedere più nulla. Se qualcuno glielo avesse chiesto, gli sarebbe piaciuto dire che la sua passione per la lettura fosse stata una scelta in presenza di altro; invece, quando c’era qualcos’altro leggeva a malapena, giusto qualche frasetta per non impazzire. Quando perse tutti, anche se stesso, non gli restò altro modo per riempire le sue ore. Finì per prendere in odio la sua unica occupazione; si stancò di leggere la sua solitudine in ogni singola pagina dei libri che consumava.

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Capitolo 12
*** XII ***


Il sordo rumore di un addio misto a quello indifferente della pioggia, le mise addosso una fredda amarezza. Quanto freddo avrebbe dovuto ancora sopportare prima di chiudersi nel calore di un’illusione? Il vento giocava con il suo ombrello, scoprendole ora il lato destro, ora quello sinistro; aveva il jeans e le scarpe zuppe d’acqua e la testa in fiamme. Nonostante le intemperie del suo cuore e del tempo, non rinunciò a fare un salto nella chiesa dove fu sepolta la Portinari, proprio dietro all’angolo. Tornata a Santa Croce per mettersi sulla strada di ritorno verso il suo Bed&Breakfast, notò, in mezzo a quelli che cercavano sott’ai davanzali riparo dall’acquazzone le facce di due detective inzuppate d’acqua tanto quanto di dubbi.
«Hai chiamato la cavalleria?», urlò Elena per sovrastare il rumore della pioggia.
«Io non ho chiamato proprio nessuno.», urlò ancora più forte l’orgoglio di Alessandra.
Elena chiuse quell’inutile ombrello e prese velocemente posto in mezzo a loro.
Manuel cercava di nascondere il suo disagio lasciando cadere con disinvoltura le braccia lungo i fianchi; Alessandra, invece, non si mosse di un centimetro, ne avrebbe potuto farlo; iniziò a sperare freneticamente che quell’acquazzone passasse in fretta perché non riusciva a sopportare quell’improvviso calore che le stava bruciando il cuore. Erano le cinque del pomeriggio e quel buio pesto precludeva loro uno spiraglio di luce per vederci chiaro su quella faccenda: gli avari lampi illuminavano il cielo e non le loro idee. Indispettiti da tutte quelle cose che non riuscivano a dire, avidi di tutte quelle cose che non conoscevano, ognuno restò da solo con i pensieri che non voleva sentire.

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Capitolo 13
*** XIII ***


Un freddo cane che t’abbaiava dentro, mordendoti i pensieri; che ti graffiava il cuore con i suoi artigli e ti scopriva i nervi, cercandosi furiosamente la coda; mentre t’annusava il fondo della testa per cercare di fotterti in qualche modo. A vederlo solo Amore non basta: bisogna toccarlo, spogliarlo e stringerlo per non farlo andar via. Quel mezzo uomo che non sapeva più che dirsi, si stava stancando a furia di immaginazione, si stava uccidendo a colpi di illusioni. Quel rimorso gli si stava ghiacciando dentro, e gli scappò come era sempre scappato da qualsiasi possibilità di dolore.
Ma non aveva avuto il tempo di fare altro. Quel tempo sottratto al tempo di chi non ha mai il tempo, ma ha abbastanza tempo per pensare al tempo che ha perso pensando al tempo che gli mancava quando non aveva il tempo di trovare un po’ di tempo per te. Il tempo che passava ce lo aveva scritto con la sabbia di una clessidra nel nome, e se lo portava addosso in quel delirio allucinatorio da cui non riusciva ad uscire che era la sua vita. Gli si congelò la fronte, sarebbe bastato il calore di quel bacio a rimettere, sciogliendolo, ogni pezzo al proprio posto. Ma non era tempo, e aveva quel cane che gli ruggiva in testa come scusa per perdere tempo quel giorno.
Quando non sapeva cosa fare iniziava ad accusarsi di tutte le cose che non aveva fatto, di tutte le colpe che non si era preso e sentiva in bocca quel veleno che la madre gli sputò dritto in gola appena nato.
Chiuse gli occhi, ripensò a quell’adrenalina che gli scaldava il corpo in quei giorni che adesso sembravano così lontani; al sudore che gli disegnava la fronte a furia di scendere e salire da quel furgone; all’eccitazione di contare, ad uno ad uno, tutti quei gioielli, immaginando, per ognuno di essi, un volto di donna diverso su cui appenderli. La pioggia gli gelava le ossa, il vento gli confondeva la testa. Riaprì gli occhi per allontanarsi dalla finestra; accese la lampada del suo scrittoio e prese dallo scaffale alle sue spalle il primo libro che la sua mano, ferma, trovò; “L’isola della paura”, un thriller che ben s’adattava a quella lugubre atmosfera: “Mi disse che per me il tempo non è altro che una serie di segnalibri infilati nel libro della mia vita e ogni tanto sfoglio le pagine e torno a ripensare a quegli eventi che mi hanno marcato […] Tipico comportamento da depresso.” Ancora una volta, uno sconosciuto, questa volta un americano, giusto per sprecare un po’ d’inchiostro, aveva scritto qualcosa di estremamente vero per lui senza saperlo. Come pazzi che intonano ninne-nanne ai mostri che hanno in testa, trovò una strana calma in quelle parole, sentì di essere ritornato in sé, come chi si specchia nei pensieri di un altro e li trova identici ai suoi. D’improvviso, prese dall’ansia, le parole del libro si misero a rimuginare dinanzi a quella luce fioca, girate e rigirate da quelle mani già troppo fredde. E riflettevano con ossessione la psiche malata del lettore, e non aveva più importanza se a parlare fosse Chuck o Teddy: l’unico nome che vi leggeva dentro era il suo, un nome che odiava con tutto se stesso.
Immerso in quel disprezzo non s’accorse di quei due guanti di lattice che, più freddi del cuore di chi li indossava, gli afferrarono la gola, premendo senza sosta. Iniziò a dimenarsi, facendo forza sulle gambe per tentare di spingere quell’ombra contro lo scaffale alle loro spalle, ma quella sembrava avere la forza e la determinazione di cento uomini.
L’istinto di sopravvivenza cedette il passo alla più vana delle speculazioni retoriche, pensò, mentre moriva strangolato, a chi avesse fatto un torto tale da volerlo morto, e simultaneamente gli apparve quel volto che era solito vedere nei suoi peggiori incubi, e che adesso, pur avendolo alle spalle, vedeva come il volto della morte. Si arrese. Forse morì prima di paura che di asfissia. La città, illuminata dalle luci ad intermittenza dei balconi, come da tante lucciole, si sarebbe presto dimenticata di lui. E Antonio da Tempo non avrebbe mai scoperto che fine avesse fatto quell’assassina della Solando.

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Capitolo 14
*** XIV ***


In trappola, senza via d’uscita, nel tuo giorno periodicamente sfortunato di cui non ricordi nemmeno la data, forse è un tredici, forse un diciotto. Si impazzisce focalizzandosi su una fonte di rumore, e i rumori la irritavano così tanto; ne isolò tre tipi provenienti da tre fonti diverse: il primo dalla pioggia che con il suo continuo ticchettare sul grigio asfalto le metteva addosso tutta l’ansia provata in una vita intera; il secondo proveniva dalla strada, anime in fracasso, motori in panne e impazienti richiami creavano un rumore così insopportabile che per poco si convinse che sarebbe stato meglio nascere sorda; il terzo rumore che sentiva veniva da dentro di lei, questo, che mescolandosi ai primi due, li copriva interamente, si dipartiva in una serie di voci distinte che le ricordavano, sovrapponendosi, in uno stesso momento, ciò che sentiva e ciò che non poteva sentire, ciò che voleva e ciò che non doveva fare. Un quarto rumore si propagò con violenza dalla tasca dei suoi pantaloni stretti nella cupa aria circostante, coprendo quelle voci che non riusciva più a sopportare. Alessandra rispose e la sua faccia divenne più scura di quel cielo che la stava tenendo in ostaggio sotto ad un davanzale da circa un’ora.
«Manu», urlò, sporgendosi lievemente verso sinistra, «dobbiamo andare!»
«Dove?», chiese Elena.
«Non posso dirtelo adesso. Resta qua!», le ordinò.
Elena le afferrò un braccio additandole il suo ombrello mezzo rotto; Alessandra scosse la testa e si precipitò sotto la pioggia trascinandosi dietro Manuel, il quale, pensando di aver patito tutto il patibile durante i mesi di addestramento, si meravigliò di come fosse pesante quella pioggia a Firenze, come se, invece dell’acqua, dentro vi piovesse il sangue.
 
«Colonello Grassi, che diavolo succede?», esordì Alessandra oltrepassando la soglia su cui aveva interrogato Antonio da Tempo pochi giri d’orologio prima.
«Detective!», esclamò cordialmente quello e guardando di sott’occhio Manuel pretese che il giovane gli fosse presentato a dovere. Alessandra recitò la sua parte, poi avanzò di qualche passo e capì da sola il motivo per il quale l’ispettore l’avesse chiamata: l’editore Antonio da Tempo giaceva al suolo con un cappio sciolto gettato sulla vita, dietro di lui alcuni libri erano sparsi per terra.
«Esattamente la stessa scena del crimine di ieri», fece Manuel.
«Non esattamente», aggiunse Alessandra, «Non ha avuto il tempo di inscenare il suicidio questa volta.», poi si girò di scatto verso Grassi, «Ma lei cosa ci faceva qui?»
«Io…», balbettò l’ufficiale, «Beh, ecco, ero venuto a controllare come procedevano le indagini.»
«Cosa?»
«Lei mi ha chiesto l’indirizzo di da Tempo e poiché mi ha precluso la possibilità di lavorare con lei…»
«Ha pensato bene di indagare da solo!», aggiunse Manuel.
«Sì, ho bussato ripetutamente alla porta…»
«Mi scusi», fece Alessandra, «A che ora è arrivato qui precisamente?»
«Mah, credo una quarantina di minuti fa.»
«Ipotizzando che quello che dica l’ispettore sia vero», disse a Manuel, «Abbiamo impiegato circa quindici minuti per arrivare qui no? E se quando è arrivato lui, Da Tempo era già morto, vuol dire che è stato ammazzato appena ce ne siamo andati.»
Manuel annuì.
«Mentre il primo lo ha ammazzato di mattina, non ha alcun senso. Senta…», si rivolse di nuovo al sergente, «Chiami i suoi uomini, magari ha messo fretta all’assassino facendogli tralasciare qualcosa, bisogna analizzare tutto, un capello, un’impronta e lo becchiamo.»
«Ma se non ha finito neanche di sentire la mia storia!»
«Mi lasci indovinare, quando ha capito che nessuno gli avrebbe aperto, ha sfondato la porta.»
«Sì.»
«E ha trovato Da Tempo a terra.»
«Sì, ma…»
«Ma?»
«Potrei essere io l’assassino!»
Manuel strabuzzò gli occhi.
«Si spieghi meglio», gli disse.
«Ma non guardate nessun telefilm?»
«Ci risiamo lei e questi telefilm! Lo vuole capire che la vita non è uno show! Lei non può avere ammazzato quest’uomo, siamo seri! Chiami la scientifica per favore, dobbiamo studiare questo posto da cima a fondo!»
Ercole Grassi, mesto mesto, ubbidì agli ordini.
 
Alessandra nel frattempo servendosi della luce del suo telefono iniziò ad esaminare meglio la stanza: era abbastanza grande, aveva un camino spento al centro e uno scrittoio sul fondo; anche qui alle spalle dello scrittoio vi era un grosso scaffale pieno di libri.
La Detective attraversò tutta quella parete con gli occhi, poi passò ad osservare lo scrittoio e un particolare la fece rabbrividire: su questo vi era un piccolo calendario pieghevole, fermo al mese di ottobre. Quel mese ritornava come un peso. Possibile che quella che pensava fosse una sciatteria di Pietro Dinasti si rivelasse essere un comun denominatore tra i due omicidi? Procedé con calma, necessitava di un terzo indizio per avere una prova concreta.

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Capitolo 15
*** XV ***


C’era poco da dire, anzi un bel niente; in realtà, era certa che non fosse neanche così bello quel niente. Avrebbe dovuto smetterla di rattristarsi per tutte quelle cose che avrebbero potuto potenzialmente renderla triste. Questa promessa se la era fatta almeno un milione di volte. E aveva incolpato tutto ciò a cui potesse addossare una colpa per il fatto che la sua vita stesse diventando dalla regola l’eccezione. Odiava tutti e adesso che non c’era più nessuno solo se stessa. Le parole uscivano dalla sua penna una dopo l’altra come un fiume in piena; e prima che le straripassero dalla testa due tocchi alla porta della sua camera pose loro fortuitamente saldi argini.
 
«Come mi hai trovata?»
«Sono un’investigatrice.»
 
Elena la fece accomodare.
Alessandra si voltò ed iniziò a parlare prima ancora che quella potesse richiudere la porta.
«Devi aiutarmi con una pista.», disse tutto d’un fiato.
«Dimmi pure», rispose Elena un poco sconcertata.
«Ho trovato una serie di libri vicino al corpo sia della prima che della seconda vittima. All’inizio credevo che si trattasse di una coincidenza, che fossero caduti casualmente a causa della colluttazione con l’assassino, ma poi ho capito che c’è uno
schema!»
«Spiegati meglio...»
Alessandra le mostrò le foto della prima scena del crimine fornitele da Grassi.
«Guarda: quindici libri, li ho fatti analizzare tutti, non c’è nulla dentro, neanche una pagina strappata a significare qualcosa.»
«Quale sarebbe lo schema allora?»
«C’erano dei libri anche vicino a Da Tempo, dodici. Quattro dei quali erano della stessa collana: “Classici Bruzzi stampati nel giugno 2006”»
«E allora?»
«Guarda qui! Quattro dei quindici libri del primo omicidio sono di una stessa collana!»
Elena li individuò velocemente per la copertina rigida blu.
«Orgoglio e pregiudizio, Cime Tempestose, Madame Bovary, Il richiamo della foresta, li ho letti tutti.», disse.
«Bene! Allora non ci resta che rileggerli!»
Elena fu sorpresa da tanto entusiasmo.
«Se vuoi aiutarmi a risolvere questo caso, intendo dire…»
«E’ che non vedo come quattro libri di una stessa collana sparsi in mezzo ad altri possano essere un indizio, magari sono caduti insieme perché erano messi su una stessa mensola!»
«E’ l’unica pista che ho.», confessò Alessandra.
«Va bene allora», disse Elena, «Iniziamo subito.»

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Capitolo 16
*** XVI ***


Steso di schiena sul suo letto si accarezzava voluttuosamente i capelli. Le dita indugiavano sulla fronte che gli batteva come un tamburo in un rito satanico. Quel freddo era una sciagura per la sua sinusite. Ne aveva già ammazzati due, i due che erano tornati nella loro bella Fiorenza dopo l’ultimo colpo; e adesso gliene mancavano altri tre: il napoletano, il romano e il milanese. Protagonisti di una barzelletta che non avrebbe fatto ridere più nessuno. Ne aveva ammazzati già due, ma ammazzarli non era stato abbastanza: doveva prendersi tutto ciò che avevano, tutto ciò che sarebbe dovuto spettare a lui. La testa gli batteva e quei battiti gli imprimevano negli occhi quella scena in cui sentì uscir il cuore dal petto quando li vide passare davanti a lui, steso lì a terra a dissanguare, e lo sentì rompersi man mano che si allontanavano non degnandolo nemmeno di uno sguardo. Gli doleva in ogni parte del cuscino in cui la poggiava. Non riusciva a capire: usavano sempre tre o quattro libri in serie e gli unici che aveva trovato su quei dannati scaffali non gli avevano detto niente. Forse quei maledetti avevano cambiato sistema. Trovava ironico che fossero diventati due editori, perfino Pietro che odiava il lavoro del padre, sempre curvo su quei maledetti libri.
Ti chiamano “fratello” poi ti lasciano per terra all’ingresso di una banca con un proiettile conficcato nella gamba. Dieci anni dietro le sbarre a meditare quella vendetta, ne avrebbe potuto scontare di meno se avesse fatto i loro nomi, ma lui voleva ammazzarli con le sue mani ad uno ad uno, togliendogli l’aria dai polmoni come quel dannato colpo che aveva preso a causa loro l’aveva tolta a lui. Quel male a quella maledetta testa, fonte di ogni suo guaio, lo avviliva. Conficcò gli occhi nel cuscino per cercare sollievo e trovò soltanto di nuovo la stessa scena: Pietro, Antonio, Giovanni, Gennaro, lui e Jacopo al volante; nomi degni d’apostoli, a svuotare in pochi secondi banche, gioiellerie per poi svignarsela ancora più velocemente sul loro furgone blindato offerto da quell’amicone di Armando.

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Capitolo 17
*** XVII ***


Steso di schiena sul suo letto si accarezzava voluttuosamente i capelli. Le dita indugiavano sulla fronte che gli batteva come un tamburo in un rito satanico. Quel freddo era una sciagura per la sua sinusite. Ne aveva già ammazzati due, i due che erano tornati nella loro bella Fiorenza dopo l’ultimo colpo; e adesso gliene mancavano altri tre: il napoletano, il romano e il milanese. Protagonisti di una barzelletta che non avrebbe fatto ridere più nessuno. Ne aveva ammazzati già due, ma ammazzarli non era stato abbastanza: doveva prendersi tutto ciò che avevano, tutto ciò che sarebbe dovuto spettare a lui. La testa gli batteva e quei battiti gli imprimevano negli occhi quella scena in cui sentì uscir il cuore dal petto quando li vide passare davanti a lui, steso lì a terra a dissanguare, e lo sentì rompersi man mano che si allontanavano non degnandolo nemmeno di uno sguardo. Gli doleva in ogni parte del cuscino in cui la poggiava. Non riusciva a capire: usavano sempre tre o quattro libri in serie e gli unici che aveva trovato su quei dannati scaffali non gli avevano detto niente. Forse quei maledetti avevano cambiato sistema. Trovava ironico che fossero diventati due editori, perfino Pietro che odiava il lavoro del padre, sempre curvo su quei maledetti libri.
Ti chiamano “fratello” poi ti lasciano per terra all’ingresso di una banca con un proiettile conficcato nella gamba. Dieci anni dietro le sbarre a meditare quella vendetta, ne avrebbe potuto scontare di meno se avesse fatto i loro nomi, ma lui voleva ammazzarli con le sue mani ad uno ad uno, togliendogli l’aria dai polmoni come quel dannato colpo che aveva preso a causa loro l’aveva tolta a lui. Quel male a quella maledetta testa, fonte di ogni suo guaio, lo avviliva. Conficcò gli occhi nel cuscino per cercare sollievo e trovò soltanto di nuovo la stessa scena: Pietro, Antonio, Giovanni, Gennaro, lui e Jacopo al volante; nomi degni d’apostoli, a svuotare in pochi secondi banche, gioiellerie per poi svignarsela ancora più velocemente sul loro furgone blindato offerto da quell’amicone di Armando.

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Capitolo 18
*** XVIII ***


Levò la borsa dalla sedia posta vicino al letto e la accostò all’unico tavolo della camera; girò il computer, già acceso, e lo mise di fronte ad Alessandra.
«Bene», disse la Detective, «Cime tempestose», e digitò quel titolo nel motore di ricerca.
«Heathcliff innamorato perdutamente della sua Catherine», le rispose Elena più velocemente di Google.
«Lo so.»
«Ah, l’hai letto?»
«Mi credi un’illetterata?»
L’espressione di Elena la prese in giro.
«Solo perché sono una donna d’azione?»
«Donna d’azione?», ripeté la rossa.
Alessandra controbatté a quell’insolenza con una smorfia.
Elena la osservò tornare con gli occhi allo schermo: poteva anche definirsi una donna d’azione, ma per lei era un altro tipo di donna: quello per cui si scrivono romanzi.
«Cime tempestose, Orgoglio e Pregiudizio, Madame Bovary, Il richiamo della foresta», ricapitolò Elena, «Non hanno nulla in comune.»
«Ci deve essere qualcosa.», tentò Alessandra.
«Inglese, inglese, francese e americano. Tre sono Realisti.»
«Che?»
«Realisti, del primo ottocento.»
«La datazione dici? Forse ci può dire qualcosa.»
 
Le date, il tempo e tutto ciò a cui avrebbero dovuto prestare attenzione.
 
«Cime tempestose 1847», iniziò ad elencare Alessandra,  «Orgoglio e Pregiudizio 1813, Madame Bovary 1856, Il richiamo della foresta 1903. Che c’entra quest’ultimo?»
«E’ anche l’unico a non avere una storia d’amore al centro della trama. Almeno che non si consideri quella tra il cane e l’ultimo padrone.»
«Se solo ci fosse una riga sottolineata, una pagina segnata! Io lo so che questi libri sono la chiave!»
 
Tutto quel rimuginare sulle parole, tutto quel parlare di chiavi inesistenti invece di forzare la serratura o buttare giù la porta la irritavano da morire. Elena se ne accorse.
«Abbiamo bisogno di un caffè», le disse.
Alessandra continuò a cercare, digitò il nome della collana su internet, scoprì che uscirono altri quattro romanzi a completare quella collana, eppure lei aveva controllato tutti gli scaffali e non aveva trovato nulla.
Elena preparando il caffè, rilesse quei libri nella propria mente, scoprendo in tutte quelle pagine nient’altro che la sua ansia. Tuttavia trovò, come suo solito, qualche frase scritta per lei, e ne citò una ad Alessandra porgendole il caffè:
«Moriva dal desiderio di ascoltare il nome della moglie, poiché non poteva ascoltarne la voce.»
Alessandra la guardò, la voce di Elena la metteva di buon umore.
«Di chi è?», chiese decidendo di prendersi una pausa.
«Il signor Linton. Meno male che l’avevi letto Cime Tempestose!»
«Non posso mica ricordarmi le frasi dei libri che leggo!»
«Che li leggi a fare allora?»
«Citami una frase di ognuno di questi libri a memoria allora.», la sfidò.
«Era più vecchio dei giorni che aveva vissuto e dei respiri che aveva respirato.»
Alessandra rimase in attesa, ma la frase era finita.
«Il richiamo della foresta.»
La Detective controllò se la frase fosse corretta.
«Va bene, Madame Bovary allora.»
«Impossibile: dovrei citarti ogni rigo.»
Alessandra non le toglieva gli occhi da dosso.
«L’universo per lui non oltrepassava il giro di seta della sua sottana. Contenta?»
«No, mi hai delusa!», scherzo con lei, «La più bella è quella sugli orsi e sulle stelle.»
«Andiamo battendo melodie da far ballare gli orsi mentre vorremmo intenerire le stelle?»
«Esattamente!», e rise, «Orgoglio e Pregiudizio?»
«Non mi viene in mente nulla.»
«Ah-Ah! Ti ho smascherata!»
«E’ strano, è stato per anni il mio libro preferito.»
«E meno male!»
«Lo sai che accadono solo tre cose in Orgolio e Pregiudizio? Si incontrano, si odiano e si sposano. Il novantasette per cento del libro è composto da quelli che la critica letteraria chiama “Riempitivi romanzeschi”. Io non li ho mai sopportati. Forse per questo il mio romanzo è così breve.», si sforzò di sorridere.
«Quand’è che me lo fai leggere?»
Elena non rispose.
«Così si sentiva umiliata e afflitta e piena di rimorsi…», iniziò all’improvviso corazzandosi con parole altrui per non far capire il significato delle proprie ad Alessandra, «Cominciava a desiderare la stima di lui, ora che non ci poteva più sperare…», e la guardò diritta negli occhi, «Ebbe la certezza che con lui sarebbe stata felice, ora che non era più probabile che si incontrassero.»
«Te la sei ricordata?», le chiese la Detective vistosamente a disagio.
«No, è un altro libro.»
«Tutti i libri sono uguali!»
Elena la guardò incuriosita.
«Sì, anche io ricordo qualche frase a memoria, sai.»
«E quale sarebbe?»
«Che differenza faceva un libro piuttosto che un altro? [...] Dal momento che lo scopo finale della lettura era sempre quello: immedesimarsi in una storia fittizia, calare una persona reale nelle vesti di un personaggio inventato, estrarre dal testo frasi e osservazioni dal significato ambiguo, farne un feticcio ed eccitarsi trasponendo il tutto in un altro contesto?»
«Hai appena citato il mio libro preferito», dissero le labbra di Elena mosse dalla sorpresa.
Alessandra la guardò sorridere e comprese che quella ragazza era diventata l’unica cosa che volesse avere tra le mani per il resto della sua vita.

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Capitolo 19
*** XIX ***


Un giro di pensieri sempre uguale a se stesso le scorreva dentro alle vene; numeri che si sforzavano di raggiungere altri numeri per chiedere loro cosa significassero le giravano in testa. L’ossessione che, ripetendosi le sue buone ragioni si convince di se stessa.
La fretta il brutto vizio che l’aveva spinta per tutta la vita. Non capiva perché aspettare che uscisse il sole in cielo e risolvesse magicamente i suoi dubbi sciogliendoli. Non capiva perché non riuscisse a concentrarsi con Elena seduta di fianco a lei: l’aveva odiata per una settimana intera, non per un giorno o due, ma ben 7 giorni, per tutto il tempo che ci è voluto a creare il mondo. Poi l’aveva vista stampata su una cartolina, e l’avrebbe buttata in quel fiume soltanto per salvarla per essere il suo cavallier servente, per toccarla finalmente. Due mesi a parlare tutta la notte a telefono, a non uscire mai da sole per evitare il peggio e poi si permette di non contattarla per ben sette giorni, facendole chiedere per tutta la durata di quelli se avesse dovuto farlo lei. La risposta era sempre no: toccava ad Elena, si contattavano un giorno a testa e quel giorno sarebbe dovuto toccare a lei. Si era tormentata, pensando dove avesse sbagliato con la stessa precisione con cui analizzava le prove di un’indagine ma il suo cuore gliele contaminava tutte. Pensò che si fosse stufata, si dissero tutto in pochi giorni: Elena era orfana, non riusciva a perdonarsi la sua incapacità di amare anche facendola risalire al fatto di non esserlo mai stata. Alessandra le aveva parlato un po’ della sua famiglia, della sua città che si era lasciata alle spalle, ma non si dicevano mai l’unica cosa che si volevano dire: aspettavano che i giorni passassero soltanto per sentire l’una la voce dell’altra. Due persone che non hanno fatto altro che essere infelici per tutta la vita, l’avrebbero bruciata viva soltanto per sentirsi come si facevano sentire bene a vicenda.
 
In quel gran trambusto di idee ciò che la orientava era la voce di lei, così bassa e profonda che la riscaldava anche sentirla analizzare prove inesistenti. sempre alla ricerca di muse Elena avrebbe potuto scrivere pagine e pagine descrivendo il calore di che quella voce le accendeva in corpo, ma non voleva per paura che si scoprisse quanto amava ascoltarla parlare di qualsiasi cosa.
 
Elena dal canto suo andava chiedendosi come chiedere ad una persona di restare. Come dirle che non vuoi altro che lei quando non sai neanche che stai dicendo. La faccia di Elena parlò al posto suo.
– Che c’è? chiese Alessandra infilandosi il giubbotto.
– Niente.
 
I suoi sentimenti erano una pagina troppo difficile da scrivere e a leggerla troppe persone avrebbero capito tutto. La lasciò volare via, e quel foglio bianco, su cui avrebbe voluto scrivere soltanto il suo nome, veniva strappato dalla sua stessa inconsapevolezza che le faceva credere che alla scrittrice non gliene importava niente di lei, mentre invece Elena avrebbe voluto che il libro della sua vita fosse composto interamente da quell’unico foglio su cui scrivere ininterrottamente quanto voleva che Alessandra restasse con lei in quel momento.
- Ci vediamo domani?
- Ci vediamo domani.

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Capitolo 20
*** XX ***


Chiuso dentro ad un imbroglio, circondato da falsari e barattieri, che si azzuffavano per accaparrarsi l'ultimo stralcio della sua sporca pelle, Ercole Grassi, la mattina di Santa Lucia, ragionava sull'indagine in corso. Il Signor Antonio da Tempo si era rivelato essere un ex galeotto, finito dentro per rapina a mano armata ed scarcerato dopo meno anni del previsto per buona condotta. Si inorgogliva pensando che un suo quasi coetaneo in un giro di anni più o meno uguale al suo aveva commesso tanti errori quante giuste, invece, si erano rivelate essere le decisioni prese da lui.
L’assassino doveva essere qualcuno bello grosso per ammazzare due uomini di quella stazza, come confermava anche la grandezza dei segni di strangolamento. Chissà se quelle dita grosse avevano mai accarezzato qualcuno, un bambino magari, pensò ai suoi, al piccolo Armando, il suo preferito soltanto per il nome che gli aveva messo addosso. Chissà se quelle mani così grandi  siano state mai lui d'impiccio a lavoro, in amore, nel gioco. Un assassino innamorato! Non si era mai visto neanche nei suoi telefilm. La porta del suo ufficiò aprendosi senza preavviso lo destò dai suoi pensieri.
«Ispettore, ecco il suo caffè!»
Il barista poggiò la tazza sulla scrivania ed aspettò invano che Grassi prendesse il portafoglio.
«Ispettore? L'hanno ipnotizzata?»
«Ah, scusa Ernesto! Ecco, tieni.»
«Sempre gentile ispettore. Ma cos'è quella faccia? E' morto qualcuno nei suoi telefilm?»
«Ma quali telefilm! Magari!»
«E' morto qualcuno per davvero?»
«Sì, Ernesto… E' morto qualcuno per davvero.», disse Grassi allungano il braccio per prendere la tazzina.
«E non sa ancora chi è stato?»
«No», rispose il colonnello mandando giù quel primo sorso con tanta amarezza che si chiese se Ernesto avesse dimenticato di mettervi lo zucchero.
«Ah, se fosse qui il colonnello Grassi!», esclamò il barista.
«Oh, Ernesto! Il colonnello di qua, il colonnello di là, adesso sono io a comandare, ci siamo capiti?»
«Sì, sì, volevo solo dire...»
«Non hai il diritto di dire un bel niente! Continua a fare il tuo lavoro, suvvia!»
E si alzò dalla sua comoda postazione per scortarlo personalmente alla porta.
Assurdo. Il colonnello Grassi! Ma cosa ne potava sapere quell'idiota  del colonnello Grassi? Il colonnello… a conoscerlo il grande colonnello Grassi! Quell'ubriacone che per sfogare le sue frustrazioni faceva mettere in fila i suoi quattro figli, in ordine
di età, e quel povero cane martoriato, per prendergli a cinghiate ad uno ad uno. Il grande colonnello Grassi che, per sistemare il figlio nella bella posizione in cui era, aveva dovuto ricevere da quello la minaccia di rivelare a tutti chi fosse la talpa all'interno del dipartimento che procurava i camion a quella banda di rapinatori. Che grand'uomo il colonnello Grassi! E che idiota quel barista. Anche lui doveva avere più o meno la sua stessa età ed anche rispetto a lui la sua vita era stata un successo.
 
Tornò in sé alimentando il suo ego a furia di idiozie e decise di chiamare Alessandra e Manuel per aggiornali sul caso. Mente aspettava che venissero proiettò nella sua testa diverse versioni di quella stessa scena: nella prima rivelava la sua scoperta ad una Alessandra che per l'emozione cadeva tra le sue braccia, in un'altra i due si complimentavano con cui, tessendone le lodi; in realtà, Alessandra e Manuel erano stati i primi a scoprire il passato in galera di Antonio da Tempo.
«Allora riflettiamo un attimo, abbiamo due morti a distanza di poche ore, entrambi erano librari, uno di loro è un ex galeotto che ha scontato una rapina in galera una decade fa, da qui possiamo desumere il suo atteggiamento violento e l’accusa da
parte del figlio della prima vittima di essere un nemico del padre.»
Manuel annuì.
«Poi abbiamo esattamente lo stesso schema di libri per terra:, qualcosa vorrà pur dire!», continuò Alessandra.
«L’assassino ci sta lasciando un messaggio?», chiese Manuel.
«Ci sta sfidando.», rispose la Detective.
E uscirono.
 
Zitto, zitto, senza dirsi niente, Ettore Grassi accese lo schermo del suo computer, abbassò la foto di suo padre sulla scrivania, e mise l'ultima puntata di “Reclute perfette”. La fantasia era meglio della realtà, quegli episodi migliori della sua vita, e quei personaggi di lui. Se proprio doveva restar fuori dalle imprese eccezionali, almeno poteva guardarsele. Escluso dalla vita che vedeva davanti a lui, senza possibilità di intervenire. Aspettando l'arresto che l'avrebbe reso famoso seduto dietro ad una scrivania. Avesse avuto ancora un paio di lacrime le avrebbe versate, avesse avuto ancora un po' di forza l'avrebbe usata, avesse avuto un'ultima speranza avrebbe distolto lo sguardo assente da quello schermo, ma non l'aveva, e quel mezzo sorriso che gli venne quando lui incontrò lei per la prima volta, dietro quella telecamera, sarebbe stato l'unico che quell'avara giornata gli avrebbe concesso.

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Capitolo 21
*** XXI ***


Dovevano pure mangiare. Lucia Dinasti, la mattina del giorno più brutto della sua vita, aveva fame. Recandosi al supermercato, spingeva il volto nelle vetrine dei negozi cercando in essi un riflesso di se stessa. Non si vedeva più, era diventata un fantasma, proprio come suo padre. La vetrina di una pasticceria la riportò esattamente ad un anno prima, quando i suoi genitori le prepararono quella torta così buona. La ragazza non iniziò a piangere per il semplice motivo che non aveva mai smesso di farlo dal giorno prima. Si festeggiava la protettrice della vista quel giorno, e colei che ne portava in giro il nome non vedeva nemmeno dove stava mettendo i piedi. Ripensò a quel biglietto d'auguri che trovò sotto quel delizioso piatto; ecco ciò che sarebbe rimasto di suo padre: un po' d'inchiostro sbiadito, che sarebbe stato presto cancellato dalle sue lacrime. Si fermò, non ce la faceva più ad andare avanti; non riusciva a farsene una ragione. Urtò per sbaglio uno che zoppicava, facendogli cadere ciò che aveva in mano. Questo la guardò e vide un’altra persona al posto della ragazza. Aveva gli stessi occhi di suo padre, lo stesso naso e la stessa bocca. Il sangue gli si gelò per poi spaccarsi in tanti piccole aguzze lame di ghiaccio che lanciò in aria, raggelandola ancora di più, quando quella si scusò distrattamente con lui, e fece per proseguire su una strada che non vedeva più, la afferrò per un braccio:
«Come sta tuo padre?», le disse.
Lucia pensò che si trattasse di uno scherzo crudele. Non rispose. L’uomo se la trascinò dietro. Lei non gridò, né oppose resistenza; pensava che non potesse succederle nulla di peggio di ciò che le fosse già successo. Quindici anni ed una vita ancora da iniziare.
 
«Ho fame.», fu tutto quello che gli disse.
 
Fuori casa sua, Renzo, il quale non si era prudentemente fatto vedere il giorno prima, consapevole, benché giovane, che la sua gracile spalla non sarebbe bastata ad accogliere tutte le lacrime di Lucia, bussò più volte alla porta della fidanzatina. Si arrese quasi subito; lasciò il piccolo fascio di rose che le aveva comprato con sopra il biglietto che aveva scritto, con tanto timore, la sera prima, sulla soglia della porta e se ne andò.
Chissà perché non insegnano a scrivere e a parlare a scuola, sarebbe più facile vivere se qualcuno te ne spiegasse le basi, te ne illustrasse i modi. Invece ti spiegano le tappe che percosse Napoleone per essere sconfitto, pretendendo che tu le memorizzi tutte, per poi ritrovarti senza parole quando devi scrivere un biglietto di condoglianze alla ragazza più importante al mondo per te. “Mi dispiace”, “Ti amo”, “Io ci sono sempre per te” queste erano le frasi che riempivano quel piccolo foglio, ma erano tutte troppo brevi perché Renzo, benché avesse quindici anni, sapeva già bene cosa gli batteva in petto. Un gatto. Vide un gatto passargli davanti con la legalità di un conte, e si girò per guardarlo meglio. Ecco cosa aveva nel cuore: un gatto. Che si divertiva a dimenarsi impazientemente graffiandoglielo tutto quella mattina. Avrebbe dovuto scriverle: "Io ti gatto", perché un gatto ha sette vite e sette vite gli sarebbero servite per dirle quanto l'amava. Continuò ad osservare la piccola bestia, fin quando poté;  il suo cuore aveva quattro zampe, un musetto veramente carino e il pelo del colore degli occhi di lei. Ricordò quanto i gatti neri portassero sfortuna e decretò che ne aveva avuta a sufficienza per una settimana non trovandola a casa quel giorno. Sarebbe arrivato a piedi fino a Milano per trovarla, avrebbe attraversato Monza, avrebbe scatenato, volontariamente, una rivolta, ma decise di dirigersi a scuola quando s'accorse che era ancora in tempo per entrare alla seconda ora; si strinse nelle spalle, dicendosi che avrebbe provato a bussare di nuovo a quella porta il giorno dopo. In fondo il suo amore aveva sette vite, poteva attendere un giorno, soltanto un giorno in più; per questo non capiva il senso del peso di quella carcassa nel petto, che aveva strangolato con le sue mani dopo non averla trovata. Forse nella nostra testa siamo tutti assassini, forse a Renzo non gliene fregava niente dei gatti, degli omicidi e della scuola, forse nella sua giovane impazienza voleva soltanto stringerla per non impazzire.
 
Le aveva offerto una sana colazione prima di imbavagliarla e legarla su una sedia. Pensava e ripensava a cosa farsene di lei, in fondo quella ragazza era innocente, non aveva chiesto lei di venire al mondo. La osservò. Rimase sconcertato dal fatto che non si dimenasse come i due uomini che aveva ucciso a tradimento. La osservava e non capiva perché quegli occhi neri come il fango si asciugarono proprio nel momento in cui avrebbero dovuto inondare l'intero scantinato.
«Senti, mi dispiace», le disse avvicinandosi a fatica.
Le tolse il bavaglio.
«Hai ucciso mio padre?», gli chiese Lucia.
«Sì.»
«Perché?»
«Mi doveva dei gioielli», ed iniziò a piangere come se avesse inteso soltanto in quel momento, dopo dieci anni, la futilità di quell'enunciato.
«Ucciderai anche me?»
Lo zoppo non rispose.
«Non devi», insisteva la ragazza, «Posso aiutarti!», ed iniziò a parlare più forte per coprire i singhiozzi dell'uomo, «Posso cucinare per te! Posso...»
Il resto della frase le soffocò in gola. Guardò in quegli occhi neri finché non si chiusero, piano, inumidendoli con le sue lacrime, e gli sembrò di scorgevi dentro un ultimo sorriso.
 
Come aveva fatto quel pezzo di merda a mettere al mondo qualcosa di così bello, e come aveva fatto lui ad ammazzarla. Ma cosa altro avrebbe potuto fare? Si chiese rispondendosi, slegando le corde che tenevano legata le braccia della ragazza alla
sedia. Sentì una fitta alla gamba, succedeva ogni qual volta qualcosa gli ricordava la sua banda; succedeva continuamente, e gli ricordava la sua missione, cosa doveva fare per far cessare quel dolore. La stese sul pavimento, le chiuse gli occhi scuri e la lasciò lì. Come se la morte la si potesse chiudere in una stanza, come se il dolore si potesse dimenticare, come se potessimo mettere sotto chiave tutti i nostri sbagli e lasciarli morire in cantina. Come se dalla vita di quell'uomo, dopo che ne aveva tolte tre, ne potesse venire ancora qualcosa di buono.

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Capitolo 22
*** XXII ***


Al sicuro, dentro ad un’opinione che non era la sua, Manuel osservava Alessandra camminare nervosamente avanti e indietro per lo studio dove Antonio da Tempo era stato ammazzato e lui trascinato.
«Riflettiamo», disse lasciandosi cadere sulla poltrona del morto, «Abbiamo un ex-rapinatore, una casa editrice e quattro libri di una stessa collana, soltanto quattro tra tutti questi che vedi!», ed indicò la libreria alle sue spalle, «Cosa ti fa venire in
mente? Coraggio!»
«Non lo so», iniziò intimorito, «Se non c’è niente dentro... Forse il loro peso?»
Alessandra nemmeno l’aveva sentito, girava e rigirava quei quattro libri che aveva trovato sulla seconda scena del crimine tra le mani, chiedendosi cosa ci potesse nascondere dentro un rapinatore di tanto prezioso.
«Senti...», iniziò Manuel avvicinandosi alla scrivania, «Sei un genio, ma non sei infallibile, forse non è questa la soluzione.»
Forse non lo era, ma poco le importava: l’ossessione per quei libri non si sarebbe comunque rivelata un fallimento soltanto per il fatto che le aveva permesso di trascorrere un’intera sera da sola con Elena.
Le date, Elena le aveva detto che i quattro romanzi trovati per terra sulla prima scena del crimine erano tutti dell’Ottocento tranne uno. Girò i libri sul lato posteriore ed ordinò a Manuel di appuntare i seguenti numeri: 1957, L’isola di Arturo; 1923,
La Coscienza di Zeno; 1947, Se questo è un uomo; 1883, L’isola del tesoro, che strano, aggiunse.
«Cosa?»
«I primi quattro erano tutti dell’Ottocento tranne uno, questi sono tutti del Novecento tranne uno.»
«Se cancello il secolo», disse Manuel facendolo, «abbiamo: 57 – 23 – 47 – 83.»
«57 – 23 - 47», ripeté Alessandra, «18 – 83, dieci cifre...»
Manuel la guardò perplesso, la Detective stava dando i numeri, forse una vacanza serviva proprio a tutti.
«Dieci cifre», continuò quella, «Dieci cifre e un rapinatore», Manuel continuava a fissarla imbarazzato, «E’ la combinazione!», urlò alzandosi di scatto dalla scrivania del morto, «Non capisci? E’ la combinazione di una cassaforte!»

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Capitolo 23
*** XXIII ***


Ti regalerei tutto il tempo in cui penso a te, per farti vivere un paio di vite in più, giusto il tempo di contare, ad una ad una, tutte quelle ore in cui la tua assenza è stata l’unica cosa che mi ha tenuto compagnia; giusto per farti capire che ormai penso che il fatto stesso di pensare dipenda da te, che da adesso in poi scriverò soltanto per farti leggere ciò che non riesco a dirti.
 
Così Elena riempiva, apprestandosi a concluderlo, le ultime righe del suo capitolo fiorentino, preparando la valigia per il treno delle diciotto, e un pensiero le rimbalzava ossessivamente in gola. Faticava a mandarlo giù, fu tentata più volte di dargli voce, perché sapeva che se l’avesse fatto le sue parole sarebbero risuonate dolci come il sorriso di chi le aveva ispirate.
Scrisse un numero sbagliato in cima a quella pagina, indicativo il fatto che pensasse che fosse ancora il giorno prima: la sua vita era diventata un insieme di lunghe giornate tutte uguali, intervallate da troppo brevi attimi di felicità. Avrebbe voluto riuscire a scrivere ciò che le passava per la testa, per poi farlo filtrare al cuore, che in quei giorni era in preda al caos.
Glielo avrebbe fatto leggere per piangerci su, per crogiolarsi nell'evidenza dell'impossibilità.
Avrebbe voluto scrivere convenientemente qualcosa che parlasse di lei. Stava perdendo la vista a fissare qualcuno che non c'era.
Se la sentiva sempre nel petto, sopra lo stomaco, dentro la testa. Negli occhi in cui non poteva guardare.
 
Il giorno si era appena affacciato, tenendosi gelosamente il sole tutto per sé; e lei aveva già consumato tutte le sue parole soltanto per dirsi che non glielo voleva dire. Si concesse un ultimo giro per le mura di quella città, così ampie da prenderle agevolmente come metro di misura dei suoi errori.
Era passata da aspirante scrittrice a scrittrice fallita in meno di una settimana e ciò un po’ la ripugnava, un po’ le dispiaceva. Tale fastidio lo vedeva scritto finanche in quelle pietre, inciso nel rosso dei tetti e nel sangue di quell’editore, che era morto perché lei non era stata abbastanza brava da tenerlo in vita, non aveva alcun dubbio a riguardo.
Aveva rimandato un paio di decisioni di troppo ad un giorno non ben precisato, credendo che quello avrebbe tardato ad arrivare, e adesso che se lo trovava di fronte in tutto il suo splendore, così chiaro che l'accecava, doveva scrivere per realizzare cosa non andasse, per non lasciare che le sue paure l'avvelenassero come un serpente nascosto in un cesto, aveva bisogno di carta da sporcare con tutti gli errori che avrebbe commesso, aveva bisogno di qualcuno perché lei non sapeva più come infastidire se stessa.
Tremava all'idea che ogni suo singolo pensiero coincidesse con lei. Le faceva male quel peso nel petto e allo stesso tempo la riempiva di gioia sapere che fosse ancora in grado di provare qualcosa, ne sarebbe stata felice anche se quel qualcosa l'avrebbe poi distrutta in tanti pezzi quante erano le volte in cui pensava a lei: un numero di volte tendente all'infinito come il suo cuore costantemente teso verso di lei. Non sapeva se amava di più l'impossibilità della concreta realizzazione del suo desiderio o l'oggetto stesso che quella impossibilità le faceva desiderare, sapeva soltanto che la voleva quanto voleva che il suo romanzo fosse pubblicato e che entrambe le cose si stavano rivelando essere un fallimento.
Durante quell'ultimo giro in centro, decise di zittire i suoi pensieri indossando un paio di auricolari, si dice 'canta che ti passa' la malinconia, e invece a lei veniva perché sentiva Alessandra dentro ogni nota, la leggeva in ogni frase  di quello stupido testo, l'avrebbe baciata ad ogni passaggio di melodia, accarezzata ad ogni cambio di registro, afferrata ad ogni intermezzo. La loro storia era come una canzone, e non capiva perché suonasse così triste mentre se la ripassava nella testa.
Sembrava la solita canzone d'amore composta mille volte per persone sempre diverse che amavano allo stesso modo soltanto l'idea dell'amore e non l'oggetto di esso, e invece la sua  era desolatamente unica,  formata sempre dalle stesse note che si sovrapponevano a qualunque altra cosa sentisse. Quella maledetta voce bassa che l'avrebbe condotta all'inferno per farla bruciare completamente, non accontentandosi di farle sentire caldo nel bel mezzo di un dicembre fuori misura. 

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Capitolo 24
*** XXIV ***


Piena di sé, e anche perché quando non si ha nulla da fare, ci si mette a fare un po’ tutto, Alessandra ispezionò ogni millimetro di quella vecchia stanza per trovare una prova che le desse ragione; ne perlustrò le mura, il pavimento, e quasi distrusse il caminetto.
La sua vita la stava spaventando, somigliava ad un’oscura voragine che s’allargava di giorno in giorno cercando di trascinarla al centro di essa. In ogni parte della pelle dove gli altri avvertivano il freddo, Alessandra sentiva lei. Chiudeva gli occhi per respirarla e tutto ciò che l’aria le restituiva era la sua assenza.
«Ehi», la fermò Manuel che avvertì la sua frustrazione, «Per una volta le tue emozioni stanno offuscando la tua capacità di giudizio.»
«Cosa?»
Manuel fissò la libreria alle sue spalle.
«E’ iniziato tutto da quella.»
Alessandra si girò.
«No, non è iniziato tutto da quello!»
Appoggiò una mano su quella scrivania polverosa e allungò l’altra per afferrare quel piccolo calendario che segnava ancora il mese di Ottobre, ma questo sembrava incollato al legno.
Manuel andò in suo soccorso, e comprese ben presto che il calendario era in qualche modo infitto nella scrivania.
«Ma che follia è questa?»
Alessandra ci pensò un attimo: perché sia questo calendario che quello nello studio di Dinasti erano fermi al mese di Ottobre? Perché fermarsi in quel punto dell’anno entrambi? Controllò se sotto la scrivania ci fosse qualche pulsante o piccola leva e non trovò nulla.
«Manuel allontanati.»
«Cosa? Perché?»
«Ho detto allontanati, è un ordine.»
La recluta obbedì.
Se avesse voluto dirgli la stessa cosa con parole diverse, non ci sarebbe mai riuscito; selezionò con attenzione le cose da dirle con la stessa cura con cui il Malatesta scelse la donna con cui passare l’eternità baciandola.
«Stai attenta», le disse.
Eppure quelle due parole non bastarono, erano talento sprecato, inchiostro andato a male, un uccello che impara a volare un attimo prima di morire.
«Non so come si fa», rispose Alessandra sorridendo.
E girò la pagina del calendario trovandosi di fronte l’apatico Novembre, girò ancora e quando quel foglio si adagiò al restante plastificato, si udì un forte scatto meccanico; la libreria alle loro spalle si aprì come un armadio. Al centro si ergeva imponente una grande cassaforte a muro.

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Capitolo 25
*** XXV ***


Non si arriva mai a niente, non ci si avvicina neanche. Cos’è la vita se non una continua fissazione verso qualcosa che non accade? Alessandra era l’ossessione che le impediva di pensare ai propri problemi, e lei, Elena, era convinta che i problemi s’inventassero soltanto per avere qualcosa di cui parlare.
Lo zucchero che rimane in fondo alla tazza, un vecchio che canta la sua storia seduto per terra mentre nessuno lo ascolta: «Lo zoppo e la ragazza», urlava, «Lo zoppo e la ragazza!». Firenze era diventato il solito scenario trito e ritrito che faceva da sfondo alle sue malinconie, e la statua sotto alla quale sostò per un po’ due giorni prima il simbolo della sua infelicità.
Un caffè. Ecco cosa ci voleva per tirarla su. Piazza della Signoria e di signori ce ne erano ben pochi: stormi di cinesi con buste di plastica addosso, sporchi adulatori che cercavano di venderti anche la madre; avesse visto Cristo quel giorno, Elena lo avrebbe scambiato per Giuda.
«Salve, si accomoda?»
«No grazie, un caffè.»
«Lungo?»
«Espresso.»
L’intero creato, nel bel mezzo del diluvio universale, era meno acquoso di quella brodaglia che spacciavano per caffeina. L’amaro in bocca lasciò spazio allo schifo.
Era ancora mattina, e non aveva voglia di andare da nessuna parte: gli Uffizi li aveva ammirati, Casa di Dante pure, Santa Croce era sulla strada di ritorno verso l’albergo e nel Duomo, come in ogni altro luogo sacro, aveva giurato di non tornarci se non chiusa in una tomba. Dal centro della sua testa, il nome di Alessandra si spostò sullo schermo del suo cellulare, sorrise come un’idiota alla sua comparsa, nonostante il fatto che fosse proprio quel nome ciò che la stava ammazzando in quel momento.
«Ho scoperto cosa erano quei numeri!», urlò euforica la Detective, non lasciando ad Elena neanche il tempo di dire pronto, «Sono la combinazione di una cassaforte!»
«Cosa?»
«C’è una cassaforte al centro dello studio di Antonio da Tempo, vieni a vedere!»
 
Elena ce l’aveva con Alessandra, la odiava per diverse ragioni: la prima era dovuta al fatto che la sua esistenza la condizionasse così tanto facendola essere felice o triste in base alle sue azioni; la seconda era che non la voleva, non che ci fosse qualcosa di male, Alessandra era perfetta, come avrebbe mai potuto volere portarsi appresso un insieme di errori quali era lei? Ma comunque la cosa la infastidiva; terzo, non capiva, Elena non glielo diceva, ma Alessandra non capiva, come faceva a non capirlo?
 
«Devo andarmene oggi», rispose.
«Dove?»
«A casa?»
«Adesso?»
«Ho il treno alle diciotto.»
«E dove sei adesso?»
«In centro…»
«E passa a vedere!»
Alessandra, da brava stratega quale era, riagganciò prima che l’altra potesse controbattere, e nel farlo le sembrò che qualcosa si staccasse dal cuore per caderle in grembo facendole un male cane.
«Che c’è?», chiese Manuel.
«Niente, arriva.»
«E perché quella faccia?»
Alessandra lo guardò intenerita da tanta stoltezza.
«Quando glielo dirai?», insistette la recluta.
«Lo vuoi passare l’addestramento o no?»
Il ragazzo sorrise.
«Allora evita di farmi domande del genere.»
 
Quando glielo avrebbe detto? Mai. Forse glielo avrebbe scritto. Elena le aveva consigliato di tenere un diario, e a lei piacque l'idea di scrivere così da tenersi compagnia un giorno, magari in pensione, rileggendo gli intricati casi che sperava di aver risolto. Le era piaciuta ancora di più l'idea che in quelle pagine avrebbe avuto ventotto anni per sempre. Elena le disse che bisognava scrivere per sé stessi, per ricordare ciò che altrimenti perderemmo e perché le sciocchezze appuntate sembrano meno sciocche. Alessandra credeva che Elena avesse sempre ragione, e non perché ne fosse perdutamente innamorata, ma perché quegli occhi, impregnati di sangue come le scene del crimine che vedeva ogni giorno, erano così reali che non potevano dire qualcosa di diverso dalla verità.

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Capitolo 26
*** XXVI ***


Al centro dello studio dell’ormai ex editore Antonio da Tempo si ergeva un’imponente cassaforte a muro. Giunta sulla scena Elena quasi non credeva ai propri occhi. Alessandra le si avvicinò:
«Hai visto che avevo ragione? Le date erano la combinazione!»
Elena non capiva cosa significassero quelle parole. Si trovava di fronte ad una luce che non riusciva a fissare ma non voleva distogliere lo sguardo. Si intravedevano sul fondo della cassaforte spessi lingotti d'oro coperti da gioielli di ogni tipo, collane, bracciali, nascosti a loro volta sotto grandi sacchetti che traboccavano di diamanti.
Una moltitudine di sensazioni le colpì la testa e fece ciò che si era appena ripromessa di non fare: guardò Alessandra. La vide come oro nero, una maschera priva di lucentezza di una bellezza unica. Quel volto valeva più di tutta quella ricchezza nascosta in quel muro.
«Ma che significa?», riuscì a dire.
«Significa che abbiamo un modo per catturare il nostro serial killer!», disse euforica Alessandra.
Quell’euforia spaventava Elena, non bisognerebbe essere contenti di catturare un uomo per quanto malvagio questo possa essere.

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Capitolo 27
*** XXVII ***


Ti distrai un attimo e la vita ti passa davanti. Ad Ercole Grassi fu dato l’ordine di spargere la notizia del ritrovamento della cassaforte di da Tempo in commissariato poiché Alessandra aveva capito che all’assassino giungessero in qualche modo notizie dalla polizia.
 
Dopo aver assecondato i capricci della detective Grassi si gettò a sedere sulla sua poltrona, guardò la foto del colonnello Grassi: su quella barba bianca vide cadere ispidi tetri pensieri.
Mai si sarebbe aspettato un’infelicità tanto viva che scalpitasse ogni volta che non la stordiva con qualche futile azione. Stava sempre lì, in agguato pronta a fargli del male, era la sua unica compagnia. Presto quel caso si sarebbe concluso e lui sarebbe tornato a contare ad uno ad uno quei minuti che non passavano mai, a sentire di nuovo una dopo l’altra ogni noia che lo affliggeva.

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Capitolo 28
*** XXVIII ***


Corse nell’ufficio di da Tempo trascinandosi appresso la sua gamba storta. Di notte per strada il vecchio che lo smascherò il giorno di Santa Lucia era ancora sveglio ed iniziò a urlare: Corre con il suo passo lento / dietro alla farfalla l’elefante / e nel frattempo ne ammazza cento / ne ammazza cento! Attirando su di se maledizioni che lo avrebbero fatto restare in vita ancora per poco tempo.
Ad aggravare lo stato d’animo dello zoppo c’era quello scenario mille e più volte disprezzato. C’erano sempre le stesse strade da percorrere per non andare da nessuna parte.
La sua vita era sempre stata qualcosa da far passare e poi sarebbe andata meglio. Ma quel qualcosa non era mai passato.
Il cuore che non si scalda con una coperta, il vento che non smette chiudendo la finestra, il pensiero che non se ne va dormendo.
La sua era una vita triste, misera, atto unico di una commedia ridondante, priva di spettatori, con il solo protagonista pronto a battere le mani mentre per tutta la durata dello spettacolo non ha desiderato altro che tagliarsele. Ma chi l’avrebbe guardato? Contro chi avrebbe imprecato se il cielo era vuoto come un teatro con posti a sedere che spingono sui tuoi sogni per schiacciarli tutti?
Lo spaventava constatare quanto gli stava stretta la sua solitudine, e come ogni suo tentativo di disfarsene non faceva altro che gettare sulle persone una forza che le allontanava da lui.
La sofferenza lo teneva in vita.
Il suo mal di testa era tutto ciò a cui riusciva a pensare.
Il dolore che fa più male assorbe tutti gli altri malesseri per accrescere la sua forza; la ferita che più pulsa infetta ogni pensiero.
 
Scavalcò il nastro adesivo della polizia, appoggiò i guanti di pelle sul pomello della porta, quegli stessi guanti con cui aveva strangolato due uomini e una ragazzina. Il buio della stanza era illuminato da quei gioielli. Li vide e la sua avidità lo spinse dentro la cassaforte a toccare quell’oro, ad odorare quei diamanti. Stringeva finalmente tra le mani ciò che era suo e non sentiva niente.
 
Cade tutto a pezzi. I sentimenti, i sogni, il corpo. Brandello dopo brandello ci consumiamo dietro a chi non ci vuole, per ciò che non possiamo avere. Cade tutto e noi con esso. Cadono gli imperi, cadono le foglie, e lui era caduta nella trappola tesa da chissà quale buffone.
 
All’improvviso le luci dell’ufficio si accesero e Alessandra e Manuel gli piombarono addosso prima ancora che lo zoppo potesse girarsi. Non tentò nemmeno di liberarsi dalla presa o di inventare scuse: era lui il killer e ne andava fiero. I due Detective portarono l’uomo nella centrale ed ebbero  la premura di ringraziare Ercole Grassi per il lavoro svolto. Grassi si catapultò fuori per guardare in faccia il serial killer.
«Ernesto?»
«Lo conosceva?», gli chiese Alessandra.
«Era… era il mio barista. Il barista di tutta la centrale.»
«Era più di un barista», aggiunse Manuel, «Ha confessato di aver fatto parte di una banda di rapinatori, di essere stato abbandonato dopo essere sparato alla gamba. Si è fatto vent’anni di carcere solo per uscire ed ammazzarli ad uno ad uno, ci ha dato tutti i nomi. Anche quello di suo padre.»
Ercole Grassi si fece scuro in volto, il finale di questa storia proprio non l’aveva indovinato.

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Capitolo 29
*** XXIX ***


Sedeva con un caffè tra le mani, appoggiata con gli occhi vicino alla finestra, cercando di non perdere quell’attimo. A volte è solo una questione di tempo, pensava osservando quelle gocce di pioggia che cadevano. Continuava a chiedersi come sarebbe finita la sua storia mentre leggeva quella di un altro.
Elena aveva deciso di posare la penna e di dimenticare il suo nome. Basta con la letteratura. Basta con quell’ossessione di scavare così a fondo in parole che non dicono niente. Erano mute, esistevano solo per prenderla in giro. Non aveva da raccontare niente altro che la sua infelicità.  Non sapeva dare forma a nulla di diverso dai suoi rimorsi. Le parole che scriveva traboccavamo dell’inchiostro dei suoi sbagli, sporcando più fogli di carta di quanto fosse lecito fare.
 
La sua testa si era arresa, ma la mano rifiutava di seguirla come se esistesse per il solo scopo di prendere la penna in mano. Come se riuscisse a riconoscersi soltanto in quello che scriveva. Soltanto scrivendo sentiva di muoversi verso qualcosa.
Come le ultime scintille di un barlume già spento, si concesse il tempo di una poesia, la sua mente stava impazzendo senza poterla mettere in rima: Scrivere d’amore e non trovar parole, riuscire a stringerti ed allontanarti, darti il cuore per imbrogliarti, soffrire un poco per piacerti di più.
All’improvviso sentì una presenza riempire il sedile vuoto accanto a lei.
Si voltà e vide Alessandra, che tra i sorrisi le disse:
«Un’altra corsa insieme?»

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